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2011 2 ARBITRATO

annuncio pubblicitario
ISSN 1122-0147
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXI - N. 2/2011
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
diretta da
Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina
© Copyright - Giuffrè Editore
ASSOCIAZIONE
ITALIANA
PER L’ARBITRATO
Pubblicazione trimestrale
Anno XXI - N. 2/2011
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in a.p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
RIVISTA
DELL’ARBITRATO
diretta da
Antonio Briguglio - Giorgio De Nova - Andrea Giardina
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INDICE
DOTTRINA
GIAN FRANCO RICCI, Ancora sulla natura e sugli effetti del lodo arbitrale .
LUCA RADICATI DI BROZOLO, L’arbitrato e la proposta di revisione del Regolamento Bruxelles I .........................................................................
TOMASO GALLETTO, Profili di responsabilità degli organismi di mediazione
e dei mediatori ....................................................................................
165
187
233
GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
Italiana
Sentenze annotate:
Cass. 9 dicembre 2010, n. 24867, Cass. 11 marzo 2011, n. 5913, con nota
di A. VANNI, Sull’esclusività del modello arbitrale societario nei
nuovi orientamenti della giurisprudenza di legittimità .....................
Trib. Pisa 9 gennaio 2009, con nota di G. ROMANO, Il doppio volto dell’art. 819-ter c.p.c. ..............................................................................
Trib. Milano 22 febbraio 2011, con nota di E. MARINUCCI, L’arbitrabilità
delle controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari ...................................................................................................
II)
255
281
291
Straniera
Francia - Cour d’appel de Paris 17 febbraio 2011, con nota di M. BORDONI, L’estensione della convenzione arbitrale nei confronti dei non
firmatari al di là ed al di qua de La Manica: il caso Dallah ..........
301
GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
Italiana
Lodi annotati:
Coll. arb. 4 giugno 2010 (Roma), con nota di A. TEDOLDI, Accertamento
tecnico preventivo e arbitrato: « ... e vissero felici e contenti » ......
315
III
© Copyright - Giuffrè Editore
RASSEGNE E COMMENTI
BARBARA GRANDI, Italian arbitration in labor disputes: a comparative
perspective over the matter of inderogability ....................................
327
DOCUMENTI E NOTIZIE
Una nuova riforma dell’arbitrato in Spagna .............................................
353
Notizie libri [A.B.] ......................................................................................
363
IV
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DOTTRINA
Ancora sulla natura
e sugli effetti del lodo arbitrale (*)
GIAN FRANCO RICCI (**)
1. La natura giuridica del lodo fa ancora discutere. — 2. I termini del problema. — 3. Negozio o sentenza? — 4. L’idea del tertium genus non risolve
la questione. Presunte differenze relativamente al conflitto di pronunzie e alla
rilevabilità del giudicato, nel giudizio ordinario ed in quello arbitrale. —
5. Prime difficoltà nel tentativo di parificare il lodo rituale all’attività negoziale. — 6. Processo e giurisdizione. Effetti del contratto ed effetti della sentenza. — 7. La processualizzazione dell’arbitrato e l’impossibilità di equiparare il lodo rituale all’atto privato. Il lodo è nella sostanza sentenza. —
8. Effetti ed importanza della conclusione.
1. La sentenza n. 527/2000 delle Sezioni unite della Corte di
Cassazione sembra avere posto un punto fermo sulle speculazioni
relative alla natura giuridica del lodo arbitrale, fissando quasi una
specie di situazione di non ritorno. Tanto che, salvo alcune eccezioni,
la dottrina successiva nell’affrontare il problema si è conformata
quasi sempre all’impostazione privatistica che all’istituto aveva dato,
con toni non privi di una certa enfasi, il Supremo collegio: quella
cioè del lodo inteso come mero atto negoziale, realtà da considerare
pressoché definitiva ed indiscutibile (1).
(*) Il presente saggio è apparso nel volume Sull’Arbitrato (Studi offerti a Giovanni
Verde), Napoli, 2010 ed è dedicato all’Autore.
(**) Professore ordinario nella Università di Bologna.
(1) Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527, in Riv. dir. proc., 2001, 254 ss., con l’interessante nota critica di E.F. RICCI, La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo:
parlano le Sezioni unite, 259 ss.; in questa Rivista, 2000, con nota di FAZZALARI, Una svolta
attesa in ordine alla « natura » dell’arbitrato, 699 ss.; in Giust. civ., 2001, I, 761 ss., con
nota di MONTELEONE, Le sezioni unite della Cassazione affermano la natura giuridica negoziale e non giurisdizionale del c.d. « arbitrato rituale », 764 ss.; in Corr. giur., 2001, 51 ss.,
con note di CONSOLO, 54 ss., RUFFINI, 56 ss. e MARINELLI, 64 ss.
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Ciò che alla Suprema Corte sembra essere interessato (per lo
meno stando alla lettura della motivazione della pronunzia di cui in
premessa), finisce però nella sostanza per essere quasi esclusivamente la riaffermazione della priorità ed unicità della giurisdizione
statuale come mezzo per la risoluzione delle controversie. E soprattutto il fatto che solo attraverso essa si possa arrivare alla conquista
di quell’unicum che contraddistinguerebbe l’attività giurisdizionale e
cioè la formazione della cosa giudicata.
Si tratta come si vede di un ragionamento più politico che giuridico. Ed infatti ciò che emerge dalla citata decisione finisce per apparire come un discorso sull’arbitrato fatto quasi dal di fuori, mancando peraltro nella suddetta pronunzia ogni preoccupazione di spiegare quali pratiche conseguenze derivino nell’accettare la tesi che
attribuisce carattere contrattuale agli effetti del lodo, rispetto a quella
che lo parifica alla sentenza del giudice.
Si aggiunga che volersi adagiare aprioristicamente sull’idea negoziale del lodo, non consente nel modo più assoluto di comprendere
in che cosa dovrebbe consistere la differenza fra l’efficacia del lodo
rituale e di quello irrituale, visto che ad entrambi andrebbe riferita la
natura del contratto.
Ed invero tale differenza non potrebbe ravvedersi nel fatto che
solo al primo possa essere conferita efficacia esecutiva (art. 825
c.p.c.). Infatti la presenza o meno di esecutività finisce per essere un
carattere solo esteriore dell’istituto, se si considera che essa può
spettare anche ad atti meramente privati, come nel caso delle ipotesi
previste dai nn. 2 e 3 dell’art. 474. L’esecutività, da sola, non riesce
cioè a tracciare una netta distinzione fra il lodo rituale ed il lodo irrituale, se ad entrambi si finisce per attribuire la natura del negozio:
allo stesso modo in cui l’esecutività della scrittura privata autenticata
(n. 2 dell’art. 474), non vede mutata la natura dell’atto rispetto a
quella priva di autentica notarile.
Nella sostanza dunque la decisione della Corte non pare essere
di soverchia utilità per risolvere il dilemma, finendo per lasciare le
cose come stanno, non avendo dimostrato il punto più importante. E
cioè quale differenza consegua sul piano degli effetti, all’affermazione
che il lodo abbia natura di contratto, anziché quella di sentenza.
2. Ciò che più stupisce è che l’idea privatistica dell’arbitrato
sostenuta dalla giurisprudenza non abbia subito alcun revirement
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neppure dopo la riforma del 2006 che ha inserito nel codice di procedura l’art. 824-bis, il quale decisamente afferma che gli effetti del
lodo rituale sono analoghi a quelli della « sentenza pronunziata dall’autorità giudiziaria ». In sostanza, dopo la riforma del 1994 che
aveva eliminato ogni riferimento alla « sentenza arbitrale » (dizione
che appariva invece a chiare lettere nel testo originario dell’art. 827),
i conditores legum del 2006 hanno ricondotto l’arbitrato alla sua originaria veste che era ed è quella di offrire ai litiganti un prodotto del
tutto simile a quello fornito dal giudice.
Anzi, come ben si sa, la riforma del 2006 si è spostata ancora
più avanti, sotto due profili. Il primo, di carattere sostanziale, è stato
quello di attribuire al lodo efficacia di sentenza in modo automatico
e cioè per effetto della semplice pronunzia degli arbitri indipendentemente dall’exequatur dell’autorità giudiziaria (e quindi spostandosi
addirittura in avanti anche rispetto al testo originario del codice, che
poneva l’equivalenza con la sentenza solo in conseguenza del provvedimento di omologazione).
Tale nuova impostazione fa ovviamente cadere quella tesi che
ebbe grande fortuna in passato e che, mossa da una visione essenzialmente processualistica dell’istituto arbitrale, lo considerava come
espressione di una sorta di attività giurisdizionale a posteriori (2). E
ciò in quanto l’arbitrato, pur nascendo da una fonte privatistica, era
in grado di condurre ad un risultato « equivalente » a quello della
giurisdizione, o se si preferisce giurisdizionale esso stesso, in conseguenza dell’intervento di omologazione del lodo (omologazione del
resto pressoché scontata, giacché, come ben si sa, ora ed allora l’intervento del giudice è sempre stato per legge limitato al solo controllo della « regolarità formale » del lodo: art. 825) (3). Ed è del
tutto ovvio come una tale tesi perda oggi di ogni valore di fronte all’art. 824-bis, che ricollega al lodo l’efficacia di sentenza per effetto
della sola sottoscrizione degli arbitri (e quindi al di fuori di ogni
exequatur giudiziale, richiesto esclusivamente per la concessione
della sola esecutività).
(2) CARNACINI, voce Arbitrato rituale, in Noviss. dig. it., I2, 1974, 879 ss. A prescindere dai plurimi interventi legislativi successivamente intervenuti, lo scritto dell’illustre a.
offre una delle più mirabili esposizioni del giudizio arbitrale, con intuizioni il cui rilievo pratico è ancor oggi di indubbio valore.
(3) Di « equivalente giurisdizionale » a proposito dell’arbitrato, parla non solo CAR5
NACINI, op. cit., 880, ma anche CARNELUTTI, Istituzioni del processo civile italiano , I, Roma,
1956, 60 e 61; ID., Sistema di diritto processuale civile, I, Padova, 1936, 178.
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Parlavamo anche di un secondo passo in avanti fatto dalla riforma del 2006 rispetto al testo originario del codice, che pur sempre giungeva a riconoscere che il lodo poteva acquisire efficacia di
sentenza. Si tratta, se si vuole, di un’enunciazione meramente formale, ma che dimostra in modo estremamente efficace la convinzione del legislatore del 2006, circa il fatto che fra gli effetti del lodo
e quelli della sentenza non vi sia in pratica alcuna diversità. Rispetto
al testo originario del codice secondo il quale il decreto del pretore
conferiva al lodo efficacia di « sentenza », l’attuale art. 824-bis afferma infatti che il lodo ha gli stessi effetti della « sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria ». C’è un’aggiunta terminologica in più
e cioè l’espresso richiamo al valore della pronunzia emessa dal
« giudice ». Il legislatore non ha avuto paura di incappare in una
tautologia (è infatti ovvio che le sentenze sono quelle pronunziate
dall’autorità giudiziaria), né si è preoccupato di esprimersi con voluta enfasi. Il richiamo al binomio inscindibile sentenza-autorità giudiziaria appare espressione di un rafforzativo che dà tutta l’impressione che si sia voluto una volta per tutte tagliare la testa al toro, affermando, senza tema di equivoci, che il prodotto del lodo è in tutto
e per tutto simile a quello della sentenza.
3. Del resto un fatto è noto. L’Italia, com’è stato osservato, è
l’unico paese europeo in cui ancora si discute se il lodo sia o non sia
sentenza (4). Quest’ultimo carattere è ormai indiscusso in pressoché
tutti gli altri Stati, tanto da rendere per gli studiosi stranieri probabilmente oziosa, quando non superficiale, ogni dissertazione in proposito.
Solo da noi la disputa è ancora aperta in una sorta di braccio di
ferro fra la giurisprudenza e una certa parte della dottrina che a buon
diritto afferma che il problema dovrebbe ormai considerarsi risolto
dall’art. 824-bis (5). Tutto ciò allora non può che sospingere lo stu-
(4) Si veda in argomento E.F. RICCI, La « funzione giudicante » degli arbitri e l’efficacia del lodo (Un grand arrét della Corte Costituzionale), in Riv. dir. proc., 2002, 358 ss.;
ID., La Cassazione insiste sulla natura « negoziale » del lodo arbitrale. Nuovi spunti critici
(nota a Cass., 27 novembre 2001, n. 15023), in Riv. dir. proc., 2002, 1241.
(5) In quest’ultimo senso, oltre alla prospettiva di E.F. RICCI, sopra citata, si veda
anche MANDRIOLI, Diritto processuale civile21, a cura di Carratta, III, Torino, 2011, 393 e nota
26. Corre l’obbligo di precisare che quest’ultimo a. ha sempre sostenuto la parificazione degli effetti del lodo a quelli della sentenza, anche prima della riforma del 2006 (Diritto pro-
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dioso a riprendere la penna in mano per indagare, come è stato ben
detto, da quale parte oscilli il pendolo di Focault (6): o quantomeno
per verificare se la ragione del contendere abbia ancora un senso o
non sia oggi niente più di un mero flatus vocis, superato dai tempi e
dagli avvenimenti.
Per quanto variegate, le opinioni della dottrina finiscono nella
sostanza per ridursi a tre diversi filoni.
Il primo di essi, sulla scorta dell’opinione della Cassazione,
considera come si è detto l’arbitrato come fenomeno meramente privatistico ed attribuisce al lodo un valore esclusivamente negoziale.
Ovviamente questa opinione non può non fare i conti con il testo
dell’attuale art. 824-bis. Per cui chi sostiene questa tesi è costretto ad
attribuire alla nuova norma un carattere meramente formale, considerandola in una prospettiva quasi esclusivamente « evocativa o suggestiva » che non muta la sostanza delle cose e che non incide sul
regime privatistico della pronunzia arbitrale (7).
Da un secondo punto di vista, pur partendo dalla identica premessa dell’arbitrato come fenomeno riconducibile esclusivamente all’autonomia privata, si arriva a giustificare l’art. 824-bis anche sotto
il profilo sostanziale, con il rilievo che l’ordinamento avrebbe attribuito al lodo solo gli « effetti » della sentenza, non anche la sua natura giuridica che rimarrebbe pur sempre quella dell’atto privato (8).
cessuale civile17, Torino, 2005, III, 385). In questo stesso senso anche TARZIA, Conflitti tra
lodi arbitrali e conflitti tra lodi e sentenze, in Riv. dir. proc., 1994, 639, già prima della riforma del 2006 era giunto a sostenere che la tendenza verso il pieno riconoscimento dell’identità del lodo alla produzione del giudicato o ad un efficacia ad esso equiparata, appariva « netta » nel sistema della legge. L’equiparazione dell’efficacia del lodo a quella della
sentenza, è sostenuta anche da BOCCAGNA, L’impugnazione per nullità del lodo, Napoli, 2005,
180 ss. e 391 ss.
(6) CARPI, in Arbitrato2, Bologna, 2007, 594
(7) Cosı̀ PUNZI, Luci ed ombre nella riforma dell’arbitrato, in Riv. trim. dir. e proc.
civ., 2007, 431; la natura privatistica dell’arbitrato è sostenuta anche da FAZZALARI, voce Arbitrato (teoria generale e diritto processuale civile), in Dig. disc. priv., Sez. civ., I, Torino,
1987, 401.In argomento, v. anche GALGANO, Il lodo arbitrale vale, dunque, come sentenza, in
Contr. e impresa, 2006, 297.
(8) L’opinione, già sostenuta da MONTESANO, Sugli effetti del nuovo lodo arbitrale e
sulle funzioni della sua « omologazione », in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 821 ss., è ripresa da CARPI, in Arbitrato, cit., 592 ss. Analogamente LA CHINA, L’arbitrato (il sistema e
l’esperienza)3, Milano, 2007, 210, il quale afferma che « in quanto il lodo non è sentenza »,
è stata necessaria un’espressa statuizione per attribuirgli « non tutti » gli effetti della sentenza,
ma solo taluni di essi. Particolare posizione è quella di LUISO, Diritto processuale civile5,
2009, IV, 411, il quale pur considerando che al lodo, nonostante il suo carattere di « atto privato », vengono dal codice attribuiti gli stessi effetti dichiarativi della sentenza, equipara tali
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La terza opinione salta a piè pari ogni impasse che potrebbe
derivare dalla complessità dell’istituto arbitrale, affermando che il
suo prodotto finale (che poi finisce per essere ciò che conta realmente) è nella sostanza una vera e propria sentenza, per cui non
metterebbe alcun conto volere discutere sulla supposta diversità fra
il lodo rituale ed il dictum dell’autorità giudiziaria (9).
La contrapposizione fra la prima tesi e le altre due si giustifica
in modo evidente quando si esaminano le diverse conseguenze a cui
essa conduce circa gli effetti del lodo. I quali secondo la stessa, non
sarebbero mai riconducibili all’irretrattabilità della decisione e tantomeno all’autorità di cosa giudicata, ma dovrebbero essere inquadrati
nell’ambito di quelli del contratto previsti dall’art. 1372 c.c., ai quali
pur sempre la disposizione attribuisce « forza di legge fra le parti ».
A questa stregua si osserva peraltro che il lodo non soffrirebbe di alcuna inferiorità rispetto alla sentenza, dato che il vincolo imposto
dalla « legge » non potrebbe certo considerarsi inferiore a quello
della « cosa giudicata » (10).
La differenza fra la seconda e la terza tesi è più sfumata, poiché in fin dei conti entrambe ammettono che il lodo ha gli effetti
della sentenza. Va però detto che la preoccupazione degli autori che
sostengono l’equiparazione del lodo a quest’ultima solo per ciò che
riguarda la sua efficacia, li porta (e non potrebbe essere altrimenti) a
valutare i potenziali effetti che il lodo può avere nei confronti dei
terzi con una certa qual riluttanza, facendo ad essi un timido accenno
solo attraverso il semplice riferimento della presenza anche nell’arbitrato dell’opposizione di terzo. Istituto che sarebbe destinato a far
sorgere delle perplessità in questa sede, in quanto applicato ad un
istituto essenzialmente privatistico.
effetti a quelli del contratto previsti dall’art. 1372 c.c., affermando che la « forza di legge »
ad essi attribuiti dalla norma, non potrebbe essere inferiore a quella della sentenza. Su tale
opnione, v. comunque infra nel testo, al par. 6.
(9) E.F. RICCI, La « natura » dell’arbitrato rituale e del relativo lodo: parlano le Sezioni unite, cit., 259 ss.; ID., La Cassazione insiste sulla natura « negoziale » del lodo arbitrale. Nuovi spunti critici, cit., 1239 ss. In senso pressoché analogo, VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato2, Torino, 2006, 151, afferma come gli effetti del lodo rituale non siano valutabili « in termini di negozi », ma la loro rilevanza è quella che gli ha assegnato l’ordinamento « modellandola su quella della sentenza ». Ed ancor più esplicitamente (p. 152) l’a.
precisa che con l’art. 824-bis si sarebbe « voluto » mettere a tacere la voce di coloro i quali
affermano la natura negoziale dell’arbitrato rituale (e tra questi, soprattutto la S.C.).
(10) LUISO, op. loc. citt.
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4. Da queste preoccupazioni è del tutto esente la terza opinione che, parificando lodo e sentenza sotto tutti i profili, non esita
ad affermare che non v’è alcuna plausibile ragione per ritenere che
esso non possa avere nella realtà gli stessi effetti nei confronti dei
terzi propri della sentenza. Anzi, tale convinzione è maturata nei sostenitori di tale tesi assai prima dell’introduzione dell’art. 824-bis,
che in fin dei conti altro non rappresenterebbe se non una convalida
di ciò che si sapeva fin da quando la riforma del 1994 ebbe ad introdurre nell’arbitrato l’opposizione di terzo (11).
È evidente che il dibattito si incentra essenzialmente su tali tre
diversi punti di vista ed è rispetto ad essi che emergono certe conseguenze piuttosto che altre (rilevantissime sul piano pratico) circa
l’efficacia del lodo arbitrale.
Rilievo minore hanno invece quelle opinioni che considerano
l’arbitrato come una specie di tertium genus fra il contratto e la sentenza. Siffatto punto di vista deve infatti tornare a fare i conti con il
disposto dell’art. 824-bis, che è fin troppo chiaro nell’equiparare il
lodo alla decisione giudiziaria, quantomeno quoad effectum. Chi
parla di tertium genus dovrebbe cioè dimostrare che la natura del
lodo sia tale da diversificarlo radicalmente dall’equiparazione sia
pure quoad effectum prospettata dalla norma, attribuendogli una disciplina autonoma e diversa rispetto a quella emergente dalla suddetta disposizione. Il che pare impossibile.
Si è cercato di fondare una possibile autonomia del lodo su taluni elementi che dovrebbero rappresentare alcune differenze specifiche fra il dictum degli arbitri e quello del giudice, tanto da differenziare radicalmente il primo dal secondo. Vediamoli.
La prima particolarità consisterebbe nel fatto che l’equiparazione prospettata dall’art. 824-bis potrebbe trovare un potenziale
ostacolo nel fatto che l’art. 829 n. 8, oltre a continuare a separare
l’ipotesi della contrarietà del lodo ad altro lodo non più impugnabile
da quella della contrarietà ad una sentenza passata in giudicato (ma
non si vede come potrebbe essere eliminata tale differenza di dizione, visto che le denominazioni dei due istituti sono diverse),
enuncerebbe per ciò che riguarda il conflitto di pronunzie una disci-
(11) In argomento, si veda l’interessante scritto di E.F. RICCI, Il lodo rituale di fronte
ai terzi, in Riv. dir. proc., 1989, 655 ss., che si poneva il problema dell’efficacia nei confronti
dei terzi del lodo rituale, prima ancora che la riforma del 1994 introducesse l’opposizione di
terzo nell’ambito dell’art. 831.
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plina differente per il lodo rispetto a quella dell’art. 395 n. 5 c.p.c.:
presupponendosi nel primo caso che il precedente lodo o la precedente sentenza siano stati « prodotti » nel procedimento, mentre nel
processo ordinario il giudicato interno (ed ora anche quello esterno)
sarebbe com’è noto rilevabile d’ufficio (12).
Qui però sembra che si sovrappongano due diversi problemi e
cioè quello dell’istanza revocatoria rispetto a quello della rilevabilità
del giudicato.
Sotto il primo profilo, dal punto di vista formale v’è certo una
differenza fra il testo dell’art. 829 n. 8 e quello dell’art. 395 n. 5, richiedendosi solo nel primo caso che il precedendo lodo o la precedente sentenza siano stati depositati nel giudizio arbitrale gravato
dall’impugnazione per nullità. Si badi bene, però, che la legge prevede il semplice « deposito » del provvedimento contrario, non anche la formulazione dell’eccezione di giudicato, richiesta invece dal
previgente testo del n. 8 dell’art. 829 anteriore alla riforma del
2006 (13).
L’art. 395 n. 5 sembra comunque presupporre la soluzione opposta, dato che richiede che il giudice della sentenza revocanda non
abbia pronunciato sull’eccezione di giudicato. La formula è poco
chiara, dato che da alcuni è stata interpretata nel senso che l’istanza
revocatoria sarebbe possibile solo in quanto la questione del precedente giudicato non sia stata presa in esame, tanto se l’eccezione era
stata proposta, quanto se non era stata proposta (14); mentre, in senso
più restrittivo, altri hanno ritenuto che il presupposto indefettibile per
753.
(12) CARPI, in Arbitrato, cit., 594.
(13) Realtà ben colta da ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato, diretto da Carpi, cit.,
(14) REDENTI, Diritto processuale civile4, a cura di VELLANI, II, Milano, 1997, 552,
ove si afferma che la revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 5 è data quando vi sia un giudicato
contrastante, « che le parti abbiano omesso di invocare o di ricordare o del quale non si sia
comunque occupata di fatto la sentenza ». Qui si vede bene che la prima ipotesi si riferisce
al caso in cui il conflitto non sia stato dedotto nel precedente giudizio, mentre la seconda riguarda il caso in cui l’exceptio rei iudicatae sia stata sollevata, ma il giudice non l’abbia
presa in esame. In questo ordine di idee, v. anche COMOGLIO - FERRI - TARUFFO, Lezioni sul
processo civile5, I, Bologna, 2011, 737, ove si afferma che il rimedio di cui al n. 5 dell’art.
395 si impiega tutte le volte in cui il giudice non si sia pronunciato sull’esistenza del giudicato anteriore (dando quindi per implicito che ciò può essere avvenuto o perché l’eccezione
non è stata dedotta o perché non è stata esaminata). Seguendo questa tesi, è evidente che se
l’exceptio rei iudicatae era stata sollevata ed il giudice si era pronunziato su di essa disattendendola, il rimedio è dato dal ricorso per cassazione ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. per
violazione dell’art. 2909 c.c. (qualcuno ritiene possibile anche l’impiego dell’art. 360 n. 5:
COMOGLIO - FERRI - TARUFFO, op. loc citt.).
172
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l’applicazione dell’art. 395 n. 5 è che l’eccezione non debba essere
stata in alcun modo sollevata (15).
Comunque sia, una differenza formale fra l’art. 829 n. 8 e l’art.
395 n. 5 realmente esiste. Ma essa non risponde ad una diversità di
sostanza fra i due istituti, derivando solo dal mutato raccordo a seguito della disciplina del 2006 rispetto alla disciplina previgente, fra
l’iudicium rescindens e l’iudicium rescissorium nel giudizio arbitrale.
Come ben si sa lo svolgimento del giudizio rescissorio da parte
della corte d’appello, nei casi in cui ad essa è imposto (uno dei quali
è proprio quello del n. 8), presupponeva secondo il testo del secondo
comma dell’art. 830, nella formulazione anteriore alla riforma del
2006, che la Corte decidesse nel merito, salvo che non fosse necessaria « una nuova istruzione » nel qual caso la causa andava rimessa
all’istruttore. Il nuovo secondo comma dell’art. 830 ha invece soppresso ogni riferimento alla possibilità di una nuova istruzione, che
non è più voluta dalla norma. Dunque il giudice dell’impugnazione,
dichiarata la nullità del lodo, deve oggi decidere il merito esclusivamente sulla base di ciò che risulta dal fascicolo arbitrale, senza potere acquisire altro materiale aliunde.
Ciò spiega il perché della necessità del deposito nel giudizio
arbitrale del previo lodo o della previa sentenza contraria. Altrimenti
il conseguente giudizio di merito nel caso dell’art. 829 n. 8 non sarebbe possibile, non essendo consentito allegare per la prima volta
tali documenti nella fase di impugnazione (altrimenti si farebbe
« istruzione »). Ma spiega soprattutto perché l’art. 829 n. 8 si accontenti della semplice « produzione » nel giudizio arbitrale del provvedimento contrario, senza che occorra formulare l’eccezione di cosa
giudicata, assolutamente non richiesta, come si è già visto, dal nuovo
testo di legge.
Ne deriva che il trattamento dell’art. 395 n. 5 e 829 n. 8, nella
sostanza finisce per essere analogo, giacché in entrambe le ipotesi il
giudice o l’arbitro che ha emanato la sentenza o il lodo revocandi,
non deve essersi pronunciato sull’eccezione di giudicato: essendo ciò
(15) SATTA - PUNZI, Diritto processuale civile13, Padova, 2000, 544. In tal senso,
sembra orientato anche CONSOLO, Spiegazione di diritto processuale civile (Il processo di
primo grado e le impugnazioni delle sentenze), Padova, 2009, 570. Secondo tale impostazione, ove l’exceptio rei iudicatae sia invece stata proposta, soccorrerà il ricorso per cassazione ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. se l’eccezione è stata disattesa; ed ai sensi del n. 5
in caso di mancata pronunzia sulla stessa (SATTA - PUNZI, op. loc. citt., nota 23).
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espressamente escluso dalla prima norma ed implicitamente dalla seconda (che richiede come si è visto solo la « produzione » del « documento » che contiene il provvedimento contrario, non la proposizione della relativa « eccezione »).
Per cui, tolta la differenza formale dovuta al particolare atteggiarsi del giudizio di merito conseguente all’impugnazione per nullità, nel presupposto di fondo la disciplina degli artt. 395 n. 5 e 829
n. 8 è sostanzialmente identica.
Il problema della rilevabilità del giudicato interno è invece tutt’altra cosa, giacché non ha per presupposto un conflitto attuale di
decisioni (il che fonda invece la base per l’applicabilità degli artt.
395 n. 5 e 829 n. 8), bensı̀ un conflitto solo potenziale fra l’oggetto
di una pronunzia divenuta definitiva e quello dell’equivalente causa
ancora sub iudice. In sostanza nel primo caso il conflitto è rilevato al
di fuori di entrambi i processi, mentre nell’altro è rilevato all’interno
del secondo processo. E dunque non si può in questo secondo caso
utilizzare l’art. 829 n. 8 per contrapporlo alla disciplina del rilievo
del giudicato nel giudizio ordinario.
Piuttosto ci si dovrà porre il problema del vedere che cosa succeda nel giudizio dinanzi agli arbitri, allorché questi si imbattano in
un precedente giudicato avente lo stesso oggetto del giudizio arbitrale. In proposito il codice nulla dice, come del resto nulla dice circa
la rilevabilità del giudicato nel giudizio ordinario (16). E dunque non
si vede quale ostacolo si dovrebbe frapporre ad applicare anche al
giudizio arbitrale la stessa disciplina della rilevabilità d’ufficio del
giudicato (interno e esterno) dinanzi al giudice.
Si sa bene però che tale opinione è stata avversata dalla Suprema Corte la quale ha ritenuto che nel giudizio arbitrale il rilievo
del giudicato (nella fattispecie, esterno) non possa prescindere dal-
(16) Il fatto che nessuna norma del codice si occupi della rilevabilità del giudicato
(interno o esterno) nel giudizio ordinario spiega molto probabilmente l’incertezza mostrata
per molto tempo dalla giurisprudenza nella soluzione del problema, superata solo da Cass.,
Sez. lav., 23 ottobre 1995, n. 11018, in Rep. Giust. civ., 1995, voce Cosa giudicata in materia civile, n. 13, la quale ha equiparato la rilevabilità d’ufficio del giudicato interno a quella
del giudicato esterno (in precedenza esclusa per quest’ultimo: v. per esempio in questo senso
la stessa Cass., Sez. lav., 27 marzo 1995, n. 3607, ivi, n. 12). L’interpretazione giurisprudenziale è poi divenuta costante sul punto. È significativo rilevare che la problematica era già
stata intuita da LIEBMAN, Sulla rilevabilità d’uffıcio dell’eccezione di cosa giudicata, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1947, 359 ss.
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l’eccezione di parte (17). Ma tale punto di vista, oltre ad essere stato
sottoposto come ben si sa a severa critica (18), finisce in pratica per
fondarsi essenzialmente solo su una petizione di principio: e cioè che
il lodo abbia natura negoziale, dando cioè per dimostrato ciò che invece bisogna dimostrare.
Non solo, ma l’orientamento della Cassazione appare non convincente anche da altro punto di vista, in quanto suppone che solo
nel procedimento ordinario si possa sviluppare la disciplina delle eccezioni in senso lato e di quelle in senso stretto. Con ciò la Corte
mostra di confondere la disciplina del « lodo » con quella del « procedimento » dinanzi agli arbitri, trascurando di considerare che di
« eccezioni » si parla a più riprese anche nel giudizio arbitrale (artt.
817, 819-ter, 821, 829 n. 2): e dunque non si vede perché non possa
essere trasferita anche in questa sede la distinzione fra eccezioni in
senso stretto ed eccezioni in senso lato nonché la regola, convalidata
dalla stessa Cassazione, per cui nel silenzio della legge ogni eccezione si profila in senso lato e la relativa questione deve sempre potersi rilevare d’ufficio (19). Il che appunto dovrebbe avvenire per il
rilievo del giudicato in qualsiasi sede ciò avvenga, dato che esso non
è ricollegato da alcuna norma all’espressa eccezione di parte (20).
Dunque, sia sotto il profilo dell’istanza revocatoria che sotto
quello della rilevabilità del giudicato, giudizio arbitrale e giudizio
ordinario si comportano nella sostanza allo stesso modo.
(17) Cass., 27 novembre 2001, n. 15023, in Riv. dir. proc., 2002, 1238, con nota di
E.F. RICCI, cit.
(18) E.F. RICCI, La Cassazione insiste sulla natura « negoziale » del lodo arbitrale.
Nuovi spunti critici, cit., 1239 ss.
(19) Si veda su tale punto da ultimo, Cass., Sez. lav., 15 maggio 2007, n. 11108, in
Rep. Giur. it., 2008, voce Procedimento civile, n. 443.
(20) Per escludere la rilevabilità d’ufficio del giudicato esterno nel giudizio arbitrale,
a nulla varrebbe rilevare che l’art. 829 n. 8 fa riferimento alla « produzione » del documento
che sembra accompagnare l’eccezione di giudicato esterno, produzione che non potendo pervenire che dalla parte, sembrerebbe preludere al fatto che vi dovesse essere anche la formulazione della previa eccezione. Ma cosı̀ non è, giacché come si è rilevato nel testo (v. par. 4),
la norma si limita a richiedere la semplice produzione materiale del documento, non la proposizione di un espressa eccezione (e ciò a differenza della sua omologa anteriormente alla
riforma del 2006). Ma a prescindere da ciò, appare evidente che anche ai fini del rilievo
d’ufficio del giudicato esterno, è perfettamente ovvio che il documento che ne attesta l’esistenza (cioè il lodo o la sentenza) deve per forza di cose essere stato previamente prodotto
agli atti dalla parte, potendo il giudice rilevare d’ufficio solo l’esistenza del giudicato, ma non
acquisire nel processo anche il relativo provvedimento. Dunque, il richiamo al n. 8 dell’art.
829, come argomento per supportare la tesi che esclude la rilevabilità d’ufficio del giudicato
esterno nel giudizio arbitrale, è del tutto fuor di luogo.
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5. Analogamente, non si può fondare una diversità fra lodo e
sentenza sul fatto che l’art. 831, comma 1, non richiami per la revocazione del lodo arbitrale il n. 5 dell’art. 395 relativo appunto alla
contrarietà (del lodo) a precedente sentenza avente fra le parti autorità di cosa giudicata (21). Il richiamo nell’art. 831 c.p.c. non era infatti necessario, poiché a livello arbitrale la situazione è compiutamente disciplinata dall’art. 829 n. 8, che inserisce la revocazione per
contrarietà a precedente pronunzia nell’ambito dei motivi dell’impugnazione per nullità. Il che non fonda alcuna diversità sostanziale fra
i due istituti, poiché com’è noto la revocazione per contrarietà a precedente pronunzia è mezzo di impugnazione « ordinario » e quindi
perfettamente inquadrabile anche nell’ambito dell’impugnazione per
nullità ex art. 828, che è la tipica impugnazione ordinaria nel giudizio arbitrale (22).
Anzi il raffronto fra l’art. 395 n. 5 e l’art. 829 n. 8, se da un
lato non offre alcun argomento decisivo per distinguere il lodo dalla
sentenza, dall’altro lato si presta se mai a convalidare la tesi opposta, se si considera che nell’art. 829 n. 8 si equiparano come elementi
confliggenti con la pronunzia arbitrale ed in grado di fare scattare
l’istanza revocatoria, sia il « precedente » lodo, sia la « precedente »
sentenza. Il che significa che gli effetti dei due provvedimenti vengono pienamente equiparati. Del resto simile equiparazione sussiste
anche a rovescio e cioè nel processo ordinario, allorché ci si pone il
problema di valutare se l’art. 395 n. 5, nel silenzio della legge, possa
applicarsi anche quando il contrasto non è con una precedente sen(21) Cosı̀ invece CARPI, in Arbitrato, cit., 594 e 595.
(22) Né un argomento in contrario potrebbe ricavarsi da una supposta differenza di
disciplina nel giudizio arbitrale e nel giudizio ordinario, con riferimento alle due distinte ipotesi in cui il giudice (o l’arbitro) del secondo giudizio abbia trascurato l’eccezione o l’abbia
respinta. Nel giudizio ordinario, come si è accennato, la prima ipotesi fonda la revocazione
ex art. 395 n. 5 e la seconda l’appello o il successivo ricorso per cassazione. Nel giudizio
arbitrale il rimedio sembra invece essere costituito in entrambi i casi dall’impugnazione per
nullità ex n. 8 dell’art. 829. Ma v’è una spiegazione a ciò, dovuta al fatto che il legislatore
ha costruito nell’arbitrato una sola impugnazione ordinaria, quella per nullità, che cumula
nella fattispecie la funzione propria nel giudizio ordinario dell’istanza revocatoria del n. 5
dell’art. 395 (allorché l’eccezione di giudicato non sia stata esaminata) con quella dell’appello (allorché sia stata respinta), le quali sono entrambe impugnazioni ordinarie e quindi in
arbitrato perfettamente cumulabili nello stesso istituto dell’impugnazione per nullità. Del resto non sarebbe certo stato un problema per il legislatore distinguere le due ipotesi, inserendo
la prima nell’ambito dell’art. 831, comma 1, al quale fare afferire anche quella disciplinata
dal n. 5 dell’art. 395 e lasciando la seconda nell’ambito del n. 8 dell’art. 829. Ciò non è avvenuto per un’operazione di mera sistematica normativa, senza alcun riflesso sostanziale sull’operatività degli istituti.
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tenza, ma con un precedente « lodo ». Quesito al quale come ben si
sa è stata data ormai da tempo risposta ampiamente positiva (23).
Fino a questo punto dunque, da quanto sopra visto non sorge
alcuna differenza fra il trattamento del lodo e quello della sentenza,
tale da fare ritenere il primo un tertium genus.
Del resto non si tratta neppure di differenze « marginali » come
invece è stato detto, dato che con riferimento ai già visti profili dell’art. 395 n. 5 e dell’829 n. 8, non v’è la più piccola diversità fra i
due istituti (24).
Non va poi dimenticato che la perfetta identità di effetti fra lodo
e sentenza emerge anche dalla disciplina della prescrizione. Nessun
rilievo pare infatti avere la circostanza che l’art. 2945 c.c. distingua
in due diversi commi l’interruzione-sospensione determinata dalla
domanda giudiziale (comma 2) e quella determinata dalla domanda
arbitrale (comma 4), quando l’effetto è identico. Tant’è vero che anche chi fa perno sulla differente collocazione legislativa è costretto
ad ammettere che la natura degli effetti interruttivi-sospensivi della
prescrizione in entrambi i casi è la stessa, tanto che dovrebbe potersi
estendere anche all’arbitrato il disposto dell’art. 2953 c.c. relativo
agli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi: e cioè che anche il
lodo di condanna divenuto definitivo ha l’attitudine a trasformare in
prescrizione decennale ogni prescrizione avente più corta durata (25).
Dunque come si vede, da qualunque punto di vista si voglia
esaminare il problema, non v’è alcun elemento che possa tracciare
dal punto di vista oggettivo alcuna differenza fra lodo e sentenza.
A questa stregua, la tesi contrattualistica del lodo rituale non
può più giustificarsi, neppure osservando che la parificazione del
lodo alla sentenza getterebbe un’ombra di incostituzionalità sull’intero istituto arbitrale, sul presupposto che la giurisdizione è attribuita
dalla nostra Carta fondamentale ai giudici dello Stato e fra essi non
rientrano gli arbitri. Pur se autorevolmente sostenuta (26), la tesi urta
contro un ostacolo di fondo dato dal fatto che qui non viene in considerazione chi amministra giustizia (nessuno infatti potrebbe seria(23) TARZIA, Confilitti tra lodi arbitrali e conflitti tra lodi e sentenze, cit., 645; E.F.
RICCI, L’« effıcacia vincolante » del lodo arbitrale dopo la Legge n. 25 del 1994, in Riv. trim.
dir. e proc. civ., 1994, 819.
(24) E.F. RICCI, op. ult. cit., 818.
(25) CARPI, in Arbitrato, cit., 595.
(26) Cosı̀ FAZZALARI, voce Arbitrato (teoria generale e diritto processuale civile), cit.
401.
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mente negare che gli arbitri non siano giudici), ma gli effetti dell’atto
che tale giustizia impone. I quali, anche in presenza di un giudizio
emesso da privati, ben possono essere (se la legge lo vuole) quelli
previsti dall’art. 2909 c.c. senza con ciò intaccare nessuna norma costituzionale, dato che la nostra Carta fondamentale non solo non lega
l’efficacia del giudicato alla sola decisione dei giudici dello Stato, ma
non ne parla neppure (27). E dunque non deve destare meraviglia il
fatto che il legislatore possa imputare, come e quando vuole, gli
stessi effetti della sentenza emessa dall’autorità giudiziaria anche ad
un atto diverso da quello proveniente dal giudice.
D’altro canto nessuno si è mai stupito del fatto che nella versione originaria del codice del 1940 si parlasse di vera e propria sentenza arbitrale, ancorché tale carattere conseguisse allora solo all’exequatur. E non ci si stupiva neppure che tale atto conferisse al
lodo carattere giurisdizionale, senza peraltro che alcuno si sia mai
scomodato per dedurne una questione di costituzionalità. Peraltro, se
si va ben a vedere, l’exequatur del giudice altro non era (e non è) se
non un elemento di ordine esteriore, il quale non faceva altro che
consacrare ufficialmente gli effetti che il lodo aveva già in sé.
6. D’altro canto non occorre scomodare la giurisdizione, per
pensare alla cosa giudicata. Può sembrare un paradosso ma è cosı̀,
sol che si rifletta sulla fondamentale distinzione che Carnelutti proponeva fra attività « processuale » e attività « giurisdizionale », cioè
fra il processo e la giurisdizione (28). Il concetto di processo è più
lato e per la sua esistenza è sufficiente la sola presenza di un soggetto
che giudichi in posizione di “terzietà”, non importa chi sia (29). Se
(27) In tal senso, si vedano i precisi rilievi di DENTI, La giustizia civile, nuova ediz.
a cura di AA.VV., Bologna, 2004, 132, ove si osserva che l’immutabilità degli effetti delle
sentenze non è stata elevata al rango di garanzia costituzionale, nonostante fossero state
avanzate proposte in tal senso nei progetti sul potere giudiziario.
(28) CARNELUTTI, Sistema di diritto processuale civile, I, cit., 132, ove si afferma che
la funzione processuale è il genus, mentre quella giurisdizionale è la species.
(29) L’idea dominante in passato, pur se autorevolmente sostenuta (FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale6, Padova, 76 e 82 ss.; ID., La giustizia civile nei paesi comunitari,
Padova, 1994, 256), secondo la quale il connotato essenziale del “processo” veniva fatto
consistere in ciò che il procedimento si svolgesse nel contraddittorio delle parti (cioè dei
“destinatari” del provvedimento finale), appare ormai aver perduto di rilievo in considerazione del fatto che il contraddittorio è divenuto sempre più frequentemente appannaggio anche dell’attività amministrativa (si veda, per tutti, l’art. 18, Legge n. 689/1981, che consente
prima dell’irrogazione della sanzione amministrativa, che i potenziali destinatari della stessa
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poi tale soggetto è un giudice dello Stato, come normalmente avviene, la funzione processuale si trasforma in quella giurisdizionale.
Le due funzioni dunque si distinguono solo dal punto di vista soggettivo, non da quello oggettivo giacché il modus operandi ed il risultato restano gli stessi (30).
possano inviare scritti difensivi, documenti e soprattutto fare richiesta di « essere sentiti »).
Anzi è da dirsi, che quanto più viene incentivato il contraddittorio nella dimensione sostanziale, tanto più probabile sarà la possibilità di emendare gli errori in tale fase, cosı̀ da ridurre
ampiamente il successivo ricorso al processo (G.F. RICCI, Principi di diritto processuale generale4, Torino, 2010, 3). Il reale indice dell’attività processuale viene dunque da più parti
rinvenuto, non nella posizione dei soggetti che attendono il giudizio, ma in quella di colui
che lo impartisce, cogliendo il segno distintivo in ciò che egli debba essere “terzo” rispetto
agli interessi in conflitto. Requisito assai più significativo e pregnante della semplice “imparzialità”, che peraltro secondo l’art. 97 Cost. pertiene anche all’organo amministrativo e che
sta solo a significare che il funzionario non deve sacrificare l’interesse dello Stato al proprio
interesse. Mentre invece l’essere terzo significa elevarsi al di sopra di ogni interesse, foss’anche quello dello Stato come persona giuridica inteso. In sostanza, la funzione processuale
appare sganciata dall’apparato amministrativo statuale, cioè dallo Stato come persona giuridica, tale da potere agire in posizione di autonomia ed indipendenza anche rispetto allo stesso
Stato, come per primo ben ebbe a rilevare, MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti2,
Torino, 1994, 4 ss., con una concettualizzazione degna di essere meditata ancor oggi. Sempre più frequente è il novero degli studiosi che rinvengono l’elemento identificatore del processo, non nello scopo cui esso è diretto (variabile a seconda delle branche del diritto, dei
tempi e delle ideologie), ma nel modo in cui l’attività processuale è esercitata, che può dirsi
tale (e quindi differenziarsi del semplice “procedimento”) sol quando sia amministrata da un
terzo imparziale (VERDE, Profili del processo civile7, I, Napoli, 2008, 31 e 35; G.F. RICCI,
Principi di diritto processuale generale, cit., 7 ss.). In tal senso, degno di considerazione è
l’interessante rilievo, da tempo consolidato negli ordinamenti di Common law, che contrassegna la terzietà con il fatto che il giudice non solo deve essere imparziale, « ma tale deve
anche poter apparire » (DENTI, La giustizia civile, cit., 92). Se dunque, il requisito fondamentale per la “processualizzazione” del semplice procedimento è la terzietà dell’organo che lo
amministra, perde rilievo il fatto che questo sia un funzionario dello Stato (il giudice) o un
semplice privato (l’arbitro). Ciò che dunque conta rilevare è che l’arbitrato è senza dubbio
processo, anche se non giurisdizione (appannaggio solo del processo condotto dai giudici
statali) e come tale esso deve godere di tutte le prerogative che la nostra Carta costituzionale
assicura al processo di fronte ai giudici togati, che è una sua forma di manifestazione (senza
dubbio la principale), ma non l’unica (G. F. RICCI, Diritto processuale civile3, I, Torino, 2009,
9 ss.). Ed anzi come ben è stato osservato, l’arbitrato non solo è processo, ma una forma
spiccata di « giusto processo », soprattutto per la tutela del contraddittorio che in esso si manifesta assai più intensamente rispetto al processo ordinario, come risulta dalla coniugazione
degli artt. 816-bis, comma 1 e 829 n. 9, che esprimono tale valore con un’intensità assoluta
del tutto assente nel giudizio dinanzi ai giudici dello Stato.
(30) Questo ha portato vari aa. a sostenere, forse con eccessiva enfasi, che la giurisdizione non è monopolio dello Stato (VERDE, Profili del processo civile, I, cit., 30 ss.; ID.,
Lineamenti di diritto dell’arbitrato, cit., 151) e che di conseguenza anche all’arbitrato va attribuita natura “giurisdizionale” (VERDE, op. loc. ultt. citt., che parla dell’arbitrato come di una
“giurisdizione privata”); CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile (Il processo di
primo grado e le impugnazioni delle sentenze), cit., 608 e soprattutto 615; BOVE, La giustizia privata, Padova, 2009, 30; CAVALLINI, Profili dell’arbitrato rituale, Milano, 2005, 10). In
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L’arbitrato non è dunque meno processo di quello che si attua
attraverso la giurisdizione: tant’è vero che del processo ha la connotazione essenziale, cioè la necessaria presenza del contraddittorio,
tutelata peraltro in modo ancor più intenso che nel processo di fronte
ai giudici (a fronte dell’art. 829 n. 9, non v’è infatti alcuna norma
espressa che sancisca la nullità degli atti del processo ordinario per
violazione del principio del contraddittorio, salvo ora, in termini
molto generali, la prescrizione dell’art. 101, comma 2). Ma quel che
più conta è che la tutela di tale requisito è del tutto estranea alla
realtà negoziale (nessuno si sognerebbe ad esempio di parlare di tutela del principio del contraddittorio in presenza dell’“arbitramento”
o “arbitraggio” previsto dall’art. 1349 c.c.).
La considerazione già citata alla stregua della quale gli effetti
aventi « forza di legge » del contratto ai sensi dell’art. 1372 c.c. non
sarebbero meno vincolanti di quelli della sentenza, del resto non risolve il problema ma finisce in pratica per aggirarlo, dato che lascia
sullo sfondo la differenza sostanziale dell’efficacia dei due diversi
atti.
Il primo profilo di tale efficacia non riguarda tanto il vincolo fra
le parti, quando la sua immodificabilità. Dire che l’effetto del lodo è
astringente per le parti allo stesso modo, tanto se lo si considera negozio, quanto sentenza, non dice molto in quanto proietta il problema per cosı̀ dire solo su un piano orizzontale, ma non verticale.
Affermare che il lodo vincola le parti non è infatti abbastanza, perché ciò che è necessario dire è che esso le vincola con un’autorità
destinata ad essere irretrattabile allorché il lodo sia divenuto definitivo (il contratto come ben si sa, può invece essere sempre risolto per
mutuo dissenso fra le parti). L’irretrattabilità è del resto propria unicamente della sentenza: e può competere al lodo solo se lo si inquadra nella prospettiva di quest’ultima.
Ora, nessuno potrebbe ammettere che il lodo divenuto definitivo possa essere successivamente revocato per volere delle parti. Si
realtà appare rischioso parlare di giurisdizione a proposito dell’arbitrato, giacché la giurisdizione è essenzialmente funzione dello Stato e la relativa denominazione si attaglia al solo
processo condotto dal giudice. I problemi invece si superano ripiegando sul concetto di “processo” che non suppone necessariamente di essere amministrato da un organo dello Stato,
bensı̀ da un semplice soggetto, anche privato, purché operi in posizione di terzietà. Ad ogni
modo le concezioni giurisdizionali dell’arbitrato sopra riportate sono comunque importanti in
quanto tendono decisamente ad escludere la sua riconduzione a quella del semplice negozio
privato.
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voglia o meno parlare di giudicato (e su ciò torneremo più avanti),
la pronunzia degli arbitri ove non impugnata (o se siano esauriti i
mezzi di impugnazione) diventa immodificabile. E dunque tutto ciò
non potrebbe mai essere giustificabile alla stregua del negozio.
Inoltre, altro fondamentale aspetto, l’inquadramento negoziale
dell’istituto non riuscirebbe in alcun modo a spiegare gli effetti del
lodo nei confronti dei terzi, che peraltro sono propri solo della sentenza e non del contratto. Esiste una sola ipotesi in cui il contratto
coinvolge i terzi, quella del contratto a favore di terzo di cui all’art.
1411 c.c. Ma con riferimento a quest’ultima norma non assistiamo,
come invece per la sentenza, all’estensione automatica degli effetti
nei confronti del terzo, essendo invece questi previsti a priori in seguito alla costruzione in un certo modo del negozio.
Le vicende contrattuali cioè non hanno la possibilità di estendersi in modo automatico ai terzi, ancorché titolari di un diritto dipendente. Il coinvolgimento di costoro non può infatti avvenire
senza un’esplicita previsione di ciò nell’atto. Inoltre la produzione di
effetti contrattuali nei confronti dei terzi, avviene sempre a loro favore. Diversamente da quanto invece si può verificare nella sentenza
che può risolversi anche a loro svantaggio, come per esempio avviene nel caso dell’art. 1595, comma 3, c.c.
A coronamento di tutto ciò pare di dovere effettuare un ulteriore
rilievo che la giurisprudenza non sembra avere adombrato e che tuttavia attesta in modo univoco l’impossibilità della riconduzione del
lodo rituale alla fattispecie del negozio. Se cosı̀ fosse infatti, quale
differenza di effetti vi sarebbe con il lodo irrituale, oggi previsto dall’art. 808-ter, ed al quale la norma espressamente attribuisce efficacia « contrattuale » (primo comma della norma)?
Si potrebbe essere tentati di dire che la differenza potrebbe rinvenirsi nella tendenziale esecutività del primo (sia pure alle condizioni previste nell’art. 825 c.p.c.), che manca totalmente al secondo.
Ma con ciò si torna a quanto si diceva all’inizio e cioè che si
tratterebbe di una differenza solo esteriore, non relativa alla loro diversa potenzialità intrinseca che opera in piani non complementari e
che è ben spiegata da due distinte norme, l’art. 808-ter, comma 1, e
l’art. 824-bis. Se in sostanza ci si limita a dire che al lodo irrituale
difetta solo la potenzialità prevista dall’art. 825 e si fonda solo su ciò
la sua differenza con il lodo rituale, come si spiega la non riconducibilità al primo anche degli effetti di cui all’art. 824-bis (espressamente esclusi dal primo comma dell’art. 808-ter)? Ciò significa che
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il nucleo di quella norma costituisce quel quid pluris, che differenzia
nella sostanza i due tipi di lodi, la cui considerazione è del tutto assente nella previsione della giurisprudenza.
Onde, pare adeguatamente dimostrato che ricondurre il lodo arbitrale rituale al negozio e ritenere che l’art. 824-bis rappresenti solo
un’espressione enfatica ed incapace di reagire sulla sua natura giuridica, è francamente idea che non sembra potersi sostenere.
7. La tesi che afferma la natura privatistica del lodo rituale ha
pertanto dalla sua una sola apparente giustificazione, peraltro di connotato non giuridico. Quella della difficoltà di fare comprendere
come sulla base di un atto negoziale, quale quello del conferimento
dell’incarico a privati cittadini di risolvere una controversia giuridica, si possa ritenere che la decisione di questi ultimi sia destinata
ad assurgere al rango di quella giurisdizionale. Certo, se ci si ferma
qui, lo hiatus è evidente. Ma chi si limitasse a tale constatazione
mostrerebbe di non avere chiaro il fenomeno della sempre più spiccata processualizzazione dell’arbitrato, che nessuno oggi può più seriamente contestare.
La realtà è che la prospettiva negoziale opera e si ferma con la
sola devoluzione della controversia agli arbitri (e con le connesse
possibili determinazioni di cui all’art. 816-bis, comma 1, dell’eventuale normativa da applicare nel giudizio). Non va oltre. L’investitura degli arbitri e tutto ciò che segue sono assunti dal legislatore
nella prospettiva processuale, come emerge da una pluralità di indici,
primo fra i quali quello già ricordato della tutela del contraddittorio
(artt. 816-bis, comma 1 e 829 n. 9), ancor più forte che nel processo
giurisdizionale (31). L’arbitrato diviene dunque « processo » e non
semplice « procedimento », come è attestato dalla terzietà dell’organo che lo amministra (si veda in proposito il rigore dell’art. 815
sulla ricusazione, forse superiore addirittura a quello fatto palese
dell’art. 52 per il giudice). Questi due parametri sarebbero del resto
sufficienti a consentire addirittura l’inquadramento dell’arbitrato rituale a buon titolo nelle previsioni, non solo del processo, ma anche
(31) Realtà ben intesa da CONSOLO, op. ult. cit., 615, il quale afferma che l’attuale
normativa « avvalora definitivamente la concezione integralmente giurisdizionale, per quanto
privatistica ne sia e ne debba essere sempre ovviamente la scaturigine (la volontà contrattuale
compromissoria), dell’arbitrato rituale ».
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del « giusto processo » garantite dal secondo comma dell’art. 111
Cost.
La processualizzazione dell’arbitrato è del resto confermata
dalla riconduzione dei rapporti fra questo e il giudizio ordinario, a
normali rapporti di competenza (art. 819-ter). E rapporti di competenza possono esservi solo fra processi e non fra il processo e ciò che
processo non è.
Si potrà dire che tutto ciò è effetto di un’imputazione del legislatore. Ma ciò non ha alcun interesse, giacché gli istituti vanno valutati per quel che sono e non per il modo in cui essi dovrebbero essere costruiti (32).
Bisogna pertanto assumere la consapevolezza (ed avere il coraggio di ammetterlo) che la determinazione negoziale nell’arbitrato
rituale è solo il presupposto per dare vita all’istituto. Ma questo, appena messo in moto, è immediatamente assunto dal legislatore nella
sfera del processo e come tale si comporta in tutto il suo svolgimento, ivi compresi gli effetti del suo prodotto finale.
8. Solo in tal modo si riesce a comprendere perché il lodo rituale sia in tutto e per tutto equiparabile alla sentenza non solo negli effetti, ma anche nella sostanza e, di conseguenza, quale sia la sua
spiccata differenza con il lodo irrituale. La quale non si spiega solo
con la presenza o meno dell’esecutività, ma va molto oltre.
Essa riguarda l’attitudine del primo (e solo del primo) alla cosa
giudicata, vista non solo nella potenziale irretrattibilità della decisione, ma nella presenza di quell’altra sua caratteristica fondamentale che è l’attitudine a produrre effetti anche nella sfera dei terzi, del
tutto assente nel lodo irrituale (33).
Un esempio servirà a chiarire. Supponiamo che in un contratto
di locazione sia inserita una clausola compromissoria che impone di
(32) In tal senso esattamente VERDE, op. loc. ultt. citt., il quale non esita ad affermare
che l’unico parametro che conta per qualificare l’arbitrato, è quello della rilevanza (e cioè
della qualificazione) che gli attribuisce l’ordinamento.
(33) TARZIA, Conflitti tra lodi arbitrali e conflitti tra lodi e sentenze, cit., 639, afferma infatti che è netta nel sistema, la linea di tendenza verso il riconoscimento dell’idoneità
del lodo alla formazione della cosa giudicata o di un’efficacia ad essa equiparata. Ora, se si
considera che tale opinione era espressa dall’a. già prima della riforma del 2006, si deve
convenire che essa appare oggi ancor più avvalorata dalla presenza di una norma come l’art.
824-bis.
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devolvere in arbitrato rituale ogni controversia che nascer possa dal
contratto.
Ove per esempio si deduca di fronte agli arbitri la nullità, l’annullamento o la risoluzione del contratto e questi dispongano in tal
senso, gli effetti del lodo rituale saranno in tutto e per tutto quelli
dell’art. 1595, comma 3, c.c., capaci cioè di travolgere l’eventuale
contratto di sublocazione che il conduttore abbia eventualmente concluso con un terzo. Il quale pertanto dovrà subire le conseguenze
dello sfratto, senza potere nulla opporre.
Tutto ciò non potrebbe in alcun modo verificarsi se la previsione dei contendenti fosse stata invece quella di avvalersi semplicemente di un lodo irrituale che, avendo efficacia di “negozio” e non
di “sentenza”, non può avere effetti riflessi nei confronti dei terzi.
Ancor più significativo è il riferimento a quelli che sogliono
chiamarsi effetti « diretti » della sentenza, che in virtù dell’equiparazione di cui all’art. 824-bis, competono necessariamente anche al
lodo rituale (34).
Consideriamo l’ipotesi di una clausola compromissoria inserita
in un contratto di società che sia sottratto alla disciplina del c.d. arbitrato “societario” di cui all’art. 34 D.Lgs. n. 5/2003, per essere la
società una di quelle che fa ricorso al capitale del rischio ai sensi
dell’art. 2325-bis c.c. In tal caso non par dubbio che la devoluzione
in arbitrato debba avvenire secondo le regole di cui all’art. 806 ss.
c.p.c. e non secondo quelle di cui al citato art. 34 ss. della legge speciale (35).
Se cosı̀ è, l’unica norma alla quale fare riferimento per disciplinare gli effetti del lodo appare essere quella dell’art. 824-bis, non
potendosi certo applicare la normativa speciale dell’art. 34 ss. D.Lgs.
n. 5/2003, in quanto l’arbitrato in questione è nella sostanza totalmente svincolato da tale normativa.
Orbene, ove la clausola compromissioria consentisse di devolvere di fronte ad arbitri rituali l’impugnazione di una delibera assembleare, non v’è dubbio che al conseguente lodo debba competere
(34) Sull’individuazione di tale categoria e sulla differenza con gli effetti « riflessi »
(o per ripercussione), di cui abbiamo parlato nel testo, si veda CARPI, L’effıcacia « ultra partes » della sentenza civile, Milano, 1973; G.F. RICCI, Diritto processuale civile, I, cit., 311 ss.
(35) Com’è noto, l’art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 5/2003, riserva la normativa speciale
dell’arbitrato societario a tutte le società « ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325-bis del codice civile », che dunque possono
beneficiare del solo arbitrato previsto dall’art. 806 ss. c.p.c.
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l’efficacia di cui all’art. 2377, comma 7, c.c., in virtù della quale
l’eventuale annullamento della delibera avrà effetto rispetto a tutti i
soci, anche nei confronti di coloro che non hanno agito.
Tutto ciò non potrebbe certo avere luogo se la clausola compromissoria avesse previsto solo un arbitrato irrituale (il che, ripetiamo,
sarebbe del tutto possibile per le controversie relative alle società di
cui all’art. 2325-bis c.c.).
Gli esempi potrebbero continuare. Ma ciò che si è detto è sufficiente a fare comprendere sul piano dell’efficacia quale sia la reale
differenza fra il lodo rituale e quello irrituale, che è quella tra la sentenza e il negozio.
Quanto precede dimostra chiaramente che la natura giuridica
del lodo si può cogliere esattamente solo tenendo presente tutte le
componenti dei suoi effetti. Non solo cioè di quelli attraverso i quali
di solito esso viene esaminato che riguardano la sua operatività fra
le parti, che al limite potrebbe spiegarsi — anche se non esaustivamente — tanto sul piano dell’art. 1372 c.c. quanto su quello dell’art.
2909 c.c., sulla base della considerazione già svolta per cui l’autorità
della legge non è meno intensa di quella della decisione del giudice.
Ma è soprattutto all’altro aspetto del problema che bisogna rivolgere lo sguardo, quello dell’efficacia del lodo nei confronti dei
terzi, al quale non sembra che la giurisprudenza abbia riservato una
specifica attenzione (e ciò sicuramente è concorso, assieme alla già
vista impostazione politica del problema, a far sı̀ che essa non sia
mai riuscita a superare l’idea dell’arbitrato come istituto eminentemente privato). Sotto questo profilo emerge infatti evidente la differenza fra il lodo irrituale, i cui effetti rimangono circoscritti solo alle
parti, e quelli del lodo rituale che si esplicano — sia in via riflessa
che diretta — anche nei confronti dei terzi. E questa realtà è la ragione prima della totale equiparabilità, sul piano dell’efficacia, del
lodo rituale alla sentenza.
Se tali considerazioni come pare sono esatte (e di ciò ci sembra
di avere dato una motivazione più che diffusa), diviene inutile continuare a discettare sulla natura del lodo rituale, se esso sia negozio
o sentenza e sugli ulteriori rilievi connessi, come quello per cui non
sarebbe consentito che esso possa essere parificato alla sentenza, che
solo l’autorità giudiziaria potrebbe emanare; o quello, che ne costituisce la complementare faccia, per cui l’attività arbitrale essendo
svolta da privati, non può andare oltre il risultato negoziale.
Simili rilievi finiscono per essere solo petizioni di principio la
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cui inutilità è evidente, giacché anche se non si vuole credere che la
natura di un istituto si possa cogliere solo sul piano degli effetti, bisogna in ogni caso ammettere che ciò che conta per qualificarlo è
solo l’esame di questi ultimi.
E sotto tale profilo nessuno potrebbe mettere in dubbio, che la
sostanza del lodo rituale sia in tutto e per tutto quella stessa della
sentenza del giudice, atta ad esprimersi nella cosa giudicata, con una
potenzialità completamente analoga a quella del prodotto giudiziario (36).
The Author examines the different theories proposed in literature in order to
explain the nature of the arbitral award and arbitration, before and after the Supreme Court’s ruling no. 527/2000 as well as in light of article 824-bis of the Italian Code of Civil Procedure (introduced by the 2006 reform).
In particular, he distinguishes three main currents of thought noting that,
there being no substantive differences between the regulation of the means of challenges and the statute of limitation regarding judgments and awards, the theory
that sustains the private nature of arbitration should be rejected. Such thesis is, according to the Author, in contrast to the “immutability” of effects generated by the
award no longer challengeable and to the effects of the award vis-à-vis third parties, which in no way could be explained if considering the award as a contract.
Finally, the Author points out that only by dismissing such thesis the difference between ordinary arbitration and “irrituale” arbitration can be explained.
(36) Ci par dunque indiscutibile la conclusione alla quale previene E.F. RICCI, L’« efficacia vincolante » del lodo arbitrale dopo la Legge n. 25 del 1994, cit., 819, per cui l’arbitrato va ormai considerato « a buon titolo » come una « sentenza pronunciata da giudici
non togati ».
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L’arbitrato e la proposta di revisione
del Regolamento Bruxelles I (*)
LUCA G. RADICATI DI BROZOLO (**)
1. Premessa. — 2. La libertà degli Stati in materia di arbitrato e il rischio di
procedimenti paralleli e di decisioni incompatibili. — 3. Le istanze di riforma. — 4. Le soluzioni possibili. — 4.1. L’abolizione della clausola di
esclusione dell’arbitrato. — 4.2. L’ampliamento dell’esclusione dell’arbitrato
e il ritorno delle anti-suit injunctions. — 4.3. L’abolizione parziale della
clausola di esclusione dell’arbitrato e l’introduzione nel Regolamento di alcune regole specifiche per l’arbitrato. — 4.4. Uno strumento ad hoc per l’armonizzazione del diritto dell’arbitrato. — 4.5. Il mantenimento della disciplina precedente. — 5. La Proposta della Commissione. — 5.1. L’art. 29(4)
e le disposizioni ancillari. — 5.2. La prevenzione dei procedimenti paralleli
e degli abusi. — 5.3. L’obbligo di sospensione del procedimento di fronte al
giudice non della sede. — 5.4. Le condizioni per la sospensione e la nozione
di convenzione arbitrale. — 6. Portata ed implicazioni della nuova regola. —
6.1. Un modello innovativo per la valutazione delle convenzioni arbitrali. —
6.2. Un embrione di controllo del paese d’origine in materia di arbitrato? —
6.3. Il funzionamento pratico della regola e il ruolo essenziale della scelta
della sede. — 7. Altre questioni. — 7.1. La giurisdizione in tema di procedimenti ancillari e di impugnazione dei lodi. — 7.2. La circolazione delle sentenze. — 7.2.1. Le sentenze in tema di validità e effetti delle convenzioni arbitrali. — 7.2.2. Le sentenze in tema di validità e effetti dei lodi. — 7.2.3. Le
sentenze in tema di esecuzione dei lodi. — 7.2.4. Le sentenze di merito. —
8. Valutazione. — 8.1. Il successo nella prevenzione dei procedimenti paralleli. — 8.2. La valutazione in una prospettiva « pro-arbitrato ». — 8.3. La
valutazione in una prospettiva di disciplina onnicomprensiva dello spazio
giudiziario europeo. — 9. Considerazioni conclusive.
1.
I rapporti tra arbitrato e Regolamento Bruxelles I (Reg.
(*) Il presente lavoro è una rielaborazione di un intervento alla 4a Journal of Private
International Law Conference tenutasi a Milano il 14-16 aprile 2011. L’autore è membro dell’Expert Group on the Interface between the Brussels I Regulation and Arbitration della
Commissione Europea. Le opinioni espresse sono personali.
(**) Professore ordinario nell’Università Cattolica di Milano.
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(CE) 44/2001, di seguito il “Regolamento”) sono stati oggetto di discussione per anni e sono stati forse il punto più controverso del dibattito sulla revisione del Regolamento (1). A momenti la discussione
ha assunto toni accesi e quasi ideologici, in una specie di scontro di
culture tra la cosiddetta comunità dell’arbitrato e la Commissione Europea, talvolta accusata di voler imporre una propria visione dell’arbitrato e di comprimere la libertà degli Stati membri in questo campo.
La recente proposta della Commissione di revisione del Regolamento (2) (di seguito la Proposta) segue un approccio moderato,
volto a disciplinare soltanto una, ma forse la più critica, delle nume(1) La dottrina in materia è vasta. Oltre al contributo di VAN HOUTTE, Why not
include arbitration agreements in the Brussels jurisdiction regulation?, in Arb. Int’l, 2005,
509 ss., che ha contribuito a lanciare il dibattito cfr. ad esempio MOURRE, Faut-il un statut
communautaire de l’arbitrage?, in ASA Bulletin, 2005, 408 ss.; KASSEDJAN, Le Règlement 44/
2001 et l’arbitrage, in Rev. arb., 2009, 699 ss.; PULLEN, The future of International Arbitration in Europe: West Tankers and the EU Green Paper, in Int. Arb. L. Rev., 2009, 56 ss.;
HESS, Improving the Interface Between Arbitration and European Procedural Law: The Heidelberg Report and the EU Commission’s Green Paper on the Reform of Regulation Brussels
I, in Les Cahiers de l’Arbitrage/The Paris Journal of International Arbitration, 2010, 17 ss.;
SCHLOSSER, Europe - Is it Time to Reconsider the Arbitration Exception from the Brussels Regulation?, in Int’l Arb. Law Rev., 2009, 45 ss.; PINSOLLE, The Proposed Reform of Regulation
44/2001: A Poison Pill for Arbitration in the European Union?, in Int’l Arb. Law. Rev., 2009,
62 ss.; FENTIMAN, Arbitration and the Brussels Regulation, in Cambridge Law Journal, 2007,
493 ss.; PINSOLLE, Les problèmes cachés de la suppression de l’exception d’arbitrage du Règlement 44/2001, in Cahiers de l’arbitrage/The Paris J. of Int’l Arb., 2010, 3 ss. In Italia v.
