SOMMARIO SOMMARIO .................................................................................................. 1 Introduzione.................................................................................................... 4 Fonti e bibliografia ............................................................................... 10 Piano dell’opera .................................................................................... 11 CAPITOLO 1: La tutela dei Diritti Umani da parte della Corte di Giustizia in relazione ai cittadini di Stati terzi ...................................................................... 13 I diritti fondamentali dai Trattati istitutivi allo sviluppo della tutela da parte della Corte di Giustizia ............................................................................. 13 La sentenza Stauder .............................................................................. 16 Le sentenze Internationale Handelsgesellschaft e Nold ....................... 17 La sentenza Hauer ................................................................................ 18 Il test di proporzionalità ........................................................................... 19 L’approccio razionalista alla tutela dei diritti umani da parte della Corte di Giustizia Europea........................................................................................... 21 La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ...................... 23 La politica migratoria dell’Unione Europea e la tutela dei Diritti Fondamentali dei soggetti sprovvisti della cittadinanza europea ...................... 24 Quadro normativo del Consiglio d’Europa e della CEDU ................... 26 Quadro normativo dell’Unione Europea .............................................. 27 Evoluzione storica della politica migratoria nell’integrazione europea ... 29 La Comunicazione COM(74)2250: basi per l’evoluzione successiva. 30 La Comunicazione COM(85)48def. ..................................................... 33 Dall’Atto Unico Europeo a Maastricht: inerzia comunitaria e accordi prodromici alla disciplina comune dell’immigrazione. ................................. 36 Dal Trattato di Amsterdam al Trattato di Lisbona: i Programmi di Tampere e dell’Aja ........................................................................................ 38 Il Programma di Tampere (1999 – 2004): il concetto di “cittadinanza civile” ............................................................................................................. 40 Il Programma dell’Aja (2004 – 2009) .................................................. 44 Il Trattato di Lisbona e il Programma di Stoccolma ............................ 46 La disciplina della condizione giuridica delle persone regolarmente soggiornanti sprovviste della cittadinanza europea nel diritto derivato dell’Unione Europea .......................................................................................... 48 La Direttiva Soggiornanti di Lungo Periodo 2003/109/CE.................. 48 La Direttiva Soggiornanti Regolari 2011/98/UE.................................. 53 CAPITOLO 2: Il Diritto d’asilo nell’Unione Europea ................................. 55 Le Direttive Requisiti per l’Asilo 2004/83/CE e 2011/95/CE ............. 57 Ufficio Europeo per il Sostegno dell’Asilo .......................................... 65 Criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo ............................................ 68 Valutazioni del Regolamento Dublino III ............................................ 73 La prevenzione di trattamenti inumani o degradanti inerenti o conseguenti all’applicazione del Regolamento Dublino II: Sentenza N.S. ed altri ................................................................................................................. 75 Legislazione e procedure italiane per l’asilo ............................................ 84 CAPITOLO 3: Immigrazione illegale e irregolare e rimpatrio nel diritto dell’Unione ............................................................................................................ 89 La Direttiva Rimpatri 2008/115/CE ..................................................... 91 Il Capo IV e la Sentenza “El Dridi” ..................................................... 98 La sentenza Achughbabian ................................................................. 102 Valutazioni della Direttiva Rimpatri da un punto di vista contenutistico ..................................................................................................................... 103 Accordi di riammissione .................................................................... 107 Fondo Europeo per i Rimpatri ............................................................ 110 Modelli migratori e sistemi di soggiorno e di accesso alle cittadinanze nazionali ....................................................................................................... 112 I limiti all’operare dell’espulsione derivanti dall’applicazione delle norme 2 internazionali a tutela dei diritti umani ............................................................ 114 Le norme a tutela dei diritti umani direttamente riguardanti l’espulsione ..................................................................................................................... 116 L’applicazione delle norme che vietano la tortura in relazione all’espulsione ............................................................................................... 117 La sentenza Hirsi e altri contro Italia ................................................. 119 Limiti all’operare dell’espulsione derivanti dal diritto alla vita privata e familiare e da altri diritti non assoluti .......................................................... 126 Conclusioni ................................................................................................. 129 Abbreviazioni ............................................................................................. 135 Bibliografia ................................................................................................. 137 3 4 INTRODUZIONE In questi ultimi anni, all’attenzione di ognuno in Italia, quanto meno di tipo mediatico, si sono imposti due grandi temi, spesso presentati come intimamente correlati o, addirittura, come uno funzionale all’altro. Le due grandi categorie sono, essenzialmente, l’Unione Europea, e le conseguenze di farne parte a un così avanzato livello di integrazione, e la gestione da parte di tutti gli attori del fenomeno migratorio. Per quanto attiene all’Unione Europea, essa è indubitabilmente balzata in primo piano, dopo anni di colpevole disattenzione, in merito alla situazione economico-finanziaria dello Stato, e degli obblighi conseguenti soprattutto in rapporto alla sua appartenza alla “Eurozona”. Per quanto attiene, invece, al fenomno migratorio, l’attenzione mediaticopolitica è radicalmente mutata di segno per giungere alla sua forma attuale tra il 2010 e il 2011, cioè dal nascere di quella serie di operazioni di destabilizzazione politica e di sostituzione di regime, note collettivamente come “Primavera Araba”1. Queste operazioni, causando le note, gravi instabilità e muovendo da precarie situazioni economiche e sociali, determinarono un afflusso migratorio di assoluto rilievo e di inedite dimensioni, insistente soprattutto sugli Stati Membri dell’Unione Europea affacciati sul Mediterraneo. Il ruolo sempre più preminente dell’Unione Europea e la crisi immigratoria hanno quindi determinato una focalizzazone specifica dell’attenzione mediaticopolitica: una delle tematiche maggiormente presenti oggi all’interno del dibattito politico nazionale è – essenzialmente – il ruolo più o meno rilevante da attribuire all’Unione Europea nella gestione del fenomeno immigratorio, la cui incidenza numerica ha raggiunto, non solo per gli Stati appartenenti all’Unione affacciati sul Mar Mediterraneo, soglie di assoluta rilevanza in ogni settore del vivere associato. 1 Cfr. Alfredo Macchi, Rivoluzioni S.p.A., Alpine Studio, Lecco, 2012 5 Un tema egualmente discusso, e in verità discendente dal primo, riguarda altresì le modalità con cui questo ruolo dovrebbe essere tradotto in atti concreti. Solitamente, all’interno del dibattito comunemente osservabile, l’attenzione viene posta sulla concreta sostenibilità del ricevimento di cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione Europea, mentre vengono in genere sottaciute le implicazioni derivanti dal fatto che si chiami in causa l’intervento dell’Unione stessa, né si eccepisce, per una serie di cause che non sono l’oggetto dell’analisi presentata, al fatto che la politica migratoria sia di pertinenza almeno in parte in capo all’Unione Europea. In funzione di tali elementi di incompleta consapevolezza, la presente tesi mira a proporre una riflessione in merito al rapporto che intercorre tra la protezione, anche giurisdizionale, dei diritti fondamentali dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea che risiedono – in modo regolare o irregolare all’interno del territorio dell’Unione, e profili della dimensione politica sovrana nell’ambito della comunità politica europea, considerata anche nelle sue articolazioni esterne, anche se da tempo non più estranee, all’Unione Europea medesima quali in primo luogo l’ambito inerente alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e la tutela giurisdizionale che le è propria. La scelta di focalizzare l’attenzione sugli atti e sulle politiche dell’Unione Europea in materia migratoria, così come sulle sentenze della Corte di Giustizia e della Corte Europea, e non sulle loro controparti statuali, è dovuta all’esigenza di prendere atto della competenza, esercitata da tempo e dal 2009 a pieno titolo, che si rinviene in capo all’Unione Europea in funzione dell’attuale Titolo V del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, inerente allo «Spazio di libertà, sicurezza e giustizia», e quindi anche alla disciplina della materia dell’immigrazione. Le materie trattate dal Titolo V precedentemente erano rubricate come Giustizia e Affari Interni e attengono alla dimensione più propria del concetto di Sovranità nazionale, malgrado la clausola di salvaguardia di cui all’art. 72 TFUE, 6 che garantisce il permanere della competenza degli Stati Membri in merito al mantenimento della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico interno. Tale previsione di competenza statuale, in effetti, è analoga ad altre riserve a favore degli Stati; il che vuol dire essenzialmente che gli Stati Membri rimangono soggetti all’obbligo di cooperazione con le norme dell’Unione. In particolare, il controllo dei confini – da tempo non più “frontiere” – degli Stati è di pertinenza assai poco nazionale, a partire dalla comunitarizzazione dell’Accordo di Schengen. Il regredire della competenza statuale in materia di frontiere è un regredire della competenza statuale da uno degli ambiti che costituiscono il cuore della sovranità, per come tradizionalmente intesa. Se lo Stato Membro (o per lo meno lo Stato Membro che accetta integralmente l’acquis communitaire) non esercita più la competenza a vigilare sulle frontiere, interne e in buona parte esterne, è una questione di non poco momento su chi effettivamente abbia la competenza ultima a decidere su una caratteristica essenzialmente sovrana come quella di chi abbia diritto e a quale titolo di attraversare la linea di demarcazione tra uno Stato e un altro, o tra uno Stato e lo spazio internazionale. La questione su quale sia il destino della sovranità sui confini, che per definizione costituiscono il limitare della potestà di un potere, non si porrebbe con l’evidenza con la quale invece si pone, se il regredire della sovranità dello Stato Membro (non solo in materia di cofnini) coincidesse con l’avanzare della sovranità dell’Unione Europea. Tale sovranità, tuttavia, è nella migliore delle ipotesi solo in fieri, e una larga parte della letteratura inerente al sistema politico dell’Unione Europea dubita che esista un reale progetto di costituzione di un’entità politica pienamente sovrana – federale o meno, dal momento che la dottrina politica presente alla base di tutto il processo dell’integrazione europea, malgrado i contributi federalisti di grandi pensatori come Altiero Spinelli, è il 7 Funzionalismo2, direttamente critico con la statualità sovrana, percepita come di per sé generatrice di conflitti. Se la questione del progressivo ritrarsi della sovranità dai confini è di per sé degna di nota, con essa si interseca la questione dell’impatto dei grandi flussi migratori odierni sul tessuto sociale degli Stati Membri, in particolare di quelli di primo arrivo delle persone provenienti dagli Stati che non appartengono all’Unione Europea. Le conseguenze sono in effetti di tipo diverso a seconda che si tratti di migranti e immigrati provenienti da Stat terzi dell’Europa orientale o da Stati extra-europei. Nel primo caso, oltre a una minore rilevanza numerica, la migrazione viene spesso a incidere su antagonismi che derivano da coesistenze etniche e culturali ben più che secolari, antagonismi che non hanno sempre bisogno di una migrazione per esplodere, come ben dimostra la crisi in Ucraina, nata e sviluppatasi in contemporanea alla redazione della presente tesi. Nel caso in cui l’afflusso migratorio sia originario di aree geografiche meno in contatto con gli Stati di destinazione o di ingresso – quale è il caso dei migranti e degli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana, dal Vicino Oriente e dall’Africa cis-sahariana – possono insorgere problematiche di stampo diverso, contrassegnate da un più aperto rigetto dell’apporto etnico, culturale e sociale estraneo alle culture europee in genere. Accanto a quelle derivanti dal rapporto tra culture ed etnie differenti, si aggiunge anche la difficoltà derivante dalla aumentata concorrenza sul mercato del lavoro. Se è vero, come si avrà modo di illustrare nel corpus della tesi, che da ultimo l’immigrazione legale è stata ristretta, è anche vero che, per parola delle stesse Istituzioni dell’Unione, il flusso migratorio è considerato una immissione di forza lavoro, tendenzialmente a buon mercato. Anche ultime regolamentazioni considerano il cittadino di Stati terzi principalmente sotto l’aspetto lavorativo ed economico, e a più riprese la regolare integrazione è stata descritta – per parola 2 Marco Mascia, Teorie dell’integrazione europea, http://www.isissbojano.it/attachments/article/276/Saggio_Mascia_Teorie.pdf, p. 2 8 delle Istituzioni dell’Unione – come dimostrata soprattutto dal regolare impiego. A mero titolo di esempio, la cosiddetta “Carta Blu” prevede per i lavoratori altamente qualificati sprovvisti della cittadinanza europea uno stipendio minimo non inferiore a una volta e mezza all’importo dello stipendio medio nazionale, e nemmeno dello stipendio medio del comparto in cui il cittadino dello Stato terzo è impiegato. Solo accennando le questioni successivamente riprese in conclusione, si nota quindi un regredire della competenza dello Stato in proposito delle materie sovrane e sembra volersi instaurare un meccanismo nel quale la volontà politica – che in definitiva costiuisce l’elemento cardine di ogni decisione sovrana – è strutturalmente messa nell’angolo da un impianto di esigenze riconosciute come diritti, tutelate da meccanismi giurisdizionali che alla volontà politica fanno quasi da cordone sanitario. Per quanto attiene alla letteratura scientifica presente sull’argomento, essa presenta un panorama variegato, come tipico della maggior parte delle materie giuridiche; accanto ad opere sistematiche di grande completezza, ma che necessariamente necessitano di tempo per la pubblicazione e che quindi rischiano di non essere aggiornate all’ultima regolamentazione emanata, sono diffuse numerose analisi particolari di singoli aspetti di un campo collegato alla disciplina della materia migratoria, le quali, grazie alla loro specificità, spesso risultano essere in grado di seguire tale mutevole area di studio con puntualità. D’altro canto, le raccolte sistematiche e di più ampio respiro soffrono in misura minore di obsolescenza. Inoltre, essendo la materia migratoria parte del dibattito pubblico nazionale, numerosi contributi – redatti da parte di autorevoli esponenti della dottrina – offrono particolari prospettive e punti di vista riguardo alle concrede discipline legislative, tanto nazionali quanto dell’Unione Europea. In merito al metodo adottato per la redazione della presente tesi, esso si focalizza su tre ambiti principali: i documenti programmatici delle varie 9 Istituzioni, ove essi rilevano; le disposizioni legislative dell’Unione Europea e la giurisprudenza, tanto di quella che ora è la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quanto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La scelta di includere i documenti programmatici, soprattutto del Consiglio Europeo e della Commissione Europea, è stata compiuta a causa del loro valore di “soft law” e del valore di ausilio interpretativo che essi rivestono per gli organi giurisdizionali dell’Unione Europea. Fonti e bibliografia Le fonti utilizzate per la tesi consistono tanto di fonti primarie (atti comunitari e sentenze, analizzati secondo schemi autonomi o suggeriti dalle fonti secondarie), quanto di fonti secondarie. In particolare, accanto