SALERNO, Coordinamento e primato tra giurisdizioni civili nella prospettiva della revisione
del Regolamento (CE) 44/2001, in Cuadernos de derecho transnacional, 2010, 5 ss.; BENEDETTELLI, Ordinamento comunitario e arbitrato commerciale internazionale: favor, ostilità o
indifferenza?, in BOSCHIERO, BERTOLI (a cura di), Verso un « Ordine comunitario » del processo civile, Napoli, 2008, 111 ss.; ID., “Communitarization” of international arbitration: a
new spectre haunting Europe?, in corso di pubblicazione; WINKLER, West Tankers: la Corte
di giustizia conferma l’inammissibilità delle anti-suit injunctions anche in ambito escluso
dall’applicazione del Regolamento Bruxelles I, in DCI, 2008, 715 ss.; CONSOLO, Arbitration
and EC law. An Italian reaction in the Heidelberg colloquium, in Int’l Lis, 2009, 102 ss.;
DRAETTA, SANTINI, Arbitration Exception and Brussels I Regulation: no Need for Change, in
Diritto del commercio int., 2009, 547 ss.; MARONGIU-BONAIUTI, Emanazione di provvedimenti
inibitori a sostegno della competenza arbitrale e reciproca fiducia tra i sistemi giurisdizionali degli Stati membri dell’Unione Europea, in questa Rivista, 2009, 245 ss.; PERILLO, Arbitrato comunitario e anti-suit injunctions nella sentenza West Tankers della Corte di Giustizia, DCI, 2009, 351 ss.; LEANDRO, La proposta per la riforma del regolamento « Bruxelles I »
e l’arbitrato, in Rivista di diritto internazionale, 2011, 177 ss.; CAFARI-PANICO, Jurisdiction
and applicable law in case of so-called pathological arbitration clauses in view of the proposed reform of the Brussels I Regulation, in FERRARI, KRÖLL (a cura di), Conflict of Laws in
International Arbitration, Munich, 2011, 81 ss. Per un contributo precedente dell’autore su
questo tema cfr. RADICATI DI BROZOLO, Choice of court and arbitration agreements and the review of the Brussels I Regulation, in IPRax, 2010, 121 ss. Cfr. anche JOSEPH, Choice of court
and arbitration agreements, II ed., London, 2010.
(2) COM(2010) 748 Final del 4 dicembre 2010.
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rose questioni aperte, ossia la prevenzione dei procedimenti paralleli (3). Nell’insieme, il nuovo art. 29(4) della Proposta sembra fornire
una soluzione funzionale, pur se di certo non unanimemente accolta,
come dimostra l’orientamento radicalmente negativo del Parlamento
Europeo (4).
In questa sede mi propongo di analizzare la Proposta alla luce
del dibattito che l’ha preceduta e delle alternative disponibili, sottolineandone le caratteristiche e le implicazioni più rilevanti sui rapporti tra l’arbitrato e il Regolamento e, più in generale, con il diritto
dell’Unione.
2. Attualmente gli Stati, compresi quelli membri dell’Unione
europea, godono di ampia autonomia nella disciplina dell’arbitrato (5). Lo strumento internazionale più importante in questo settore,
la Convenzione di New York del 1958, in vigore in tutti gli Stati
membri, non disciplina in modo completo l’arbitrato e il contenzioso
ad esso inerente, e pertanto molti aspetti rimangono soggetti agli ordinamenti nazionali. La Convenzione non contiene neppure una precisa definizione di convenzione arbitrale, né tantomeno ne disciplina
le condizioni di validità. Allo stesso tempo, l’arbitrato è stato escluso
dal campo degli interventi di armonizzazione nell’Unione Europea.
Pertanto tutte le questioni relative all’arbitrato vengono risolte dai
(3) Per una prima analisi della proposta cfr. ILLMER, Brussels I revisited - The European Commission’s Proposal COM(2010) 748 final, in corso di pubblicazione in Rabels Zeitschrift, 2011.
(4) Cfr. la bozza di rapporto del Comitato degli affari giuridici (rel. T. Zwiefka)
2010/0383 (COD), http://www.contentieux-international.net/offres/file_inline_src/358/
358_A_4254_17.pdf che boccia radicalmente la Proposta richiedendo in particolare il ritiro
del considerando 20 e dell’art. 29(4) di cui si dirà più avanti, e l’ampliamento del considerando 11 (vedi infra, nota 25). Cfr. anche la precedente Risoluzione del 7 settembre 2010
(2009/2140(INI)), para. 9-10.
(5) Per un’analisi comparativa della normativa in tema di arbitrato nei diversi ordinamenti giuridici si vedano POUDRET, BESSON, Comparative Law of International Arbitration,
II ed., London, 2007; BORN, International Commercial Arbitration, 2009; BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario al diritto dell’arbitrato nazionale e internazionale,
Padova, 2010, 529 ss. Per ulteriori considerazioni dell’autore sulle implicazioni delle relazioni tra arbitrato e ordinamenti giuridici nazionali si veda RADICATI DI BROZOLO, The Impact
of National Law and Courts on International Commercial Arbitration (Mythology, physiology
pathology, remedies and trends), in Cahiers de l’arbitrage/The Paris J. of Int’l Arb., 2011;
RADICATI DI BROZOLO, The control system of arbitral awards: a pro-arbitration critique of Michael Riesman’s “Normative architecture of international commercial arbitration”, in corso
di pubblicazione in ICCA Congress Series, 50th Anniversary Conference, 2011; BENEDETTELLI,
RADICATI DI BROZOLO, L’Italia e l’arbitrato internazionale, in Corr. giur., 2011/1, 136 ss.
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tribunali degli Stati membri applicando i rispettivi diritti nazionali e
la Convenzione di New York, a prescindere da come esse vengono
regolate in altri ordinamenti. Inoltre, data l’assenza di un meccanismo uniforme per l’applicazione della Convenzione di New York,
può avvenire in concreto che i diversi Stati interpretino e applichino
la Convenzione in maniera difforme. La convergenza degli atteggiamenti dei singoli diritti nazionali in tema di arbitrato non ha fino ad
oggi eliminato ogni differenza fra le discipline del fenomeno negli
Stati membri.
La libertà di cui gli Stati godono nel disciplinare l’arbitrato, e
in particolare le convenzioni arbitrali, i lodi e le sentenze relative all’arbitrato, ha consentito una forte concorrenza tra ordinamenti, che
ha contribuito al progresso dell’arbitrato, in special modo negli Stati
membri. Tuttavia, neppure nell’Unione Europea ciò ha eliminato le
differenze ed i relativi rischi di soluzioni divergenti e quindi di procedimenti paralleli e di decisioni incompatibili in relazione ad un
medesimo arbitrato.
Finora tali problematiche sono rimaste escluse dal campo di
applicazione del regime di Bruxelles sulla giurisdizione e sulla circolazione delle decisioni (prima la Convenzione di Bruxelles del
1968, e attualmente il Regolamento) in virtù dell’esclusione dell’arbitrato prevista all’art. 1(2)(d). Tale esclusione era dovuta in parte al
fatto che l’arbitrato era oggetto della Convenzione di New York e
della Convenzione Europea sull’Arbitrato Commerciale Internazionale del 1961, tuttavia entrambe inidonee a regolare tali conflitti, e
che era destinato ad essere disciplinato da uno strumento ad hoc di
armonizzazione internazionale mai entrato in vigore (6). Tale esclusione può indicare una consapevolezza fin dall’origine dell’impossibilità di disciplinare l’arbitrato con uno strumento ideato per la giurisdizione e il riconoscimento delle sentenze, data la mancanza di
omogeneità tra le due situazioni (7).
A prescindere dalle ragioni dell’esclusione, vale la pena segnalare i conflitti che ne possono derivare.
Per quanto attiene alla giurisdizione, la mancanza di criteri di
competenza giurisdizionale armonizzati per i procedimenti relativi
(6) Convenzione europea che istituisce una legge uniforme sull’arbitrato, Strasburgo,
20 Gennaio 1966, in European Treaty Series, No. 56.
(7) Si vedano anche le Relazioni Schlosser e Jenard alla Convenzione di Bruxelles,
entrambe in GUCE 1979, C-59.
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all’arbitrato comporta un’incertezza di fondo in merito a quali giudici all’interno dell’Unione abbiano giurisdizione in relazione ai diversi tipi di procedimento suscettibili di essere portati innanzi ad un
giudice nazionale riguardo ad una determinata convenzione o procedimento arbitrale. Questi includono procedimenti in tema di provvedimenti a sostegno all’arbitrato (nomina, sostituzione o ricusazione
degli arbitri, ordinanze istruttorie o misure cautelari) e quelli in tema
di validità degli accordi arbitrali e dei lodi (principalmente i procedimenti di impugnazione). Unitamente all’assenza di una regola generale nell’Unione in tema di litispendenza applicabile ai procedimenti in materia di arbitrato, ciò comporta il rischio di procedimenti
concorrenti nei diversi Stati membri in queste materie, con il conseguente rischio di giudicati contrastanti.
Tra l’altro l’assenza di criteri giurisdizionali, e più specificamente di un’armonizzazione delle regole sulla KompetenzKompetenz, consente la pendenza contemporanea innanzi agli arbitri
e ai tribunali nazionali di procedimenti in tema di validità di una
convenzione arbitrale e sul merito di una data controversia, con conseguente rischio di contrasto tra un lodo e una sentenza di uno Stato
membro. Il lodo dovrà essere riconosciuto negli Stati membri ai
sensi della Convenzione di New York, mentre la sentenza circolerà
liberamente ai sensi del Regolamento.
Quanto alle sentenze, l’inapplicabilità del regime di Bruxelles
all’arbitrato comporta che gli Stati membri non sono tenuti a riconoscere le sentenze di altri Stati membri sulla validità o delle convenzioni arbitrali e dei lodi. Considerata la discrezionalità di cui gli Stati
godono nel determinare i criteri per il riconoscimento e l’esecuzione
anche ai sensi della Convenzione di New York (8), un lodo potrebbe
essere trattato in modo diverso nei vari Stati membri.
Si discute poi se, ai sensi del Regolamento, in sentenze di merito rese in uno Stato membro nell’inosservanza (o, più precisamente, in asserita inosservanza) di una convenzione arbitrale debbano essere riconosciute negli altri Stati membri. Ci si chiede inoltre
se l’obbligo di riconoscere le sentenze ai sensi del Regolamento
valga anche per quelle contrastanti con un lodo reso nello Stato in
cui si richiede il riconoscimento o in esso riconosciuto ai sensi della
Convenzione di New York.
(8 )
Si veda RADICATI
DI
BROZOLO, The control system of arbitral awards, cit.
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3. Finora tale situazione non ha in concreto causato problemi
significativi e per molto tempo le questioni problematiche insorte
sono state affrontate senza particolari difficoltà dalla Corte di Giustizia (9).
Più di recente si sono verificati alcuni noti conflitti intra-Unione
in materia di arbitrato. È interessante che alcuni di questi hanno
coinvolto i due Stati membri nei quali è forse più accentuato il favor
per l’arbitrato, cioè l’Inghilterra e la Francia.
Tra i più noti merita ricordare i casi Putrabali (10) e Cytec c.
SNF (11), in cui sono stati riconosciuti in Francia lodi annullati rispettivamente dai giudici inglesi e belgi; West Tankers e casi simili
in cui le corti inglesi hanno ordinato di porre fine a procedimenti instaurati innanzi a giudici di altri Stati membri in asserita inosservanza di una convenzione arbitrale (12); il caso Fincantieri (13) in cui
(9) Si vedano Corte di giustizia, 17 novembre 1998, C-391/95, Van Uden Maritime
BV v. Kommanditgesellschaft in Firma Deco-Line, in questa Rivista, 1999, 324 ss. e Corte di
giustizia, 25 luglio 1991, C-190/89, March Rich & Co. v. Impianti, in questa Rivista, 1992,
111 ss. Merita di essere menzionata anche Corte di giustizia, 1 giugno 1999, C-126/97, Eco
Swiss v. Benetton (sulla quale RADICATI DI BROZOLO, Arbitrato, diritto della concorrenza, diritto comunitario e regole di procedura nazionali, in questa Rivista, 1999, 665 ss.) che non
riguarda il funzionamento dello spazio giudiziario comune, ma può comunque avere un impatto sulle relazioni tra giudici e arbitrato, posto che stabilisce l’obbligo per i giudici degli
Stati membri investiti dell’impugnazione o del riconoscimento di lodi di considerare il diritto
europeo della concorrenza come componente dell’ordine pubblico. Si vedano anche le sentenze menzionate infra alla nota 65. Le sentenze che negano agli arbitri la possibilità di proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (la prima fra cui è la nota sentenza, 23
marzo 1982, C-102/81, Nordsee v. Reederei) non sono direttamente rilevanti ai fini del presente discorso.
(10) Cour de cassation francese, 29 giugno 2007, Société PT Putrabali Adyamulia v.
Société Rena Holding, in Rev. arb., 2007, 507 ss. con nota di GAILLARD, e in JDI, 2007, 1236
con nota di CLAY.
(11) Cour de cassation francese, 4 giugno 2008, SNF v. Cytec, in Rev. arb., 2008, 473
e ss. con nota di FADLALLAH; Tribunal de première instance Bruxelles, 8 marzo 2007, SNF v.
Cytec, in Rev. arb., 2007, 303 ss.; Cour d’appel de Bruxelles, 22 giugno 2009, Cytec v. SNF,
in Cahiers de l’arbitrage/Paris J. Int’l Arb., 2010, 1818 ss. con nota di RADICATI DI BROZOLO.
(12) West Tankers Inc. v. RAS Riunione Adriatica di Sicurtà S.p.a., Generali Assicurazioni Generali S.p.a. (« The Front Comor »), [2005] EWHC 454 (Comm); West Tankers
Inc. v. RAS Riunione Adriatica di Sicurtà S.p.a., [2007] UKHL 4. Sul rinvio pregiudiziale
della House of Lords, la Corte di giustizia ha reso la nota sentenza 10 febbraio 2009, C-185/
07, Allianz S.p.a. e Generali Assicurazioni generali S.p.a., in questa Rivista, 2009, 67 ss. Per
il momento l’ultimo atto della saga di questo procedimento è West Tankers v. Allianz s.p.a.
and Generali Assicurazioni s.p.a. [2011] EWHC 829 (Comm), per un commento preliminare
alla quale cfr. DAVIES, “Whereto now, the Italian Torpedo”, disponibile in Kluwerarbitrationblog, 16 maggio 2011.
(13) Cour d’appel Parigi, 15 giugno 2006, Legal Department du Ministère de la Ju-
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i giudici francesi hanno rifiutato il riconoscimento di una sentenza
italiana che non aveva riconosciuto la validità di una convenzione
arbitrale (14); il caso National Navigation in cui le corti inglesi hanno
raggiunto la conclusione opposta, ritenendo il Regolamento applicabile al riconoscimento di una sentenza di uno Stato membro, anche
se resa in apparente inosservanza di una convenzione arbitrale (15).
Di recente è venuto ad aggiungersi il già famoso caso Dallah in cui
i giudici inglesi e francesi si sono pronunciati in maniera nettamente
contrastante sugli effetti di una convenzione arbitrale nei confronti di
un non firmatario, giungendosi alla conferma della validità del lodo
da parte della Corte d’appello di Parigi (16), e al rifiuto di esecuzione
in Inghilterra (17). Un ulteriore caso è Yukos v. Rosnef che, per quanto
qui rileva, solleva la questione dell’efficacia per i giudici di uno
Stato membro (in specie quelli inglesi) di alcune statuizioni di una
sentenza di un altro Stato membro che ha dichiarato eseguibile un
lodo annullato nel paese di origine (18). A questa lista si è appena aggiunto un caso relativo alla possibilità di riconoscere in Inghilterra
un lodo malgrado la pendenza in Spagna di un procedimento sulla
stice de la Rèpublique d’Irak v. Fincantieri Cantieri Navali Italiani et alii, in Rev. arb., 2007,
90 ss. con nota di BOLLÉE; Corte d’appello Genova, 7 maggio 1994, Soc. Fincantieri v. Gov.
Iraq, in questa Rivista, 1994, 505 ss. con nota di LA CHINA.
(14) La stessa soluzione è stata confermata dalle sentenze Banque FrancoTunisienne, in Lloyd’s Laws Reports, 1996, 485 ss. e National Navigation v. Endesa Generacion SA, [2009] EWHC 196 (Comm).
(15) National Navigation v. Endesa Generacion SA [2009] EWCA 1397 in cui la
Court of Appeal ha rigettato, inter alia, l’idea che una sentenza che non riconosce gli effetti
di una convenzione arbitrale ritenuta applicabile al caso sarebbe contraria all’ordine pubblico
ai sensi dell’art. 33 del Regolamento, che è ovviamente in linea con l’art. 35(3). Cfr. anche
Bundesgerichtshof, 5 febbraio 2009, IX ZB 89/06, in IPRax, 2009, 428 ss., secondo cui la
sentenza di uno Stato membro che ordina l’emissione di una garanzia bancaria a fronte di
una decisione di un tribunale arbitrale non ricade per questo solo motivo fuori dall’ambito di
applicazione del Regolamento.
(16) Corte d’appello Parigi, 17 febbraio 2011, Gouvernement du Pakistan v. Société
Dallah Real Estate & Tourism Holding Co, in Cahiers de l’arbitrage/Paris J. of Int’l Arb.,
2011.
(17) Dallah Real Estate and Tourism Holding Company v. The Ministry of Religious
Affairs, Government of Pakistan, [2010] UKSC 46. Si veda BORN, Dallah and the New York
Convention, in Kluwerarbitrationblog, 7 aprile 2011; KHANNA, Dallah: The Supreme Court’s
Positively Pro-Arbitration No to Enforcement, in J. Int’l arb., 2001, 127 ss.
(18) Cfr. Appello Amsterdam, 28 aprile 2009, Rev. arb., 2009, 557 ss. (confermata
da Corte di Cassazione dei Paesi Bassi, 25 giugno 2010, in Yearbook of Commercial Arbitration, 2010, 423 ss.) e Yukos Capital v. OJSC Rosnef Oil Company [2011] EWHC 1461
(Comm), sulle quali cfr. RADICATI DI BROZOLO, The control system, cit. § D.3.
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validità del contratto e sull’esistenza della relativa clausola arbitrale) (19).
A prescindere dalla frequenza in concreto di siffatti conflitti,
nella prospettiva del diritto dell’Unione tale situazione può apparire
un’anomalia inaccettabile, suscettibile di ingenerare caos e di scontrarsi con l’ordine elegante e rigoroso perseguito dal Regolamento e
con l’ideale di uno spazio giudiziario. Non sorprende quindi che la
Commissione abbia cominciato ad interessarsi al tema, probabilmente anche sulla spinta di una velata diffidenza verso l’arbitrato. Il
problema fu affrontato a fondo nel Rapporto di Heidelberg, redatto
su impulso della Commissione Europea, che si espresse in favore
della netta soppressione dell’esclusione dell’arbitrato dal campo di
applicazione del Regolamento (20). Al Rapporto di Heidelberg si è
poi a sua volta ispirato il Libro Verde della Commissione e il relativo Rapporto, che hanno avanzato diverse proposte asseritamente
volte “ad assicurare un’agevole circolazione delle sentenze in Europa e a prevenire procedimenti paralleli” (21).
Il rapporto di Heidelberg e il Libro Verde hanno provocato reazioni contrastanti, talvolta anche assai ostili. Il dibattito è stato ulteriormente esacerbato dalla sentenza West Tankers (22) della Corte di
giustizia che ha proibito l’uso delle anti-suit injunctions a sostegno
dell’arbitrato. La soluzione ritenuta dalla Corte in tale sentenza era
prevedibile e perfettamente logica alla luce dello spirito del Regolamento e del sottostante principio di fiducia reciproca, in armonia con
quanto già deciso nelle sentenze Gasser e Turner (23). Ciononostante, in alcuni ambienti, e particolarmente in Inghilterra, tale sentenza è stata considerata quasi una tragedia e frutto di un pregiudizio
nei confronti dell’arbitrato che, indebolendo uno strumento caro agli
avvocati e giudici inglesi, rischia di favorire le interferenze con l’arbitrato (i famigerati Italian torpedoes), procedimenti paralleli e decisioni contrastanti.
(19) Sovarex S.A. v. Romero Alvarez, [2011] EWHC 1661 (Comm), 22 giugno 2011.
(20) HESS, PFEIFFER, SCHLOSSER, Report on the Application of the Regulation Brussels
I in the Member States, Studio JLS/CA/2005/03, 49 ss.
(21) COM (2009) 175 final.
(22) Supra, nota 12.
(23) Corte di giustizia, 9 dicembre 2003, C-116/02, Gasser GmbH v. MISAT Srl;
Corte di giustizia, 27 aprile 2004, C-159/02, Turner v. Grovit.
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4. In linea di principio queste problematiche sono suscettibili
di soluzioni diverse, tutte già ampiamente discusse negli ultimi anni (24). Per valutare la Proposta è utile passarle in rassegna brevemente.
4.1. Una prima soluzione sarebbe la pura e semplice abolizione della clausola di esclusione dell’arbitrato dell’art. 1(2)(d) del
Regolamento, che dovrebbe in sostanza comportare la riconduzione
di tutti i procedimenti e le sentenze relativi all’arbitrato nell’ambito
di applicazione del Regolamento. Tuttavia, date le peculiarità dell’arbitrato, la mancanza di una disciplina uniforme negli ordinamenti
degli Stati membri e il fatto che il Regolamento è stato concepito per
disciplinare i procedimenti giudiziari e non l’arbitrato, la mera abolizione della clausola di esclusione dell’arbitrato è impraticabile se
non accompagnata dall’adozione di nuove regole per le questioni
specifiche che solleva l’arbitrato. Anche per questo tale soluzione
non è stata mai seriamente proposta in questa forma più semplice ed
è quindi solitamente considerata nel contesto di innovazioni di più
ampia portata, di cui si dirà tra un momento.
4.2. La soluzione diametralmente opposta consisterebbe in un
ulteriore ampliamento dell’esclusione dell’art. 1(2)(d) al punto di ribaltare la decisione West Tankers e di reintrodurre il potere dei giudici degli Stati membri di emettere anti-suit injunctions a tutela dell’arbitrato e di rifiutare il riconoscimento di sentenze rese in asserita
inosservanza di una convenzione arbitrale. Come facilmente intuibile, questa posizione, fatta propria anche dal Parlamento Europeo (25), gode di particolare favore negli ambienti inglesi, preoccu-
(24) Per un’analisi di alcune delle opzioni dalla prospettiva della Commissione Europea si veda Commission’s Impact Assessment of the proposal for the review of Regulation
44/2001 (SEC(2010)), 1547.
(25) La bozza di rapporto citata alla nota 4 prevede che l’attuale considerando 11 sia
completato con la seguente frase: « The whole matter of arbitration should be excluded from
the scope of this Regulation. Consequently, this Regulation does not apply to any dispute, litigation or application which the parties have subjected to an arbitration agreement or settlement or which relates to arbitration by virtue of an international treaty. Likewise, this Regulation does not apply to any dispute or decision concerning the existence or validity of an
arbitration agreement or settlement, or to any provisional or preventive measure adopted in
the context of a dispute, litigation or application which the parties have subjected to an ar-
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pati dagli effetti della soppressione delle anti-suit injunctions sul
ruolo della piazza arbitrale di Londra.
Una tale soluzione pare inaccettabile per la sua inconciliabilità
con il principio della fiducia reciproca tra i giudici degli Stati membri, su cui è imperniato l’intero sistema del Regolamento, come confermato dalla Corte di giustizia nella sentenza West Tankers (26), oltre che per motivi di principio. In particolare, poiché in sostanza solo
i giudici inglesi dispongono dello strumento delle anti-suit injunctions, consentirne l’utilizzo significherebbe condonare un atteggiamento sostanzialmente imperialistico e condiscendente dei giudici di
uno Stato membro i quali verrebbero ad arrogarsi il potere di decidere, secondo la propria legge, se i giudici stranieri o le parti si conformino alle regole in tema di arbitrato e rispettino in buona fede le
convenzioni arbitrali.
Nelle discussioni sul tema, in cui vengono a cuor leggero
mosse accuse di interferenza abusiva con l’arbitrato, si trascura talvolta che, in assenza di criteri superiori e oggettivi vincolanti per
tutti gli Stati per valutare la validità e gli effetti delle convenzioni arbitrali, non sempre il ricorso ad un giudice in presenza di un’asserita
convenzione arbitrale deve ritenersi abusivo. Possono infatti verificarsi casi in cui l’applicazione di leggi e concezioni differenti in materia di arbitrato da parte dei giudici degli Stati membri è atta a condurre a soluzioni diverse in ordine alle medesime situazioni, ivi
comprese l’esistenza, la validità e gli effetti di una data convenzione
arbitrale. Pertanto, il ricorso al giudice da parte di un soggetto che
potrebbe essere considerato vincolato da una convenzione arbitrale
ed il rigetto dell’eventuale eccezione di arbitrato sollevata dalla sua
controparte non sono necessariamente frutto di tattiche processuali di
mala fede o prova della disponibilità del giudice ad ammettere tattiche del genere, né di una mancata comprensione dell’arbitrato. In
una medesima situazione, una visione più progressista dell’arbitrato
potrebbe condurre a rinvenire una convenzione arbitrale valida ed
efficace laddove, invece, una visione più tradizionale potrebbe arribitration agreement or settlement or which relates to arbitration by virtue of an international treaty ».
(26) Si veda la citata sentenza West Tankers, punto 30. In tale sentenza la Corte ha
fatto un riferimento palesemente errato all’art. II(3) della Convenzione di New York a sostegno della propria decisione sull’esistenza di un divieto per gli Stati diversi da quello in cui
la validità della convenzione di arbitrato è contestata di ordinare anti-suit injunctions a sostegno dell’arbitrato.
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vare al risultato opposto. L’approccio più progressista potrebbe far
leva sulla necessità di dare effetto alla volontà delle parti e alle esigenze del commercio internazionale, mentre quello più tradizionale
potrebbe fondarsi sulla necessità di disporre di una prova sicura del
consenso all’arbitrato, o sull’inarbitrabilità di alcune tipologie di
controversie. In un simile contesto è pura arroganza voler liquidare
come attacco inaccettabile all’arbitrato l’approccio più cauto di alcuni ordinamenti o l’instaurazione di un’azione giudiziale in presenza di una convenzione arbitrale della cui efficacia in casu si può
dubitare.
La possibilità che una medesima situazione venga valutata in
modo diverso dalla prospettiva di ordinamenti diversi emerge in
modo chiaro dal caso Dallah (27), con la particolarità che in quel
caso sembrano essere stati i giudici inglesi a dimostrarsi poco favorevoli all’arbitrato, almeno nella prospettiva dei giudici di un altro
Stato membro. In uno strano rovesciamento dei ruoli, i giudici inglesi si sono rivelati più conservatori e meno filo-arbitrali rispetto ai
loro colleghi francesi, in quanto hanno adottato una soluzione in
tema di validità della convenzione arbitrale che, dal punto di vista
dell’ancora più avanzato sistema francese, appare formalistica ed errata e in definitiva sfavorevole all’arbitrato.
Alla luce di ciò, la libertà di ricorrere alle anti-suit injunctions
rischia di dar vita a seri conflitti, in particolare ove i giudici di altri
Stati membri ricorressero anch’essi a strumenti simili, o addirittura a
counter-anti-suit injunctions volte ad ottenere il risultato opposto (28). Anche a questo proposito il caso Dallah fa riflettere. Si immagini infatti una situazione in parte diversa ma con i medesimi dati
di fatto di partenza, in cui il Ministero degli Affari Religiosi, che i
giudici inglesi hanno ritenuto non vincolato dalla convenzione arbitrale, avesse instaurato un giudizio di merito in Inghilterra. In tal
caso, sarebbero stati i giudici francesi ad avere il potere di ricorrere
(27) Si veda, supra note 16 e 17.
(28) Il fatto che i giudici inglesi affermino la necessità di un atteggiamento prudente
nell’emanazione di anti-suit injunctions (JOSEPH, Choice of court and arbitration agreements,
cit., 363 ss. e Excalibur Ventures v. Texas Keystone and others [2011] EWHC 1624 (Comm),
par. 55) non è sufficiente a risolvere il problema di principio inerente all’interferenza da parte
dei giudici di uno Stato membro nei confronti dell’esercizio della giurisdizione da parte dei
giudici di un altro Stato e il fatto che tali provvedimenti sottendono comunque sempre una
valutazione dell’operato dei giudici di altri Stati membri.
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all’anti-suit injunction, nell’ipotesi in cui avessero avuto a disposizione uno strumento del genere, e cosı̀ in una interessante nemesi
sarebbero stati i giudici inglesi gli indiretti destinatari di un ordine
che interferiva con la loro giurisdizione.
Per quanto si possa criticare la Proposta, una resurrezione del
potere dei giudici degli Stati membri di ricorrere alle anti-suit injunctions implicita nell’espansione della clausola di esclusione dell’arbitrato del Regolamento non può essere la soluzione di problemi in
gioco.
4.3. Una diversa soluzione, a suo tempo proposta nel Rapporto di Heidelberg e considerata nel Libro Verde, consiste nella cosiddetta abolizione parziale della clausola di esclusione dell’arbitrato
e nell’introduzione nel Regolamento di alcune regole specifiche per
disciplinare le questioni di giurisdizione e la circolazione delle decisioni collegate all’arbitrato.
Tale proposta ha costituito oggetto di ampio dibattito e non
merita soffermarvisi in questa sede. Come prospettata nel Libro
Verde, essa prevedeva l’adozione di una regola speciale attributiva di
giurisdizione al giudice dello Stato membro della sede dell’arbitrato
per i procedimenti a sostegno dell’arbitrato (in particolare nomina
degli arbitri e costituzione del tribunale arbitrale). Inoltre, sempre in
tema di giurisdizione, era prevista la priorità dei giudici dello Stato
della sede per decidere dell’esistenza, la validità e la portata della
convenzione arbitrale. A ciò si sarebbe accompagnata una regola di
conflitto di leggi uniforme in tema di validità della convenzione, che
la sottoponeva alla legge della sede. Era inoltre prevista l’estensione
all’arbitrato della regola sulle misure cautelari e l’inclusione nell’ambito di applicazione del Regolamento della circolazione delle
sentenze in tema di validità delle convenzioni arbitrali e di annullamento e riconoscimento dei lodi. Infine, la proposta avrebbe consentito di rifiutare l’esecuzione delle sentenze inconciliabili con un lodo
eseguibile ai sensi della Convenzione di New York o, in alternativa,
avrebbe conferito competenza esclusiva al giudice della sede per decidere l’eseguibilità del lodo.
In sostanza la proposta originaria avrebbe comportato modifiche sostanziali della disciplina dell’arbitrato attualmente vigente nei
diversi ordinamenti degli Stati membri e per questo è stata compren198
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sibilmente sottoposta a dura critica (29). Per menzionare solo alcune
delle più problematiche, essa avrebbe comportato la negazione della
Kompetenz-Kompetenz, che è probabilmente il principio più fondamentale del diritto dell’arbitrato (30), e avrebbe introdotto una regola
di conflitto di leggi che chiaramente sarebbe fuori luogo nel contesto
di uno strumento sulla giurisdizione e circolazione delle sentenze, ed
avrebbe precluso del tutto l’esecuzione dei lodi annullati (31).
Nel complesso, la proposta era dogmatica e ispirata da un’insufficiente comprensione delle peculiarità e delle necessità dell’arbitrato e delle differenze tra le legislazioni in tema di arbitrato dei diversi Stati membri, nonché delle complessità concettuali e pratiche a
queste sottostanti che non permettono che esse vengano cancellate
con un tratto di penna inadeguatamente ponderato del legislatore.
Pur se dichiaratamente ispirata al desiderio di favorire l’arbitrato (32)
e non semplicemente « for the sake of regulating arbitration » (33),
in sostanza la proposta avrebbe fatto esattamente ciò. Essa avrebbe
imposto dall’alto in maniera surrettizia una disciplina pervasiva dell’arbitrato che avrebbe prematuramente soffocato la libertà degli
Stati membri e la sana concorrenza tra i loro ordinamenti, con l’ulteriore complicazione di portare a situazioni in cui taluni Stati membri avrebbero potuto ritenersi in violazione dei propri obblighi ai
sensi della Convenzione di New York. Tutto ciò avrebbe compromesso l’acquis in materia di arbitrato di alcuni Stati membri che ha
contribuito al progresso dell’arbitrato ed è stato importante per il
ruolo dell’Unione come piazza arbitrale.
Alcuni suoi sostenitori tendevano a demonizzare le critiche
mosse all’originaria proposta della Commissione, dipingendole come
il frutto di un desiderio di proteggere la posizione di una lobby libertaria e plutocratica di professionisti dell’arbitrato. Critiche del genere
non tengono conto che l’arbitrato è uno strumento efficace di risoluzione delle controversie che non solo è molto apprezzato nei rapporti
(29) Cfr. tra i molti PINSOLLE, The proposed reform, cit.; RADICATI DI BROZOLO, Choice
of court and arbitration agreements, cit., 124 ss.
(30) Cfr. BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit., 591-593.
(31) Com’è noto, questa è una questione estremamente complessa, anche ricca di
implicazioni teoriche sulla natura dell’arbitrato internazionale: si veda, anche per la bibliografia essenziale, RADICATI DI BROZOLO, The control system of arbitral awards, cit.; BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit. 692-694.
(32) Questo era sicuramente lo spirito dell’iniziale proposta di VAN HOUTTE, Why not
include arbitration, cit., 517 e ss.
(33) Libro Verde, Sez. 7, para. I.
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commerciali ma che è anche considerato importante dagli stessi
Stati. Per via dell’incertezza a cui dava luogo e dell’impressione che
essa ingenerava sui danni che avrebbe potuto produrre sugli arbitrati
localizzati negli Stati membri, nel breve periodo tale proposta
avrebbe anche potuto pregiudicare il ruolo dell’Unione europea
come piazza arbitrale, a vantaggio delle sedi extra-Unione.
4.4. A fronte della difficoltà di disciplinare nel Regolamento
gli aspetti più controversi dell’arbitrato, vi è anche chi sostiene che
l’unica soluzione sia l’elaborazione di una disciplina complessiva
dell’arbitrato, da attuare mediante uno strumento di armonizzazione
ad hoc. Anche a prescindere dalla questione della base giuridica di
un intervento dell’Unione in questo campo, una tale idea è inattuabile a breve termine per un motivo importante. Come già detto, le
legislazioni, e forse ancor più le concezioni, in tema di arbitrato differiscono ancora in maniera significativa tra gli Stati membri, alcuni
dei quali per motivi diversi seguono posizioni più favorevoli all’arbitrato di altri. Allo stato attuale, ogni tentativo di armonizzazione
sarebbe destinato a fallire o, peggio, condurrebbe facilmente ad un
livello di armonizzazione ispirato a concezioni meno avanzate di
quelle prevalenti negli Stati membri con una concezione più aperta
in materia. Ne conseguirebbe una battuta d’arresto per l’arbitrato,
con effetti analoghi a quelli della proposta della Commissione sopra
menzionata, che non sarebbe certo controbilanciata dall’eliminazione
del rischio di soluzioni incompatibili dal quale ha preso l’avvio l’intero dibattito, anche perché tali situazioni sono comunque relativamente rare, come si è detto. L’alternativa di lasciare una certa flessibilità per consentire il ricorso a soluzioni più favorevoli all’arbitrato invece che l’imposizione di un regime rigido, secondo una delle
varianti del modello di armonizzazione europea, rischierebbe di non
essere risolutiva del problema delle soluzioni divergenti che è proprio quello che si dice di volere risolvere.
4.5. L’ultima opzione era ovviamente il mantenimento della
disciplina attuale. Questo orientamento era ispirato dalla convinzione
che i problemi che i sostenitori del cambiamento intendevano risolvere non erano sufficientemente seri da giustificare un intervento legislativo che si profilava comunque assai problematico date le difficoltà complessive della materia. Alla reticenza verso qualunque cam200
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biamento contribuiva anche il timore che la Commissione intendesse
seguire un approccio massimalista e che l’inclusione di regole sull’arbitrato nel Regolamento costituisse una sorta di cavallo di Troia
per ricondurre l’arbitrato nella competenza dell’Unione, con gli inconvenienti discussi sopra.
Molti dei sostenitori di questa posizione si resero conto presto
della sua inconciliabilità con l’agenda politica della Commissione
per la quale un intervento in tema di arbitrato sembra essere diventato un elemento essenziale e qualificante del processo di revisione
del Regolamento. Resisi conto di questa posizione, onde prevenire
interventi molto più incisivi vari fra gli oppositori iniziali dell’idea
di disciplinare l’arbitrato nel Regolamento hanno ritenuto di convertirsi ad un riformismo moderato che si trova riflesso nel lavoro del
Gruppo di esperti della Commissione.
5. A questo punto si può passare ad esaminare le disposizioni
in tema di arbitrato della Proposta.
5.1. L’obiettivo e la portata di tali disposizioni sono chiariti
nel nuovo considerando 20 ai sensi di cui “the effectiveness of arbitration agreements should [...] be improved in order to give full effect to the will of the parties” e ove si prevede l’introduzione di
“special rules aimed at avoiding parallel proceedings and abusive
litigation tactics” laddove la sede dell’arbitrato concordata o designata si trova in uno Stato membro.
Tale obiettivo viene conseguito essenzialmente tramite l’introduzione di una nuova disposizione, l’art. 29(4), che pone una regola
sulla litispendenza specifica per l’arbitrato il cui primo capoverso
cosı̀ dispone:
Where the agreed or designated seat of an arbitration is in a Member
State, the courts of another Member State whose jurisdiction is contested
on the basis of an arbitration agreement shall stay proceedings once the
courts of the Member State where the seat of the arbitration is located or
the arbitral tribunal have been seised of the proceedings to determine, as
their main object or as an incidental question, the existence, validity or
effects of that arbitration agreement (34).
(34) L’ultimo capoverso dell’art. 29(4) esclude l’applicazione delle disposizioni precedenti alle controversie riguardanti i contratti di assicurazione, di lavoro e dei consumatori.
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I due capoversi successivi stabiliscono, rispettivamente, che il
tribunale nazionale la cui giurisdizione è contestata ha facoltà di declinare immediatamente la propria giurisdizione, se cosı̀ previsto
dalla propria lex fori (35), ed è tenuta a farlo al momento dell’eventuale accertamento dell’esistenza, validità o effetti della convenzione
arbitrale (36).
Questa regola è integrata da una norma puramente strumentale
(l’art. 33(3)) che si limita a definire il momento in cui il tribunale arbitrale si ritiene adito al fine dell’accertamento della litispendenza (37), e che ha sostanzialmente la medesima portata dell’art. 33(1)
della Proposta con riferimento ai procedimenti giudiziali. Un ulteriore emendamento ancillare, e non controverso, è l’introduzione all’art. 36 (art. 31 del testo attuale) sulle misure cautelari di un riferimento che codifica la soluzione della sentenza Van Uden (38), la quale
riconosce ai giudici degli Stati membri il potere di concedere tali misure anche se il merito della controversia è soggetto ad arbitrato.
Per il resto, la Proposta mantiene l’esclusione dell’arbitrato dell’art. 1(2)(d), con la sola aggiunta di un riferimento alla nuova regola
sulla litispendenza e alle norme ad essa ancillari. Per eliminare ogni
dubbio, la portata dell’esclusione è precisata nel considerando 11, ai
sensi di cui il Regolamento “does not apply to the form, existence,
validity and effects of arbitration agreements, the powers of arbitrators, the procedure before arbitral tribunals, and the validity, annulment, and recognition and enforcement of arbitral awards” e che
rende espliciti i principi contenuti nelle Relazioni Schlosser e Jenard (39).
5.2. Complessivamente il nuovo art. 29(4) potrebbe rivelarsi
uno strumento efficace per evitare procedimenti paralleli e abusi, e
(35) Questo è notoriamente il caso della Francia (v. l’art. 1448 del Codice di procedura civile nel testo in vigore dal 1o maggio 2011).
(36) Anche se la terza frase dell’art. 29(4) nulla stabilisce in merito, l’unica interpretazione ragionevole è quella secondo cui la decisione sulla convenzione di arbitrato che impone alla corte adita di declinare la giurisdizione può provenire sia dal giudice della sede sia
dal tribunale arbitrale.
(37) Questo momento è definito come quello in cui una parte ha nominato un arbitro o ha richiesto il supporto di un’istituzione, autorità o giudice per la costituzione del tribunale.
(38) Cfr. supra, nota 9.
(39) Cfr. supra, nota 7.
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quindi per conseguire l’obiettivo più realistico che la Commissione
si è prefissa una volta abbandonato il progetto iniziale di egemonia
sull’arbitrato.
Tale obiettivo viene realizzato dall’art. 29(4) mediante l’imposizione al giudice investito di una controversia oggetto di convenzione arbitrale, se diverso da quello della sede, di un obbligo di sospendere il procedimento in presenza di un’eccezione d’arbitrato,
purché della questione dell’esistenza, validità o effetti della convenzione vengano investiti il giudice della sede o gli arbitri.
Va sottolineato che la nuova regola non amplia l’ambito di applicazione del Regolamento in relazione alle convenzioni arbitrali.
Già secondo la disciplina attuale la verifica della validità di una convenzione arbitrale sollevata in via incidentale in procedimenti disciplinati dal Regolamento (e quindi nel modo in cui il problema solitamente viene in evidenza) rientra nell’ambito di applicazione del
Regolamento. Tale principio è stato esplicitato dalla Corte di Giustizia nella sentenza West Tankers (40), ma esso non è che la specificazione di quello enunciato nella sentenza March Rich (41) secondo
cui, per stabilire se una controversia ricade nell’ambito di applicazione della Convenzione (ora del Regolamento), occorre fare riferimento all’oggetto principale del procedimento. Secondo la nuova regola, un giudice chiamato a decidere in via incidentale sulla validità
di una convenzione arbitrale perde il potere di decidere per primo su
tale questione se essa viene sottoposta al giudice della sede o ad un
tribunale arbitrale.
L’obbligo di sospensione sussiste solo se la sede si trova in uno
Stato membro. Tale limitazione è comprensibile, posto che la sospensione sottende una fiducia reciproca tra i giudici coinvolti in
considerazione del ruolo il più delle volte cruciale del giudice della
sede nella determinazione della validità della convenzione arbitrale.
Una fiducia siffatta non è necessariamente giustificata nei confronti
dei giudici di Stati terzi.
L’obbligo di sospensione sussiste inoltre soltanto se la sede in
uno Stato membro è “agreed or designated”. Come precisato al considerando 20, ciò significa in linea di massima che le parti devono
avere designato specificamente la sede in uno Stato membro, o che
(40) West Tankers, cit., punto 26. Su questo punto la Corte ha fatto riferimento alla
Relazione Evrigenis-Kerameus, in GUCE 1986, C-298, 1, punto 35.
(41) Cfr. supra nota 9, para. 26.
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la designazione sia avvenuta ad opera del tribunale arbitrale o di un
terzo scelto dalle parti (solitamente ai sensi di un regolamento arbitrale) (42) o da un giudice nazionale competente secondo la propria
legge a designare la sede dell’arbitrato in assenza di accordo delle
parti (43). Anche se in ipotesi marginali tale regola potrebbe impedire
il corretto funzionamento della disposizione sulla litispendenza, essa
evita per lo meno la soluzione contorta e fortemente contestabile per
l’identificazione della sede prevista nel Rapporto di Heidelberg (44).
In pratica, essa costituisce semplicemente un incentivo ulteriore per
le parti a fissare la sede fin dall’inizio.
L’obbligo di sospensione sorge non appena (“once”) il tribunale
arbitrale o il giudice della sede è stato adito (45). L’espressione sta ad
indicare il carattere obbligatorio della sospensione anche se il giudizio dinnanzi al giudice diverso da quello della sede è stato instaurato
preventivamente. La norma non fissa un termine per l’instaurazione
del giudizio davanti al giudice della sede o all’arbitro, ma è da ritenere che essa debba intervenire nei termini ordinari per la proposizione dell’eccezione di giurisdizione secondo la legge del giudice
adito, cosı̀ da garantire efficienza e prevedibilità e prevenire strategie
attendiste (46).
Come menzionato, tale meccanismo in sostanza scongiura il rischio di procedimenti paralleli ed abusivi e dovrebbe anche tranquillizzare chi riteneva indispensabili le anti-suit injunctions. Una parte
che fa affidamento su una convenzione arbitrale non dovrebbe più
temerne l’aggiramento mediante un ricorso abusivo ad un giudice
(42) Si veda ad esempio l’art. 16 delle LCIA Arbitration Rules; l’art. 14 delle ICC
Rules of Arbitration; l’art. 4 del Regolamento Arbitrale della Camera Arbitrale di Milano;
l’art. 16 delle Swiss Rules.
(43) Si veda ad esempio l’art. 816 c.p.c.; l’art. 1717(1) del Code Judiciaire Belge;
l’art. 1073(2) WBR.
(44) Cfr. supra nota 20, para. 125 e RADICATI DI BROZOLO, Choice of court and arbitration agreements, cit., 125.
(45) Come menzionato, tale momento è definito all’art. 33(3) della Proposta.
(46) Cfr. ILLMER, Brussels I Revisited, cit., para. C I 4 a). Il progetto di art. 29(4) non
fissa un termine per la decisione del giudice della sede sulla validità e gli effetti della convenzione di arbitrato, come fa invece il nuovo art. 29(2) della Proposta che si applica alla
litispendenza tra giudici e fissa un termine ultimo di sei mesi e prevede una consultazione tra
i giudici interessati se il termine non può essere rispettato. Se la soluzione fosse ritenuta praticabile e adottata per la litispendenza tra giudici, sarebbe ragionevole ipotizzare di estendere
la medesima regola anche laddove la validità della convenzione arbitrale è sottoposta al giudice della sede (in questo senso ILLMER, ibid., para. C I 4 c)). Peraltro se essa fosse estesa
anche al caso in cui della questione vengano investiti gli arbitri, si avrebbe l’introduzione di
una forma inusuale di comunicazione tra giudici e arbitri.
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nazionale, visto che essa avrebbe il potere di impedire che questo
eserciti la giurisdizione semplicemente iniziando l’arbitrato. A quel
punto spetterà alla parte che contesta la validità della convenzione o
la sua applicabilità nel caso di specie adire il giudice della sede se
non vuole lasciare che la questione venga risolta dal tribunale arbitrale.
Questa soluzione costituisce un compromesso soddisfacente tra
la proposta del Rapporto di Heidelberg, che sembrava imporre alla
parte che invoca la convenzione arbitrale un irragionevole obbligo di
adire in via preventiva il giudice della sede, e la soluzione forse
troppo marcatamente pro-arbitrato della prima proposta dottrinale,
che avrebbe devoluto la questione esclusivamente al tribunale arbitrale (47), attuando cosı̀ in pieno l’effetto negativo del principio Kompetenz-Kompetenz che ancora risulta inaccettabile alla maggior parte
degli Stati membri.
La soluzione della Proposta presuppone che il giudice della
sede abbia sempre giurisdizione in ordine alla validità e agli effetti
della convenzione arbitrale, il che non è però scontato. In effetti, la
questione sembrerebbe dover essere risolta secondo le regole in tema
di giurisdizione dello Stato membro interessato, non essendo i criteri
di giurisdizione in materia di arbitrato disciplinati dal Regolamento
per via dell’eccezione di arbitrato e non potendosi interpretare la regola sulla litispendenza dell’art. 29(4) come volta a conferire giurisdizione ai tribunali della sede. Poiché si potrebbe sostenere che la
sede dell’arbitrato coincide con il luogo di esecuzione della convenzione arbitrale, essa potrebbe rivelarsi un criterio di collegamento
giurisdizionale sufficiente secondo la maggior parte delle leggi degli
Stati membri (48). Se, però, in un caso specifico il giudice della sede
non dovesse ritenersi competente secondo le proprie regole, l’art.
29(4) sembrerebbe imporre di deferire la decisione al solo tribunale
arbitrale.
Ciò detto, innanzi al giudice della sede la parte che contesta
l’arbitrato (ossia l’attore originario di fronte al giudice dello Stato
membro diverso da quello in cui è localizzata la sede) proporrà
(47) VAN HOUTTE, Why not include arbitration, cit., 520 ss.
(48) Il fatto che nella maggior parte dei diritti nazionali il giudice della sede abbia
giurisdizione sulle azioni di annullamento non significa necessariamente che esso abbia anche giurisdizione sulla validità delle convenzioni di arbitrato in assenza di giurisdizione sul
merito: cfr. POUDRET, BESSON, supra nota 5; BORN, supra nota 5; RADICATI DI BROZOLO, The impact of national law and courts, cit.
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un’azione di accertamento negativa sull’applicabilità della convenzione arbitrale. Questa sarà probabilmente l’unica opzione disponibile alla luce della regola ordinaria sulla litispendenza tra procedimenti giudiziali (art. 29(1) della Proposta, e art. 27(1) del testo attuale), la quale impedirà al giudice della sede di giudicare nel merito
essendo stato adito successivamente al giudice del paese diverso
dalla sede inizialmente investito della controversia. Anche se fosse
dichiarata l’invalidità della convenzione arbitrale, il procedimento di
merito innanzi al giudice della sede sarà possibile solo se il primo
procedimento è stato interrotto o se il giudice adito per primo ha declinato la giurisdizione. Inoltre, il giudice della sede sarà spesso carente di giurisdizione sul merito ai sensi del Regolamento allorquando la sede è stata scelta per la sua neutralità rispetto alla controversia.
La possibilità in concreto di instaurare un procedimento sulla
validità e sugli effetti della convenzione arbitrale di fronte ai giudici
della sede una volta avviato l’arbitrato dipenderà dalla legge dello
Stato membro interessato. Ciò è dovuto al fatto che il Regolamento
disciplina esclusivamente i conflitti tra tribunali statali, con la conseguenza che i conflitti tra arbitrato e tribunali della sede rimangono
fuori dal suo campo di applicazione e ricadono sotto la lex arbitri.
Tale legge può, ad esempio, permettere che entrambi i procedimenti
proseguano in parallelo o può richiedere al giudice di sospendere il
procedimento (o declinare la giurisdizione) se l’arbitrato era già pendente quando esso è stato adito (49). La combinazione di tali fattori
può creare ostacoli significativi alla parte intenzionata a paralizzare
il ricorso all’arbitrato.
Una volta che il tribunale arbitrale e il giudice della sede (o anche entrambe) sono stati aditi, il giudice dell’altro Stato è tenuto a
sospendere il procedimento e ad attendere la decisione sull’esistenza
o la validità e gli effetti della convenzione arbitrale. Se la domanda
sulla validità è accolta, tale giudice deve declinare la giurisdizione,
come richiesto dal terzo capoverso dell’art. 29(4) (50). Il secondo capoverso dell’art. 29(4) permette al giudice diverso da quello della
(49)
Per un’analisi dei diversi approcci dei diritti nazionali alla questione cfr. BENEBROZOLO, Commentario, cit. 777 ss.
(50) Se il giudice della sede dovesse successivamente ritenere non valida la convenzione in sede di impugnazione del lodo (il che si verificherebbe di norma solo se la decisione
sulla validità della convenzione di arbitrato fosse adottata dagli arbitri), il giudice primo adito
ritornerebbe libero di esercitare la giurisdizione.
DETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI
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sede di dichiararsi incompetente non appena la giurisdizione ne
viene contestata in virtù della convenzione arbitrale, se la sua legge
cosı̀ prescrive, come avviene per esempio in Francia (51).
Se, invece, la convenzione arbitrale non è ritenuta valida ed efficace dal giudice della sede, il procedimento di merito di fronte al
giudice originariamente investito può essere riassunto. Tuttavia,
come si dirà più avanti (52), l’inapplicabilità del Regolamento al riconoscimento delle sentenze in tema di arbitrato fa sı̀ che, in caso di
riassunzione del procedimento di fronte al giudice originario a seguito della decisione negativa sulla convenzione arbitrale, quest’ultima potrà comunque essere considerata idonea a fondare un’eccezione di arbitrato.
5.3. La tutela della convenzione arbitrale perseguita dall’art.
29(4) si sarebbe potuta in linea di massima realizzare anche tramite
una regola simile all’attuale art. 23 sulla scelta del foro (e del suo
omologo per la convenzione arbitrale, ossia l’art. II della Convenzione di New York), combinata con l’equivalente del nuovo art.
32(2) che in caso di litispendenza conferisce priorità al giudice
scelto. Tale soluzione avrebbe avuto il vantaggio di prevenire l’esercizio della giurisdizione di un giudice di uno Stato membro in violazione della convenzione arbitrale semplicemente invocando quest’ultima.
In base all’art. 29(4), invece, l’invocazione della convenzione
arbitrale non è sufficiente, in quanto la parte che si avvale della convenzione e vuole evitare il giudizio nello Stato nel quale è convenuta, è quasi obbligata ad iniziare un altro procedimento. Essa potrebbe instaurare un arbitrato, ma ciò potrebbe non essere conveniente, anche semplicemente sotto il profilo dei costi, se non ha domande nei confronti dell’attore (53). In tal caso potrebbe essere più
(51) Cfr. l’art. 1448 (1) del Codice di procedura civile francese.
(52) Cfr. infra sezione 7.2. a).
(53) Sebbene la lettera dell’art. 29(4) paia richiedere che il procedimento di fronte
agli arbitri abbia “come oggetto principale o come questione incidentale, l’esistenza, la validità ed effetti” della convenzione arbitrale, una lettura ragionevole della disposizione non richiederebbe che l’attore in arbitrato sollevi esso stesso tali questioni, dato che esse sarebbero
normalmente sollevate dal convenuto (ossia l’attore nel procedimento di fronte al giudice
adito per primo). Né tantomeno si potrebbe ragionevolmente sostenere che, se il convenuto
non eccepisce la giurisdizione degli arbitri nel procedimento arbitrale verrebbe meno l’obbligo di sospensione previsto dall’art. 29(4).
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semplice per essa iniziare un’azione di accertamento dell’esistenza,
validità o ambito di applicazione della convenzione arbitrale innanzi
al giudice della sede, fermo restando che se è convinta dell’accoglimento della propria eccezione da parte del giudice adito nel merito,
essa conserva l’opzione che ha oggi (quando è l’unica opzione), ossia quella di difendersi di fronte ad esso. Ovviamente, però, se la sua
eccezione non viene accolta da tale giudice, essa rischia una sentenza di merito che sarà in linea di massima eseguibile ai sensi del
Regolamento (54).
La regola sulla litispendenza dell’art. 29(4) è ritenuta invece
avere, rispetto all’altra soluzione, il vantaggio di non richiedere
l’adozione di regole in tema di validità ed effetti della convenzione
arbitrale, analoghe a quelle che figurano all’attuale art. 23 sulla
scelta del foro e all’art. II della Convenzione di New York. L’inserimento di regole siffatte nel Regolamento comporterebbe una qualche
armonizzazione dei principi in tema di convenzioni arbitrali, che variano considerevolmente da uno Stato all’altro (55) con una conseguente riduzione della libertà dei singoli Stati membri sul punto.
Inoltre, l’inserimento di tali regole inevitabilmente permetterebbe e
addirittura favorirebbe rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia in
materia di interpretazione dei requisiti sostanziali e formali della
convenzione arbitrale (56). Ciò sarebbe antitetico rispetto all’intenzione di non disciplinare l’arbitrato nel Regolamento chiaramente
riaffermata al considerando 11 sull’inapplicabilità alla forma, esistenza, validità ed effetti della convenzione arbitrale. Il timore è ovviamente che qualsiasi tentativo di armonizzazione o intervento della
Corte intacchi le concezioni più liberali in tema di nozione ed effetti
di tali convenzioni, ritenute elementi qualificanti del diritto dell’arbitrato di alcuni Stati membri aventi un ruolo preminente nel mondo
dell’arbitrato internazionale.
In base al meccanismo dell’art. 29(4) è la semplice proposizione di un’eccezione di arbitrato, unita all’instaurazione di un procedimento sulla validità della convenzione arbitrale innanzi al giu(54) Cfr. infra, sezione 7.2. d).
(55) Per una visione d’insieme cfr. BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit., 581 ss.
(56) Come quelle che hanno portato alle sentenze della Corte di Giustizia sulla forma
delle clausole di selezione del foro: 13 luglio 2000, C-412/98, Group Josi v. Universal; 9 novembre 2000, C-387/98, Coreck Marittime; 20 febbraio 1997,C- 106/95, MSG v. Les Gravières Rhénanes.
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dice della sede o all’arbitro, a bloccare il procedimento avviato in
violazione della clausola arbitrale. Questo potrebbe rendere apparentemente superflua una definizione di convenzione arbitrale, con la
conseguenza che rimarrebbe intatta la libertà degli Stati membri di
disciplinare la convenzione arbitrale come preferiscono.
5.4. Malgrado le intenzioni alla base della Proposta, non si
può tuttavia dare per scontato che alla lunga questo tema rimanga
completamente fuori dall’ambito di applicazione del Regolamento, e
dalla giurisdizione della Corte di giustizia. La proposta di art. 29(4)
solleva infatti alcune questioni controverse che non potranno rimanere a lungo al riparo dallo scrutinio della Corte e che nascono essenzialmente proprio dalla mancanza di una definizione di convenzione arbitrale.
In presenza di concezioni ancora divergenti su questioni fondamentali riguardanti queste convenzioni, taluni concetti potrebbero
parere un po’ astrusi ad un giudice di uno Stato membro investito di
un’eccezione di arbitrato che non abbia una sofisticata conoscenza
specifica dell’arbitrato o la cui legge non sposi una visione particolarmente progressista in ordine alla natura, esistenza e portata delle
convenzioni arbitrali. In presenza quindi di un’eccezione a suo modo
di vedere non chiara o addirittura eccentrica, il giudice potrebbe legittimamente interrogarsi, per esempio, sul se esso sia effettivamente
tenuto a sospendere il procedimento secondo l’art. 29(4) anche laddove, ad esempio, la convenzione invocata non è redatta per iscritto
oppure è invocata contro un non firmatario, o in merito ad una questione di cui si può dubitare se rientri nella portata oggettiva della
convenzione o che potrebbe non essere arbitrabile secondo la legge
del foro (57).
Inoltre l’art. 29(4) sembra stabilire che la semplice proposizione di un’eccezione di arbitrato sia sufficiente a fare sorgere l’obbligo di sospensione del procedimento. Ciò potrebbe tuttavia portare
ad abusi, che sono il rovescio della medaglia rispetto a quelli per
evitare i quali i giudici inglesi utilizzavano le anti-suit injunctions e
(57) Anche se l’arbitrabilità potrebbe essere valutata secondo un diritto differente a
seconda del contesto in cui essa sorge, vi sono pochi dubbi che essa viene decisa ai sensi
della lex fori quando si deve valutare la validità di un’eccezione di arbitrato davanti al giudice (cfr. BORN, supra nota 5; BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit.,
644 ss.).
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si è sentita l’esigenza di riformare il Regolamento e, in particolare,
di elaborare l’art. 29(4). Infatti, interpretata in senso letterale la regola comporterebbe la sospensione dei procedimenti innanzi ai giudici diversi da quelli della sede anche in presenza di eccezioni di arbitrato strampalate o addirittura in mala fede, ad esempio fondate su
una convenzione arbitrale contenuta in un contratto almeno a prima
vista assolutamente privo di legame con la controversia (anche tra
terzi), manifestamente nulla o invalida o la cui esistenza sia impossibile da dimostrare. È pertanto lecito chiedersi se l’obbligo di sospensione sorga per il solo fatto che venga eccepita, anche in maniera manifestamente pretestuosa, l’esistenza di una convenzione arbitrale. Attualmente nessun ordinamento arriva a tanto, compresa la
Convenzione di New York (58) o il diritto francese (59).
Poiché dubbi siffatti atterrebbero all’interpretazione di una
norma del Regolamento, secondo i principi sul rinvio pregiudiziale
non si potrebbe impedire al giudice dello Stato diverso da quello
della sede di rinviare la questione alla Corte di Giustizia. La semplice affermazione del considerando 11 della Proposta secondo cui il
Regolamento non si applica alla forma, all’esistenza, validità ed effetti della convenzione arbitrale difficilmente sembra in grado di precludere alla Corte di pronunciarsi sul significato di un termine
(« convenzione arbitrale ») del Regolamento che è fondamentale per
il funzionamento della regola sulla litispendenza e, più in generale,
per la determinazione della portata dell’obbligo di sospensione dei
procedimenti pendenti di fronte ai giudici di uno Stato membro.
È difficile prevedere come la Corte si pronuncerebbe in presenza di una richiesta del genere. Il ricorso ad un’interpretazione autonoma della nozione di convenzione arbitrale e dei suoi requisiti
formali e sostanziali si porrebbe in conflitto con il postulato secondo
cui il Regolamento, e il diritto dell’Unione, non si applicano alla
forma, esistenza, validità e effetti delle convenzioni arbitrale che rimarrebbero questioni rette dal diritto nazionale. Né tantomeno è concepibile che, per risolvere la questione, il giudice adito faccia riferimento al proprio diritto, come avveniva finora anche ai sensi della
Convenzione di New York, giacché in tal modo verrebbero vanificati
(58) Cfr. l’art. II(3) secondo cui l’obbligo del giudice di rinviare le parti all’arbitrato
non sussiste se la convenzione di arbitrato è “caduca, inoperante o non sia suscettibile di applicazione”.
(59) Cfr. supra nota 35.
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gli effetti della nuova norma in quanto la decisione sulla sospensione
verrebbe rimessa al giudice adito, riaprendo quindi la porta ad azioni
parallele.
In linea di principio si potrebbe prevedere che il giudice adito
decida la sospensione valutando l’esistenza della convenzione arbitrale secondo la legge dello Stato membro della sede. Questa soluzione, che comporta l’introduzione di una nuova regola di conflitto,
sarebbe analoga a quella prevista per le clausole di scelta del foro
nella Convenzione dell’Aia sugli accordi di scelta del foro del
2005 (60) e che verrebbe ora introdotta nell’art. 23 del progetto di riforma del Regolamento (61). Dato il contesto dell’arbitrato, tuttavia,
essa non pare del tutto idonea ad evitare i procedimenti paralleli visto che continua a lasciare la decisione sostanzialmente nelle mani
del giudice adito, anche se esso formalmente applica la legge di un
altro Stato, con i rischi evidenziati dal già citato caso Dallah (62), in
cui i giudici inglesi convinti di applicare il diritto francese hanno
adottato una decisione completamente antitetica a quella dei giudici
di tale paese.
L’unica interpretazione coerente con la lettera e lo spirito della
nuova disposizione è quindi probabilmente quella secondo cui la
mera presentazione di un’eccezione di arbitrato, unita all’instaurazione di un procedimento innanzi agli arbitri o al giudice della sede,
è sufficiente a far scattare l’obbligo di sospensione e ad attribuire al
tribunale arbitrale o ai giudici della sede la competenza a stabilire se
si è in presenza di una convenzione arbitrale valida applicabile nel
caso di specie.
Ciò, tuttavia, apre la strada ad abusi. Questo rischio non è facilmente eludibile, data la ricordata mancanza di consenso generalizzato sui requisiti della validità e degli effetti della convenzione arbitrale nelle varie leggi degli Stati membri, che rende difficile una de-
(60) Si veda l’art. 6(1).
(61) Secondo la proposta di revisione dell’art. 23, il giudice designato dovrebbe
avere giurisdizione “tranne se l’accordo [di scelta del foro] è caduco o inoperante nella sostanza ai sensi del diritto di quello [cioè quello del giudice designato] Stato membro” (corsivo mio).
(62) Cfr. supra, note 16 e 17. Il fatto che le differenze nelle legislazioni nazionali in
tema di convenzioni arbitrali sono considerevolmente maggiori di quelle in tema di accordi
di scelta del foro rende la soluzione proposta per questi ultimi meno accettabile per le convenzioni arbitrali.
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finizione obiettiva di abuso. Come già indicato (63), un’eccezione di
arbitrato che appare perfettamente legittima secondo una normativa
in tema di arbitrato più conservatrice, può apparire abusiva secondo
una legge più favorevole. A questo proposito la situazione è diversa
da quella dell’art. 23 sugli accordi di scelta del foro, dato che in quel
caso le condizioni che devono essere soddisfatte da tali accordi sono
esplicitate direttamente nel Regolamento stesso. Né è possibile il ricorso alla soluzione francese particolarmente favorevole all’arbitrato
la quale, per evitare gli abusi, consente al giudice di non rinviare all’arbitrato laddove la convenzione arbitrale è manifestamente inesistente o invalida (64), in quanto la valutazione della invalidità manifesta e prima facie rimarrebbe in capo al giudice adito che si teme
non tenersi nel debito conto l’eccezione ed il proprio correlativo obbligo di sospensione.
La mancanza di una soluzione univoca a tale dilemma apre la
prospettiva ad un intervento della Corte di Giustizia, la quale ben
potrebbe vedersi costretta a fissare alcuni principi guida che rischierebbero di tramutarsi in un embrione di disciplina dei requisiti delle
convenzioni arbitrali. Vi è solo da sperare che la Corte non intervenga con mano troppo pesante e non soffochi le concezioni più liberali in tema di convenzione arbitrale, ma non vi è alcuna certezza
al riguardo. Peraltro la recente giurisprudenza restrittiva della Corte
sugli effetti delle clausole arbitrali nei contratti con i consumatori (65)
non deve destare particolare preoccupazione ed essere vista come
indice di un pregiudizio contro l’arbitrato, dato che l’arbitrato con i
consumatori è un caso particolare, comprensibilmente visto con sospetto in diversi ordinamenti (66).
(63) Cfr. sezione 4.2.
(64) Cfr. supra nota 35.
(65) Corte di giustizia, 26 ottobre 2006, C-168/05, Elisa Mostaza Claro v. Centro
Móvil Milenium; Corte di giustizia,6 ottobre 2009, C- 40/08, Asturcom Telecomunicaciones
SL v. Maria Cristina Rodrı́guez Nogueira. Per completezza, la validità di una clausola arbitrale in contratti del consumatore è stata recentemente confermata dalla Corte suprema degli
Stati Uniti nel caso 27 aprile 2011, No. 09-893, AT&T Mobility LLC v. Conception.
(66) Cfr. ad esempio DRAHOZAL, FRIEL, Consumer Arbitration in the European Union
and the United States, in N.C.J. Int’l L. & Comm. Reg., 2002, 357 ss.; BATES, A Consumer’s
Dream or Pandora’s Box: Is Arbitration a Viable Option for Cross-Border Consumer Disputes?, in 27 Ford. Int’l L. J., 2004, 823 ss.; JOHNSON, WILDHABER, Arbitrating Labor Disputes
in Switzerland, in J. Int’l Arb., 2010, 631 ss.; CASTELLANE, Arbitration in Employment Relationship in France, in J. Int’l Arb., 2009, 293 ss.
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6. La nuova regola sulla litispendenza volta a dirimere i conflitti tra arbitrato e procedimenti giurisdizionali nell’Unione ha una
portata assai innovativa dal punto di vista sia pratico, sia delle sue
implicazioni teoriche e metodologiche sulle quali merita fare qualche
considerazione preliminare.
6.1. Sinora le convenzioni arbitrali e l’arbitrabilità erano disciplinate in ciascuno Stato membro secondo la lex fori, comprese le
sue norme di conflitto. L’unico criterio per dirimere le eccezioni di
arbitrato era la normativa in materia di arbitrato di tale legge, la
quale può divergere significativamente da quella di altri ordinamenti
dati gli spazi per interpretazioni difformi dell’art. II della Convenzione di New York, con la conseguenza che determinate controversie, che secondo alcune concezioni sarebbero da devolvere in arbitrato, finiscono per essere decise dai giudici nazionali o quanto meno
per essere oggetto di giudizi nazionali che interferiscono con lo svolgimento dell’arbitrato. Tali rischi sono accentuati da tattiche processuali discutibili e dall’inefficienza di alcuni sistemi giurisdizionali.
Per prevenire queste situazioni la Proposta elimina la libertà dei
giudici degli Stati membri di delibare essi stessi le eccezioni di arbitrato in base alla propria legge, attribuendo il potere di decidere la
questione sia al giudice della sede, sia agli arbitri. Quindi, a meno di
essere per coincidenza anche giudice della sede, in presenza di eccezione di arbitrato il giudice adito è tenuto ai sensi dell’art. 29(4) a
sospendere il giudizio e ad attenersi alla decisione degli arbitri o del
giudice di un altro Stato membro sulla validità della convenzione arbitrale e sui suoi effetti sulla competenza del giudice adito a decidere
il merito la controversia. Nel decidere tale questione il giudice della
sede è libero di applicare il proprio diritto, un diritto straniero identificato mediante le proprie regole di conflitti di leggi o regole materiali transnazionali o ritenute tali. Gli arbitri godono di una libertà
ancora maggiore.