a raccolte di articoli e saggi in merito alla disciplina generale dell’immigrazione o riguardanti i meccanismi di tutela giurisdizionale dei diritti riconosciuti, sono stati utilizzati numerosi articoli reperiti su riviste scientifiche che trattano aspetti specifici e settoriali, come un particolare Consiglio Europeo o una particolare direttiva. I testi principali, che a loro volta raccolgono numerosi autori, sono quelli di Marta Cantabria, inerente ai diritti e alla loro tutela, di Miguel Poiares e Loïc Azoulai in merito all’azione specifica della Corte di Giustizia e quello ad opera di Gabriella Carella, Giovanni Cellamare, Luciano Garofalo, Pitero Gargiulo, Giuseppina Pizzolante, Annita Sacovelli e Raffaella Di Chio, che riguarda in modo specifico l’immigrazione e la mobilità delle persone nell’Unione. Accanto a queste tre collezioni di saggi, è stata utilizzata una varietà di articoli singoli, riviste giurirdiche (in special modo la rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”), manuali istituzionali, manuali per operatori giuridici e di contributi, ad opera di esponenti accademici, reperibili in rete nei database disponibili al pubblico di centri studi. In ultimo, in merito alla legislazione italiana, sono stati consultati numerosi siti web di istituzioni 10 nazionali, in particolar modo del Ministero dell’Interno. Per la conclusione, sono stati utilizzati alcuni contributi dell’illustre giurista tedesco Carl Schmitt. Piano dell’opera La presente tesi si organizza in due parti principali: la prima parte, composta dal primo capitolo, riguarda gli strumenti e le questioni di principio giurisidizionali e l’illustrazione dell’approccio generale alla disciplina della materia migratoria da parte dell’Unione Europea; la seconda parte, composta dai capitoli 2 e 3, verte sulle discipline particolari all’interno della normativa in materia migratoria, riguardanti, rispettivamente, il diritto di asilo così per come disciplinato, e il contrasto all’immigrazione irregolare o illegale. La scelta di includere nel primo capitolo un approfondimento, per quanto rapido, dedicato alla tecnica del controllo di proporzionalità è giustificata dall’incidenza che questo tipo di tecnica ha avuto tanto sulla disciplina legislativa analizzata, quanto dalla più generale questione di quanto il legislatore sia sovrano in ordinamenti nei quali il controllo giurisdizionale (judicial review) è parte integrante della vita pubblica. Il secondo capitolo si sofferma sul diritto di asilo dell’Unione Europea, così come risulta nella sua formulazione vivente, per come integrato sia dalla giurisprudenza in merito, sia dagli orientamenti giurisprudenziali di fondo che, pur non immediatamente attinenti al diritto di asilo, lo hanno influenzato nei suoi principi ispiratori. Accanto all’analisi dei punti più interessanti, anche per la dinamica dell’esercizio della sovranità, vengono illustrate anche la legislazione e la procedura italiana per il recepimento e la gestione delle persone con cittadinanza di Stati terzi o senza alcuna cittadinanza che richiedono asilo o protezione. Infine, il terzo capitolo si sofferma sulla repressione dell’immigrazione 11 irregolare ed illegale, e sulla tutela dei diritti umani e fondamentali, anche per via giurisdizionale, in merito a questa fase, che rappresenta il momento più caratterizzante della manifestazione dell’autorità sovrana sui confini. Sempre nel terzo capitolo, sono stati inclusi alcuni dei più significativi modelli nazionali di normativa migratoria e di cittadinanza, appartenenti alla famiglia giuridica continentale. 12 CAPITOLO 1: LA TUTELA DEI DIRITTI UMANI DA PARTE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA IN RELAZIONE AI CITTADINI DI STATI TERZI I diritti fondamentali dai Trattati istitutivi allo sviluppo della tutela da parte della Corte di Giustizia I Trattati istitutivi della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e della Comunità Economica Europea non prevedevano, nella loro formulazione originale, che per il Trattato CECA rimase in vigore fino al 2002, né un elenco di interessi qualificati come diritti fondamentali, né la previsione della tutela dei diritti fondamentali. Per giustificare questa scelta, la dottrina ha esposto due motivazioni principali1: il primo ramo di giustificazioni si riferisce all’obiettivo strettamente economico della prima fase dell’integrazione europea – in funzione della dottrina funzionalista così come elaborata da Schumann – e alla conseguente scarsa importanza attribuita ai diritti fondamentali in ambito economico. Tale giustificazione non tiene conto del momentum a favore della codificazione dei diritti umani da parte dei medesimi Stati contraenti. La giustificazione ritenuta più appropriata e coerente è, tuttavia, quella dell’assetto della tutela previsto dai promotori dell’integrazione europea originaria: secondo questa teoria, l’intento dei “founding fathers” era quello di affidare agli Stati Membri la tutela dei diritti fondamentali tramite gli apparati giurisdizionali e gli organismi giurisdizionali costituzionali dei singoli ordinamenti. La previsione della tutela nazionale dei diritti era giustificata dal fatto che prima della formulazione e del recepimento 1 Marta Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in Marta Cartabia (a cura di), I diritti in azione , Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 15-16 13 della teoria della primauté era coerente vedere le Costituzioni degli Stati come prevalenti sul Trattato. Pertanto, è possibile affermare che, se i Trattati presentavano una lacuna nella previsione dei diritti fondamentali, tale lacuna non si rispecchiava nella tutela giurisdizionale dei diritti, essendo essa poggiata sul sistema delle tutele nazionali2. Una giustificazione ulteriore addotta per l’esclusione dei diritti fondamentali dai Trattati istitutivi risiede nella considerazione accordata al pluralismo 3 nell’ambito dei diritti stessi e all’autonomia in tale campo attribuita agli Stati Membri. La differenza tra i livelli di tutela assicurati e le stesse aree nelle quali la tutela è prevista è la cifra fondamentale dell’integrazione europea, che si fonda su un’unione pluralistica4. Le sentenze C-26/1962 Van Gend en Loos del 1963 e C-6/1964 Costa c. Enel del 1964 stabilirono la supremazia del diritto derivato dai Trattati sugli ordinamenti nazionali. La supremazia del diritto di derivazione comunitaria rese precario l’iniziale sistema di tutela dei diritti fondamentali da parte delle Corti 5 Costituzionali degli Stati Membri . Tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta – a cavallo delle sentenze della primazia – la Corte di Giustizia delle Comunità rigettò le richieste avanzate dalle Corti costituzionali degli Stati di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, così come garantiti dalle Costituzioni, da parte degli atti comunitari. La Corte di Giustizia motivava tali rifiuti adducendo come motivo l’esigenza di uniformità del diritto, e l’incompatibilità dell’uniformità del diritto con le diverse tutele accordate dalle diverse Costituzioni nazionali6. L’orientamento giurisprudenziale della Corte, tuttavia, mutò a partire dal 2 3 4 5 6 Ivi, p. 17 Ibidem Ivi, p. 18 Ibidem. Ivi, p. 19; sent. C-1/1958, Stork; cause da 16 a 18/1959, Geitling. 14 19657, quando essa affermò che il rispetto dei diritti fondamentali è parte integrante dei principi generali del diritto il cui rispetto la stessa Corte è chiamata ad assicurare. La sentenza che aprì la svolta dell’orientamento giurisprudenziale è la sentenza C-29/1969, Stauder c. Città di Ulm. L’approccio operativo improntato alla separatezza delle giurisdizioni, tuttavia, suscitò riserve da parte di alcune corti costituzionali che affermarono che il nucleo essenziale dei diritti fondamentali contemplati dalle rispettive carte costituzionali fosse inviolabile anche da parte di un ordinamento ai cui atti pure era stata riconosciuta una supremazia nei confronti delle stesse costituzioni nazionali. La dottrina dei “controlimiti” mira a far valere i singoli diritti nazionali, così come interpretati dai singoli ordinamenti nazionali, nei confronti degli atti comunitari. Le corti costituzionali più attive su questo fronte furono le Corti italiana, spagnola (successivamente alla transizione e all’adesione), belga e tedesca. Parte della dottrina ritiene che la teoria dei controlimiti sia una forma di 8 nazionalismo giuridico . Negli anni Ottanta, la Corte affermò che, secondo la dottrina dell’incorporazione, il solo limite certo posto alla sua azione fosse il divieto di esercitare la tutela contro atti degli Stati membri che riguardino materie del tutto estranee alle competenze dell’Unione Europea9. L’azione dei diritti comunitari riguarda principalmente due tipi di casi: il primo è l’originario caso in cui gli Stati Membri agiscano in mera attuazione di normative comunitarie; il secondo riguarda invece l’eventualità che gli Stati 7 José Narciso Cunha Rodrigues, The Incorporation of Fundamental Rights in the Community Legal Order, in Miguel Poiares e Loïc Azoulai (a cura di), The Past and The Future of EU Law, Haart Publishing, Oxford&Portland, 2010, p. 91; C-18/1965 e C-35/1965, Max Gutmann c. Commissione. 8 Ivi, p. 25; Brun-Otto Bryde, The ECJ’s fundamental rights jurisprudence – a milestone in trasnational consititutionalism, in Miguel Poiares e Loïc Azoulai (a cura di), The Past and The Future of EU Law, cit., p. 121 9 Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’UE, cit., p. 26 15 invochino una delle clausole di giustificazione per la limitazione delle libertà economiche previste dai trattati (artt. 36, 45.3, 52.1 TFUE)10. La sentenza Stauder Se le sentenze Internationale Handelsgesellschaft e Nold sono le sentenze di svolta e maggiormente note in merito all’evoluzione della tutela dei diritti, le premesse per tale svolta furono poste dalla sentenza C-29/1969 Stauder c. Città di Ulm-Sozialamt. La sentenza Stauder si deve segnalare all’attenzione per le considerazioni svolte in merito ai principi generali del diritto comunitario: La disposizione di cui è causa non rivela alcun elemento che possa pregiudicare i diritti fondamentali della persona, che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte garantisce l'osservanza11. Questa considerazione, scritta in capo alla sentenza, segnala la considerazione dei diritti umani come oggetto di tutela da parte della Corte. Pur non giungendo a delineare tali diritti in modo oggettivo, la sentenza riconosce l’esistenza di un fattore capace di imporre un controbilanciamento rispetto alle politiche della Comunità: essi sono capaci di un tale effetto perché i diritti fondamentali fanno parte, ma non esauriscono, dei principi generali del diritto. Se i diritti fondamentali non fossero contenuti nei principi generali del diritto12, essi non sarebbero in grado di contrapporsi, e temperare, altri principi generali del diritto differenti dai diritti fondamentali. 10 11 Ivi, p. 27 C-29/1969, Massime, punto 2. 12 Robles Morochón, La protezione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in Aa. Vv., Ars Interpretandi. Annuario di Ermeneutica Giuridica, VI, Giustizia internazionale e interpretazione, Padova, 2001, p. 256 16 Il fatto che i diritti fondamentali siano parte dei principi generali è da leggersi a fianco della riaffermazione della competenza della Corte di Giustizia sui principi generali del diritto delle Comunità: la combinazione delle due rivendicazioni genera la competenza della CGE in merito ai diritti fondamentali. Le sentenze Internationale Handelsgesellschaft e Nold Le sentenze centrali ai fini dell’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali da parte della Corte di Giustizia sono due: la sentenza C-11/1970 “Internationale Handelsgesellschaft mbH c. Einfuhr-und Vorrastsselle für Getreide und Futtermittel” e la sentenza C-4/1973 “J Nold, Kohlen-und Baustoffgroßhandlung c. Commissione delle Comunità Europee”. Esse si collocano nel periodo di piena affermazione della supremazia del diritto comunitario e tanto nelle motivazioni quanto nelle concrete decisioni la Corte con tali sentenze stabilisce con chiarezza quali siano i parametri essenziali dello standard di tutela dei diritti fondamentali adottato da allora in avanti: la sentenza Internationale Handelsgesellschaft stabilì come cardini della tutela il requisito della proporzionalità e il principio ispiratore delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati Membri; la sentenza Nold incluse nelle tradizioni costituzionali comuni a cui la Corte di Giustizia poteva rivolgersi per trovare principi guida anche i trattati a cui gli Stati Membri avevano aderito o alla cui stesura cui avevano collaborato. Come nota Takis Tridimas, venne operato un trasferimento di competenze giudiziali dalle corti costituzionali degli Stati Membri alla CGE, facendo perdere alle prime in favore della seconda il diritto di sottoporre le misure della Comunità alla verifica del rispetto dei diritti fondamentali per come internamente accordati a livello nazionale1314. Inoltre, su un piano tutto interno alle istituzioni 13 Takis Tiridimas, Primacy, Fundamental Rights and the Search for Legitimacy, in Miguel Poiares e Loïc Azoulai (a cura di), The Past and The Future of EU Law, cit., p. 99 14 Conclusioni del Sig. Duthuillet De Lamothe – Causa 11/70, in Raccolta della Giurisprudenza 17 “comunitarie”, grazie al favore incontrato dall’argomento dei “diritti umani”, la Corte si appropriò col beneplacito altrui della competenza a contestare l’azione della Comunità sul piano dei diritti, inserendosi come interlocutore di rilevante importanza nella stessa formulazione delle politiche pubbliche. Infine, la CGE pose le basi per la progressiva estensione della sua giurisdizione anche, in prospettiva e a partire dai tardi anni Ottanta, su ogni misura nazionale ricadente, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, nello scopo della Comunità. La sentenza Hauer La sentenza C-44/1979 Hauer è considerata segnare un punto conclusivo della fase maggiormente significativa dell’evoluzione della giurisprudenza e della rivendicazione di competenze in materia di diritti fondamentali da parte della Corte di Giustizia Europea. Essa è stata resa nel 1979, due anni dopo cioè che la dichiarazione congiunta dell’allora Assemblea Parlamentare, del Consiglio dei Ministri e della Commissione Europea del 5 aprile 1977 aveva avallato da parte delle altre Istituzioni CEE l’azione creativa e innovativa della Corte di Giustizia in materia di tutela dei diritti dell’uomo, al fianco di riferimenti all’importanza della CEDU. Sulla scorta di tale dichiarazione15, la sentenza in sé ribadisce le sentenze Internationale e Nold, specificando ulteriormente il raggio d’azione dei diritti umani secondo la definizione comunitaria: in essa è esplicito il riferimento alla CEDU e ai suoi Protocolli16, a cui la sentenza Nold aveva solo implicitamente fatto riferimento. La Corte si richiama all’impossibilità per le Costituzioni e dei cataloghi di della Corte di Giustizia Europea, 1970, p. 1149 15 C-44/1979, par. 15 16 Anna Valentini, I Diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali nell’Unione Europea, in Diritti Umani in Italia – Rivista Scientifica di Informazione Giuridica, ISSN 2240-2861, http://www.duitbase.it/note-e-commenti/50-i-diritti-delluomo-e-le-liberta-fondamenti-nellunioneeuropea 18 diritti nazionali di essere parametri validi per giudicare su violazioni di diritti fondamentali mediante atti emanati da istituzioni comunitari17; inoltre, ribadisce che solo i meri principi di origine nazionale sono idonei a porre limiti ai provvedimenti comunitari, per come sono ricavabili non solo dalla comparazione sistematica tra i vari documenti di tutti gli Stati Membri della Comunità (in quel momento storico in fase di deciso allargamento), ma anche dall’analisi dei trattati internazionali in materia di diritti dell’uomo. L’insieme delle fonti considerate concorre a formare uno standard di protezione strettamente comunitario, anche se almeno parzialmente aperto alla giurisprudenza della Corte CEDU. Tale apertura si nota soprattutto nelle sentenze dell’ultimo decennio18, rendendo la Corte Europea un benchmark di particolare significato19 per verificare la validità di un atto della Comunità20. Il test di proporzionalità La tutela dei diritti – umani o fondamentali – è praticata tanto per via legislativa, quanto per via giurisdizionale, di controllo alla legislazione: il termine anglosassone adoperato per l’operazione è significativamente “judicial review”, in quanto attiene alla vigilanza esercitata sulle politiche pubbliche e sulle normative perseguite dall’autorità politica. L’approccio che i vari organismi giurisdizionali hanno elaborato e mantenuto nel corso dei decenni durante i decenni in cui essi sono stati incaricati di correggere le pratiche politiche ritenute abusive dei diritti appartiene al “Paradigma razionale dei diritti umani”21. 17 C-44/1979, par. 14 18 Maria Elena Gennusa, La CEDU e l’Unione Europea, in Marta Cartabia (a cura di), I diritti in azione cit., p. 115 19 Luigi Daniele, Diritto dell’Unione Europea, Giuffrè Editore, Milano, 2010, p. 172 20 Ibidem Mattias Kumm, Institutionalizing Socratic Contestation: the Rationalist Human Right Paradigm, legitimate authority and the point of Judicial Review, p. 6 21 19 Il nucleo del paradigma razionalista non consiste tanto nell’esame e nell’interpretazione dell’autorità “legale”, quanto sulla giustificazione delle azioni intraprese da parte delle pubbliche autorità sulla base di parametri di ragione pubblica. Mentre l’opposto paradigma legalistico è fondato su un approccio più classicamente giuridico alle questioni, il paradigma razionalistico, dominante nella prassi degli ordinamenti europei, dedica a questi elementi un’attenzione relativamente minore nella tutela dei diritti. Per converso, il cuore della prassi razionalistica è costituito dal “Test di proporzionalità”, che consiste in una valutazione delle “ragioni pubbliche” adotte ed eventualmente valide per giustificare un comportamento ritenuto lesivo di un “diritto”. La prassi del giudizio consiste in tre fasi di progressivo accertamento. Il primo passo consiste nell’accertare se effettivamente non è stato rispettato un diritto garantito dall’ordinamento22; in un secondo momento si procede a determinare se e in quale modo il mancato rispetto dell’interesse-diritto può essere giustificato dalla clausola limitativa presente nella formulazione del diritto preso in esame; in ultimo, se la clausola limitativa non consente la giustificazione del mancato rispetto del diritto garantito, si accerta la vera e propria violazione del diritto. Il test di proporzionalità è quindi mirato a consentire di determinare quale sia la priorità a cui attribuire precedenza a seconda delle esigenze dettate dalle circostanze concrete23. Il test mira a stabilire l’esistenza o meno di tre requisiti in capo alla misura della pubblica autorità posta sotto esame: l’obiettivo legittimo, l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo legittimo prefissato e la necessità di adozione della misura idonea – e non di altre – ai fini del pieno raggiungimento dell’obiettivo di cui alla prima fase. 22 23 Mattias Kumm, The Rationalist Human Rights Paradigm, cit., p. 7 Ivi, p. 9 20 L’aspetto maggiormente suscettibile di discrezionalità è la valutazione della necessità dell’adozione di quella particolare misura per raggiungere quel particolare obiettivo. Si presume che un’azione della pubblica autorità sia, per definizione, suscettibile di essere invasiva di un diritto, e che quindi debba, per definizione, essere giustificata dalla “pubblica ragione”. Il fatto che una misura persegua una concezione di “giustizia” più o meno condivisa non contribuisce a giustificarne il mancato rispetto dei diritti, fallendo 24 nel rispettare il requisito dell’obiettivo legittimo . Diventa impossibile, in questo paradigma dove il giudice viene investito della responsabilità invero non indifferente di tutelare questi valori di stampo limitativo delle leggi e delle azioni della pubblica autorità, non ripensare al severo monito del giurista tedesco Carl Schmitt, quando metteva in guardia contro la tirannia dei valori. L’approccio razionalista alla tutela dei diritti umani da parte della Corte di Giustizia Europea Tramite l’affermazione che i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto tutelati dalla Corte, la CGUE ha conseguito due obiettivi di fondo: da una parte ha incorporato il principio della tutela giurisdizionale dei diritti, caratteristica centrale del costituzionalismo del dopoguerra, nel corpus iuris dell’allora Comunità Europea, portandolo ad essere nucleo essenziale dell’acquis communitaire; dall’altra ha contribuito a rafforzare l’autorità del diritto comunitario25. Il modello di tutela dei diritti fondamentali da parte della CGUE appartiene all’approccio di tipo razionalista, presentando tre punti peculiari: l’ambito, la struttura e le fonti. 24 25 Ivi, p. 19 Mattias Kumm, the New Human Rights Paradigm, cit., p. 106 21 Ogni interesse di libertà in quanto tale gode in prima battuta di una protezione come se fosse un diritto. I diritti umani sono concepiti come una protezione contro ogni restrizione alla libertà individuale, dagli interessi fondamentali a quelli che non attengono alla vita stessa dell’individuo26. Tanto la sentenza Internationale Handelsgesellschaft quanto la sentenza Nold si collocano sulla breccia di tale spostamento del focus, spostamento iniziato fin dalla sentenza Stauder. L’approccio perseguito dalla Corte di Giustizia si distingue anche dall’intento originario della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, a cui pure essa si ispira in modo estensivo. Rispetto alla CEDU, la CGUE muove da premesse differenti. Essa è un organo giurisdizionale in un ordinamento originariamente esclusivamente e strettamente economico, che solo in seguito, e tuttora in modo non certo prioritario, ha assunto determinate caratteristiche politiche. In Internationale Handelsgesellschaft, l’Avvocato Generale Dutheillet de Lamothye sostenne che l’individuo non dovrebbe essere limitato nella sua libertà d’azione oltre il limite strettamente necessario all’interesse generale, e che questa libertà d’azione come base, e la sua limitazione come eccezione, sia un diritto fondamentale27. La Corte accolse il principio elaborato dall’Avvocato Generale, concentrandosi sulle giustificazioni delle misure che restringevano il diritto. Una volta atteso che il mancato rispetto di un interesse-diritto può essere giustificato, è necessario stabilire che cosa può giustificare il mancato rispetto di questo interesse-diritto. L’approccio della CGUE adotta il principio del requisito della proporzionalità28. Inserendosi nell’approccio razionalista, la Corte considera le esigenze generate dalle politiche pubbliche allo stesso livello dei diritti e allo 26 27 28 Ivi, p. 115 Conclusioni del Sig. Dutheillet De Lamothe – Causa 11/70, cit., p.1148 Kumm, the New Human Rights Paradigm, cit., p. 108 22 stesso modo soggette al test di proporzionalità. Di tali diritti, nessuno di essi sfugge al requisito di proporzionalità, che solo a partire dall’equiparazione della Carta dei Diritti Fondamentali ha un valore giuridico analogo alle norme che la CGUE sottoponeva ad esso. La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea Coerentemente con il paradigma razionalista adottato, le fonti giuridiche di volta in volta menzionate hanno avuto un ruolo minoritario nella guida o nella limitazione della giurisprudenza della Corte. La profonda differenza del contesto giuridico e istituzionale in cui la Corte di Giustizia si trova ad operare rispetto agli ordinamenti nazionali, comporta che l’apporto delle tradizioni costituzionali si fermi alla giustificazione offerta dall’anologia di comportamento concreto e a poco più della sanzione che parte della dottrina definisce quasi «apologetica»29 dell’operato della Corte. Nell’ambito dell’Unione Europea, l’approccio razionalista fonda le sue motivazioni anche sulla mancanza di un vero e proprio testo costituzionale europeo a cui fare riferimento. Il testo dall’apparenza maggiormente somigliante a un catalogo dei diritti nell’Unione Europea, la Carta Europea dei Diritti Fondamentali, proclamata solennemente in occasione del Consiglio Europeo di Nizza del dicembre 2000 e resa vincolante e con lo stesso valore dei trattati in occasione del Trattato di Riforma di Lisbona del 2009, è uno strumento a sostegno della mera codificazione dell’apporccio razionalista e come tale utilizzato anche dalla Corte CEDU come mezzo interpretativo della Convenzione30. La Carta infatti integra la giurisprudenza CGUE e – fin dal suo stesso preambolo – restringe il suo prpoposito al rafforzamento e all’aumento di visibilità di ciò che è stato già 29 30 Ibidem Gennusa, La Cedu e l’Unione, cit., pp. 124-125 23 stabilito. In questo senso è da interpretarsi il riferimento esplicito al principio di proporzionalità. La Carta dell’Unione Europea dei Diritti Fondamentali include nella sua enumerazione alcuni diritti non riconosciuti in modo completo neppure dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia di allora31, ma sempre in chiave strettamente individualistica, omettendo ogni riferimento autonomo alle formazioni sociali: la Carta è quindi uno strumento che pone fortemente l’accento sull’individuo e sulla sua libera e completa autodeterminazione, di converso privando di tutela propria le formazioni sociali entro cui la persona si sviluppa. La politica migratoria dell’Unione Europea e la tutela dei Diritti Fondamentali dei soggetti sprovvisti della cittadinanza europea La migrazione verso l’Unione Europea e al suo interno è disciplinata da un corpus di norme composto da diritto nazionale, diritto dell’UE, CEDU, CSE e dai rimanenti obblighi internazionali assunti dagli Stati europei, non ultime le convenzioni in ambito ONU e OIL. L’immigrazione transnazionale è un tema all’attenzione degli organismi di integrazione europea dall’inizio del processo. Il focus della materia dell’immigrazione, regolata per quanto attiene i cittadini degli Stati Membri fin dal Trattato di Roma del 1957, è gradualmente cambiato e ha acquisito nel corso degli anni una sua profondità ed autonomia da materie sia pur collegate come, ad esempio, le cosiddette Quattro Libertà di movimento interno. Con l’approfondimento dell’integrazione europea sancito dai Trattati di Maastricht e seguenti, giungendo al Trattato di Riforma in vigore dal 2009, l’Unione Europea ha progressivamente approfondito anche le politiche comuni in materia di immigrazione da parte di persone non aveni la cittadinanza europea e di diritto all’asilo. Essendo parte di una materia che tocca buona parte delle funzioni 31 Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’UE, cit., pp. 33-34 24 tradizionalmente sovrane, e cioè il controllo delle frontiere e del traffico attraverso di esse, durante la vigenza della struttura “a pilastri” l’immigrazione è stata rigidamente mantenuta nell’ambito intergovernativo del terzo pilastro, inerente alla Giustizia e Afari Interni32. Con il superamento della struttura tripartita l’immigrazione ha comunque mantenuto una procedura nettamente intergovernativa, formulando le sue politiche quasi esclusivamente attraverso Direttive. L’Unione Europea ha elaborato nel quadro delle sue politiche attinenti allo spazio di sicurezza, libertà e giustizia, numerosi atti normativi che riguardano la regolazione della mobilità interna allo spazio europeo e dell’accesso a tale spazio europeo da parte di persone – o individui – di nazionalità diversa da quella di uno degli Stati Membri dell’UE e, in forza all’art. 21 TFUE, sprovvisti della cittadinanza europea. All’interno del vasto gruppo di cittadini di Stati non membri, sono da distinguere tre gruppi ulteriori: immigrati irregolari, persone richiedenti asilo o a cui è stato accordato lo stato di rifugiato, cittadini di Stati non membri in possesso di permesso di soggiorno o di visto che svolgono un’attività lavorativa. A sua volta, il gruppo degli immigrati irregolari può essere ulteriormente suddiviso in due gruppi di massima: gli immigrati irregolari clandestini e gli immigrati la cui irregolarità è nota alle pubbliche autorità ma il cui rimpatrio non viene effettuato, solitamente per ragioni di ordine umanitario o pratico 33: di queste ragioni di ordine umanitario, possono annoverarsi coloro che non hanno strettamente diritto alla protezione internazionale, in quanto non sono individualmente soggetti a un rischio concreto di minaccia alla loro vita e alla loro 32 Elspeth Guild (a cura di), The Developing Immigration and Asylum Policies of the European Union, Kliwer Law International, L’Aia, 1996, p. 47 33 European Union Agency for Fundamental Rights, Fundamental rights of migrants in an irregular situation in the European Union, European Union Publications Office, Lussemburgo, 2011, p. 16 25 persona34, o che non ricadono nei limiti previsti dalla protezione sussidiaria o internazionale35. Alcuni Stati Membri, come ad esempio la Finlandia36, tuttavia vanno oltre e, sotto la sfera delle competenze tuttora nazionali, rilasciano permessi di soggiorno su basi umanitarie anche a quegli stranieri residenti che non possono ritornare nei Paesi d’origine o di precedente residenza, pur non ricadendo nei requisiti previsti dall’UE, a causa di una catastrofe ambientale, a causa della situazione di sicurezza degradata o di una situazione «povera» della tutela dei diritti umani; altri Stati, invece, adottano profili meno automatici: la Lettonia consente l’omissione dell’ordinanza di espulsione per ragioni umanitarie e autorizza la permanenza per un periodo di tempo fino a un anno37; infine, l’Italia richiede l’emanazione di un decreto del presidente del consiglio dei ministri perché possa essere emanato un temporaneo permesso di soggiorno per condizioni simili a quelle rilevate nella disciplina finlandese38, 39. Quadro normativo del Consiglio d’Europa e della CEDU Il Consiglio d’Europa ha elaborato nel corso della sua esistenza un sistema regionale di protezione dei diritti umani composto da oltre duecento documenti tra convenzioni e trattati vincolanti. Lo strumento principale consiste, ad ogni modo, nella Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea sono Parti contraenti della CEDU; malgrado l’art. 6 c. 2 TUE disponga l’adesione dell’Unione alla CEDU, il passaggio formale non è ancora avvenuto, principalmente per le riserve circa le 34 35 36 37 38 39 Ivi, p. 31 Cfr. cap. 2 2004 Aliens Act, sez. 88a, par.1 Immigration Law, art. 2, par. 3 D.lgs. n. 286/1998, art. 19, c. 1 EU FRA, Fundamental rights of irregular migrants, cit., p. 31 26 conseguenze sul piano giurisdizionale. All’interno della CEDU, sono presenti alcune disposizioni che si prestano all’applicazione della tutela degli immigrati: il diritto di non essere soggetti alla tortura o a trattamenti inumani e degradanti è contemplato nell’art. 3 CEDU e il diritto al rispetto della vita familiare e privata è richiamato nell’art. 8 CEDU40: l’art. 8 in particolare trova recepimento nella giurisprudenza CGUE. Quadro normativo dell’Unione Europea Il corpus iuris dell’Unione Europea prevede norme comuni applicabili agli Stati membri dell’UE in materia di immigrazione ed asilo. La competenza ad emanare norme in merito è attribuita dal Titolo V del TFUE, che istituisce lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia e, all’interno di esso, dal Capo 2, che disciplina le politiche a riguardo dei controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione. Ai fini delle disposizioni contenute nel Ttitolo V, Capo 2, i “cittadini di Stati terzi” sono coloro i quali mancano della cittadinanza di uno degli Stati Membri, e quindi non sono cittadini europei ai sensi 41 dell’art. 20 TFUE: pertanto, la definizione comprende anche gli apolidi . Lo spazio giuridico europeo si caratterizza per accordare la libertà di circolazione al suo interno a chiunque risieda nell’Unione Europea, senza distinguere tra cittadino di uno Stato Membro – e quindi cittadino europeo – e cittadini di Stati non membri che abbiano avuto regolare accesso all’Unione Europea42. L’art. 77 TFUE enumera le aree in cui l’Unione Europea è coinvolta in materia di assenza di controlli alle frontiere tra Stati Membri e di controlli integrati per le persone che attraversano le frontiere esterne, dirette verso lo spazio dell’Unione (paragrafo 1). A tal fine, l’articolo attribuisce all’Unione, secondo la normale procedura, il potere di 40 Ivi, p. 23 41 Giovanni Cellamare, La disciplina dell’immigrazione nell’Unione europea, G. Giappichelli Editore, Torino, 2006, p. 99 42 Lucilla Deleo, La politica migratoria nell’Unione Europea, d.u.press, Bologna, 2007, p.111 27 attuare la politica comune dei soggiorni di breve durata, di regolare i controlli ai quali sono sottoposte le persone che attraversano le frontiere esterne e le condizioni alle quali i cittadini dei paesi terzi possono circolare liberamente nell'Unione per un breve periodo; inoltre, lo stesso paragrafo 2 prevede, sia pure in prospettiva, l'istituzione progressiva di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne; attualmente il sistema esistente, Frontex, è solo parzialmente operativo. Tale prospettiva di istituzione di un controllo integrato e, di fatto, a livello UE, combinato con l’assenza di qualunque controllo all’interno dello spazio giuridico è indice di un processo di consistente statalizzazione. Fino ad ora l’Unione ha legiferato all’interno di numerosi ambiti, quali ad esempio il rilascio di visti di soggiorno di breve durata, l’attuazione delle attività di controllo e sorveglianza di frontiera, i ricongiungimenti familiari, l’immigrazione illegale, l’asilo e i requisiti per l’asilo. L’Unione proibisce l’accesso clandestino tramite due strumenti principali: la direttiva sui vettori 2001/51/CE e la direttiva sul favoreggiamento dell’immigrazione 43 clandestina 2002/90/CE . Accanto alla normativa specifica, costituita dalla Direttiva 2003/86/CE del 22 settembre 2003, in materia di ricongiungimento familiare vengono a rilevare anche le norme più “tradizionali”, come la libera circolazione delle persone, la cui disciplina 44 principale si ritrova per i cittadini europei nella Direttiva 2004/38/CE e per i cittadini degli Stati terzi nella Direttiva 2003/109/CE. Come dimostrato da un’ormai consolidata giurisprudenza, di cui la sentenza C-109/01 Akrich 45 è l’esempio preminente, il ricongiungimento è un diritto azionabile anche qualora i familiari siano cittadini di Stati terzi. In questo senso, la Corte individua l’elemento limitativo dei provvedimenti delle autorità nazionali nel rispetto della vita familiare sancito dall’art. 8 CEDU e 43 Fundamental