Un simile approccio non ha precedenti e può apparire quasi rivoluzionario, visto che priva i giudici del loro potere tradizionale di
valutare in base alla lex fori l’ambito di applicazione e la validità
delle convenzioni arbitrali, e di conseguenza della propria giurisdizione.
L’attribuzione agli arbitri della decisione sulla validità di una
convenzione arbitrale, e quindi sulla sua idoneità a bloccare la giu213
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risdizione del foro, non è naturalmente una novità assoluta, dato che
riflette il principio Kompetenz-Kompetenz ormai ampiamente accolto. Ciò nonostante, nel contesto del nuovo art. 29(4) a tale principio viene quasi riconosciuto l’effetto negativo che ha in Francia,
ma non in molti altri Stati. L’effetto negativo del principio Kompetenz-Kompetenz presuppone che i giudici nazionali rimettano sempre
la decisione sulla competenza degli arbitri a questi ultimi, a prescindere dal momento in cui vengono aditi. Secondo la nuova regola i
giudici dello Stato membro adito nel merito non hanno neppure il
potere di controllare la decisione degli arbitri che ne esclude la giurisdizione.
La soluzione introdotta dall’art. 29(4) è ancora più innovativa
poiché attribuisce efficacia assoluta all’accoglimento dell’eccezione
di arbitrato da parte del giudice della sede. Il principio secondo cui
il giudice di uno Stato deve attenersi alla decisione del giudice di un
altro Stato sull’attitudine di una convenzione arbitrale a mettere in
gioco la sua giurisdizione è una novità assoluta.
6.2. La limitazione della libertà dei giudici degli Stati membri di valutare l’effetto delle convenzioni arbitrali sulla propria giurisdizione è il prezzo da pagare per la tutela e per il rafforzamento
degli effetti delle convenzioni arbitrali, e più in generale dell’arbitrato come sistema per la soluzione delle controversie. Come si dirà
in seguito (67), il nuovo meccanismo è effettivamente idoneo a conseguire questo obiettivo e ad evitare procedimenti paralleli.
Il meccanismo proposto è innovativo nella prospettiva del diritto dell’arbitrato, dato che accentua il ruolo del giudice della sede
e della lex arbitri. Infatti, sebbene quest’ultima rivesta notoriamente
un ruolo importante nella disciplina dell’arbitrato (68), fino ad oggi
essa non avrebbe mai potuto influire sulla giurisdizione dei giudici
di Stati diversi da quello della sede. Comportando il rispetto delle
decisioni straniere, la regola sulla litispendenza della Proposta presuppone invece una fiducia reciproca tra giudici. Per questo motivo
una regola siffatta non sarebbe immaginabile a livello generale, ma
sembra giustificata nel contesto dell’Unione, uno dei cui elementi
(67)
(68)
Cfr. sezione 6.3.
Cfr. RADICATI DI BROZOLO, The impact of national law and courts, cit.; BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit., 529 ss. e 683 ss.
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fondanti è precisamente la fiducia reciproca tra Stati membri nei rispettivi ordinamenti e giudici.
Seppure innovativa nella prospettiva del diritto dell’arbitrato, la
Proposta ricalca invece il modello classico del controllo del paese
d’origine tipico del diritto dell’Unione (69). Come in altri settori, anche nel contesto dell’arbitrato questo principio può avere una portata
innovativa e liberalizzatrice, poiché aumenta la concorrenza tra Stati
membri in misura ancora maggiore rispetto alla Convenzione di New
York, e dovrebbe portare ad un’evoluzione verso regimi più favorevoli all’arbitrato se gli Stati membri sono interessati ad attrarre arbitrati nei rispettivi territori.
In questo caso la particolarità è che, diversamente dal modello
tradizionale, il controllo del paese d’origine delle convenzioni arbitrali ad opera dei giudice della sede non si accompagna ad un’armonizzazione minima delle regole in materia. Ciò significa che gli Stati
membri devono fare riferimento interamente alla lex arbitri, ad
esclusione della lex fori, anche ad esempio in punto di arbitrabilità,
nonostante l’assenza di qualsiasi armonizzazione a livello dell’Unione. Si potrebbe peraltro ritenere che già oggi vi sia un’armonizzazione minima de facto in materia di convenzioni arbitrali che
deriva dall’obbligo di dare attuazione a tali convenzioni stabilito
dalla Convenzione di New York, la quale vincola tutti gli Stati membri. Ciò dovrebbe dissipare eccessive preoccupazioni che i giudici
della sede si fondino su criteri arbitrari o completamente imprevedibili allorché sono chiamati a decidere se una convenzione arbitrale è
suscettibile di derogare alla giurisdizione dei giudici di un altro Stato
membro. Ciò non esclude tuttavia, come già ricordato, che in alcuni
casi ad una convenzione arbitrale vengano attribuiti effetti maggiori
di quelli che ci si potrebbe attendere secondo le concezioni di alcuni
Stati membri, ma questo è coerente con il principio del controllo del
paese d’origine.
Almeno per quanto riguarda l’arbitrabilità, la preoccupazione in
merito alla mancanza di armonizzazione è in una certa misura alleviata dal fatto che il meccanismo proposto non si applica all’arbitrato
nelle materie che possono essere particolarmente problematiche,
(69)
Cfr. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2010, 106 ss.
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come i contratti con i consumatori e quelli di lavoro e in materia di
assicurazione (70).
6.3. Nell’immediato il nuovo sistema non sarà sempre necessariamente in grado di assicurare una tutela completa delle convenzioni arbitrali e di prevenire procedimenti paralleli. La soluzione dei
potenziali conflitti dipenderà dalle leggi che vengono in gioco di
volta in volta.
Il risultato più favorevole nella prospettiva dell’attribuzione di
validità e di effetti alle convenzioni arbitrali si avrà allorché la sede
è in uno Stato membro che adotta un approccio liberale in tema di
convenzioni arbitrali. In tal caso, sarà quasi impossibile coltivare
procedimenti di fronte ai giudici di qualsiasi altro Stato membro, ivi
compresi quelli che seguono un’interpretazione più restrittiva o formalistica dei requisiti di queste convenzioni e quelli in ipotesi disposti a consentire azioni abusive. La decisione in favore dell’arbitrato
del giudice della sede obbligherà infatti i giudici degli altri Stati a
sospendere il giudizio o a declinare la giurisdizione, a condizione
naturalmente che la parte che solleva l’eccezione assolva all’onere di
adire il giudice della sede o di avviare l’arbitrato. In tal caso l’arbitrato non potrà subire interferenze da procedimenti concorrenti dei
giudici nazionali, almeno all’interno dell’Unione.
La nuova regola potrebbe invece rivelarsi meno efficace se la
sede si trova in uno Stato membro di cui non si può dare per scontato un atteggiamento favorevole all’arbitrato. Se infatti il giudice
della sede non riconosce la validità della convenzione arbitrale, la
controversia procederà innanzi al giudice adito per primo, che potrebbe anche essere quello della sede, se esso ha giurisdizione sul
merito ai sensi del Regolamento. In tal caso sarà impossibile evitare
procedimenti concorrenti se l’arbitrato prosegue nonostante il rifiuto
del giudice di ammettere l’eccezione di arbitrato (71).
In sostanza, quindi, molto dipenderà dalla scelta della sede.
Tale scelta è già estremamente importante oggi, ma la nuova disposizione ne accentuerà il rilievo dato che, se effettuata con oculatezza,
essa dovrebbe evitare il rischio di procedimenti nazionali paralleli
all’arbitrato o suscettibili di dissuadere il ricorso all’arbitrato per ti-
(70)
(71)
Cfr. supra nota 31.
Per le implicazioni di questa situazione cfr. infra, sezione 7.2.4.
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more di complicazioni successive. Più ancora di oggi, quindi, le parti
dovrebbero meditare attentamente sulla scelta della sede anche onde
evitare azioni giudiziarie che interferiscano con l’arbitrato.
Purtroppo, come noto, le parti non sempre prestano la dovuta
attenzione a tale problema. Talvolta almeno una di esse non è in
grado di influire sulla scelta della sede, come ad esempio quando la
controparte è uno Stato o un ente pubblico. In tali casi la Proposta si
rivela quasi inutile ove i giudici della sede non siano disposti a riconoscere efficacia alla convenzione arbitrale. Ciò è naturalmente la
conseguenza inevitabile della rinuncia (obbligata per i motivi già indicati) ad armonizzare il diritto dell’arbitrato che, se evita di diluire
le conquiste di alcuni ordinamenti più favorevoli all’arbitrato, non
evita di converso le possibili insidie delle leggi ad esso meno favorevoli. Il problema potrebbe attenuarsi con il tempo se la concorrenza insita nel nuovo meccanismo porterà ad un’evoluzione favorevole all’arbitrato negli Stati membri attualmente meno ben disposti
nei suoi confronti. In mancanza di una tale evoluzione, la sede manterrà un ruolo cruciale e le parti dovranno sempre tenere presente
che, anche all’interno dell’Unione, la designazione di alcune sedi
continuerà a comportare rischi per l’arbitrato.
Il progresso significativo rispetto alla situazione attuale sarà
tuttavia che una buona scelta della sede assicurerà all’arbitrato una
tutela assai maggiore di quella di cui beneficia oggi.
7. Come già detto, la Proposta non contiene regole ulteriori
rispetto a quella sulla litispendenza, ed ha pertanto portata ben più
limitata rispetto alle prime proposte. Ciò, unito alla riaffermazione
all’art. 1(2)(d) dell’inapplicabilità del Regolamento all’arbitrato,
comporta che tutte le altre questioni riguardanti l’arbitrato continueranno ad essere disciplinate dai diritti nazionali degli Stati membri.
7.1. Il progetto non contiene alcuna regola sulla giurisdizione
in tema di procedimenti di supporto dell’arbitrato e di impugnazione
del lodo, ma tale omissione non è particolarmente problematica.
Oggi vi è una sostanziale armonizzazione di fatto dei criteri
giurisdizionali per questo tipo di procedimento negli ordinamenti
della maggior parte degli Stati, compresi gli Stati membri, dato che
di regola la giurisdizione in queste materie viene esercitata soltanto
in relazione agli arbitrati con sede nel territorio del giudice adito.
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Pertanto i conflitti di giurisdizione positivi o negativi al riguardo
tendono a verificarsi solo in quei casi relativamente eccezionali in
cui la sede non è stata designata dalle parti o dagli arbitri o dall’istituzione arbitrale (72). In situazioni del genere è possibile che le parti
adiscano giudici di Stati membri diversi, invocando una localizzazione della sede diversa, e che i giudici aditi decidano in modo diverso e assumano la giurisdizione. Tale rischio può essere ridotto
mediante una corretta redazione della convenzione arbitrale, uno dei
cui punti cardini è appunto la designazione della sede. Gli altri possibili conflitti (73) sono in concreto ancora più rari, sicché non vi è
una giustificazione seria per affrontare la questione nel Regolamento.
7.2. Ciò che potrebbe, invece, apparire più problematico è
l’inapplicabilità del Regolamento al riconoscimento delle sentenze in
tema di arbitrato, che rileva in quattro situazioni.
7.2.1. La prima categoria in relazione a cui possono immaginarsi problemi è quella delle sentenze dello Stato della sede in tema
di validità e effetti delle convenzioni arbitrali, in ordine alle quali il
problema si pone in modo diverso a seconda che risolvano il punto
in modo positivo o negativo.
Se il giudice della sede ritiene valida la convenzione, il terzo
capoverso della proposta di art. 29(4) prevede senza dubbio che la
decisione abbia carattere definitivo e vincolante per l’eventuale giudice primo adito, o comunque per qualsiasi giudice dell’Unione, il
quale pertanto non può decidere nel merito e deve declinare la propria giurisdizione. Il contrario non sembrerebbe essere vero. Nella
(72) Come ricordato, la Proposta non contiene regole per l’identificazione della sede
dell’arbitrato.
(73) Un’altra situazione potrebbe essere quella in cui i giudici dello Stato della sede
declinano di esercitare tale giurisdizione, come per esempio nel noto caso della Corte d’appello svedese, 28 febbraio 2005, Titan Corp. v. Alcatel CIT. SA, in XXX Y. B. Com. Arb.,
2005, 139 ss.; sebbene tale decisione sia stata superata dalla sentenza della Corte Suprema
Svedese del 12 novembre 2010, Rosinvestco UK Ltd v. The Russian Federation (No. Ö
2301-09), la possibilità che un atteggiamento analogo sia adottato in altri casi non può essere
esclusa. Un rimedio parziale a questa situazione si ritrova all’art. 1505(4) del Codice di procedura civile francese come emendato il 1o maggio 2011, che codifica una regola giurisprudenziale che conferisce giurisdizione ai giudici francesi per agire come juge d’appui in presenza del rischio di diniego di giustizia, come quando nessuno Stato è disposto a fornire assistenza.
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logica della litispendenza, la decisione del giudice della sede mira
semplicemente a prevenire la pendenza simultanea del giudizio arbitrale e statale. Poiché il Regolamento non è per il resto applicabile
all’arbitrato, ed è dichiaratamente inapplicabile alla “forma, esistenza, validità e effetti delle convenzioni arbitrali” (considerando
11), ne dovrebbe conseguire che il giudice dello Stato diverso da
quello della sede adito per primo rimane libero di ritenere valida la
convenzione e di declinare la giurisdizione (74).
In altri termini, sembrerebbe impossibile far discendere dalla
regola sulla litispendenza un obbligo per il giudice di uno Stato diverso da quello della sede di esercitare la propria giurisdizione se,
giusta i parametri per la valutazione di tali convenzioni della propria
legge, esso considera valida la convenzione invocata a fondamento
di un’eccezione di arbitrato. La conclusione opposta rischierebbe di
mettere il giudice di uno Stato diverso da quello della sede nella posizione di violare la Convenzione di New York, laddove a suo giudizio la convenzione arbitrale meritasse di essere ritenuta valida ai
sensi dell’art. II, in particolare in assenza di uno dei motivi indicati
all’art. II(3). Pertanto, tale giudice dovrebbe conservare la stessa libertà di ritenere valida la convenzione arbitrale che avrebbe avuto in
assenza di sospensione del procedimenti instaurato di fronte ad esso
ai sensi dell’art. 29(4). Lo stesso dovrebbe valere se, per qualsiasi
motivo, il procedimento di fronte al giudice adito per primo è stato
interrotto e ricominciato di fronte al giudice di un altro Stato membro, il quale rimane altrettanto libero di valutare positivamente la
clausola arbitrale.
Sebbene questa appaia l’unica soluzione coerente con la portata
limitata della riforma del Regolamento e con la sua inapplicabilità
all’arbitrato, essa contiene innegabilmente i germi di un problema.
Se il giudice di uno Stato diverso da quello della sede conferma la
validità della convenzione arbitrale malgrado la conclusione opposta
del giudice della sede, le parti non hanno alternativa al ricorso all’arbitrato (75). Tuttavia, se il giudice della sede si è già pronunciato sull’invalidità o inapplicabilità della convenzione arbitrale, essendo
esso l’unico competente in caso di impugnazione del lodo vi è una
(74) Secondo ILLMER, cit., para. C I 5. a), invece, il giudice adito per primo sarebbe
vincolato alla decisione di quello della sede.
(75) Un’alternativa possibile è di instaurare procedimenti innanzi ad un altro giudice
che ha giurisdizione ai sensi del regolamento
219
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seria probabilità che l’impugnazione avrà successo proprio a motivo
dell’invalidità della convenzione da esso precedentemente accertata.
Ovviamente, anche oggi è possibile che il giudice della sede annulli
un lodo a motivo dell’invalidità di una convenzione arbitrale sulla
base della quale un altro giudice ha declinato la giurisdizione. La
differenza è che oggi questo esito è il più delle volte incerto, dato
che non esiste già in partenza una decisione del giudice della sede
sulla validità della convenzione arbitrale, mentre secondo le nuove
regole questo è un esito quasi scontato sin dall’inizio dell’arbitrato.
Peraltro, rimane la possibilità che il lodo sia riconosciuto in altri
Stati membri nonostante l’annullamento nella sede, ma questo è un
tema controverso (76).
Un problema analogo può aversi in tema di riconoscimento ed
esecuzione in uno Stato membro — ai sensi della Convenzione di
New York o della legge dello Stato dell’esecuzione — di un lodo
emesso in virtù di una convenzione arbitrale dichiarata invalida o
inapplicabile dal giudice della sede in virtù del meccanismo previsto
dall’art. 29(4) (77). L’inapplicabilità delle regole del Regolamento in
tema di circolazione delle sentenze alla decisione del giudice della
sede significa che, nel valutare il lodo, in particolare ai sensi dell’art.
V(1)(a) della Convenzione di New York, i giudici dello Stato membro dell’esecuzione non saranno vincolati dal giudizio positivo o negativo del giudice della sede in punto di validità o invalidità della
convenzione. Pertanto, essi possono rifiutare l’esecuzione per l’invalidità della convenzione arbitrale, anche se la convenzione era stata
ritenuta valida dal giudice della sede o, al contrario, possono darvi
esecuzione ritenendolo fondato su una convenzione arbitrale valida a
dispetto della conclusione contraria del giudice della sede.
Il problema si può in parte risolvere mediante la scelta di una
sede sufficientemente favorevole all’arbitrato, o più favorevole dei
fori in cui prevedibilmente potrebbero essere instaurate azioni in potenziale violazione della convenzione arbitrale, ma ciò non elimina
evidentemente tutti i problemi.
7.2.2.
L’inapplicabilità all’arbitrato delle disposizioni del Re-
(76) Cfr. infra, sezione 7.2.2.
(77) Il problema sorge a prescindere dal fatto che il giudice della sede si sia pronunciato sull’annullamento del lodo.
220
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golamento sulla circolazione delle sentenze comporta anche che le
sentenze dello Stato della sede in tema di annullamento e validità dei
lodi non circolano ai sensi del Regolamento stesso.
Sotto un profilo pratico, ciò non desta preoccupazioni particolari se i giudici richiesti dell’esecuzione aderiscono alla visione più
tradizionale in tema di destino del lodo annullato, secondo cui un
lodo annullato nella sede cessa semplicemente di esistere, più o
meno come una sentenza riformata da un giudice di grado superiore,
e conseguentemente sarebbe quasi per definizione insuscettibile di
riconoscimento o di esecuzione in altri Stati. Questa visione non attribuisce particolare rilievo alla sentenza di annullamento e conseguentemente alla possibilità di un suo riconoscimento in altri Stati,
ma si fonda unicamente sulle ipotetiche conseguenze di fatto della
sentenza stessa, ossia l’annullamento. Questa visione appare compatibile con l’art. V(1)(e) della Convenzione di New York, che consente agli Stati contraenti di non dare esecuzione a lodi annullati
nello Stato di origine senza avere riguardo alla riconoscibilità della
sentenza di annullamento, ed in effetti in diversi ordinamenti, compresi quelli di molti Stati membri, questa soluzione è applicata sistematicamente e senza discussione (78). Quando le cose stanno cosı̀,
l’inapplicabilità del Regolamento alle sentenze di annullamento non
rileva ai fini della coerenza delle soluzioni all’interno dell’Unione
giacché il fatto che il lodo annullato sia considerato di per sé ineseguibile elimina alla radice il rischio di soluzioni divergenti.
Tuttavia, come ben noto, questa soluzione non è l’unica possibile, né tantomeno quella necessariamente preferibile. Alcuni Stati
ammettono, di regola o almeno in alcune circostanze, l’eseguibilità
nel proprio territorio di lodi stranieri annullati alla sede (79). Tale soluzione, che ha solide giustificazioni sia giuridiche sia sistematiche
sulle quali non è il caso di addentrarsi in questa sede (80), è oggi perfettamente legittima in seno all’Unione e lo rimarrebbe anche ai
sensi della Proposta con la conseguenza che un lodo annullato alla
sede rimarrebbe eseguibile negli Stati membri che aderiscono alla
teoria più permissiva.
ta 5).
(78)
(79)
(80)
Cfr. BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit., 692-694.
Cfr. BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit., 692.
Cfr. RADICATI DI BROZOLO, The control system of arbitral awards, cit. (supra no-
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In altre parole, la situazione del noto caso Putrabali (81) potrebbe ripresentarsi anche in caso di revisione del Regolamento secondo le linee indicate, con conseguenti potenziali conflitti, dato che
al lodo potrebbe essere data esecuzione in alcuni Stati membri e non
in altri, compreso ovviamente quello della sede. Ciò avrebbe un effetto ulteriore, dato che il riconoscimento e l’esecuzione in un dato
Stato membro di un lodo, a prescindere dal suo eventuale annullamento alla sede, impedisce il riconoscimento in tale Stato membro di
una sentenza incompatibile con il lodo (82). Pertanto, se il lodo annullato è eseguito in alcuni Stati membri ma non in altri, un’ipotetica sentenza di uno Stato membro incompatibile con il lodo sarebbe
eseguibile in alcuni Stati in forza del Regolamento, ma non in altri.
7.2.3. Non dovrebbero invece esservi discussioni particolari
quanto alle sentenze di riconoscimento dei lodi, rese sia ai sensi della
Convenzione di New York sia della legge dello Stato del riconoscimento. Poiché tali sentenze hanno soltanto la funzione di stabilire se
un lodo può avere effetti nello Stato richiesto, è generalmente ammesso che gli effetti rimangono circoscritti a tale Stato, senza che se
ne possa ipotizzare il riconoscimento all’estero (83). Ciò è particolarmente vero se si considera che alcuni motivi di rifiuto di riconoscimento sono specifici della lex fori, come l’arbitrabilità o l’ordine
pubblico (84). Rispetto a tali sentenze l’inapplicabilità del Regolamento alle sentenze in tema di arbitrato non presenta dunque problemi particolari (85).
7.2.4. L’ultima categoria è quella delle sentenze di merito rese
negli Stati membri in relazione a controversie in ipotesi ricadenti
nell’ambito di applicazione di una convenzione arbitrale. La que(81) Una simile situazione si è verificata nel caso SNF (supra nota 11), con la differenza che il quel caso l’esecuzione era stata concessa in Francia prima della decisione di annullamento del giudice belga di prima istanza (che è stata successivamente ribaltata dalla
Corte d’appello di Bruxelles).
(82) Cfr. infra, sezione 7.2.(d).
(83) Si veda POUDRET, BESSON, cit., supra nota 5, § 849; BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit., 1111 ss.
(84) Si veda l’art. V(2)(1) e (2) della Convenzione di New York.
(85) Questa è peraltro la soluzione che vale per le decisioni dei giudici degli Stati
membri in tema di esecuzione di una sentenza ai sensi del Regolamento, le quali sono irrilevanti ai fini dell’eseguibilità della sentenza stessa in altri Stati membri.
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stione è stata dibattuta e in taluni casi sentenze siffatte sono state ritenute insuscettibili di riconoscimento ai sensi del Regolamento in
virtù dell’esclusione dell’art. 1(2)(d) (86).
Attualmente tale soluzione è inconciliabile con la posizione
della Corte di Giustizia, enunciata nel caso West Tankers (87), secondo la quale ricade sotto il Regolamento la verifica in via incidentale della validità di una convenzione arbitrale invocata per contestare la giurisdizione di un giudice di uno Stato membro investito di
una questione essa stessa ricadente nel Regolamento. In applicazione
di questo principio la Court of Appeal inglese nel caso National Navigation (88) ha affermato in maniera convincente che una sentenza
preliminare sulla validità ed effetti di una convenzione arbitrale resa
nel contesto di un procedimento ricadente sotto il Regolamento rientra a sua volta nell’ambito di applicazione del Regolamento, aggiungendo che a una tale sentenza non può neppure essere negato il riconoscimento per motivi di ordine pubblico anche se essa non dà effetto alla convenzione arbitrale. Se ciò vale per la sentenza preliminare, naturalmente varrà a fortiori per la sentenza sul merito, anche
se la controversia sarebbe stata in ipotesi da devolvere in arbitrato.
Questa soluzione dovrebbe continuare a valere anche in caso di
adozione della Proposta di Regolamento nella forma qui considerata,
a prescindere dal fatto che venga azionato il meccanismo dell’art.
29(4). Una sentenza che ha rigettato un’eccezione di arbitrato e ha
deciso il merito andrà quindi senz’altro riconosciuta se la condizione
per invocare la litispendenza, e dunque per sospendere il giudizio e
per l’eventuale decisione di carenza di giurisdizione, non si è realizzata per la mancata instaurazione tempestiva dell’arbitrato o di un
giudizio innanzi al giudice della sede. Non vi sarà quindi alcun mutamento rispetto alla situazione attuale.
La medesima soluzione si applicherà, peraltro, anche se il giudice adito in asserita violazione della convenzione arbitrale non rispetta l’obbligo di sospendere il giudizio o di declinare la giurisdizione malgrado che il giudice della sede o gli arbitri si siano pronunciati a favore dell’applicabilità della convenzione di arbitrato nel
(86) Si vedano ad esempio le sentenze Legal Department du Ministère de la Justice
de la République d’Irak v. Fincantieri Cantieri Navali Italiani et alii, supra nota 13; ABCI
v. Banque Franco- Tunisienne, supra nota 14; National Navigation v. Endesa Generacion SA,
supra nota 14.
(87) Cfr. supra nota 12.
(88) Cfr. supra, nota 15.
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caso di specie. Ciò è coerente con il principio fondamentale del Regolamento che proibisce il controllo della giurisdizione in sede di riconoscimento e che nel progetto di revisione del Regolamento sarebbe ulteriormente rinforzato (89).
Ciò detto, la violazione dell’obbligo di sospensione scaturente
dall’art. 29(4) è verosimilmente destinata a rimanere eccezionale,
con la conseguenza che nel nuovo sistema non dovrebbe esservi un
rischio serio che l’obbligo di riconoscimento delle sentenze di merito rese in ipotetica violazione di una convenzione arbitrale valida e
applicabile pregiudichi seriamente gli effetti delle convenzioni arbitrali.
Vi è un elemento ulteriore che può contribuire a rinforzare gli
effetti della convenzione arbitrale sotto il profilo pratico anche nei
casi presumibilmente rari in cui l’art. 29(4) non fosse rispettato. Se
la sentenza di merito in ipotesi contraria al lodo è resa successivamente al lodo, la sentenza non sarà riconoscibile in uno Stato membro nonostante il Regolamento qualora, in tale Stato, il lodo sia stato
riconosciuto e reso esecutivo ai sensi della Convenzione di New
York o del diritto locale. Ciò non è detto chiaramente nell’art. 34 del
Regolamento (art. 48 della Proposta), il quale include tra i motivi di
rifiuto del riconoscimento solo l’inconciliabilità della sentenza straniera con quelle del foro e con quelle di altri Stati che soddisfano le
condizioni per il riconoscimento nel foro (n. 3 e 4). Tuttavia, l’esigenza del rispetto della cosa giudicata, che è manifestamente alla
base di questi motivi di rifiuto, non può che applicarsi anche ai lodi
arbitrali, i quali hanno effetto di cosa giudicata allo stesso titolo delle
sentenze, come si deduce anche dall’obbligo di riconoscimento ai
sensi dell’art. III della Convenzione di New York (90). La conclusione che un lodo eseguibile prevale su una sentenza successiva è
rinforzata dalla considerazione che il riconoscimento di un lodo ai
sensi della Convenzione non può essere impedito dalla pendenza di
procedimenti di fronte al giudice dello Stato richiesto dell’esecuzione (91), il che evidentemente preclude la continuazione del procedimento di fronte al giudice (92).
(89) Si veda ILLMER, cit., para. C I 4 b).
(90) Si veda BORN, supra nota 5, 2879 ss.; RADICATI DI BROZOLO, Res judicata, in ASA
Special Series No. 38, Post Award Issues, 2011, 127 ss.
(91) Cfr. BENEDETTELLI-CONSOLO-RADICATI DI BROZOLO, Commentario, cit., 1014 ss.
(92) Queste considerazioni sono alla base della già ricordata ultima (per ora) pronun-
224
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8. Giunti a questo punto si può fare qualche valutazione di
ordine generale, anche su alcune delle possibili critiche alla Proposta.
8.1. La soluzione oggetto della Proposta è un passo avanti significativo nella direzione della prevenzione dei procedimenti arbitrali e giudiziari paralleli e dei conflitti tra lodi e sentenze. Questo
era l’obiettivo principale perseguito dalla Commissione una volta
che essa ha abbandonato il progetto più ambizioso e dogmatico di
affrontare tutti i possibili problemi del rapporto tra arbitrato e giudici
negli Stati membri (93). Il nuovo meccanismo è idoneo — e sicuramente assai più del sistema attuale — ad evitare questi problemi,
quanto meno se le parti designano in modo oculato la sede dell’arbitrato laddove ne hanno la possibilità nel caso di specie. È difficile
sostenere che esso sia meno efficace del ricorso alle anti-suit injunctions, anche a prescindere dalla fondamentale incompatibilità di tale
strumento con il sistema di fiducia reciproca all’interno dell’Unione.
Per il resto, vi è indubbiamente spazio per valutazioni diverse.
Un modo per valutare pro e contro della Proposta è quello di considerare la questione da due prospettive opposte. La prima, che in
modo semplicistico si può definire “pro-arbitrato”, è quella dei sostenitori più ferventi della necessità di circoscrivere al massimo le interferenze nell’arbitrato da parte dei giudici nazionali (soprattutto di
quelle di Stati membri diversi dal proprio) e più in generale l’influenza dell’Unione sull’arbitrato. L’altra prospettiva è invece quella
dei “puristi” che mirerebbero ad evitare qualsiasi conflitto all’interno
dello spazio giudiziario comune e che propendono per una disciplina
onnicomprensiva dei rapporti tra arbitrato e giudici nazionali.
cia nel caso West Tankers, [2011] EWHC 829 (Comm), supra, nota 12, che ha ritenuto il primato di un lodo su eventuali sentenze di un giudice di uno Stato membro. Nella sentenza Sovarex S.A. v. Romero Alvarez (supra, nota 19) è stato anche ritenuto che il riconoscimento di
un lodo non è precluso dalla pendenza di un procedimento sulla medesima controversia di
fronte ai giudici di un altro Stato membro.
(93) Si vedano il considerando 20 della Proposta e il para. 2.4.1.3 dell’Impact Assessment della Commissione (supra, nota 23) il quale identifica come obiettivo “specifico” dell’emendamento quello “di assicurare una coordinazione trasparente e prevedibile dei procedimenti giudiziali e arbitrali che tuteli e migliori l’appetibilità dell’Unione Europea come
sede di arbitrato” e come obiettivo “operativo” quello di “evitare procedimenti giudiziali e
arbitrali simultanei e di ridurre le possibilità di interferenze nei procedimenti arbitrali attraverso il ricorso a tattiche processuali abusive”.
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8.2. Una prima serie di critiche della fazione “pro-arbitrato”
potrebbe concentrarsi sull’inidoneità della soluzione adottata ad assicurare una protezione assoluta dell’arbitrato. Come dimostrato sopra, permane infatti ancora il rischio che in casi specifici non venga
dato effetto ad una convenzione arbitrale che secondo i principi più
generalmente accolti sarebbe considerata valida (94). Ciò potrebbe
verificarsi se la sede dell’arbitrato è localizzata in uno Stato che aderisce ad una visione restrittiva dell’arbitrato. Questo è, però, il
prezzo inevitabile della mancata armonizzazione dei requisiti della
convenzione arbitrale che, se consente di evitare la diluizione dei risultati più significativi conseguiti da alcuni ordinamenti, non può
impedire che permangano sacche di conservatorismo anti-arbitrato in
taluni paesi. Peraltro, come più volte sottolineato, questo rischio si
riduce di molto, se non quasi interamente, con una scelta oculata
della sede dell’arbitrato e, in caso di instaurazione di procedimento
concorrente, promuovendo un arbitrato. È vero che la legge della
sede può imporre di por fine all’arbitrato se la validità della convenzione non è riconosciuta dal giudice locale o è contestata di fronte
ad esso. Nondimeno, anche i critici più accaniti dovranno riconoscere che il fatto che le decisioni degli arbitri in tema di validità ed
effetti delle convenzioni arbitrali sono poste quasi allo stesso livello
di quelle dei giudici nazionali è una conquista significativa per il
principio Kompetenz-Kompetenz che va ben oltre il ruolo ad esso attualmente riconosciuto in molti Stati membri.
Nella medesima prospettiva il nuovo sistema potrebbe essere
criticato anche perché non elimina l’obbligo di riconoscimento delle
sentenze di merito che non rispettano le convenzioni arbitrali (95).
Tuttavia, se è vero che ciò può comportare contrasti tra sentenze e
lodi, la nuova disciplina dovrebbe anzitutto rendere una tale evenienza relativamente eccezionale, e certo assai meno probabile di
oggi, specie se le parti fanno un uso accorto degli strumenti ora a
loro disposizione. Comunque, il sistema sembra trovare un giusto
equilibrio tra l’esigenza di dare attuazione alle convenzioni arbitrali
e il principio, ugualmente fondamentale, di fiducia reciproca, il quale
non può tollerare il rifiuto di riconoscimento delle sentenze di merito che decidono l’eccezione di arbitrato in via meramente incidentale ed è imperniato sull’esclusione del controllo della competenza
(94)
(95)
Cfr. supra sezione 6.3.
Cfr. supra sezione 7.2.4.
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giurisdizionale del giudice di provenienza della sentenza. Da un
punto di vista puramente pragmatico va altresı̀ considerato che la
prevalenza del lodo sull’ipotetica sentenza contraria sarà spesso assicurata dal fatto che i giudici più propensi a valutare negativamente
le convenzioni arbitrali potrebbero anche rivelarsi non particolarmente efficienti e in grado di adottare una decisione sul merito prima
dell’emanazione del lodo, come dimostrano per esempio l’ultima
pronuncia inglese nel caso West Tankers e quella nel caso Sovarex (96).
Un’ulteriore serie di possibili critiche provenienti dalla medesima fazione potrebbe vertere sul rischio che la nuova soluzione offra all’Unione e alla Corte di giustizia lo spunto per partire alla conquista dell’arbitrato. Come evidenziato sopra, una volta introdotti nel
Regolamento riferimenti all’arbitrato, sarà ben difficile impedire alla
Corte di pronunciarsi su eventuali questioni riguardanti tale istituto
che le venissero sottoposte, a cominciare dalla definizione di convenzione arbitrale che è cruciale per fare scattare la nuova regola sulla
litispendenza (97). Vi sono altre questioni idonee ad attrarre l’attenzione della Corte, in particolare quella degli effetti delle sentenze in
tema di validità delle convenzioni arbitrali rese in virtù del nuovo
meccanismo (98). Non è affatto detto che l’esplicitazione dell’inapplicabilità del Regolamento all’arbitrato sarà sufficiente ad impedire
alla Corte di intervenire in queste materie, visto che neppure in passato l’art. 1(2)(d) è bastato a prevenire suoi interventi quando sono
affiorate questioni di confine tra l’arbitrato e le materie su cui essa
aveva competenza (99). A quel punto, come si è detto, non è scontato
che la Corte dimostrerà lo stesso favor per l’arbitrato degli specialisti della materia e di alcuni ordinamenti degli Stati membri.
L’inclusione, seppur limitata, nel Regolamento di regole sull’arbitrato potrebbe anche essere il trampolino verso l’inclusione dell’ar-
(96) Cfr. supra, nota 92.
(97) Cfr. supra sezione 5.4.
(98) Cfr. supra sezione 7.2.4. In particolare, la Corte potrebbe ritenere la soluzione
proposta in questo scritto troppo artificiale e non interamente coerente con il nuovo meccanismo dell’art. 29(4) e con la finalità di evitare soluzioni confliggenti.
(99) Cfr. supra nota 9 e relativo testo e infra nota 107. Vi sono naturalmente altre
situazioni in cui alla Corte si sarebbe potuto proporre un rinvio pregiudiziale, quali ad esempio il caso National Navigation (supra nota 15) ove si poneva una questione già affrontata
obiter in West Tankers.
227
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bitrato tra le competenze esterne ed interne dell’Unione (100), il che
non sarebbe necessariamente uno sviluppo positivo per l’arbitrato.
Comunque sia, anche per via della sentenza West Tankers, dell’interesse della Commissione per questa tematica e della crescente
importanza dell’arbitrato nell’ultimo decennio, a questo punto è difficile che il tema possa essere rimosso semplicemente evitando ogni
intervento sull’arbitrato nel Regolamento o addirittura espandendo
l’esclusione dell’art. 1.2(d). Va riconosciuto che la Proposta si discosta assai dal dogmatismo iniziale e dal proposito di disciplinare ogni
possibile conflitto tra giudici nazionali e arbitrato che informava il
Rapporto di Heidelberg e il Libro Verde. La Proposta è moderata e
evita, almeno direttamente, qualsiasi forma di armonizzazione del
diritto dell’arbitrato, rispettando la preoccupazione di quanti temono
che essa comprometta l’acquis e lo sviluppo della disciplina di questa materia di taluni ordinamenti. A meno di interventi della Corte di
giustizia (101), essa lascia intatto il diritto dell’arbitrato nei diversi
ordinamenti e l’autonomia degli Stati membri di disciplinare la materia a loro piacimento. La concorrenza tra gli ordinamenti rimane
integra e potrebbe anzi essere ulteriormente favorita dal riconoscimento di un ruolo ancora maggiore al diritto e ai giudici della sede.
La Proposta dovrebbe anche attenuare la preoccupazione circa
le conseguenze negative degli interventi sul Regolamento sull’appetibilità delle piazze arbitrali dell’Unione a vantaggio di quelle estere.
Al contrario, poiché aumenta la tutela degli arbitrati localizzati nell’Unione da procedimenti giudiziari concorrenti, almeno all’interno
dell’Unione, l’emendamento proposto dovrebbe rafforzare il mercato
dell’arbitrato nell’Unione rendendo più attraente la scelta della sede
all’interno di essa, in particolare negli Stati membri con una disciplina più progredita.
Anche nella prospettiva qui considerata la Proposta dovrebbe
essere considerata un compromesso ragionevole che realizza molto
di quanto ci si proponeva senza concessioni inaccettabili. In una
prospettiva di promozione dell’arbitrato, pare più importante cercare
di instillare negli organi dell’Unione una maggiore comprensione
dell’arbitrato e delle sue potenzialità positive che potrebbe riflettersi
(100) Si veda il parere 1/03 della corte del 7 febbraio 2006 sulla competenza dell’Unione a concludere la nuova Convenzione di Lugano, e BURGSTALLER, European Law and
Investment Treaties, in J. Int’l Arb, 2009, 181 ss.
(101) Cfr. sezione 5.4.
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favorevolmente sulle posizioni che la Corte o il legislatore saranno
eventualmente chiamati ad assumere al riguardo. Questa è forse una
soluzione più costruttiva che proseguire una battaglia inevitabilmente di retroguardia contro qualsiasi forma, sia pur minima, di intervento del legislatore dell’Unione, la quale può soltanto ingenerare
il sospetto ingiustificato che l’arbitrato abbia degli scheletri nell’armadio che devono rimanere nascosti al diritto dell’Unione (102).
8.3. Dal canto loro, i fautori di una sottoposizione piena dell’arbitrato al Regolamento rimarranno probabilmente delusi e metteranno l’accento sui conflitti che possono derivare specie dall’inapplicabilità alle sentenze in tema di arbitrato delle regole sul riconoscimento (103) e sul contrasto con l’obiettivo di un sistema giurisdizionale perfetto all’interno dell’Unione.
Una prima osservazione è che l’eliminazione del rischio di procedimenti paralleli tra giudici ed arbitri è tanto importante per l’affermazione dello spazio giudiziario europeo quanto lo è per la tutela
dell’arbitrato (104). Quanto alle disfunzioni residue, esse sono già
presenti oggi e quindi, se la perdurante inapplicabilità del Regolamento alle decisioni in tema di arbitrato potrebbe non costituire un
passo avanti, essa non sarebbe neppure un passo indietro. Inoltre,
l’esperienza indica che i problemi sono in concreto relativamente rari
e tali da potere essere risolti dai giudici caso per caso, almeno fino
a quando non si raggiungerà una maggiore uniformità di vedute. Comunque, questi problemi sottendono forti complessità che investono
le radici del diritto dell’arbitrato e non sono risolvibili in modo surrettizio con l’adozione frettolosa di qualche regola in uno strumento
come il Regolamento, non concepito per disciplinare l’arbitrato (105).
I profeti dell’ortodossia europea possono anche trarre conforto
dal fatto che il nuovo sistema estenderebbe all’arbitrato una forma di
controllo del paese d’origine che accentua il ruolo dei giudici della
(102) Si veda RADICATI DI BROZOLO, Arbitration and Competition Law: the Position of
the Courts and of the Arbitrators, in Arbitration International, 2011, 23-25.
(103) Cfr. supra sezione 7.2.
(104) Se ci si pone nella prospettiva qui considerata, uno dei problemi è che la nuova
regola introduce il rischio di interruzioni dei procedimenti giudiziari attraverso l’uso di eccezioni di arbitrato abusive (supra Sezione 5.4.), che è l’opposto del ricorso abusivo all’arbitrato di cui ci si lamenta attualmente. Come menzionato, è probabile che la Corte di Giustizia sia chiamata a risolvere questa situazione.
(105) Cfr. supra sezione 4.3.
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sede, sebbene in parallelo con quello degli arbitri. Questo trapianto
di un istituto fondamentale del diritto dell’Unione europea nel diritto
dell’arbitrato è interessante sotto il profilo della tecnica giuridica e
indubbiamente riduce, in una prospettiva favorevole sia all’integrazione sia all’arbitrato, l’attuale libertà di cui godono gli Stati membri nel disciplinare le convenzioni arbitrali e nel determinare la propria giurisdizione in presenza di tali convenzioni. L’assenza di un’armonizzazione minima è in parte compensata dalla vigenza, in tutti
gli Stati membri, della Convenzione di New York che, seppure meno
direttamente di un’armonizzazione ad opera dell’Unione, assicura
una comunanza di principi di base in grado di assicurare una soglia
minima di rispetto delle convenzioni arbitrali che giustifica l’attribuzione al giudice della sede della competenza a giudicare sulla validità di tali convenzioni.
9. Ad un’analisi non pregiudizialmente prevenuta nei confronti degli sforzi della Commissione in punto di arbitrato, la Proposta può dunque ritenersi un buon compromesso sull’annosa questione dei rapporti tra arbitrato e spazio giudiziario europeo (106).
Considerate le varie soluzioni possibili e le loro implicazioni, essa
appare idonea a disciplinare in modo relativamente soddisfacente, e
certo migliore del ricorso alle anti-suit injunctions, la questione più
pressante sotto il profilo pratico, ossia il concorso fra procedimenti
arbitrali e giudiziari, senza peraltro comportare significativi svantaggi o passi indietro. Pur se anch’essa sarà sicuramente oggetto di
critiche, e pur se è ben possibile che essa non venga mai adottata,
come potrebbe fare presagire la posizione del Parlamento Europeo (107), è difficile immaginare una soluzione diversa in grado di disciplinare tale questione e le altre che si pongono in questo contesto
(106) L’approccio costruttivo e allo stesso tempo moderato della Proposta ha indotto
l’autore a superare il proprio iniziale scetticismo in merito a qualsiasi forma di intervento sul
Regolamento volta a disciplinare l’arbitrato (cfr. RADICATI DI BROZOLO, Choice of court and
arbitration agreements, cit.).
(107) Cfr. supra, nota 4 e 25. Se la posizione del Parlamento è ispirata dal timore che
l’inserimento di disposizioni sull’arbitrato nel Regolamento dia adito ad un’estensione della
competenza dell’Unione su questa materia, essa si fonda probabilmente su un’illusione, visto
che i molti contatti tra diritto dell’Unione e arbitrato, e in generale l’atteggiamento espansivo
dell’Unione sul tema delle proprie competenze interne ed esterne lasciano prevedere che presto o tardi una tale estensione vi sarà comunque.
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senza nel contempo sollevare problemi ancora maggiori e provocare
insoddisfazioni ancora più serie nell’una o nell’altra delle fazioni che
si sono fronteggiate in modo cosı̀ acceso sul tema negli ultimi anni.
È comunque da prevedere che il tema dei rapporti tra arbitrato
e spazio giudiziario europeo continuerà ad occupare pratici e teorici
ancora per qualche tempo.
This paper discusses the provisions on arbitration of the European Commission’s December 2010 draft review of Reg. (EC) 44/2001 against the backdrop of
the earlier proposals on the inclusion of arbitration within the scope of the Regulation. The analysis focuses principally on the functioning and implications of the
lis pendens mechanism laid down by Article 29(4) of the draft, pointing out the
analogy between the role conferred on the law and forum of the seat of the arbitration and the mechanism of home country control that is at the heart of European
Union law. The article also analyzes the reasons and positive consequences of the
Commissions’ restraint in not extending the scope of the Regulation to other arbitration-related issues, especially the circulation of judgments dealing with the validity of arbitration agreements and awards. The article’s conclusion is that the
Commission proposal is well balanced. Whilst it does not solve all problems relating to conflicts between court proceedings and arbitration within the EU, it addresses the most pressing one, that of concurrent court and arbitration proceedings. Moreover, it does so in terms which, in contrast to the use of anti-suit injunctions in aid of arbitration, are reconcilable with the basic tenets of European
Union law. Its approach is indisputably favourable to the development of arbitration and does not jeopardize the acquis in terms of arbitration law of the more
advanced member States.
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Profili di responsabilità degli organismi
di mediazione e dei mediatori
TOMASO GALLETTO (*)
1. Premessa. — 2. La natura imprenditoriale dell’attività degli organismi di
mediazione e la c.d. Direttiva Servizi. — 3. Il contratto di gestione della mediazione. — 4. I rapporti con il mediatore. — 5. La responsabilità degli organismi. — 6. (Segue): la responsabilità dei mediatori. — 7. I profili assicurativi. — 8. Conclusioni.
1. A far data dal 20 marzo 2011, come è noto, il sistema normativo di risoluzione alternativa, in sede stragiudiziale, delle controversie in materia civile e commerciale ha trovato attuazione con
l’entrata in vigore delle (molto controverse) disposizioni in tema di
mediazione obbligatoria.
Per la verità si tratta di una attuazione (ancora) incompleta, in
quanto con il recente decreto c.d. « milleproroghe » è stata differita
al 20 marzo 2012 l’obbligatorietà del preventivo tentativo di conciliazione nelle materie che riguardano il condominio e la responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli e natanti.
Al di fuori delle due materie sopra indicate, peraltro, l’attuazione sul piano normativo della decisa presa di posizione del legislatore in favore della risoluzione stragiudiziale delle controversie civili
e commerciali — che abbiano ad oggetto diritti disponibili — è ormai compiuta.
Al D.Lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, attuativo della delega legislativa contenuta all’art. 60 della Legge n. 69/2009 (di seguito, il
« Decreto »), si è infatti aggiunto il Regolamento istitutivo del registro degli organismi di mediazione e di formazione dei mediatori
adottato con Decreto del Ministro della Giustizia n. 180 del 18 ottobre 2010 (di seguito, il « Regolamento »).
(*)
Avvocato in Genova.
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La previsione di organismi deputati ad amministrare lo svolgimento della mediazione finalizzato alla conciliazione ed ai quali le
parti debbono (nelle materie di cui all’art. 5 del Decreto) fare ricorso
quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, rende
necessario indagare il problema connesso alla natura del rapporto
che si instaura tra le parti della procedura di mediazione e l’organismo che la amministra, nonché quello con il terzo mediatore e le responsabilità che conseguono all’instaurazione di tali rapporti.
Si tratta di profili di indagine relativamente nuovi che non
hanno ancora formato oggetto di studi approfonditi.
Con riferimento ai rapporti tra l’organismo di mediazione e le
parti del relativo procedimento si ripropongono, in larga misura, le
questioni — da tempo invece oggetto di indagine in dottrina — relative alla esperienza degli arbitrati amministrati, che sotto questo
profilo non si differenziano sostanzialmente rispetto alle procedure di
mediazione amministrata (1).
(1) Per quanto riguarda l’esperienza italiana in tema di arbitrato amministrato un
importante punto di riferimento è tuttora costituito da NOBILI, L’arbitrato delle associazioni
commerciali, Padova, 1957; utili riferimenti sono riportati da RECCHIA, L’arbitrato istituzionalizzato nell’esperienza italiana, in questa Rivista, 1992, 165 ss.; interessanti considerazioni
sul ruolo delle camere arbitrali sono svolte da RUBINO-SAMMARTANO, Il diritto dell’arbitrato,
Padova, 2002, 461 ss.; per una efficace sintesi delle problematiche connesse agli arbitrati
amministrati v. POLVANI, Arbitrato amministrato e camere arbitrali, in Dizionario dell’arbitrato, a cura di IRTI, Torino, 1997, 13 ss.; una ampia ed importante rassegna delle questioni
relative all’arbitrato istituzionale si deve a AZZALI, L’arbitrato amministrato e l’arbitrato ad
hoc, in L’arbitrato. Profili sostanziali, a cura di ALPA, Torino, 1999, 809 ss.; con specifico
riferimento agli arbitrati amministrati dalle camere di commercio v. BUONFRATE - LEOGRANDE,
L’arbitrato amministrato dalle camere di commercio, con introduzione di GIOVANNUCCI ORLANDI, Milano, 1998; CAPONI, L’arbitrato amministrato dalle camere di commercio in Italia,
in questa Rivista, 2000, 663 ss.. Più recentemente E.F. RICCI, Note sull’arbitrato amministrato, in Riv. dir. proc., 2002, 1 ss.; AZZALI, Arbitrato amministrato, in Codice degli arbitrati, delle conciliazioni e di altre ADR, a cura di BUONFRATE e GIOVANNUCCI ORLANDI, Torino,
2006, 49 ss.; CORSINI, L’arbitrato secondo regolamenti precostituiti, in questa Rivista, 2007,
295 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova disciplina dell’arbitrato amministrato, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2008, 993 ss.; PUNZI, Brevi note in tema di arbitrato amministrato, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2009, 1325 ss.; BERLINGUER, L’arbitrato amministrato, in (a cura di) RUBINOSAMMARTANO, Arbitrato, ADR, Conciliazione, l’arbitrato amministrato, Bologna, 2009, 405
ss.; GALLETTO, op. ult. cit., Il ruolo delle istituzioni arbitrali, 395 ss.
Sulla conciliazione amministrata in Italia v. BUONFRATE - LEOGRANDE, La giustizia alternativa in Italia tra ADR e conciliazione in questa Rivista, 1999, 375 ss.; CAPONI - ROMUALDI, La conciliazione amministrata dalle camere di commercio, in GIACOMELLI (a cura di),
La via della conciliazione, cit., 152; MINERVINI, Le Camere di Commercio e la conciliazione
delle controversie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, II, 945; ID., La conciliazione amministrata dalle Camere di Commercio, in GABRIELLI - LUISO (a cura di), I Contratti di composizione delle liti, Torino, 2005, 242 ss. Per una ricostruzione del fenomeno della conciliazione
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Le principali questioni che debbono essere affrontate riguardano, da un lato, la qualificazione giuridica del rapporto che si instaura tra l’organismo di mediazione e le parti e, dall’altro, quello
relativo alle responsabilità conseguenti all’inadempimento od inesatta esecuzione del rapporto da parte dell’organismo chiamato ad
amministrare la mediazione finalizzata alla conciliazione.
In questa prospettiva, l’indagine deve necessariamente prendere
le mosse dalla natura degli organismi di mediazione e della qualificazione del rapporto contrattuale che si instaura tra essi ed i fruitori
del relativo servizio.
2. La legge-delega in materia di mediazione e di conciliazione delle controversie civili e commerciali dispone che, nell’attuazione della delega, il legislatore debba « prevedere che la mediazione
sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione » (art. 60, comma
3, lett. b), L. n. 69/2009).
Vi è quindi una chiara opzione in favore della « mediazione
amministrata », per tale intendendosi la gestione del procedimento
finalizzato alla ricerca di un accordo amichevole per la composizione
di una controversia, affidata ad enti che garantiscano la professionalità e la qualità del relativo servizio.
Per quanto concerne la costituzione degli organismi di mediazione il Decreto prevede, all’art. 16, che « gli enti pubblici o privati,
che diano garanzie di serietà ed effıcienza, sono abilitati a costituire
organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il
procedimento di mediazione nelle materie di cui all’art. 2 del presente decreto » e quindi nell’ambito di controversie civili e commerciali vertenti su diritti disponibili.
Descritte, nei termini che precedono, le previsioni legislative in
tema di organismi di mediazione e richiamata la definizione che di
essi è offerta dal preambolo del Decreto (« ente pubblico o privato,
amministrata in Italia v. ROMUALDI, La conciliazione amministrata: esperienze e tendenze in
Italia. in questa Rivista, 2005, 401 ss. ed ivi amplia bibliografia; UZQUEDA, Conciliazione
amministrata, in BUONFRATE - GIOVANNUCCI ORLANDI (a cura di), Codice degli arbitrati, delle
conciliazioni e di altre ADR, Torino, 2006, 162 ss.; GIOVANNUCCI ORLANDI, La normativa italiana in materia di conciliazione « convenzionale », in RUBINO-SAMMARTANO (a cura di), Arbitrato, ADR, conciliazione, Bologna, 2009, 1215 ss.
Sulla disciplina introdotta con il D.Lgs. n. 28/2010 v. GALLETTO, Il modello italiano di
conciliazione stragiudiziale in materia civile, Milano, 2010.
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presso il quale può svolgersi il procedimento di mediazione », art. 1,
lett. d), occorre approfondire taluni profili.
Innanzi tutto si pone la questione della natura della attività
svolta dagli organismi di mediazione.
La legge delega, come si è già osservato, indica l’attività di tali
organismi nella « erogazione del servizio di mediazione ».
In questa prospettiva rileva la nozione di imprenditore di cui
all’art. 2082 c.c. a mente del quale — per quanto qui interessa — è
imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica
finalizzata (tra l’altro) allo « scambio di servizi » (e la nozione di
« professionalità » è esattamente richiamata dal legislatore delegante
con la locuzione « organismi professionali e indipendenti »).
Gli enti pubblici o privati che metteranno a disposizione degli
utenti « servizi di mediazione » sia direttamente, sia mediante « organismi » a ciò deputati dovrebbero quindi essere considerati imprenditori.
Né deve trarre in inganno la intrinseca natura (di una parte) dei
servizi offerti al pubblico da tali enti o organismi, che potrebbe essere ricondotta alla prestazione di un’opera intellettuale (in particolare, l’attività specifica del mediatore).
A prescindere dalla considerazione che una parte rilevante dei
servizi offerti nell’ambito della mediazione riguarda l’amministrazione della procedura, la predisposizione dei locali e delle attività
accessorie (attività tutte certamente non riconducibili alla prestazione
di opera intellettuale), ciò che rileva ai fini della qualificazione imprenditoriale dell’attività di mediazione amministrata è la constatazione che nella normalità dei casi gli organismi di mediazione offrono prestazioni intellettuali altrui: per ciò stesso essi rivestono la
qualità di imprenditore (2).
Acclarata, sulla base delle considerazioni che precedono, la
qualità di imprenditore degli organismi di mediazione, si deve indagare sulla ascrivibilità di essi alla più specifica categoria degli imprenditori commerciali di cui all’art. 2195 c.c.
A questo proposito, accedendo alla tesi predominante in dottrina deve ritenersi che l’impresa destinata alla produzione di servizi
appartiene al novero delle imprese commerciali in quanto qualsiasi
(2) Sulla qualità di imprenditore di colui che organizza ed offre sul mercato le prestazioni intellettuali altrui v. per tutti GALGANO, Imprenditore, voce del Dig. disc. priv., Sez.
comm., Torino, 1992, vol. VII, 1 ss. spec. 5).
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attività diretta alla produzione di servizi è, per ciò stesso, una attività commerciale (3).
Gli enti pubblici o privati che eserciteranno direttamente l’attività finalizzata alla erogazione di servizi di mediazione sarebbero
quindi tendenzialmente ascrivibili, con riferimento a quella attività di
impresa, alla nozione di imprenditori commerciali con gli obblighi
che dalla legge conseguono a tale qualificazione.
Ma l’affermazione necessita talune precisazioni.
Quanto agli enti pubblici occorrerà distinguere in ragione dello
svolgimento dell’attività di erogazione dei servizi di mediazione in
via esclusiva o principale (e in questo caso non vi sarà dubbio sulla
assunzione della qualità di imprenditore commerciale ex art. 2201
c.c.) ovvero in via secondaria o non prevalente (e in questa ipotesi
essi non assumeranno la qualifica di imprenditore commerciale con
conseguente sottrazione all’obbligo della iscrizione nel registro delle
imprese e della tenuta delle scritture contabili).
La prima ipotesi, relativa ad un ente pubblico che in via esclusiva o principale eserciti il servizio di mediazione è tendenzialmente
soltanto teorica, mentre più concreta è l’ipotesi in cui un ente pubblico costituisca un organismo di mediazione, quale attività non prevalente.
Esempio tipico in proposito è costituito dagli organismi istituiti
presso le camere di commercio ai sensi della Legge n. 580 del 1993
che ha attribuito agli enti camerali il compito di istituire servizi di
conciliazione sia per le controversie tra imprese sia per quelle derivanti dai rapporti tra queste ed i consumatori (4).
(3) In questo senso GALGANO, Imprenditore commerciale, voce del Dig. disc. priv.,
Sez. comm., Torino, 1992, vol. VII, 16 ss. spec. 20). La diversa tesi che individua una terza
figura di imprenditore, distinta da quello agricolo e da quello commerciale e definibile quale
imprenditore « civile » il quale non svolgerebbe né attività industriale né attività di intermediazione nello scambio di beni o servizi, sostenuta in dottrina da CASANOVA, Impresa e
azienda, 120 ss., e da Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale8, V, 325, 1974, non
sembra condivisibile in quanto ciò significherebbe sottrarre all’obbligo di tenuta delle scritture contabili e alla soggezione al fallimento dello sterminato numero di imprese che erogano
servizi nell’ambito di una produzione non industriale; cosı̀, appunto, GALGANO, op. ult. cit. 19
ed ivi richiami alla giurisprudenza che sembra univocamente orientata ad escludere l’individuazione della categoria dell’imprenditore « civile ».
(4) Sulla natura degli organismi istituiti presso le camere di commercio ai fini della
gestione di procedure amministrate di arbitrato e conciliazione a seguito della riforma del
1993 v. CAPONI, L’arbitrato amministrato dalle camere di commercio in Italia, in questa Rivista, 2000, 663 ss., spec. 674; CAPONI - ROMUALDI, La conciliazione amministrata dalle camere di commercio, in GIACOMELLI (a cura di), La via della conciliazione, Milano, 2003, 152;
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L’organismo cosı̀ costituito presso le camere di commercio è
configurato quale azienda speciale dell’ente e si ritiene si tratti dello
svolgimento di un servizio pubblico di composizione delle controversie (5).
Rispetto a questi organismi camerali, che erogano il servizio di
mediazione amministrata nell’ambito delle competenze istituzionali
dell’ente di appartenenza, deve rilevarsi che essi, pur operando la
gestione del servizio secondo le regole del diritto privato, non costituiscono imprese commerciali, per le ragioni in precedenza indicate,
ferma restando la natura imprenditoriale dell’attività esercitata.
Del tutto diverso è il discorso relativo agli enti privati che, direttamente o tramite organismi da essi costituiti, gestiscano il procedimento di mediazione ai sensi dell’art. 16 del Decreto.
L’attività espletata da tali enti o organismi privati ha certamente
natura commerciale con conseguente applicazione ad essi dello statuto dell’imprenditore commerciale.
Le considerazioni che precedono pongono una delicata questione con riferimento agli enti associativi che intendano svolgere il
servizio di mediazione nel quadro normativo disciplinato dal Decreto.
Si pensi ad esempio agli organismi di mediazione strutturati
quali associazioni (riconosciute o non riconosciute) ovvero quali associazioni tra professionisti o società di avvocati.
Per quanto riguarda gli organismi che assumeranno la forma
della associazione, infatti, si porrà il problema della compatibilità del
tipo contrattuale associativo prescelto con la natura di impresa commerciale dell’attività di erogazione del servizio di mediazione amministrata.
Le associazioni che svolgono attività imprenditoriale, infatti,
sono soggette allo statuto dell’impresa commerciale e conseguentemente anche alla disciplina del fallimento dell’impresa collettiva (6).
MINERVINI, Le camere di commercio e la conciliazione delle controversie, in Riv. trim. proc.
civ., 2001, 939; AZZALI - CARUSO, Il servizio di conciliazione della Camera Arbitrale di Milano, in ALPA - DANOVI (a cura di), La risoluzione stragiudiziale delle controversie e il ruolo
dell’avvocatura, Milano, 2004, 317 ss.; ROMUALDI, La conciliazione amministrata: esperienze
e tendenze in Italia, in questa Rivista, 2005, 401 ss.; GIOVANNUCCI ORLANDI, La normativa italiana in materia di conciliazione « convenzionale », in RUBINO-SAMMARTANO (a cura di), Arbitrato, ADR, conciliazione, Bologna, 2009, 1215 ss.
(5) In questo senso CAPONI, op. cit., 674 ed i riferimenti bibliografici ivi richiamati.
(6) È noto, a questo proposito, che qualora le associazioni (riconosciute o non rico-
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Una diversa soluzione deve invece assegnarsi a quelle ipotesi in
cui l’organismo di mediazione sia costituito da una associazione tra
professionisti o da una società tra avvocati, possibilità concretamente
prevista dall’art. 4 del regolamento sulla iscrizione degli organismi
di conciliazione in materia societaria (Decreto Ministero della Giustizia 23 luglio 2004 n. 222).
Qui infatti occorre distinguere l’ipotesi in cui il servizio di mediazione, ivi compreso quello del mediatore, sia svolto dai professionisti associati o dalla società tra avvocati per mezzo dei suoi soci, da
quella in cui l’associazione o la società tra avvocati si avvalga di
mediatori estranei alla compagine associativa.
Riprendendo le considerazioni in precedenza svolte può in proposito rilevarsi che nella prima ipotesi dovrebbe escludersi la natura
imprenditoriale dell’attività in quanto l’ente si avvarrebbe direttamente delle prestazioni professionali di opera intellettuale degli associati o soci; nella seconda ipotesi, invece, poiché l’ente associativo
si avvarrebbe della prestazione d’opera intellettuale di soggetti diversi dai partecipanti alla compagine associativa, risulterebbe concretata l’ipotesi dell’esercizio di impresa commerciale, in quanto
l’ente organizzerebbe ed offrirebbe sul mercato le prestazioni
d’opera professionale altrui.
Pur ritenendo corretta, alla luce della nostra attuale legislazione, la esclusione delle professioni intellettuali dal novero delle
imprese, non può trascurarsi il diverso orientamento più volte manifestato dalla Commissione Europea, che tende ad annoverare, tra
l’altro, i servizi legali nella più ampia categoria dei servizi, con conseguente applicazione delle regole comunitarie in materia di libero
accesso ai mercati e di tutela della concorrenza.
nosciute) svolgano in concreto un’attività imprenditoriale in via esclusiva o prevalente rispetto ad ogni altra possono fallire ancorché l’ente non abbia un fine di lucro: v., ad esempio, Cass., 19 febbraio 1999, n. 1396; Cass., 18 settembre 1993, n. 9589.
Dal fallimento dell’ente associativo (non riconosciuto) conseguono delicate questioni
in ordine alla posizione degli associati che hanno agito per conto dell’associazione: l’orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza era nel senso della estensione del fallimento a coloro che hanno agito in nome e per conto della associazione, ma non mancavano
opinioni in senso contrario, anche in giurisprudenza in ragione della natura eccezionale della
regola sull’estensione del fallimento di cui all’art. 147 L.F.: cosı̀, ad esempio, App. Genova
16 luglio 2003. La nuova formulazione dell’art. 147, comma 1 L.F. sembra escludere la possibilità del fallimento in estensione degli associati, ma il punto è controverso potendosi anche ritenere che i singoli associati acquisiscano direttamente la qualifica di imprenditore
commerciale, ovviamente se l’attività dell’associazione costituisca essa stessa impresa commerciale.
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Come è stato recentemente rilevato si possono porre delicate
questioni di compatibilità del mercato regolamentato degli organismi
di mediazione che è stato introdotto dal nostro legislatore rispetto ai
princı̀pı̂ comunitari, anche con riferimento alla libera prestazione dei
servizi (7).
Sotto quest’ultimo profilo si osserva che è stata recentemente
attuata nel nostro ordinamento la Direttiva del Parlamento Europeo
e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato
interno (Direttiva 2006/123/CE).
Il decreto legislativo del 26 marzo 2010 n. 59 di attuazione
della citata Direttiva è in vigore dall’8 maggio 2010.
Occorre quindi prendere in considerazione, sia pure sommariamente, le disposizioni contenute in tale decreto legislativo, al fine di
verificare l’incidenza della normativa di recepimento della citata Direttiva nella materia considerata.
Le nuove disposizioni, infatti, si applicheranno a qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta
senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla
fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale (art. 1,
comma 1).
È evidente che in linea di principio l’attività di erogazione del
servizio di mediazione di cui al D.Lgs. n. 28/2010 è destinata a ricadere nell’ambito di applicazione delle disposizioni di recepimento
nel nostro ordinamento delle previsioni della Direttiva in tema di
servizi nel mercato interno.
Le definizioni rinvenibili nel decreto legislativo di recepimento
della disciplina comunitaria confortano la tesi della applicabilità di
essa alla materia del servizio di mediazione amministrata introdotto
dal D.Lgs. n. 28/2010.
Ai sensi dell’art. 8 della normativa di recepimento della Direttiva, infatti, si intende:
a) servizio: qualsiasi prestazione anche a carattere intellettuale
svolta in forma imprenditoriale o professionale, fornita senza vincolo
di subordinazione e normalmente fornita dietro retribuzione;
b) prestatore: qualsiasi persona fisica avente la cittadinanza di
uno Stato membro o qualsiasi soggetto costituito conformemente al
(7) V. in questo senso le interessanti considerazioni di BERLINGUER, La nuova disciplina della mediazione civile resta ancora in bilico tra Stato e mercato, in Guida al dir.,
2010, n. 12, 12 ss., spec. 13.
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diritto di uno Stato membro o da esso disciplinato, a prescindere
dalla sua forma giuridica, stabilito in uno Stato membro, che offre o
fornisce un servizio;
c) destinatario: qualsiasi persona fisica che sia cittadina di uno
Stato membro o che goda di diritti ad essa conferiti dall’ordinamento
comunitario, o qualsiasi altro soggetto indicato alla lettera b), stabilito in uno Stato membro, che a scopo professionale o per altri scopi,
fruisce o intende fruire di un servizio.
Il principio generale che ispira la normativa, di recente promulgazione, in tema di libera prestazione di servizi è quello secondo cui
l’accesso e l’esercizio delle attività di servizi costituiscono
un’espressione di libertà dell’iniziativa economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie (cosı̀
l’art. 10).
In questa prospettiva le disposizioni in tema di organismi di
mediazione, nella parte in cui prevedono l’istituzione di registri
presso i quali tali organismi debbano obbligatoriamente essere iscritti
nonché i requisiti per la iscrizione ovvero la necessità di preventive
autorizzazioni alla costituzione di organismi di mediazione dovranno
essere necessariamente coordinate con la nuova normativa in tema di
recepimento della Direttiva relativa ai servizi nel mercato interno
comunitario.
Il generale disfavore della disciplina comunitaria in tema di
servizi con riguardo a disposizioni che subordinino l’accesso ad una
attività di servizi o il suo esercizio al rispetto di specifici requisiti
ovvero all’ottenimento di specifiche autorizzazioni è temperato dalla
sussistenza di motivi imperativi di interesse generale che rendano
opportuna la sottoposizione dell’attività di servizi al possesso di particolari requisiti.
Secondo la definizione contenuta all’art. 8 lett. h) del decreto di
recepimento della più volte menzionata Direttiva costituiscono motivi imperativi di interesse generale le ragioni di pubblico interesse
tra le quali, nella materia qui considerata, rilevano la tutela dei consumatori e dei destinatari di servizi e l’equità delle transazioni commerciali.
Soltanto se si dovrà ritenere che le disposizioni in tema di costituzione, iscrizione ed autorizzazione degli organismi di mediazione ricadono nella nozione di « motivi imperativi di interesse generale » esse saranno compatibili con la disciplina comunitaria in
materia di servizi di prossimo recepimento in Italia.
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Si tratta evidentemente di questioni molto delicate che attengono alla regolazione di un nuovo mercato dei servizi di mediazione
destinato ad espandersi in misura rilevante in Italia proprio per effetto della obbligatorietà dell’esperimento di una procedura di mediazione amministrata in relazione ad una vasta categoria di controversie civili e commerciali.
L’ingresso in questo nuovo mercato non potrà certamente essere precluso o limitato nei confronti di prestatori di servizi di mediazione costituiti nell’ambito degli altri Stati membri dell’Unione
Europea, con le connesse ed intuitive difficoltà di verifica della rispondenza del servizio offerto agli standard di qualità che si reputano indispensabili per un corretto funzionamento del mercato della
mediazione amministrata.
Sotto un diverso, non meno importante, profilo deve altresı̀ rilevarsi che la disciplina di recepimento della Direttiva in tema di
servizi prevede il divieto della c.d. « discriminazione a rovescio » a
danno dei cittadini o soggetti giuridici italiani, ai quali deve pertanto
essere assicurata la parità di trattamento rispetto ai soggetti di altri
Stati membri (art. 24).
In ogni caso, al di là della verifica della compatibilità a livello
comunitario delle regole dettate in tema di organismi di mediazione,
alla luce di quanto si è osservato in precedenza emerge la necessità
che la forma e la struttura degli enti ed organismi di natura privata
che intendano svolgere il servizio di mediazione amministrata formi
oggetto di attenta considerazione per le conseguenze che possono
derivare dalla scelta di una struttura inidonea allo svolgimento di attività commerciale.
3. Per affrontare il tema della qualificazione del rapporto che
si instaura tra l’organismo di mediazione e le parti che accedono alla
procedura da questi gestita, un utile punto di riferimento è costituito
dalla esperienza maturata in materia di arbitrato amministrato.
La qualificazione del rapporto che intercorre tra le parti e l’istituzione arbitrale costituisce una delle questioni più dibattute nella
materia considerata.
La dottrina, fermo restando il carattere contrattuale del rapporto, si divide innanzitutto sulla natura del regolamento arbitrale al
quale le parti hanno inteso aderire con la stipulazione della clausola
compromissoria ovvero successivamente.
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Da un lato si sostiene che esso costituisca un’offerta al pubblico
che impegna l’istituzione come proposta contrattuale nei confronti
dei soggetti che si trovino nelle condizioni previste dal regolamento (8).
Sul presupposto, al contrario, secondo cui la distribuzione del
regolamento avrebbe lo scopo di informare il pubblico circa le modalità di svolgimento della procedura arbitrale amministrata ma non
fonderebbe l’obbligo dell’istituzione ad accettare l’incarico, si argomenta la natura di invito ad offrire (9).
Ulteriore ed ancor più delicato profilo riguarda la qualificazione
del contratto che lega le parti e l’istituzione arbitrale.
La pluralità dei servizi e delle prestazioni offerta dall’istituzione consente di rilevare che il rapporto contrattuale che si instaura
tra essa e le parti partecipa degli elementi caratteristici di diversi
contratti tipici, quali ad esempio l’appalto di servizi, il mandato ed il
contratto di opera intellettuale, sicché se ne è rilevata in dottrina la
ascrivibilità alla categoria dei contratti misti (10).
Alcuni autori ritengono peraltro che la qualificazione più corretta sia quella che ascrive il contratto tra le parti e l’istituzione arbitrale al mandato, discutendosi peraltro se si tratti di mandato con
rappresentanza ovvero di mandato senza rappresentanza (11).
La tesi del mandato, peraltro, privilegia ai fini qualificatori soltanto taluni aspetti del complesso rapporto che si instaura tra le parti
e l’istituzione, ma sembra non considerare che nell’ambito del contratto complesso non può escludersi ogni rilevanza degli altri elementi voluti dalle parti che concorrono a fissare il contenuto e l’ampiezza del vincolo contrattuale con la conseguenza che, anche volendo riconoscere la prevalenza dell’elemento causale tipico del
mandato, non si può escludere l’applicabilità di altre norme in
quanto non incompatibili con quelle che disciplinano il contratto
prevalente.
(8) Cosı̀, ad esempio, MIRABELLI, Contratti nell’arbitrato (con l’arbitro; con l’istituzione arbitrale), in Rass. arb., 1990, 3 ss., argomentando nel senso che il rifiuto della prestazione da parte della istituzione non discende da una valutazione discrezionale bensı̀ soltanto dalla constatazione della insussistenza delle condizioni previste dal regolamento medesimo.
(9) Cfr., in questo senso, RUBINO-SAMMARTANO, op. cit., 460.
(10) Cfr. CAPONI, op. cit., 678, ed ivi ulteriori riferimenti alle diverse teorie.
(11) Per la prima tesi cfr. POLVANI, op. cit., 23; per la seconda RUBINO-SAMMARTANO,
op. cit., 461.
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Per queste ragioni resta più persuasiva la tesi che qualifica tale
contratto alla stregua di un contratto complesso o misto in cui accanto alla disciplina del mandato troveranno applicazione, se del
caso, le norme che disciplinano l’appalto di servizi ovvero quelle relative alla prestazione d’opera.
Potrebbe altresı̀ sostenersi la natura di contratto atipico del rapporto che lega le parti e l’istituzione arbitrale in quanto l’attività di
quest’ultima, che si sostanzia nella amministrazione del procedimento arbitrale, pur presentando i connotati tipici di taluni tipi contrattuali, non ne rivela uno prevalente.
Si osserva, in proposito, che tendenzialmente l’oggetto del
mandato deve consistere nel compimento di uno o più atti giuridici
per conto del mandante, dovendosi cosı̀ escludere che possa dar
luogo ad un mandato lo svolgimento di attività organizzativa ovvero
esecutiva riguardante adempimenti tecnico-pratici e di cooperazione
materiale.
Se i rilievi che precedono sono condivisibili ne esce rafforzata
appunto la tesi della atipicità del contratto che lega l’istituzione arbitrale con le parti (12).
Con riferimento al fenomeno della conciliazione amministrata
si è recentemente osservato che il servizio di conciliazione è prestato
sulla base di un rapporto giuridico che può definirsi « contratto di
amministrazione di conciliazione » nell’ambito del quale la pubblicità del regolamento del servizio costituirebbe offerta al pubblico
ovvero, ove il regolamento non contenesse tutti gli elementi per la
conclusione del contratto, semplice invito ad offrire (13).
Anche con riferimento al rapporto contrattuale che lega l’organismo di mediazione alle parti sembra possibile riferirsi, dal punto di
vista qualificatorio, a quanto in precedenza si è argomentato con riferimento all’analogo fenomeno dell’arbitrato amministrato e cosı̀
privilegiare la tesi che qualifica tale contratto alla stregua di un con(12) Sulla natura del rapporto tra le parti e l’istituzione arbitrale v., da ultimo, BERop. cit., 408, che propende per la qualificazione quale fattispecie contrattuale mista
che riassume in sé i lineamenti di altri fattispecie contrattuali tipiche (appalto di servizi,
mandato, contratto d’opera intellettuale) assieme a taluni connotati propri.
(13) In questo senso, cfr. ROMUALDI, op. cit., spec. 407. Secondo l’A. il contratto di
amministrazione di conciliazione presenta elementi dell’appalto di servizi e dell’opera intellettuale: da un lato infatti l’istituzione presta i servizi inerenti alla amministrazione del procedimento e dall’altro presta un’opera intellettuale nel tentare la conciliazione tra le parti avvalendosi del conciliatore, con il quale essa conclude a sua volta un contratto di prestazione
d’opera intellettuale.
LINGUER,
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tratto complesso o misto in cui accanto alle regole del mandato troveranno applicazione, se del caso, le norme che disciplinano l’appalto di servizi ovvero quelle relative alla prestazione d’opera.
4. Per quanto riguarda il rapporto tra il mediatore e le parti,
invece, è dubbia la possibilità di fare riferimento, ai fini della sua individuazione e conseguente qualificazione, al rapporto che si configura tra l’arbitro e le parti.
Quest’ultimo rapporto è pacificamente riconducibile allo
schema del contratto d’opera intellettuale di cui all’art. 2230 c.c. tra
l’arbitro e le parti e ciò discende dalla constatazione che la nomina
degli arbitri, salvo ipotesi eccezionali, è sempre riferibile a un atto
di volontà delle parti stesse, rispetto alle quali l’arbitro, dietro compenso, si obbliga a decidere la controversia insorta (14).
Nell’ambito della mediazione amministrata, al contrario, è ipotesi eccezionale quella in cui siano le parti ad individuare e a nominare il conciliatore: ove tale ipotesi ricorra è ragionevole ritenere che
si instauri tra mediatore e parti un contratto d’opera professionale
nell’ambito del quale il mediatore si obbliga ad attivarsi professionalmente, con la necessaria diligenza, per l’espletamento del tentativo di conciliazione.
Al di fuori dell’ipotesi eccezionale sopra ricordata, invece, l’attività del mediatore sembra configurabile quale ausiliaria di quella
espletata dall’organismo di mediazione e sarà quindi quest’ultimo ad
(14) In giurisprudenza tale qualificazione è assolutamente pacifica, ritenendosi che
« qualunque sia la natura — pubblicistica o privatistica — dell’arbitrato rituale, certo è che
fra i contendenti e gli arbitri si perfeziona, con l’accettazione da parte di questi ultimi dell’incarico, un contratto di diritto privato, dal quale deriva, da un lato l’obbligazione degli
arbitri di decidere la controversia ad essi devoluta compiendo tutte le attività necessarie
strumentali o consequenziali e, dall’altro a carico solidale dei committenti l’obbligo di corrispondere agli arbitri il compenso per l’opera prestata e di rimborsare ai medesimi le spese
anticipate per il giudizio (art. 814, comma 1, c.p.c.). Si tratta di un negozio riconducibile
nello schema del contratto di opera intellettuale (art. 2230 c.c.) » (Cass., 4 aprile 1990, n.
2800, in questa Rivista, 1991, 87 ss.; più recentemente Cass., 26 novembre 1999, n. 13174,
in Foro it. Mass., 1999). È interessante notare che in altri ordinamenti, quale ad esempio
quello tedesco, il rapporto contrattuale tra arbitri e litiganti è da qualificarsi come contratto
di servizio nell’ipotesi in cui sia previsto — come normalmente accade — un corrispettivo
in favore degli arbitri mentre la qualificazione in termini di mandato è propria delle rare ipotesi in cui l’incarico dell’arbitro sia svolto gratuitamente; per un approfondito studio sulla disciplina tedesca in materia cfr. SANGIOVANNI, Il rapporto contrattuale tra gli arbitri e le parti
nel diritto tedesco, in I Contratti, 2005, 827 ss.
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instaurare un contratto di prestazione d’opera con il mediatore (15).
Tale ricostruzione potrebbe essere messa in discussione alla
luce di quanto oggi dispone l’art. 14 del Decreto sotto la rubrica
« obblighi del mediatore ».
La disposizione citata, infatti, al suo primo comma prevede che
« Al mediatore e ai suoi ausiliari è fatto divieto di assumere diritti o
obblighi connessi, direttamente o indirettamente, con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione
dell’opera o del servizio; è fatto loro divieto di percepire compensi
direttamente dalle parti ».
La formulazione della norma è ambigua, in quanto non esclude
che il mediatore assuma diritti o obblighi nei confronti delle parti in
relazione alla prestazione della sua opera, né in senso contrario può
argomentarsi dal divieto per il mediatore di percepire compensi direttamente dalle parti.
Quest’ultima previsione, infatti, è conforme alla prassi seguita
da numerose istituzioni che gestiscono arbitrati amministrati che si
interpongono nel pagamento dei compensi liquidati agli arbitri (16).
Dovrà conseguentemente approfondirsi la questione se effettivamente nell’ambito della mediazione amministrata il rapporto contrattuale si svolga esclusivamente con l’organismo che gestisce quest’ultima ovvero se accanto al contratto con l’organismo possa o
debba individuarsi anche un contratto di prestazione d’opera intellettuale tra le parti e il mediatore.
5. Venendo ora ad esaminare i profili di responsabilità degli
organismi di mediazione nei confronti delle parti, possono svolgersi
le sintetiche considerazioni che seguono.
Il problema della responsabilità degli enti che offrono servizi di
amministrazione dell’arbitrato ovvero della mediazione finalizzata
alla conciliazione è tra i più delicati e meno indagati nella materia
considerata.
(15) In questo senso, cfr. ROMUALDI, op. cit., spec. 408 e nota 26.
(16) Secondo la prassi della Camera di Commercio Internazionale, ad esempio, il
pagamento delle spese dell’arbitrato in favore degli arbitri viene effettuato dal segretariato in
nome e per conto delle parti, in virtù del mandato di pagamento conferito con il contratto di
arbitrato, mentre le relative fatture vengono emesse dagli arbitri direttamente a carico delle
parti: sulla disciplina delle spese secondo il regolamento ICC v. recentemente ALLOTTI, in
BRIGUGLIO - SALVANESCHI (a cura di) Regolamento di arbitrato della Camera di Commercio
Internazionale, Commentario, sub art. 31, Milano, 2005, 535.
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Con riferimento all’esperienza dell’arbitrato amministrato, storicamente più diffusa, le indicazioni rinvenibili nella dottrina e nella
giurisprudenza non sono numerose.
Nell’esperienza dell’arbitrato internazionale amministrato dalla
Camera di Commercio Internazionale si rinvengono pochi precedenti
in tema di responsabilità nell’ambito della gestione di un arbitrato
amministrato.
Una decisione della Corte di Appello di Parigi sembra presupporre la sussistenza di responsabilità dell’ente che amministra l’arbitrato per inadempimento agli obblighi contratti con le parti nell’ambito della organizzazione dell’arbitrato, anche se nel merito esclude
che siano ravvisabili profili di responsabilità (17).
L’ipotesi di una responsabilità dell’ente che amministra l’arbitrato è peraltro presa in considerazione dalla nuova versione del regolamento della ICC il quale all’art. 34, sotto la rubrica « esclusione
della responsabilità » cosı̀ dispone: « Né gli arbitri, né la corte e i
suoi membri, né la Camera di Commercio Internazionale e i suoi dipendenti, né i comitati nazionali sono responsabili verso chiunque
per atti o omissioni relativi ad un arbitrato ».
Si tratta di una significativa novità introdotta nella nuova versione del regolamento emanata nel 2001 e non è difficile immaginare
che la norma sia stata dettata proprio dal precedente giurisprudenziale al quale si è fatto riferimento (18).
Al riguardo, tuttavia, è utile segnalare una recente decisione
della Corte di Appello di Parigi che non ha esitato a considerare
inefficace (« non scritta ») la clausola di esonero della responsabilità
della CCI di cui all’art. 34 del Regolamento arbitrale, nella misura
in cui essa contraddice le obbligazioni essenziali di una istituzione
arbitrale (19)
Una previsione analoga è contenuta nel regolamento ICC/ADR,
(17) Si tratta della decisione del COUR D’APPEL DE PARIS 1ère Ch. A, 15 settembre
1998, Societé Cubic Defense Systems Inc. c. Chambre de Commerce Internationale, in questa Rivista, 2000, 793 con nota di GOSI, Sulla responsabilità della CCI quale istituzione permanente di arbitrato ed ivi le pertinenti indicazioni bibliografiche.
(18) Sulla esclusione convenzionale della responsabilità della ICC e degli Arbitri v.
PIETRANGELI, in BRIGUGLIO - SALVANESCHI, op. cit., sub art. 34, 559 ss. ove interessanti considerazioni anche in ordine alla diversa soluzione sulla validità della clausola di esonero da responsabilità nei vari ordinamenti.
(19) Cfr. COUR D’APPEL PARIS, 1ere Ch., 22 janvier 2009, SNF sas c. Chambre de
Commerce internationale (CCI), in Les Cahiers de l’arbitrage, 2010, 1, con nota di DERAINS
e SCHROEDER, Institutions d’arbitrage et responsabilité.
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sempre del 2001. Dispone infatti l’art. 7, comma 5 di tale regolamento che: « Né il Terzo, né la Camera di Commercio Internazionale
e il suo personale, né i Comitati nazionali della ICC saranno responsabili nei confronti di chicchessia per fatti, atti od omissioni
connessi al procedimento ADR ».
Nel nostro ordinamento, peraltro, l’efficacia delle clausole di
esonero della responsabilità degli enti che amministrato l’arbitrato o
il servizio di mediazione deve essere verificata alla luce delle disposizioni di cui all’art. 1229 c.c., a mente del quale è nullo qualsiasi
patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave.
In ogni caso, per quanto consta, i regolamenti attualmente utilizzati nella prassi italiana non contengono clausole di esonero della
responsabilità.
La questione deve quindi essere risolta secondi i principı̂ generali.
In questa prospettiva si osserva che la riconduzione del rapporto tra l’organismo di mediazione e le parti ad un contratto (sia
pure di incerta qualificazione tale da indurre a ritenere l’atipicità di
tale rapporto) rende applicabili le norme codicistiche in tema di
adempimento delle obbligazioni.
Errori e/o omissioni nell’espletamento dell’incarico ricevuto
dalle parti esporranno quindi l’organismo alle conseguenti responsabilità per inadempimento e/o inesatto adempimento.
Saranno applicabili le regole che addossano al debitore della
prestazione l’onere di dimostrare che l’inadempimento deriva da
causa a lui non imputabile e più in generale tutte le regole in materia di responsabilità contrattuale.
Non è difficile immaginare ipotesi di responsabilità dell’organismo di mediazione: si pensi, ad esempio, alla violazione del dovere
di riservatezza che connota tutto l’espletamento della procedura di
mediazione, ma anche alla omissione della tempestiva trasmissione
della domanda di conciliazione, quando da tale omissione consegua
un danno (mancato o ritardato effetto interruttivo della prescrizione
o impeditivo della decadenza).
Sussisterà, ancora, responsabilità nell’ipotesi in cui venga predisposto un accordo di conciliazione in materia di diritti indisponibili ovvero il cui contenuto sia contrario a norme imperative.
La nullità dell’accordo determinerà una evidente responsabilità
contrattuale dell’organismo di mediazione anche sotto il profilo di
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cui all’art. 1228 c.c. secondo il quale il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi (nella specie il
mediatore) risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.
Ancora, vi sarà responsabilità nell’ipotesi in cui l’organismo
non sia più abilitato, attraverso la persistente iscrizione nel registro
ministeriale, all’espletamento del servizio offerto.
In questo caso, infatti, l’eventuale verbale di accordo non potrà
conseguire l’omologazione da parte del Presidente del tribunale, difettando un presupposto legale necessario ai fini della attribuzione
dell’efficacia di titolo esecutivo al verbale di accordo.
Ancora, la mancanza di imparzialità o di professionalità nella
gestione della procedura di mediazione possono certamente costituire fonte di responsabilità dell’organismo nei confronti delle parti
del procedimento.
Le ipotesi di responsabilità dell’organismo che gestisce il tentativo di conciliazione, del resto, sono da tempo all’attenzione degli
organi comunitari.
Di questi problemi si è discusso nell’ambito del Libro Verde
Comunitario, relativo ai modi di risoluzione delle controversie in
materia civile e commerciale (pubblicato in data 19 aprile 2002,
COM[2002]196 def.), rilevandosi che gli stati membri non sembrano
possedere norme specifiche relative alla responsabilità dei mediatori
o conciliatori e tuttavia osservandosi che la creazione di un regime
di responsabilità potrebbe avere, se ponesse misure troppo vincolanti, effetti negativi sulla utilizzazione dell’istituto della conciliazione assistita.
Il Comitato Economico e Sociale Europeo, per parte sua, nel
dicembre 2002 ha sottolineato l’inopportunità di dettare regole speciali in materia di responsabilità dei terzi conciliatori e/o degli organismi che amministrano la conciliazione, ma nel contempo ha indicato quale punto essenziale la previsione che i terzi (cioè i conciliatori) stipulino una assicurazione di responsabilità civile o a titolo
personale o per il tramite dell’organismo che li ha designati, sottolineando ancora che l’obbligatorietà della assicurazione dovrebbe risultare nel futuro codice deontologico europeo destinato ai terzi che
partecipano a procedure di ADR.
6. Il perimetro della responsabilità del mediatore non è agevolmente ricostruibile perché esso è destinato a variare a seconda
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della qualificazione che si intende assegnare al rapporto che si instaura tra il mediatore e le parti del relativo procedimento.
Se si dovesse ritenere che anche il mediatore instaura un contratto di prestazione di opera intellettuale in favore delle parti, ne deriverebbe l’ascrivibilità della conseguente responsabilità all’ambito
della responsabilità contrattuale.
Se, per converso, si optasse per l’inesistenza di tale vincolo
contrattuale, la responsabilità del mediatore si muoverebbe nel
campo della responsabilità extra-contrattuale o, più probabilmente,
nella « zona grigia » di confine tra la responsabilità contrattuale e
quella extra-contrattuale, in cui rilevano gli obblighi di protezione
degli interessi coinvolti nel procedimento (c.d. responsabilità da
contatto sociale).
Senza indugiare oltre nelle ipotesi classificatorie conviene comunque indagare i profili della responsabilità del mediatore partendo
dal dato normativo.
Gli obblighi del mediatore sono descritti all’art. 14 del Decreto
nei termini che seguono:
« a) sottoscrivere, per ciascun affare per il quale è designato,
una dichiarazione di imparzialità secondo le formule previste dal regolamento di procedura applicabile, nonché gli ulteriori impegni
eventualmente previsti dal medesimo regolamento;
b) informare immediatamente l’organismo e le parti delle ragioni di possibile pregiudizio all’imparzialità nello svolgimento della
mediazione;
c) formulare le proposte di conciliazione nel rispetto del limite
dell’ordine pubblico e delle norme imperative;
d) corrispondere immediatamente a ogni richiesta organizzativa del responsabile dell’organismo ».
Le conseguenze della violazione da parte del mediatore degli
obblighi che la legge pone a suo carico non sono espressamente disciplinate; più precisamente, non si rinviene alcun cenno alla responsabilità del mediatore.
La disciplina regolamentare attuativa del Decreto, per parte sua,
si limita laconicamente a prevedere, nella materia considerata, che
« il mediatore designato esegue personalmente la sua prestazione »
(art. 14 del Regolamento).
Qui occorre constatare una evidente differenza rispetto alle previsioni a suo tempo introdotte in tema di conciliazione societaria.
Nell’ambito della conciliazione societaria la responsabilità del
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servizio di conciliazione era disciplinata dall’art. 14 del Decreto del
Ministero di Giustizia 23 luglio 2004 n. 222, ai sensi del quale il
conciliatore designato doveva eseguire personalmente la sua prestazione e della sua opera rispondeva anche l’ente o l’organismo di appartenenza.
Dalla richiamata disposizione regolamentare emergeva la previsione di un duplice profilo di responsabilità nell’ambito del servizio
di conciliazione: da un lato la responsabilità diretta del mediatore e
dall’altro quella indiretta dell’ente o dell’organismo di appartenenza,
introdotta dalla locuzione « anche ». Vertendosi in tema di adempimento delle obbligazioni il richiamo di una responsabilità « anche »
dell’ente sembrava alludere alla responsabilità per fatto degli ausiliari, di cui all’art. 1228 c.c., già richiamato.
Resta da aggiungere, sul punto, che quel tipo di responsabilità
si estendeva anche ai fatti dolosi o colposi posti in essere dagli ausiliari, ampliando cosı̀ la tutela dell’altro contraente.
Nella nuova disciplina, come si è in precedenza evidenziato,
scompare ogni accenno sia alla responsabilità diretta del mediatore,
sia a quella (indiretta) dell’organismo di mediazione.
La questione, tra l’altro, non risulta trattata nei due pareri del
Consiglio di Stato che sono stati resi sulla bozza del Regolamento.
Resta quindi ignota la ragione della diversa formulazione dell’art. 14 del Regolamento rispetto alla analoga previsione a suo
tempo introdotta per la conciliazione societaria.
È in ogni caso evidente che, indipendentemente da una espressa
previsione normativa, il mediatore risponderà personalmente, in via
solidale con l’organismo di mediazione interessato, delle conseguenze dannose del proprio operato, e ciò in applicazione dei princı̀pı̂ generali in tema di responsabilità (contrattuale o extra-contrattuale o da contratto sociale, a seconda della qualificazione del rapporto intercorrente tra mediatore e parti del procedimento).
Dalle considerazioni che precedono emerge allora l’opportunità
di indagare sinteticamente anche i profili riconducibili alla assicurazione della responsabilità civile sia dell’organismo di mediazione,
sia del mediatore.
7. Come in precedenza è stato accennato, tra gli indirizzi comunitari in materia di conciliazione stragiudiziale vi è quello della
necessaria previsione di una copertura assicurativa obbligatoria della
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responsabilità civile dei mediatori, stipulata o a titolo personale o per
il tramite dell’organismo che li ha designati.
In questa prospettiva il Regolamento (come già quello relativo
alla conciliazione societaria) prevede tra i requisiti per l’iscrizione
nel registro degli organismi abilitati a svolgere la mediazione « il
possesso da parte del richiedente di una polizza assicurativa di importo non inferiore a € 500.000,00 per la responsabilità a qualunque
titolo derivante dallo svolgimento dell’attività di mediazione » (art.
4, comma 2, lett. b) del Regolamento).
L’opzione del legislatore, dunque, è stata quella di prevedere da
un lato l’obbligatorietà della polizza assicurativa in capo all’organismo di mediazione e, dall’altro, quello di includere nell’oggetto dell’assicurazione « la responsabilità a qualunque titolo derivante dallo
svolgimento dell’attività di mediazione », con ciò ricomprendendosi
nel rischio assicurato anche l’attività dei mediatori, della quale l’organismo risponde in via indiretta ex art. 1228 c.c.
Sul punto occorre rilevare che se tra i soggetti assicurati della
polizza vi sono anche i mediatori (ed in questo senso sembrano
orientate le polizze-tipo offerte sul mercato), si pone un problema
relativamente alla responsabilità conseguente agli atti dolosi del mediatore.
La responsabilità per dolo dell’assicurato, infatti, è esclusa dal
rischio assicurabile (arg. ex art. 1917 c.c.) e, di conseguenza, ne deriverà che da un lato l’organismo di mediazione risponderà anche
della responsabilità dolosa del mediatore (secondo le previsioni dell’art. 1228 c.c.) e, dall’altro, rispetto a quella responsabilità non potrà operare la copertura assicurativa.
La soluzione più coerente sembrerebbe allora quella di ricondurre l’attività dei mediatori, anche in ambito assicurativo, a quella
dei collaboratori dell’assicurato della cui attività quest’ultimo debba
rispondere ex art. 1228 c.c.
In questo caso, infatti, non essendo i mediatori assicurati in
senso tecnico, è possibile estendere la copertura assicurativa anche
all’ipotesi di dolo.
L’ipotesi della responsabilità del mediatore per colpa grave, che
è l’unica (oltre a quella per dolo) che può venire in rilievo ove la fattispecie implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (arg. ex art. 2236 c.c.), non presenta particolari problemi, in
quanto la colpa grave è normalmente assicurata nell’ambito della responsabilità civile (cfr. ancora art. 1917 c.c.).
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8. La prestazione del servizio di mediazione amministrata,
come si è in precedenza rilevato, costituisce attività imprenditoriale
(commerciale o non commerciale a seconda che si tratti di enti privati o pubblici) dalla quale derivano molteplici profili di responsabilità.
Anche l’attività del mediatore, che consiste nella prestazione di
opera professionale di natura intellettuale, espone alle conseguenti
responsabilità.
In questa prospettiva occorre porre particolare attenzione sia
nella configurazione dell’organismo di mediazione (che, se strutturato su base associativa, rischia di esporre i patrimoni degli associati
alle pretese risarcitorie di terzi), sia nella predisposizione delle coperture assicurative, specialmente con riferimento alle ipotesi di responsabilità dolosa del mediatore che può riverberarsi sullo stesso
organismo che di quel mediatore si sia avvalso.
L’incerta qualificazione dei rapporti che scaturiscono dall’attività di mediazione finalizzata alla conciliazione, poi, contribuisce a
sottolineare la delicatezza delle questioni connesse alla responsabilità conseguente alla prestazione del servizio.
Da ciò discende la necessità che i mediatori siano dotati di una
adeguata preparazione in campo giuridico, idonea a limitare le ipotesi in cui un errore procedurale o di diritto sostanziale (ad esempio,
in materia di diritti indisponibili o di violazione di norme imperative)
costituisca fonte di pregiudizio per le parti del procedimento di mediazione e, conseguentemente, legittimi la pretesa al risarcimento del
danno.
Anche da questa prospettiva emerge allora il rilevante ruolo che
in questa materia è riservato ai giuristi e, in particolare, agli avvocati
che — sotto questo profilo — sono certamente tra i soggetti potenzialmente più idonei a rivestire le funzioni di mediatore.
The Author analyses the topic of both the mediation bodies’ and the mediators’ liability, by investigating the relation existing between them and the parties to
the mediation procedure.
As to the mediation bodies, he first recalls the problems regarding their juridical structure and form, which arise not only from the specific regulation of the
mediation, but also from the provisions related to commercial entrepreneurs as well
as from EC Directive no. 123/2006 on services in the internal market. He then argues that the relation between the parties and such bodies can be explained as a
“mixed contract”, made of elements of mandate, operational contracts, or service
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procurement and thus their liability vis-à-vis the parties would be a contractual
one.
To the contrary, regarding the single mediator, the Author emphasizes that,
according to article 14 of Legislative Decree no. 28/2010, mediator and their assistants shall undertake no rights or obligations vis-à-vis the parties of the mediation procedure. Therefore, the single mediators’ liability vis-à-vis the parties could
only be a liability in tort, possibly based on the “social contact” theory.
Finally, the Author recalls the provision that requires mediator and mediation bodies to provide themselves with a compulsory insurance policy for civil liability and, in light of all the aspects considered, concludes that it would be strongly advisable that the mediation procedure be managed by lawyers.
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GIURISPRUDENZA ORDINARIA
I)
ITALIANA
Sentenze annotate
I
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. III civile, sentenza 9 dicembre 2010, n. 24867 —
MORELLI Pres.; FILADORO Est.; GOLIA P.G.; C.A. c. Archivio Notarile di Cosenza
e Consiglio Notarile distrettuale di Cosenza.
Arbitrato societario - Clausole statutarie difformi dall’art. 34, D.Lgs. n. 5/2003
- Nullità - Inserimento di clausole compromissorie di tipo c.d. binario Configurabilità di arbitrato di diritto comune - Insussistenza - Responsabilità del notaio per ricevimento di atti proibiti dalla legge - Sussistenza.
La previsione dell’art. 34, D.Lgs. n. 5/2003, in cui si stabilisce che la clausola compromissoria debba « in ogni caso, a pena di nullità », prevedere il potere
di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società, costituisce una formulazione inequivoca, tale da non consentire diverse interpretazioni. Pertanto il
notaio che riceve atti societari contrastanti con tale norma incorre nella sanzione
disciplinare prevista dalla legge notarile, a nulla valendo che le clausole nulle per
contrasto con norma imperativa possano eventualmente essere sostituite di diritto
dalla norma stessa ai sensi dell’art. 1419 c.c., trattandosi di rimedio predisposto
dal legislatore al solo fine di conservazione dell’atto per fini privatistici.
II
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. VI civile, sentenza 11 marzo 2011, n. 5913 — FINOCCHIARO Pres.; SEGRETO Est.; CARESTIA P.G.; C.G. c. Archivio Notarile di Bologna, Consiglio Notarile distrettuale di Bologna.
Arbitrato societario - Clausole statutarie difformi dall’art. 34, D.Lgs. n. 5/2003
- Nullità - Configurabilità di ulteriore arbitrato di diritto comune - Equivocità del dettato normativo - Inserimento di clausole compromissorie di
tipo c.d. binario - Responsabilità del notaio per ricevimento di atti proibiti dalla legge - Insussistenza.
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In presenza di contrastanti interpretazioni giurisprudenziali e dottrinali sul
punto della alternatività tra arbitrati endosocietari di cui all’art. 34, D.Lgs. n.
5/2003 e arbitrati di diritto comune, ovvero della esclusività solo dei primi in sede
societaria, l’autenticazione di un atto costitutivo contenente una clausola compromissoria con nomina degli arbitri non da parte di un terzo non rappresenta una
nullità inequivoca e ben chiara che rende legittima l’applicazione della sanzione
disciplinare per il notaio rogante.
I
CENNI DI FATTO. — Sottoposta a procedimento disciplinare per avere ripetutamente inserito in atti societari una clausola compromissoria che prevedeva il deferimento delle controversie a un collegio composto da due arbitri nominati dalle
parti e da un terzo arbitro nominato dai primi due, un notaio sostiene la tesi del c.d.
doppio binario, secondo la quale il modello di arbitrato disciplinato dalla legge del
2003 non sarebbe esclusivo ma concorrerebbe con il modello arbitrale di diritto comune regolato dal codice di rito. La Commissione Regionale di Disciplina disattende le argomentazioni difensive e irroga la sanzione disciplinare, poi confermata
dalla Corte di appello. Il notaio propone ricorso per cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE — (Omissis).
Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, in
quanto connessi tra di loro.
Con essi la ricorrente denuncia error in iudicando ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione di norme di diritto, specificamente indicate nel D.Lgs.
17 gennaio 2003, n. 5, art. 34, comma 2, nonché error in iudicando e violazione ed
erronea applicazione della Legge 16 febbraio 1913, n. 89, artt. 28, 138 e 138-bis.
La ricorrente richiama alcune decisioni di merito, secondo le quali il notaio
che abbia rogato l’atto costitutivo di una società di persone, contenente una clausola compromissoria, in violazione del D.Lgs. n. 5/2003, art. 34, comma 2, non è
passibile di sanzione disciplinare, ex art. 28 della Legge Notarile, essendo consentito ai soci di optare negli statuti societari per l’arbitrato libero.
Tra l’altro, sottolinea la ricorrente, il notaio rogante non può in alcun modo
condizionare la scelta dei medesimi in un senso o nell’altro. Numerose disposizioni
di legge confermerebbero — ad avviso della ricorrente — la sopravvivenza, anche
per le controversie endosocietarie, di altre forme di arbitrato.
Ad avviso della ricorrente, i giudici di appello avrebbero errato nel ricondurre
la clausola compromissoria difforme dalla previsione di cui al D.Lgs. n. 5/2003, art.
34, alla ipotesi di cui alla Legge 16 febbraio 1913, n. 89, art. 28, comma 1, n. 1.
Infatti, il divieto imposto da tale norma — rileva la ricorrente — attiene solo
ai vizi che diano luogo ad una nullità assoluta dell’atto con esclusione dei vizi che
comportano la mera annullabilità od inefficacia dell’atto stesso, ovvero la sua nullità relativa.
L’art. 28 della legge notarile, secondo alcune pronunce della Cassazione, qualifica la categoria degli atti proibiti, individuandola negli atti espressamente in contrasto con una disposizione di legge e colpiti da nullità.
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La nullità parziale della clausola difforme dalla disposizione dell’art. 34, del
Decreto del 2006 non si estende, ai sensi dell’art. 1419 c.c., all’intero contenuto
della disciplina negoziale. Infatti, la nullità parziale non poteva comportare in alcun caso la nullità assoluta dell’atto ricevuto dal notaio.
Non poteva, tra l’altro, essere addossato al notaio un compito di interpretazione della legge, con le connesse responsabilità, in presenza di oggettive incertezze di difficile soluzione.
Nel caso di specie, la professionista si era uniformata a numerose pronunce di
giudici di merito ed alla relazione ministeriale che autorizzavano il notaio ad applicare la norma nei sensi concretamente applicati: la relazione ministeriale di accompagnamento del D.Lgs. n. 5/2003 precisava che il nuovo modello di clausola
compromissoria introdotto nello statuto di una società costituiva una semplice opzione, rimessa alla volontà negoziale, che si aggiungeva — senza sostituirlo — al
modello codicistico.
Osserva il Collegio.
Le censure formulate dalla ricorrente sono prive di fondamento.
Appare senz’altro opportuno riportare, innanzi tutto, le disposizioni di legge
sopra citate.
Il D.Lgs. n. 5/2003, art. 34, stabilisce che:
« 34. Oggetto ed effetti di clausole compromissorie statutarie.
1. Gli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al
mercato del capitale di rischio a norma dell’art. 2325-bis c.c., possono, mediante
clausole compromissorie, prevedere la devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di
tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano
ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale.
2. La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha la sede
legale.
3. La clausola è vincolante per la società e per tutti i soci, inclusi coloro la
cui qualità di socio è oggetto della controversia.
4. Gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti e, in tale caso, essa, a seguito dell’accettazione dell’incarico, è vincolante per
costoro.
5. Non possono essere oggetto di clausola compromissoria le controversie
nelle quali la legge preveda l’intervento obbligatorio del pubblico ministero.
6. Le modifiche dell’atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole
compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due
terzi del capitale sociale. I soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi
novanta giorni, esercitare il diritto di recesso ».
A sua volta, la Legge n. 89/1913, art. 28, stabilisce che il notaio non può ricevere o autenticare atti « se essi sono espressamente proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico », Si tratta, dunque, di
stabilire se il notaio che abbia rogato un atto nel quale sia inserita una clausola
compromissoria difforme da quanto previsto dall’art. 34 del decreto del 2006 sia
passibile di sanzione disciplinare.
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2. Come questa Corte ha già statuito (Cass. 11 novembre 1997, n. 11128;
Cass. 4 novembre 1998, n. 11071; Cass. 19 febbraio 1998, n. 1766; Cass. 12 aprile
2000, n. 4657, 1o febbraio 2001 n. 1394, 7 novembre 2005 n. 21493) il divieto stabilito dall’art. 28 Legge Notarile attiene ad ogni vizio che dia luogo a nullità assoluta dell’atto, con esclusione dei vizi che diano luogo solo all’annullabilità o all’inefficacia dell’atto ovvero alla nullità relativa.
Questo orientamento merita di essere condiviso.
Infatti il divieto di cui all’art. 28, n. 1, L. Not. si riferisce solo a quegli atti
che la legge, in considerazione del loro contenuto, ritenga di non dover riconoscere
per la tutela di un interesse superiore, sottratto alla disponibilità della parte.
Gli « atti proibiti dalla legge » sono, in sostanza, gli atti nulli (in questo senso
Cass., Sez. un. 4 maggio 1989 n. 2084, che ha ritenuto l’applicabilità dell’art. 28,
n. 1, L. Not. in caso di nullità di un atto di donazione per indeterminatezza dell’oggetto).
La locuzione predetta, dato il suo carattere generale, individua tutte le ipotesi
di nullità e quindi non solo quelle ricomprese nell’art. 1418 c.c., comma 1, (atti
contrari a norme imperative), ma anche quelle indicate nei commi successivi, poiché anche gli atti affetti da queste ultime nullità sono atti contrari a norme imperative.
Infatti la contrarietà a norma imperativa è ravvisabile se il divieto ha carattere
assoluto, tale da non consentire possibilità di esenzione dalla sua osservanza per
alcuno dei destinatari della norma (Cass. 4 dicembre 1982, n. 6601).
Orbene, proprio perché l’art. 1418, in questione ai commi 2 e 3, individua
ipotesi di nullità assolute, e come tali non ammettenti deroghe, l’atto che contenesse tali specifiche ipotesi di nullità sarebbe anche « contrario a norma imperativa ».
Infatti, ove anche la norma imperativa non contenesse una espressa comminatoria di nullità dell’atto, la stessa dovrebbe pur sempre ritenersi « espressa » per effetto del combinato disposto costituito da detta norma imperativa e l’art. 1418 c.c.,
comma 1, che sanziona con la nullità ogni atto contrario a norma imperativa.
3. In altri termini l’atto vietato al notaio è l’atto che contrasta con l’ordinamento ed il contrasto con l’ordinamento lo si ricava dalla sanzione della nullità assoluta, che la legge commina a quell’atto. Esula, invece, dalla previsione di legge
la nullità relativa, rilevabile solo da chi vi abbia interesse e non di ufficio (Cass. 7
novembre 2005 n. 21493, 14 febbraio 2008 n. 3526).
Nel caso di specie, come specificato più avanti, la violazione del Decreto n.
5/2003, art. 34, comporta la nullità della clausola imperativa (v. infra).
Detta nullità è assoluta, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, non
risultando dalla legge che essa possa essere fatta valere solo da una parte a cui la
legge assegna detta facoltà espressamente ed esclusivamente (art. 1421 c.c.).
Il D.Lgs. del 2006, art. 34, non limita la facoltà di far valere la nullità ivi prevista solo in favore di determinati soggetti, detta nullità può essere — pertanto —
fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed essere rilevata d’ufficio dal giudice.
In altri termini trattasi di nullità assoluta.
4. Né può distinguersi la nullità formale da quella sostanziale.
Per il notaio, infatti, come per ogni pubblico ufficiale, la distinzione tra nullità formali e nullità sostanziali non è concepibile: ove la legge richieda necessariamente uno schema legale tipico, a pena di nullità, egli non può che ricevere l’atto
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con quei requisiti formali e sostanziali, non essendo concepibile per il pubblico ufficiale una norma che gli prescriva un semplice onere.
Ciò che rileva è che l’atto, essendo fuori dallo schema legale tipico che la
legge prevede come necessario ed indispensabile per attuare quelle modificazioni
delle situazioni giuridiche volute dalle parti, si pone in contrasto con l’ordinamento,
che lo sanziona con la nullità.
5. Né rileva la circostanza che la norma sanzionatrice (D.Lgs. del 2006, art.
34) sia successiva alla disposizione di cui all’art. 34 della Legge del 1913.
Infatti l’art. 28, in questione (che non determina la sanzione, prevista invece
dall’art. 138 L. Not.) contiene ben chiaro il precetto per il notaio ed esso è appunto
« non ricevere atti espressamente proibiti dalla legge » (da intendersi nel senso sopra detto).
Quali siano poi i vari atti vietati è rimandato di volta in volta alla volontà del
legislatore, secondo le esigenze che questi valuterà nel tempo, né può individuarsi
un modello « storico » di atto al quale ancorare in modo definitivo ed immodificabile il divieto posto dalla norma.
In altri termini il precetto è chiaro ed è coevo alla sanzione, ma dalle norme
successive vanno attinti solo gli elementi destinati a precisare la fattispecie in concreto.
In pratica, si ha un fenomeno simile a quello che in materia penale è definito
come « norma penale in bianco » (ad es. art. 650 c.p.), della cui costituzionalità non
si è dubitato in quella sede (cfr. Corte cost. 5 luglio 1971, n. 168), per cui a maggior ragione non può dubitarsene in questa sede disciplinare.
6. Del tutto irrilevante, infine, appare; la circostanza che nel caso di specie
possa, in concreto, applicarsi la disposizione di cui all’art. 1419 c.c., comma 2, (con
la sostituzione di diritto delle clausole nulle con norme imperative).
7. Infatti, la eterointegrazione del contratto non esclude affatto, ma anzi presuppone necessariamente, che sia stata posta in essere una nullità assoluta.
8. Ed è proprio la esistenza di detta nullità, posta in esser dal notaio con la
redazione della clausola nulla, che segna il momento consumativo dell’illecito, sul
quale non possono spiegare efficacia sanante, o estintiva della punibilità, rimedi
predisposti dal legislatore per conservare l’atto a fini privatistici. Ne consegue che
la sostituzione di diritto di una clausola nulla opera con riferimento al momento
genetico del contratto (Cass. 14 dicembre 2002 n. 17952) ma solo ai fini privatistici e non in relazione al diverso profilo disciplinare riguardante l’atttività svolta
dal notaio rogante, per il quale l’illecito di cui alla Legge n. 89/1913, art. 28, n. 1,
risulta definitivamente consumato, avendo carattere istantaneo (Cass. 7 novembre
2005 n. 21493).
9. La ricorrente ha ulteriormente dedotto (con il terzo motivo di ricorso) che
la ratio della disposizione dell’art. 28 legge notarile impone di ritenere che al notaio non possano addossarsi compiti ermeneutici — con le connesse responsabilità
— in presenza di incertezze interpretative oggettive.
La irricevibilità dell’atto — sottolinea ancora la ricorrente — troverebbe una
sua giustificazione solo quando il divieto possa desumersi in via del tutto pacifica
ed incontrastata da un orientamento interpretativo oramai consolidato sul punto.
Non potrebbe in ogni caso considerarsi sanzionabile quel professionista che si
fosse uniformato (come nel caso di specie) a numerose pronunce di giudici di me259
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rito, che avevano affermato la piena validità delle clausole compromissorie non
conformi al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, art. 34.
Anche quest’ultimo rilievo non coglie nel segno.
L’opera professionale della quale è richiesto il notaio non si riduce — come
sembra ritenere la ricorrente — al mero compito di accertatore della volontà delle
parti e di direzione nella compilazione dell’atto, ma si estende alle attività preparatorie e successive perché sia assicurata la serietà e la certezza degli effetti tipici
dell’atto e del risultato pratico perseguito dalle parti (Cass. 2 luglio 2010 n. 15726).
Non può dunque disconoscersi la funzione del notaio di interprete e garante
della validità delle scelte negoziali delle parti.
E nello svolgimento di questa attività non è dubbio che egli debba provvedere
anche ad una corretta interpretazione delle norme di legge, in modo da evitare la
stipulazione di atti affetti da nullità assoluta.
Correttamente, pertanto, la decisione confermata dalla Corte d’appello aveva
già rilevato che nel caso di specie si discuteva di atti societari, che si perfezionano
con l’intervento del notaio, il quale, proprio in considerazione del suo ruolo di professionista e di pubblico ufficiale autorizzato ad imprimere all’atto la pubblica fede,
deve porre in essere una opera di filtro alle richieste che gli provengono dalle parti,
anche indirizzandole e correggendole, ove possibile, ricevendo solo quelle consentite dalla legge.
Questo, soprattutto in campo societario, e specie dopo che il legislatore ha
eliminato il filtro giudiziale della omologazione, demandando al notaio la verifica
preventiva dell’adempimento delle condizioni di legge prima affidata al giudice.
10. Con riferimento alla fattispecie in esame va osservato che la esclusività
dell’impianto arbitrale introdotto dal legislatore del 2003 è stata correttamente ritenuta dai giudici di appello, sulla base della espressa previsione della nullità della
clausola in caso di inosservanza della norma.
11. Il dettato testuale della norma, la quale stabilisce che la clausola compromissoria debba « in ogni caso, a pena di nullità » prevedere il potere di nomina di
tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società, costituisce una formulazione inequivoca, tale da non consentire diverse interpretazioni.
La tesi del « doppio binario » non trova alcuna giustificazione nella legge. Lo
scopo di questa è, indubbiamente, quello di attribuire il potere di nomina degli arbitri solo a soggetti estranei alla compagine sociale e tende ad assicurare il principio (di ordine pubblico, cfr. Cass. 18 marzo 2008 n. 7262) della imparzialità della
decisione, consolidando la indipendenza e la imparzialità dell’arbitro attraverso la
terzietà del designatore.
Né a diverse conclusioni può indurre il termine « possono » contenuto nell’art.
34, comma 1. Come già ha rilevato la Corte territoriale nella sentenza impugnata,
la facoltà insita in tale espressione (analoga a quella contenuta nell’art. 808 c.c.) è
da ritenersi riferita non alla scelta tra l’arbitrato di diritto comune e quello previsto
dalla medesima norma, ma a quella tra il ricorso all’arbitrato previsto dalla stessa
norma ed il ricorso al giudice ordinario.
In altre parole, le società hanno la libertà di scegliere, per la soluzione delle
controversie, la via arbitrale anziché quella giurisdizionale, Nel primo caso, tuttavia, devono conformarsi alla previsione del D.Lgs. del 2003, art. 34 ss. evidenziando la espressa declaratoria di inderogabilità delle relative previsioni procedu260
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rali, contenute nella intitolazione dell’art. 35 della stessa legge. La disposizione
dell’art. 34 si riferisce anche alla clausola compromissoria per arbitrato irrituale.
L’inciso « anche non rituale » contenuto nel citato art. 35, comma 5, infine,
intende sottolineare, proprio in una ottica di attenuazione della distinzione tra arbitrato libero ed irrituale, la possibilità del ricorso alla tutela cautelare anche in tale
ipotesi di arbitrato non rituale.
Non può farsi riferimento — pertanto — a difficoltà interpretative, tali da giustificare la stipulazione di una clausola che prevedeva la nomina degli arbitri effettuata dalle parti.
Il notaio, inoltre, alla luce di tale previsione, avrebbe dovuto — in ogni caso
— rifiutarsi di ricevere atti contrastanti con una tale norma.
La Legge Delega 3 ottobre 2001, n. 366, nell’attribuire al Governo il potere
di emanare norme in tema di arbitrato societario, ha fatto riferimento alle clausole
compromissorie, contenute negli statuti delle « società commerciali » (art. 12,
comma 3), riferendosi alle « società che hanno per oggetto l’esercizio di una attività commerciale », società che — ai sensi dell’art. 2249 c.c. — devono costituirsi
secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti del titolo V del codice civile e
quindi anche alle società in nome collettivo ed in accomandita semplice.
Gli artt. 223-bis e 223-duodecies disp. att. c.c., certamente non applicabili alle
società di persone, prescrivono solo i tempi di adeguamento degli atti costitutivi e
degli statuti delle società di capitali e delle società cooperative alle nuove disposizioni inderogabili, ma non escludono che un tale adeguamento sia posto in essere
anche dalle società di persone.
Possono, pertanto, essere formulati i seguenti principi di diritto:
« Una clausola compromissoria inserita negli atti societari, difforme da quella
prevista dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, art. 34, (in quanto preveda il deferimento
delle eventuali controversie al giudizio di arbitri nominati anche dalle parti) deve
considerarsi nulla ».
« Con la conseguenza che la sanzione disciplinare prevista dalla legge notarile trova applicazione a carico del notaio che abbia inserito in atti societari tali
clausole compromissorie ».
« Costituisce circostanza del tutto irrilevante, ai fini disciplinari, che la detta
clausola, nulla per contrasto con norma imperativa, possa essere eventualmente sostituita di diritto dalla norma stessa, ai sensi dell’art. 1419 c.c., trattandosi di rimedio predisposto dal legislatore al solo fine di conservare l’atto ai fini privatistici ».
« Pur non conducendo, tale vizio, alla nullità dell’intero negozio, si tratta comunque di nullità parziale assoluta ».
(Omissis).
II
CENNI DI FATTO. — Un notaio viene sottoposto a sanzione disciplinare per avere
rogato atti costitutivi di società contenenti clausole compromissorie che attribuivano la designazione degli arbitri alle parti, anziché a un terzo estraneo come prescritto dall’art. 34 D.Lgs. n. 5/2003. La Corte di appello adita in sede di reclamo
ritiene che il notaio non avrebbe dovuto autenticare un atto sicuramente nullo ed
espressamente vietato dalla legge, respingendo la tesi secondo cui l’arbitrato rego261
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lato dall’art. 34 cit. non è esclusivo bensı̀ alternativo a quello comune. Il notaio ricorre per cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis).
Va, quindi, esaminato il terzo motivo di ricorso, con cui il ricorrente lamenta
la violazione e falsa applicazione della Legge n. 89/1913, art. 28, per aver ritenuto
la sua responsabilità disciplinare in presenza di atti, che non erano inequivocamente
nulli, perché contrari a norme imperative.
L’addebito mosso al notaio consiste nel fatto che in due scritture private autenticate, relative a costituzioni di S.a.s., erano stati previsti collegi arbitrali, costituiti da tre membri di cui due nominati dai soci ed il terzo nominato dai suddetti
membri, in luogo di essere tutti nominati da un soggetto estraneo.
Per potersi affermare tale responsabilità occorrerebbe ritenere, come appunto
sostiene la corte di merito, che è principio inequivoco che nell’ambito societario
l’unico arbitrato endosocietario possibile sia quello di cui al D.Lgs. n. 5/1993, art.
34.
Il D.Lgs. n. 5/2003, art. 34, statuisce che: « 1. Gli atti costitutivi delle società,
ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma
dell’art. 2325-bis c.c., possono, mediante clausole compromissorie, prevedere la
devoluzione ad arbitri di alcune ovvero di tutte le controversie insorgenti tra i soci
ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al
rapporto sociale.
2. La clausola deve prevedere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, conferendo in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al presidente del tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale ».
3. Osserva questa Corte che è ben noto come nella giurisprudenza di merito,
che si è interessata della questione, e nella stessa dottrina sia dibattuta la questione
se tale arbitrato endosocietario costituisca l’unica forma di arbitrato per le società
indicate nella norma, ovvero se esso concorra con l’arbitrato comune di cui all’art.
806 c.p.c., ss., e che contrasti giurisprudenziali sul punto vi sono stati anche presso
la stessa A.G. di Bologna.
Ai fini della responsabilità del notaio a norma della Legge n. 89/1913, art. 28
è necessario che l’atto redatto dal notaio sia inequivocamente nullo (cfr. Cass. n.
11 novembre 1997).
L’avverbio « espressamente », che nell’art. 28, comma 1, n. 1 L. Not. qualifica la categoria degli « atti proibiti dalla legge » va inteso come « inequivocamente », per cui si riferisce a contrasti dell’atto con la legge, che risultino in termini inequivoci, anche se la sanzione di nullità deriva solo attraverso la disposizione generale di cui all’art. 1418 c.c., comma 1, per effetto di un consolidato
orientamento interpretativo giurisprudenziale e dottrinale.
La ratio della normativa in esame e le sue stesse origini storiche impongono
di ritenere che al notaio non possono certo addossarsi compiti ermeneutici (con le
connesse responsabilità) in presenza di incertezze interpretative oggettive. Invece
l’irricevibilità dell’atto si giustifica, quando il divieto possa desumersi in via del
tutto pacifica ed incontrastata da un orientamento interpretativo ormai consolidato
sul punto.
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4. Ciò comporta che nella fattispecie, in presenza di contrastanti interpretazioni
giurisprudenziali e dottrinali sul punto dell’alternatività tra arbitrati endosocietari (di
cui al D.Lgs. n. 3/2005, art. 34) ed arbitrati di diritto comune ovvero dell’esclusività
solo dei primi in sede societaria, costituisce errata applicazione della Legge n. 89/
1913, art. 28, aver ritenuto che costituisse nullità inequivoca e quindi ben chiara per
il notaio l’aver autenticato una scrittura costitutiva di S.a.s. contenente una clausola di
arbitrato con nomina degli arbitri non da parte di un terzo.
5. L’accoglimento del terzo motivo di ricorso comporta l’assorbimento dei restanti motivi.
In definitiva va cassata, l’impugnata sentenza senza rinvio quanto all’incolpazione di cui al capo a), essendo la stessa prescritta.
Quanto alle incolpazioni di cui ai capi 2 e 3, va cassata l’impugnata sentenza,
in accoglimento del terzo motivo e, decidendo la causa nel merito non essendo necessari ulteriori accertamenti, rigetta la richiesta di applicazione di sanzione disciplinare proposta contro il ricorrente.
Nulla per le spese.
Sull’esclusività del modello arbitrale societario nei nuovi orientamenti
della giurisprudenza di legittimità.
1. Attraverso le due decisioni in commento, la Corte di cassazione è
tornata a pronunciarsi sull’annoso problema dei rapporti tra arbitrato societario disciplinato negli artt. 34 ss. del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 e arbitrato di diritto comune di cui agli artt. 806 ss. c.p.c., occupandosi, nello
specifico, di regolare i rapporti tra le due normative in tema di nomina degli arbitri.
Nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 5/2003 emerge un chiaro intento di favorire ed incrementare il ricorso al modello arbitrale, attraverso
una formulazione che « contribuisce alla creazione di una compiuta species
arbitrale, che si sviluppa senza pretesa di sostituire il modello codicistico
(naturalmente ultrattivo anche in materia societaria) comprendendo numerose opzioni di rango processuale » (1). A fianco di tale specificazione, il
legislatore ha avuto cura di precisare che « le clausole compromissorie
eventualmente inserite negli statuti delle società diverse da quelle ricorrenti
al mercato del capitale di rischio [...] devono necessariamente prevedere, a
pena di nullità, la designazione del collegio da parte di terzi imparziali ». A
nostro avviso, i due periodi menzionati non dovrebbero prestarsi a opposte
interpretazioni circa la possibilità di una convivenza tra arbitrato comune e
societario. Non si tratta di affermazioni che si pongono in contrasto tra loro:
asserire che l’arbitrato societario costituisce un istituto speciale rispetto a
quello di diritto comune non comporta un’automatica sostituzione o, quanto
(1) La relazione illustrativa al D.Lgs. n. 5/2003, limitatamente all’art. 12 della Legge
n. 366/2001, è reperibile sul sito www.tuttocamere.it.
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meno, una disapplicazione delle norme di quest’ultimo, che, anzi, troveranno un valido ambito di efficacia (ecco l’« ultrattività » anche in materia
societaria) laddove le norme speciali presentino lacune o, più semplicemente, rimangano « silenti » proprio per consentire l’utilizzo della normativa codicistica « di base ».
Scavando ancora nelle intenzioni del legislatore per avvicinarci all’oggetto del presente commento, merita una riflessione più approfondita la
questione della ratio sottostante l’approvazione dell’art. 34, comma 2,
D.Lgs. n. 5/2003, ai sensi del quale la clausola compromissoria che devolva
ad arbitri le controversie sociali deve conferire « in ogni caso, a pena di
nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società. Ove il soggetto designato non provveda, la nomina è richiesta al Presidente del Tribunale del luogo in cui la società ha la sede legale ».
Attraverso un’interpretazione teleologica, la dottrina ha individuato un
ampio e variegato ventaglio di rationes alla base della suddetta norma, non
necessariamente prevalenti le une sulle altre, bensı̀, a parere di chi scrive,
concorrenti tra loro, sebbene forse non in misura paritaria.
Preliminarmente, si osserva la presenza di un incipit comune alle varie
ricostruzioni, costituito dall’esigenza di superare il problema della pluralità di
parti tipico delle liti societarie, nelle quali i centri di interesse contrapposti
sono spesso molteplici e non riconducibili ad un modello bilaterale.
Piuttosto, la dottrina si è diversificata nel porre l’accento sulle ripercussioni che tale problematica può avere sui tratti peculiari dell’istituto arbitrale.
A detta di alcuni (2), la scelta del legislatore di affidare la nomina del
collegio arbitrale (o dell’arbitro unico) a un terzo sarebbe dettata dalla
forma di « giustizia di gruppo » che connota l’arbitrato societario: essendo
regola del gruppo sociale, destinata a valere tra una pluralità di soggetti, la
garanzia dell’indipendenza dell’arbitro richiede che questo sia scelto da
soggetto estraneo all’organizzazione societaria, poiché la controversia, pur
svolgendosi tra soggetti ben determinati, potrebbe in realtà coinvolgere più
o meno direttamente l’interesse di tutti i membri del gruppo ed il gruppo
stesso come ente; proprio per questo si diffida delle designazioni legate alla
scelta compiuta da membri del gruppo o da suoi organi (3). In altri termini,
l’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 avrebbe dovuto costituire la base normativa di riferimento per un sostanziale rafforzamento della posizione di
neutralità, imparzialità e indipendenza del collegio arbitrale (4), sı̀ da ren-
517 ss.
(2 )
E.F. RICCI, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 2,
(3) Ibidem, 525-526.
(4) Anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5/2003, alcuni Autori tentarono
di fornire spunti di riflessione e proposte di soluzione della problematica in oggetto, già fortemente sentita. Al riguardo, taluni suggerivano di inserire la previsione statutaria della no-
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derlo, rispetto alle parti, in una posizione di terzietà effettiva (5) e funzionale alla risoluzione della lite (6). Sarebbe, cosı̀, cessata la prassi statutaria
di attribuire la competenza a risolvere le controversie societarie ad organi
della società, che certamente, per quanto professionalmente qualificati, non
possono dirsi indipendenti dalle parti in lite (7).
mina degli arbitri da parte dell’assemblea; altri, da parte di un collegio di probiviri, organo
societario tipico delle cooperative i cui membri, eletti dai soci anteriormente al sorgere della
controversia, avrebbero dovuto avere esclusiva competenza arbitrale e non sarebbero stati
compensati a carico della società; altri ancora auspicavano la nomina arbitrale da parte del
collegio sindacale (v. GENNARI, L’arbitrato societario, in GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. LI, Padova, 2009, 117. Tuttavia,
fu correttamente rilevato da una contrapposta dottrina (cfr. PISANI MASSAMORMILE, Riflessioni
in tema di clausola arbitrale e di nomina degli arbitri in materia societaria, in Riv. soc.,
2000, 2, 265 ss.), nonché dalla giurisprudenza (Cass., 21 giugno 1996, n. 5778), come siffatti
meccanismi di nomina si pongano in contrasto con il basilare principio di imparzialità dell’organo giudicante.
In particolare, poiché il sistema di designazione degli arbitri non può che essere frutto
di un accordo unanime o di scelta unilaterale del proprio arbitro, non vi è posto per il principio maggioritario, il quale tipicamente caratterizza l’operato dell’organo assembleare. Dunque, a parere di SALVANESCHI, L’arbitrato con pluralità di parti, Padova, 1999, 211, l’assemblea sociale « non può essere ritenuta idonea a rappresentare la volontà anche di quei soci il
cui interesse si contrapponga a quello della società o degli altri soci »: da ciò deriva che « il
collegio arbitrale, oppure l’arbitro unico, nominati con deliberazione maggioritaria, confliggono apertamente con il principio di imparzialità del collegio arbitrale di cui è sicuro elemento la riferibilità della nomina a tutte le parti del conflitto ». Relativamente all’ulteriore
questione, poc’anzi menzionata, circa la possibilità che i sindaci o i probiviri ricoprano il
ruolo di arbitri, l’Autrice afferma, quanto ai primi, la necessità di tenere conto della fattispecie concreta, poiché sebbene i sindaci possano essere, probabilmente, ritenuti parziali, la
scelta statutaria di individuare tali soggetti come arbitri « assume, in concreto, il significato
di riferire la funzione arbitrale alle persone ritenute in possesso dei requisiti che le rendono
più idonee allo svolgimento del compito loro affidato, e cioè l’imparzialità e la specifica attitudine a dirimere le controversie eventualmente insorgenti ». Più lineare, invece, sempre a
detta della stessa Autrice, la problematica degli arbitri — probiviri, pur residuando il principio imperativo dell’unanimità della loro nomina, cosı̀ escludendo nuovamente il promanare
della medesima da parte dell’assemblea sociale (op. cit., 214 s.).
(5) IANNIELLO, Controversie societarie: la validità della clausole compromissorie con
« sistema binario », in Il Sole 24 Ore - Ventiquattrore Avvocato, 2005, 10, 51 ss. In particolare, è stato sostenuto che sebbene i sindaci partecipino in un ruolo di primo piano alla vita
societaria, la loro locatio operarum è già accettata dai soci come imparziale e indipendente,
anche se per atti diversi da quelli tipicamente arbitrali; la soluzione del problema, quindi, dovrebbe spostarsi da una valutazione di regolarità formale ad una di regolarità sostanziale, relativa all’idoneità obiettiva degli arbitri a decidere imparzialmente. Cosı̀, DE ROSA, La clausola compromissoria negli atti societari, in Riv. notariato, 1998, 1 e 2, 89 ss.
(6) CERRATO, Arbitrato societario: legittimità costituzionale dell’introduzione a maggioranza della clausola compromissoria ed « estraneità » del designatore, in Giur. comm.,
2007, 1, 171 ss. Di identico avviso COLANGELI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in SELLA (a cura di), I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, Aggiornamento,
vol. I, Milano, 2008, 345.
(7) Per cenni sulla problematica della nomina arbitrale da parte di organi sociali, si
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Altra parte della dottrina, decisamente più pragmatica, riconduce la
scelta del legislatore di prevedere un meccanismo di nomina ad hoc a un
intento di favorire il ricorso allo strumento arbitrale (8), evitando tutti i problemi di ordine pratico che potrebbero ostacolare l’arbitrato multiparti (9).
Infatti, se la clausola compromissoria di tipo binario si adatta perfettamente
a una lite bilaterale, lo stesso non può dirsi ove si abbia una pluralità di
soggetti coinvolti, poiché se ognuno di essi potesse nominare un proprio
arbitro si rischierebbe, da un lato, di trovarsi di fronte a un numero troppo
elevato di membri del collegio o ad un empasse di fronte alla nomina congiunta di un arbitro unico e, dall’altro, si potrebbe avere un organo giudicante squilibrato rispetto alle posizioni sostanziali delle parti medesime.
L’affidamento della nomina a un terzo, invece, pur sacrificando la scelta del
giudice ad opera delle parti, costituirebbe una valida risposta ai problemi
relativi alla fase genetica della costituzione del collegio arbitrale.
Un’ulteriore ricostruzione dottrinale opta, invece, per una sorta di sintesi tra le due posizioni appena delineate: essendo l’arbitrato previsto da
una clausola societaria una giustizia di gruppo, caratterizzata dalla presenza
di una pluralità di soggetti, con l’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 il legislatore ha voluto certamente assicurare l’estraneità e l’imparzialità del
collegio arbitrale in modo da garantire i diritti dei soci pur senza trascurare
la funzionalità pratica dell’istituto (10).
Non può che condividersi tale ultima impostazione: ricondurre l’intento del legislatore a una soltanto tra le varie rationes che stanno alla base
delle norma in commento appare riduttivo. Piuttosto, può affermarsi che attraverso un unico strumento il legislatore abbia tentato, con ogni più ampia
riserva sulla riuscita o meno di detto tentativo, di porre fine a un duplice
ordine di problemi: procedimentali (relativi, cioè, alla costituzione del collegio arbitrale) e sostanziali (attinenti alla salvaguardia dell’imparzialità ed
estraneità dell’organo giudicante).
veda SOLDATI, Sindaci-arbitri: nullità della clausola compromissoria statutaria tra doveri di
imparzialità e terzietà di nomina, in questa Rivista, 2009, 2, 296 ss.
(8) Taluni Autori hanno addirittura utilizzato il concetto, assai pregevole, di « cultura
dell’arbitrato »; CERRATO, Arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: una convivenza
ancora diffıcile, in Giur. comm., 2006, 3, 497 ss.
(9) In tal senso, PEDRELLI, Osservazioni in merito alla clausola compromissoria « binaria » preesistente al nuovo arbitrato societario, in Giur. merito, 2004, 9, 1704 ss.; l’Autrice, ad onor del vero, non propende in modo netto per una tra le due rationes sopra
descritte, dando invece conto della compresenza di entrambe. Nel senso della spiccata prevalenza dell’intento di potenziare il ricorso all’arbitrato, anche alla luce della relazione illustrativa al D.Lgs. n. 5/2003, v. BIANCHINI, Osservazioni in tema di (in)validità delle clausole
compromissorie non adeguate alla nuova disciplina dell’arbitrato c.d. « endo-societario », in
Giur. comm., 2006, 3, 410 ss.
(10) FABBRI, La validità della clausola compromissoria e la riforma del diritto societario, in Il Sole 24 Ore - Il merito, 2006, 6, 12 ss.
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2. Una volta compresa la ratio che ha mosso il legislatore nell’elaborazione dell’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 (e, più in generale, nell’approvazione di una riforma del diritto societario), proseguiamo nell’analisi dei modelli interpretativi dottrinali e giurisprudenziali che sono derivati
dall’applicazione della suddetta disposizione, all’interno dei quali è possibile individuare almeno tre distinte impostazioni. La questione centrale che
ognuna di esse si propone di risolvere riguarda l’esclusività o meno del
modello di arbitrato societario dettato nel D.Lgs. n. 5/2003. Circoscrivendo
tale problematica al nostro oggetto di studio, ci interrogheremo sull’esclusività o meno del peculiare procedimento di nomina degli arbitri da parte
di un terzo e, ove si opti per una risposta affermativa al quesito, valuteremo
quale possa essere la sorte delle clausole compromissorie vigenti ed aventi
contenuto diverso da quello sancito nella norma in esame.
Una prima ricostruzione, accolta anche dalla prima delle sentenze in
commento, opta in modo netto e radicale per l’esclusiva applicazione, nell’arbitrato societario, della disciplina adottata con la riforma del 2003, la
quale darebbe vita a una species di arbitrato, peraltro da legge, che non
sopporterebbe di essere « affiancata » dalla normativa codicistica di diritto
comune negli ambiti e nei settori da essa specificamente trattati, tra cui vi
è, appunto, il procedimento di nomina arbitrale.
Procedendo con ordine, e non essendo possibile giungere alla conclusione della nullità della clausola senza analizzare i presupposti di una simile affermazione, il primo aspetto su cui soffermare l’attenzione è la già
accennata presenza di un rapporto di specialità tra arbitrato societario e arbitrato di diritto comune. Tale soluzione è esplicitata nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 5/2003, ove si fa riferimento a una « compiuta species
arbitrale » e risulta anche suffragata da un’ampia dottrina (11) e giurisprudenza (12).