Rights Agency, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Lussemburgo, 2013, p. 30 44 Cellamare, La disciplina dell’immigrazione UE, cit., p. 102 45 C-109/01, Decisione, punto 1 28 ripreso da molteplici strumenti. Inoltre, in quanto familiare di cittadino dell’Unione, il coniuge o parente sprovvisto di tale cittadinanza gode del medesimo tenore meramente dichiarativo del permesso di soggiorno. Tale giurisprudenza è, peraltro, molto precedente alla formulazione dello stesso concetto di “Spazio di Sicurezza, Libertà e Giustizia” 46, 47 , risalente ai tardi anni Novanta. Infine, la politica migratoria dell’Unione Europea si collega alla politica estera e di sicurezza comune nel prevedere un comune elenco di Stati i cui cittadini debbono munirsi di visto sul passaporto per poter accedere al territorio dell’Unione48. Tale lista comune per il visto di ingresso è tuttavia di molto precedente alla nascita della Politica Eestera e di Sicurezza Comune, derivando dalla cooperazione intergovernativa in tale ambito, iniziata nel 198749. Malgrado l’Unione Europea dedichi un’approfondita attenzione normativa alla regolamentazione delle persone che hanno la cittadinanza di Stati che non sono Stati Membri dell’Unione Europea o che non possiedono cittadinanza alcuna nell’ambito della concessione di protezione internazionale e dell’eventuale fase di rimpatrio, la parte più rilevante della produzione legislativa dell’Unione in materia immigratoria – tanto nella forma della Direttiva quanto in quella del Regolamento – è dedicata alla disciplina e alla regolamentazione dell’accesso legale al territorio dell’Unione Europea da parte di persone che possiedono la cittadinanza di Stati terzi, nel suo essere distinto dall’accesso legale e considerato “legittimo” dalle istituzioni dell’Unione per motivi umanitari. Evoluzione storica della politica migratoria nell’integrazione europea L’attenzione da parte dell’integrazione europea in materia migratoria ha subito una evoluzione di durata sino ad ora quasi quarantennale, e ha attraversato 46 47 48 49 Cellamare, La disciplina dell’immigrazione UE, cit., p. 103 C-389/87 e C-390/87 FRA, diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, cit, p. 35 Guild, The Developing Policies, cit., p. 35 29 quasi tutti i Trattati, ad esclusione dall’Atto Unico Europeo e del Trattato di Nizza, subendo le influenze dei vari periodi storici e politici: pur nelle differenze di approccio, alcuni capisaldi dell’azione comunitaria prima e dell’Unione poi sono rimasti come punti fermi sin dalla loro introduzione. Essi consistono, principalmente, nella previsione dei ricongiungimenti familiari (e nella conseguente disciplina delle situazioni giuridiche dei ricongiunti) e nella costruzione di specifici modelli di integrazione sociale che costiuissero la base per un riferimento di ordine sovranazionale, la cosiddetta “cittadinanza civile” o “cittadinanza civica”50. L’attenzione comunitaria a riguardo dell’immigrazione di cittadini di Stati terzi risale alla metà degli anni Settanta, con la prima grande crisi industriale di ambito CEE e con il crescere della rilevanza dei flussi migratori verso gli Stati Membri; in tale circostanza, la Commissione Europea emanò la prima Comunicazione in merito51, proponendo un Programma d’azione in materia di assimilazione e di adeguamento delle condizioni sociali. La Comunicazione COM(74)2250: basi per l’evoluzione successiva. La Comunicazione della Commissione Europa COM(74)2250 del 14 dicembre 1974 rappresenta il primo passo in direzione dell’elaborazione di una strategia comune: come di prammatica fino a tempi recenti – e come tuttora perdura – l’immigrato era considerato in quanto lavoratore. Ciò nonostante, il documento degli anni Settanta contiene al suo interno le spinte che verranno inserite nei programmi degli anni e dei decenni successivi in tale materia. 50 Comitato economico e sociale europeo, SOC/141, Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema “Integrazione nella cittadinanza dell'Unione europea”, http://www.cnel.it/application/xmanager/projects/cnel/attachments/shadow_documentazioni_attac hment/file_allegatos/000/082/700/Parere_20CESE_20su_20_Integrazione_20nella_20citadinanza_ 20europea_.pdf 14 maggio 2003, punto 4 51 Pietro Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi regolarmente soggiornanti: integrazione e cittadinanza, in Carella, Cellamare, Garofalo, Gargiulo, Pizzolante, Sacovelli, Di Chio, L’immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell’Unione Europea, Monduzzi Editoriale, Milano, 2012, p. 83 30 La Comunicazione prende le mosse da una Risoluzione del Consiglio risalente al 24 gennaio 1974 sul programma di azione sociale52. La Commissione riconosceva che la condizione giuridica del lavoratore immigrato negli Stati Membri e cittadino di uno Stato terzo non era regolamentata uniformemente e, generalmente, non era paragonabile ai lavoratori immigrati ma cittadini di Stati Membri. Per di più, essendo strettamente dipendente dall’esistenza o meno di accordi bilaterali in tal senso, la condizione dei lavoratori cittadini di Stati terzi era frammentata al suo interno. In generale, i lavoratori di Stati terzi erano accettati – previo rilascio del permesso di soggiorno – come mera forza lavoro ed erano sottoposti a controlli amministrativi; la discrezionalità delle autorità preposte era segnalata come una disfunzione53, così come il fatto che il ricongiungimento familiare fosse possibile solo con l’esplicito permesso delle autorità54. In forza di questo stato di cose, la Commissione proponeva di estendere gradualmente l’uguaglianza di trattamento, già in programma per i lavoratori degli 55 Stati Membri, seppure con qualche ritardo , anche agli immigrati di Stati terzi, tramite «specific actions» da adottare nel campo della sicurezza sociale. Non fermandosi alla tutela degli immigrati di Stati Terzi, la Comunicazione prospettava l’assistenza agli immigrati “potenziali”, offrendo loro la più ampia gamma di informazioni che fosse possibile a proposito delle necessità del mercato del lavoro56. Le cause prime dell’inferiore trattamento accordato ai lavoratori cittadini di Stati terzi derivavano da un insieme di fattori tra loro collegati, riassumibili in genere nelle limitazioni frapposte tanto al mutuo riconoscimento dei periodi 52 53 54 55 56 Comunicazione della Commissione Europea del 14 dicembre 1974, COM(74)2250, p. 14 Ibidem Ivi, p. 15 Ivi, p. 16 Ivi, p. 15 31 lavorativi e delle qualifiche conseguiti in Patria, quanto ai trasferimenti finanziari e alle rimesse dall’estero. La Commissione pertanto proponeva di raggiungere, tramite le citate fasi progressive, la parità di trattamento con i lavoratori comunitari per tutti i lavoratori extracomunitari la cui situazione non fosse regolata da accordi bilaterali. L’azione della Commissione andava quindi a svolgere un ruolo residuale rispetto all’azione diplomatica degli Stati Membri. Le concrete proposte andavano nell’eliminazione del requisito della nazionalità per i benefici sociali, nell’eliminazione delle barriere al trasferimento dei requisiti e nell’applicazione delle misure riguardanti la sicurezza sociale anche ai lavoratori extracomunitari e alle loro famiglie57. Con la COM(74)2250, la Commissione si esprimeva inoltre su numerosi altri aspetti inerenti l’integrazione e la gestione dell’immigrazione non comunitaria, dall’educazione alle prestazioni sanitarie58; tuttavia, l’elemento che rende tale comunicazione degna di nota è costituito dal secondo capitolo del documento, dedicato ai “Diritti civici e politici”. La previsione di un insieme di diritti civici e politici di natura comunitaria è un carattere costante nell’azione e nei propositi dell’attuale Unione Europea, che trova nella risalente comunicazione la fondazione originaria. Nella Comunicazione si rileva come l’esercizio dei diritti civici (distinti dai diritti civili) sia negativamente condizionato dal requisito della nazionalità; questo requisito è definito come incompatibile con gli obiettivi dell’unificazione europea e con il principio del libero movimento delle persone. Si definisce in questo modo a chiare lettere il parallelismo intercorrente, secondo gli estensori del documento, tra residenza e possibilità di esercizio dei diritti civici e politici, in opposizione al legame tra nazionalità (o cittadinanza) e diritti politici59. 57 58 59 Ivi, p. 17 Ivi, pp. 17-19 Ivi, p. 20 32 Il Consiglio, nella Risoluzione del Consiglio del 9 febbraio 1976, prendeva atto della proposta di un piano d’azione comune. Con tale strumento veniva al par. 2 riconosciuta per la prima volta la necessità di una accellerazione sulla “umanizzazione” della libertà di movimento, allora garantita dagli articoli 48 – 51 CEE, allo scopo di svincolarla dal contesto strettamente economico. Solo un’attenzione minoritaria veniva invece dedicata alla questione dei lavoratori immigrati da uno Stato terzo. La Comunicazione COM(85)48def. La politica migratoria rimase subordinata ad altre, più complesse questioni per tutta la durata degli ultimi anni Settanta e i primi anni Ottanta. Tuttavia, le procedure di allargamento agli Stati del Mediterraneo e l’evoluzione della Comunità Economica Europea in funzione dei mutati scenari geopolitici ebbero necessari riflessi sulle politiche di immigrazione e di accoglienza degli Stati Membri e della Comunità nel suo complesso. Il principale documento di politica comune in materia di immigrazione di questo periodo è la Comunicazione COM(85)48def., Orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni, trasmessa al Consiglio il 7 marzo 1985. Nell’introdurre la questione, la Commissione Europea rilevava come le politiche immigratorie degli Stati Membri rispecchiassero il caratterizzarsi di larga parte dell’immigrazione come permanente. In particolare, la Commissione rilevava come fosse prevista l’adozione di politiche favorevoli ed all'integrazione di residenti stranieri in direzione multi-culturale, inclusa la lotta contro le varie 60 manifestazioni di «intolleranza» . Le proposte della Commissione erano divise in tre settori principali 60 Comunicazione COM(85)48def., Orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni, trasmessa al Consiglio il 7 marzo 1985, par. 3, punti 8 e 9, in Commissione delle Comunità europee (a cura di), Bollettino delle Comunità Europee, Supplemento 9/85, Orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni, p. 6 33 d'intervento: la normativa comunitaria, la concertazione e la reciproca informazione. Con riguardo all’azione comunitaria per l’approfondimento della libera circolazione61, la Commissione proponeva di definire, tramite l’adozione di apposito atto giuridico, norme intese a delimitare le eccezioni alla libera circolazione di cui all'articolo 48, paragrafo 4 del Trattato CEE, relativo agli impieghi nella pubblica amministrazione (ad es. Sentenza C-66/85, Lawrie-Blum c. Land Baden-Württemberg); si spingeva inoltre per un rilassamento dei requisiti occupazionali dei lavoratori comunitari di cui alla Direttiva n. 68/360/CEE del 15 ottobre 1968 del Consiglio. Per quanto attiene invece ai diritti “civici” e politici da attribuire agli immigrati, la Commissione rinnovava l’invito e l’impegno a proseguire nella concessione di tali diritti (ivi compresi i diritti elettorali)62, sia pure ai cittadini degli Stati Membri. Il passaggio maggiormente significativo della Comunicazione è tuttavia il punto 2763, dove si afferma a chiare lettere la necessità di un cambiamento della condizione giuridica degli immigrati – senza distinzioni riguardo alla provenienza – volto a rendere più “sicura” la concessione dei permessi di vario genere, e a facilitare ulteriormente le operazioni di naturalizzazione, presentata come condizione propedeutica all’integrazione64. L’azione comunitaria, per come proposta dalla Commissione, mirava anche a una politica rieducativa tanto delle popolazioni europee, quanto degli immigrati stessi tramite azioni sia repressive dell’opposizione «razzista» e «xenofoba» ai sensi della Dichiarazione comune interistituzionale sui diritti fondamentali – di cui evidentemente la libertà d’opinione non fa parte – sia propositive di un nuovo approccio al fenomeno immigratorio, quali ad esempio le “Giornate dell’Immigrato”, i corsi di formazione per il personale amministrativo, sostenere 61 62 63 64 Ivi, par. 4, punto 15, p. 8 Ivi, par. 4, punto 19, p. 9 Ivi p. 12 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 85 34 l’assistenza legale gratuita riservata agli immigrati e, segnatamente, sviluppare, a livello comunitario, il raggruppamento delle varie associazioni di lavoratori migranti per agevolare il dialogo tra questi e le istituzioni comunitarie65. Quest’ultima previsione di sussunzione delle organizzazioni di immigrati all’interno del sistema consultivo degli organismi comunitari europei è di particolare rilevanza, in quanto la cifra principale dell’appartenenza alla comunità politica sovranazionale europea (tanto CEE quanto UE) si riconosce non solo e non tanto nell’elezione dei componenti del Parlamento Europeo, quanto e soprattutto nella possibilità di partecipare al dialogo con le istituzioni europee meno influenzate dal processo elettorale. Prendendo le mosse dalla Comunicazione, la Commissione elaborò e istituì una apposita procedura per regolamentare la concertazione delle politiche immigratorie tra gli Stati membri66; la procedura prevedeva il coinvolgimento della Commissione (art. 1 par. 1), che organizza e presiede le riunioni (art. 4, par. 1), nella notifica dei progetti di legge e degli atti anche amministrativi e regolamentari. L’art. 3 della Decisione stabilisce che il fine principaledella concertazione (da esperire nel termine di due settimane, secondo all’art. 2) sia quello di garantire che i progetti, gli accordi e i provvedimenti siano conformi alle politiche e azioni comunitarie (art. 3, lett. b). La decisione 85/381/CEE fu impugnata dinanzi alla Corte di Giustizia, che con sentenza del 9 luglio 1987, la annullò, ritenendola priva di base giuridica. Tuttavia la Corte, ai sensi dell’art. 118 del Trattato CEE, il quale attribuiva alla Commissione il compito d‘incoraggiare la stretta collaborazione fra gli Stati 65 COM(85)48 def., par. 4, punto 42, p. 15 66 Decisione della Commissione dell'8 luglio 1985, decisione 85/381/CEE, che istituisce una procedura di comunicazione preliminare e di concertazione sulle politiche migratorie nei confronti degli stati terzi, in Commissione delle Comunità europee (a cura di), Bollettino delle Comunità Europee, Supplemento 9/85, cit., p. 20 35 membri nel campo sociale, osservò in quella medesima pronuncia che la politica migratoria rientrava nel campo sociale, anche in riferimento alla situazione del lavoro67. Il Consiglio recepì la Comunicazione COM(85)48def. con la Risoluzione del Consiglio del 16 luglio 1985 sugli orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni68, concentrandosi soprattutto sulle iniziative repressive e sul sostegno gratuito di tipo assistenziale agli immigrati da Stati terzi. Dall’Atto Unico Europeo a Maastricht: inerzia comunitaria e accordi prodromici alla disciplina comune dell’immigrazione. L’Atto Unico Europeo non prestò attenzione alla materia immigratoria in quanto tale69, ma prestò attenzione al potenziamento di uno «spazio senza frontiere interne». Collegato all’indebolimento delle frontiere, il 14 giugno 1985 fu firmato l’Accordo di Schengen tra Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, a cui fece seguito la Convenzione di esecuzione di Schengen del 1990. Anche durante il periodo intercorso tra l’Atto Unico Europeo e il Trattato di Maastricht, ad buon conto, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ebbe modo di chiarire la posizione del cittadino dello Stato terzo in relazione alle libertà fondamentali, come nel caso della Sentenza C-113/89 Rush Portuguesa Lda e Office national d'immigration, resa il 27 marzo 199070, in cui si precisa come la libertà di stabilimento garantisca che un prestatore di servizi stabilito in uno Stato Membro possa spostarsi in tutto il Mercato Comune con tutto il suo 67 C-281/85, 283/85, 285/85 e 287/85, punti 10 e ss. 68 Risoluzione del Consiglio del 16 luglio 1985 sugli orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni, in Commissione delle Comunità europee (a cura di), Bollettino delle Comunità Europee, Supplemento 9/85, cit., p. 19 69 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 85 70 G. Scaccia (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, par. II.2.3 36 personale – senza subire condizioni restrittive71. Nella sentenza il divieto di restrizioni era applicato ai lavoratori portoghesi, che pure godevano di un regime transitorio particolare, in forza dell’art. 216 dell’Atto di Adesione; tuttavia, il divieto è valido anche nel caso di lavoratori aventi cittadinanza di Stati terzi72 e in regola73, anche senza considerare l’apposito accordo tra la Comunità Europea e il Regno del Marocco, che specificatamente garantisce ai lavoratori marocchini uno status analogo a quello dei lavoratori comunitari74. La tutela giurisdizionale dei cittadini di Stati terzi fu progressivamente estesa dalla Corte di Giustizia, anche successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, sino a ricomprendere il diritto di un cittadino di Stato terzo a rimanere nello Stato Membro in caso di nuova offerta di lavoro, come nella Sentenza C-171/95 Recep Tetik c. Land Berlin75. Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore l’11 novembre 1993, diede per primo rilevanza comunitaria alla materia immigratoria, inserendola nel Titolo VI “Giustizia e Affari Interni”, detto anche “terzo pilastro” e caratterizzato da una procedura di tipo essenzialmente intergovernativo (art. K1 TUE, punto 3). Secondo tale procedura, la Commissione Europea era meramente associata ai lavori, priva quindi della posizione di preminenza propria dell’ambito “comunitario”, e il Parlamento era informato o al più consultato a riguardo delle politiche da adottare. Dette Istituzioni, pertanto, avevano un ruolo secondario. Tuttavia, la materia dei visti era inserita in una procedura di tipo comunitario, appartenendo cioè nel primo pilastro (art. 100 C TCE)76, a cui poteva essere trasferita la competenza di alcuni settori, tra i quali l’immigrazione77, sebbene 71 72 73 C-113/89, par. 12 C-43/93, par. 26 Ivi, par. 18 74 Ivi, par. 24 Scaccia (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, cit., par. II.2.1 76 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 86 77 Marco D’Agostini e Francesco De Santis (a cura di), Il "terzo pilastro" e le altre politiche di 75 37 solo all’unanimità. Tutti i settori di cui all’art. K1 dovevano essere trattati, ai sensi delle disposizioni di cui all’art. K2 TUE, nel rispetto della CEDU e della Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati. Inoltre, lo stesso art. K2 conteneva una clausola di salvaguardia intesa a chiarire che l'applicazione delle disposizioni in materia di cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni non esonerava le responsabilità degli Stati membri per il mantenimento dell'ordine 78 pubblico e la salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza interni (par. 2) . Infine, le determinazioni adottate dal Consigio nell’ambito del Titolo VI non potevano avere valenza legislativa – e quindi giustiziabile dalla Corte di Giustizia Europea – ma potevano esplicarsi solo come “convenzioni” e “azioni comuni”. Accanto alla novità costituita dalla previsione della materia immigratoria, l’elemento maggiormente rilevante del Trattato di Maastricht è tuttavia l’introduzione del concetto di cittadinanza europea. La cittadinanza europea, creando un riferimento sovranazionale, è il primo nucleo di garanzie concesse in ragione dell’appartenenza a una comunità politica sovranazionale, il cui criterio è la residenza79. Dal Trattato di Amsterdam al Trattato di Lisbona: i Programmi di Tampere e dell’Aja Il trattato di Amsterdam ha introdotto importanti innovazioni in materia di cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni, che attengono principalmente alla collocazione sistematica della materia. In seguito alle modifiche apportate, le materie di cui al Titolo VI Giustizia e Affari Interni di Maastricht vennero in parte ricomprese nel Titolo IV TCE, “Visti, asilo, cooperazione in materia di giustizia e affari interni dopo Amsterdam, par. 1.4, Ufficio ricerche nel settore giuridico e storico-politicoServizio Studi, Senato della Repubblica, 1999, consultato in http://www.euganeo.it/europei/i-e031.htm 78 Ivi, par. 1.3 79 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 88 38 immigrazione e altre politiche conneesse con la libera circolazione delle persone”, soggetto a una procedura di disciplina comunitaria80 e non più intergovernativa81, opzione peraltro già prevista dal precedente art. K9 TUE82, tramite la cosiddetta “passerella”. Sia pure con alcuni limiti, il Titolo IV di Amsterdam era quindi sottoponibile alla tutela della Corte di Giustizia di Lussemburgo. In particolare, il ricorso pregiudiziale era esperibile solo davanti a una giurisdizione avverso la quale non era possibile proporre alcun rimedio giurisdizionale interno, la Corte non era competente in caso di misure adottate per il mantenimento dell'ordine pubblico e della salvaguardia della sicurezza interna e, infine, non si applicava alle sentenze passate in giudicato al momento dell’entrata in vigore del nuovo trattato83. Infine, un protocollo allegato al trattato di Amsterdam integrò l'acquis di Schengen (ivi compresi i protocolli di allargamento intercorsi tra il 1985 e il Trattato di Amsterdam) nel quadro dell'Unione Europea, sotto la forma della cooperazione raffozata84. Le innovazioni apportate dal Trattato di Amsterdam permisero l’elaborazione delle prime due grandi linee programmatiche in materia di immigrazione e di integrazione85: il Programma di Tampere nel 1999 e il Programma dell’Aja nel 2004. Ai grandi programmi di politica immigratoria comune, cui fece seguito il primo blocco di disposizioni legislative di diritto derivato, si accompagnò l’introduzione della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Malgrado entrambi i programmi si fondino sul medesimo strumento di diritto primario, presentano tra loro notevoli e profonde differenze nell’approccio sistematico alla materia immigratoria, dovute anche alla mutata situazione geo80 81 82 83 84 85 Ivi, p. 89 Ivi, p. 90 D’Agostini e De Santis (a cura di), Il "terzo pilastro", cit., par. 2.1 Ivi, par. 2.3 Ivi, par. 3.2 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 90 39 politica mondiale e alle conseguenti esigenze percepite di sicurezza86. Il Programma di Tampere (1999 – 2004): il concetto di “cittadinanza civile” Il programma di Tampere prende il nome dal Consiglio Europeo tenutosi nella città finlandese di Tampere il 15 e il 16 ottobre 1999; in tale vertice fu dato ampio risalto alla costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia87, teso a presidiare il fronte politico interno dell’Unione Europea. Il risultato teorico più importante raggiunto dal Programma è stato l’elaborazione del concetto di “cittadinanza civile” in relazione ai diritti da attribuire agli immigrati non cittadini di uno Stato Membro per facilitarne l’integrazione. Nell’alveo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, fu sottolineato il suo carattere inclusivo nei confronti delle persone non cittadine dell’Unione Europea88; per di più, fu esplicitamente affermato che lo stesso spazio era programmaticamente aperto all’accoglienza di quanti ricercassero la libertà considerata uno standard nell’UE. La garanzia della libertà fu quindi la giustificazione delle politiche comuni in materia di asilo e immigrazione89. Nelle Conclusioni, infine, si prevedeva l’equo trattamento degli immigrati90 e il rafforzamento della «lotta contro il razzismo e la xenofobia»91, in direzione di un set di diritti che costituissero una condizione giuridica il più possibile simile a quella di cui beneficiavano i cittadini europei e, specificatamente, con l’obiettivo della naturalizzazione dei residenti da lungo tempo92. Sulla scorta di simili tesi, la Commissione delineò la necessità di collegare 86 Ivi, p. 97 Consiglio Europeo di Tampere 15 e 16 Ottobre 1999, Conclusioni della Presidenza SN 200/99, http://www.europarl.europa.eu/summits/tam_it.htm, Introduzione 88 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 93 89 Consiglio Europeo di Tampere, cit., par. 3 87 90 91 92 Ivi, par. 18 Ivi, par. 19 Ivi, par. 21 40 le politiche di immigrazione alla regolamentazione della permanenza degli immigrati, tanto temporanei quanto permanenti; il tutto nell’ottica della costruzione di società «pluralistiche», i cui vantaggi avrebbero dovuto essere presentati ai cittadini, della «promozione della diversità»93, della repressione del «razzismo» e della «xenofobia»94, unitamente al rafforzamento delle politiche di integrazione. Un compito rilevante in tal senso è affidato anche ai mezzi di comunicazione di massa95. In questo senso, la Commissione elaborava il concetto di “cittadinanza civile” come un concetto supplettivo alla naturalizzazione, e comunque come l’introduzione di una gradualità progressiva nel godimento dei diritti – di ogni tipo96. Inoltre, con l’attribuzione di tali diritti compresi nel concetto di cittadinanza civile in nome del criterio dei diritti fondamentali, è stata notata una progressiva del principio di reciprocità interstatuale97, proprio del diritto internazionale classico. Riprendendo le direttive del Consiglio Europeo, la Comunicazione annoverò inoltre il paternariato con gli Stati d’origine, la conferma del diritto a chiedere asilo e soprattutto l’equo trattamento dei cittadini di Stati terzi: fino a garantire agli immigrati condizioni di vita e di lavoro comparabili a quelle di chi ha la 98 nazionalità , per arrivare al riconoscimento dei diritti civili e politici agli immigrati di lunga permanenza99. In cambio, si chiedeva agli immigrati l’accettazione dei principi e valori liberaldemocratici di tolleranza e di rispetto per 93 Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo su una politica comunitaria in materia di immigrazione del 22 novembre 2000, COM(2000)757 def., pp. 5 e 20 94 Ivi, p. 20 95 Ibidem 96 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 95 Angela Di Stasi, Verso uno “statuto” euro-nazionale del cd. immigrato di lungo periodo, in Leanza (a cura di), Le Migrazioni. Una sfida per il diritto internazionale comunitario e interno, Atti del IX Convegno SIDI del 17-18 giugno 2004, Napoli, 2005, p. 451 98 COM(2000)757, p. 17 99 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 94 97 41 le minoranze, considerati dall’Unione Europea come fondamentali100. Per raggiungere questo obiettivo, ai “leader” politici era assegnato il compito di «creare il contesto necessario per l’accettazione della diversità» e di predisporre un processo di integrazione di lungo periodo, da focalizzare principalmente su donne, bambini e immigrati di seconda generazione, da attuare coinvolgendo anche la società civile, ivi incluse le associazioni di immigrati101. Con riguardo alle generazioni successive a quella di ingresso, e in particolare la terza generazione, la Commissione Europea non esita a proporre una misura come l’attribuzione automatica della cittadinanza dello Stato di nascita, secondo il principio dello ius soli102. Invero, come si può leggere nelle conclusioni di detta Comunicazione, l’immigrazione in Tampere è concepita esplicitamente come un rimedio numerico al calo demografico dell’Unione Europea103; la previsione dell’integrazione degli immigrati, anche a livello politico, è la conseguenza in linea con i principi sottostanti ai diritti fondamentali atta a evitare fenomeni di disgregazione sociale apportati da quello che appare come essere un fenomeno di importazione di cittadini. Al fine di dirigere la politica comune dell’immigrazione, la Commissione coordinamento nel 104 2001 sceglieva la tecnica del metodo aperto di . Durante il Consiglio Europeo di Siviglia del 2002 gli obiettivi di Tampere vennero riaffermati, sottolineando la necessità di equilibrio tra capacità recettiva e legittimate aspirazioni degli immigrati, e di combattere l’immigrazione clandestina105. Nel 2003 viene rilasciata anche una nuova 100 101 102 COM(2000)757, p. 18 Ibidem Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 95 103 COM(2000)757, p. 19 Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo relativa ad un metodo aperto di coordinamento della politica comunitaria in materia di immigrazione del 11 luglio 2001, COM(2001) 387 def. 105 Benedetta Pricolo, L’integrazione dei cittadini di Stati Terzi nelle politiche comunitarie di gestione dell’immigrazione: da Siviglia a Salonicco, passando per Bruxelles, http://www.cestim.it/index.htm?/15politiche.htm, p. 2 104 42 comunicazione (COM in (2003)336), cui si ribadisce l’importanza dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali sull’acquisto della cittadinanza, in direzione della facilitazione dell’accesso a tale condizione giuridica, e l’opportunità del conferimento della “cittadinanza civile” per i non cittadini stabilmente residenti nello Stato106. L’acquisto della cittadinanza, ad ogni modo, è presentato come il punto di arrivo finale di un percorso che presuppone, in primis, un ruolo lavorativo stabile, la padronanza linguistica, la soddisfacente condizione abitativa e il ruolo sociale e culturale 107 . Definendo quindi nella Comunicazione la “cittadinanza civile” come un nucleo di diritti e doveri anche politici acquisito in funzione della lunga durata e dalla stabilità della residenza dello straniero, la Commissione Europea propone di superare la concezione della cittadinanza come discendente dal fattore nazionale108; tale condizione giuridica, a parere della Commissione, sarebbe stata da inserire nel Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa109. Infine, il 19 e il 20 giugno 2003 si tenne il Consiglio Europeo di Salonicco, dove venne ribadita l’esigenza della condivisione degli oneri per gli Stati Membri più esposti, derivanti dall’immigrazione110, di ordine strettamente amministrativo e finanziario. Infine, viene omesso il riferimento alla “cittadinanza civile” di cui alla Comunicazione di poco precedente 111 . Stanti le forti differenze tra gli obiettivi particolari degli Stati Membri, le principali normazioni risalenti al Programma di Tampere sono state valutate come armonizzazioni al ribasso112. Esse assumono la forma della direttiva e attengono 106 Ivi, p. 5 107 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 94 Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni su immigrazione, integrazione e occupazione del 3 Giugno 2003, COM(2003)336, par. 3.3.6, p. 25 109 Pricolo, L’integrazione dei cittadini di Stati terzi nelle politiche comunitarie, cit., p. 7 108 110 111 112 Ivi, p. 8 Ivi, p. 9 Ivi, p. 4 43 al ricongiungimento familiare (Direttiva 2003/86/CE) e alla condizione giuridica degli immigrati di lunga permanenza (Direttiva 2003/109/CE). Il Programma dell’Aja (2004 – 2009) L’elaborazione del Programma dell’Aja, valido per il quinquennio intercorso tra il 2004 e il 2009, venne a inserirsi in un momento in cui la rinnovata attenzione per la tutela della sicurezza interna si collegava strettamente alla vigilanza sull’immigrazione. Il 9 luglio 2003, il Ministro dell’Interno della Repubblica Italiana – all’epoca titolare della Presidenza – illustrò davanti all’Europarlamento i punti principali del programma sui temi dell’immigrazione, della criminalità organizzata e del terrorismo, punti che furono ripresi dai Consigli Europei successivi113. La scelta di collegare la regolamentazione dell’immigrazione alla tutela della sicurezza è da collegarsi alla consapevolezza dell’avanzato stadio della “globalizzazione” delle connessioni economiche di ogni tipo114, ma anche alla mutata percezione del contesto internazionale115, su cui la diffusione della violenza politica di matrice islamica negli Stati euroatlantici (ironicamente cominciata nella prima metà del periodo di vigenza del Programma di Tampere) pesò come un macigno. In particolare, con le determinazioni del Consiglio Europeo tenutosi a Bruxelles il 4 e 5 novembre 2004, si sottolinearono le nuove urgenze in funzione degli attacchi a sfondo terroristico perpretrati a New York nel 2001 e a Madrid nel 2004116. 