(11) Sulla species della clausola arbitrale societaria, v., fra gli altri, GENNARI, op. cit.,
6; SOLDATI, Arbitrato societario e nullità della clausola arbitrale binaria, in questa Rivista,
2006, 1, 175 ss.; ID., « Estraneità » dell’autorità di nomina e clausola compromissoria statutaria, in Le Società, 2006, 9, 1157. Sul confronto tra la disciplina di diritto comune per
l’arbitrato con pluralità di parti e quella di cui al D.Lgs. n. 5/2003, da ritenersi esclusiva in
tema di arbitrato societario, v. SALVANESCHI, Art. 816-quater, in MENCHINI (a cura di), La nuova
disciplina dell’arbitrato, Padova, 2010, 237: l’Autrice distingue tra l’art. 816-quater c.p.c., il
quale « fa della volontà delle parti il perno centrale del sistema di nomina degli arbitri », e
l’art. 34 del D.Lgs. n. 5/2003, che dà vita ad un modello « in cui la volontà delle parti nella
nomina del collegio è stata sacrificata alle esigenze di funzionalità di un sistema di gruppo »,
i cui componenti vedono tutelato il loro diritto di partecipazione paritaria alla nomina del
collegio arbitrale attraverso la nomina eteronoma dello stesso, modello che la legge delega in
materia di arbitrato di diritto comune ha disatteso.
(12) A titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, si rinvia a Trib. Latina, Sez.
I, 22 giugno 2004, in Giur. comm., 2006, 3, 498; Trib. Milano, 25 giugno 2005, in Giur. it.,
2006, 8-9, 1639; Corte app. Torino, 7 luglio 2006, in Giur. it., 2007, 2, 398.
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L’interprete, cioè, si trova di fronte a una serie di norme autonome e
inderogabili che costituiscono l’unico modello arbitrale utilizzabile negli
statuti sociali. Ove si optasse per un’opposta ricostruzione, risulterebbe seriamente compromessa la ratio del favor arbitrati che ha ispirato il legislatore della riforma, il quale ha connotato l’arbitrato societario di una serie
di peculiarità che dovrebbero facilitare il ricorso a tale strumento di ADR:
se tali norme venissero sostituite, a discrezione dell’interprete, con le
norme di diritto comune, si finirebbe per scoraggiare l’utilizzo dell’arbitrato
medesimo, stante l’incertezza della normativa ad esso applicabile (13).
Resta, ovviamente, salvo il concorso parziale tra disciplina speciale e
disciplina comune, non solo per tutti gli aspetti non espressamente regolamentati dalla prima, ma, soprattutto, in ordine al « mantenimento dell’ammissibilità della devoluzione in arbitri mediante compromesso mentre, diversamente, relativamente alla clausola compromissoria, vigono esclusivamente le norme dettate dalla riforma societaria con applicazione tassativa
dell’art. 34 D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 » (14). Addirittura, enfatizzando le
suddette affermazioni, una parte della dottrina, pur non qualificando il
nuovo complesso normativo come eccezionale rispetto all’arbitrato di diritto comune (altrimenti si accederebbe alla visione dell’arbitrato endosocietario come tertium genus rispetto a quelli rituale e libero), ritiene di poter rintracciare connotati (anche) di eccezionalità in alcune disposizioni del
D.Lgs. n. 5/2003: è il caso, appunto, della clausola compromissoria di cui
all’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003, avente « forza escludente » rispetto
all’analoga disciplina codicistica (15).
L’insieme di tali considerazioni ha condotto ad affermare che l’arbitrato c.d. endosocietario abbia assunto la forma di un « arbitrato da legge » (16): la scelta delle parti, cioè, si limiterebbe all’an della modalità di
risoluzione della lite, delegando a priori il quomodo alle previsioni inderogabili del legislatore, le quali, in virtù dei peculiari interessi pubblici coinvolti nella controversia, comprimono legittimamente l’autonomia privata,
(13) GENNARI, op. cit., 20.
(14) COLANGELI, op. cit., 357. In senso conforme, GENNARI, op. cit., 112-113. Si veda
anche SALI, L’arbitrato per le nuove società. Dodici (piccoli) nodi applicativi e qualche proposta, in Giur. it., 2005, 2, 442 ss. L’Autore usa la funzionale immagine evocativa del « doppio strato normativo » dentro ogni singolo arbitrato societario, di cui il primo strato, generale, è costituito dalla disciplina comune codicistica, mentre il secondo, speciale, si va ad aggiungere a quello di base per completarlo, integrarlo e, in parte, derogarlo. Cfr. SALVANESCHI,
Art. 816-quater, cit., 237, ove si afferma che la disciplina di diritto comune di cui alla riforma
del 2006 « coesiste con quella propria dell’arbitrato societario ed è tesa a regolare tutti i casi
in cui la lite multilaterale si presenti in materia diversa da quella societaria, oppure anche in
questa societaria quando l’arbitrato nasca da patti compromissori diversi dalla clausola compromissoria statutaria ».
(15) BIANCHINI, op. cit.
(16) Id.
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peraltro senza alcuna violazione dei principi costituzionali (il riferimento è,
in particolare, all’art. 24 Cost.) (17). Da questo punto di vista, non sembrano
esservi differenze degne di nota rispetto ad altri arbitrati da legge, quali, ad
esempio, quello in materia di pubblici appalti o giuslavoristica, dove si riscontra un’apprezzabile compressione della libertà delle parti di dettare le
regole procedimentali (18) senza, peraltro, sollevare quelle forti critiche che
si rinvengono nel settore societario. La scelta, in tale senso, del legislatore
della riforma è, ad avviso di chi scrive, oltre che legittima, anche assai opportuna, poiché le controversie arbitrali societarie fanno sorgere, oltre ai
problemi tipici e generali della forma di ADR in oggetto, anche questioni
ben più specifiche, che meritano soluzioni ad hoc (19).
Da quanto sinora osservato non può che derivare l’applicazione in via
esclusiva dell’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 in relazione alle modalità
di nomina degli arbitri nel procedimento endosocietario. A una simile affermazione si giunge attraverso un duplice ordine di ragioni.
Innanzi tutto, da una prospettiva teleologica, la disapplicazione a piacimento dell’interprete o delle parti della suddetta disciplina vanificherebbe
la ratio ispiratrice della riforma, ossia non consentirebbe, neppure in
astratto, il superamento delle problematiche tipiche dell’arbitrato multiparti
e/o societario attraverso l’utilizzo di rimedi appositamente volti a ciò.
Inoltre, non può essere trascurato il dato letterale della normativa in
oggetto: ove l’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 risultasse di equivoca
comprensione per l’interprete, nella parte in cui sancisce che la nomina arbitrale da parte di un terzo debba avvenire « in ogni caso, a pena di nullità », supplirebbe l’art. 41, comma 2, che, rinviando al contenuto complessivo del D.Lgs. in commento, fa sı̀ che anche la clausola compromissoria
da esso disciplinata sia permeata dal carattere dell’inderogabilità (peraltro
rafforzato dalla rubrica dell’art. 35 D.Lgs. n. 5/2003).
Di fronte a tanta chiarezza (20), si opta per l’applicazione esclusiva del
modello arbitrale di cui al D.Lgs. n. 5/2003, spostando le eventuali critiche
di una scelta simile, forse troppo radicale, sul piano dell’opportunità. Sebbene le clausole compromissorie anteriori alla riforma siano accomunate
dalla « sanzione » della nullità, si è registrata una discrasia quanto al momento della loro invalidità, variabile a secondo del tipo sociale nel cui sta-
(17) BOVE, L’arbitrato societario tra disciplina speciale e (nuova) disciplina di diritto comune, in Riv. dir. proc., 2008, 931 ss.
(18) CORSINI, La nullità della clausola compromissoria statutaria e l’esclusività del
nuovo arbitrato societario, in Giur. comm., 2005, 6, 809 ss.
(19) Pur concordando sulla legittimità di tale scelta, parte della dottrina ne critica
l’opportunità; v., in questo senso, ZUCCONI GALLI FONSECA - BIAVATI, Arbitrato societario, in
CARPI (diretto da), Arbitrati speciali, Commentario, Bologna, 2008, 100.
(20) Sull’incontrovertibilità del dato testuale della norma, v., in giurisprudenza, Trib.
Torino, 6 ottobre 2006, in Il Sole 24 Ore - Ventiquattrore Avvocato, 2009, 9, 57.
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tuto sono inserite: infatti, mentre per le società di capitali l’art. 223 bis,
comma 1, disp. att. c.c. ha imposto l’adeguamento dell’atto costitutivo e
dello statuto alle nuove disposizioni inderogabili entro il 30 settembre 2004
(con un periodo transitorio di nove mesi) e l’art. 223 duodecies disp. att.
c.c. ha sancito un’analoga previsione per le società cooperative, ma con
termine fino al 31 marzo 2005, nulla è stato specificato per le società di
persone, che, se dotate di statuti e/o di atti costitutivi in contrasto con il
D.Lgs. n. 5/2003, hanno visto questi ultimi privati della loro efficacia a far
data dal 1o gennaio 2004, data di entrata in vigore della riforma societaria (21).
La questione della nullità delle clausole compromissorie difformi dal
modello societario della riforma è stato, ed è tutt’ora, tema assai dibattuto
anche nella giurisprudenza, soprattutto di merito.
La problematica in oggetto è stata spesso affrontata preliminarmente
all’esame del merito della controversia, tra le eccezioni di incompetenza o
di difetto di giurisdizione dei tribunali aditi: in mancanza di adeguamento
della « vecchia » clausola compromissoria alla nuova normativa inderogabile, la clausola statutaria è stata dichiarata priva di effetti e, come tale, non
ostativa alla disamina del merito (22).
Quanto al profilo della nullità, la giurisprudenza, pur concordando su
tale conseguenza invalidante, si è talvolta diversificata in relazione alla tipologia di nullità: in alcune occasioni si è fatto riferimento alla nullità sopravvenuta (23), mentre in altre si è omessa qualsivoglia qualificazione (24).
Quest’ultimo problema è stato avvertito anche in dottrina: taluni Autori, ritenuto ormai venuto meno il concetto dell’unicità della nullità, hanno
ravvisato ex art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003, una fattispecie di nullità
sopravvenuta (25).
(21) Sui termini di adeguamento degli statuti alla riforma societaria, v., in giurisprudenza, Trib. Trento 8 aprile 2004, in Giur. comm., 2006, 3, 497 (riferito alle società di persone) e Trib. Roma, 3 settembre 2010, n. 17861, in Il Sole 24 Ore - Mass. Repertorio Lex24,
www.lex24.ilsole24ore.com.
(22) Trib. Latina, Sez. I, 22 giugno 2004, cit.; Trib. Milano 18 gennaio 2006, in Il
Sole 24 Ore - Il Merito, 2006, spec. 3, 32; Corte app. Torino, 7 luglio 2006, cit.; Trib. Roma,
Sez. III, 3 settembre 2010, n. 17861, cit.
(23) Trib. Tortona ord. 3 agosto 2004, in Giur. comm., 2006, 3, 498 e Corte app. Torino, 4 agosto 2006, in Giur. it., 2007, 2, 398, entrambe facenti salvi i procedimenti arbitrali
all’epoca pendenti. V. anche Trib. Trento 11 febbraio 2004, in Giur. comm., 2006, 3, 497, ove
si propende per l’inefficacia sopravvenuta, poiché si verterebbe in un’ipotesi di nullità solo
nel caso di vizio genetico originario.
(24) Trib. Udine ord. 4 novembre 2004, in Giur. comm., 2006, 3, 499; Trib. Milano
25 giugno 2005, cit.; Trib. Milano 21 ottobre 2005, in Giur. comm., 2006, 33.3, 502, pt. 2;
Trib. Salerno 12 aprile 2007, in Giur. comm., 2008, 4, 865; Trib. Trani 15 ottobre 2008, in
www.giurisprudenzabarese.it, 2008. Fra i giudizi arbitrali, v. Coll. Arb. Genova 29 aprile
2005, in questa Rivista, 2006, 1, 169.
(25) PEDRELLI, op. cit.
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3. Nonostante l’ampio seguito dottrinale e giurisprudenziale a questa prima e radicale impostazione, non sono mancate voci discordanti, le
quali hanno dato vita a due teorie alternative.
La prima di esse, che, sebbene offra interessanti spunti di riflessione,
appare eccessivamente creativa e non conforme alla ratio ispiratrice della
riforma societaria, sofferma l’attenzione sul quantum di clausola compromissoria colpito da nullità: in altri termini, ci si è chiesti se dalla nullità ex
art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 debba discendere l’invalidità dell’intera
clausola arbitrale, con conseguente impossibilità di devolvere la controversia ad arbitri, ovvero la nullità della stessa solo nelle parti incompatibili con
le prescrizioni dettate in materia di arbitrato societario. Contrapponendosi,
da questo punto di vista, alla teoria precedentemente esposta, i sostenitori
di quella in esame hanno optato per la conservazione dell’efficacia della
clausola, previa la sua sostituzione ex art. 1419, comma 2, c.c., della regola
statutaria difforme dalla disciplina dell’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003.
Cosı̀ operando, saremmo di fronte a una nullità parziale, in cui la volontà delle parti è salvaguardata circa l’an della scelta arbitrale, ma ad essa
si sovrapporrebbe la scelta del legislatore quanto alle modalità di nomina
del collegio o dell’arbitro unico. Anche una parte della giurisprudenza si è
orientata in questo senso: ove la volontà delle parti in ordine al deferimento
ad arbitri della lite sia espressa in modo libero, chiaro ed inequivocabile,
quest’ultima manterrebbe la sua efficacia ex art. 1419, comma 2, c.c. (26).
Tale tesi è stata poi argomentata attraverso il principio di conservazione dei negozi giuridici: la volontà arbitrale delle parti sarebbe rafforzata
dalla sussistenza di un procedimento residuale di nomina degli arbitri e
non, viceversa, pregiudicata dal mancato adeguamento all’art. 34, comma
2, D.Lgs. n. 5/2003, sino a presupporre un’implicita manifestazione della
volontà di abbandonare la giurisdizione arbitrale (27).
I punti di debolezza di una simile impostazione sono di notevole rilievo. Innanzi tutto, il meccanismo di cui all’art. 1419, comma 2, c.c. opera
soltanto se la sostituzione debba avvenire in forza di un’espressa previsione
di legge (28), che, nel nostro caso, risulta assente.
Un ulteriore argomento in ordine all’impossibilità di ricorrere all’art.
1419, comma 2, c.c. riposa sul carattere essenziale della nomina arbitrale
da parte di un terzo estraneo alla società, addirittura ritenuto « un passaggio decisivo per accedere al nuovo arbitrato societario », che, se non osser-
498.
(26)
Trib. Torino, Sez. I civ., 27 settembre 2004, n. 37371, in Giur. comm., 2006, 3,
(27) Trib. Milano 22 settembre 2006, in Giur. it., 2007, 2, 399.
(28) SOLDATI, La nuova clausola compromissoria statutaria, in Il Sole 24 Ore - Diritto e Pratica delle Società, 2004, 16, 26 ss. In giurisprudenza, v. Cass., 28 giugno 2000, n.
8794.
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vato, farebbe venir meno l’intera ratio del nuovo modello (29): attribuire il
potere di nomina ad un giudice, insomma, sarebbe poco rispettoso dell’impostazione generale della nuova legge, tutta incentrata sul preminente ruolo
del terzo e delle parti nella sua nomina.
Neppure può trascurarsi la carenza di puntuali indicazioni sulla disposizione che dovrebbe prendere il posto della parte di clausola compromissoria colpita da nullità. Taluni, ponendo a sostegno delle proprie ragioni
l’art. 1, comma 4, D.Lgs. n. 5/2003, ove si fa salva l’applicazione del codice di procedura civile in tema di arbitrato, in quanto compatibile, affermano che l’art. 809, comma 3, c.p.c. potrebbe validamente supplire alle lacune de quibus (30): pertanto, competente a effettuare la nomina sarebbe il
Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’arbitrato. Sulla scorta
di tale principio, viene da chiedersi perché la scelta non possa ricadere sul
Presidente del Tribunale ove la società ha sede legale, cosı̀ come disposto
dall’art. 34, comma 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 5/2003. Inoltre, la suddetta disposizione prevede l’intervento del Presidente del Tribunale solo
per il caso in cui « il soggetto designato non provveda » e non anche per
quella di mancata indicazione, nella clausola compromissoria, del terzo incaricato della nomina (31). A prescindere dalla soluzione scelta, sia l’art.
809, comma 3, c.p.c. sia l’art. 34, comma 2, secondo periodo, D.Lgs. n.
5/2003 potrebbero essere applicati solo in via analogica, disciplinando ipotesi diverse: a maggior ragione, la sostituzione ex art. 1419, comma 2, c.c.
di una clausola contraria nulla con una norma ricavata per analogia (e del
tutto priva del carattere imperativo) (32) è un’operazione di dubbia ammissibilità (33).
In mancanza di indicazioni univoche, onde evitare di rimettere la questione all’arbitrio dell’interprete, cosı̀ alimentando la confusione già esistente, non resta, a nostro avviso, che abbandonare la suddetta ricostruzione
teorica.
Tuttavia, a onor del vero, essa presenta alcuni aspetti positivi sui quali
riflettere. Non a caso, anche la Corte di cassazione nella sentenza n. 24687/
2010, oggetto del presente commento, ha lasciato aperto uno spiraglio circa
la validità della tesi in esame: la Corte, infatti, non ne ha delegittimato la
validità e la dignità teorica, ma, più semplicemente, ha ritenuto irrilevante,
ai fini dell’indagine sulla sussistenza di un illecito disciplinare notarile, la
questione della sostituzione ex art. 1419 c.c. della clausola compromissoria
(29) SALI, op. cit., 444. Concordemente, CORSINI, op. cit.
(30) SANGIOVANNI, Numero e modo di nomina degli arbitri tra arbitrato ordinario e
arbitrato societario, in Corriere giuridico, 2005, 8, 1144.
(31) CORSINI, op. cit.
(32) GENNARI, op. cit., 16.
(33) FABBRI, op. cit.
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nulla, trattandosi di un rimedio predisposto dal legislatore solo per conservare l’atto ai fini privatistici.
Il punto di maggior forza, di fronte al quale sembra affievolirsi ogni
altra critica e obiezione, è senza dubbio la salvaguardia della volontà arbitrale delle parti attraverso il mantenimento dell’efficacia della clausola
compromissoria sostituita ex art. 1419, comma 2, c.c. (34). Alcuni Autori
equiparano addirittura l’ipotesi in cui le parti nulla abbiano previsto al caso
in cui esse abbiano stabilito, ma non in modo essenziale, un meccanismo
di nomina in contrasto con la previsione di legge: in entrambe le situazioni,
si avrebbe la vitalità della scelta della via arbitrale, sebbene con il meccanismo sostitutivo già visto (35). Inoltre, tale soluzione evita l’inconveniente
della « moltiplicazione degli istituti processuali » a cui condurrebbe l’adesione alla tesi della perdurante validità dell’arbitrato societario di diritto
comune, senza contare, poi, l’ulteriore variante dell’arbitrato irrituale (36).
In effetti, la previsione del legislatore, seppur nell’apprezzabile intento
di rimediare ai problemi tipici dell’arbitrato multiparti, favorendone la fruibilità, ha forse ecceduto nelle conseguenze derivanti da tale premessa. Si
tratta, in ogni caso, di considerazioni aprioristiche, che, nella vigenza dell’attuale art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003, sono destinate irrimediabilmente a cedere di fronte all’univocità del tenore letterale di tale disposizione, che non lascia alternativa alla nullità dell’intera clausola compromissoria.
L’ultima teoria da analizzare in ordine alla questione in commento è
quella del c.d. « doppio binario », in base alla quale l’arbitrato di diritto
comune sopravviverebbe e si aggiungerebbe a quello societario nascente da
clausola compromissoria ex artt. 34, 35 e 36 del D.Lgs. n. 5/2003, disposizioni che disciplinerebbero solo aspetti marginali del procedimento arbitrale, residuando, nella sua totalità, la normativa generale codicistica.
Il suddetto orientamento, secondo i suoi sostenitori, sarebbe sorretto
da plurime motivazioni.
Innanzi tutto, l’utilizzo del verbo « possono » in apertura dell’art. 34,
comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 sarebbe un chiaro indizio della possibilità di
scelta per le parti tra l’arbitrato di diritto comune e la species endosocietaria, modelli alternativi tra loro ed entrambi parimenti applicabili alle liti societarie, con la precisazione che ciascuno di essi è connotato da una propria disciplina: pertanto, affinché la scelta della species arbitrale di cui agli
artt. 34 ss. D.Lgs. n. 5/2003 sia valida, si dovrà introdurre una clausola
(34) LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 705 ss.
(35) Bove, op. cit. Nel caso, invece, di previsione essenziale, che si ha quando i contraenti non avrebbero inserito detta clausola senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (art. 1419 c.c.), l’intera clausola compromissoria è destinata a cadere.
(36) DALMOTTO (a cura di), Disciplina transitoria per l’arbitrato societario, in BUONFRATE - GIOVANNUCCI ORLANDI, op. cit., 514.
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compromissoria conforme all’art. 34, comma 2, del medesimo decreto; in
caso contrario, le controversie societarie continuerebbero a essere regolate
dagli artt. 806 ss. c.p.c., con il mantenimento dell’efficacia della clausola
compromissoria non adeguata alle previsioni della riforma quale clausola
compromissoria di diritto comune (purché mantenga i requisiti previsti dal
codice di rito). Da qui, la ricostruzione in termini di « onere », e non di
« obbligo », della condotta delle società di fronte alle novità della riforma.
Altra parte della dottrina, invece, attribuendo al « possono » il significato dell’alternativa tra giustizia togata ed arbitrale, utilizza a sostegno
della teoria in esame i seguenti argomenti di carattere generale e indiziario:
l’art. 12, comma 3, Legge n. 366/2001, nella parte in cui prevede la possibilità che « gli statuti delle società commerciali contengano clausole compromissorie anche in deroga agli artt. 806 e 808 c.p.c. »; l’art. 35, comma
2, D.Lgs. n. 5/2003, che si riferisce espressamente al « procedimento arbitrale promosso a seguito della clausola compromissoria di cui all’art. 34 »,
con conseguente applicazione degli artt. 34, 36 e della residua parte dell’art. 35 anche agli arbitrati promossi in base a clausole non conformi all’art. 34 (dunque ad arbitrati rituali di diritto comune); l’assenza di incompatibilità tra la disciplina comune e quella del D.Lgs. n. 5/2003, quest’ultima, peraltro, avente portata assai circoscritta (37).
Perfino la sicura sopravvivenza dell’arbitrato di diritto comune derivante
da compromesso deporrebbe nel senso di ritenere consentita l’arbitrabilità
delle controversie societarie secondo il modello codicistico, dal momento che
« apparirebbe illogico e contraddittorio consentire in materia societaria un arbitrato di diritto comune derivante da compromesso e nel contempo negare
tale possibilità sulla base di una clausola compromissoria » (38).
Altro argomento a favore di tale impostazione si rinvenirebbe nel
contrasto tra la ratio ispiratrice della riforma e la nullità della clausola
compromissoria difforme. Non sarebbe infatti coerente improntare una normativa al favor arbitrati, per poi assurgere, nel caso della sua mancata applicazione, a una soluzione drastica quale la nullità dell’intera clausola (39).
(37) CERRATO, Arbitrato societario e arbitrato di diritto comune: una convivenza ancora diffıcile, cit. L’Autore, oltre ai suddetti argomenti di carattere generale, si sofferma anche sulla situazione delle società di persone, optando per la conservazione della validità delle
clausole compromissorie statutarie difformi dalle previsioni del D.Lgs. n. 5/2003 in base ad
argomenti ad hoc, tra cui la mancanza di una norma transitoria analoga agli artt. 223-bis e
duodecies o il divieto di iscrivibilità degli statuti societari contenenti clausole compromissorie difformi.
(38) GALLETTO, Arbitrato societario, in BUONFRATE - GIOVANNUCCI ORLANDI, op. cit.,
467.
(39) In tal senso, IANNIELLO, op. cit. L’Autrice, tuttavia, ammette l’arduo superamento
della previsione « a pena di nullità » di cui all’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003, auspicando una maggiore chiarezza del legislatore laddove intenda mantenere l’arbitrato societario di diritto comune.
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Sempre da un punto di vista teleologico, si è osservato che aderendo
alla tesi della nullità radicale della clausola compromissoria si travolgerebbe ex post la volontà pattizia di devolvere ad arbitri la controversia, e
ciò « per effetto di una norma che è stata introdotta con l’intento opposto,
e cioè quello di superare le difficoltà che la presenza di una clausola binaria di devoluzione ad arbitri di controversie societarie ha sempre sollevato » (40).
Neppure è mancata una corrente giurisprudenziale adesiva alla suddetta impostazione. Si segnala, in proposito, il revirement della Corte d’appello torinese, la quale ha dapprima aderito alla teoria della nullità della
clausola compromissoria difforme (41), per poi affermare con forza, utilizzando argomentazioni articolate e complesse, la prevalenza del modello del
doppio binario (42).
In primis, e al pari di quanto già detto per la prima teoria, si evidenzia come la maggior parte delle sentenze che citeremo abbia affrontato la
questione della validità della clausola compromissoria tra i rilievi preliminari.
Passando al contenuto di dette pronunce, esse sono accomunate dal
preminente rilievo dato alla lettera dell’art. 34, comma 1 (« possono ») e
dell’art. 12 Legge delega, nonché dalla qualificazione della disciplina dell’arbitrato societario come derogabile, eventuale e additiva rispetto a quella
comune (43). In particolare, la disciplina del procedimento arbitrale sarebbe
inderogabile nel suo complesso, mentre costituirebbe normativa derogabile
« il modello di arbitrato endosocietario, quantomeno da quei soggetti che,
non intendendo avvalersi dei benefici e del regime complessivo previsti dal
legislatore, abbiano inteso rimanere nella disciplina di diritto comune,
l’unica vigente al momento della approvazione della clausola arbitrale ». A
ciò si è aggiunto che, esprimendo, la nullità, pur sempre un vizio genetico
dell’accordo delle parti, non sarebbe configurabile una previsione di nullità
sopravvenuta, la cui retroattività, peraltro, non avrebbe alcun appiglio normativo, né sarebbe riconducibile alla contrarietà del contratto a principi
fondamentali dell’ordinamento (44).
Inoltre, in riferimento alla relazione ministeriale illustrativa del D.Lgs.
(40) GALLETTO, op. cit., 472.
(41) Il riferimento è, in particolare, a Corte app. Torino, 7 luglio 2006, cit.
(42) Corte app. Torino, 8 marzo 2007, in Giur. it. 2007, 4, 906; Corte app. Torino,
29 marzo 2007, in Giur. it., 2007, 10, 2237; Corte app. Torino, Sez. I civ., 4 settembre 2007,
n. 46, in Il Sole 24 Ore - Guida al diritto, 2007, 47, 50
(43) Sulla concorrenza tra i due modelli di arbitrato, cfr. Trib. Bologna, Sez. IV civ.,
25 maggio 2007, n. 1236, in Il Sole 24 Ore - Guida al diritto, 2007, 47, 50 e Trib. Bari 5
novembre 2007, in Giur. merito, 2008, 5, 1329.
(44) Trib. Bologna, Sez. IV civ., 9 febbraio 2006, n. 344, in Il Sole 24 Ore - Il merito, 2007, 1-2, 34.
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n. 5/2003, laddove essa afferma che la riforma introduce « una compiuta
species arbitrale che si sviluppa senza pretesa di sostituire il modello codicistico (naturalmente ultrattivo anche in materia societaria) », tale passaggio, oltre a non dover essere enfatizzato quanto alla sua forza interpretativa,
non trattandosi di una fonte normativa vera e propria, deve essere inteso,
secondo gli stessi autori, come precisazione del dover « continuare ad applicarsi l’arbitrato di diritto comune per decidere le liti societarie non ontologicamente comprese nella portata delle clausole compromissorie statutarie ».
Infine, la mancanza di norme adeguatrici delle clausole statutarie di
società di persone, che potrebbe al massimo comportare la sopravvivenza
dell’arbitrato di diritto comune in questo tipo sociale, si spiega tenendo
presente l’oggetto del D.Lgs. 6/2003, che non include le suddette società.
In ogni caso, anche estendendo ad esse il termine transitorio del 30 settembre 2004, anziché quello del 31 dicembre 2003, dopo la suddetta data e in
assenza di adeguamento, tutte le disposizioni statutarie difformi rispetto all’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 sarebbero colpite da nullità (45).
La teoria del doppio binario è cosı̀ irrimediabilmente (e, ci sia consentito dire, correttamente) destinata a cadere.
4. Chiarita la nostra preferenza per l’applicazione esclusiva dell’arbitrato di cui agli artt. 34 ss. D.Lgs. n. 5/2003 alle liti societarie, con soccombenza del modello codicistico nei termini anzidetti, si ritengono opportune talune riflessioni in materia di responsabilità notarile, elemento costitutivo della fattispecie giudicata nelle due sentenze in commento.
La giurisprudenza ha esaminato più volte la questione, riferita, nella
maggior parte dei casi, proprio al comma 2 dell’art. 34 D.Lgs. n. 5/2003,
nella parte in cui detta le modalità di nomina del collegio arbitrale o dell’arbitro unico. L’adesione o meno alla teoria del doppio binario, infatti, ha
ripercussioni di non scarso rilievo sulla responsabilità disciplinare dei notai. Sul punto, le due sentenze in commento sono giunte a conclusioni assai diverse tra loro.
Ripercorrendo l’iter motivazionale della sentenza n. 24687/2010, vediamo che la Corte di cassazione muove dall’assunto per cui l’art. 28,
comma 1, n. 1, della Legge 16 febbraio 1913, n. 89 (c.d. legge notarile)
stabilisce il divieto per il notaio di ricevere o autenticare atti espressamente
proibiti dalla legge o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine
pubblico. A detta della Corte, il notaio deve costantemente farsi interprete
e garante della validità delle scelte negoziali delle parti, provvedendo a una
corretta interpretazione delle norme di legge per evitare la stipulazione di
(45) Per un approfondimento delle obiezioni alla tutela del doppio binario, si rinvia
a CORSINI, op. cit.
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atti affetti da nullità assoluta, quale è, appunto, la clausola compromissoria
difforme da quella di cui all’art. 34 D.Lgs. n. 5/2003. Quest’ultima conseguenza, a detta della pronuncia de qua, deriverebbe inequivocabilmente
dalla lettera stessa della norma, che ha una portata tale da escludere qualsivoglia giustificazione alla tesi doppio binario.
Sulla scorta delle suddette argomentazioni è stata cosı̀ affermata la responsabilità disciplinare del notaio per aver inserito negli atti societari sottoposti alla sua attenzione clausole compromissorie di tipo binario.
Nell’ulteriore, e più recente, pronuncia di legittimità oggetto del presente commento (Cass. n. 5913/2011), invece, si è operato un reversing
della precedente impostazione circa la non equivocità della categoria degli
atti proibiti dalla legge. Adducendo a sostegno della decisione non il dato
letterale dell’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003, bensı̀ la ratio della norma
e le sue origini storiche, la Corte ha asserito che al notaio non possono addossarsi compiti ermeneutici in presenza di incertezze interpretative oggettive, quali sarebbero quelle alla base della disposizione de qua, stanti i
contrasti dottrinali e giurisprudenziali sul punto; il tutto con conseguente
esclusione della responsabilità disciplinare del professionista.
Tale ultima conclusione non appare condivisibile: è senz’altro vero
che trattasi di norma dalle origini e dall’applicazione « travagliata », ma
non per questo il notaio non è in grado di indirizzare la volontà delle parti
verso la soluzione più lineare, idonea a rendere l’atto legittimo e connotato
da un meccanismo di nomina formalmente certo. Probabilmente, il timore
di prendere una posizione netta sul punto dell’esclusività del modello arbitrale endo-societario (con la relativa sanzione della nullità della clausola
compromissoria da esso difforme) ha avuto la meglio, con ciò vanificando
un’occasione preziosa che, sebbene non risolutiva, avrebbe senz’altro contribuito a fornire quella chiarezza di cui oggi, più che mai, l’applicazione
dell’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003 sembra aver bisogno.
5. È giunto il momento di « tirare le somme » sulle considerazioni
svolte.
Innanzi tutto, si ritiene opportuno evidenziare come nessuna delle tesi
illustrate sia priva di punti di debolezza: affermare che, tra di esse, ve n’è
una in assoluto corretta e tale da fare soccombere le altre sarebbe semplicistico e riduttivo.
Piuttosto, in presenza di un’incertezza interpretativa che, ad oltre otto
anni dall’entrata in vigore della riforma, non è ancora sopita, la questione
da affrontare riguarda la sostenibilità e la resistenza alle critiche delle argomentazioni poste alla base di ciascuna ricostruzione dogmatica, in una sorta
di bilanciamento di valori tra pro e contra delle singole teorie.
Sia la tesi del doppio binario che quella della sostituzione automatica
delle clausole nulle ex art. 1419, comma 2, c.c. presentano l’indubbio van277
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taggio di salvaguardare la volontà delle parti, con un netto favore, in questo senso, per l’istituto arbitrale. Tuttavia, qualunque argomento in favore
dell’una o dell’altra tesi viene privato di forza applicativa dalla lettera dell’art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 5/2003, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 5913/2011, è sufficientemente chiaro nel sancire la nullità delle clausole compromissorie contenenti
un modello di nomina arbitrale difforme da quello ivi indicato.
Tra gli argomenti a sostegno di quest’ultima soluzione, si richiamano
la specialità dell’arbitrato ex artt. 34 ss. D.Lgs. n. 5/2003 rispetto a quello
disciplinato nel codice, nonché il superamento delle problematiche, tipiche
delle liti multiparti, relative all’imparzialità dell’organo giudicante. Quindi,
non resta che propendere per l’applicazione esclusiva, alle controversie societarie, del modello di arbitrato introdotto con la riforma del 2003 (e, dunque, per quello che più interessa in questa sede, anche delle modalità di
nomina degli arbitri). Con ciò non si vuole affermare che questa teoria si
presenti scevra da critiche e incertezze: la più evidente è di sicuro ravvisabile nella scelta di una soluzione tout court, tanto drastica da meritare, se
non un’integrale riforma, quantomeno un ripensamento o una chiarificazione da parte del legislatore, il quale, sia consentita la metafora, ha mirato
al giusto bersaglio, ma forse sbagliando freccia. Sembra, insomma, che
pure nel pregevole intento di dare risposte, il legislatore abbia aperto nuovi
scenari per ulteriori domande, senza fornire all’interprete quella chiarezza
che avrebbe giovato non poco per il conseguimento effettivo dell’auspicato
favor arbitrati.
In mancanza di soluzioni univoche, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa la nullità o meno delle clausole compromissorie aventi ad oggetto modalità di nomina degli arbitri difformi dalle previsioni dell’art. 34,
comma 2, D.Lgs. n. 5/2003, una soluzione, o, quanto meno, qualche suggerimento potrebbe giungere dall’arbitrato amministrato: il ricorso, ex art.
832 c.p.c., ad un’istituzione dotata di un regolamento precostituito evita infatti ogni nullità (46), poiché le parti si vedono esonerate dall’incombente di
prevedere criteri di nomina. Infatti, i suddetti regolamenti, complessiva(46) Circa i vantaggi dell’arbitrato amministrato, v. ZUCCONI GALLI FONSECA, La convenzione arbitrale nelle società dopo la riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 3, 929 ss.;
LUISO, L’arbitrato amministrato nelle controversie con pluralità di parti, in questa Rivista,
2001, 605 ss.; CERRATO, Arbitrato societario: legittimità costituzionale dell’introduzione a
maggioranza della clausola compromissoria ed « estraneità » del designatore, cit. Più critico, sul punto, GENNARI, op. cit., 115, il quale pone il problema « della necessaria verifica
della compatibilità tra regolamento arbitrale e disciplina speciale del D.Lgs. n. 5/2003. Anche in caso di utilizzazione di tale strumento, infatti, va preservato il rispetto del secondo
comma dell’art. 34, soprattutto per evitare che un semplice rinvio ad un regolamento che
prevede le modalità di nomina binaria del collegio arbitrale possa rivelarsi fonte di nullità
della clausola », problema che, considerato il contenuto di tali regolamenti (v. nota successiva), ci sembra in realtà superato.
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mente considerati, contengono disposizioni ad hoc per l’arbitrato societario, peraltro (ed è il punto di maggiore interesse per la nostra questione)
conferendo il potere di nomina all’istituzione stessa o a terzi estranei (47),
cosı̀ compiutamente applicando la previsione di cui all’art. 34, comma 2,
D.Lgs. n. 5/2003.
In conclusione, non resta che attendere che il legislatore faccia definitivamente chiarezza sul punto (ad oggi, a detta di molti, ancora « nebuloso ») o, più auspicabilmente, che si provveda a una revisione da parte
delle stesse società, tutt’ora piuttosto inerti, delle clausole compromissorie
difformi, cosı̀ da scongiurare il pericolo della dichiarazione di invalidità.
Nel frattempo, l’unica strada percorribile è l’adesione alla prima tra le varie teorie illustrate, certi che la chiarezza letterale della norma non possa
essere superata, in via interpretativa, da qualsiasi valutazione in ordine all’opportunità o meno del contenuto della stessa.
ALESSIA VANNI
(47) A titolo meramente esemplificativo, si vedano le seguenti disposizioni estratte
dai rispettivi Regolamenti presso le Camere di Commercio: art. 5, comma 5, Reg. Camera
Arbitrale di Roma; art. 20, comma 6, Reg. Camera Arbitrale di Livorno e art. 14, comma 4,
Reg. Camera Arbitrale di Venezia (ai sensi dei quali gli arbitri sono nominati dal Consiglio
Arbitrale presso la Camera di Commercio); art. 13, comma 5, Reg. Camera Arbitrale del Piemonte (che deferisce la nomina arbitrale, salvo diversa disposizione di legge, alla Giunta
esecutiva). Una soluzione parzialmente difforme si rinviene nell’art, 15, comma 2, Reg. Camera Arbitrale di Milano, ove, più generalmente in tema di liti multiparti, senza fare specifico riferimento all’arbitrato societario, si stabilisce che « anche in deroga a quanto previsto
nella convenzione arbitrale, se al momento del deposito degli atti introduttivi le parti non si
raggruppano in due unità, il Consiglio Arbitrale, senza tener conto di alcuna nomina effettuata dalle parti, nomina il Tribunale Arbitrale ».
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TRIBUNALE DI PISA, sentenza 9 gennaio 2009 — PIRAGINE Giudice unico; Immobiliare 10 S.r.l. c. Gasperini.
Arbitrato e giudizio ordinario - Declinatoria di competenza emanata dopo il 2
marzo 2006 - Regolamento di competenza - Ammissibilità.
Il secondo inciso dell’art. 819-ter, comma 1 c.p.c. disciplina il solo regime di
impugnabilità della sentenza emessa dal giudice ordinario in tema di competenza
arbitrale senza occuparsi del procedimento arbitrale in quanto tale. Ne deriva
l’inapplicabilità della disciplina transitoria di cui all’art. 27, comma 4 D.Lgs. n.
40/2006, in quanto relativa ai soli procedimenti arbitrali, dovendosi viceversa ritenere corretto che, quanto al secondo inciso dell’art. 819-ter comma 1 c.p.c., la
data di entrata in vigore debba essere individuata (con riferimento alla data di
pronuncia della sentenza in tema di competenza) secondo il criterio ordinario della
vacatio legis, ed essa sia dunque quella del 2 marzo 2006.
CENNI DI FATTO. — Una società immobiliare agisce in giudizio per l’esecuzione
del contratto preliminare ai sensi dell’art. 2932 c.c. Il Tribunale dichiara la propria
incompetenza in favore degli arbitri, la sentenza non viene impugnata e diventa definitiva. La società immobiliare trascrive nuovamente la domanda. Il convenuto
chiede in via d’urgenza la cancellazione della trascrizione, la dichiarazione di nullità del contratto preliminare e il sequestro conservativo dell’immobile di proprietà
della società immobiliare.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Con ricorso depositato in data 20 novembre 2008 e
ritualmente notificato, Gasperini Romano, premesso che la Immobiliare 10 S.r.l.
proponeva nei suoi confronti domanda ex art. 2932 c.c. in relazione al contratto
preliminare in data 8 marzo 2006; che la domanda veniva trascritta, che il Tribunale di Pisa dichiarava la propria incompetenza in favore degli arbitri con sentenza
divenuta definitiva a seguito di mancata proposizione del regolamento di competenza ex art. 819-ter c.p.c.; che in data 20 ottobre 2008 acquisiva la formalità della
cancellazione della trascrizione; che la Immobiliare 10 S.r.l. in data 31 ottobre 2008
procedeva illegittimamente ad una nuova trascrizione della domanda; che il citato
contratto preliminare era nullo per mancanza di oggetto, tanto premesso chiedeva
in via d’urgenza ordinarsi la cancellazione della trascrizione, dichiararsi la nullità
del preliminare ed autorizzarsi il sequestro conservativo dell’immobile di proprietà
dell’Immobiliare 10 S.r.l.
Con decreto inaudita altera parte in data 24-25 novembre 2008 veniva autorizzato il sequestro.
L’Immobiliare 10 S.r.l. si costituiva in giudizio ed esponeva che l’art. 819-ter
c.p.c. era inapplicabile al caso di specie; che dunque la sentenza declinatoria della
competenza non era definitiva non essendo scaduti i termini per l’appello; che perciò la nuova trascrizione della domanda era legittima; che il ricorso ex art. 700
c.p.c. era inammissibile in relazione alla cancellazione di trascrizioni ed alla dichiarazione di nullità del contratto; che difettava il periculum; tanto premesso chiedeva
revocarsi il decreto di sequestro e rigettarsi il ricorso.
Ciò posto, si osserva che, stando alla lettera dell’art. 27 comma 4 D.Lgs. n.
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40/2006, l’intero art. 819-ter c.p.c., introdotto dall’art. 22 del medesimo D.Lgs.,
parrebbe applicabile solo in relazione ai « procedimenti arbitrali » nei quali la domanda di arbitrato sia stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore
del decreto (2 marzo 2006).
Tuttavia, nel corpo dell’art. 819-ter sembra possibile enucleare una singola
disposizione che non concerne affatto i procedimenti arbitrali, e si tratta del secondo inciso del comma 1: « La sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la
propria competenza in relazione ad una convenzione d’arbitrato, è impugnabile a
norma degli articoli 42 e 43 ». La disposizione de qua, in altri termini, si limita a
disciplinare il regime di impugnabilità della sentenza emessa dal giudice ordinario
in punto competenza arbitrale, senza occuparsi in alcun modo né dei rapporti tra il
giudizio ordinario e quello arbitrale, né — soprattutto — del procedimento arbitrale
in quanto tale.
Ed allora, a tale specifica norma non sembra potersi riferire la previsione di
cui all’art. 27 comma 4 D.Lgs. cit. (« Le disposizioni degli articoli 21, 22, 23, 24
e 25 si applicano ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata
proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto »), posto che la norma medesima non riguarda i procedimenti arbitrali, e ciò a fortiori
ove, come nel caso di specie, nessuna domanda arbitrale sia stata proposta. D’altra
parte, non si comprenderebbe la ragione per la quale il legislatore avrebbe stabilito
un parametro temporale legato alla proposizione di una domanda di arbitrato prima
o dopo una certa data, al fine di individuare il momento di entrata in vigore di una
disposizione — appunto, il secondo inciso dell’art. 819-ter comma 1 — che nulla
ha a che vedere con i procedimenti arbitrali.
Inoltre, l’interpretazione di cui sopra trova conforto nel fatto che tutte le
norme del D.Lgs. n. 40/2006 alle quali si riferisce l’art. 27 comma 4 (artt. 21, 22,
23, 24 e 25) concernono direttamente il procedimento arbitrale, con la sola eccezione, appunto, del secondo inciso dell’art. 819-ter comma 1.
Sembra dunque corretto, interpretando l’art. 27 comma 4 in modo sistematico
nel contesto della riforma del 2006, ritenere che, quanto al secondo inciso dell’art.
819-ter comma 1, la data di entrata in vigore, debba essere individuata (con riferimento alla data di pronuncia della sentenza in tema di competenza), secondo il criterio ordinario della vacatio legis, ed essa sia dunque quella del 2 marzo 2006,
senza bisogno di ipotizzare — come assume la convenuta — alcuna irretroattività.
Ne deriva che, secondo il principio del tempus regit actum, il regime d’impugnabilità della sentenza declinatoria della competenza emessa dall’intestato Tribunale in data 20 maggio-4 giugno 2008 era quello introdotto dall’art. 819-ter comma
1 secondo inciso, il che significa che avverso tale sentenza era esperibile il regolamento di competenza.
Quanto sopra è del resto in linea con l’opinione espressa dalla S.C.: « È ammissibile, ai sensi dell’art. 819-ter c.p.c., cosı̀ come novellato dall’art. 22 del
D.Lgs. n. 40/2006, l’istanza di regolamento di competenza proposta avverso la
sentenza — pronunziata e pubblicata in data successiva al 2 marzo 2006, e cioè
dopo l’entrata in vigore del citato D.Lgs. — declinatoria della competenza in relazione ad una clausola compromissoria » (Cass. n. 26990/2007).
Secondo la Corte, quindi, è necessario e sufficiente, ai fini dell’esperibilità del
regolamento di competenza, il fatto che la sentenza impugnata sia stata emessa
dopo il 2 marzo 2006. Dalla sentenza appena citata, non risulta in effetti se in quel
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caso fosse stata o no proposta la domanda di arbitrato, ma comunque la S.C. neppure ha accennato alla questione, ritenendo evidentemente superfluo, al fine di stabilire l’epoca di entrata in vigore del nuovo regime di impugnabilità, ogni riferimento ai presupposti di cui all’art. 27 comma 4 del D.Lgs. n. 40/2006; si osservi
anche che la pronuncia si riferiva ad una clausola arbitrale stipulata prima del 2
marzo 2006, dunque neppure l’art. 27 comma 3 D.Lgs. cit. può valere al fine di decidere circa l’applicabilità dell’art. 819-ter comma 1, secondo inciso (sul punto, v.
infra).
Tanto premesso, è opportuno riportare, in parte qua, la motivazione di una diversa pronuncia di legittimità (Cass. n. 12814/2008), richiamata, ad opposti fini, da
entrambe le parti. In tale occasione, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso
per regolamento di competenza proposto ex artt. 43 e 809-ter c.p.c., in un caso in
cui si era in presenza di un procedimento arbitrale introdotto ante 2 marzo 2006 in
base ad una clausola arbitrale stipulata — ovviamente — anch’essa prima del 2
marzo 2006, affermando che: « [...] diversa conclusione non può ricondursi al
nuovo testo dell’art. 819-ter c.p.c., in tema di rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria, introdotto dal D.Lgs. n. 40/2006, art. 22 — inserito nel Capo II di tale
D.Lgs. (artt. da 20 a 25), recante modificazioni al c.p.c. in materia di arbitrato —
nella parte in cui dispone che « La sentenza con la quale il giudice afferma o nega
la propria competenza in relazione a una convenzione d’arbitrato è impugnabile a
norma degli artt. 42 e 43 c.p.c. », in quanto la introdotta esperibilità del regolamento necessario o facoltativo di competenza non ha portata retroattiva; — che in
particolare in virtù della disposizione transitoria di cui al medesimo D.Lgs. n. 40/
2006, art. 27, comma 4, tutte le disposizioni di cui al precedente art. 22, ivi compreso quindi l’art. 819-ter nuovo testo, si applicano soltanto ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente al 2 marzo
2006, data di entrata in vigore del decreto stesso, laddove, invece, nella specie il
procedimento arbitrale è stato introdotto il 7 maggio 2002 [...] ».
Ora, la Cassazione afferma — è vero —, seguendo la lettera dell’art. 27
comma 4, che l’art. 819-ter si applica solo ai procedimenti arbitrali promossi dopo
il 2 marzo 2006, ma tale asserzione riguarda un caso in cui una domanda di arbitrato vi era, ed era anteriore al 2 marzo 2006: dunque tale argomento non è incompatibile con la tesi qui sostenuta, dato che, nel caso di specie, non siamo in presenza di alcuna domanda di arbitrato.
Nel prosieguo della motivazione, la S.C. introduce un ulteriore argomento:
« [...] in base al trascritto tenore della nuova disposizione contenuta nell’art. 819ter, il regolamento di competenza concerne la sentenza con la quale il giudice afferma o nega la propria competenza in relazione a una « convenzione d’arbitrato »,
la quale è contemplata dal medesimo D.Lgs. n. 40/2006, art. 20 — con cui è stato
sostituito il capo I del Titolo VIII del libro IV c.p.c., già intitolato « Del compromesso e della clausola compromissoria », ed ora « Della convenzione d’arbitrato »
— articolo che, per il comma 3 del già menzionato art. 27 del decreto, si applica
alle convenzioni di arbitrato (quand’anche insite in clausole compromissorie ex art.
808 c.p.c., nuovo testo), stipulate dopo il 2 marzo 2006, laddove, invece, nella specie si verte in tema di clausola di data anteriore ».
Ma nel caso di specie, la clausola arbitrale è stata stipulata in data 8 marzo
2006, dunque successivamente al 2 marzo 2006: è perciò che dal citato passo della
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sentenza de qua non possono trarsi argomenti contrari all’applicabilità dell’art.
819-ter alla vicenda qui in esame.
Ancora. La Cassazione, nella pronuncia in parola, rileva poi che: « [...] l’attuale riconduzione della questione relativa al rapporto tra arbitri e autorità giudiziaria all’istituto della competenza giurisdizionale si correla anche a nuove modalità
di proposizione della relativa eccezione ed a conseguenti preclusioni processuali
(artt. 817 e 818-ter c.p.c.), per cui, anche per tale profilo, con riferimento ai procedimenti giudiziari o arbitrali esenti dalla nuova disciplina in materia di arbitrato
non emergono ragioni di riconsiderazione del pregresso diverso orientamento ».
Ma nel caso di specie, il giudizio dinanzi al Tribunale di Pisa, all’esito del
quale è stata emessa sentenza declinatoria della competenza in favore degli arbitri,
è stato instaurato successivamente al 2 marzo 2006 (citazione notificata in data 10
giugno 2006); dunque tale procedimento era assoggettato in pieno alle nuove regole
processuali di cui agli artt. 817 e 818-ter: pertanto, anche l’ulteriore argomento utilizzato dalla S.C. per negare l’applicabilità dell’art. 819-ter non si adatta al presente
procedimento.
In base a quanto esposto, sembra potersi desumere che la sentenza emessa
dall’intestato Tribunale in data 20 maggio-4 giugno 2008 fosse passata in giudicato
in data 28 luglio 2008, una volta spirato il termine di cui all’art. 47 comma 2 c.p.c.
per la proposizione del regolamento di competenza.
Quindi, la nuova trascrizione della domanda giudiziale effettuata dalla convenuta in data 31 ottobre 2008 pare illegittima, essendo a tale epoca intervenuta una
sentenza definitiva di incompetenza.
Occorre peraltro dar conto del tradizionale orientamento contrario all’ammissibilità della cancellazione della trascrizione in via cautelare, fondato sulle seguenti
osservazioni: 1) la cancellazione può conseguire, secondo l’art. 2668 c.c., soltanto
alla decisione di merito; 2) gli effetti del provvedimento cautelare di cancellazione
sarebbero irreversibili, in contrasto con la natura stessa dei provvedimenti emessi
ex art. 700 c.p.c.; 3) il provvedimento cautelare anticiperebbe integralmente tutti gli
effetti della sentenza di merito rispetto alla quale si pone in rapporto di strumentalità (peraltro, parte della giurisprudenza, pur esprimendosi, in linea generale, nel
senso suindicato, ammetteva il ricorso all’art. 700 c.p.c. nell’ipotesi di trascrizione
« abusiva », cioè effettuata fuori dai casi previsti dalla legge).
Tale opinione potrebbe peraltro essere rivisitata alla luce delle norme in tema
di procedimento cautelare uniforme, che, com’è noto, hanno attenuato il nesso di
strumentalità in relazione ai provvedimenti anticipatori, escludendo la necessità
dell’instaurazione del giudizio di merito, ed attribuendo cosı̀ una relativa stabilità a
tali provvedimenti. La questione può tuttavia restare qui impregiudicata, essendo
assorbente il difetto del periculum.
Il ricorrente si limita infatti ad allegare, del tutto genericamente, che « un noto
costruttore pisano » gli avrebbe offerto la somma di € 220.000,00 per l’acquisto
dell’immobile de quo, che la presenza della trascrizione potrebbe far sfumare l’affare, e che la vendita « urge » essendosi prossimi alla scadenza della concessione
edilizia (19 giugno 2009). Ora, anche ammettendo che il Gasperini abbia effettivamente ricevuto la predetta proposta d’acquisto, l’eventuale perdita di tale chance
contrattuale non costituirebbe certamente un pregiudizio irreparabile, essendo al
contrario pienamente risarcibile per equivalente; analoga considerazione va fatta
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circa la paventata perdita di valore dell’immobile conseguente al venir meno dell’edificabilità.
Le medesime osservazioni valgono anche in ordine alla domanda cautelare
relativa alla declaratoria di nullità del preliminare in data 8 marzo 2006, la quale,
peraltro, difetta del requisito del periculum anche sotto un altro profilo. Infatti, il
ricorrente ha atteso oltre due anni e mezzo dalla stipula (il ricorso è stato depositato solo il 20 novembre 2008) prima di dolersi della nullità del contratto e prima
di avanzare pretese risarcitorie nei confronti della convenuta. Egli non ha assunto
alcuna iniziativa al riguardo, ed in particolare non ha proposto domanda di arbitrato
(come pure avrebbe potuto: artt. 819-bis vecchio testo e 819-ter c.p.c.), e non ha
sostenuto la tesi della nullità, né ha svolto la conseguente domanda risarcitoria,
neanche nel corso del giudizio promosso dalla controparte ex art. 2932 c.c., come
pure avrebbe potuto, se del caso in via subordinata rispetto all’eccezione di compromesso.
Il periculum non sussiste nemmeno con riguardo al sequestro. In proposito, è
pacifico che il patrimonio della convenuta consista unicamente in otto unità immobiliari, attualmente in vendita. Né rileva, come vorrebbe la convenuta, il fatto che
dette unità immobiliari siano ancora in fase di accampionamento, cioè non siano
ancora censite a catasto, dato che ciò non esclude che la convenuta possa stipulare
un contratto preliminare, soggetto a trascrizione.
Tuttavia, anche l’eventuale vendita degli immobili non si tradurrebbe in un’effettiva diminuzione delle garanzie patrimoniali, posto che essa non rappresenterebbe null’altro che l’oggetto della normale attività economica di una società immobiliare, e la convenuta verrebbe a percepire somme verosimilmente ben superiori all’importo del quantum del risarcimento preteso dal Gasperini.
D’altra parte, la prolungata inerzia del Gasperini si riverbera in senso a lui
sfavorevole anche con riguardo al sequestro. Ancora una volta, infatti, il Gasperini
imputet sibi per non aver avanzato alcuna pretesa nel lungo arco di tempo che separa la stipula del preliminare dal deposito del ricorso cautelare, e per essersi attivato solo al momento dell’asserita verificazione del rischio di depauperamento
della convenuta. Il contegno del ricorrente, in altri termini, non si concilia col carattere di urgenza della cautela.
Il decreto di sequestro va pertanto revocato ed il ricorso va rigettato.
(Omissis).
Il doppio volto dell’art. 819-ter c.p.c.
1. La sentenza in commento affronta il delicato tema relativo al regime transitorio o, meglio, alla portata precettiva (quale deducibile dai
principi generali sull’efficacia della legge processuale nel tempo) dell’art.
819-ter c.p.c. (introdotto dall’art. 22 del D.Lgs. n. 40/2006) nella parte in
cui prevede l’esperibilità del regolamento di competenza (necessario o facoltativo) avverso la sentenza del giudice che abbia affermato o negato la
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propria potestas judicandi a fronte di una eccezione di compromesso arbitrale (1).
2. Come noto, sulla questione era più volte intervenuta la Corte di
cassazione affermando, nel 2007 (2), che la sentenza del giudice ordinario,
declinatoria della propria competenza in relazione all’esistenza di una clausola compromissoria, era impugnabile con ricorso per regolamento di competenza promosso ai sensi dell’art. 819-ter nel solo caso in cui fosse stata
pronunziata e pubblicata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs.
n. 40/2006, e cioè dopo il 2 marzo 2006.
Due pronunce successive (3) giungevano a diversa soluzione, entrambe sfavorevoli all’immediata applicabilità dell’art. 819-ter ai giudizi in
corso. In particolare, muovendo dal presupposto che « lo stabilire se una
controversia appartenga alla cognizione del giudice ordinario o sia deferibile agli arbitri costituisce una questione, non già di competenza in senso
tecnico, ma di merito, in quanto direttamente inerente alla validità o all’interpretazione del compromesso o della clausola compromissoria », entrambe ne facevano discendere l’inammissibilità dell’istanza di regolamento di competenza affermando, la prima, che una diversa conclusione
(1) L’articolo in commento, frutto della riforma del 2006, disciplina i rapporti tra arbitrato e giurisdizione ponendo (o, quantomeno, cercando di porre) fine alle incertezze e ai
contrasti interpretativi cui la tematica in questione aveva per molto tempo dato luogo.
Al riguardo, la giurisprudenza era solita concepire i rapporti tra giudice e arbitro come
rapporti « interni » al sistema della giurisdizione ordinaria. In tale prospettiva, la ripartizione
di potestas judicandi determinata dalla stipulazione del patto compromissorio esauriva i propri effetti all’interno del sistema giurisdizionale ed era, cosı̀, da ritenersi analogicamente disciplinata dalle norme sulla competenza. Ne derivava: l’equiparazione dell’exceptio compromissi ad una eccezione di incompetenza per territorio derogabile e assoggettata al relativo regime preclusivo, nonché l’impugnazione con regolamento di competenza della sentenza resa
dal giudice sull’eccezione di compromesso.
Nel 2000 si assiste ad una radicale inversione di tendenza. Discostandosi dall’ormai
consolidato indirizzo giurisprudenziale, la Suprema Corte (Cass., Sez. un., 3 agosto 2000, n.
527) aderisce alla tesi che considera l’arbitrato come un procedimento di natura privatistica,
volto ad ottenere una soluzione della controversia sul piano meramente negoziale. Il contrasto circa l’attribuzione della controversia al giudice o agli arbitri non dà, pertanto, luogo ad
una questione di « competenza » ma ad una questione di « merito » (riguardante la validità,
efficacia e/o interpretazione dell’accordo compromissorio) e la sentenza con la quale il giudice si sia pronunziato sull’eccezione di patto compromissorio non è impugnabile con regolamento di competenza ma con l’appello.
Si giunge, infine, alla riforma del 2006 e alla prevista esperibilità del regolamento di
competenza avverso la sentenza con la quale il giudice abbia affermato o negato la propria
competenza in relazione ad una convenzione di arbitrato. Cosı̀ disponendo, il legislatore ha,
per c.d., « sconfessato » il più recente orientamento « negoziale » o « privatistico » consolidatosi in giurisprudenza dopo il 2000 con conseguente mutamento tanto del regime processuale che del rimedio impugnatorio.
(2) Cass., 20 dicembre 2007, n. 26990.
(3) Cass., 20 maggio 2008, n. 12814; Cass., 29 agosto 2008, n. 21926.
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non si poteva ricondurre al nuovo art. 819-ter in quanto « non ha portata
retroattiva », essendo invece applicabile ai soli procedimenti arbitrali nei
quali la domanda di arbitrato fosse stata proposta successivamente al 2
marzo 2006 e, la seconda, che avendo l’art. 819-ter « trasformato » la questione della potestas judicandi degli arbitri da questione di merito in questione di competenza in senso tecnico, ciò avesse comportato un « mutamento della legge regolatrice della competenza » ai sensi dell’art. 5 c.p.c.;
sicché, non avendo il legislatore dettato una disciplina di diritto transitorio
relativa ai giudizi pendenti dinanzi al giudice ordinario alla data del 2
marzo 2006, derogatoria dell’art. 5 c.p.c., la questione della competenza arbitrale rimaneva questione di merito e, conseguentemente, la pronuncia declinatoria della competenza dell’A.G.O. non era assoggettabile a regolamento di competenza ma agli ordinari mezzi di impugnazione.
Decisioni, queste ultime, che non avevano certamente mancato di sollevare perplessità in dottrina. In particolare, si faceva notare (4) come, da un
lato, soltanto il più recente orientamento giurisprudenziale era giunto a ritenere che l’eccezione di compromesso non comportasse una questione di
competenza ma fosse attinente al merito, contrariamente a quanto per molto
tempo si era sostenuto, e che, dall’altro lato, dall’introdotta esperibilità del
regolamento di competenza non si potesse escludere l’intenzione del legislatore del 2006 di confermare il precedente indirizzo giurisprudenziale,
continuando a ritenere la questione relativa al rapporto tra arbitri e giudici
come una questione (lato sensu) di competenza.
Ne derivava che l’art. 819-ter non costituiva affatto, per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della riforma del 2006, un
« mutamento della legge regolatrice della competenza » e che, pertanto, il
richiamo al criterio di perpetuatio non rendeva inammissibile il regolamento di competenza.
3. Il riferimento alla giurisprudenza della Cassazione deve ritenersi
necessitato non solo per comprenderne l’evoluzione, ma anche perché oggetto di richiamo da parte del giudice pisano a conforto della tesi sostenuta
in sentenza.
Sinteticamente, questi i punti salienti del provvedimento:
A) il secondo inciso dell’art. 819-ter, comma 1, non si occupa né dei
rapporti tra il giudizio ordinario e quello arbitrale né, soprattutto, del procedimento arbitrale in quanto tale;
B) l’art. 27, comma 4, D.Lgs. n. 40/2006 si applica ai soli « procedimenti arbitrali » nei quali la domanda di arbitrato sia stata proposta successivamente al 2 marzo 2006;
(4) COREA, Questioni di diritto intertemporale nei rapporti tra arbitrato e giurisdizione, in questa Rivista, 2009, 465.
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C) il secondo inciso dell’art. 819-ter, comma 1, sfugge pertanto alla
disciplina transitoria di cui all’art. 27, comma 4 dovendosene, viceversa,
individuare l’entrata in vigore secondo il criterio ordinario della vacatio legis.
Ora, premesso che nel caso di specie nessuna domanda di arbitrato era
stata proposta, cerchiamo di affrontare per ordine i punti sopra indicati.
A) Il primo riguarda l’asserita estraneità del secondo inciso dell’art.
819-ter comma 1 al procedimento arbitrale in quanto tale.
Tale interpretazione, a parere del giudice, sembrerebbe confermata
dalla circostanza che tutte le norme del D.Lgs. n. 40/2006 alle quali si riferisce l’art. 27, comma 4 (5) riguarderebbero direttamente il procedimento
arbitrale, eccezion fatta per la norma in commento.
Effettivamente, non sembra sussistere alcuna relazione tra i due procedimenti. Ciò emerge, ictu oculi, non solo ponendo a confronto il secondo
inciso dell’art. 819-ter, comma 1 con la disciplina dell’arbitrato tout court,
ma anche, e soprattutto, analizzando il dettato dell’intero art. 819-ter. Un
articolo (sia consentita l’espressione) dal « doppio volto ». Mi spiego.
Per un verso, la riconosciuta ammissibilità del regolamento di competenza (819-ter, comma 1, secondo inciso) sembrerebbe riaffermare, con una
sorta di ritorno al passato, la tradizionale concezione dei rapporti tra giudice e arbitro come rapporti « interni » al sistema della giurisdizione ordinaria, analogicamente disciplinati dalle norme sulla competenza.
Per altro verso, l’asserita inapplicabilità « di regole corrispondenti
agli articoli 44, 45, 48, 50 e 295 c.p.c. » ai rapporti tra arbitrato e processo
giudiziario (819-ter, comma 2) è il segno più evidente di come, viceversa,
non vi sia alcuna interrelazione tra di essi. Si nega la possibilità di translatio iudicii da processo giurisdizionale a processo arbitrale, e viceversa (6);
si nega un’ipotetica valenza della sentenza sulla competenza del giudice
statale di fronte all’arbitro o dell’arbitro di fronte al giudice statale (7); si
nega la possibilità di sollevare un conflitto di competenza; si nega la sospensione del procedimento a causa della proposizione del regolamento di
competenza; si nega la sospensione necessaria del procedimento per pre-
(5) Art. 21: « Degli arbitri »; art. 22: « Del procedimento »; art. 23: « Del lodo »; art
24: « Delle impugnazioni »; art 25: « Dell’arbitrato secondo regolamenti precostituiti ».
(6) L’inapplicabilità del meccanismo della translatio iudicii si giustifica alla luce del
fatto che il processo non può continuare, mediante l’atto di riassunzione, davanti al giudice
competente, giacché l’altro organo è completamente estraneo all’autorità giudiziaria (e viceversa): cosı̀ CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile. II. Profili generali, Padova,
2006, 172.
(7) Con tutte le conseguenze (paradossali) che un conflitto negativo di competenza
potrebbe creare ove il giudice statale e quello privato si dichiarino entrambi, ancorché per
motivi opposti, sforniti del potere di giudicare.
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giudizialità-dipendenza; si nega, altresı̀, l’applicazione della disciplina della
litispendenza e connessione (819-ter, comma 1).
Insomma, se da un lato si afferma, dall’altro lato si nega. E si nega
tanto da far persino dubitare sull’opportunità della disciplina nella parte in
cui equipara la questione relativa alla valida esistenza della convenzione
arbitrale a una questione di competenza.
Ad ogni modo, tutto ciò farebbe propendere per la reciproca indipendenza/estraneità dei due giudizi, confermando in tal modo l’interpretazione
dell’autorità pisana.
B) Ne discende (e siamo cosı̀ al secondo punto) la inapplicabilità dell’art. 27, comma 4 D.Lgs. n. 40/2006 in quanto relativo, per l’appunto, ai
soli « procedimenti arbitrali ».
C) Ed allora, posta l’inapplicabilità della disciplina transitoria, si tratta
di individuare un criterio che consenta di sopperire con sufficiente sicurezza
a tale deficienza, indicando la linea di demarcazione tra l’efficacia della
precedente normativa e quella successiva, sı̀ da impedire, non solo la retroattività della seconda, ma anche l’ultrattività della prima.
Per il giudice pisano tale criterio è quello ordinario della vacatio legis: la data di entrata in vigore del secondo inciso dell’art. 819-ter, comma
1 è quella dell’entrata in vigore del citato D.Lgs., ossia il 2 marzo 2006. A
sostegno, viene richiamata la pronunzia con la quale la Cassazione (8)
aveva affermato l’ammissibilità del regolamento di competenza ex art. 819ter c.p.c. avverso una sentenza declinatoria della competenza « ... pronunziata e pubblicata — per l’appunto — in data successiva al 2 marzo
2006 ».
Oltretutto, sembra corretto rifarsi alle regole generali in tema di successione nel tempo delle leggi processuali; regole che dottrina e giurisprudenza prevalenti individuano negli artt. 11 e 15 disp. prel. c.c., ossia nei
principi di applicazione immediata e non retroattiva della legge.
La nuova norma troverà, quindi, immediata applicazione agli atti processuali da compiersi successivamente alla sua entrata in vigore; quelli già
formatisi nel vigore della legge previgente, invece, continueranno ad essere
disciplinati da quest’ultima anche per ciò che riguarda i loro effetti, ancorché suscettibili di prodursi successivamente all’entrata in vigore della
nuova disciplina (9).
Considerato, poi, che nel caso di specie l’autorità pisana aveva pro(8) Cass., 20 dicembre 2007, n. 26990.
(9) Cass., 12 maggio 2000, n. 6099, in Giust. civ., 2001, I, 1927, con nota di GATTI,
secondo cui, in difetto di esplicite previsioni contrarie, il principio dell’immediata applicazione della legge processuale sopravvenuta ha riguardo soltanto agli atti processuali successivi all’entrata in vigore della legge stessa, alla quale non è dato incidere, pertanto, sugli atti
anteriormente compiuti, i cui effetti restano regolati, secondo il fondamentale principio del
tempus regit actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere.
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nunziato sentenza declinatoria della propria competenza nel giugno del
2008, avverso di essa era, quindi, esperibile il regolamento di competenza
(e non già l’appello, come sostenuto da parte convenuta).
4. M’avvio a conclusione. La sentenza in commento ha il pregio di
aver affrontato il delicato tema dei rapporti tra arbitrato e processo giudiziario, sia pur limitatamente ad una questione di diritto intertemporale. Ciò
nonostante, è innegabile la portata dirompente dell’asserita « estraneità del
secondo inciso dell’art. 819-ter, comma 1 ai rapporti tra il giudizio arbitrale e quello ordinario e, soprattutto, al procedimento arbitrale in quanto
tale »: verrebbe, infatti, confermata l’impressione di trovarsi di fronte ad un
regime peculiare volto a garantire più il rispetto dell’alterità che non della
interrelazione tra le due figure, nonché (sia pur implicitamente) l’idea che
il rapporto arbitro-giudice non possa avere come paradigma di riferimento
lo schema proprio della competenza (10).
GIANMARCO ROMANO
(10) LUISO, Diritto processuale civile, IV, I processi speciali, Milano, 2009, 360, secondo cui la riforma del 2009, pur avendo profondamente innovato in ordine alla forma (non
agli effetti) delle pronunce sulla competenza, non ha toccato l’art. 819-ter, comma 1 nella
parte in cui si stabilisce che, sull’eccezione di patto compromissorio, il giudice pronuncia con
sentenza. Ulteriore elemento, questo, che conferma come l’impugnabilità di detta sentenza
con il regolamento di competenza non significa affatto che si tratti di una sentenza sulla
competenza.
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TRIBUNALE DI MILANO, Sez. VIII civile, sentenza 22 febbraio 2011; RIVA CRUGNOLA Pres.; CONSOLANDI; Est. — X S.r.l. (avv. Sadun) c. X S.r.l. (avv. Borlone).
Arbitrato ex D.Lgs. n. 5/2003 - Impugnativa di delibera assembleare di approvazione del bilancio - Compromettibilità in arbitri - Sussistenza.
L’unico limite alla compromettibilità in arbitri è la disponibilità dei diritti e,
poiché il voto è per sua natura disponibile e le determinazioni sul bilancio hanno
spazi di discrezionalità ampli, l’equazione « impugnazione di bilancio = mai compromettibile » è falsa.
CENNI DI FATTO. — La causa riguarda l’impugnazione della delibera dell’assemblea ordinaria dei soci della società X S.r.l. del 30 aprile 2009 (della quale viene
richiesta la declaratoria di nullità e/o l’annullamento) che aveva approvato il bilancio dell’esercizio chiuso al 31 dicembre 2008 ed aveva deciso sui risultati dell’esercizio, determinando l’emolumento degli amministratori. Parte convenuta nel costituirsi rilevava come fosse presente nello statuto sociale una clausola compromissoria, formulata nel rispetto della normativa introdotta nel 2004, secondo la quale
erano devolute a collegio arbitrale tutte le controversie, specificamente comprendendovi quelle relative alla validità delle delibere assembleari. Il giudice istruttore
decideva pertanto di rimettere la causa al collegio per la decisione sulla questione
relativa alla competenza arbitrale.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Parte attrice contesta l’eccezione di competenza arbitrale sostenendo che fra le materie non compromettibili, dunque di non operatività della clausola, rientrino quelle di nullità e che tale debba intendersi la questione relativa alla delibera che approva il bilancio.
In realtà l’art. 34 del D.Lgs. n. 5/2003 non si riferisce affatto al tipo di vizio
fatto valere, stabilendo soltanto che sono compromettibili le controversie che « abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale ».
Vale la pena a questo punto di ricordare come l’art. 36 del medesimo decreto
legislativo stabilisca che gli arbitri debbano decidere secondo diritto in ogni caso,
il che elimina qualsiasi dubbio circa il fatto che anche in presenza di norme imperative, quali quelle sulla nullità, la decisione possa portare ad una disapplicazione
del diritto, perché il giudizio secondo equità, come si è ora detto, è escluso.
Ciò si dice a prescindere dal fatto che nel caso di specie sia fatto valere principalmente un vizio procedurale e cioè la mancata visione del bilancio, laddove visionare il bilancio prima dell’assemblea cui è sottoposto è una facoltà e non un dovere del socio e dunque deve ritenersi ricompresa sicuramente tra i diritti disponibili.
Tutti i vizi di informazione sono poi sicuramente disponibili, atteso che il socio può essere o dichiararsi sufficientemente edotto a deliberare, anche quando la
informazione non gli sia stata correttamente fornita dal documento.
Logicamente diverso discorso vale per i vizi di chiarezza e precisione, i quali
tuttavia sono fatti valere nel caso di specie in maniera perplessa e generica, con
rinvio ad una perizia da espletarsi nel giudizi, perizia che l’attore richiede, per la
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maggiore specificazione, cosa oltre a tutto inammissibile, perché l’atto di citazione
deve enunciare in maniera completa i vizi fatti valere.
Anche la giurisprudenza a sezioni unite citata da parte attrice — la decisione
21 febbraio 2000 n. 27 — nel momento in cui tratta di illiceità della delibera, nulla
aggiunge quanto al diverso parametro introdotto dalla normativa del 2003, vale a
dire la disponibilità del diritto.
Il parametro della liceità poteva valere, al più, prima della riforma del 2006,
quando è stato introdotto il nuovo testo dell’art. 806 c.p.c., che prevede il parametro della disponibilità.
Non va confuso il piano della tutela del diritto disponibile e della inderogabilità della norma con quello della transigibilità, che, in forza dell’art. 806 c.p.c. previgente condizionava la compromettibilità. Anche prescindendo dal mutamento avvenuto nel 2006, l’art. 1966 c.p.c. comma 2 delimita comunque la transabilità ai
diritti sottratti alla disponibilità delle parti, quali ad esempio la paternità e le questioni di stato, mentre il voto è per sua natura disponibile e le determinazioni sul
bilancio hanno spazi di discrezionalità lecita in verità assai ampli, fra questi sicuramente quello qui invocato sulla destinazione dell’utile e emolumento amministratori. Ne segue che la equazione delibera di « impugnazione di bilancio = mai compromettibile » è una equazione falsa.
Né può invocarsi — oggi a maggior ragione visto il mutato testo dell’art. 806
c.p.c. — la disposizione dell’art. 1972 c.c. che colpisce le transazioni su un contratto illecito: tale disposizione infatti è applicabile in materia contrattuale, al fine
di impedire che attraverso la transazione si consolidi un patto illecito, mentre nel
caso di specie, della delibera sul bilancio, è sempre possibile la autonoma impugnazione dei terzi. Con la impugnazione — o la non impugnazione — il socio dispone non già della disciplina inderogabile, ma del suo personale interesse alla osservanza di questa, con il che, secondo quanto già affermato da pronunce di questo Tribunale nel 2000, viene a cadere qualsiasi automatismo fra la decisione sul
bilancio e la non compromettibilità.
Ciò tanto più laddove si consideri che l’art. 36 del D.Lgs. n. 5/2003 stabilisce
che la decisione sia impugnabile « anche a norma dell’art. 829 c.p.c. » quando abbia conosciuto incidentalmente di questioni non compromettibili, il che significa
che l’arbitrato non è escluso dalla sola presenza di questioni non compromettibili
ed implicitamente ammette una cognizione ampliata a questioni incidentali.
Si deve poi osservare come oggetto della azione sia una delibera, che è atto
di per sé soggetto alla volontà delle parti, dunque disponibile, se è vero, come è
vero, che i soci possono approvare o non approvare il bilancio loro sottoposto e nel
bilancio, come nella sua approvazione, si uniscono aspetti necessitati secondo legge
ed aspetti lasciati alla volontà delle parti, quali ad esempio la rapidità degli ammortamenti, gli accantonamenti, entro certi limiti anche la valutazione degli assets e
delle riserve, la destinazione degli utili.
Vi sono in altre parole nel bilancio degli spazi di discrezionalità che rappresentano altrettanti aspetti disponibili.
Risulta pertanto non condivisibile l’affermazione che solo perché vi siano taluni principi inderogabili posti in materia di bilancio qualsiasi delibera che di questo tratti sia esclusa dal novero di quelle compromettibili.
È d’altronde la stessa Cassazione nella sentenza 23 febbraio 2005 numero
3772 che, nel nuovo regime, afferma come « l’area dell’indisponibilità sia più ri292
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stretta di quella degli interessi genericamente superindividuali », con il che non risulta sufficiente, per escludere la compromettibilità in arbitri, riconoscere — come
dovuto — al bilancio una funzione di tutela della collettività, per la sicurezza dei
traffici ovvero per la certezza della garanzia patrimoniale della società debitrice. Per
altro quella sentenza riguardava materia diversa dal bilancio, che viene toccato solo
quale obiter dictum (la Corte aveva confermato la sentenza impugnata che aveva
ritenuto compromettibile una controversia, nella quale attraverso l’impugnazione di
una delibera di un Consorzio di imprese, un’impresa consorziata aveva chiesto il
pagamento di un conguaglio commisurato all’ammontare dei lavori assegnati alle
singole imprese che partecipavano al Consorzio stesso. In motivazione, la Corte ha
affermato che gli effetti della delibera impugnata sul bilancio del Consorzio erano
soltanto indiretti, in quanto non coinvolgevano direttamente l’applicazione delle
norme inderogabili che devono essere osservate nella redazione dei bilanci).
Deve rilevarsi peraltro come nella novellata disciplina qualsiasi violazione societaria, anche quando abbia per conseguenza la nullità della delibera, sia passibile
di consolidazione o sanatoria, col decorso di tre anni senza che venga proposta impugnazione, eccettuate soltanto le delibere che modifichino l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili (un’ipotesi quasi di scuola, cfr. art. 2379,
comma 1-2479-ter c.3 c.c.) e come dunque anche le delibere che violino il principio di chiarezza e precisione nel bilancio siano sostanzialmente sanate dal decorso
di tre anni dalla iscrizione.
Se dunque i soci limitandosi a non agire in giudizio possono ottenere — sempre che nessun altro impugni — una sorta di definitività del bilancio in ipotesi illegittimo, come del resto possono approvarlo, non pare potersi affermare che la
materia sia di per sé indisponibile. Ciò fermo restando il diritto dei terzi alla impugnativa, quando si tratti di nullità; ma è chiaro che il giudizio arbitrale promosso
da un socio per la nullità della delibera non pregiudica il diritto del terzo, che non
ne è parte, a proporre la medesima impugnazione.
Milita in ogni caso a favore della compromettibilità anche il mutato inquadramento legislativo dell’arbitrato che non è più una alternativa « privata » di soluzione di liti, ma può essere configurato come un sistema processuale alternativo: e
in tal senso va considerata la (pur nominalistica) indicazione in tema di « competenza degli arbitri » di cui all’art. 819-ter c.p.c. e all’art. 817 c.p.c., nonché la più
rilevante previsione (sempre contenuta nell’art. 819-ter c.p.c.) per la quale la sentenza del giudice che afferma la competenza dell’arbitro è impugnabile con regolamento di competenza, indicando cosı̀ che si tratti di due sistemi processuali tra di
loro contigui e non di rimedio « privato » contrapposto al rimedio pubblico tradizionale.
Nello stesso senso, di un diverso contenuto della disciplina arbitrale introdotta
dal legislatore del 2006, va poi considerata la decisione secondo diritto, già ricordata, introdotta dal D.Lgs. n. 5/2003.
Questi mutamenti, come il già ricordato mutamento dell’art. 806 c.p.c. attenuano il legame fra arbitrato e transazione, affievolendo il carattere di decisione
privata, secondo canoni non statali, dell’arbitrato, per cui oggi sicuramente meno
di ieri compromettere in arbitri può significare transigere.
In relazione dunque ai vizi qui fatti valere, e in particolare a quelli relativi alla
conoscenza degli atti prima dell’assemblea e alla delibera sui compensi degli amministratori, deve riconoscersi che si tratta di questioni disponibili, la cui decisione
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può essere devoluta agli arbitri, non riguardando sicuramente aspetti di verità o
precisione o chiarezza.
Quanto alle questioni circa il modo di esporre le grandezze economiche riportate dal bilancio e in particolare il dettaglio dovuto o pretese incongruenze o inverosimiglianze, a parte la formulazione perplessa delle doglianze (« vi sono infine
alcune poste del bilancio, invero del tutto incongrue, che inducono l’esponente a
dubitare della loro verosimiglianza »), si deve riconoscere che il giudizio arbitrale
non riguarda il generale obbligo di redazione del bilancio secondo il canone di verità, bensı̀ la sola posizione del socio in ordine all’approvazione della delibera, in
definitiva concernendo dunque il diritto del socio a non essere soggetto agli effetti
della approvazione di un documento contabile incidente sulla configurazione della
sua partecipazione sociale, id est riguardante un suo diritto patrimoniale, come tale
per definizione disponibile.
In definitiva la eccezione preliminare è fondata e va dichiarata la incompetenza del Tribunale.
(Omissis).
L’arbitrabilità delle controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari.
1. Nella sentenza qui in esame il Tribunale di Milano declina, in favore di arbitri, la competenza a decidere una controversia avente ad oggetto
l’invalidità (annullabilità e/o nullità) di una delibera assembleare che approvava (anche) il bilancio di esercizio. È infatti valida ed efficace, secondo
i giudici milanesi, la clausola compromissoria statutaria che devolva ad arbitri la decisione di tutte le controversie insorgenti fra i soci ovvero tra i
soci e la società, ivi comprese quelle (nella fattispecie espressamente menzionate nella clausola) aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari, perché trattasi di liti in materia compromettibile (1).
Il Collegio meneghino perviene a tale conclusione sulla base del seguente percorso argomentativo.
L’art. 34 D.Lgs. n. 5/2003 (2) indica, come possibile oggetto di clausola compromissoria, le controversie su diritti disponibili e non pone alcun
limite in ordine al tipo di vizio (della delibera) del quale gli arbitri possano
conoscere. Se il vizio invocato dalle parti è la nullità, ciò implica esclusi-
(1) Cfr. nello stesso senso Trib. Napoli, 9 giugno 2010, in Le Società, 2011, 335 ss.,
con nota di GUIZZI; Trib. Roma, 13 ottobre 2010.
(2) Trattasi di controversia alla quale è applicabile il c.d. arbitrato societario di cui
agli artt. 34 ss. D.Lgs. n. 5/2003, « sopravvissuto » — a differenza del c.d. processo societario che in quello stesso decreto legislativo trovava la propria fonte — all’abrogazione ad
opera della Legge n. 69/2009. Cfr. in proposito le considerazioni di SALVANESCHI, Arbitrato e
deliberazioni assembleari, in AA.VV., Studi sull’arbitrato offerti a Giovanni Verde, Napoli,
2010, 741 ss.
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vamente che gli arbitri saranno chiamati ad applicare norme inderogabili,
cosı̀ come del resto impone l’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003, nella parte in cui
prescrive la decisione secondo diritto (e non secondo equità), « quando
l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari » (3). Né, d’altra parte, dalla circostanza che nella controversia siano
coinvolti interessi superindividuali o norme inderogabili discende l’indisponibilità dei diritti.
Che la nullità delle delibere assembleari possa essere accertata dagli
arbitri risulta poi oggi confermato dal nuovo tenore dell’art. 806 c.p.c., che,
cosı̀ come modificato dal D.Lgs. n. 40/2006, evoca quale possibile oggetto
della convenzione di arbitrato, la disponibilità dei diritti — al pari dell’art.
34 D.Lgs. n. 5/2003 — e non più le liti che possono formare oggetto di
transazione. Il legislatore ha cosı̀ chiarito, una volta per tutte, soggiungono
i giudici milanesi, la non invocabilità nell’arbitrato dell’art. 1972 c.c., che
sancisce la nullità della transazione relativa ad un contratto illecito (4).
D’altronde, l’arbitrato, per effetto del D.Lgs. n. 40/2006, non è più un’alternativa privata per la soluzione delle liti e — si sottolinea espressamente
nella sentenza in esame — « oggi sicuramente meno di ieri compromettere
in arbitri significa transigere ».
Dunque l’unico limite all’arbitrabilità è la disponibilità dei diritti.
E sono i diritti disponibili a formare, il più delle volte, l’oggetto delle
controversie che scaturiscono dall’impugnazione di delibere assembleari: la
delibera assembleare, in quanto soggetta ad approvazione (con voto che è
disponibile), attiene a diritti disponibili; le « determinazioni sul bilancio
hanno spazi di discrezionalità lecita in verità assai ampli »; e i vizi di informazione sul bilancio ledono diritti disponibili.
Non del tutto chiara appare, per la verità, la posizione assunta nella
sentenza in esame (forse anche perché non rilevante nella controversia decisa) in ordine all’arbitrabilità della controversia originata dall’impugnazione del bilancio per non veridicità, chiarezza e precisione nella sua redazione. Il Tribunale, dopo averne negato incidentalmente la compromettibilità (5), rileva poi invece che « il giudizio arbitrale non riguarda il generale
(3) Oggi il rinvio contenuto nell’art. 36 D.Lgs. n. 5/2003 all’art. 829 c.p.c. va inteso
non più al comma 2, bensı̀ al nuovo comma 3 dello stesso. Dal combinato disposto delle due
norme deve ricavarsi che il lodo reso in esito all’impugnazione di una delibera assembleare
è sempre censurabile per violazione delle regole diritto relative al merito della controversia.
Cfr. sul punto SALVANESCHI, Arbitrato e deliberazioni assembleari, cit., 744 ss.
(4) Il Tribunale di Milano soggiunge che, in ogni caso, a prescindere dall’intervenuta
modifica dell’art. 806 c.p.c., era indebito ricavare dall’art. 1972 c.c. — indirettamente invocabile ante novella — limiti all’arbitrabilità delle controversie, perché il solo limite per le
transazioni e per l’arbitrato era ed è quello della disponibilità dei diritti.
(5) Nella parte in cui, dopo avere affermato l’arbitrabilità della controversia vertente
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obbligo di redazione del bilancio secondo il canone di verità, bensı̀ la sola
posizione del socio in ordine all’approvazione di quella delibera... », che
scaturisce da un suo diritto patrimoniale e, dunque, in quanto tale, disponibile. Che sia quest’ultima la posizione assunta dal Tribunale di Milano, lo
fa pensare l’ulteriore affermazione secondo la quale, tutte le delibere viziate
da nullità, ivi comprese quelle che approvano il bilancio, si sanano « col
decorso di tre anni senza che siano impugnate ». E, secondo i giudici milanesi, tutte le volte in cui si può rinunciare all’impugnazione della delibera, i diritti coinvolti sono disponibili e l’arbitrato va ammesso. Restano
cosı̀ fuori dall’area della compromettibilità in arbitri solo le controversie
scaturite dall’impugnazione di delibere affette da nullità insanabile, perché
modificano l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili (art.
2379, ultimo periodo, c.c.).
2. La decisione sin qui riassunta è importante anzitutto per la conclusione cui perviene: l’arbitrabilità (nella maggior parte dei casi) delle
controversie relative alla validità di delibere assembleari.
Si tratta di una soluzione che si pone in linea con l’orientamento, prevalente in dottrina, secondo il quale vi è compromettibilità tutte le volte in
cui il diritto controverso è rinunciabile e/o conciliabile dal titolare (6). Se (il
più delle volte) le delibere assembleari nulle si sanano, ove non impugnate
entro un periodo di tempo determinato (per effetto di implicita rinuncia di
coloro ai quali è attribuita la legittimazione attiva all’impugnazione) (7), allora le controversie con tale oggetto sono arbitrabili (8). Se si osserva la disciplina delle impugnazioni delle delibere assembleari introdotta dalla riforma del diritto societario del 2003 si constata infatti che i diritti che ne
formano oggetto non sono corredati della « tutela tipica dei diritti indisponibili » ed emerge un sistema di azioni caratterizzato dalla « disponibilità,
sulla lesione del vizio di informazione (qualificato come disponibile) il Tribunale dice poi che
« logicamente diverso discorso vale per i vizi di chiarezza e precisione ».
(6) Per questa nozione di diritto disponibile ai fini dell’arbitrabilità della controversia cfr.: CHIARLONI, Appunti sulle controversie deducibili in arbitrato societario e sulla natura
del lodo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, 130 ss.; CONSOLO, Sul campo « dissodato » della
compromettibilità in arbitri, in questa Rivista, 2003, 254 ss.; SALVANESCHI, Arbitrato e deliberazioni assembleari, cit., 746 ss.; ZUCCONI GALLI FONSECA, in CARPI (diretto da) Arbitrati
speciali, Bologna, 2008, sub art. 34 D.Lgs. n. 5/2003, 69 ss., con la dottrina ivi citata; ID., La
compromettibilità delle impugnative di delibere assembleari dopo la riforma, in Riv. trim. dir.
e proc. civ., 2005, 477; ID., La convenzione arbitrale rituale rispetto ai terzi, Milano, 2004,
passim e in particolare p. 550 ss. Sul punto si veda, se si vuole, MARINUCCI, L’impugnazione
del lodo arbitrale dopo la riforma. Motivi ed esito, Milano, 2009, 25 ss.
(7) Ex artt. 2379, 2379-ter, 2434 bis c.c. Cfr. Sul punto SALVANESCHI, Arbitrato e deliberazioni assembleari, cit., 746 ss.
(8) Cfr. sul punto ZUCCONI GALLI FONSECA, in CARPI (diretto da) Arbitrati speciali, cit.,
sub art. 34 D.Lgs. n. 5/2003, 69 ss., con la dottrina e la giurisprudenza ivi citate.
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con il conseguente riflesso della piena possibilità per gli arbitri di decidere
della materia in esame » (9).
Aderendo a questo orientamento, dunque, il Tribunale di Milano mostra di non condividere le tesi più restrittive della giurisprudenza, che ammettono l’arbitrabilità della controversia se la delibera è annullabile, ma la
negano se è nulla (10) ovvero se l’impugnazione implica l’applicazione di
norme inderogabili (11).
Un margine di non arbitrabilità nelle controversie che scaturiscono
dall’impugnazione delle delibere assembleari — sembra di leggere tra le
righe della sentenza — residuerebbe nelle poche e quasi scolastiche ipotesi
di nullità insanabile delle delibere, vale a dire quando modificano l’oggetto
sociale prevedendo attività illecite o impossibili (12).
Il Tribunale di Milano non accoglie invece la tesi — ad oggi la più liberale ed estensiva — in materia di compromettibilità delle controversie nell’arbitrato societario, sostenuta da una parte minoritaria della dottrina (13) e della
(9) SALVANESCHI, Impugnativa in via arbitrale della delibera di approvazione del bilancio, in questa Rivista, 2011, 63, la quale osserva altresı̀ che confrontando, in particolare,
la delibera che approvi un bilancio non veritiero e, dunque, ad oggetto illecito, con « la tutela tipica dei diritti indisponibili in materia extrasociale, ci si avvede che il diritto alla veridicità e correttezza della situazione patrimoniale e finanziaria della società non è fornito dall’attuale ordinamento societario dello stesso tipo di tutela che connota il primo ».
(10) Trib. Bologna, 29 marzo 2010; Trib. Prato, 19 marzo 2009; Trib. Milano, 12
marzo 2002, in Le Società, 2002, 737 con nota di PLATANIA.
(11) Cass. civ., 23 febbraio 2005, n. 3772 in questa Rivista, 2006, 2 con nota di
GROPPOLI e in Le Società, 2006, 637 ss. con nota di Soldati secondo il quale: « Le controversie in materia societaria possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso, con
esclusione di quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi. A tal fine, peraltro,
l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento svincolata da qualsiasi
iniziativa di parte, quali le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio
di esercizio ». Cfr. altresı̀ nello stesso senso: Cass. 7 marzo 2005 n. 4822, in Dir. e giust.,
2005, 24 ss.; Trib. Milano 10 dicembre 2010, in Le Società 2011, 221 ss.; Trib. Torino, 9 luglio 2008. In dottrina aderisce di recente a questo orientamento FANTI, Impugnazione di bilancio e compromettibilità in arbitri della relativa controversia, cit., 1277 ss.
(12) Art. 2379 c.c. ultimo periodo « Possono essere impugnate senza limiti di tempo
le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili ».
(13) RICCI, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim dir. e proc. civ., 2003, 521 e in
AA.VV., Scritti di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, III, Milano, 2005,
2184 ss.; LUISO, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 709; BOCCAGNA, in
AA.VV., Commentario breve al diritto dell’arbitrato, a cura di BENEDETTELLI, CONSOLO e RADICATI DI BROZOLO, cit., sub art. 34 D.Lgs. n. 5/2003, con la dottrina ivi citata. Peraltro anche
se non condividono il percorso argomentativo seguito da Ricci pervengono alla stessa soluzione anche SALVANESCHI, Arbitrato e deliberazioni assembleari, cit., 742 ss.; ID., Impugnativa in via arbitrale della delibera di approvazione del bilancio, cit., 63 ss.; ID., L’oggetto
del nuovo arbitrato societario, in AA.VV., Scritti di diritto processuale civile in onore di
Giuseppe Tarzia, III, Milano, 2005, 2215 ss.; VILLA, Arbitrato rituale sospensione delle de-
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giurisprudenza di merito (14), che assegna il predicato dell’arbitrabilità a
tutte le liti scaturite dall’impugnazione di delibere assembleari, anche ove
coinvolgano diritti indisponibili. « L’arbitrato fa vistoso ingresso nel campo
delle controversie in materia non disponibile » affermava Edoardo Ricci in
uno scritto pubblicato all’indomani del D.Lgs. n. 5/2003 (15). Si tratta di
una conclusione a Suo avviso autorizzata dagli artt. 35, comma 5 e 36,
comma 1, D.Lgs. n. 5/2003, che additano espressamente la validità delle
delibere assembleari come possibile oggetto di decisione degli arbitri. Secondo Ricci gli artt. 35 e 36 derogano all’art. 34 (che indica nei diritti disponibili il possibile oggetto dell’arbitrato societario) consentendo che anche una materia non disponibile, quale la nullità di una delibera assembleare, possa formare oggetto di arbitrato.
Questa tesi estensiva sul possibile oggetto dell’arbitrato societario
prende le mosse da una tesi invece restrittiva sulla nozione di diritti disponibili. Infatti la nullità (di una delibera assembleare cosı̀ come di un contratto), secondo Ricci, di per sé non è mai disponibile — anche se la nullità è sanabile — perché la disciplina della nullità non può essere modificata dalle parti con un atto negoziale (16); la circostanza che un diritto sia
rinunciabile non basta per qualificarlo come disponibile: a tal fine è necessario che le parti possano regolarlo in via di autonomia negoziale. Il fatto
dunque che chi ha la legittimazione attiva a chiedere l’accertamento della
nullità di una delibera possa rinunciarvi (decorsi tre anni) non basta a qualificare quel diritto come disponibile. Tuttavia, nell’arbitrato « societario »,
per effetto di quanto dispongono gli artt. 35 e 36 D.Lgs. n. 5/2003, la controversia relativa alla validità delle delibere assembleari — materia indisponibile — diviene sempre arbitrabile.
Anche ad avviso di chi scrive la nozione di diritto disponibile non può
cisioni sociali, Milano, 2007, 26, nota n. 77; ZUCCONI GALLI FONSECA, in CARPI (diretto da)
Arbitrati speciali, cit., sub art. 34 D.Lgs. n. 5/2003, 69 ss.
(14) Trib. Como, 29 settembre 2006, in Le Società, 2007, 1277 ss., con nota critica
di FANTI, Impugnazione di bilancio e compromettibilità in arbitri della relativa controversia;
Trib. Belluno, 8 maggio 2008, in Giur. merito, 2008, 2252, con nota critica di DE SANTIS, Inderogabilità della norma, disponibilità del diritto e arbitrabilità delle controversie societarie; Trib. Napoli, 30 settembre 2009. Si legga altresı̀ di altre decisioni inedite in SALVANESCHI,
Impugnativa in via arbitrale della delibera di approvazione del bilancio, cit., 69 s.
(15) RICCI, Il nuovo arbitrato societario, cit., 521 e in AA.VV., Scritti di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, III, cit., 2184 ss. e soggiungeva che ciò era « del
resto espressamente previsto dal comma 2 dell’art. 12 della legge di delega 3 ottobre 2001,
n. 366 ».
(16) Cfr. sul punto: RICCI, Desnecessária Conexão Entre Disponibilidade do Objecto
da Lide e Admissibilidade de Arbitragem Reflexões Evolutivas, in AA.VV., Arbitragem.
Estudosem Homenagemao Prof. Guido Fernando da Silva Soares, in Memoriam, a cura di
LEMES, CARMONA, MARTINS, São Paulo, 2007, 409; contra CONSOLO, Sul campo « dissodato »
della compromettibilità in arbitri, in questa Rivista, 2003, 241.
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che essere unica in tutto l’ordinamento. E tale è il diritto (o la situazione
giuridica, come la nullità) che possa essere negoziato, regolato, modificato
ed estinto. Un socio che impugni una delibera assembleare potrebbe rinunciare al suo diritto ad impugnare, ma non per questo potrebbe stipulare con
la società un negozio il cui effetto sia l’annullamento della delibera: le impugnazioni di delibere assembleari, che non ricadono nel campo di applicazione del c.d. arbitrato societario, generano pertanto controversie in materia indisponibile ai sensi dell’art. 806 c.p.c. (17).
D’altra parte Ricci mise in luce, anche grazie a profonde indagini di
diritto comparato, come non vi sia — e non vi dovrebbe essere — alcuna
incompatibilità a priori fra arbitrato e diritti indisponibili, tutte le volte in
cui gli arbitri decidano secondo diritto, pena l’annullabilità del lodo (18). E
si tratta di valutazioni oggi importanti de iure condito, per l’arbitrato societario, e de iure condendo, per l’arbitrato rituale « comune ».
La lettura della compromettibilità delle liti nell’arbitrato societario
comprensiva anche dei diritti indisponibili è dunque più estensiva di quella
accolta dal Tribunale di Milano, perché capace di abbracciare anche le controversie relative ad ipotesi di nullità insanabile (19) ed è condivisa, come
si è detto, non solo da una parte della dottrina, ma anche da alcuni giudici
del merito (20). È ora a mio avviso auspicabile che essa si diffonda sempre
più, al fine di evitare la « persistente parcellizzazione dell’oggetto del processo in ciò che può essere deferito agli arbitri e ciò che è invece riservato
al giudice ordinario » (21) nelle controversie societarie.
In ogni caso, la decisione qui in commento, considerata l’esiguità
delle controversie che sottrae alla possibile decisione da parte degli arbitri,
segna un importante passo in avanti nella direzione sopra auspicata.
(17) Sul punto si veda, se si vuole MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale
dopo la riforma. Motivi ed esito, cit., 16 ss.
(18) Condannò invece l’« ingresso » dell’arbitrato nel campo dei diritti indisponibili
(a proposito dell’art. 35 D.Lgs. n. 5/2003 che consente agli arbitri di conoscere incidentertantum degli stessi) Fazzalari, il quale affermò che ciò « sembra evocare un nuovo fantasma
di giurisdizione speciale » (FAZZALARI, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in questa Rivista, 2003, 444). Parla efficacemente di « tutela rafforzata del lodo che abbia ad oggetto una lite concernente la validità di una delibera assembleare » SALVANESCHI, Arbitrato e
deliberazioni assembleari, cit., 745; ID., Impugnativa in via arbitrale della delibera di approvazione del bilancio, cit., 65.
(19) Del resto anche nell’arbitrato rituale « comune » la nullità del contratto che
contiene la clausola compromissoria può essere accertata dagli arbitri per effetto della regola
dell’autonomia della clausola compromissoria sancita nell’art. 808, comma 2, c.p.c.. e non
perché trattasi di controversia in materia disponibile ex art. 806 c.p.c.: RICCI, Desnecessária
Conexão Entre Disponibilidade do Objecto da Lide e Admissibilidade de Arbitragem: Reflexões Evolutivas, cit., 409.
(20) Trib. Napoli, Sez. VII, 30 settembre 2009.
(21) SALVANESCHI, Arbitrato e deliberazioni assembleari, cit., 742.
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3. La sentenza ora in esame è importante anche perché afferma —
espressamente — che l’arbitrato è « un sistema processuale alternativo »,
non « un’alternativa “privata” alla soluzione delle liti » e, tantomeno, una
modalità di soluzione transattiva della controversia.
In effetti, l’effetto tipico della transazione — l’aliquid datum e l’aliquid retentum — è estraneo sia all’accordo di arbitrato sia al lodo: stipulando una transazione le parti sacrificano sempre, almeno in parte, i propri
diritti, mentre concludendo un accordo di arbitrato esse non compiono alcun sacrificio delle proprie pretese, ma rinunciano esclusivamente alla decisione da parte del giudice togato affidandola ad arbitri (22).
Il Tribunale di Milano ricava le considerazioni sulla natura dell’arbitrato da alcune norme introdotte dal D.Lgs. n. 40/2006 (23), nelle quali si
evoca, a vario titolo, la competenza, per indicare il rapporto fra autorità
giudiziaria ed arbitri (24). Queste valutazioni sulla natura dell’arbitrato rituale, ad avviso di una cospicua parte della dottrina (25), per la verità, già
si potevano e dovevano formulare a prescindere dalle norme introdotte
dalla novella del 2006, che sul punto hanno svolto la funzione, e prodotto
gli effetti, dell’interpretazione autentica (26).
L’importanza dell’affermazione permane comunque indubbia, perché
rafforza la presa di posizione in materia di arbitrabilità delle controversie e
costituisce un forte segnale di apertura dei giudici togati verso la soluzione
arbitrale delle controversie in materia societaria come alternativa alla decisione da parte dell’autorità giudiziaria.
ELENA MARINUCCI
(22) Sul punto si veda, se si vuole MARINUCCI, L’impugnazione del lodo arbitrale
dopo la riforma. Motivi ed esito, cit., 16 ss.
(23) Incidente anche sulla natura del c.d. arbitrato societario.
(24) Artt. 817 e 819-ter c.p.c.
(25) Sul punto cfr., per tutti, BOCCAGNA, in AA.VV., Commentario breve al diritto
dell’arbitrato, a cura di BENEDETTELLI, CONSOLO e RADICATI DI BROZOLO, Padova, 2010, sub art.
824-bis. con la dottrina ivi citata.
(26) Sul punto si veda, se si vuole, CASTAGNOLA, CONSOLO, MARINUCCI, Sul dialogo
(impossibile?) fra Cassazione e dottrina, nella specie... sulla natura (mutevole?) dell’arbitrato, in Corr. giur., 2011, 50 ss.
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II)
STRANIERA
Sentenze annotate
FRANCIA - COUR D’APPEL DE PARIS, sentenza 17 febbraio 2011 — Gouvernement du Pakistan, Ministère des affaires religieuses c. Dallah Real Estate
and Tourism Holding Company.
Giudizio di annullamento di lodo ICC - Sindacato del giudice nazionale circa
l’esistenza della convenzione arbitrale - Esistenza del consenso all’accordo compromissorio del non firmatario - Rigetto della domanda di annullamento.
La Repubblica Islamica del Pakistan, pur non essendo firmataria del contratto contenente la convenzione arbitrale, ha agito come la vera parte pakistana
dell’operazione economica ed è pertanto vincolata all’accordo compromissorio.
Deve essere per l’effetto rigettato il recours en annulation proposto dalla Repubblica Islamica del Pakistan, ai sensi dell’articolo 1502, comma primo, del codice
di procedura civile francese vigente ratione temporis, avverso il lodo sulla jurisdiction pronunciato da un Collegio della Camera di Commercio Internazionale.
CENNI DI FATTO. — Dallah è una società saudita che presta servizi in favore dei
pellegrini diretti nei luoghi di culto siti in Arabia. Durante il 1995, Dallah ha sottoscritto con la Repubblica islamica del Pakistan (di seguito il “Pakistan”) un Memorandum of Understanding (“MOU”) relativo alla costruzione di alcuni alloggi
per i fedeli. Successivamente, nel corso del 1996, Dallah ha assunto l’obbligo di
costruire i detti alloggi mediante un contratto concluso con l’Awami Hajj Trust (di
seguito il “Trust”), una persona giuridica costituta dal Pakistan con Ordinanza presidenziale. Il contratto prevedeva, tra l’altro, che il Pakistan avrebbe garantito
l’adempimento da parte del Trust di alcuni obblighi contrattuali. Il Trust, inoltre,
aveva la facoltà di cedere al Pakistan diritti ed obblighi derivanti dal contratto,
senza il preventivo consenso di Dallah. Nel dicembre del 1996, in esito alla caduta
del governo di Benazir Bhutto, tuttavia, il nuovo governo pakistano non rinnovava
l’ordinanza costitutiva del Trust come richiesto dalla legge pakistana, con la conseguenza che il Trust si estingueva. Dallah allora, sulla base della clausola compromissoria contenuta nel contratto (arbitrato ICC con sede a Parigi), conveniva in arbitrato il Pakistan, ritenendolo de facto parte del contratto. Il Pakistan tuttavia non
prendeva parte al procedimento arbitrale affermando di non aver mai prestato il
proprio consenso alla convenzione arbitrale. Con lodo parziale del 2001, il Colle301
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gio arbitrale accertava che il Pakistan era parte della convenzione arbitrale e, con
lodo definitivo del 2006, lo condannava a corrispondere a Dallah l’importo complessivo di USD 20 milioni a titolo di risarcimento danni. Dallah chiedeva quindi
l’exequatur del lodo in Inghilterra ed in Francia.
(omissis)
MOTIVI DELLA DECISIONE. — Sur le moyen unique d’annulation pris de l’absence
de convention d’arbitrage (article 1502 1o du code de procédure civile).
Le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires religieuses expose que
la clause d’arbitrage du contrat de 10 septembre 1996 ne lui est pas opposable et
que le tribunal arbitral s’est déclaré compétent à son égard par une erreur d’appréciation, en retenant qu’au regard des principes transnationaux le Ministère des Affaires Religieuses n’est qu’un département ministériel sans personnalité juridique
autonome du Gouvernement du Pakistan, lequel était en outre la partie pakistanaise
au Memorandum of Understanding qui a précédé le Contrat. Le Gouvernement du
Pakistan, Ministère des Affaires religieuses le conteste en faisant observer que le
protocole d’accord du 24 juillet 1995 et le Contrat du 10 septembre 1996 sont totalement indépendants, que le Memorandum devenu caduc avant la création du
Trust a été remplacé par le Contrat, qu’il n’était ni dans l’intention ni dans la volonté commune des parties que le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires religieuses y soit partie; que les clauses d’arbitrage sont d’interprétation stricte,
que le Contrat a été signé par le seul Trust créé par le Gouvernement du Pakistan
aux fins de l’organisation financière et matérielle des pèlerinages à la Mecque de
ses ressortissants.
Le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires religieuses relève que
la sentence no 1 fait état de divergences des arbitres et que MM. Shah et Mustill
n’ont souscrit à la conclusion qu’il était partie au Contrat et donc au litige qu’après
avoir hésité.
Le recourant ajoute que le juge anglais saisi par Dallah d’une procédure
d’exécution de la sentence finale a, à la demande du Gouvernement de Pakistan,
annulé l’autorisation d’exécuter au Royaume Uni, que la Cour d’appel a confirmé
cette décision par arrêt du 20 juillet 2009 et que la Cour Suprême a, suivant décision de 3 novembre 2010, rejeté le recours de Dallah.
Considérant que par lettre du 16 février 1995, [les pièces en anglais ont fait
l’objet, partiellement, de traduction libre non contestée par les parties] J. Dallah a
fait savoir au Ministère des Affaires religieuses du Gouvernement du Pakistan que
le Roi d’Arabie Saoudite et le Gardien des Lieux Saints l’avait chargé de l’entretien de ces lieux, qu’il était autorisé à offrir aux gouvernements islamiques la location pour une longue durée d’immeubles destinés à héberger les pèlerins et a proposé au Gouvernement du Pakistan de lui allouer plusieurs sites à La Mecque sur
lesquelles Dallah construirait des immeubles, le financement étant assuré par ce
dernier; que le 15 juillet 1995 Dallah a fourni au Ministère des Finances les conditions financières du projet qui s’est concrétisé par la signature d’un Memorandum
of Understanding le 24 juillet 1995 conclu entre d’une part le Président de la République du Pakistan signé pour par M. Luftallah Mufti secrétaire du Ministère des
Affaires Religieuses, d’autre part Dallah, signé par M. Nackvi;
Qu’aux termes de ce Memorandum of Understanding Dallah s’est engagé à
acheter des terrains à la Mecque et à construire des logements pour les pèlerins
302
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pakistanais, destinés à être loués au Gouvernement du Pakistan pour une durée de
99 ans, Dallah fournissant également le financement de l’opération comme prévu
dans son offre du 16 février 1995; que selon l’article 4 du dit protocole, Dallah devait soumettre dans les 90 jours au Gouvernement du Pakistan pour approbation les
termes et conditions du bail ainsi que le plan de financement et que d’après l’article 5 le financement devait dire pris en charge par l’emprunteur désigné par le
Gouvernement du Pakistan; qu’en vertu de l’article 28 le Gouvernement du Pakistan, se réservait la faculté de confier la gestion et l’entretien des immeubles à une
ou plusieurs personnes physiques ou morales ou à un Trust qui serait l’emprunteur;
Qu’à compter de la signature du Memorandum le 24 juillet 1995 jusqu’à la
signature du Contrat, le seul interlocuteur de Dallah fut le Gouvernement du Pakistan, auquel le projet de bail entre le Gouvernement du Pakistan et Dallah a été remis le 17 août 1995 par ce dernier; que la proposition financière n’ayant pas reçu
l’approbation de ce gouvernement, le Memorandum of Understanding est devenu
caduc le 17 novembre 1995;
Considérant que le Président de la République Islamique du Pakistan a promulgué une ordonnance du 31 janvier 1996 notifiée le 14 février 1996 créant un
Trust dénommé Awami Hajj Trust, un “statutory corporation” de droit pakistanais,
qui avait essentiellement pour objet de “mobiliser l’épargne des pèlerins”, “financer les dépenses du pèlerinage”, investir l’épargne des pèlerins pour “produire des
rendements maximaux et des intérêts cumulés”, prendre et “adopter des mesures
facilitant la réalisation du pèlerinage par les membres”; que l’article 10 de l’ordonnance prévoyait que le Trust disposerait d’un fonds, Awami Hajj Fund, financé par
l’épargne des pèlerins, les donations et revenus placés, et géré par une banque
(Trustee Bank) qui aurait la responsabilité de la collecte des épargnes e l’investissement des biens du fonds; que le Trust était doté de la personnalité morale, le Ministre des Affaires religieuses, le secrétaire de Ministère des Affaires Religieuses,
M. Luftallah Mufti, et le Ministre des Finances étant membres du Board of Trustees;
Considérant que pendant la phase précontractuelle qui dura plus de six mois,
Dallah a détaillé dans plusieurs correspondances les rôles assignés aux futurs cocontractants, recueil de l’épargne des pèlerins et des dons par le Trust, avance consentie par Dallah remise au Trust et garantie par le Gouvernement du Pakistan du
remboursement de la facilité financière de 100 millions de dollars fournis par Dallah; qu’ainsi, par lettre du 29 février 1996 et son annexe A adressée par M. Nackvi,
Dallah y a décrit son plan de financement et a expressément proposé au Gouvernement du Pakistan une seconde option, pour une période de cinq ans à compter de
la signature du Contrat en vue de la construction de logements supplémentaires
pour 45000 pèlerins; que la division financière de Ministère des Affaires Religieuses l’a alors interrogé, par lettre du 4 avril 1996, sur cette proposition;
Que le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires Religieuses tire
également argument d’un courrier de 15 mars 1996 à la Al Rajhi Banking et Investment Group, dans lequel Dallah a présenté le fonds mentionnant comme contractant pakistanais le Trust pour soutenir que Dallah avait accepté qu’il soit son
seul co-contractant;
Considérant cependant que le 4 avril le Ministère des Affaires Religieuses a
écrit aux présidents de banques pour les inviter à exprimer leur intérêt pour la fonction de Banque Trustee en indiquant que “le Gouvernement souhaite nommer
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comme banque Trustee...”, que la banque Albaraka Islamic Investment Bank du
groupe Dallah s’est portée candidate le 14 avril auprès du Ministère des Affaires
Religieuses qui en accusé réception le 23 avril, invitant M. Nackvi à présenter dans
les locaux du Ministère ses propositions; qu’après échange de plusieurs courriers,
notamment une lettre de Dallah de 23 mai 1996 au Ministère des Affaires Religieuses relatant les discussions qui avaient eu lieu avec le Ministère des Finances, le 30
juillet 1996, sous l’en tête du Gouvernement du Pakistan le Ministère des Affaires
Religieuses a informé Dallah de la désignation de la banque Albaraka et a confirmé
son accord sur le “plan B” proposé par Dallah, relatif au logement gratuit de 12000
pèlerins pour “le Gouvernement du Pakistan” et “le Gouvernement du Pakistan”
devant payer “395 US dollars par pèlerin pour le reste des pèlerins”; que certes
DALLAH présentant les dispositions contractuelles à ses avocats chargés de rédiger le Contrat a mentionné le Trust comme la partie pakistanaise, mais les négociations se sont déroulées exclusivement entre Dallah et le Ministère des Affaires Religieuses, mais non le Trust, jusqu’à la veille de la signature du Contrat [lettre du
8 septembre 1996 de Dallah au Ministère]; qu’au demeurant, le 30 juillet 1996 M.
Nackvi a indiqué clairement au Président du groupe Dallah que l’approbation de
l’opération économique envisagée relevait du Ministère et lui a fait savoir que le
Premier Ministre tiendrait une réunion sur ce point le 15 juin; qu’en effet, un article de presse du 17 juillet 1996 relate la réunion du Board of Trustees présidée par
le Premier Ministre du Pakistan, lequel ne figurait pourtant pas parmi ses membres;
Considérant que le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires religieuses fait valoir que le Trust qui avait une indépendance juridique et financière
ayant conclu le Contrat avec Dallah, avec soumission à une clause d’arbitrage, “les
actes du Trust ne sont pas attribuables au Gouvernement du Pakistan” ce qui exclut
qu’il ait été “la véritable partie au Contrat” et qu’il s’agissait de la commune intention des parties;
Mais considérant que dans la période d’exécution contractuelle, deux fonctionnaires du Ministère des Affaires Religieuses qui n’avaient pas aucune qualité au
sein du Trust, ont adressé à Dallah à six semaines d’intervalle les 26 septembre et
4 novembre 1996 des lettres relatives d’une part aux plans d’épargne qui devaient
dire proposés aux pèlerins, d’autre part à l’annonce de la campagne d’information
publicitaire pour faire connaı̂tre au public que Albaraka Islamic Investment Bank
devait lancer pour se faire connaı̂tre comme Trustee Bank auprès du public, enfin
à une demande de copie de l’accord entre cette dernière et la Muslim Commercial
Bank relative à l’utilisation de son réseau d’agences pour la collecte de l’épargne;
qu’aucun motif ne peut justifier l’intervention de ces deux fonctionnaires de l’Etat;
que, par ailleurs, le Trust ayant cessé d’avoir une existence légale à compter du 12
décembre 1996 faute d’une nouvelle promulgation du décret présidentiel, M. Luftallah Mufti sur papier à en-tête du Ministère des Affaires Religieuses a signifié à
Dallah le janvier 1997 que:“conformément au contrat susmentionné de bail d’un
complexe d’hébergement dans la ville sainte de la Mecque, vous étiez dans l’obligation, dans les 90 jours à compter du contrat de faire approuver par le Trust les
spécifications détaillées” et “vous avez manqué à votre obligation de soumettre les
spécifications et plans à l’approbation du Trust, vous êtes en violation d’une clause
fondamentale du contrat qui équivaut à une résiliation de l’intégralité du contrat,
résiliation qui est acceptée par la présente”; qu’il n’existe pas de confusion résultant de ce que M. Luftallah Mufti ait été également secrétaire du Board of Trustees
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ou que le Trust n’ait pas eu de papier à son en-tête, dans la mesure où tout indique
dans ce courrier la qualité du Ministère au nom duquel il accepte la résiliation du
Contrat; qu’à cet égard il est indifférent que M. Luftallah ait initié au nom du Trust
une procédure devant la juridiction d’Islamabad dès lors qu’en faisant dénoncer le
19 janvier 1997 la défaillance contractuelle de Dallah par ce haut fonctionnaire, le
Gouvernement de la République, Ministère des Affaires Religieuses, s’est comporté
comme si le Contrat était le sien; que cette implication de Gouvernement de la République, Ministère des Affaires Religieuses, sans qu’il soit fait état d’actes accomplis par le Trust, comme son comportement lors des négociations précontractuelles
confirment que la création du Trust était purement formelle, et que le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires Religieuses comme DALLAH en convenait s’est comporté comme la véritable partie pakistanaise lors de l’opération économique;
Considérant qu’en conséquence, le moyen pris de ce que le tribunal arbitral a
étendu à tort la clause d’arbitrage au Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires religieuses et s’est déclaré compétent est infondé; qu’en conséquence, les recours en annulation de la sentence sur la compétence du 26 juin 2001 rendue à Paris et partant les deux sentences suivantes les 19 janvier 2004 et 23 juin 2006 sont
rejetés;
Considérant qu’il convient de condamner le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires Religieuses à payer à la société Dallah Real Estate and Tourism
Holding Company la somme de 100.000 € au titre de l’article 700 du code de procédure civile;
Par ces motifs
(omissis)
Rejette les recours en annulation des sentences rendues à Paris les 26 juin
2001, 19 janvier 2004 et 23 juin 2006.
(omissis)
L’estensione della convenzione arbitrale nei confronti dei non firmatari
al di là ed al di qua de La Manica: il caso Dallah.
1. La società saudita Dallah Real Estate and Tourism Holding Company (di seguito “Dallah”) ha chiesto alle autorità inglesi il leave to enforce
dei lodi (due parziali ed uno definitivo) resi nei confronti della Repubblica
Islamica del Pakistan (di seguito il “Pakistan”) da un Collegio arbitrale
della International Chamber of Commerce (di seguito “ICC”). Successivamente, è stata convenuta in Francia (Stato della sede dell’arbitrato) in un
giudizio per l’annullamento delle medesime pronunce arbitrali, instaurato
dal Pakistan. In entrambi i procedimenti, il Pakistan ha contestato che la
convenzione arbitrale doveva essere considerata affetta dalla forma più
grave di invalidità, l’inesistenza, non avendo lo Stato mai espresso il consenso ad esserne vincolato. Il Collegio ICC, composta da figure di spicco
dell’arbitrato internazionale, aveva invece giustificato l’estensione della
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clausola arbitrale allo Stato non firmatario invocando una pluralità di indici
ermeneutici (“bundle of criteria”) tra cui “those transnational general principles and usages reflecting the fundamental requirements of justice in international trade and the concept of good faith in business” (il lodo parziale sulla jurisdiction è stato pronunciato in data 26 giugno 2001). Secondo il Collegio ICC, pur non potendosi concludere che il Trust ed il
Pakistan fossero una unica entità giuridica, dalla analisi dei fatti emergeva
che il Trust avesse agito quale alter ego del Pakistan: 1) il Trust era assoggettato al controllo amministrativo e finanziario dello Stato; 2) sia il Trust
che il Pakistan avevano partecipato a vario titolo all’esecuzione del contratto; 3) il Trust era stato costituito e successivamente estinto in esito ad
una decisione del Governo del Pakistan. Il Collegio aveva poi argomentato
che il livello di controllo esercitato dal Pakistan sul Trust poteva in ogni
caso considerarsi indice rivelatore dell’intenzione delle parti di estendere la
convenzione arbitrale anche allo Stato non firmatario. Il tenore letterale
della conclusione del Collegio lascia trasparire la difficoltà con la quale gli
arbitri avevano raggiunto l’unanimità: “Certainly, many of the above mentioned factual elements, if isolated and taken into a fragmented way, may
not be construed as suffıciently conclusive for the purpose of this section.
However, Dr. Mahmassani believes that when all the relevant factual elements are looked into globally as a whole, such elements constitute a comprehensive set of evidence that may be relied upon to conclude that the Defendant is a true party to the Agreement with the Claimant and therefore a
proper party to the dispute that has arisen with the Claimant under the
present arbitration proceedings. Whilst joining in this conclusion Dr Shah
and Lord Mustill note that they do so with some hesitation, considering that
the case lies very close to the line”. Dopo un secondo interim award del 19
gennaio 2004, il lodo finale del 23 giugno 2006 condannava il Pakistan al
risarcimento del danno per un importo complessivo di USD 20 milioni.
2. In Inghilterra, il Pakistan ha agito come opponente al leave to enforce dei tre lodi, precedentemente concesso in esito ad un procedimento
inaudita altera parte. Lo Stato ha invocato il portato della sezione 103(2)(b)
dell’English Arbitration Act 1996, disposizione che riproduce l’articolo
V(1)(a) della Convenzione di New York del 1958 sul riconoscimento e
l’esecuzione dei lodi esteri (di seguito la “Convenzione di New York”).
Come noto, la norma dispone che il riconoscimento e l’esecuzione di un
lodo internazionale può essere rifiutata se la convenzione arbitrale è invalida (ovvero a fortiori inesistente) secondo la legge cui le parti hanno scelto
di sottoporla (c.d. legge di autonomia delle parti) o, in mancanza di scelta,
alla legge del luogo in cui il lodo è stato pronunciato (c.d. legge della sede
dell’arbitrato). Nel caso in esame, i giudici inglesi erano chiamati a valutare se l’erronea estensione della convenzione arbitrale ad una parte non
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firmataria si fosse tradotta in una causa di invalidità (rectius di inesistenza)
della convenzione arbitrale. Sia nel giudizio innanzi alla Queen’s Bench
Division della Commercial Court (Aikens J) (1) che nel successivo giudizio
innanzi alla Supreme Court (2), le corti inglesi hanno rifiutato il riconoscimento del lodo ICC dichiarando che il Pakistan non poteva considerarsi
parte della convenzione arbitrale. La pronuncia della Supreme Court si segnala soprattutto per i numerosi riferimenti giurisprudenziali e dottrinari
contenuti nelle opinions dei cinque Lords (Lord Hope, Lord Saville, Lord
Mance, Lord Collins e Lord Clarke). Il Collegio inglese, in assenza di
scelta delle parti, ha individuato nella legge francese (legge della sede dell’arbitrato) la normativa sostanziale applicabile al fine di decidere la questione della esistenza della convenzione arbitrale. In proposito, gli esperti
nominati dalle parti nel corso del procedimento — citando i principali precedenti giurisprudenziali francesi — avevano sostenuto che detta questione
potesse essere risolta anche sulla base della sola lex mercatoria (3), in ragione del principio della autonomia dal contratto della convenzione arbitrale. Nel rispetto della prospettiva conflittualistica della Convenzione di
New York, il Collegio inglese ha dato una propria interpretazione della
giurisprudenza francese ed ha preferito riferirsi alle norme materiali francesi relative all’arbitrato internazionale piuttosto che alle regole di un ordinamento anazionale. Pare, tuttavia, che la distinzione conduca a conclusioni
limitatamente differenti da quelle degli esperti di parte, posto che i giudici
inglesi hanno (avrebbero) dovuto comunque applicare i principi della lex
(1) Commercial Court, Queen’s bench division, 1 agosto 2008, Dallah Real Estate
and Tourism Holding Co. v. Ministry of religious Affairs, Government of Pakistan, in www.lexisnexis.com.
(2) Supreme Court, 3 novembre 2010, Dallah Real Estate and Tourism Holding Co.
v. Ministry of religious Affairs, Government of Pakistan, in www.supremecourt.gov.uk. In dottrina, v. BORN, Enforcement of International Arbitral Awards in England and the New York
Convention, in http://kluwerarbitrationblog.com, 21 agosto 2009; BORN, The Impact of Dallah, in http://kluwerarbitrationblog.com, 10 febbraio 2011; BORN, Dallah and the New York
Convention, in http://kluwerarbitrationblog.com, 7 aprile 2011; KHANNA, Dallah: The Supreme Court’s Positively Pro Arbitration “No” to Enforcement, in Journal of International
Arbitration, 2011, 127 ss.; SABATINI, Il Pakistan si oppone con successo all’esecuzione in Inghilterra di un lodo CCI reso nei suoi confronti a Parigi, in Diritto del commercio internazionale, 2011, 139.
(3) Nella relazione congiunta, gli esperti di parte avevano affermato “under French
law, the existence, validity and effectiveness of an arbitration agreement in an international
arbitration need not be assessed on the basis of a national law, be it the law applicable to
the main contract or any other law, and can be determined according to rules of transnational law”. V., in questo senso, Corte di appello di Parigi, 13 dicembre 1975, Menicucci v.
Mahieux, in Revue critique de l’arbitrage, 1976, 507 ss.; Corte di appello di Parigi, 8 marzo
1990, Coumet et Ducler v. Polar-Rakennusos a Keythio, in Revue de l’Arbitrage, 1990, 675;
Corte di Cassazione francese, 20 dicembre 1993, Municipalité de Khoms El Mergeb v. Dalico, in Revue de l’arbitrage, 1994, 116.
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mercatoria recepiti nell’ordinamento transalpino (4). Passando poi alla individuazione del test ermeneutico in base al quale stabilire se il Pakistan
potesse essere ritenuto parte della convenzione arbitrale, la corte inglese,
escludendo la applicabilità di altri criteri utilizzati nella prassi arbitrale internazionale, si è riferita alla comune intenzione delle parti, ricavata dalla
indagine dei fatti di causa con particolare riferimento al coinvolgimento e
alla condotta delle parti nella negoziazione, nelle esecuzione e nella estinzione del contratto (5). La Supreme Court ha quindi elencato una serie di
circostanze che dimostrerebbero sia la carenza della volontà compromissoria del Pakistan, sia l’intenzione di Dallah e del Trust di escludere lo Stato
estero dalla convenzione arbitrale: a) i legali di Dallah dovevano comprendere che la costituzione del Trust implicava il coinvolgimento nel contratto
di un soggetto giuridico diverso dal Pakistan che aveva invece sottoscritto
precedentemente un accordo preliminare (il MOU); b) il Trust era dotato di
separata personalità giuridica ed aveva il potere di agire in giudizio tanto
che era stato il Trust, e non il Pakistan, ad avviare alcuni procedimenti innanzi alle corti pakistane per far valere la termination del contratto; c) il
(4) V. Supreme Court, 3 novembre 2010, Dallah Real Estate and Tourism Holding
Co. v. Ministry of religious Affairs, Government of Pakistan, cit., Lord Mance, par. 15 (“Dallah and the Government agree that the true analysis is that French law recognises transnational principles as potentially applicable to determine the existence, validity and effectiveness of an international agreement, such principles being part of French law”) e Lord Collins, par. 115 (“It simply means that the arbitration agreement is no longer affected by idiosyncrasies of local law, and its validity is examined solely by reference to the French conception of international public policy”). In altri termini, la circostanza che la Convenzione di
New York faccia rinvio all’applicazione di una normativa statale per la valutazione della validità/esistenza dell’accordo compromissorio non esclude che i principi della lex mercatoria
possano operare — quali parametri ermeneutici — nei limiti in cui essi siano riconosciuti
dagli ordinamenti nazionali. Secondo l’opinione che si condivide, l’art. V(1)(a) della Convenzione di New York individua due norme di conflitto che consentono di determinare la
normativa sostanziale statale applicabile per decidere la questione della validità/esistenza
della convenzione arbitrale, anziché rimettere l’individuazione delle norme di conflitto ai legislatori (con il rischio, peraltro, del c.d. rinvio internazional-privatistico alla legge di altro
ordinamento).V., in questo senso, ATTERITANO, L’enforcement delle sentenze arbitrali del
commercio internazionale, Milano, 2009, 166; BERNARDINI, Il diritto del commercio internazionale: una nuova “lex mercatoria”?, in PIVA-SPANTIGATI (a cura di), Nuovi moti per la formazione del diritto, Padova, 1988, 492 ss.; LATTANZI, L’impugnativa per nullità nell’arbitrato
commerciale internazionale, Milano, 1989; MUSTILL-BOYD, The Law and Practice of Commercial Arbitration in England, Londra, 1982, 612; SCHWEBEL-LAHNE, The Public Policy and
Arbitral Procedure, in SANDERS (a cura di), Comparative Arbitration Practice and Public Policy in Arbitration, New York, 1987, 206.
(5) V. Supreme Court, 3 novembre 2010, Dallah Real Estate and Tourism Holding
Co. v. Ministry of religious Affairs, Government of Pakistan, cit. par. 18; ICC case n. 4131,
23 settembre 1982, Dow Chemical v. Isover Saint Gobain, in Journal de droit international,
1983, 899; Corte di appello di Parigi, 21 ottobre 1983, Société Isover-Sain-Gobain v. Société
Dow Chemical, in Revue de l’Arbitrage, 1984, 98; Corte di Cassazione francese, Municipalité de Khoms El Mergeb v. Dalico, cit.
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Pakistan aveva assunto l’obbligo di garantire l’adempimento di alcune obbligazioni del Trust, dissociandosi dunque da altri impegni contrattuali; d)
il coinvolgimento di personale appartenente al Ministero per gli affari religiosi nel Board of directors del Trust e lo scambio di corrispondenza tra tali
individui e Dallah non potevano considerarsi circostanze sufficienti a provare che il Pakistan avesse agito quale parte del contratto. In Francia, in
data 21 dicembre 2009, il Pakistan aveva depositato “un recours en annulation” avverso le tre pronunce arbitrali (rispetto alle quali nel frattempo
era stato concesso l’exequatur) ai sensi dell’art. 1502, primo comma, del
codice di procedura civile francese allora vigente. Secondo la norma, un
lodo arbitrale può essere annullato “si l’arbitre a statué sans convention
d’arbitrage ou sur convention nulle ou expirée” (6). Con pronuncia del 17
febbraio 2011, sopra riprodotta, la Corte di appello di Parigi ha proceduto
come la Supreme Court al riesame di tutti gli elementi di fatto e di diritto
rilevanti per determinare l’esistenza dell’accordo compromissorio, ma è
pervenuta ad una conclusione antitetica: il Pakistan “s’est comporté comme
si le Contrat était le sien; que cette implication de Gouvernement de la République, Ministère des Affaires Religieuses, sans qu’il soit fait état d’actes
accomplis par le Trust, comme son comportement lors des négociations
précontractuelles confirment que la création du Trust était purement formelle, et que le Gouvernement du Pakistan, Ministère des Affaires Religieuses comme Dallah en convenait s’est comporté comme la véritable partie
pakistanaise lors de l’opération économique”. La decisione è stata raggiunta valorizzando elementi di fatto diversi da quelli considerati dai Lords:
a) il Pakistan aveva partecipato attivamente alla negoziazione del contratto
poi concluso dal Trust; b) nel corso dell’esecuzione del contratto due funzionari del Ministero degli affari religiosi del Pakistan avevano scambiato
corrispondenza con Dallah senza essere investiti di alcun ruolo all’interno
del Trust; c) la termination del contratto era stata comunicata con lettera
avente carta intestata del Ministero degli affari religiosi, ente emanazione
del Pakistan. Il recours en annulation è stato, per l’effetto, rigettato.
3. Dal confronto delle due pronunce emerge che le corti, pur in sedi
diverse (l’una in un procedimento di enforcement, l’altra in un procedimento di annullamento) abbiano proceduto ad un analitico riesame (rehearing) di tutti gli elementi di fatto e di diritto utili a determinare se la con-
(6) Come noto, il Code de procèdure civile francese è stato recentemente riformato
dal “Décret n. 2011-48 du 13 janvier 2011 portant réforme de l’arbitrage”, entrato in vigore
in data 1 maggio 2011. Per una disamina delle novità introdotte, v. JARROSSON, PELLERIN, Le
droit français de l’arbitrage après le décret du 13 janvier 2011, in Revue de l’arbitrage,
2011, 5.
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venzione arbitrale potesse estendersi ad un non firmatario. Entrambe hanno
poi escluso (la corte francese implicitamente) che il principio della competenz-compentenz potesse costituire un ostacolo all’espletamento di detto
riesame. In proposito, la Supreme Court ha correttamente statuito che il riconoscimento del potere del tribunale arbitrale di decidere circa la propria
jurisdiction non esclude che tale determinazione possa essere assoggettata
a riesame in sede di impugnazione o di enforcement (7). Il profilo problematico è invece rappresentato da quale debba essere lo standard di riesame
adottato dal giudice nazionale. Tale parametro viene di regola determinato
in base al diritto applicabile, comprensivo delle convenzioni internazionali
immesse nei singoli ordinamenti. La giurisprudenza francese e la giurisprudenza tedesca attribuiscono al giudice del riconoscimento (ovvero al giudice dell’impugnazione del provvedimento di exequatur) il potere di riesaminare tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti per valutare l’esistenza
ovvero la validità della clausola compromissoria (8). Ciò viene spiegato
con la considerazione che, in caso contrario, i collegi arbitrali avrebbero la
possibilità di attribuirsi la jurisdiction ex nihilo, sottraendola al giudice sta-
(7) v. Supreme Court, 3 novembre 2010, Dallah Real Estate and Tourism Holding
Co. v. Ministry of religious Affairs, Government of Pakistan, cit., parr. 83-84. Negli Stati
Uniti, in senso analogo, la Court of Appeals, Third Circuit, 26 giugno 2003, China Minmetals Material Import and Export Co Ltd v. Chi Mei Corporation, in www.lexisnexis.com ha
affermato che “it appears that every country adhering to the competence-competence principle allows some form of judicial review of the arbitrator’s jurisdictional decision where the
party seeking to avoid enforcement of an award argues that no valid agreement existed”.
(8) In Francia tale orientamento è stato ribadito anche nei giudizi di impugnazione
del lodo fondati sulla inesistenza o invalidità della convenzione arbitrale. V. Corte di appello
di Parigi, 12 luglio 1984, République Arabe d’Egypte v. Southern Pacific Properties Ltd, in
Journal de droit international, 1987, 683 e, recentemente, Corte di Cassazione francese, 6
ottobre 2010, Albert Abela Family Foundation et autres c. Joseph Abela Family Foundation,
in Revue critique de droit international privé, 2011, 85 secondo la quale “La Cour d’appel,
juge de l’annulation, contrôle la décision du tribunal arbitral sur sa compétence, qu’il se soit
déclaré compétent ou incompétent, en recherchant tous les éléments de droit ou de fait permettant d’apprécier la portée de la convention d’arbitrage et d’en déduire les conséquences
sur le respect de la mission confiée aux arbitres”. Tale indirizzo viene confermato dal tenore
del nuovo articolo 1520 del Code de procédure civile, il quale prevede che avverso la “sentence rendue en France en matière d’arbitrage international” ovvero avverso l’ordinanza di
exequatur delle “sentences arbitrales en matière d’arbitrage international” (art. 1522) è possibile far valere il motivo di impugnazione che “le tribunal arbitral s’est déclaré à tort compétent ou incompétent”. In Germania, v. Oberlandesgericht Celle, 14 dicembre 2006, in Yearbook of Commercial Arbitration, 2007, p. 377; Oberlandesgericht Dusseldorf, 21 luglio 2004,
in Yearbook of Commercial Arbitration, 2007, p. 318. In Svizzera, in un giudizio di impugnazione di un lodo ICC in cui l’arbitro Unico aveva rifiutato di estendere la convenzione
arbitrale ad non firmatario, il Tribunale federale ha ribadito il principio che il giudice dell’impugnazione “freely examines the issues of law, including preliminary issues, that determine the jurisdiction or lack of jurisdiction of the arbitral tribunal” v. Tribunale federale
svizzero, 5 dicembre 2008, A. c. B., in https://bgershop.staempfli.com/.
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tale (9). Una ulteriore argomentazione a favore di questa scelta può essere
individuata nella necessità di riconoscere alla parte assoggettata all’enforcement il diritto fondamentale di difesa, in special modo qualora essa fosse
stata assente nel procedimento arbitrale che ha deciso sulla esistenza della
convenzione arbitrale (10). In altri ordinamenti come quello italiano e quello
canadese, la tendenza è invece quella di limitare il rifiuto dell’esecuzione
ai casi in cui il procedimento o la decisioni arbitrale risultino affetti da
gravi vizi, in ragione del favor dei giudici per l’arbitrato (11). La scelta della
corte inglese di operare un riesame di tutti gli elementi di fatto e di diritto
anziché limitarsi a valutare la presenza di gravi vizi nella decisione arbitrale è stato molto criticata dalla migliore dottrina britannica (12). Quest’ultima ha sostenuto che qualora la pronuncia venisse considerata un leading
case, metterebbe a repentaglio la realizzazione degli obiettivi di uniformità,
prevedibilità ed efficacia dell’enforcement promossi dalla Convenzione di
New York poiché consentirebbe strategie difensive dilatorie, volte a provocare il riesame della decisione arbitrale sulla jurisdiction anche a molti anni
di distanza dalla sua pronuncia. Ulteriore rischio sarebbe quello di inaugurare una tendenza elusiva del divieto di riesame nel merito della decisione
arbitrale (c.d. principle of finality), a tutto discapito della pro arbitration
attitude dell’ordinamento inglese. Pur ritenendosi preferibile l’adozione di
uno standard minimalista di revisione delle decisioni arbitrali sulla jurisdiction (che potrebbe essere imposto attraverso una specifica modifica dell’art.
V (1)(a) della Convenzione di New York), sembra tuttavia che il riesame di
alcuni elementi fattuali e giuridici ai soli fini della verifica della esistenza
della convenzione arbitrale sia cosa ben diversa dall’introdurre surrettiziamente un giudizio di revisione a cognizione piena della decisione arbitrale
di merito (13).