113 Consiglio Europeo di Bruxelles 4 e 5 Novembre 2004, Conclusioni della Presidenza 14292/1/04 REV 1, http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/it/ec/82551.pdf , par. 14, p. 10 114 Giovanni Maria Flick, Le sfide della sicurezza e della solidarietà e il ruolo dell'Europa, in Rassegna dell'Arma dei Carabinieri, n. 2/2005, par. 2, p. 8 115 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 97 116 Consiglio Europeo di Bruxelles, Conclusioni della Presidenza, cit., par. 14, p. 10 44 Per quanto attiene all’immigrazione e alla sua gestione, il Programma dell’Aja spostò il focus dallo spazio di libertà generalizzato alla regolamentazione dell’immigrazione legale in funzione delle esigenze dell’economia europea. In particolare, grande attenzione venne data al rafforzamento dell’economia della conoscenza117, in ottemperanza alla Strategia di Lisbona118, stante la determinazione a gestire il fenomeno nella sua globalità119. Riprendendo le succitate conclusioni del Consiglio Europeo di Salonicco, inoltre, viene ventilato il concetto tra ripartizione degli oneri e delle responsabilità fra gli Stati membri 120 , così come l’elaborazione di un sistema europeo in materia di asilo121. In merito al processo dell’integrazione, è rimarcabile l’assenza di ogni riferimento a concetti quali la naturalizzazione o la cittadinanza civile, concetto introdotto fin dalla summenzionata Comunicazione del 1974 e approvata a Tampere122, dedicandosi il Programma a sottolineare la sua bidirezionalità, l’individuazione dei valori europei nei «diritti umani fondamentali» e la multisettorialità del processo dell’integrazione123. Le determinazioni del Consiglio Europeo di Bruxelles e il Programma dell’Aja determinarono un rinnovato orientamento della Commissione Europea, che si manifestò nella serie di Comunicazioni in cui essa esponeva gli obiettivi politici di dettaglio, sulla scorta delle linee guida prefissate. Tra di esse, appaiono rilevanti la Comunicazione COM(2005)389 e la Comunicazione COM(2007)512 per le priorità attribuite nel contesto dell’integrazione. Nella Comunicazione COM(2005)389 def, si affermava a chiare lettere che l’integrazione avrebbe implicato, da allora in avanti, il rispetto per i valori di base 117 Consiglio Europeo di Bruxelles, Conclusioni della Presidenza, Allegato I, Programma dell’Aja, par. 1.4, p. 19 118 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 97 119 120 121 122 123 Programma dell’Aja, cit., par. 1.2, p. 16 Ivi, p. 17 Ivi, par. 1.3, p. 18 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 98 Programma dell’Aja, cit., par. 1.5, p. 20 45 dell’Unione Europea124, 125 . A livello nazionale si sarebbe dovuto operare per l’introduzione di orientamento civico per assicurare la condivisione dei valori nazionali ed europei da parte dei nuovi arrivati, mentre a livello europeo si sarebbero dovuti includere anche i cittadini di Stati terzi nella costituenda Agenzia per i Diritti Fondamentali. D’altro canto, si manteneva dalle elaborazioni precedenti la necessità di educare i cittadini europei a riguardo degli immigrati e delle loro culture, per evitare fenomeni di estraneità sociale, in particolar modo negli ambienti urbani 126 . Viene in rilievo la costante formulazione dell’esigenza di fornire ai cittadini di Stati terzi adeguate sistemazioni abitative. La Comunicazione COM(2007)512 def è un rapporto intermedio di attuazione del Programma dell’Aja. In essa si sottolinea l’importanza sotto il profilo demografico dell’immigrazione, nonostante la diversità degli approcci nazionali su quale categoria di immigrazione legale privilegiare127. In merito all’attribuzione e alla protezione dei diritti fondamentali ai cittadini di Stati terzi, viene tra gli altri impegni ribadita la necessità della repressione della 128 xenofobia ; infine, si afferma la necessità di rinviare ad una fase di ulteriore studio la questione dei modelli di cittadinanza da attribuire agli abitanti sprovvisti della cittadinanza europea129. Il Trattato di Lisbona e il Programma di Stoccolma Il Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull'Unione europea e il trattato 124 Comunicazione dalla Commissione al Consiglio, il Parlamento Europeo, il Comitato Economico e Sociale Europeo e il Comitato delle Regioni del 1 settembre 2005, Un’agenda comune per l’integrazione – Quadro per l’intergrazione di cittadini di Stati terzi nell’Unione Europea, COM(2005)0389 def, par. 2 125 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 98 126 COM(2005)389 def, par. 7 Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e Al Comitato Delle Regioni dell’11 settembre 2007, Terza relazione annuale su migrazione e integrazione, COM(2007)512 def, par. 2 128 Ivi, par. 3.2 129 Ivi, par. 5, Conclusioni 127 46 che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbona iln 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, rappresenta il superamento dell’impasse determinatasi con il fallimento del Trattato Costituzionale del 2004. Nel trattato del 2007 vengono inequivocabilmente eliminati alcuni aspetti inerenti all’esteriorità dell’azione sovrana e alla Carta dei Diritti Fondamentali è attribuito rango pari a quello del TUE e del TFUE; per quanto attiene alla politica migratoria, d’ora in avanti avente carattere comune (di cui all’art. 79 TFUE), è riconosciuto il dovere di “equità” nei confronti dei cittadini degli Stati terzi 130 : la formulazione letterale, con l’abbandono del concetto di “eguaglianza” di trattamento, è stata posta da parte di alcuni autori in contrasto con le intenzioni di cui al Programma di Tampere131. Funzionale al nuovo corso – determinato anche dalla contemporanea crisi economica del mondo “occidentale” – è il Programma di Stoccolma, in vigore dal 2010 e fino al 2014. Tale programma era stato anticipato da alcuni documenti e ha un orientamento fortemente dissonante con le intenzioni aperturiste dell’originario Programma di Tampere 132 . In tale senso, il Programma presenta una connotazione diretta a restringere l’immigrazione, distinta dall’asilo e dal soggiorno nell’UE per motivi legati alla protezione internazionale, privilegiando l’importazione di lavoratori altamente qualificati, peraltro a condizioni assai diverse da quelle previste per i lavoratori analogamente qualificati che possiedono la cittadinanza dell’Unione. All’ultimo periodo di vigenza del Programma dell’Aja e al Programma di Stoccolma, che peraltro nel momento in cui il testo viene redatto è in fase di superamento a causa del termine della vigenza, fa capo buona parte della disciplina attualmente in vigore a riguardo dell’immigrazione legale e a riguardo della disciplina dell’asilo. 130 131 132 Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 91 Ibidem Ivi, p. 102 47 La disciplina della condizione giuridica delle persone regolarmente soggiornanti sprovviste della cittadinanza europea nel diritto derivato dell’Unione Europea Come precedentemente accennato, l’approccio alla questione migratoria da parte della Comunità e dell’Unione si è evoluto nell’arco di una prospettiva ormai quindicennale; ai tre programmi ufficialmente rilasciati sino al 2009 – e in vigore sino al 2014 – se ne aggiungerà un quarto, successivo al Programma di Stoccolma. Dall’introduzione del Programma di Tampere alla scadenza del Programma di Stoccolma è inevitabilmente mutato il contesto, e mutando il contesto sono mutate le esigenze che il legislatore europeo, nelle sue molteplici articolazioni, ha deciso di privilegiare. In tal senso, nella sua evoluzione storica, la legislazione di diritto derivato dell’Unione Europea è raggruppabile in due principali macroaree, quali i diritti dei soggiornanti di lungo periodo e regolari, rispettivamente disciplinati nel 2003 e nel 2011, e le previsioni per i lavori ad alta qualificazione o per le persone il cui soggiorno nell’Unione è comunque inerente allo sviluppo dell’economia della conoscenza, materie disciplinate nel 2004, nel 2005 e nel 2009133. La Direttiva Soggiornanti di Lungo Periodo 2003/109/CE La Direttiva 2003 del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo fu emanata verso la fine della vigenza del Programma di Tampere; richiamando le conclusioni del vertice, il Considerando 2 ribadisce che ogni Stato membro dovrebbe garantire una serie di diritti uniformi e quanto più simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell'Unione Europea alle persone che soggiornano regolarmente in un determinato Stato membro per un periodo da definirsi e sono 133 Ivi, p. 104 48 in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata. La Direttiva è considerata essere improntata all’integrazione e al già citato principio del trattamento comparabile134. In particolare, l’art. 12 rende – di fatto – molto complessa l’adozione di un provvedimento di espulsione anche contro si sia reso protagonista di azioni dirette a mettere in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica. Infine, il diritto alla circolazione dei cittadini di Stati terzi trova nella direttiva la sua prima regolamentazione legislativa, malgrado il fatto che tale diritto fosse già stato creato dalla Corte di Giustizia, nei primi anni Novanta 135 . L’art. 1 chiarisce lo scopo della direttiva, che riguarda essenzialmente i requisiti circa il permesso di soggiorno e la mobilità degli immigrati di lunga permanenza all’interno dell’Unione Europea. L’applicazione della direttiva non è tuttavia generale nemmeno all’interno degli immigrati di soggiorno regolare: secondo l’art. 3, par. 2, sono esclusi dall’applicazione coloro che soggiornano nell’UE per motivi di studio o di formazione professionale (lett. a), godono di una delle forme della protezione internazionale o sono in attesa della decisione (lettere b, c, d); è anche escluso l’individuo sprovvisto di cittadinanza europea che soggiorni unicamente per motivi di carattere temporaneo (lett. e) o che godano di uno status giuridico relativo ai rapporti internazionali degli Stati, per come disciplinato dalle convenzioni internazionali sulle relazioni diplomatiche (lett. f). L’art. 3, par. 3 lascia impregiudicate le eventuali condizioni più favorevoli che possano derivare da accordi bilaterali e multilaterali, nonché dai documenti degli organismi europei. Il Capo II disciplina in linea generale la condizione giuridica di soggiornante di lungo periodo. Esso è permanente, fatta salva la revoca o la rinuncia, e comporta la concessione di un permesso di soggiorno apposito valido nell’intero ambito dell’attuale Unione Europea, dalla durata di almeno cinque anni 134 Ivi, p. 108 Scaccia (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, cit., par. II.2.3 135 49 e, su richiesta, automaticamente rinnovato (art. 8); qualora il permesso non venisse rinnovato, la condizione di soggiornante di lungo periodo è comunque fatta salva (art. 9, par. 6). Infine, ai sensi dell’art. 13, gli Stati membri possono rilasciare permessi di soggiorno a condizioni più favorevoli, che però non non conferiscono il diritto di soggiornare negli altri Stati membri. Perché tale condizione sia concessa, l’art. 4, par. 1 stabilisce che i richiedenti debbono aver soggiornato legalmente e ininterrottamente per cinque anni nel territorio dello Stato Membro prima della presentazione della domanda. I cinque anni sono calcolati come presenza stabile: la residenza diplomatica o consolare e i soggiorni temporanei non sono considerabili, mentre la formazione professionale o lo studio possono essere calcolati «a metà» (par. 2); se le assenze dal territorio dello Stato Membro sono inferiori a dieci mesi, esse non interrompono i cinque anni (par. 3). Al periodo successivo del medesimo paragrafo, infine, viene come sempre fatta salva la possibilità per gli Stati Membri di richiedere condizioni più favorevoli all’immigrato richiedente, così come quella di non considerare i soggiorni all’estero dovute al distacco per lavoro. Inoltre, gli Stati Membri devono assicurarsi, come prescritto all’art. 5, che i richiedenti dispongano di risorse stabili e regolari, tali da non avere necessità di fare ricorso all’assistenza sociale (par. 1, lett. a) e di un tipo di assicurazione medica che fornisca una copertura analoga a quella prevista per i cittadini nazionali (lett. b). La ratio dell’art. 5, par. 1 è, evidentemente, quella di garantire che l’immigrato richiedente non sia di peso – economico e sociale – per la comunità nazionale di residenza. Questa disposizione è peraltro di tono sostanzialmente analogo all’art. 7, par. 1, lettere (b) e (c) della nota Direttiva 2004/38/CE del Consiglio, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Per quanto attiene agli oneri sociali, gli Stati Membri possono esigere che i cittadini di paesi terzi soddisfino le condizioni di integrazione, di cui alle legislazioni nazionali (par. 2). 50 L’art. 6 fa inoltre salva la possibilità per gli Stati Membri di negare la condizione giuridica di immigrato di lungo soggiorno e i benefici che ne derivano per ragioni di ordine e sicurezza pubblica. Conformemente alla consolidata prassi in materia, tale elenco è da ritenersi di natura strettamente tassativa; il par. 2 precisa che il diniego non può essere opposto per ragioni economiche. L’art. 7 disciplina la procedura specifica, e inoltre stabilisce al par. 3 l’obbligo generalizzato dello Stato Membro a conferire lo status giuridico richiesto a qualsiasi cittadino di Stato terzo la richieda, posto che le condizioni di cui agli artt. 4, 5 e 6 siano soddisfatte. Lo status è revocato, a norma dell’art. 9, se esso è stato acquisito in modo fraudolento (art. 9, par. 1, lett. a), se la persona è stata fatta oggetto di un provvedimento di allontanamento (lett. b) o se sia stata assente per almeno dodici mesi consecutivi (lett. c), fatte salve le disposizioni più favorevoli eventualmente accordate (par. 2) e includendo il caso di minaccia all’ordine pubblico che non sia sufficiente a far scattare l’allontanamento (par. 3); quest’ultima disposizione appare essere un meccanismo in larga parte discrezionale. Inoltre, lo status in uno Stato Membro si perde a seguito della concessione del medesimo status in un altro Stato Membro o non vi abbia soggiornato per almeno sei anni, fatte salve le disposizioni più favorevoli (par. 4). In ogni caso, la revoca, motivata ai sensi dell’art. 10, par. 1, è soggetta a possibilità di impugnazione da parte dell’interessato (par.2). Ai sensi dell’art. 11, par. 1, il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le condizioni di lavoro, subordinato o autonomo, con l’eccezione dell’esercizio di pubblici poteri, di istruzione e formazione professionale, di riconoscimento dei titoli, l'assistenza sociale di vario genere, le agevolazioni fiscali, l'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, nonché alla procedura per l'ottenimento di un alloggio. Al pari dei cittadini nazionali, i cittadini di Stati terzi che godono dello status in parola godono anche della piena libertà di associazione professionale, fatte salve 51 le disposizioni nazionali in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza e il libero accesso a tutto il territorio dello Stato membro interessato. L’art. 12 dispone una serie di limitazioni per l’espulsione di un soggiornante di lungo periodo per i motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza, che sono sottoposti a specifici criteri per il test di proporzionalità: lo Stato Membro deve considerare la durata della permanenza del soggiornante che agisce contro l’ordine e la sicurezza pubblica, la sua età, le conseguenze che possono derivare a chi è soggetto all’ordine di espulsione e ai suoi familiari e i vincoli con lo Stato Membro di soggiorno dal quale viene espulso per motivi di ordine e sicurezza pubblica e l'assenza di vincoli con il paese d'origine. Il provvedimento è soggetto a tutela giurisdizionale. Per quanto attiene alla mobilità dell’immigrato di lungo periodo, essa è disciplinata al Capo III. La persona che gode dello status in esame può soggiornare in altri Stati Membri anche per periodi superiori a tre mesi (art. 14, parr. 1 e 2), fatta salva la possibilità di limitare tale libertà in considerazione della tutela del mercato di lavoro, che rimane riconosciuta in capo agli Stati Membri di destinazione (parr. 3 e 4), con l’eccezione dei lavoratori distaccati (par. 5). Le condizioni prescritte per il soggiorno in altro Stato Membro diverso da quello di soggiorno, descritte all’art. 15, parr. 2 e 3, sono le medesime di cui all’art. 5, par. 1 e 2. Previo soddisfacimento delle condizioni di cui all’art. 15, lo Stato Membro attribuisce il permesso di soggiorno e informa il primo Stato Membro (art. 19). Gli eventuali dinieghi del permesso di soggiorno nel secondo Stato Membro sono soggetti a limitazoni del tutto analoghe a quanto previsto per il caso del primo Stato Membro. Infine, in caso di ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo nel secondo Stato Membro, lo status ottenuto nello Stato Membro precedente viene revocato ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 9 (art. 23): il meccanismo è finalizzato a garantire un solo Stato di soggiorno di lungo periodo alla volta, allo scopo di evitare il cumulo delle condizioni di “quasi cittadinanza”. 52 La Direttiva Soggiornanti Regolari 2011/98/UE La direttiva 2011/98/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, non riguarda i cittadini di paesi terzi che hanno acquisito lo status di soggiornanti di lungo periodo ai sensi della direttiva 2003/109/CE (Considerando 8) e, per converso, i lavoratori puramente temporanei (Considerando 9). La direttiva, emanata nell’ambito del Programma di Stoccolma, stabilisce un insieme comune di diritti per i lavoratori aventi la cittadinanza di Stati terzi, così come una procedura unificata per il permesso di soggiorno e il permesso di lavoro (art. 1, par 1). Rispetto alla Direttiva 2003/109, è possibile notare il restringimento dell’ambito: da una posizione di generalizzata apertura, a cui vengono apposte più o meno significative eccezioni, si passa a una selezione specifica dei profili di cittadini di Stati terzi, e cioè essenzialmente lavoratori funzionali all’economia dell’Unione. La direttiva prevede per i lavoratori di Paesi terzi la parità di trattamento con i cittadini nazionali riguardo a condizioni di lavoro, istruzione, riconoscimento di diplomi e qualifiche, agevolazioni fiscali (se domiciliati) e sicuezza sociale e accesso ai beni e servizi offerti al pubblico, incluso l’accesso all’abitazione. Lo schema è analogo a quello della Direttiva 2003, almeno per quanto attiene alle aree per cui è prevista la parità di trattamento (art. 12, par. 1). Diversamente dalla direttiva soggiornanti di lungo periodo, la direttiva 2011/98 contiene alcune possibilità per gli Stati membri di derogare o restringere la portata del principio di parità di trattamento in alcune situazioni che variano in 53 relazione all’area tematica (art. 12, par. 2)136. All’art. 13 viene fatta salva la possibilità di prevedere disposizioni più favorevoli che possano derivare da accordi bilaterali e multilaterali, nonché dai documenti degli organismi europei. 