(9) V. MOURRE, Extension of the Arbitration Agreement, Joinders, Review of Awards
Declining Jurisdiction and Public Policy: News from Paris and Lausanne, in http://kluwerarbitrationblog.com, 2010.
(10) In questo senso, anche la Supreme Court, Dallah Real Estate and Tourism Holding Co. v. Ministry of religious Affairs, Government of Pakistan, cit., par. 102.
(11) V. BERNARDINI, PERRINI, New York Convention of 10 June 1958: the Application
of Art. V by the Courts, in Journal of International Arbitration, 2008, 707 ss.; BERNARDINI,
Riconoscimento ed esecuzione dei lodi stranieri in Italia, in Rivista dell’arbitrato, 2011, 434;
v. Court of appeal for Ontario, 11 gennaio 2005, The United Mexican States v. Karpa and.
All, in www.naftaclaims.com.
(12) V. BORN, Dallah and New York Convention, cit.; SABATINI, cit.; contra KHANNA,
Dallah: The Supreme Court’s Positively Pro Arbitration “No” to Enforcement, cit.
(13) V., in questo senso, NACIMIENTO, Article V(1)(a), in KRONKE, NACIMIENTO, OTTO,
PORT, Recognition and Enforcement of Foreign Arbitral Awards: a Global Commentary on
the New York Convention, 2010, 205; CAPRASSE, HANOTIAU, Arbitrability, Due Process and
Public Policy under Article V of the New York Convention - Belgian and French perspectives, in Journal of International Arbitration, 2008, 721 ss.
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4. Come già evidenziato, nel decidere circa l’estensibilità della convenzione arbitrale al Pakistan in quanto parte non firmataria (“less then
obvious party”), le corti inglesi e francesi hanno utilizzato — con esiti opposti — il medesimo criterio interpretativo dell’intenzione delle parti, desumibile dalla loro condotta obiettiva. Come noto, l’estensione della convenzione arbitrale ai non firmatari è possibile ove il consenso delle parti
venga desunto da formalità diverse dalla firma (14). Si tratta dunque di una
questione di fatto, che viene decisa dai giudici nazionali mediante l’utilizzazione di una pluralità di criteri (il consenso implicito, la teoria dell’alter
ego, la successione nel contratto, la cessione — assignment — del contratto, l’unicità della operazione economica) spesso cumulati tra loro (“hybrid reasoning”), al fine di meglio provare l’esistenza del consenso del non
firmatario. La questione si è posta frequentemente nei rapporti tra società
appartenenti allo stesso gruppo ed i terzi, quando una di tali società voleva
far valere nei confronti di un firmatario la convenzione arbitrale sottoscritta
da un’altra società del gruppo (“joinder”) ovvero, nella ipotesi speculare, in
cui la società controllante veniva chiamata in arbitrato sulla base della convenzione arbitrale sottoscritta dalla controllata (“extension”). Pur non essendo possibile una estesa trattazione dell’argomento in questa sede, vale
la pena precisare che la giurisprudenza francese, a partire dalla pronuncia
resa nel landmark case Dow Chemical, attribuisce rilievo all’implicito consenso all’accordo compromissorio espresso dalla parte non firmataria (15).
In genere, l’esistenza del consenso viene individuata in ragione del coinvolgimento della parte non firmataria nella esecuzione dell’operazione economica complessivamente descritta dal contratto. In altre pronunce, l’ostacolo costituito dalla presenza di una pluralità di contratti tra parti diverse,
di cui uno soltanto contenente la convenzione arbitrale, viene superato ove
venga riscontrata l’unità dell’operazione negoziale (16). Di più difficile applicazione (per il gravoso onere della prova) è invece la teoria dell’alter
ego secondo la quale è possibile vincere la presunzione della separazione
(14) È infatti pacifico che l’ambito oggettivo della Convenzione di New York si
estende agli accordi arbitrali in forma scritta, anche se privi della sottoscrizione. Si ritengono
conclusi validamente anche gli accordi arbitrali perfezionatisi mediante scambio di telefax
ovvero mediante l’invio di ordini, non richiedendo la norma pattizia formule sacramentali o
predeterminate. v. Cass. civ., 20 novembre 1992, n. 12385, in DM, 1993, 1014 ss. Sulla
estensione della convenzione arbitrale ai non firmatari, ex multis, v. ALFORD, Binding Sovereign Non-Signatories, in Mealey’s International Arbitration Report, 2004, 14; HANOTIAU,
Multiple Parties and Multiple Contractus in International Arbitration, in Multiple Party Actions in International Arbitration, 2009, Oxford, 35; PARK, Non signatories and International
Contractus: an Arbitrator’s Dilemma, in Multiple Party Actions in International Arbitration,
2009, Oxford, 3.
(15) V. Corte di appello di Parigi, Société Isover-Saint-Gobain v. Société Dow Chemical, cit.; Corte di Cassazione francese, Municipalité de Khoms El Mergeb v. Dalico, cit.
(16) ICC case n. 1434 (1975), in Journal de droit international, 1976, 978.
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tra due persone giuridiche (di cui una non sia firmataria della convenzione
arbitrale) ovvero tra una persona giuridica e lo Stato di cui essa costituisce
l’emanazione (“piercing the corporate veil”). Deve essere infatti soddisfatto un duplice requisito: a) la società interposta sia sotto il completo
controllo della vera parte del contratto; b) quest’ultima abbia perseguito un
intento fraudolento sostituendo altri a sé (“fraud” o abuso del diritto). Una
applicazione estensiva della citata teoria è stata operata negli Stati Uniti nel
caso Bridas II, dove la Corte di appello del quinto circuito ha ritenuto sufficiente la ricorrenza di una sostanziale injustice per qualificare ininfluente
la distinzione tra la Turkmeneft, impresa controllata dallo Stato del Turkmenistan e quest’ultimo: per l’effetto, lo Stato estero è stato ritenuto parte
della convenzione arbitrale (17). Nel caso Dallah, la Supreme Court, pur
applicando criteri ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza francese, è rimasta legata alla tradizionale ritrosia dei paesi di common law rispetto all’estensione degli effetti di un contratto ad una parte ivi non espressamente
indicata (c.d. privity of contracts) (18). Visto poi che il non firmatario era
uno Stato estero, la corte inglese sembra aver adottato un tacito approccio
di self restraint. Ciò ha indotto i giudici inglesi ad ignorare una serie di indici (il coinvolgimento del Pakistan nelle trattative e nell’esecuzione del
contratto; il controllo esercitato dal Pakistan sul Trust; l’estinzione del Trust
ad opera dello stesso Pakistan, pochi mesi dopo la conclusione del contratto) che non dimostrano soltanto il completo coinvolgimento dello Stato
nelle vicende contrattuali, ma forniscono più di un indizio circa la sua volontà di sottrarsi agli obblighi che ne conseguivano, in violazione del principio della buona fede. La pronuncia francese e, in precedenza, il lodo arbitrale sulla jurisdiction, hanno invece adeguatamente utilizzato lo spettro
di criteri elaborati dalla lex mercatoria (tra i quali appunto la buona fede)
ed hanno meglio interpretato il dato fattuale al fine di raggiungere una decisione più attenta alle esigenze di giustizia sostanziale.
5. Il caso Dallah offre all’interprete spunti di notevole interesse.
Nell’ottica del sistema di circolazione dei lodi previsto dalla Convenzione
di New York, la eterogeneità degli orientamenti nazionali relativi allo stan(17) V. Court of Appeals for the Fifth Circuit, 21 aprile 2006, Bridas S.A.P.I.C v.
Government of Turkmenistan (“Bridas II”), in www.lexisnexis.com; v. NELSON, Bridas v. Government of Turkmenistan: U.S. Courts Uphold an Arbitrator’s Power to Hold A Foreign Sovereign Liable for the Acts of its State-Owned Enterprise, in ASA Bulletin, 2006, 24. In particolare, la Turkmeneft non era in grado di dare esecuzione agli impegni contrattuali poiché
non disponeva di una autonomia finanziaria tale da potersi ritenere distinta dal Turkmenistan.
(18) Si veda emblematicamente, Supreme Court, 3 novembre 2010, Dallah Real
Estate and Tourism Holding Co. v. Ministry of religious Affairs, Government of Pakistan, cit,
par. 102, Lord Mance: “the tribunal’s test represents a low threshold, which if correct, would
raise a presumption that many third persons were party to contracts deliberately structured
so that they were not party”.
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dard of review della decisione arbitrale sulla jurisdiction e le incertezze
circa le ipotesi di estensibilità della convenzione arbitrale ai non firmatari
rendono molto importante la scelta a monte da parte degli “arbitration
users” della legge applicabile alla convenzione arbitrale ovvero la individuazione della sede dell’arbitrato (in ragione del rinvio previsto dalla seconda parte dell’articolo V (1)(a) della Convenzione di New York). Pare
inoltre che i giudici inglesi disponessero degli strumenti per togliersi dalla
sgradevolissima impasse di dover interpretare il contenuto del diritto francese poco prima che la Corte di appello di Parigi si pronunciasse sulla medesima questione. L’art. VI della Convenzione di New York e la sezione
103(5) dell’English Arbitration Act 1996 prevedono infatti un meccanismo
predisposto per evitare proprio il contrasto tra decisioni rese in sede di annullamento e di enforcement (19). Segnatamente, in pendenza del giudizio
di annullamento del lodo proposto innanzi al giudice della sede dell’arbitrato, la corte dell’enforcement può decidere — per ragioni di opportunità
(“if it considers it proper”) — di sospendere il procedimento o rinviare la
pronuncia, anche chiedendo alla parte che si oppone all’esecuzione il pagamento di una somma a titolo di cauzione. In ogni caso, la vicenda non
sembra essere giunta ad una conclusione. È infatti molto probabile che la
Corte di Cassazione francese sarà investita della questione e avrà l’opportunità di continuare “il confronto” a distanza con i giudici inglesi, valutando anche le possibili implicazioni derivanti dall’esistenza di un contrasto di giudicati.
MATTEO BORDONI
(19) V. BORN, Dallah and New York Convention, cit.
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GIURISPRUDENZA ARBITRALE
I)
ITALIANA
Lodi annotati
COLLEGIO ARBITRALE (Tiscini Pres., Corea, Miccoli); nella controversia tra
A.I. S.p.a. c. C.G.G. S.r.l.; lodo reso in Roma il 4 giugno 2010.
Convenzione arbitrale - Accertamento tecnico preventivo - Ammissibilità
Accertamento tecnico preventivo - Partecipazione di tutte le parti al procedimento per ATP - Utilizzabilità delle risultanze peritali nel successivo arbitrato promosso da parte diversa dal ricorrente per ATP.
Accertamento tecnico preventivo - Efficacia probatoria in sede arbitrale - Osservanza del contraddittorio - Necessità - Equipollenza alla CTU.
A seguito di Corte cost. 28 gennaio 2010, n. 26, l’accertamento tecnico preventivo e i procedimenti di istruzione preventiva sono proponibili anche in presenza
di convenzione arbitrale, davanti al giudice che sarebbe competente per il merito.
Le risultanze della relazione peritale depositata all’esito dell’accertamento
tecnico preventivo (ATP) sono utilizzabili nel procedimento arbitrale anche se
l’ATP sia stato promosso da un’altra parte del rapporto giuridico controverso e
sempre che all’ATP abbiano partecipato tutte le parti dell’arbitrato.
L’accertamento tecnico preventivo acquisito nell’arbitrato ha la stessa effıcacia probatoria delle prove assunte nel corso dell’arbitrato, a condizione che sia
stato assicurato il rispetto del contraddittorio.
MOTIVI DELLA DECISIONE. — (Omissis).
La domanda di parte attrice trae fondamento dalla pretesa inottemperanza, ad
opera di parte convenuta, alle obbligazioni di cui al contratto di appalto del 10 novembre 2006. Che non siano state rispettate le condizioni contrattuali inter partes
e che da ciò sia derivato per la A.I. S.p.a. un danno risarcibile è quanto si evince
dalla relazione peritale depositata nel procedimento per ATP reso avanti al Tribunale di Roma... Proprio sugli esiti della perizia depositata in data 12 settembre 2008
dall’Ing. S.P. si fonda la domanda attrice.
Quest’ultima è articolata in due parti, la prima avente ad oggetto la richiesta
di pagamento della somma di € 56.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria
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come per legge, richiesta del tutto corrispondente alla quantificazione dei danni effettuata nella perizia del 12 settembre 2008; la seconda relativa alla richiesta di pagamento di € 15.900,00 più iva, pari al danno provocato dalla manomissione del
giunto... Ad esse si aggiunge poi la domanda di condanna al pagamento delle penali per il ritardo contrattualmente pattuite...
La prima parte della domanda attrice si fonda integralmente sulla quantificazione dei danni, subiti dalla A.I. S.p.a., effettuata nella relazione peritale del 12 settembre 2008, secondo cui — in risposta al quesito n. 3 (« accerti altresı̀ i danni relativi all’oggetto della verifica ed i costi necessari per il rifacimento ») — « per la
messa in pristino dei luoghi si reputa congruo un costo di € 56.000,00 ».
Preliminare alla questione relativa alla accoglibilità nel merito della domanda
è perciò quella della ammissibilità ed utilizzabilità — ai fini della decisione — nel
presente procedimento arbitrale della Consulenza tecnica d’ufficio resa in sede di
ATP.
Giova in proposito ricordare che la recente Corte cost. 2 gennaio 2010 n. 26
ha dichiarato l’incostituzionalità — per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. — dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. nella parte in cui, escludendo l’applicazione dell’art.
669-quinquies c.p.c. ai provvedimenti di cui all’art. 696 c.p.c., impedisce in caso di
clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale, la
proposizione della domanda di accertamento tecnico preventivo al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito. La sentenza pone fine al dibattito — risolvendo il dubbio in senso positivo — circa la possibilità di attivare un procedimento di istruzione preventiva (in particolare, di accertamento tecnico preventivo)
anche quando la controversia è deferita ad arbitri. Il che, quanto al caso di specie,
dirime ogni dubbio circa la possibilità di porre a fondamento della decisione le risultanze probatorie derivanti dalla relazione del 12 settembre 2008 dell’Ing. S.P.
Non ha valore il fatto che quel procedimento vedeva come parti originarie la
C.G.G. S.r.l. e la B N.P. 2000 S.r.l. (subappaltatrice della prima e del tutto svincolata da rapporti contrattuali con la A.I. S.p.a.), mentre la A.I. S.p.a. è subentrata
nella procedura solo lite pendente a seguito di chiamata in causa.
Né ha valore il fatto che quel procedimento di ATP fu attivato su istanza della
stessa C.G.G. S.r.l. allo scopo di accertare lo stato dei luoghi e la qualità dei materiali impiegati, nonché la valutazione della cause che hanno determinato i danni,
quale anticipazione di un futuro giudizio di merito che avrebbe dovuto riguardare
la « riduzione del prezzo ovvero [la] risoluzione del contratto intervenuto con B
N.P. 2000 e risarcimento dei danni »...
Quanto al primo aspetto, gli effetti della decisione giurisdizionale si producono nei confronti di tutte le parti litisconsortili del giudizio, a prescindere dalle
modalità con cui il litisconsorzio si sia formato.
Quanto al secondo aspetto, il procedimento di istruzione preventiva si caratterizza per la sua debole strumentalità rispetto al giudizio di merito identificata
nella comunanza della situazione sostanziale (si spezza il nesso di strumentalità rispetto al diritto soggettivo sottostante), la misura stessa punta solo a conservare una
situazione processuale senza incidere sulla realtà materiale. Se lo scopo del procedimento di istruzione preventiva è assicurare la raccolta della prova prima del processo, onde evitare che ciò diventi impossibile o difficile quando essa fosse assunta
nel prosieguo, la sua finalità esclusivamente processuale, essendo proiettata sulla
conservazione del mezzo di prova in attesa della sua eventuale ammissione all’in316
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terno del processo, implica che gli esiti della decisione resa in sede di istruzione
preventiva possano essere utilizzati in qualsiasi procedimento di merito, alla condizione che si tratti di procedimento che vede parti coloro che hanno partecipato al
giudizio di « cautela della prova ».
Nel caso di specie, è ben possibile porre a fondamento della decisione le risultanze dell’ATP reso avanti al Tribunale di Roma..., in quanto pronunciato tra le
medesime parti, e della cui rilevanza non si può dubitare vertendo esso sulla quantificazione dei danni subiti dalla A.I. S.p.a. a seguito della inesatta esecuzione dei
lavori commissionati con il contratto del 12 settembre 2008 alla C.G.G. S.r.l.
Nessun valore ha poi il fatto che furono parti di quel procedimento soggetti
rimasti estranei al presente giudizio arbitrale. Pure prescindendo dal fatto che il
contratto del 12 settembre 2008 prevedeva un espresso divieto di subappalto (e che
quindi la C.G.G. S.r.l. ha contravvenuto alle condizioni contrattuali subappaltando
l’opera alla B N.P. 2000 S.r.l.), il presente procedimento arbitrale avrebbe potuto
estendersi a terzi solo qualora ne fosse stata fatta richiesta ad opera delle parti. Il
che non è avvenuto.
Resta da definire i limiti dell’efficacia probatoria della consulenza tecnica preventiva. Deve ritenersi — con la giurisprudenza — che l’accertamento tecnico preventivo che sia stato ritenuto ammissibile nel successivo giudizio di merito ha la
stessa efficacia probatoria dei mezzi di prova acquisiti nel corso del giudizio medesimo, alla condizione che sia stato assicurato il rispetto del principio del contraddittorio (Cass. 15 luglio 1980, n. 4581; Cass. 8 agosto 2002, n. 12007). Non vi è
dubbio nel caso di specie che il contraddittorio tra le parti sia stato pienamente rispettato. (Omissis).
Accertamento tecnico preventivo e arbitrato: « ... e vissero felici e contenti ».
1. Tra committente, appaltatore e subappaltatore sorgeva controversia per difformità e vizii dell’opera appaltata. Nel contratto di appalto v’era
una clausola compromissoria per arbitrato rituale; non è dato sapere se altrettale clausola fosse contenuta nel contratto di subappalto, separato e distinto, non solo giuridicamente ma anche fisicamente, rispetto al contratto
principale. L’appaltatore, ricevuta denuncia delle difformità e dei vizii dell’opera dal committente, proponeva ricorso per accertamento tecnico preventivo (ATP) nei confronti del subappaltatore, chiedendo che fossero accertati lo stato dei luoghi e le cause dei lamentati difetti, quantificando altresı̀ i danni e i costi necessarii ai ripristini. Il subappaltatore, costituendosi
nel procedimento per ATP, chiedeva di estendere il contraddittorio al committente, che veniva pertanto chiamato in causa.
Concluso l’ATP con il deposito della relazione peritale, la quale accertava difformità e vizi dell’opera, quantificando i costi per i ripristini e i
danni cagionati, il committente instaurava procedimento arbitrale contro
l’appaltatore, chiedendo di ottenerne il ristoro, oltre al pagamento di penali
per il ritardo contrattualmente pattuite.
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2. Il collegio arbitrale, nel lodo in commento, pone a base della pronuncia di condanna dell’appaltatore l’anzidetta relazione di ATP, facendo
immediata e retta applicazione della pronuncia additiva resa da Corte cost.
28 gennaio 2010, n. 26, la quale ha dichiarato incostituzionale l’art. 669quaterdecies c.p.c., nella parte in cui, escludendo l’applicazione dell’art.
669-quinquies c.p.c. ai provvedimenti di cui all’art. 696 c.p.c., impedisce,
in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale, la proposizione della domanda di accertamento tecnico preventivo al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito (1).
Come noto, l’art. 669-quinquies c.p.c. consente di proporre istanze
cautelari al giudice che sarebbe competente per il merito, anche quando la
controversia sia deferita alla cognizione di arbitri, indifferentemente rituali
o irrituali. Gli arbitri, infatti, sono generalmente privi di poteri cautelari (v.
l’art. 818 c.p.c.), eccezion fatta per l’isolata fattispecie della sospensione
dell’esecuzione di delibere societarie, che l’ancor vigente art. 35, comma 5,
D.Lgs. n. 5/2003 espressamente demanda loro, quando la controversia sull’impugnativa sia devoluta ad arbitrato societario, anche non rituale (2).
Per chiaro difetto di coordinamento normativo i procedimenti d’istruzione preventiva erano rimasti ex littera esclusi dalla sfera d’applicabilità
dell’art. 669-quinquies c.p.c., dacché la norma di chiusura sul procedimento
cautelare uniforme, cioè l’art. 669-quaterdecies, ultima frase, c.p.c., dichiarava loro applicabile soltanto l’art. 669-septies sugli effetti preclusivi (attenuati) del provvedimento di rigetto nel merito e sulla liquidazione delle
spese.
Nel campo dell’istruzione preventiva provvidamente intervenne dapprima Corte cost., 16 maggio 2008, n. 144, dichiarando illegittimi gli artt.
669-quaterdecies e 695 c.p.c., nella parte in cui non prevedevano la reclamabilità del provvedimento di rigetto dell’istanza per l’assunzione preven(1) Corte cost., 28 gennaio 2010, n. 26 è pubblicata in Foro it., 2010, I, 2978, in Riv.
dir. proc., 2010, 723, con nota di LICCI, Istruzione preventiva, arbitrato e art. 669 quaterdecies: una convivenza possibile?, in Giust. civ., 2010, I, 803, in Giur. it., 2010, 1647 (m), con
nota di BONATO, L’arbitrato, l’accertamento tecnico preventivo e la Corte costituzionale, in
Giur. it., 2010, 2113 (m), con nota di DELLE DONNE, La Consulta, l’istruzione preventiva e la
forza espansiva del rito cautelare tra esigenze di compatibilità costituzionale e discrezionalità del legislatore. Sulla sentenza della Consulta v. anche la nota della stessa presidente del
collegio arbitrale che ha emesso il lodo in commento: TISCINI, La Corte costituzionale interviene sui rapporti tra istruzione preventiva ed arbitrato. Continua l’estensione del rito cautelare uniforme alla tutela preventiva della prova, in www.judicium.it 2010.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata da Trib. La Spezia, ord.
31 ottobre 2008, in questa RIVISTA, 2010, con nota di DELLE DONNE, Ancora sui rapporti tra
arbitrato (anche irrituale) ed accertamento tecnico preventivo: è davvero illegittimo l’art.
669-quaterdecies nella parte in cui non prevede l’applicabilità a tali cautele dell’art. 669quinquies?).
(2) Sullo specifico tema v. l’ampia e densa monografia di VILLA, Arbitrato rituale e
sospensione delle decisioni sociali, Milano, 2008.
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tiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 c.p.c. (3): in iure quo utimur è dunque oggi possibile interporre il reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c. avverso un’ordinanza di rigetto dell’istanza di assunzione di
una prova a futura memoria; non invece contro l’ordinanza di accoglimento, ché la prova anticipatamente acquisita non può mai pregiudicare le
decisioni su rilevanza e ammissibilità della stessa, istituzionalmente e per
legge riservate al giudice del merito (art. 698 c.p.c.).
Quando la controversia sia devoluta a cognizione arbitrale, è or sovvenuta la citata Corte cost. n. 26/2010 — ancorché ben si potesse, a parer
nostro, giungere alla stessa conclusione in via analogica (4) e senza neppure
la stretta necessità d’un intervento della Consulta — avendo il tribunale remittente ritenuto « inammissibile il ricorso all’analogia, che postula una lacuna normativa, nella fattispecie non configurabile ». Adito, infatti, mercé
reclamo avverso provvedimento di diniego dell’istanza di ATP nell’ambito
di una controversia deferita ad arbitri, il giudice a quo ebbe puntualmente
a osservare come la lettera dell’art. 669-quaterdecies c.p.c. escludesse l’applicabilità della disciplina cautelare uniforme alle misure di istruzione preventiva. Sicché alla limitazione di cui all’art. 669-quaterdecies c.p.c., che
richiama il solo art. 669-septies, soggiaceva altresı̀ la previsione dell’art.
669-quinquies c.p.c., che conferisce al giudice il potere di concedere la tutela cautelare nelle controversie compromesse in arbitrato. La norma cen-
(3) Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144 è pubblicata in Corr. giur., 2008, 1071, con
nota di ROMANO, La Corte costituzionale estende il reclamo cautelare all’ordinanza di rigetto
dell’istanza di istruzione preventiva, in Giur. it., 2008, 2255, con nota di DELLE DONNE, La
Consulta ammette il reclamo contro i provvedimenti di diniego dell’istruzione preventiva ma
non contro quelli di accoglimento: è vera parità delle armi?, in Riv. dir. proc., 2009, 247,
con note di FERRARI, La reclamabilità del diniego di istruzione preventiva e LICCI, Istruzione
preventiva e reclamo: una soluzione che ancora non convince, in Il giusto processo civ.,
2008, 907, con nota di DELUCA, Sul reclamo avverso i provvedimenti d’istruzione preventiva.
(4) Per la piena ammissibilità dell’ATP anche in caso di clausola compromissoria o
compromesso si erano espressi TARZIA, Istruzione preventiva e arbitrato rituale, in questa Rivista, 1991, 722; SALVANESCHI, Sui rapporti tra istruzione preventiva e procedimento arbitrale, ivi, 1993, 615; BESSO, La prova prima del processo, Torino, 2004, 244 ss., spec. 247 s.;
ID., I procedimenti di istruzione preventiva, in CHIARLONI - CONSOLO (a cura di), I procedimenti
cautelari, II, 2, Torino, 2005, 1214 s.; ARIETA, Le tutele sommarie. Il rito cautelare uniforme.
I procedimenti possessori, in MONTESANO - ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, III,
1, Padova, 2005, 542 ss.; ROMANO, La tutela cautelare della prova nel processo civile, Napoli, 2004, 295; TRISORIO LIUZZI, Istruzione preventiva, in Dig. civ., X, Torino, 1993, 251; BALENA, Procedimento di istruzione preventiva, in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990, 3;
CALVOSA, Istruzione preventiva, in Novissimo Dig., IX, Torino, 1963, 318; NICOTINA, L’istruzione preventiva nel codice di procedura civile, Milano, 1979, 50.
In giurisprudenza v. Trib. Catania, 23 gennaio 1995, in Giur. it., 1995, I, 2, 820, con
nota di PULEO, Note minime su competenza cautelare ed arbitrato, secondo cui all’istruzione
preventiva deve ritenersi applicabile in via estensiva o quanto meno analogica l’art. 669quinquies c.p.c., sicché nel caso di clausola compromissoria è il giudice ordinario a dover disporre l’accertamento tecnico preventivo.
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surata, secondo il giudice a quo, si poneva in contrasto con l’art. 3 Cost.,
sotto il profilo della disparità di disciplina tra i provvedimenti di istruzione
preventiva e le altre misure cautelari, manifestandosi l’irragionevolezza nel
differente regime rispetto al sequestro probatorio di cui all’art. 670, n. 2,
c.p.c., posto che, in caso di controversia compromessa in arbitri, se è consentito, ai sensi dell’art. 669-quinquies c.p.c., domandare al giudice il sequestro giudiziario di libri, documenti e ogni altra cosa da cui si ritiene di
poter desumere elementi di prova, era invece negato accesso a un accertamento tecnico preventivo, sebbene quest’ultimo partecipi della medesima
natura cautelare e della funzione di conservazione della prova del sequestro
probatorio. In secondo luogo, secondo il giudice remittente, l’impossibilità
di ricorrere all’accertamento tecnico preventivo in caso di liti devolute in
arbitri, implicherebbe una limitazione all’esercizio del diritto alla prova, ex
art. 24, comma 2, c.p.c., atteso che l’alterazione del luogo o della cosa che
si vuole sottoporre ad ATP può determinare un pregiudizio irreparabile al
diritto di cui si chiede tutela, conseguente all’eventuale perdita della possibilità di provare l’esistenza dell’inerente diritto.
La Corte costituzionale, accogliendo con la sentenza n. 26/2010 le ragioni d’illegittimità prospettate dal tribunale remittente, ha definitivamente
sancito l’applicabilità dell’art. 669-quinquies c.p.c anche ai procedimenti di
istruzione preventiva, riconoscendo al giudice ordinario competente per il
merito il potere di darvi corso, allorché la controversia sia deferita a cognizione arbitrale.
Esattamente la Consulta ha ricordato come non si possa dubitare dell’appartenenza dell’istruzione preventiva alla categoria dei procedimenti
cautelari, di cui condivide la « ratio ispiratrice, diretta a evitare che la durata del processo si risolva in un danno per la parte che dovrebbe vedere
riconosciute le proprie ragioni » (come già rilevato da Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144, cit.). E, dopo aver rilevato che « non sussiste incompatibilità tra la normativa generale sui provvedimenti cautelari e la disposizione
concernente l’accertamento tecnico preventivo », ha ritenuto che la scelta
normativa di discriminare le misure di istruzione preventiva rispetto agli
altri provvedimenti cautelari fosse irragionevole ed incongrua, sul semplice
rilievo che la loro efficacia non è condizionata ad oneri di impulso processuale rispetto al giudizio cautelato: questo profilo, infatti, non esclude la
loro natura cautelare né giustifica il venir meno del collegamento con il
giudizio di merito, rispetto al quale tali misure rimangono comunque funzionalmente strumentali, pur senza soggiacere a termini d’inefficacia.
Infatti, se è pur vero che la disciplina dettata dagli art. 692-699 c.p.c.
non prevede la fissazione di un termine per l’inizio del giudizio ordinario a
pena d’inefficacia dell’acquisizione probatoria anticipata, sancendo una
forma di autonomia tra gli atti di istruzione preventiva e il giudizio principale, ciò non esclude la natura cautelare delle relative misure, né fa venir
meno il collegamento funzionale con il giudizio di merito, rispetto al quale
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esse hanno carattere strumentale, tanto che l’assunzione delle misure stesse
non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza, destinate a essere verificate, appunto, nel giudizio di merito, nel quale i processi verbali delle prove preventive non possono essere prodotti né richiamati né riprodotti in copia prima che i mezzi di prova siano stati dichiarati
ammissibili e rilevanti nel giudizio stesso, ai sensi dell’art. 698 c.p.c.
Sulla base di tali rilievi, la Consulta concludeva pertanto che l’esclusione dei provvedimenti di istruzione preventiva e di accertamento tecnico
preventivo dall’ambito di applicazione della disciplina cautelare uniforme
definita dall’art. 669-quaterdecies c.p.c., dovesse ritenersi incostituzionale,
per violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e per
lesione del diritto di difesa garantito dall’art. 24, comma 2, c.p.c., giacché
l’impossibilità di espletare l’accertamento tecnico preventivo in caso di
controversia devoluta ad arbitri (i quali, come si è detto, non possono concedere provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge) compromette il diritto alla prova, per la possibile alterazione dello stato dei
luoghi o di ciò che si vuole sottoporre ad accertamento tecnico, con conseguente pregiudizio per il diritto di difesa e per l’effettività della tutela giurisdizionale.
3. Né miglior o più ragionevole fondamento dava alla pregressa
esclusione l’idea secondo la quale non sarebbe possibile sottrarre agli arbitri una porzione rilevante dell’istruttoria, espletandola ex ante dinanzi al
giudice ordinario, stante il principio per cui probationes concernunt medium causae, appartenendo al cuore pulsante del iudicium riservato a chi
abbia, per legge o per contratto, potestas iudicandi (5). Opinione questa
nient’affatto condivisibile, neppure prima del definitivo intervento « manipolativo » della Consulta, ché l’esigenza cautelare ben può sussistere anche
in relazione a fonti di prova che rischino di andare disperse, se non assunte
in via di urgenza e a futura memoria degli arbitri.
Neppure, a parer nostro, merita d’esser enfatizzato oltre misura il pro(5) Cfr. Cass., Sez. un., 7 agosto 1992, n. 9380, in questa Rivista, 1993, 615, con
nota critica di SALVANESCHI, Sui rapporti tra istruzione preventiva e procedimento arbitrale.
Per l’ammissibilità dell’istruzione preventiva anche in caso di clausola compromissoria v. invece, già prima di Corte cost. n. 26/2010, Trib. Catania, 23 gennaio 1995, in Giur. it., 1995,
I, 2, 819, con nota di PULEO, Note minime su competenza cautelare ed arbitrato. Sui rapporti
tra arbitrato e procedimenti di istruzione preventiva cfr., oltre alla già citata nota di SALVANESCHI - TARZIA, Istruzione preventiva e arbitrato rituale, in questa Rivista, 1991, 719 ss.;
BESSO, I procedimenti di istruzione preventiva, in CHIARLONI - CONSOLO (a cura di), I procedimenti cautelari, II, 2, Torino, 2005, 1214 s.; ARIETA, Le tutele sommarie. Il rito cautelare
uniforme. I procedimenti possessori, in MONTESANO, ARIETA, Trattato di diritto processuale
civile, III, 1, Padova, 2005, 542 ss. Sul significato del principio per cui probationes concernunt medium causae si rinvia, classicamente, a MICHELI, La prova a futura memoria, ora in
Opere minori di diritto processuale civile, I, Milano, 1982, 436.
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blema dell’incoercibilità di molti mezzi istruttorii da parte degli arbitri per
restringere, retrospettivamente, le possibilità d’utilizzo dell’istruzione preventiva nelle materie compromesse in arbitrato. Suol obiettarsi che non si
possano assumere coattivamente, in via anticipata e per mere ragioni d’urgenza mediante istruzione preventiva dinanzi al giudice, quei mezzi di
prova che gli arbitri non potrebbero acquisire attraverso ordini coercibili,
salvo che non si tratti di escussione di teste a futura memoria (la cui assunzione coattiva è ora assicurata, anche in sede arbitrale, dall’art. 816-ter,
comma 3, c.p.c. mercé un’istanza al presidente del tribunale) o salvo che
l’ATP non venga richiesto sulla persona o su cose del ricorrente medesimo,
non essendovi in tal caso alcuna necessità di coartare la volontà di nessuno (6). E se è pur vero che le maglie del periculum in mora nell’istruzione
preventiva non possono essere allentate sino al punto da includervi anche
l’ipotesi della renitenza della parte a consentire il regolare e completo svolgimento dell’attività istruttoria in sede arbitrale, onde far acquisire coattivamente la prova dal giudice dell’istruzione preventiva in luogo degli arbitri, a
questi surrogandosi (7), poiché in tal modo si piegherebbe l’istruzione preventiva a soddisfare esigenze esecutive delle misure istruttorie apud arbitros
estranee ai presupposti conservativi della cautela, vero è anche che, statisticamente, le prove da assumere in via anticipata saranno per lo più testimonianze, ora indirettamente coercibili anche dagli arbitri ex art. 816-ter, comma
3, c.p.c., o accertamenti tecnici sulla persona dello stesso ricorrente o su cose
che si trovano nella sua disponibilità, onde un problema di inammissibilità
dell’istruzione preventiva per incoercibilità delle misure istruttorie in sede arbitrale non sorge neppure, restando relegato a ipotesi residuali nelle quali il
consenso dell’avente diritto, quale soggetto passivo del ricorso per istruzione
preventiva, risulti assolutamente indispensabile (8).
4. Il lodo in commento, forte della sopravvenuta e dianzi descritta
pronuncia d’illegittimità costituzionale, non ha giustamente esitazioni ad
(6) Cfr. ROMANO, op. cit., 298 ss.
(7) Si è infatti autorevolmente e con grande sensibilità proposto di allentare il periculum in mora dell’istruzione preventiva, fino a comprendervi l’eventualità che il teste o la
parte rifiuti di presentarsi o di prestare il consenso all’occorrente attività istruttoria in sede
arbitrale: v. TARZIA, op. cit., 723; SALVANESCHI, Sui rapporti tra istruzione preventiva e procedimento arbitrale, in Studi in onore di E. Fazzalari, IV, Milano, 1993, 466; AULETTA, L’istruzione probatoria, in VERDE (a cura di), Diritto dell’arbitrato, Torino, 2005, 302; cfr. anche
BESSO, La prova prima del processo, Torino, 2004, 246.
(8) Il che, d’altronde, è sempre richiesto per l’ispezione e l’ATP sulla persona del
resistente, anche quando la lite non sia devoluta ad arbitri, sin da Corte cost. 19 luglio 1996,
n. 257, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo il primo comma dell’art. 696,
nella parte in cui « non prevede che il giudice possa disporre accertamento o ispezione giudiziale anche sulla persona nei cui confronti l’istanza è proposta, dopo averne acquisito il
consenso ».
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acquisire e far proprie le conclusioni della relazione peritale di ATP, ancorché questo si sia svolto prima della sopravvenuto arrêt della Consulta, giusta la regola onde la declaratoria d’incostituzionalità d’una norma s’applica
retroattivamente a tutte le situazioni giuridiche non consolidate (9). Né si
esime dal parificarne le risultanze, quoad effectum, a quelle d’una CTU
svolta in seno al procedimento arbitrale, sol che sia stato osservato il contraddittorio già in sede di ATP, come nel caso puntualmente avvenne (10).
Il lodo si spinge anche oltre, estendendo l’efficacia conservativa della
prova anticipatamente acquisita alle posizioni soggettive non strettamente
prospettate dal ricorrente in ATP, mercé formulazione delle domande che
egli intende proporre nel futuro ed eventuale giudizio di merito, come richiesto a pena d’inammissibilità del ricorso per istruzione preventiva, proprio allo scopo di consentire al giudice della cautela di vagliare, sia pure in
forme attenuate e molte ampie, la rilevanza del mezzo istruttorio di cui è
chiesta l’assunzione rispetto alle situazioni giuridiche azionabili dal ricorrente, oltre a saggiare con delibazione sommaria i presupposti processuali
e le condizioni di futura decidibilità della causa nel merito (11).
Si tratta di quel passaggio della pronuncia in commento, nel quale il
collegio arbitrale puntualmente osserva che « il procedimento di istruzione
preventiva si caratterizza per la sua debole strumentalità rispetto al giudizio di merito identificata nella comunanza della situazione sostanziale (si
spezza il nesso di strumentalità rispetto al diritto soggettivo sottostante), la
misura stessa punta solo a conservare una situazione processuale senza in(9) Su questa regola v., tra molte e proprio nel campo arbitrale, Cass., Sez. un., 30
aprile 2008, n. 10873.
(10) Cass. 22 marzo 2001, n. 4139, in Giur. it., 2002, 1862, secondo cui « i mezzi
istruttori espletati in via preventiva, mentre non sono utilizzabili fino a quando non vengono
ammessi nel giudizio di merito, acquistano da quel momento il medesimo valore degli atti di
istruzione ordinari e vanno perciò inseriti nel fascicolo d’ufficio, cosı̀ che il loro ingresso nel
successivo grado del giudizio non forma oggetto di un onere delle parti, ma di un compito
del giudice ».
(11) Si nota giustamente che mai l’ammissione e l’assunzione della prova, nel processo ordinario ausiliato, sarebbero subordinate alla previa verifica, neppure sommaria, della
bontà delle ragioni sostanziali dell’istante: cfr., per tutti, ROMANO, op. cit., 244. Sulla necessaria indicazione dell’oggetto della domanda o dell’eccezione e, dunque e generaliter, della
causa rispetto alla quale l’istruzione preventiva è strumentale v., per tutte, Cass. 28 maggio
1996, n. 4940, in Foro it., 1996, I, 2766, con nota di CIPRIANI, L’impugnazione dei provvedimenti d’istruzione preventiva, che fece da profetica ouverture, ben tre lustri or sono, all’intervento della Consulta.
Con riguardo ai procedimenti di istruzione preventiva — ai quali è applicabile l’art.
693, comma 1, c.p.c., che prevede che l’istanza si proponga con ricorso da presentarsi al giudice che sarebbe competente per la causa di merito — deve intendersi con quest’ultima
espressione la causa che ha per thema decidendum le domande o le eccezioni (art. 693,
comma 3), i cui fatti costitutivi o, rispettivamente, impeditivi, modificativi od estintivi il ricorrente in istruzione preventiva intenda far accertare per l’effettivo esercizio del suo diritto
alla prova.
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cidere sulla realtà materiale. Se lo scopo del procedimento di istruzione
preventiva è assicurare la raccolta della prova prima del processo, onde
evitare che ciò diventi impossibile o difficile quando essa fosse assunta nel
prosieguo, la sua finalità esclusivamente processuale, essendo proiettata
sulla conservazione del mezzo di prova in attesa della sua eventuale ammissione all’interno del processo, implica che gli esiti della decisione resa
in sede di istruzione preventiva possano essere utilizzati in qualsiasi procedimento di merito, alla condizione che si tratti di procedimento che vede
parti coloro che hanno partecipato al giudizio di “cautela della prova” ».
Non occorre, insomma, che vi sia perfetta equivalenza tra le posizioni
processuali assunte nel procedimento per ATP e quelle rivestite dalle parti
nel giudizio di merito, non importa se davanti al giudice o ad arbitri: l’osservanza del contraddittorio e la partecipazione di tutti i soggetti all’ATP è
garanzia sufficiente di corretta acquisizione della prova in via anticipata e
tanto basta ad assicurarne la piena utilizzabilità, come se fosse stata assunta
direttamente coram iudice vel arbitro, chiamati a pronunciarsi sul merito e
nel contraddittorio tra le parti. Basta dunque che in sede di ATP venga prospettata la materia del contendere e della futura causa, senza rigidi schematismi, e siano chiamate a parteciparvi tutte le parti interessate, affinché le
risultanze peritali in tal modo acquisite restino ad esse opponibili e siano
pianamente e senza inciampi utilizzabili nel giudizio di merito.
Resta cosı̀ confermato, come ben si legge nel lodo in esame, l’assai
tenue nesso di strumentalità dell’istruzione preventiva rispetto al giudizio
di merito, non esigendosi mai l’introduzione di questo entro un termine perentorio, ché le parti ben potranno promuoverlo quando meglio riterranno e
crederanno, nell’osservanza dei soli termini di prescrizione, medio tempore
interrotti dalla notifica del ricorso per ATP e sospesi sino al deposito della
relazione peritale (12).
5. Sol per completezza ricordiamo quel che già altrove avevamo notato, cioè che la pronuncia di Corte cost. n. 26/2010, che ha definitivamente
ammesso l’ATP pur a fronte di convenzione arbitrale, non rende invece per
ciò solo esperibile la consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. in
presenza di devoluzione della controversia ad arbitri, giacché a questa fa
(12) V. Cass. 8 agosto 2007, n. 17385, secondo cui « l’accertamento tecnico preventivo rientra nella categoria dei giudizi conservativi; e, pertanto, la notificazione del relativo
ricorso con il pedissequo decreto giudiziale determina, ai sensi dell’art. 2943 c.c., l’interruzione della prescrizione che si protrae fino alla conclusione del procedimento, che coincide
ritualmente con il deposito della relazione del consulente nominato »; la stessa sentenza, peraltro, soggiunge che « qualora tale procedimento si prolunghi oltre tale termine con l’autorizzazione al successivo deposito di una relazione integrativa, esso si trasforma in un procedimento atipico, con la conseguenza che, in tal caso, la permanenza dell’effetto interruttivo
della prescrizione non è più applicabile ».
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difetto quel presupposto del periculum in mora tipico dell’ATP che, nell’arrêt additivo della Consulta, giustifica e rende ammissibile un’assunzione
anticipata e urgente della prova nonostante il pactum compromissi (13).
L’appartenenza della consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. al
novero degli ADR, cui pertiene anche l’arbitrato (rituale o irrituale che sia),
induce a escluderne l’esperibilità in presenza di convenzione arbitrale, dacché s’avrebbe una sovrabbondante duplicazione di rimedii alternativi alla
tutela giurisdizionale, trasformando la CTU preventiva da strumento deflattivo del carico giudiziario a strumento alternativo... a un altro ADR, qual è
l’arbitrato (14).
Naturalmente, l’exceptio compromissi non è rilevabile d’ufficio e deve
essere sollevata dalla convenuta nella prima difesa in seno al procedimento
per consulenza tecnica preventiva, ai sensi dell’art. 819-ter c.p.c. In mancanza, il procedimento avrà regolare corso e la relazione finale del consulente sarà validamente formata: anche quando il giudice di merito, successivamente adito, declini la propria cognizione a causa di un pactum compromissi tempestivamente eccepito, gli esiti della consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. non verranno travolti e potranno comunque
essere utilizzati dagli arbitri per la formazione del loro convincimento, al
pari di quel che farebbe un giudice ordinario. Il procedimento di consulenza
tecnica preventiva è, come del resto l’ATP da cui trae ispirazione, svincolato dal futuro ed eventuale giudizio di merito e non soffre delle nullità o
dei difetti litis ingressum impedientes che colpiscono quest’ultimo e che
non possono riverberarsi a monte su atti già validamente compiuti.
Simmetricamente, però, il positivo esperimento di una consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c. non pregiudica la facoltà d’opporre
l’exceptio compromissi dinanzi al giudice successivamente adito per il merito, non producendosi alcuna preclusione (15): ciò a ulteriore conferma
FRUS.
(13)
V. Trib. Torino, 17 gennaio 2008, in Giur. it., 2008, 2274, con nota critica di
(14) Sia sul piano strutturale, per difetto del requisito dell’urgenza, che su quello
funzionale, per mancanza della finalità di alleviare il carico degli ufficii giudiziarii, non può
dunque condividersi l’opinione di chi ammette l’utilizzo della consulenza tecnica preventiva
anche in presenza di compromesso o clausola compromissoria, in applicazione analogica
dell’art. 669-quinquies c.p.c.: cfr., in tal senso, AULETTA, L’istruzione probatoria, in VERDE (a
cura di), Diritto dell’arbitrato, Torino, 2005, 303; CUOMO, op. cit., 281. Nel senso invece dell’inammissibilità della consulenza tecnica preventiva in caso di pactum compromissi, ROMANO, Il nuovo art. 696-bis c.p.c., tra mediation ed anticipazione della prova, in Corr. giur.,
2006, 12 nota 87; e, si vis, TEDOLDI, La consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis c.p.c.,
in Riv. dir. proc., 2010, 824 s.
(15) Cfr. Cass. 1o febbraio 2011, n. 2317, secondo cui « il provvedimento col quale
il giudice affermi o neghi la propria competenza per territorio a provvedere sull’istanza di
accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi, proposta ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c.,
non ha alcuna efficacia preclusiva o vincolante nel successivo giudizio di merito; ne conse-
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della strumentalità più che attenuata, rispetto al giudizio di merito, dei procedimenti d’istruzione preventiva in genere e, ad ancor più forte ragione,
della consulenza tecnica preventiva ai fini di composizione della lite, ai
quali (et pour cause) la disciplina cautelare uniforme di cui agli artt. 669bis ss. c.p.c. s’applica « a spizzichi e bocconi ».
ALBERTO TEDOLDI
gue che, ove in quest’ultimo il giudice dichiari la propria incompetenza a causa dell’esistenza
di una clausola compromissoria per arbitrato rituale, la mancata impugnazione della pronuncia sulla competenza resa dal presidente del tribunale in sede di accertamento tecnico preventivo non rende incontestabile la competenza del giudice togato ».
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RASSEGNE E COMMENTI
Italian arbitration in labour disputes:
a comparative perspective over the matter of inderogability
BARBARA GRANDI
1.
The global evolution towards A.D.R. (1).
It goes beyond any doubt that the need to reform, as well as to
encourage, arbitration in labour law can be fairly understood if observed
within the frame of the globalized society and market.
Therefore, we have to start from what “globalization” means when we
are dealing with arbitration procedures. Saying that arbitration goes along
with the crisis of the State in the globalized context isn’t meaningful. As
some academics put it more precisely, globalization produces three types of
consequences, as far as the evolution of the legal system is concerned (2).
Point one, it produces the tendency to favor an harmonization of the
substantive law via a strengthened role of the private parties will.
Point two, it produces a weakening of the link between territory, applicable law and jurisdiction.
Point three, it pushes towards the privatization of justice.
It is true that legal systems from all over the world are far from being harmonized, and nations are even further away from a harmonization
of their trial procedures whenever it comes up to solving disputes (3).
(1) The paper analyses the 2010 Italian Reform encouraging arbitration as an alternative to the lawsuit, and seeks to understand the reasons why the Reform has raised severe
debates on crucial issues involving the purposes of labour law as a discipline meant to protect fundamental rights. The comparison with the United Kingdom is used to consider an international perspective too.
(2) BIAVATI, Deroghe alla giurisdizione statuale e fungibilità dei sistemi giudiziari,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 02, 523.
(3) HAXARD, “From Whom No Secrets are Hid”. Segretezza e ricerca della verità nel
processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 02, 465, argued that amongst the fields of
law, the procedure shows a deeper reluctance in being harmonized, probably because it’s
deeply rooted in its legal, political and cultural tradition. The effect of the sentence and
awards are internationally concerned, not the whole activity which stays between the claim
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Nevertheless, considering the European context, we find ample evidence that Italy, like all the other Member States, is deeply affected by globalization in its legal consequences (4).
A clear main step towards such an evolution in Italy was the 1995 international private relationships Reform (L. n. 218/1995) (5) which revolutionarily set dispositions innovating the previous nationalistic scheme of
the 1942 Civ. Proc. Code, by saying that it is primarily up to private parties to choose the territorial jurisdiction whenever a contractual obligation
is concerned (6).
Labour law has been traditionally considered as a non sensitive field
to commercial legal process, and many of us would argue that it is not sensitive to the legal effect of globalization as just mentioned. Such approach
finds confirmation in the EU Regulation n. 1408/71 art. 13 (7) regarding the
co-ordination of the European social security systems, which states that the
applicable law for labour relationships and related social security is that of
the worker’s place of work.
Otherwise the promotion of arbitration in labour law would seem, at
first sight, a confirmation that harmonizing and liberalizing trends in society are affecting labour relations too, raising distance from a State justice
and its rigidities.
As we will discuss below, it is more correct to say that arbitration in
labour disputes has traditionally been meant as a tool in the hand of Trade
Unions, thus not being a “really private” form of arbitration.
The recent Italian Reform of arbitration for labour relations is moving
instead towards never experienced before methods of A.D.R.: the innovation is that it doesn’t ensure the assisting presence of Labour Unions anymore, and it does not requires a strict application of statutory laws and collective bargained clauses for the awards to be valid, since the latter can be
delivered also according to equity.
and the final decision as well. It is in this “non communicating” area that international arbitration has easily become a common means in the hands of international operators.
(4) The European Commission announced the will to consult the social parties about
the need to create, at a European level, voluntary mechanisms for mediation, conciliation and
arbitration to solve labour disputes (Agenda per la Politica Sociale, COM (2000)379 2000,
June 28th). The European Council insisted on the importance of preventing and solving disputes also through voluntary systems and invited the Commission to present a report on this
(Laken, 14-15 December 2002, point 25).
(5) Cfr. art. 3 co. 2 e art. 4 co. 2 L. 218 del 1995. The observation is by BIAVATI, op.
cit.
(6) European Regulation n. 593/2008 of 17th June regards the applicable law in contractual obligation, and affirmed the primacy of the parties’ will to determine the law ruling
their contract in case of transnational exchanges.
(7) See the updated EU Reg. n. 883/2004 now in force in place of Reg. n. 1408/71.
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At any level, the question about privatizing justice rises the issue of
its capability to grant the basics of fundamental rights.
At a general level, we can appreciate that none of the legal fields in
which the trend to privatize justice is present would ever go so far as to
deny the need to grant a borderline beyond which the private parties are not
allowed to proceed. This is internationally called jus cogens (8).
It is questionable, for example, whether the ECHR is applicable to
commercial arbitration (9), but there are no doubts that according to both
national and international standards, arbitration must be achieved in the respect of what can be internationally understood as public interest and public order. It is well known that the legal concept of “public interest” can
have several slightly different meanings according to the perspective in
which it is considered (10). For the purpose of this study we can refer to
public interest and public order as the range of norms that governs the basis for a civil society to keep safe and to develop according to fundamental human rights.
Any debate over arbitration, any extension of the individuals’ autonomy to depart from the public system in order to solve their own disputes, lead us to examine fundamental rights and methods to grant them.
And when dealing with some public interest and individuals’ freedom, the
matter of giving a just value to the “role of contract” is always at stake (11):
(8) FOIS, I valori fondamentali del “nuovo” diritto internazionale e il principio pacta
sunt servanda, in Riv. dir. internaz., 2010, 01, 15. As for the limits to arbitrate in the commercial field, see F. DE SANTIS, Inderogabilità della norma, disponibilità del diritto e arbitrabilità delle controversie societarie, in Giur. merito, 2008, 9, 2254 — whose article provides a comment over the Italian jurisprudence concerning the limits to arbitrate when the dispute is dealing with a public interest of the partners or of the third parties, which is what is
happening, for example, when the dispute concerns the accountability of companies. In these
cases there is a public interest whose nature, in juridical terms, is not different from that
which is supposed to limit arbitration in the labour field.
(9) One may read, for arguments about such application, CONSOLO, L’equo processo
arbitrale nel quadro dell’art. 6, par. 1o, della convenzione europea sui diritti dell’uomo, in
Riv. dir. civ., 1994, I, 453 ss.
(10) See the classic Italian doctrine by DE LUCA TAMAJO, La norma inderogabile nel
diritto del lavoro, Jovene, 1976. See, for a more recent dissertation on the difference between
labour rights that are fundamental, and thus not waived by individuals also GHEZZI, La conciliazione delle controversie di lavoro intervenuta con l’assistenza dei difensori, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2000, 01, 205, who names the fundamental labour rights as “primary level rights” rather than secondary level rights, which can be waived instead. Only the former, the
Authors argues, are subject to the regime of “nullity” ex art. 1419 Cod. Civ., while the latter can produce their effect until an Authority does ascertain their invalidity. See on the same
theme BORGHESI, Conciliazione, norme inderogabili e diritti indisponibili, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2009, 01, 121. See for some international perspective and bibliography, CAPLAN,
State Immunity, Human Rights and Jus Cogens: a Critique of the Normative Hierarchy
Theory, in American Journal of Int. Law, 2003, 772-773.
(11) About the issue of the relation between jus cogens and the principle of “pact
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as to the scope of private arbitration, we must question if it, itself, can assure Justice, according to the liberal vision, or else if Justice and Reasonableness are external parameters from arbitration meant as an expression of
the rule of contract (12).
Whenever such a matter deals with labour force, the demand to grant
a minimum public interest becomes more stressing, being the labour law a
field in which norms are traditionally considered as wholly “inderogable”
because of their scope to protect the worker.
The worker operates in a state of economic and functional dependence
when facing the employer. That justifies, both under the common law and
the civil law legal system, several restraints to the private will to contract (13).
Firstly, the freedom of the employer to manage the relationship is
limited by statutes (we may call this the “first level of inderogability, statutory inderogability”).
Secondly, in labour relations, the State tends to assure the presence of
collective representation and collective bargaining in the workplace, which
is another limitation on the privates to individually contract, although this
remains an expression of their power to negotiate (we may call this, just for
definitional purposes, the “second level of inderogability, collective bargaining inderogability” (14)).
Thirdly, there is the traditional vision of labour law as affirmed and
evolved by labour Tribunals and Courts: according to this view, when facing the judge, the worker is finally free and therefore able to expose and to
affirm his own rights (15) (we may call this the third level of inderogability,
case law-based inderogability).
sunt servanda”, see A. SANDULLI, SANTI ROMANO, RANELLETTI e DONATI sull’eclissi dello Stato,
sei scritti di inzio secolo XX, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 01, 77. For a full analysis of the
Italian doctrine arguing against the idea of the employment relationship as a simple contract,
SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Parte Generale, 1972, particularly 124 e 136 ss.
(12) The second position is held by BIAVATI, op. cit., who wonders if “nella visione
liberale classica, il contratto come tale assicuri la giustizia, ovvero se — come penso — la
giustizia e la ragionevolezza siano parametri esterni al contratto, al quale si impongono”.
(13) As it is known, in a common law-based-legal system the freedom of contract is
ex ante operating much more widely than in a civil law-based-legal system. That does not
mean that Anglo-Saxon private parties making agreements are not subjected to an ex post
control by the Courts, the latter having full power to intervene, whenever a lawsuit is brought before them, in order to restrain the parties from acting not according to statute law as
well as to implied terms deriving from case-law itself.
(14) I define collective bargaining as a second level of inderogability even though in
some cases a collective agreement can be rather prevailing on statute law (this happens for
collective bargaining in the public sector, according to art. 40, co. 4, D.lgs. 165/2001).
(15) An example amongst many is the case law ruling over the deadlines that temporally limits the claim for a labour right (according to Italian Civil Code the time for a creditor to claim for his right starts running from the day of his entitlement; industrial case law
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2.
Arbitration in Italy.
Before analysing the labour sector, we should recall the general discipline for Italian arbitration, since the general legal frame is partially applicable to the labour field.
The Italian discipline on arbitration is distinguished by the fact that it
establishes two formally different mechanisms that the private parties can
choose when they decide to arbitrate (16).
The parties can choose an “arbitrato rituale” (a sort of statutorily ruled
arbitration) rather than an “arbitrato irrituale” (a contractual arbitration): the
first one is aimed at achieving an award presenting all the features of a judicial decision (a sentence), while the second is aimed at achieving an
award having the basic legal features of a simple contract. The appeal system is also different: the “arbitrato rituale” is subject to the control of the
Court of Appeal, and it can be appealed against according to art. 829 Code
of Civil Procedure (this norm provides for few specific procedural reasons
to appeal). The “arbitrato irrituale”, being a simple contract, can be challenged before the Tribunal of first instance, as any other contract can, according to the civil law ruling the formation of the agreement (nullity ex
art. 1418-1424 Civ. Cod., contract made by violence or by error ex art.
1427-1446 Civ. Cod., contract beyond the legitimate mandate ex art. 1703
and ss. Civ. Cod.). Lastly, the procedure is different as well. The “arbitrato
rituale” is governed by procedural rules stated by the Code of Civil Procedure, although the largest part of the process is brought forward by the arbitrators. The “arbitrato irrituale” is approached instead according to the
more extensive freedom of the parties and of their chosen arbitrators (17).
This has been the legal frame until the 2006 Reform (18).
The 2006 Reform introduced statutory procedural steps for the “arbitrato irrituale” and, more important, it stated that the parties to this kind of
arbitration can challenge the award for only procedural mistakes (19).
stated that, when it is a dependent worker’s right, then the time runs from the day his labour
contract is finished). Corte Cost. n. 66/1966.
(16) Also in the UK (see below) there are forms of contractual arbitration as well as
forms of arbitration directly provided by the public bodies (by ACAS in particular).
(17) See, for a complete overview about the issue OCCHIPINTI, È nulla, per indeterminatezza dell’oggetto, la convenzione arbitrale che non consente di stabilire se le parti abbiano voluto un arbitrato rituale o un arbitrato irrituale, in questa Rivista, 2008, 3, 376.
(18) The 2006 Reform (D.lgs. n. 40/2006) stated that for an arbitration, to be lawful,
it must be provided by statute or by collective bargaining, no matter if it is “rituale” or “irrituale”; then it affirmed that arbitrators can decide also according to equity and that the parties will not be entitled anymore to go before the Tribunal once they have agreed an arbitration clause.
(19) VERDE, Bastava solo inserire una norma sui rapporti tra giudici ed arbitri, in
Giuda al Diritto, 2006, n. 8, 82.
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Therefore, as many scholars have argued (20), it becomes more and more
questionable if arbitration is a substantially single institution (thus subject
to a unique regime) or if it represents a sort of double tracks for an alternative dispute resolution (thus requiring a consideration of different regimes).
The very issue underneath this debate is what type of legal commitment is supposed to follow from the arbitration awards: legal consequences, as well as chances to appeal (the way the parties are actually
committed to what the award might have stated) are different depending on
how we interpret the nature of an Italian arbitration.
Considering that contractual arbitration may be reversed for reasons
concerning its formation (nullity, consent to contract given by violence or
by error, award beyond the legitimate mandate) while statutory arbitration
can only be challenged for procedural mistakes, the question rising for the
purpose of labour arbitration (given the mandatory nature of labour law) is
whether the award is capable to grant fundamental rights, in case of misinterpretation or mistake by the arbitrators, thus being a possible trap for
weak workers.
The answer is to be investigated in different norms depending on the
nature of arbitration we are dealing with: in case of “arbitrato irrituale” the
answer must be searched for in the regime of invalidity of the contract,
particularly in art. 1418 e 1419 Civ. Cod. where it is stated that a contract
is void and produces no effect if it is contrary to a legal and inderogable
norm (as supposed to secure fundamental rights). Of course this regime
does not contemplate as just collectively bargained provisions (21). In the
other case of “arbitrato rituale”, being that award not reversible in its content anymore, the answer must be searched inside the specific statutory
provisions according to which it has been processed and the award
achieved. It is in this part of the law that arbitrators find limitations to their
decisional power.
In other words, if arbitration is a contract, then the possibility for fundamental rights to be frustrated in case of an unfair decision does rely on
(20) For a doctrine supporting the idea of arbitration as one single institution, we can
read SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, 1969, 180 ss.; PUNZI, voce Arbitrato (rituale e irrituale), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1995, 3; FAZZALARI, Fondamenti dell’arbitrato, in questa Rivista, 1995, 1 ss.; MONTELEONE, L’arbitrato nelle controversie di lavoro — ovvero — esiste ancora l’arbitrato irrituale?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 43 ss.
About the position of Courts: E. RICCI, La “never ending story” della natura negoziale del
lodo: ora la Cassazione risponde alle critiche, in Riv. dir. proc., 2003, 557; ROLFI, La Suprema Corte e l’arbitrato irrituale: segnali di un ripensamento, nota a Cass. Sez. Un.
16.4.2009, n. 8987, in Corriere giuridico, n. 12/2009, 1625.
(21) Art. 2113 Civil Code rules the possibility for the parties to a labour relationship
to contract out from inderogable norms, by including collective agreements besides statutory
provisions.
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the general regime of invalidity of the contract. Instead, if arbitration procedure is ruled by the law, then that law must provide for instruments to
repair to any unfair decisions under fundamental laws.
3.
Italian labour arbitration from the last century to L. n. 183/10: an
ambiguous legal institute, but certainly rooted within the collective
bargaining.
Defining the nature of Italian arbitration has been, and still is, even
more confusing when we enter the specific field of labour law (22).
The first form of alternative to the civil court trial for labour matters
in the industrialized society took place in Italy according to L. n. 295/1893,
establishing the so called “Collegi dei probiviri”.
That was the first example of an industrial tribunal, stemming from
the Belgian and French experiences. Those committees were meant to be
established at a local level all around the country, but they were actually
present and working mainly in the North of Italy, while their number progressively diminished going towards the South.
The Collegio dei probiviri was an expression of the social parties, as
well as an expression of a local view to manage labour relationships. A
member was appointed by an act of the King and all the others (not less
than 10 and not more than twenty) were designated by the Governament
amongst the representatives of employers and workers. They were formally
established to experiment conciliatory resolution of disputes, but what really happened is that they were mainly operating to adjust conflictual disputes by means of binding awards. The probiviri award could be appealed
against in two cases: by reason of incompetence, or whenever the probiviri
had gone beyond their powers, so essentially in cases of procedural mistakes (23).
Then the Fascist period began, and eliminated those tribunals; still
many scholars recognize their merit of having established the bases for the
whole modern labour law and successive jurisprudence in Italy (24).
According to the Code of Civil Procedure as approved in 1940, the
arbitration leading to a judicial kind of award (“arbitrato rituale”) was le(22) GRANDI, Arbitrato e processo. Profili di qualificazione degli arbitrati irrituali in
materia di lavoro, in Argomenti diritto del lavoro, 1999, 595.
(23) CAZZOLA, La giustizia del lavoro in crisi: dal passato un rimedio possibile, in
Dir. relaz. ind., 2006, 02, 379.
(24) REDENTI (a cura di), Massimario della giurisprudenza dei probiviri, Ufficio del
lavoro, Tipografia nazionale di G. Bertero & C., Roma, 1906 (see for a later edition, by CAPRIOLI, Torino, 1992). See also GRANDI, Profilo storico della composizione delle controversie
di lavoro nel periodo fascista, in Lavoro e sicurezza sociale, 1959. ROMAGNOLI, Le associazioni sindacali nel processo, Milano, 1969.
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gally forbidden in case of labour disputes. That made it necessary to use
only “arbitrato irrituale”, as conceived within the experience of the collective bargaining as an alternative to the lawsuit.
It became a common experience that the parties to an employment relationship were able to choose to arbitrate whenever a collective agreement
(included in the individual agreement or actually applied by the employer
on the singular relationships) provided such an alternative to the lawsuit
before the Courts (25).
The later statute law acknowledges such a factual scenario: L. n. 604/
66, dealing with individual dismissals, affirmed the possibility to arbitrate
by only achieving a contractual kind of award.
It can be observed that the historical trend from the 19th century, was
for the legal system to stay open to the opportunity of private arbitration,
at the same time to subject it to the balancing presence of the workers’ representatives.
The 1973 Reform of Civil Procedure Code re-affirmed an unfavourable approach to the “arbitrato rituale”: according to the Seventies’ legislation a labour dispute could be brought before the arbitrators only if such a
possibility was introduced by a collective agreement (26).
The situation remained fairly the same when L. n. 108/1990 (27) was
approved; the mentioned law dealt with the regime of unfair dismissals,
and it provided for an attempt of conciliation with a connected arbitration
procedure. That law declared the purpose was to diminish the work of Tribunals and Courts. The nature of arbitration therein provided is nothing but
a middle course between a contractual agreement and a judicial decision.
In 1998, because of the devolution of labour disputes rising from the
public sector from the administrative Tribunals to the Industrial Tribunals,
the Legislator changed arbitration law again, by providing a form of alternative dispute resolution highly ambiguous in its nature: the central role of
the Unions was linked to a stricter formal procedure for the parties to follow (s.c. “arbitrato sindacale processualizzato”).
At the end of this historical revisitation, it is far from clear if we can
refer to judicial or contractual awards as contemplated by the Italian legal
system for labour disputes (28). To make it clearer, the historic course of ar-
(25) CAPPONI, Le fonti degli arbitrati in materia di lavoro, in Il Giusto Processo Civile, 2/2010, 362 writes: “L’esperienza arbitrale, cacciata dalla porta del rituale, rientrava
dalla finestra dell’irrituale”.
(26) PERONE, voce Arbitrato in materia di lavoro, in Noviss. dig. it., app., Torino,
1980, 378.
(27) Legge n. 108/90, art. 5.
(28) Arbitration procedures have been provided lately by art. 7 Legge n. 604/1966
for individual dismissal; art. 5 Legge n. 108/1990 for individual dismissal in smaller enterprises; art. 7 Legge n. 300/1970 for disciplinary matters in the private sector; art. 55, 56
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bitration shows how the experience of the same in Italian labour law is
rooted and has developed within the history of Trade Unions and industrial
relations, according to the idea of “not leaving the worker alone” when it
comes to the conflict, whenever it might be reasonably hard for him to obtain justice against the overwhelming power of the big enterprise.
It is reported that at the time of approval of the Constitution in 1942,
there were two main ideologies about how to approach to A.D.R. (29): on
one side, there was the position of the CIGIL Union and the Partito Comunista (Communist Party) at the extreme left, convinced that labour relationships should be administrated at State level, according to a national statutory law as well as to the Constitution, and that all this should be enhanced
by the State and its Tribunals. On a more moderate position, there was the
CISL Union which was closer to the Democrazia Cristiana (Christian
Democratic Party) and other Parties of Catholic inspiration, holding that the
State and its justice should play a subsidiary role in the administration of
labour relationships, and that these latter should rather be managed by the
collective bargaining also via their alternative dispute resolution agreements.
The first position has been the leading one in Italy for decades.
Actually, according to this view, arbitration was admitted if the major
Labour Unions agreed to do so. Moreover, it was made clear by the law
that an appeal against the decision of arbitrators could be challenged by
reason of being contrary, not only to a statute provision, but also to any
collective bargained terms, thus putting Acts by the Legislator and contractual dispositions by the Labour Unions at the same level.
The alternative resolution was therefore completely relying, both procedurally and substantially, on the will of the Unions to keep labour relationships, and related disputes, out of State justice rather than into it. Insofar, doctrine refers to it as a sort of “monopoly in the hand of Labour
Unions”.
4.
The 2010 Reform by Legge n. 183/10.
Given this historical approach to arbitration, the three levels of inderogability of labour law to which we referred above (statutory inderogability,
collective bargained inderogability, case law-based inderogability), were
D.lgs. n. 165/2001 for disciplinary matters in the public sector; artt. 412 ter and quater Civil Procedure Code. See for a summary ZUCCONI GALLI FONSECA, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: bilancio e prospettive di riforma, in questa Rivista, 2008, 04, 459, as well as
B. CAPPONI, Le fonti degli arbitrati in materia di lavoro, op. cit.
(29) VALLEBONA, Una buona svolta del diritto del lavoro: il collegato 2010, in Il
Mass. Giur. lav., n. 4/2010, 210.
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actually kept and there was no way for the arbitration award to go beyond
any of them (with the exception of a certain flexibility of the judge made
law in a civil law based legal system). The respect of all these norms, statute law, collective bargaining and case law, was granted according to that
state of law.