136 http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1994&l=it 54 CAPITOLO 2: IL DIRITTO D’ASILO NELL’UNIONE EUROPEA Il diritto di asilo è un'antica nozione giuridica, in base alla quale una persona perseguitata nel suo paese d'origine può essere protetta da un'altra autorità sovrana. Questo diritto ha una lunga tradizione occidentale; ogni Stato ha offerto protezione a stranieri perseguitati. La fonte alla base del diritto d’asilo per come inteso dal secondo dopoguerra è la Convenzione di Ginevra del 1951, accanto al Protocollo del 1967. Il rifugiato è colui che, per effetto della legge dello Stato ospite e delle convenzioni internazionali, gode di tale status e della relativa protezione attraverso l'asilo politico. La materia dell’asilo in ambito generalmente europeo – comprendendo quindi tanto i singoli Stati quanto le organizzazioni internazionali e sopranazionali regionali – trova il suo fondamento nella Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di diritti dei rifugiati1. La politica dell’Unione Europea in materia di immigrazione e asilo è prevista all’art. 78 TFUE, il quale richiama espressamente detta Convenzione. In particolare, l’art. 78, par. 2 TFUE prevede l’istituzione di uno status uniforme dell’asilo, superando il Trattato di Amsterdam che prevedeva, come descritto nel Programma di Tampere, una semplice definizione di standard minimi2. Approfondendo ulteriormente l’integrazione in materia, e probabilmente anche in riferimento alla situazione geografica e politica delle frontiere esterne, l’art. 78, par. 3 TFUE così come formulato a Lisbona prevede un meccanismo semplificato e principalmente in capo a Commissione e Consiglio per le situazioni di emergenza. In precedenza anche il Parlamento Europeo era coinvolto nelle 1 Fundamental Rights Agency, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Lussemburgo, 2013, p. 64 2 Giuseppina Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione internazionale, in Carella, Cellamare, Garofalo, Gargiulo, Pizzolante, Sacovelli, Di Chio, L’immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell’Unione Europea, Monduzzi Editoriale, Milano, 2012, p. 118 55 procedure emergenziali. La politica dell’Unione Europea di asilo e di protezione internazionale, come specie distinta e a sé stante dell’immigrazione, è una materia introdotta per la prima volta dal Trattato di Amsterdam. Essa rappresenta un passo rilevante nella caratterizzazione in senso politico dell’integrazione europea: dalla regolazione intergovernativa passò alla regolazione comunitaria, allora propria del cosiddetto “primo pilastro” dei tre istituiti a Maastricht. La “comunitarizzazione” dell’asilo e della protezione internazionale è stata, sinora, scandita da tre fasi, a loro volta definite da tre Programmi europei: il Programma di Tampere del 1999, il Programma dell’Aia del 2004 e, da ultimo, il Programma di Stoccolma del 2009. La prima fase, iniziata nel 1999, ha previsto l’armonizzazione di norme minime, che non definiscono una procedura comune ma introducono mere «norme procedurali»3. La seconda fase è stata lanciata con il Programma dell’Aia, adottato nel 2004, con l’obiettivo di creare una procedura integrata dell’intero meccanismo. A questo scopo nel 2010 è stato istituito l’Ufficio Europeo per il Sostegno all’Asilo, aperto a Malta nel 2011, che si aggiunge alla Direttiva Qualifiche. Infine, per il periodo 2010 – 2014 è stato elaborato il Programma di Stoccolma volto a portare all’adozione delle proposte elaborate dalla Commissione Europea durante il periodo di vigenza del Programma dell’Aia. L’ordinamento dell’Unione Europea non si limita al riconoscimento del diritto di richiedere asilo ma va oltre, riconoscendo il diritto all’asilo stesso; lo strumento a tal fine è l’art. 18 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea4. La fase del Programma di Stoccolma si è conclusa nel giugno 2013, con gli strumenti più rilevanti modificati entro tale periodo. Sono stati approvati numerosi 3 4 Ivi, p. 117 FRA, diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, cit., p. 47 56 strumenti che innovano norme precedenti o che le completano; al primo gruppo appartengono la Direttiva Qualifiche del 2011, la Direttiva Accoglienza del 2013, la Direttiva Procedure del 2013, il Regolamento Dublino III (Regolamento UE n° 604 del 2013) e il nuovo Regolamento Eurodac (Regolamento UE n° 603 del 2013). Le norme di attuazione dell’art. 78 TFUE consitono principalmente nel Sistema di Dublino, composto a sua volta da più strumenti, nella Direttiva 2005/85/CE del 1 dicembre 2005, recante norme minime per le procedure, e nelle Direttive 2004/83/CE del 29 aprile 2004 e 2011/95/CE del 13 dicembre 2011, recanti norme minime sull'attribuzione della qualifica di rifugiato, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta. Inoltre, per quanto attiene la riunificazione familiare dei rifugiati, il riferimento normativo è la Direttiva 2003/86/CE del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare; tuttavia, la norma non si riferisce solamente ai rifugiati o alle persone che godono della protezione internazionale ma in genere a chi entra nell’Unione Europea; la Direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003 reca invece norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. Le Direttive Requisiti per l’Asilo 2004/83/CE e 2011/95/CE La politica di asilo e di protezione internazionale dell’Unione si basa, per il suo effettivo dispiegarsi con efficacia negli Stati Membri, sulla previsione di una serie di requisiti comuni, fondati sulla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, ai sensi dell’art. 6 TUE, sulla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ai sensi dell’art. 78 TFUE, e sulle linee guida stabilite dai vari programmi in materia. L’esigenza di un “sistema qualifiche” di ambito “comunitario”, che garantisca identità di requisiti per l’acquisizione e per la revoca della protezione in tutti gli Stati Membri, è funzionale a garantire la massima libertà di circolazione 57 secondaria (cioè derivante dall’acquisizione dello status di rifugiato) all’interno dell’Unione Europea. La normativa in merito all’individuazione di chi può ricevere la protezione internazionale è stata emanata con la Direttiva 2004/83/CE, originaria ancora della fase di Tampere e successivamente trasposta e rifusa nella direttiva 2011/95/CE5; la seconda Direttiva, emanata per adeguare la normativa alle innovazioni apportate dal Trattato di Lisbona, è entrata in vigore il 21 dicembre 2013. Ai sensi dei Protocolli nn. 21 e 22 allegati ai Trattati, tuttavia, dall’applicazione sono esclusi il Regno Unito, l’Irlanda6 e la Danimarca7, mantenendo l’efficacia per i 25 Stati Membri rimanenti. Le due “Direttive Qualifiche”, malgrado si susseguano a distanza di sette anni l’una dall’altra, condividono la medesima impostazione di fondo, diretta a fissare una serie di requisiti comuni, pur lasciando aperta la strada delle disposizioni maggiormente favorevoli (art. 3 della nuova norma, facoltà peraltro già previsto dal medesimo articolo della precedente direttiva). In particolare, la Direttiva 2011/95/CE presenta alcune differenze dirette ad aumentare la “integrazione” dei rifugiati o degli altri beneficiari dell’integrazione8. Tutto il sistema qualifiche, tanto nella Direttiva del 2004 quanto in quella del 2011, si basa sul contenuto delle varie forme di protezione e sui requisiti per ottenerle: pertanto, vengono in esame una serie di aspetti come la percezione del pericolo da parte del richiedente, le possibili alternative di protezione interna nel Paese di origine o, nel caso delle persone apolidi, di residenza, e i motivi della persecuzione9. 5 6 7 8 9 Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit., p. 136 Protocollo n. 21, artt. 1, 2 e 4 bis Protocollo n. 22, artt. 1 e 2 Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit., p. 136 Ivi, p. 137 58 Entrambe le direttive sono composte da due elementi principali: da un lato i requisiti veri e propri per i vari tipi di protezione internazionale, e dall’altro la disciplina di ciò che gli status eventualmente accordati comportano. In ultimo, viene dettagliato il contenuto della protezione internazionale (Capo VII), nei suoi diritti ed obblighi. Il Capo IV regola lo condizione giuridica dei Rifugiati, mentre il Capo VI disciplina la condizione dei beneficiari della protezione sussidiaria: l’art. 14 disciplina i motivi di cessazione dello status, stabilendo in linea generale, conformemente alle prescrizioni dell’art. 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che gli accertamenti debbano essere condotti su base individuale. Il Capo II regola le norme essenziali e i criteri di valutazione delle domande di protezione internazionale. Esso è il Capo centrale, che prevede le procedure comuni per tutti i tipi di protezione. Ulteriori Capi appartenenti alla categoria dei requisiti sono il Capo III (Requisiti Rifugiati) e il Capo V (Requisiti Protezione Sussidiaria). Lo status di protezione internazionale, di qualunque gradazione, è subordinato all’esame preventivo da parte dello Stato che per primo accoglie la richiesta, individuato ai sensi del «Sistema di Dublino». Tale esame include, ai sensi dell’art. 4 di entrambe le versioni, i dati anagrafici e personali del richiedente ed eventualmente dei suoi familiari (par. 2), nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale. La valutazione di cui al par. 3 prevede una valutazione ad ampio raggio da parte delle autorità dello Stato “ospite” di tutte le opzioni che possono confermare o inficiare la fondatezza della domanda di asilo. L’art. 5 prevede una protezione internazionale anche laddove la minaccia al richiedente si sia verificata anche dopo il suo abbandono della sua Patria, cioè dopo che ha intrapreso l’emigrazione, che quindi non è stata determinata da motivi di protezione personale. Tuttavia, il par. 3 prevede una clausola di esclusione se a determinare la minaccia posta in essere è stato l’emigrato stesso 59 dopo la partenza: questo paragrafo dovrebbe servire ad evitare la strumentalizzazione dell’asilo da parte di nemici dello Stato di origine. L’art. 6 descrive gli autori della persecuzione o del danno grave necessari all’accoglimento della domanda di asilo. In linea con le previsioni internazionali di tutela dei diritti umani, essi sono lo Stato di origine (lett. a), le organizzazioni non strettamente statali che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio (lett. b) o altre organizzazioni, sempre non statali, nel caso in cui né le organizzazioni internazionali, né lo Stato, comprese le organizzazioni di cui alla lett. b, possano o vogliano fornire una protezione adeguata. L’incapacità, la mancanza di volontà o l’inerzia devono essere dimostrate. Specularmente all’art. 6, il successivo art. 7 definisce chi può offrire protezione contro persecuzioni o danni gravi all’interno dello Stato di orgine (che ai sensi del par. 2 è «effettiva e non temporanea»): gli attori sono lo Stato (par. 1, lett. a oppure dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio (lett. b). È da rilevare come l’art. 7 nella nuova formulazione restringa tassativamente i soggetti capaci di offrire protezione contro persecuzioni o danni gravi a quelle organizzazioni elencate. Sempre nella nuova formulazione, si chiarisce che perché possa verificarsi la possibilità di protezione interna debbano essere presenti la volontà e la capacità di offrire protezione. Ad ogni modo, la protezione contro persecuzioni o danni gravi va tenuta distinta dalla protezione interna, di cui all’articolo successivo. L’articolo 8 prevede la possibilità della “Protezione interna”, e cioè del trasferimento in un’altra parte dello Stato di origine, se è giudicato ragionevole che il richiedente vi si trasferisca e vi si stabilisca (par. 1). Nella formulazione del 2011, l’art. 8 par. 1 è una norma dal carattere opzionale, lasciando la libertà di scelta agli Stati Membri10. È da rilevare come il par. 2 del medesimo articolo, 10 Ivi, p. 140 60 nella versione della direttiva del 2011, restringa le fonti di informazione «da fonti pertinenti, quali l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo»; nella disciplina del 2004, gli Stati erano tenuti a considerare in modo autonomo le «condizioni generali», senza avere la necessità di consultare simili autorità internazionali. Dall’art. 8 della Direttiva del 2011 è infine eliminato il par. 3 presente nella norma del 2004, il quale prevedeva la possibilità per gli Stati di applicare il concetto di protezione interna, "nonostante ostacoli tecnici al ritorno nel Paese di origine"11. Il Capo III inerisce ai requisiti specifici perché sia accordato lo status di rifugiato. L’art. 9 precisa che gli atti di persecuzione devono essere di grave portata (par. 1) e successivamente include un’ampia serie di atti o azioni posti in essere da parte dello Stato, anche se tale elenco non appare tassativo. Si giunge al punto da includere, alla lettera (e) del par. 2, sanzioni penali se il richiedente si rifiuta di prestare servizio militare, laddove questo avrebbe portato a compiere i “crimini contro la pace” o crimini comuni. L’art. 10 completa il precedente, elencando i motivi della persecuzione o del danno grave che possono dar luogo alla concessione dello status di rifugiato, che sono la razza, la nazionalità, la religione, la fede politica e l’appartenenza a un gruppo sociale. Rispetto alla direttiva del 2004, le norme del 2011 innovano nel riconoscere il genere e l’orientamento sessuale come fattore passibile di autonoma qualificazione di persecuzione12: il Considerando (30) specifica che per «gruppo sociale» è necessario tenere conto delle tradizioni di origine del richiedente. Gli artt. 11 e 12, in entrambe le direttive, si occupano dei limiti interni ai criteri per la concessione dello status di rifugiato, e cioè le cause di cessazione 11 Alessandro Fiorini, Asilo - Il Parlamento europeo approva la nuova Direttiva Qualifiche, Melting Pot, 4 novembre 2011, http://www.meltingpot.org/Asilo-Il-Parlamento-europeo-approvala-nuova-Direttiva.html#.U0ZEaah_vDU, link consultato in data giovedì 10 aprile 2014 09.13.23 12 Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit, p. 141 61 (art. 11) e di esclusione (art. 12) dello status. L’art. 11, par. 1 prevede che cessi lo status di rifugiato qualora intervengano mutamenti di cittadinanza tali da porre in carico allo Stato di origine o a un nuovo Stato l’obbligo di protezione o siano venute meno le condizioni di cui agli articoli precedenti che avevano giustificato la precedente concessione dello status di rifugiato. A tutela della condizione dei rifugiati, il par. 2 prevede che gli Stati verifichino che il mutamento delle circostanze non sia meramente temporaneo. La direttiva 2011/95/CE inserisce al nuovo par. 3 un ulteriore requisito perché cessi la condizione di rifugiato: la novazione esclude che il criterio del mutamento delle circostanze si possa applicare in caso che le persecuzioni siano particolarmente gravi. L’art. 12 tratta invece dei casi di esclusione dalla concessione dello status di rifugiato dall’origine, che intercorre anche qualora i requisiti previsti dagli artt. 9, 10 e 11 siano soddisfatti. Il par. 1, lett. (a) rinvia alla Convenzione di Ginevra, escludendo dalla protezione da parte di uno Stato Membro coloro che sono già sotto la protezione di un’organizzazione o di un’istituzione delle Nazioni Unite che non sia l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, mentre la successiva lettera (b) prevede che sia escluso chi ha ottenuto la cittadinanza o 13 status analogo da parte dello Stato di destinazione . Infine, i paragrafi 2 e 3 escludono gli indesiderabili: coloro riconosciuti colpevoli di crimini «contro la pace» o «contro l’umanità», coloro che si siano resi colpevoli di crimini «comuni» di particolare gravità, anche se per scopo politico e coloro che si siano resi responsabili di atti – non necessariamente criminosi – contrari agli scopi dichiaratamente perseguiti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite14. Il Capo V disciplina i requisiti per l’attribuzione di uno status aggiuntivo, chiamato “Protezione Sussidiaria”, collegata alla possibilità del verificarsi di un 13 14 Cfr. art. 1E Convenzione di Ginevra Cfr. art.. 1F della Convenzione di Ginevra 62 “danno grave”, descritto all’art. 15 di entrambe le direttive. Come per la protezione di cui al Capo III, essa cessa in caso di un mutamento stabile e significativo delle circostanze (art. 16, par. 2), e viene completamente esclusa nel caso in cui il richiedente abbia commesso (art. 17, par. 1) o istigato o altrimenti concorso alla commissione (par. 2) di un crimine contro la pace o contro l’umanità (par. 1, lett. a), di un «reato grave» (lett. b), la cui determinazione è lasciata allo Stato di destinazione o di atti contrari alle finalità dell’ONU (lett. c), per come individuati ai sensi dell’art. 12, o sia un pericolo per la sicurezza dello Stato che ospita il richiedente (lett. d). Infine, al Capo VII (artt. 20-37), la protezione internazionale è dettagliatamente descritta in ciò che essa comporta. L’art. 20 ai paragrafi 3 e 5, dopo aver precisato che i benefici elencati sono da intendersi per tutti i tipi di protezione ove non diversamente specificato, stabilisce i criteri generali di scelta: valutazione individuale, attenzione alle numerose categorie disagiate o particolarmente vulnerabili (par. 3) e soprattutto l’interesse prevalente del minore (par. 5). Come primo contenuto di diritti del Capo VII viene in rilievo il principio del non respingimento in conformità degli obblighi internazionali in capo agli Stati Membri (art. 21, par. 1). Tale principio è ripreso direttamente dalla Convenzione di Ginevra del 1951, e si collega con l’art. 3 CEDU, che vieta la tortura e i trattamenti inumani. Sebbene tale articolo fosse stato deciso in riferimento alla situazione interna delle parti contraenti, una costante e sistematica giurisprudenza della Corte Europea e, a partire dagli anni Duemila, anche della Corte di Giustizia ha esteso la sua portata anche al divieto per gli