The Reform by L. n. 183/2010 goes beyond the traditional vision of
labour law as developed within those three levels of inderogability.
The legislator has tried to strengthen the individual powers to manage
with labour relations, it has proposed to technically assist the worker whose
power to bargain is considered to be weaker then that of the employer, and
has retained statute laws as too rigid to give applicable solutions for
economy and labour relations therein involved.
The overall aim of the Reform is therefore to try to reduce the space
of the first level of inderogability, while the impact it will have on collective bargaining is highly questionable (and on the power of judges as well,
but this last point leads us beyond the scope of this article).
There are arguments to say collective bargaining is encouraged (30)
and there are also arguments to say, on the contrary, that collective bargaining has just been given chances to work with proficient labour management, but since many “substitutes to collective protections” are ready to intervene (31), those chances might be easily missed, if not frustrated.
Several criticisms to the Reform and to the opportunity therein given
to private arbitration rather than going for a lawsuit before the Tribunals,
come from the labour union’s position, considering that the Trade Unions
have traditionally supported the Italian alternative dispute resolution system, A.D.R. being mainly established within the Unions’ activity and the
collective bargaining (32).
The Reform has been questioned also because it would be in contrast
with art. 24 of the Constitution, which states the right for anyone to bring
their claim to a public trial (33). Such a criticism does not consider the fundamental “rule of contract” as the very basis of any arbitration in any legal
(30) Art. 31 co. 6 (new art. 412 ter) can be mentioned liberalizing the arbitration
within the collective bargaining.
(31) Art. 31 co. 12 states that not only the Labour Unions, but also the many “certification commissions” eventually established can manage arbitration.
(32) ICHINO and TREU argue that the Reform of arbitration would be consistent if limiting the possibility to arbitrate over rights as established and ruled by the collective bargaining. See http://www.pietroichino.it/?p=10402more-10402 (Interventi di Tiziano Treu,
Pietro Ichino e Maurizio Castro nella discussione al Senato in sesta lettura del d.d.l. n. 1167B-bis (Collegato-lavoro alla finanziaria 2010).
(33) See the opinion of ORLANDINI and Others, Come sopravvivere alla riforma del
lavoro, pubblicazione del Centro Studi Diritti & Lavoro, ottobre 2010 in http://www.fiom.cgil.it/sindacale/politiche/10_11_25-vademecum.pdf.
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system. If we agree that the parties can request an arbitration, meaning they
can make a contract over who is entitled to resolve their dispute, then they
must keep their promise or they would be in breach of contract.
This criticism too is probably rooted in the sense of the Act having
shadowed the Trade Unions; no disappointment has ever arisen over compulsory arbitration until it was supposed to be collectively bargained (as the
I.L.O. does recall: “One of the most radical forms of intervention by the
authorities in collective bargaining, directly under the terms of the law or
as a result of an administrative decision, is the imposition of compulsory
arbitration when the parties do not reach an agreement, or when a certain
number of days of strike action have elapsed”) (34).
For a deeper analysis of the Reform, we preliminarily observe that the
Legislator in 2010 has gone further away from simplifying the system: instead of introducing a unique procedure, hopefully permitting the parties to
choose the best way for them to achieve an alternative resolution (perhaps
with the patronage of their traditional assistant — the social parties’ representatives — as many specialists in labour law (35) and in civil procedure
too (36) were suggesting) the 2010 Act intervenes into the Code of Civil
Procedure to establish four brand new forms of arbitration that will be
added to the variety of those already existing. Art. 412 of the Code of Civil
Procedure has been taken as a sort of container for the several forms an arbitration may assume (37)
Io) Art. 412 Code of Civil Procedure.
A first possibility to go arbitrating now arises from the conciliation
procedure that the parties may have chosen instead of an immediate lawsuit. The conciliation committee can be an arbitrating college that the parties may charge of deciding the dispute, according not only to statute law
but also to equity. The respect of the main regulatory principles from both
national and the European Union legal system is required.
This award, as the Act says a little confusingly, will have the nature
of a contractual determination, having the effects of art. 1372 and art. 2113
(34) COLLECTIVE BARGAINING: ILO standards and the principles of the supervisory bodies see the 2001 Report on http://www.ilo.org/public/english/revue/download/pdf/
gernigon.pdf.
(35) See ICHINO and TREU in note 32.
(36) ZUCCONI GALLI FONSECA, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: bilancio e prospettive di riforma, in questa Rivista, 2008, 04, 459.
(37) The Act was approved by the Parliament in its final version in 19th October
2010, and a long debate took place in both Houses before; it was blocked by the President,
whose opinion was highlighting the risk that the Act was leading to an illegitimate detriment
of the protection of workers (see the Relation of the President also in V. FERRARI, V. PONTE,
M. FERRARI, Il Collegato Lavoro, 2010, Ed. Lex, 14).
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Civil Code 4o co. (38); nevertheless it will be subject to appeals according
to art. 808 ter Code of Civil Procedure (nullity of the arbitration agreement
and some more procedural mistakes) before the Tribunal of first instance.
The committees that can play a conciliatory role (capable of turning
into an arbitrating one) are those permanently established by the main
Trade Unions as well as those established by the public service offices
(“Direzione Provinciale del Lavoro”), whose components represent the
public service and the main public social security institutes too (39).
IIo) Art. 412 ter Code of Civil Procedure.
The provision refers to the traditional role of collective bargaining in
managing arbitration procedures. In case the arbitration is collectively bargained, then it raises the full power of the Unions to rule it.
IIIo) Art. 412 quater Code of Civil Procedure.
This new provision states that, leaving full chance to the parties to
bring their claim before an ordinary State trial, the disputes can be solved
alternatively with an “ad hoc” procedure as thereafter provided.
The provided procedure refers to an arbitrating committee composed
of representatives of the parties plus an impartial member, nominated by
agreement and chosen amongst senior lawyers and professors in any legal
disciplines. This kind of award will also have the effects of a contractual
determination according to art. 1372 and 2113, 4o co, Civil Code as in case
Io. The award, that can be delivered also on equity (if asked by the parties),
can be appealed against according to art. 808 ter Code of Civil Procedure
and the competent judge would be the Industrial Tribunal of first instance
as above.
IVo) Art. 412 quater co. 10 Code of Civil Procedure.
The parties to a labour relationship can also individually bargain to
opt for an arbitration before any dispute has risen, but only if this alternative is already ruled by the collective bargaining (40). This provision can be
(38) Art. 1372 Civ. Cod affirms that the contract is binding for the parties to each
other like a law would bind. Reformed art. 2113 Civ. Cod. states that contractual provisions
concerning a worker’s right as stated by law or by collective bargaining are void, unless assisted by Judge or by the public service, Direzione provinciale del lavoro (DPL) or by the
Trade Unions, or by the certification commissions (commissioni di certificazione ex D.lgs. n.
276/03).
(39) INPS, INAIL, respectively managing the national pension system and the national safety and health system in the work place.
(40) Moreover, this opting out clause must be certified according to art. 76 D.lgs. n.
276/2003.
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put into the individual agreement after 30 days from the beginning of the
relationship or after the trial period if to be executed.
Such a compromise agreement cannot deal with the issue of dismissal.
In case the collective bargaining does not intervene to entitle the individuals to arbitrate, then the Government maintains the chance to intervene again in the future to authorize (after consultation of the Trade
Unions) the ruling over the individually bargained arbitrating clause.
Vo) Art. 412 quater co. 12 Code of Civil Procedure.
It is lastly provided that private parties can request arbitration also via
the committees as established in 2003 by the s.c. Biagi Act (L. n. 30/03,
D.lgs. 276/03) standing for the certification of labour contracts and mainly
thought and used to avoid misclassification of workers (especially when
they are in doubt of being dependent or self employed) (41).
These certification committees can vary a lot in their composition. A
certificating college, according to the 2003 Acts, can be established by the
Labour Unions, as well as by a public office such as the Direzione Provinciale del Lavoro or the Provinces — in these cases the certification is offered as a public service. Moreover, they can be established within the
Universities, both public and private.
Finally they can be established by the “Consigli Provinciali dei Consulenti del Lavoro” the representing and managing body for professionals
dealing with labour relations regarding accountability and management of
contracts; these colleges are locally established in every Province and they
are fully composed by professionals.
This latest type of arbitrating competence is the one that can be
mainly discussed, because the body involved is generally closer to the enterprise rather than to the workers. No rule for preventing a conflict of interest is given.
We conclusively observe that, beside a relatively free arbitration that
can be proceeded before the Trade Unions committees (case IIo), the number of legally ruled arbitration procedures is increased, and increased is the
number of colleges that are competent to deal with them.
None of the new arbitration procedures can deal with disputes for social security and pensions. According to art. 444 of Code of Civil Proce-
(41) BIZZARRO, PASQUINI, TIRABOSCHI, VENTURI, The certification of employment contracts: a legal instrument for labour market regulation in Italy, in International Journals of
comparative Labour Law and industrial relations, 2010, Vol. 26, n. 1, 103; M. TIRABOSCHI,
M. DEL CONTE, Employment Contract: Disputes on Definition in the Changing Italian Labour
Law, in JILP, 2004 Report, Comparative seminar, The mechanism for establishing and changing terms and condition in employment, the scope of labour law and the notion of employee, in http://www.jil.go.jp/english/reports/documents/jilpt-reports/no1.pdf.
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dure and art. 147 Disp. Att. Code of Civil Procedure, this isn’t a subject
matter that can be arbitrated yet.
Considering again the level of inderogability, we can now understand
that much has changed through L. n. 183/10, at least in theory. Much of the
outcome will depend, in facts, on how far the operators who manage labour
relations will use the opportunity to actually adapt their culture to the new
legal scenario.
Inderogability has been openly challenged on the front of its collective bargained components (second level of inderogability) insofar the arbitration is not relying upon the initiative of the Trade Unions anymore, nor
is it managed by committees of unionists anymore, and, more important
with regards to the inderogability of norms, the collective bargained clauses
can be neglected and ignored by arbitrators.
Of course the inderogability of collective bargained rules was a strong
non-formalized principle in the years when Trade Unions were actually
playing a major role in Italian industrial relations and in Italian politics in
general. Nowadays that non-formalized principle has been weakened to “no
longer existing” because of the actual state of crisis of the major Italian
Trade Unions.
We do witness a slightly but evident relegation of the Trade Unions
power down in a shared room, where they aren’t the only actors that can
do the play, probably as a sign of the times, showing the decline of the collective dimension within industrial relations, probably as a sign of the decline of the industrial age itself. Whether the Unions of the new age will be
able to manage new strategies and necessary negotiations or not, whether
they will re-gain a capacity to be representatives of classes of workers, also
in case of solving disputes, or not, it is up to their own will to accept the
challenge, it is up to their own passion for an actual understanding of the
workers’ interest, and to their own skills in enhancing methods and practices to realize such an interest. It shouldn’t be any longer a matter of ideologies, it is rather a matter of skills, information, management, of course
in the perspective of being on behalf of workers.
5.
Arbitration in the common law English experience.
To make comparisons and have a deeper understanding of the Italian
2010 Reform, we can have a look at the common law experience.
Historically speaking, the role of arbitration in the labour field has
changed deeply through the years. Similarly to the Italian period before
World War II, when Italy was witnessing the incisive experience of the s.c.
“collegi dei probiviri” operating over any kind of labour disputes and
emerging progressively in the management of industrial labour relations,
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arbitration in the U.S.A. was operating as an autonomous institution that
someone in the past described as “labor arbitration’s golden age” (42).
Years later, in the era of employment Statutes, arbitration in labour
law has been traditionally experienced in the limited context of collective
procedures and patronized by the Trade Unions (43), while Industrial Tribunals became the natural guardians for labour rights. American scholars report that (44):
“labor arbitration was going to change dramatically from the autonomous
institution in the relatively self-contained world of union-management
relations as it had been from the end of World War II to the 1970s. When
the subject matter was largely confined to union-employer agreements,
arbitration could fairly be considered part and parcel of the collective
bargaining process itself, and the courts were more than happy to keep
hands off. When unions and employers began to make federal and state
statutes part of the agenda of arbitration, however, as happened increasingly in the 1970s, it became an entirely different story. Statutory interpretation is the special province of the courts. They are not going to let
some private arbitrator get away unchallenged with palpable misreadings
of the legislative text”.
In the UK the central role of Trade Unions in the management of arbitration is also registered (45). A public recognition of arbitral procedures
for collective labour disputes is the Central Arbitration Committee (CAC)
established in 1975 as a permanent and independent industrial relations arbitration body, which constitutes a direct descendant to the Industrial Court
established in 1919 “to provide a national government-founded facility for
this purpose” (46).
(42) An expression by FELLER, as reported by T.J. THEODORE ST. ANTOINE, The Changing Role of Labor Arbitration, 76 Ind. L.J. 83, Winter, 2001.
(43) COX, Reflection upon labour arbitration, in Harvard Law Review, Vol. 72 n. 8,
1959, 1482 — regarding the conflict between arbitral awards and judicial decision the Author suggested a decisive rule of collective bargaining for the coherent interpretation and application of the law by both arbitrators and court. He argued that in the past neither the
courts, nor the administrative agencies were offering a fair substitute to arbitration for breach
of collective agreements. These agreements were not legally enforceable and their application remained merely relying upon the mutual interdependence, therefore over moral force or
fear of an economic reprisal. He considers that a different consideration of the law by courts
and by arbitrators, of the law on collective bargaining in particular, would sharply affect the
willingness to arbitrate by the parties.
(44) THEODORE ST. ANTOINE, The Changing Role of Labor Arbitration, 76 Ind. L.J. 83,
Winter, 2001.
(45) TIRABOSCHI, Tribunali industriali e tecniche di tutela dei diritti dei lavoratori: il
caso inglese, in Dir. rel. ind., 1995, 161 ss.
(46) DEAKIN & MORRIS, Labour Law, Hart Publishing, 96. The Authors report that
from 1977 to 2004 the number of complaints brought before the Committee were 518.
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Recently, in 2001, arbitration has also been made available for individual cases (47); similarly to what is happening in Italy, the UK Government also is trying to contrast the “litigation culture” through A.D.R. and
the body charged to promote A.D.R. in labour disputes is the Advisory,
Conciliating, Arbitrating System (ACAS) introduced in 1975.
The arbitration and conciliation system operating through ACAS’s offices appears to be legally grounded, as for the matter of inderogability that
we are dealing with, on Employment Rights Act (ERA) 1996, providing for
a discipline over the possibility of the parties to contract out from employment main rights (Sec. 203) (48). We must precise that ERA 1996 is one of
(47) For a comprehensive text on arbitration, see RUBEN, F. ELKOURI, E.A. ELKOURI,
How Arbitration Works, 2008, 6th ed. it includes chapters on the scope of labor arbitration;
employee rights and benefits; remedies in arbitration; constitutional issues in public-sector
arbitration and arbitration of interest disputes. See also T. BORNSTEIN, A. GOSLINE, M. GREENnd
BAUM, Labor and Employment Arbitration, 2
ed. New York, N.Y. Matthew Bender, 1997 2 vols. For an overview on the American experience for arbitration in the non-unionized
workplace, see R.A. RICHARD, Compulsory arbitration: the grand experiment in employment,
Ithaca, N.Y. ILR Press, 1997, who provides an overview of the practice of arbitration and the
statutory and common law basis for mandatory arbitration in employment, followed by an
examination of the Equal Employment Opportunity Commission’s treatment of compulsory
arbitration.
(48) ERA 1996, Sec. 203 (Restriction on contracting out).
203 (1) Any provision in an agreement (whether a contract of employment or not) is
void in so far as it purports — (a) to exclude or limit the operation of any provision of this
Act, or (b) to preclude a person from bringing any proceedings under this Act before an industrial tribunal.
(2) Subsection (1) (a) does not apply to any provision in a collective agreement
excluding rights under section 28 if an order under section 35 is for the time being in force
in respect of it, (b) does not apply to any provision in a dismissal procedures agreement
excluding the right under section 94 if that provision is not to have effect unless an order under section 110 is for the time being in force in respect of it, (c) does not apply to any provision in an agreement if an order under section 157 is for the time being in force in respect
of it, (d) does not apply to any provision of an agreement relating to dismissal from employment such as is mentioned in section 197(1) or (3), (e) does not apply to any agreement to
refrain from instituting or continuing proceedings where a conciliation officer has taken action under section 18 of the Industrial Tribunals Act 1996, and (f) does not apply to any
agreement to refrain from instituting or continuing before an industrial tribunal any proceedings within section 18(1)(d) (proceedings under this Act where conciliation is available) of
the Industrial Tribunals Act 1996 if the conditions regulating compromise agreements under
this Act are satisfied in relation to the agreement.
(3) For the purposes of subsection (2) the conditions regulating compromise agreements under this Act are that (a) the agreement must be in writing, (b) the agreement must
relate to the particular complaint, (c) the employee or worker must have received independent legal advice from a qualified lawyer as to the terms and effect of the proposed agreement and, in particular, its effect on his ability to pursue his rights before an industrial tribunal, (d) there must be in force, when the adviser gives the advice, a policy of insurance covering the risk of a claim by the employee or worker in respect of loss arising in consequence
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the main source of statutory rights deriving from a labour relation in the
UK, and its Sec. 203 poses limits on the possibility of parties to contract
out, thus to waive to their statutory rights.
Similarly to art. 2113 in Civil Code (49), ERA 1996 Sec. 203 affirms
that an agreement is void “in so far as it purports to exclude or limit the
operation of any provision of this Act, or to preclude a person from bringing any proceedings under this Act before an industrial tribunal”. Such limits do not operate, for example, in case the agreement is made within a collective agreement; in any case, for the limitations to be not operating, the
agreement must be in writing, related to a particular complaint, and the
worker must be given independent legal advice from a qualified lawyer —
moreover “there must be in force, when the adviser gives the advice, a
policy of insurance covering the risk of a claim by the employee or worker
in respect of loss arising in consequence of the advice”.
It is important to underline, for the comparison with the Italian experience and the Italian debate over the impartiality of new possible professional arbitrators, that the ERA qualifies as “independent”, in relation to legal advice received by the worker, the advice being given by a lawyer who
is not acting in the matter for the employer or an associated employer.
In 1998 ACAS has been empowered to prepare a scheme for the resolution of unfair dismissal disputes and requests for flexible working by arbitration (50). The claimant and the employer are supposed to jointly opt for
a binding award where their case is decided upon, by an external arbitrator
appointed by ACAS (51).
ACAS conciliators can explore the possibility of arbitration with the
parties although collective procedures providing for this option do not exist.
This is intended as a speedy and non-legalistic alternative to having a
of the advice, (e) the agreement must identify the adviser, and (f) the agreement must state
that the conditions regulating compromise agreements under this Act are satisfied.
In subsection (3) “independent”, in relation to legal advice received by an employee
or worker, means that the advice is given by a lawyer who is not acting in the matter for the
employer or an associated employer, and “qualified lawyer” means — (a) as respects England
and Wales, a barrister (whether in practice as such or employed to give legal advice), or a
solicitor who holds a practicing certificate, and (b) as respects Scotland, an advocate (whether
in practice as such or employed to give legal advice), or a solicitor who holds a practicing
certificate.
(49) See note 21.
(50) See ACAS, IDS Pay Report 1054, August 2010, also in the ACAS website on:
www.acas.org.uk. See also DOYLE, Advising on ADR: the essential guide to appropriate dispute resolution, 2000, London.
(51) The arbitrator is appointed by ACAS from a panel of individuals chosen for
their practical knowledge and experience of workplace discipline and dismissal.
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complaint heard by a tribunal. Recourse to arbitration is voluntary but precludes recourse to an employment tribunal on the matter.
The ACAS website states that “arbitration is a method for resolving a
dispute in which an arbitrator’s decision is binding as a matter of law and
has the same effect as a court judgement”. Awards will be enforceable in
the High Court or County Court.
The Agreement must be in writing and it must concern an existing
dispute. The Agreement must have been reached either with the assistance
of an ACAS conciliator (a “conciliated agreement”) or through a compromise agreement conforming to the requirements of the ERA 1996. The
Agreement must be accompanied by completed Waiver Forms (52).
It is then made clear that “unlike a court, in an arbitration hearing the
Arbitrator will ask the questions”, reminding us the adversarial approach
operating in the UK Industrial Tribunals, unlike the non adversarial that is
operating in Italy (53).
We can observe that, differently from how the Italian Reform changed
the rules, according to ERA 1996 Sec. 203 the parties can opt for an arbitration rather than for a law suit only if the object of the claim is well
specified and the dispute is existing.
The 2010 Italian Reform has been strongly questioned because it
gives the employer the power to bargain an alternative to public justice also
before any real claim comes to existence, thus in a moment in which the
worker is not conscious at all of what kind of misconduct the employer
would be able to take against him (art. 412 quater, co. 10).
The ACAS Scheme, “curiously” dealing with only unfair dismissal
claims (54), is expressly not intended for cases which involve issues of EC
(52) In the waiver form it is submitted that “In agreeing to refer a dispute to arbitration under the Scheme, both parties agree to waive rights that they would otherwise have if,
for example, they had referred their dispute to the employment tribunal. This follows from
the informal nature of the Scheme, which is designed to be a confidential, relatively fast,
cost-efficient and non-legalistic process”.
(53) The so-called « adversarial approach attributes significant powers to the parties
in conducting the case; the “non adversarial” approach, as the Italian, enhances the role of
the judge in the use of case management. Theoretical analysis shows that both these methods
have limitations: “the former is effective only if the parties are in a position of substantial
equality; the latter requires a system of incentives (both procedural and organizational) ensuring that the judge exercises his prerogatives in a consistent manner” » (GIORGIANTONIO,
Quaderni di Ricerca Giuridica, Legal Services and Law Studies Department Civil Procedure
Reforms in Italy: Concentration Principle, Adversarial System or Case Management?, 2009,
September, EN, Banca d’Italia Eurosistema, in http://www.astrid-online.it/_giustizi/GIUSTIZIA-/Studi_ric/palumbo-sette_BdI_career-concerns.pdf). For a study over the failure of the
adversarial approach, see also TARUFFO, Voce Diritto processuale civile nei paesi anglosassoni, in Digesto disc. priv., VI, Torino, 1990, 324-410.
(54) We have recalled instead that the 2010 Reform is promoting arbitration for all
cases but not for unfair dismissal claims. The fact that dismissal, and the principle of reaso-
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law. “Parties who have such cases are strongly recommended to have them
heard in the employment tribunal. However, where such cases are referred
to be heard under the Scheme or cases are referred which involve matters
under the Human Rights Act 1998, the arbitrator has the power, either at
his or her own discretion or at the request of either party (and with his or
her agreement) to require the appointment of a legal adviser (...)”.
Moreover “in cases where EC law and/or the Human Rights Act 1998
are relevant a party may apply to the High Court (...) for the determination
of a preliminary point of law. Any such application must identify the question of law to be determined. The application may only be made with the
agreement of all other parties to the arbitration or with the permission of
the arbitrator and must state the grounds on which the question is to be decided by the Court. The party making the application must notify the other
party/ies and the Court must be satisfied that the determination of this point
substantially affects the rights of one or more of the parties to the arbitration”.
The point about rights being relevant under the EC law and Human
Rights Act 1998 is the answer to the matter of inderogability covering labour rights as we have dealt with above for the Italian situation.
It is evident that the English legal system chooses a preventive kind
of approach to the issue of breaching of any duty deriving from consideration of a public policy burden (broadly meant as deriving from the whole
European law and the Human Rights Act 1998).
Reasonably, any fundamental right involved can be clearly considered
by the parties as soon as their disputes have arisen. If this is the normal
case, as it should be since the parties of a labour dispute are asked (by both
the English and the Italian legal system) to be assisted by experts (unionists and/or labour lawyer and — only in Italy — professionals without a
specific degree in law), then the determination of any preliminary point of
law turns to be crucially effective to the cause of solving conflicts.
This is something arguably exportable in the Civil law experience.
The Italian Civil Code provides for an incidental judgement over the interpretation and the validity of collective bargained terms (art. 420 bis Code
of Civil Procedure) and this logic is well applicable to any other legal pro-
nableness of dismissal has been kept out from the wide possibility to arbitrate in labour law,
is a step forward in considering it as a fundamental principle in the Italian labour law. Nevertheless, there is evidence that it is a central principle in common law as well, see for
example: AUTOR, Outsourcing at will: il contributo del principio della giustificazione del licenziamento all’incremento del ricorso all’esternalizzazione della manodopera, in Riv. it. dir.
lav., 2004, I, 459-488, which shows that U.S. Tribunals, in a common law context, have systematically got rid of the dismissal at will, notwithstanding the absence of a statutory disposition in such respect.
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vision that could be thus preliminary solved before starting a proper
trial (55).
Thereafter, the English arbitration award can clearly be appealed on
the basis of breach of any right whenever some EC or HRC norms may result not respected. Fundamental rights are thus expressly protected, as well
as the rights deriving from the ratification of the European laws.
The choice of this alternative to a tribunal hearing has, however, been
low with under 50 cases dealt with to date.
Many scholars blame the formalization of the scheme, others consider
the problem taking into account only two types of jurisdictions, while the
main part of the disputes concern several jurisdictions all together.
Collective arbitration cases are today relatively rare as well, reaching,
on average, less than a hundred cases annually.
A fact is that the well known success of ACAS mainly refers to prevention of disputes and mediations, while arbitration, despite being a time
and cost saving alternative to the law suit, does not present itself as a real
alternative to the industrial tribunals, where every statutory labour right
will find consideration.
6.
Conclusions: whether Italian arbitration may lead to minimize labour
standards.
It can be concluded that, besides the criticism arising from the Trade
Unions point of view (recalling the worldwide decline of the collective dimension and representation in industrial relations), the new forms of arbitration operating in Italy and the UK are not actually putting the workers’
fundamental rights at risk, as far as the latter are clearly stated in the national legal system or in the European law.
What scares most when approaching the theme of fundamental labour
rights is that they are almost beyond definition and thus beyond comprehension. We could suggest a specification of them, helping to clarify the
subject matter, especially in these times of open society and liberalized
market necessitating faster changes and adjustments, but nevertheless it
would be up to the interpreters to give meaning to them (56).
(55) This is the opinion of DE LUCA, Judge of the Corte di Cassazione, and the idea
emerged also in some of the proposals for the reform of the civil process as elaborated by
the Foglia Commission chaired by R. FOGLIA.
(56) BIAVATI, op. cit., says that although it’s not easy to achieve a list of fundamental rights accepted all over the world, there are some basic norms that cannot be unaccepted
when considering a necessary anthropological view, precisely he thinks: “È vero che, in positivo, non è facile raggiungere un’interpretazione pienamente accettata a livello mondiale dei
diritti fondamentali; tuttavia, è ragionevole ritenere che, almeno in negativo, vi siano situa-
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The Italian 2010 Reform is not technically capable of affecting the
protection of the minimum standards in labour relations, just like the similar English system (57). What is true is that the principle of inderogability
is not rigidly concerning the whole of labour law anymore, both in Italy
and in the UK, and the three traditional levels of inderogability are clearly
decreasing to give room to the individual — technically assisted will. In
other words, globalization (with its huge offer of labour force) is increasingly pointing out that the level of labour standards can gradually reduce,
and therefore the public governance is urgently asked to state clear the borderline beyond which it is not acceptable to go.
The 2010 Reform has challenged the level of “statutory inderogability” (meant as the outcome of statutes approved by the Parliament, or by
the Government in its eventually authorized legislative powers), not less
than the level of “collective bargained inderogability” (58).
The introduction of an arbitration award given according not to legal
provision but to equity, may be presented as an argument against any fixed
level of statutory protection. Indeed, according to art. 412 and art.
412 quater (case Io and IIIo) the award is delivered according to equity
rather than according to law, upon demand of the parties (59).
The law states that the parties’ choice of going for equity is not denying the duty of arbitrators to apply the principles staying at the basis of the
whole legal system — those that make up the “public policy grounds” as
well as the main principles ruling the legal labour systems, including the
principles affirmed by the European Law (art. 412 and art. 412 quater).
It is true that the “main principles” cannot be easily listed, but some
of them are already recognized by the Italian case law (60). It is generally
at a level of case law (third level of inderogability), in particular at a level
of constitutional court case law, where the main principles ruling Italian lazioni (un facile esempio per tutti: la disuguaglianza fra uomo e donna) che confliggono con
una visualizzazione non solo prevalentemente condivisa, ma anche e soprattutto conforme ad
una corretta visione antropologica”).
(57) TARUFFO,Dimensioni transculturali della giustizia civile, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 2000, 04, 1047 for some general considerations when comparing civil law and common
law procedures.
(58) Case-law (third level of inderogability) seems also unaffected, although the Legislator made it clear that judges should pay a clear consideration to the provisions individually contracted before the certification committee (this is particularly true for cases where
the statutory law fixes only general terms and standards, ex art. 30 L. n. 183/10) and to the
conduct of parties while trying to conciliate.
(59) SILLANI, L’arbitrato di equità, Milano, 2006, 360 links the Constitutional Court
case law on equity to arbitration, as a possible case law applicable to the arbitrator’s decision
too. The Author goes ahead and beyond the distinction between equity-based-award and statute based-award, by saying that both kinds of award can be challenged on public interest and
public policy grounds.
(60) See for example the approximate list by G. GHEZZI, op. cit..
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bour law through the years are referred to. To give a few examples, Italian
judges have progressively declared that the workers cannot waive the minimum wage level according to art. 36 of the Constitution (61), that they cannot waive their right to an annual period of holiday, that they cannot waive
their right to be kept by the employer in a safe and healthy place and the
list continues (62).
Of course there is a high uncertainty while defining the list, and that
would require a detailed analysis on any single institution or group of institutions. Such analysis would be far from being easy, since we must bear
in mind that any cardinal rule governing a legal system is rigid when it is
recognized and affirmed, but nonetheless the content of these principles
should be flexibly determined according to the state of justice in a given
historical moment, and in a given case. In other words, once we have the
list of what we name as a principle, we are obliged to deal with it as a matter of interpretation in the process of making the law applicable to the real
case.
The fact that nowadays we register such tension in listing and defining the fundamental principles (this is the problem that may arise with arbitration according to equity) is the possible expression of two different
phenomena: a first interpretation of this tension could be the ethical and
moral decadence of society, a second explanation could be the decadence
of the Social State, disappointing those believing in the need for a modern
State not only to supervise the correct application of justice but also to
manage the resources to achieve a better society based upon the solidarity
principle rather than upon individuality, and upon the consequential re-distribution of means.
Considering this, it can be argued that the tension registered over the
Reform of labour law and the promotion of arbitration according to equity,
appears also as a direct effect of such uncertainty over the intervention of
the State (not only from the “possible” shadowing of collective bargaining) (63).
(61) Here we must recall, by contrast, the experience of those special collective
agreements (contratti di riallinemento o di solidarietà) dealing with redundancy and the enterprise crisis, providing for the possibility to temporarily waive the previously contracted level of wage.
(62) For a deeper analysis, it can be mentioned the case law under art. 2113 c.c. dealing with contractual arrangements deriving form labour relations, which has actually been
dealing with legal and collectively bargained terms that cannot be waived by the workers.
(63) SANDULLI, analysing collective bargaining and the right to a minimum wage that
Italian labour Unions should define according to the precept of art. 36 of the Constitution,
recalled that the Constitutional Court in 1980 clarified that the principle of inderogability favoring the worker — the weaker party — is not a fundamental one (sentenza n.141/1980);
that sentence made it clear that the public order might be considered within a merely econo-
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So far, the matter is more up on the table of the legislator rather than
on the jurist’s: it is a strictly political issue of considering some social
rights fundamental rather than others. Otherwise any interpreter of law
should bear on his shoulders the responsibility to distinguish the fundamental from the non-fundamental, which is not his ultimate aim. Of course the
Tribunals will play their political role any way, necessarily, in case the
Legislator doesn’t speak out clear.
Once the interpreter of law has the list of principles as nowadays conceived, as well as a method to search for them and to apply them, then any
arbitration award not released accordingly, would be legally unfair.
The 2010 Reform does not appear to be technically abused indeed by
anyone trying to escape from the respect of fundamental rights whenever
they are declared, insofar as any award is subjected to a control of fundamental justice according to national and international standards (64). According to art. 1418 and 1419 Civil Code, whenever the award can be told
as a purely contractual arbitration (this is surely the IIo case ex art. 412 ter)
such unfairness would be highlighted via the general regime of nullity of
the contract; in case we do face the other type of legal arbitration (Io, IIo,
IVo, Vo cases as above listed) it will be necessary to refer to art. 808 ter
and the advocate would challenge the award before the Courts by arguing
that fundamental rights have not been respected in the given compromise
agreement or in the arbitrator’s decision.
The crucial political (and then technical) problem remains the state of
uncertainty that surrounds the borderline between fundamental and nonfundamental labour rights.
Considering both Italian and English tradition it is reasonable to think
that the prevalent statutory nature of labour law is a feature justifying a
worldwide approach to labour arbitration that can be said “prudent” if
compared to the forms of arbitration in the commercial field. We have seen
that this can explain the traditional leading role played by Trade Unions in
the management of a procedure that does not automatically grant the equality of private parties.
After saying this, we can easily understand why the arbitration procedure has never represented a strong alternative to a lawsuit; this is what
emerges in numbers in both the Italian and the British-American experience.
The 2010 Act, rather than making the access to justice more effective
through the new discipline of arbitration, has introduced an easier tool for
mic meaning. The more recent sentences of Vicking, Laval etc. by the European Court of Justice registered the same trend.
(64) About the general theme of the invalidity of the contractual arbitration, see TARZIA, Nullità e annullamento del lodo arbitrale irrituale, 1991.
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capable professionals in labour relations enabling them to offer a technically valuable support in solving disputes whenever the dispute deals with
large amounts of money (and it is also complex enough that cannot reach
a conciliation) (65). Disputes over small amounts will not benefit from this
part of the Reform.
In this perspective, we can stress how important it is to grant the impartiality of any professional dealing with labour contracts (considering
also the principle of an impartial decision as affirmed in art. 6 of the Human Rights Charter). Similarly, in case of compulsory arbitration the right
to a fair decision must be granted also to those who not have enough means
to afford it.
Procedurally, in the perspective of the principle of effectiveness of accessing to justice and achieving a fair resolution, it would be important to
consider — also according to new art. 360 Civil Procedure Code, which
has set a regime of binding precedents for cases reaching the Corte di Cassazione — granting a preliminary judgment over the interpretation of legal
norms, following the example of the UK legal system for European laws,
as well as the example of Italian art. 420 bis Civil Procedure Code for collective bargaining provisions.
Both the Italian and the British system do mention the EU law as inderogable norms. Considering the ambiguous position of the European
Court of Justice about the right to strike and to collectively bargain (66)
(seen as possible losers in the fight against economic freedom), that is not
comforting in itself (67).
In the international scenario, the I.L.O. seems more convinced in promoting labour standards when facing the economic evolution (also according to its traditional tripartite constitution, which is expressing the voice of
the social parties, not only of Governments). In 2008 the International Labour Conference adopted a solemn Declaration on Social Justice for a Fair
Globalization, which provides a guide for the application of the Decent
Work approach. As recalled recently (68), it states that “the violation of
(65) The Reform legally provides for the compensation for arbitration to be 1% of
the value of the damage claimed by the worker, thus representing a questionable incentive
for private professionals to deal with small claims.
(66) See ANDREONI & VENEZIANI, Libertà economiche e diritti sociali nell’Unione Europea, Ediesse, 2010.
(67) One can find some reflections about the naturalistic philosophical fundaments of
Adam Smith’s greatest theory of the “invisible hand” in G. ALPA, La c.d. giuridificazione
delle logiche dell’economia di mercato, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 03, 725 (since
Adam Smith’s theory comes from such naturalistic fundaments, the Author underlines the
nature of Adam Smith’s theory to be founded not on reality, but rather on metaphysical assumptions).
(68) CONFERENCE ON THE NEW FRONTIERS OF INTERNATIONAL AND EUROPEAN LABOUR LAW
(Rome-8Nov2010-KariTapiola-finalversion, on the ILO website).
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fundamental principles and rights at work cannot be invoked or otherwise
used as a legitimate comparative advantage and that labour standards
should not be used for protectionist purposes”.
The common feature of institutionalized international labour standards
is the weakness in the mechanism for enforcing them. Nevertheless, some
potentially significant mechanisms are under consideration: one strategy is
to make compliance with such standards a condition of international trade
agreements (69). There are a number of social clauses included in trade
agreements, or used by international corporations “keen to advertise themselves as upholders of ethical business practice, so ‘privatising’ labour
standards” (70), but it must be stressed that, as studies have demonstrated,
the protection of labour standards will hardly be grounded on the sole economic power of these enterprises, and that the need for an independent supervision remains anyway (71).
These conclusions should not lead to underestimate the importance of
procedural changes affecting industrial relations.
There is an interesting study which explains how the shape and procedures of a legal system determine labour relations and labour standards (72). The Authors of the study recall that there are three main theories
explaining why labour relations are ruled one way or the other: the first one
is the theory of efficiency, arguing that the ruling is aimed at gaining the
maximum profit and the best economic result. Then the theory of political
power, arguing that the ruling is aimed at letting the strongest power (be it
a political party or a group of interest) gain the maximum benefit. This is
the theory whose practical demonstration is the most controversial, and the
indicators used by the Authors result in being quite inconsistent themselves.
The third theory argues that the ruling is not something with a proper purpose, that it is just a result of the legal system as derived from the tradition, meaning that common law and civil law based countries have a different way to approach labour relations not so much because of politics or
(69) DEAKIN & MORRIS, Labour law, 2005, Hart Publishing, 110.
(70) See also HAPPLE, Labour laws and global trade, 2005, Hart Publishing.
(71) As already observed when considering the relation between human rights and
economy it’s not a matter of priority in term of higher value. In other words, it is not an autaut choice and requires a balanced approach. Nevertheless, the relation between economy and
social rights requires the setting of a priority in terms of time: first the economy, then the distribution of what the economy has produced. In other words, the question of what to produce, how much and how (it doesn’t matter if we are acting in a socialist or liberal economy)
rises in a logical moment that precedes the decision on how to distribute the production.
(72) See the comparative analysis by BOTERO and others, Che cosa determina il modello di regolazione del lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2005, 2, 149. The study wanted to analyse
which factors are or can be those determining the model of regulation over labour relationships in a given country.
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efficiency as a market goal, but due to their different legal institutions as
inherited from colonization and historic migration.
The study suggests that the formalities that characterize civil law legal systems (high level of inderogability of both first and second level) is
not always the key for higher standards, but it reminds nonetheless that a
different legal culture is hardly transmissible into another legal system.
A common remedy, as well as a possible trait d’union to connect the
Civil law legal system and the common law when approaching A.D.R. is
certainly the commitment to make them and their awards as much transparent as they can be, for their users and their potential users to clearly understand the benefits and the risks they may face before deciding not to go to
Tribunals. In this respect, a system for publication of the given awards is
to be highly suggested.
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DOCUMENTI E NOTIZIE
Una nuova riforma dell’arbitrato in Spagna
Si riporta qui di seguito il testo della Ley n. 11 del 20 maggio 2011 (pubblicata nel Boletı́n Oficial del Estado del 21 maggio 2011), con la quale il legislatore
spagnolo è nuovamente intervenuto sulla disciplina dell’arbitrato. La Rivista dedicherà, nei prossimi fascicoli, apposito commento a tale riforma.
8847. Ley 11/2011, de 20 de mayo, de reforma de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje y de regulación del arbitraje institucional en la Administración General del Estado.
JUAN CARLOS I
REY DE ESPAÑA
A todos los que la presente vieren y entendieren
Sabed: Que las Cortes Generales han aprobado y Yo vengo en sancionar la siguiente ley.
PREÁMBULO
I
La vigente Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje, ha supuesto un
avance cualitativo de entidad en la regulación de esta institución, estableciendo un
nuevo marco para el arbitraje interno e internacional que toma como referencia la
Ley Modelo de la UNCITRAL, sobre el arbitraje comercial, aprobada el 21 de junio de 1985.
Sin ánimo de exhaustividad, los logros de esta Ley pasan por la formulación
unitaria del arbitraje, el reconocimiento del arbitraje internacional, el aumento de
la disponibilidad arbitral, sus reglas sobre notificaciones, comunicaciones y plazos,
el apoyo judicial al arbitraje o su antiformalismo.
Sin embargo, dentro del impulso de modernización de la Administración de
Justicia, que también incluye la aprobación de una futura Ley de mediación en
asuntos civiles y mercantiles, se trata ahora de modificar algún aspecto de la Ley
60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje, que en la práctica se ha mostrado mejorable y que contribuya al fomento de los medios alternativos de solución de conflictos y, en especial, del arbitraje, al que las sentencias del Tribunal Constitucional
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43/1988 y 62/1991 ya reconocieron la consideración de « equivalente jurisdiccional ».
II
Con este propósito de impulsar el arbitraje, la presente Ley comienza por llevar a cabo una reasignación de las funciones judiciales en relación con el arbitraje,
tanto las funciones de apoyo, como el conocimiento de la acción de anulación del
laudo y el exequátur de laudos extranjeros, que permita dar más uniformidad al
sistema mediante una « elevación » de determinadas funciones. Se trata, en concreto, de las relativas al nombramiento y remoción judicial de árbitros, el conocimiento de la acción de anulación del laudo y la competencia para conocer el exequátur de los laudos extranjeros, que ahora se atribuyen a las Salas de lo Civil y de
lo Penal de los Tribunales Superiores de Justicia, manteniéndose en los Tribunales
de Primera Instancia la competencia de ejecución. Estos cambios han llevado a dar
una nueva redacción al artı́culo 8 de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje, ası́ como a modificar la Ley de Enjuiciamiento Civil de 3 de febrero de 1881.
La Ley también aclara, mediante la inclusión de dos nuevos preceptos en la
Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje, las dudas existentes en relación con
el arbitraje estatutario en las sociedades de capital. Con la modificación se reconoce
la arbitrabilidad de los conflictos que en ellas se planteen, y en lı́nea con la seguridad y trasparencia que guı́a la reforma con carácter general, se exige una mayorı́a legal reforzada para introducir en los estatutos sociales una cláusula de sumisión a arbitraje. Junto a ello también se establece que el sometimiento a arbitraje,
de la impugnación de acuerdos societarios, requiere la administración y designación de los árbitros por una institución arbitral.
Otras modificaciones de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje,
buscan incrementar tanto la seguridad jurı́dica como la eficacia de estos procedimientos a la vista de la experiencia de estos últimos años. Con ello se pretende
mejorar las condiciones para que definitivamente se asienten en España arbitrajes
internacionales, sin desdeñar que al tratarse de una regulación unitaria, también se
favorecerán los arbitrajes internos. De la misma forma se procede a reforzar el papel de las instituciones arbitrales, ası́ como a una mejor estructuración del nombramiento de los árbitros, abriendo el abanico de profesionales, con conocimientos jurı́dicos que pueden intervenir en el mismo, cuando se trata de un arbitraje de derecho. Pero, también, previendo, de forma expresa, que es posible la intervención de
otro tipo de profesionales, no necesariamente pertenecientes a dicho campo del conocimiento, pues la experiencia internacional plenamente asentada aconsejaba dicha reforma, y ello sin olvidar que de esa manera se produce un mayor acoplamiento a la « libre competencia » que reclaman las instituciones de la Unión Europea. También se concretan las incompatibilidades, en relación con la intervención
en una mediación, y se regula la necesidad de asegurar las responsabilidades.
En cuanto a la sustanciación del procedimiento arbitral, se articula un nuevo
sistema respecto al idioma del arbitraje, con el que se incrementan las garantı́as del
procedimiento, al reconocerse la posibilidad de utilizar la lengua propia por las
partes, por los testigos y peritos, y por cualesquiera terceras personas que intervengan en el procedimiento arbitral. Respecto del laudo, las modificaciones se han
centrado en el plazo y forma del laudo. Ası́, se modula una solución, a favor del
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arbitraje, para los casos en que el laudo se dicta fuera de plazo, sin perjuicio de la
responsabilidad de los árbitros. También se precisan sus formalidades y se exige
siempre la motivación de los laudos. Además, se establece un remedio especı́fico
para poder rectificar la extralimitación parcial del laudo cuando se haya resuelto
sobre cuestiones no sometidas a su decisión o sobre cuestiones no susceptibles de
arbitraje.
La anulación y revisión del laudo también es objeto de reforma. La acción de
anulación recibe una modificación relevante: a partir de ahora se procede a una
mejor articulación del procedimiento. Por otro lado, tras la reforma, se elimina la
distinción entre laudo definitivo y firme, estableciendo que el laudo produce los
efectos de cosa juzgada, aunque se ejerciten contra él las acciones de anulación o
revisión, lo que supone que puede ser ejecutado forzosamente si no concurre cumplimiento voluntario.
III
Es de reseñar la importancia de la disposición adicional única de esta Ley, en
la que se regula un cauce procedimental de carácter ordinario e institucional para
resolver los conflictos internos entre la Administración General del Estado y sus
Entes instrumentales, superando los actuales mecanismos de facto, ajenos al rigor
jurı́dico y a la objetividad que son imprescindibles en una organización que, por
imperativo constitucional, ha de estar regida por el Derecho y actuar al servicio de
los intereses generales bajo la dirección del Gobierno. La indudable naturaleza jurı́dico pública de las relaciones de organización en el seno de la Administración
hacen imprescindible un procedimiento ordinario de resolución de conflictos como
el que ahora se configura, más allá de soluciones meramente parciales como pueden ser las ofrecidas por una determinada lı́nea jurisprudencial que ha venido negando a los organismos autónomos legitimación para impugnar los actos de la Administración matriz; lı́nea que hoy encuentra una confirmación legal en el artı́culo
20.c) de la Ley 29/1998, de 13 de julio, Reguladora de la Jurisdicción Contencioso-Administrativa.
Se entiende que esos conflictos deben ser resueltos por el Gobierno por lo que
al efecto se crea una Comisión Delegada cuya presidencia se otorga al Ministro de
la Presidencia, en su función coordinadora de la Administración General del Estado, siendo miembros natos el Ministro de Economı́a y Hacienda y el Ministro de
Justicia. Asimismo, la secretarı́a se encarga al Ministerio de Justicia en atención a
sus funciones y a la adscripción de los Servicios Jurı́dicos del Estado.
IV
Adicionalmente se modifica el artı́culo 722 de la Ley 1/2000, de 7 de enero,
de Enjuiciamiento Civil, en el sentido de permitir solicitar medidas cautelares a
quien acredite ser parte en un convenio arbitral con anterioridad a las actuaciones
arbitrales, posibilitando con ello una mayor compatibilidad entre lo que se establece en materia de arbitraje y en dicha norma.
Por último, ligada a la reforma de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje se encuentra la reforma del artı́culo 52.1 de la Ley 22/2003, de 9 de julio,
Concursal. La nueva redacción se adapta a las soluciones comunitarias en la mate355
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ria y elimina la incoherencia existente hasta la fecha entre los dos apartados del artı́culo 52. Se pretende con ella mantener la vigencia del convenio arbitral siempre
que se proyecte sobre meras acciones civiles que, pese a que pudieran llegar a tener trascendencia patrimonial sobre el deudor concursal, podrı́an haberse planteado
con independencia de la declaración del concurso. Es el caso, entre otras, de las
acciones relativas a la existencia, validez o cuantı́a de un crédito, las destinadas al
cobro de deudas a favor del deudor, las acciones reivindicatorias de propiedad sobre bienes de un tercero en posesión del deudor concursal y los litigios relativos a
planes de reorganización concluidos entre el deudor y sus acreedores antes de la
declaración de apertura. No obstante lo anterior, se faculta al órgano jurisdiccional
competente, para suspender de efectos los pactos o convenios arbitrales previamente suscritos, si entendiese que los mismos pueden suponer un perjuicio para la
tramitación del concurso.
Artı́culo único.
Modificación de la Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje.
Se introducen las siguientes modificaciones en la Ley 60/2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje.
Uno. Los apartados 1, 4, 5 y 6 del artı́culo 8 pasan a tener la siguiente redacción:
« 1. Para el nombramiento y remoción judicial de árbitros será competente la
Sala de lo Civil y de lo Penal del Tribunal Superior de Justicia de la Comunidad
Autónoma donde tenga lugar el arbitraje; de no estar éste aún determinado, la que
corresponda al domicilio o residencia habitual de cualquiera de los demandados; si
ninguno de ellos tuviere domicilio o residencia habitual en España, la del domicilio o residencia habitual del actor, y si éste tampoco los tuviere en España, la de su
elección. »
« 4. Para la ejecución forzosa de laudos o resoluciones arbitrales será competente el Juzgado de Primera Instancia del lugar en que se haya dictado de acuerdo
con lo previsto en el apartado 2 del artı́culo 545 de la Ley 1/2000, de 7 de enero,
de Enjuiciamiento Civil. »
« 5. Para conocer de la acción de anulación del laudo será competente la Sala
de lo Civil y de lo Penal del Tribunal Superior de Justicia de la Comunidad Autónoma donde aquél se hubiere dictado. »
« 6. Para el reconocimiento de laudos o resoluciones arbitrales extranjeros
será competente la Sala de lo Civil y de lo Penal del Tribunal Superior de Justicia
de la Comunidad Autónoma del domicilio o lugar de residencia de la parte frente
a la que se solicita el reconocimiento o del domicilio o lugar de residencia de la
persona a quien se refieren los efectos de aquellos, determinándose subsidiariamente la competencia territorial por el lugar de ejecución o donde aquellos laudos
o resoluciones arbitrales deban producir sus efectos.
Para la ejecución de laudos o resoluciones arbitrales extranjeros será competente el Juzgado de Primera Instancia con arreglo a los mismos criterios. »
Dos. El apartado 1 del artı́culo 11 queda redactado de la siguiente forma:
« 1. El convenio arbitral obliga a las partes a cumplir lo estipulado e impide
a los tribunales conocer de las controversias sometidas a arbitraje, siempre que la
parte a quien interese lo invoque mediante declinatoria.
356
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El plazo para la proposición de la declinatoria será dentro de los diez primeros dı́as del plazo para contestar a la demanda en las pretensiones que se tramiten
por el procedimiento del juicio ordinario, o en los diez primeros dı́as posteriores a
la citación para vista, para las que se tramiten por el procedimiento del juicio verbal. »
Tres. Se introducen dos nuevos artı́culos 11 bis y 11-ter con la siguiente redacción: « Artı́culo 11 bis. Arbitraje estatutario.
1. Las sociedades de capital podrán someter a arbitraje los conflictos que en
ellas se planteen.
2. La introducción en los estatutos sociales de una cláusula de sumisión a arbitraje requerirá el voto favorable de, al menos, dos tercios de los votos correspondientes a las acciones o a las participaciones en que se divida el capital social.
3. Los estatutos sociales podrán establecer que la impugnación de los acuerdos sociales por los socios o administradores quede sometida a la decisión de uno
o varios árbitros, encomendándose la administración del arbitraje y la designación
de los árbitros a una institución arbitral. »
« Artı́culo 11 ter. Anulación por laudo de acuerdos societarios inscribibles.
1. El laudo que declare la nulidad de un acuerdo inscribible habrá de inscribirse en el Registro Mercantil. El « Boletı́n Oficial del Registro Mercantil » publicará un extracto.
2. En el caso de que el acuerdo impugnado estuviese inscrito en el Registro
Mercantil, el laudo determinará, además, la cancelación de su inscripción, ası́ como
la de los asientos posteriores que resulten contradictorios con ella. »
Cuatro. Se modifica la letra a) del apartado 1 y se añade un nuevo apartado 3,
ambos en el artı́culo 14, que quedan redactados de la siguiente forma:
« a) Corporaciones de Derecho público y Entidades públicas que puedan desempeñar funciones arbitrales, según sus normas reguladoras. »
« 3. Las instituciones arbitrales velarán por el cumplimiento de las condiciones de capacidad de los árbitros y por la transparencia en su designación, ası́ como
su independencia. »
Cinco. Se da nueva redacción a los apartados 1 y 7 del artı́culo 15 que quedan redactados como sigue:
« 1. Salvo acuerdo en contrario de las partes, en los arbitrajes que no deban
decidirse en equidad, cuando el arbitraje se haya de resolver por árbitro único se
requerirá la condición de jurista al árbitro que actúe como tal.
Cuando el arbitraje se haya de resolver por tres o más árbitros, se requerirá
que al menos uno de ellos tenga la condición de jurista. »
« 7. Contra las resoluciones definitivas que decidan sobre las cuestiones atribuidas en este artı́culo al tribunal competente no cabrá recurso alguno. »
Seis. Se añade un nuevo apartado 4 al artı́culo 17 con la siguiente redacción:
« 3. Salvo acuerdo en contrario de las partes, el árbitro no podrá haber intervenido como mediador en el mismo conflicto entre éstas. »
Siete. Se añade un segundo párrafo nuevo al apartado 1 del artı́culo 21 con la
siguiente redacción:
« Se exigirá a los árbitros o a las instituciones arbitrales en su nombre la contratación de un seguro de responsabilidad civil o garantı́a equivalente, en la cuantı́a que reglamentariamente se establezca. Se exceptúan de la contratación de este
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seguro o garantı́a equivalente a las Entidades públicas y a los sistemas arbitrales
integrados o dependientes de las Administraciones públicas. »
Ocho. Se modifica el apartado 1 del artı́culo 28 quedando redactado en los siguientes términos:
« 1. Las partes podrán acordar libremente el idioma o los idiomas del arbitraje. A falta de acuerdo, y cuando de las circunstancias del caso no permitan delimitar la cuestión, el arbitraje se tramitará en cualquiera de las lenguas oficiales en
el lugar donde se desarrollen las actuaciones. La parte que alegue desconocimiento
del idioma tendrá derecho a audiencia, contradicción y defensa en la lengua que
utilice, sin que esta alegación pueda suponer la paralización del proceso.
Salvo que en el acuerdo de las partes se haya previsto otra cosa, el idioma o
los idiomas establecidos se utilizarán en los escritos de las partes, en las audiencias, en los laudos y en las decisiones o comunicaciones de los árbitros, sin perjuicio de lo señalado en el párrafo primero.
En todo caso, los testigos, peritos y terceras personas que intervengan en el
procedimiento arbitral, tanto en actuaciones orales como escritas, podrán utilizar su
lengua propia. En las actuaciones orales se podrá habilitar como intérprete a cualquier persona conocedora de la lengua empleada, previo juramento o promesa de
aquella. »
Nueve. Los apartados 2, 3 y 4 del artı́culo 37 pasan a tener la siguiente redacción:
« 2. Salvo acuerdo en contrario de las partes, los árbitros deberán decidir la
controversia dentro de los seis meses siguientes a la fecha de presentación de la
contestación a que se refiere el artı́culo 29 o de expiración del plazo para presentarla. Salvo acuerdo en contrario de las partes, este plazo podrá ser prorrogado por
los árbitros, por un plazo no superior a dos meses, mediante decisión motivada.
Salvo acuerdo en contrario de las partes, la expiración del plazo sin que se haya
dictado laudo definitivo no afectará a la eficacia del convenio arbitral ni a la validez del laudo dictado, sin perjuicio de la responsabilidad en que hayan podido incurrir los árbitros. »
« 3. Todo laudo deberá constar por escrito y ser firmado por los árbitros,
quienes podrán dejar constancia de su voto a favor o en contra. Cuando haya más
de un árbitro, bastarán las firmas de la mayorı́a de los miembros del colegio arbitral o sólo la de su presidente, siempre que se manifiesten las razones de la falta de
una o más firmas.
A los efectos de lo dispuesto en el párrafo anterior, se entenderá que el laudo
consta por escrito cuando de su contenido y firmas quede constancia y sean accesibles para su ulterior consulta en soporte electrónico, óptico o de otro tipo. »
« 4. El laudo deberá ser siempre motivado, a menos que se trate de un laudo
pronunciado en los términos convenidos por las partes conforme al artı́culo anterior. »
Diez. La rúbrica y los apartados 1, 2 y 4 del artı́culo 39 pasan a tener la siguiente redacción:
« Artı́culo 39. Corrección, aclaración, complemento y extralimitación del
laudo. »
« 1. Dentro de los diez dı́as siguientes a la notificación del laudo, salvo que
las partes hayan acordado otro plazo, cualquiera de ellas podrá, con notificación a
la otra, solicitar a los árbitros:
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a) La corrección de cualquier error de cálculo, de copia, tipográfico o de naturaleza similar.
b) La aclaración de un punto o de una parte concreta del laudo.
c) El complemento del laudo respecto de peticiones formuladas y no resueltas en él.
d) La rectificación de la extralimitación parcial del laudo, cuando se haya resuelto sobre cuestiones no sometidas a su decisión o sobre cuestiones no susceptibles de arbitraje. »
« 2. Previa audiencia de las demás partes, los árbitros resolverán sobre las solicitudes de corrección de errores y de aclaración en el plazo de diez dı́as, y sobre
la solicitud de complemento y la rectificación de la extralimitación, en el plazo de
veinte dı́as. »
« 4. Lo dispuesto en el artı́culo 37 se aplicará a las resoluciones arbitrales sobre corrección, aclaración, complemento y extralimitación del laudo. »
Once. Se modifica el apartado 1 del artı́culo 42, cuya redacción pasa a ser la
siguiente:
« 1. La acción de anulación se sustanciará por los cauces del juicio verbal, sin
perjuicio de las siguientes especialidades:
a) La demanda deberá presentarse conforme a lo establecido en el artı́culo 399
de la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil, acompañada de los documentos justificativos de su pretensión, del convenio arbitral y del laudo, y, en su
caso, contendrá la proposición de los medios de prueba cuya práctica interese el
actor.
b) El Secretario Judicial dará traslado de la demanda al demandado, para que
conteste en el plazo de veinte dı́as. En la contestación, acompañada de los documentos justificativos de su oposición, deberá proponer todos los medios de prueba
de que intente valerse. De este escrito, y de los documentos que lo acompañan, se
dará traslado al actor para que pueda presentar documentos adicionales o proponer
la práctica de prueba.
c) Contestada la demanda o transcurrido el correspondiente plazo, el Secretario Judicial citará a la vista, si ası́ lo solicitan las partes en sus escritos de demanda
y contestación. Si en sus escritos no hubieren solicitado la celebración de vista, o
cuando la única prueba propuesta sea la de documentos, y éstos ya se hubieran
aportado al proceso sin resultar impugnados, o en el caso de los informes periciales no sea necesaria la ratificación, el Tribunal dictará sentencia, sin más trámite. »
Doce. El artı́culo 43 pasa a tener la siguiente redacción:
« Artı́culo 43. Cosa juzgada y revisión de laudos.
El laudo produce efectos de cosa juzgada y frente a él sólo cabrá ejercitar la
acción de anulación y, en su caso, solicitar la revisión conforme a lo establecido en
la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil para las sentencias firmes. »
Disposición adicional única.
Controversias jurı́dicas en la Administración General del Estado
y sus organismos públicos.
1. Las controversias jurı́dicas relevantes que se susciten entre la Administración General del Estado y cualquiera de los organismos públicos regulados en el
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tı́tulo III y la disposición adicional novena de la Ley 6/1997, de 14 de abril, de organización y funcionamiento de la Administración General del Estado, o las Entidades Gestoras y Servicios Comunes de la Seguridad Social u otras entidades de
Derecho público reguladas por su legislación especı́fica que se determinen reglamentariamente, o entre dos o más de estos Entes, se resolverán por el procedimiento previsto en este precepto, sin que pueda acudirse a la vı́a administrativa ni
jurisdiccional para resolver estas controversias.
Este procedimiento será, asimismo, aplicable a las controversias jurı́dicas que
se susciten entre las sociedades mercantiles estatales y las fundaciones del sector
público estatal con su Ministerio de tutela, la Dirección General de Patrimonio o
los organismos o entidades públicas que ostenten la totalidad del capital social o
dotación de aquellas, salvo que se establezcan mecanismos internos de resolución
de controversias.
2. A los efectos de esta disposición, se entenderán por controversias jurı́dicas
relevantes aquellas que, con independencia de su cuantı́a generen o puedan generar un elevado número de reclamaciones, que tengan una cuantı́a económica de al
menos 300.000 euros o que, a juicio de una de las partes, sea de esencial relevancia para el interés público.
3. Planteada una controversia, las partes enfrentadas la pondrán, de forma inmediata, en conocimiento de la Comisión Delegada del Gobierno para la Resolución de Controversias Administrativas. Dicha Comisión estará presidida por el Ministro de la Presidencia y tendrán la consideración de vocales natos el Ministro de
Economı́a y Hacienda y el Ministro de Justicia, correspondiendo también a éste
designar dentro de su ámbito al órgano que ejerza la secretarı́a de la Comisión. Se
integrarán en la Comisión el Ministro o Ministros de los Departamentos afectados
por la controversia, en los términos que se determine reglamentariamente.
4. Dicha Comisión Delegada recabará los informes técnicos y jurı́dicos que
estime necesarios para el mejor conocimiento de la cuestión debatida. Por la secretarı́a de dicha Comisión se elaborarán las propuestas de decisión oportunas.
5. La Comisión Delegada del Gobierno para la Resolución de Controversias
Administrativas dictará resolución estableciendo de forma vinculante para las partes las medidas que cada una de ellas deberá adoptar para solucionar el conflicto o
controversia planteados. La resolución de la Comisión Delegada no será recurrible
ante los Tribunales de Justicia por las partes en conflicto.
6. Este procedimiento de resolución de controversias no se aplicará:
a) A cuestiones de naturaleza penal, pero sı́ a las relativas al ejercicio de las
acciones civiles derivadas de delitos o faltas.
b) A cuestiones de responsabilidad contable que sean competencia del Tribunal de Cuentas, sujetas a la legislación especı́fica reguladora de éste.
c) A conflictos de atribuciones entre distintos órganos de una misma Administración pública, que se regularán por sus disposiciones especı́ficas.
d) A las cuestiones derivadas de las actuaciones de control efectuadas por la
Intervención General de la Administración del Estado, reguladas con carácter especı́fico en la Ley 47/2003, de 26 de noviembre, General Presupuestaria, en la Ley
38/2003, de 17 de noviembre, General de Subvenciones, y demás normas de desarrollo de las mismas.
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Disposición final primera.
Modificación de la Ley de Enjuiciamiento Civil
aprobada por Real Decreto de 3 de febrero de 1881.
El artı́culo 955 pasa a tener la siguiente redacción:
« Artı́culo 955.
Sin perjuicio de lo dispuesto en los tratados y otras normas internacionales, la
competencia para conocer de las solicitudes de reconocimiento y ejecución de sentencias y demás resoluciones judiciales extranjeras, ası́ como de acuerdos de mediación extranjeros, corresponde a los Juzgados de Primera Instancia del domicilio
o lugar de residencia de la parte frente a la que se solicita el reconocimiento o ejecución, o del domicilio o lugar de residencia de la persona a quien se refieren los
efectos de aquéllas; subsidiariamente la competencia territorial se determinará por
el lugar de ejecución o donde aquellas sentencias y resoluciones deban producir sus
efectos.
Con arreglo a los mismos criterios señalados en el párrafo anterior, corresponderá a los Juzgados de lo Mercantil conocer de las solicitudes de reconocimiento y
ejecución de sentencias y demás resoluciones judiciales extranjeras que versen sobre materias de su competencia.
La competencia para el reconocimiento de los laudos o resoluciones arbitrales
extranjeros, corresponde, con arreglo a los criterios que se establecen en el párrafo
primero de este artı́culo, a las Salas de lo Civil y de lo Penal de los Tribunales Superiores de Justicia, sin que quepa ulterior recurso contra su decisión. La competencia para la ejecución de laudos o resoluciones arbitrales extranjeros corresponde
a los Juzgados de Primera Instancia, con arreglo a los mismos criterios. »
Disposición final segunda.
Modificación de la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil.
Se modifica el primer párrafo del artı́culo 722 que pasa a tener la siguiente
redacción:
« Podrá pedir al Tribunal medidas cautelares quien acredite ser parte de convenio arbitral con anterioridad a las actuaciones arbitrales. También podrá pedirlas
quien acredite ser parte de un proceso arbitral pendiente en España; o, en su caso,
haber pedido la formalización judicial a que se refiere el artı́culo 15 de la Ley 60/
2003, de 23 de diciembre, de Arbitraje; o en el supuesto de un arbitraje institucional, haber presentado la debida solicitud o encargo a la institución correspondiente
según su Reglamento. »
Disposición final tercera.
Modificación de la Ley 22/2003, de 9 de julio, Concursal.
Uno. Se modifica el número 4.o del artı́culo 8:
« 4.o Toda medida cautelar que afecte al patrimonio del concursado excepto
las que se adopten en los procesos que quedan excluidos de su jurisdicción en el
párrafo 1.o de este precepto y, en su caso, de acuerdo con lo dispuesto en el artı́culo 52, las adoptadas por los árbitros en las actuaciones arbitrales, sin perjuicio de
la competencia del juez para acordar la suspensión de las mismas, o solicitar su le361
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vantamiento, cuando considere que puedan suponer un perjuicio para la tramitación
del concurso. »
Dos. El apartado 1 del artı́culo 52 pasa a tener la siguiente redacción:
« 1. La declaración de concurso, por sı́ sola, no afecta a los pactos de mediación ni a los convenios arbitrales suscritos por el concursado. Cuando el órgano jurisdiccional entendiera que dichos pactos o convenios pudieran suponer un perjuicio para la tramitación del concurso podrá acordar la suspensión de sus efectos,
todo ello sin perjuicio de lo dispuesto en los tratados internacionales. »
Disposición final cuarta.
Tı́tulo competencial.
Esta Ley se dicta al amparo de la competencia exclusiva del Estado en materia de legislación mercantil, procesal y civil, establecida en el artı́culo 149.1.6.a y
8.a de la Constitución.
Disposición final quinta.
Entrada en vigor.
La presente Ley entrará en vigor a los veinte dı́as de su publicación en el
« Boletı́n Oficial del Estado ».
Por tanto,
Mando a todos los españoles, particulares y autoridades, que guarden y hagan
guardar esta ley.
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Notizie libri
Punteggiato da isolate quanto fondamentali pronunce della Corte di giustizia,
nonché, in anticipo o a seguito di queste, da riflessioni settoriali della dottrina alle
più varie latitudini, il tema dei rapporti fra arbitrato e diritto (sostanziale e processuale) di origine comunitaria è ora oggetto della lodevole trattazione organica di
Carlo RASIA, Tutela giurisdizionale europea e arbitrato, Bononia University Press,
2010 (pp. 358).
L’esordio è dedicato al « mélange d’amour et de haine », condito altresı̀ da
non poca indifferenza) che connota in termini generali la relazione dell’ordinamento europeo con l’arbitrato.
Seguono tre fondamentali poli d’indagine: gli arbitri ed il rinvio pregiudiziale;
l’applicazione del diritto sostanziale comunitario in arbitrato, con la implicazione
essenziale della rilevanza dell’ordine pubblico comunitario in fase arbitrale come
in fase post-arbitrale (impugnazione del lodo nel paese di origine e sua circolazione
all’estero); la giustapposizione fra l’universo arbitrale ed il sistema « Bruxelles »
vale a dire il sistema comunitario di cooperazione giudiziaria.
I tre poli rappresentano, per cosı̀ dire, rispettivamente (ed anche per ragioni
contingenti) l’origine, il passato recentissimo, e l’attualità in evoluzione di ogni riflessione su arbitrato e diritto comunitario. La cortina sul futuro è poi dischiusa nel
breve paragrafo finale dedicato ad un ipotetico « arbitrato europeo ».
L’A. riesce nel non semplice compito di collegare intelligentemente fra loro i
vari profili dell’indagine, senza fare dei suoi tre poli (e ve ne era il rischio) monadi
incomunicanti.
Ancora più apprezzabile è che la accuratezza e la profondità di tante analisi e
perfino la complessità di alcune soluzioni non scalfiscano mai la chiarezza e la
semplicità della scrittura, al punto che di un’opera cosı̀, ben meritevole di attenzione anche fuori dei confini, non può che auspicarsi una futura edizione in lingua
inglese. [A.B.]
Prende avvio, su iniziativa dell’Istituto Superiore di Studi sull’Arbitrato, e del
suo instancabile promotore, Carmine Punzi, la pubblicazione dei Quaderni dell’Arbitrato.
Il primo « Quaderno » (Edizioni Lapis, 2011, pp. 183) raccoglie gli atti del
congresso organizzato in Roma il 5 febbraio 2010, dello stesso ISSA, in collaborazione con la ICC, su « La prova nell’arbitrato internazionale ». Sul tema, attualissimo, denso ed intricato quanti altri mai, si leggono e si apprezzano, di seguito agli
indirizzi di saluto del Pres. Giorgio Santacroce, la relazione introduttiva di Punzi e
quelle di P. Bernardini, A. Carlevaris, J. Blackman, V. Chessa, L. Malintoppi, A.
Mourre, D. Corapi, S.M. Carbone, F. Emanuele, T. Giovannini e V. Renna. [A.B.]
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