Stati di rimpatriare persone cittadine o abitualmente residenti all’interno di Stati dove le torture e i trattamenti inumani sono un concreto e reale rischio. Tuttavia, quando l’art. 21, par. 1 non imponga altrimenti, il par. 2 consente l’espulsione e, ai sensi del par. 3, la revoca o la cessazione dello status, per coloro che siano di pericolo per la sicurezza dello Stato o che si siano resi colpevoli di reati «di particolare gravità», lasciando agli 63 Stati la libertà di scelta in merito ai requisiti di tali reati. Unitamente alla rilevanza dell’art. 3 CEDU, le due direttive riconoscono l’importanza dell’unità del nucleo familiare, stabilita in origine dall’art. 8 CEDU ed espressamente tutelata anche dall’art. 23, il quale rimanda alle normative e alle procedure in materia di ricongiungimento familiare. Al par. 2. l’articolo stabilisce l’obbligo per gli Stati Membri di riconoscere ai familiari i medesimi diritti accordati al rifugiato (par. 2, primo capoverso), mentre resta aperta la possibilità di accordare o meno tale eguaglianza ai familiari di chi gode della protezione sussidiaria (par. 2, secondo capoverso). I benefici possono essere ulteriormente estesi ai congiunti (par. 5), come anche revocati per motivi di sicurezza e ordine pubblico (par. 4). Per effetto delle disposizioni di cui all’art. 22, gli Stati Membri mettono a disposizione dei richiedenti informazioni appropriate e in una lingua a loro comprensibile. Gli artt. 24-34 (direttiva 2011) consistono nel catalogo dei diritti accordati ai beneficiari della condizion di protezione internazionale e, ai sensi dell’art. 23, eventualmente ai loro familiari e congiunti. Essi consistono nel permesso di soggiorno, che nel 201115 è stata estesa alla durata minima di due anni (art. 24), nella concessione di passaporto o documenti di viaggio (art. 25) senza che, come nel 2004, debbano esistere gravi ragioni umanitarie che rendano necessaria la presenza dei rifugiati genericamente intesi in un altro Stato16, rendendo così possibile un’ampia capacità di movimento, nell’accesso all’occupazione a pari condizioni con tutte le altre persone legalmente residenti nel territorio (art. 26), nell’accesso all’istruzione per tutti i minori a pari condizioni con tutti i minori (art. 27.1) e per gli adulti a pari condizioni con gli immigrati cittadini di Stati terzi legalmente residenti (art. 27.2), nel riconoscimento delle eventuali qualifiche 15 16 Fiorini, Asilo - Il Parlamento europeo approva la nuova Direttiva Qualifiche, cit. Ibidem 64 professionali (art. 28 direttiva 2011/95/CE), nel godimento dell’assistenza sociale (art. 29 direttiva 2011/95/CE, art. 28 direttiva 2004/83/CE) e sanitaria (art. 30 direttiva 2011, art. 29 direttiva 2004), nella protezione efficace dei minori non accompagnati (art. 31 direttiva 2011, art. 30 direttiva 2004), nell’accesso all’alloggio (art. 32 direttiva 2011, art. 31 direttiva 2004), nella libera circolazione nello Stato ospite a pari condizioni con gli immigrati regolari extra-UE (art. 33 direttiva 2011, art. 32 direttiva 2004) e nell’accesso agli strumenti di «integrazione» (art. 34 direttiva 2011, art. 33 direttiva 2004) . In ultimo, l’art. 35, precedentemente art. 34, consente agli Stati Membri di assistere il beneficiario che desideri rimpatriare. I rimanenti Capi VIII e IX, concernenti la Cooperazione amministrativa e le Disposizioni finali, stabiliscono la necessità di un punto di contatto a livello nazionale e dell’opportuna formazione tecnica del personale amministrativo addetto. Ufficio Europeo per il Sostegno dell’Asilo L’Ufficio Europeo per il Sostegno dell’Asilo è un’Agenzia dell’Unione Europea, istituita nel 2010 ed effettivamente operante dal 2011 in Malta, con lo scopo di rafforzare la cooperazione pratica tra gli Stati Membri, sostenere gli Stati Membri sotto pressione particolare e di migliorare l’attuazione del Sistema Europeo Comune per l’Asilo. L’Ufficio è stato istituito con il Regolamento (UE) N. 439/2010 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 maggio 2010, che istituisce l'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo. La forma giuridica prescelta è quella dell’Agenzia UE perché, come notato al Considerando n. 8, è stato giudicato opportuno che l’Ufficio di sostegno sia indipendente per quanto riguarda le questioni tecniche e possieda autonomia giuridica, amministrativa e finanziaria. In particolare, l’Ufficio è preposto alla raccolta di informazioni sugli Stati di 65 origine delle persone richiedenti asilo o protezione internazionale; ciò include l’analisi dei dati sugli arrivi di massa di individui sprovvisti della cittadinanza comunitaria che possono sottoporre uno Stato Membro a pressioni particolari. Per quanto invece attiene all’implementazione del C.E.A.S. (Common European Asylum System), l’Ufficio è focalizzato sul coordinamento dello scambio di informazioni tra gli stakeholders coinvolti nell’implementazione del sistema stesso. A questo proposito, l’Ufficio può istituire database appositi. Infine, su richiesta dello Stato Membro sotto particolare pressione, l’Ufficio può distaccare delle squadre per l’assistenza tecnica (art. 2, parr. 2 e 3), garantendo che al tempo stesso che i sistemi di asilo e accoglienza non siano oggetto d'abuso (Considerando n. 7), o addirittura procedere alla ricollocazione del beneficiario della protezione internazionale da uno Stato Membro sottoposto a particolare pressione a un altro Stato Membro, sia pure con il consenso di tutti gli attori coinvolti, nonché, se del caso, in consultazione con l'UNHCR (art. 5). A riguardo dei poteri riconosciuti in capo all’Ufficio, esso può coordinare le risorse degli Stati Membri (art. 2, par. 2), presta assistenza tecnica anche per la legislazione UE in materia di asilo (art. 2, par. 3), ma non ha alcun potere in relazione al processo decisionale delle autorità degli Stati membri responsabili per l’asilo per quanto riguarda le singole domande di protezione internazionale (art. 2, par. 4). L’assistenza tecnica si concreta anche, secondo l’art. 6, nell’attività di formazione destinata ai membri delle amministrazioni nazionali responsabili in materia di asilo negli Stati membri, in stretta cooperazione con le autorità degli Stati membri, appoggiandosi anche ad organizzazioni «pertinenti». Ovviamente, il curriculum di formazione mira a sviluppare una maggiore consapevolezza dei «diritti umani internazionali» ed è, piuttosto logicamente, mirato a sviluppare una sempre maggiore convergenza delle prassi e delle decisioni amministrative. Su richiesta degli Stati membri interessati, l'Ufficio di sostegno coordina le azioni di sostegno agli Stati membri sottoposti a una particolare pressione. Secondo l’art. 10 tale sostegno consiste nel coordinamento nelle azioni per 66 facilitare le azioni di esame delle domande di asilo (lett. a), le squadre di assistenza tecnica (lett. c) e in genere ogni azione necessaria ad assicurare l’assistenza ai richiedenti asilo. È da rilevare come tale art. 10, cui si collega l’attività di raccolta informativa di cui all’art. 9, consiste in una ulteriore espropriazione delle attività di regolamentazione dell’accesso al territorio nazionale in capo agli Stati Membri, a favore di un’organismo programmaticamente a favore di una politica di accesso estremamente attenta ai diritti umani dei richiedenti asilo. Ai sensi dell’art. 8 par. 2 della Direttiva Requisiti Asilo 2011, inoltre, l’Ufficio è, assieme all’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, la sola fonte deputata a raccogliere informazioni sugli Stati di origine delle persone che presentano domanda di asilo o di protezione internazionale, avvalendosi di «ogni fonte pertinente», comprese le «organizzazioni non governative e da organizzazioni internazionali», nonché da istituzioni e organismi dell'Unione (art. 4, par. introduttivo). Questo tipo di fonte, a cui si aggiungono anche le “organizzazioni governative”, garantisce che la situazione dei diritti umani sia sempre interpretata secondo parametri strettamente occidentali e molto severi. L’ambito informativo si estende anche, ai sensi dell’art. 7, alla «dimensione esterna» del sistema d’asilo, attinente agli Stati di reinsediamento. Il Capo 3 disciplina in modo specifico i vari tipi di assistenza, dal coordinamento degli aiuti (art. 13), alle squadre di assistenza tecnica (art. 14), alla costituzione di un gruppo d'intervento in materia di asilo (art. 15); l’assistenza viene fornita sulla base dell’elaborazione di un piano operativo, di cui all’art. 18, a seguito di una procedura descritta all’art. 17, che consiste soprattutto nella comunicazione scritta e formale da parte dei vari membri, su decisione ultima del Direttore Esecutivo. Il piano operativo deve comprendere una descrizione della situazione, degli obiettivi operativi, la durata prevista, l’area geografica di destinazione, le istruzioni specifiche in merito alle banche dati e all’equipaggiamento, nonché la composizione richiesta delle squadre stesse. Tali 67 squadre, quando sono a destinazione, si interfacciano con il «Referente nazionale» (art. 19) e vengono coordinate dal «Referente dell’Unione» (art. 20). Il regime di responsabilità civile (art. 21) e penale (art. 22) è analogo a quello nazionale di destinazione, fatti salvi la negligenza grave o il dolo. Gli artt. 50, 51 e 52 trattano della rilevante questione delle cooperazioni con altri organismi. Il partner privilegiato della cooperazione è senza dubbio l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), con il quale sono previsti non solo accordi operativi (art. 50, par. 1), ma anche l’accessibilità a risorse finanziarie per coprire spese dell'UNHCR per attività non previste nei medesimi accordi (art. 50, par. 2). Il forum consultivo di cui all’art. 51 è finalizzato a creare una camera di scambio con la «società civile», vale a dire con le organizzazioni coinvolte nelle materie di asilo. Il par. 3 specifica che l'UNHCR è membro di diritto del Forum. In ultimo, all'art. 52, viene prevista – e solo prevista – la possibilità di stringere accordi con gli altri organismi dell’Unione Europea, quali FRONTEX, l’Agenzia per i Diritti Fondamentali e con organizzazioni internazionali nei settori disciplinati dal regolamento. Criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una domanda d'asilo Non sempre l’immigrato che può richiedere asilo presenta la domanda allo Stato Membro competente per territorio, a seconda del suo punto di ingresso nell’Unione Europea. A tal fine, il Sistema di Dublino rappresenta il meccasimo tramite il quale lo Stato responsabile per la domanda di asilo dello straniero è identificato all’interno degli Stati Membri UE, della Norvegia, dell’Islanda e della Svizzera. L’obiettivo del Sistema Dublino è quello di eliminare le richieste di asilo multiple in più Stati Membri, e al tempo stesso quello di evitare l’incertezza su chi debba decidere su una domanda di asilo. Il 15 giugno 1990 è stata fermata la Convenzione di Dublino, per i primi 68 dodici firmatari (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito), il 1 ottobre 1997 per Austria e Svezia, e il 1 gennaio 1998 per la Finlandia. Recentemente, il sistema è stato esteso anche ad alcuni paesi al di fuori dell’Unione, come la Svizzera. Il cosiddetto Regolamento Dublino II – Regolamento del Consiglio (CE) n. 343/2003 del 18 febbraio 2003 – è stato adottato per superare la Convenzione di Dublino e per assorbire la materia nell’ambito dell’allora esistente “Primo Pilastro” a competenza comunitaria. Tale Regolamento definisce i gruppi di criteri che determinano lo Stato Membro responsabile; i legami famigliari sono uno di questi criteri, così come l’eventuale possesso di un permesso di soggiorno o di un visto di ingresso, così come l’eventuale ingresso illegale in uno degli Stati Membri. Il Regolamento Dublino II si collega al sistema EURODAC di memorizzazione delle impronte digitali in ambito UE a cui gli Stati Membri obbligatoriamente debbono inviare i dati relativi ai richiedenti asilo, e alla Direttiva Ricongiungimenti Familiari, per quanto attiene l’eventualità che familiari o parenti del richiedente siano residenti in modo legale in un altro Stato Membro. Il nuovo Regolamento Dublino III 604/2013 è entrato in vigore il 19 luglio 2013; tuttavia, la sua applicazione è cominciata solo a partire dal 1° gennaio 2014. Inoltre, l’ambito di applicazione del Regolamento Dublino va oltre l’estensione dell’Unione Europea, in quanto ne sono vincolati, oltre ai 28 Stati Membri UE, anche Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein, in forza degli accordi di associazione. L’ambito di applicazione si riferisce, come da intestazione, ai cittadini di Paesi Terzi o apolidi17. Dopo aver dettagliato il significato delle definizioni utilizzate all’art. 2, l’art. 3 del Regolamento chiarisce al par. 1 che gli Stati Membri sono obbligati ad 17 Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit, p. 122 69 esaminare qualsiasi domanda di protezione internazionale che venga loro presentata in conformità ai criteri che ne stabiliscono la competenza, di cui al Capo III. Qualora lo Stato Membro competente non possa essere identificato, ad essere responsabile è il primo Stato Membro in cui viene presentata la domanda; tuttavia, esiste la possibilità che, se lo Stato Membro riconosciuto come competente presenta caratteristiche nel trattamento tali da implicare il rischio di trattamenti inumani o degradanti, lo Stato che ha iniziato la procedura può controllare se esiste un altro Stato Membro che sia competente. Qualora non esista un simile Stato Membro, lo Stato Membro che ha iniziato l’esame diventa lo Stato Membro competente (art. 3, par. 2). Il paragrafo 3.2 Dublino III innova sostanzialmente dalla precedente disciplina del Regolamento Dublino II, la quale prevedeva la mera possibilità per lo Stato Membro non competente, senza riferimento ai trattamenti inumani o degradanti, di farsi carico della domanda di asilo. L’innovazione sembra rispondere a sentenze sia nazionali, sia della Corte di Giustizia, come i procedimenti C-411/10 e C-493/10 N.S. ed altri; inoltre, anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha più volte emesso raccomandazioni di non trasferire i richiedenti asilo negli Stati competenti a causa 18 di “fallimenti” nella gestione dei rifugiati in relazione ai loro diritti . Tale clausola di Dublino II era una clausola di sovranità19, e non di tutela dei diritti umani, come invece è in Dublino III. 18 UNHCR, UNHCR comments on the European Commission’s Proposal for a recast of the Regulation of the European Parliament and of the Council establishing the criteria and mechanisms for determining the Member State responsible for examining an application for international protection lodged in one of the Member States by a third country national or a stateless person (“Dublin II”) (COM(2008) 820, 3 December 2008) and the European Commission’s Proposal for a recast of the Regulation of the European Parliament and of the Council concerning the establishment of ‘Eurodac’ for the comparison of fingerprints for the effective application of [the Dublin II Regulation] (COM(2008) 825, 3 December 2008), p. 2 19 Fulvio Vassallo Paleologo, L’Italia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo - Riflessioni a margine della sentenza del Tribunale amministrativo di Francoforte: le condizioni dei richiedenti asilo in Italia, 7 ottobre 2013 in Magistratura Democratica, Questione Giustizia, Osservatorio Internazionale, p. 1 70 L’art. 4 Dublino III è dedicato allla procedura di informazione, per la quale si prevedono diritti di trattamento dei dati personali del tutto analoghi a quelli previsti per i consumatori in ambito UE (art. 4, par. 1, lett. e, f). L’informazione è comunicata in modo che sia ragionevolmente comprensibile al richiedente asilo, e anche in via orale se necessario (art. 4, par. 2). L’art. 4 Dublino III ripropone con piccoli aggiustamenti l’art. 3, par. 4, Dublino II. L’art. 5 introduce l’obbligo di effettuare un colloquio personale in vista del trasferimento del richiedente nello Stato Membro di competenza, a meno che non sopravvenga l’impossibilità pratica in caso di fuga o che il richiedente abbia già fornito le informazioni richieste. Il colloquio deve essere condotto da una persona qualificata secondo la normativa nazionale. L'interesse superiore del minore, soprattutto non accompagnato, deve essere secondo l’art. 6 di Dublino III un criterio fondamentale nell'attuazione delle procedure. Viene introdotta la figura del Rappresentante del minore non accompagnato, che ha accesso ai documenti. Mentre nel corrispondente art. 6 Dublino II la scelta era da compiersi in ordine al ricongiungimento familiare, in base al quale lo Stato competente era quello ove si trovavano legalmente i famigliari dello stesso e in mancanza di questi lo Stato di esame, ora vengono in rilievo anche l'interesse superiore, il benessere e lo “sviluppo sociale”, le considerazioni di sicurezza e, ultimo, l'opinione del minore. Il Capo III è dedicato all’illustrazione dei criteri per determinare lo Stato membro competente. Tale Capo è strutturato in tre grandi blocchi: art. 7, artt. 8-11 e artt. 12-15. L’art. 7 elenca la gerarchia dei criteri20, carattere mantenuto dal precedente Dublino II: l’analisi deve essere fatta con riferimento alla situazione esistente al momento in cui il richiedente ha presentato domanda di protezione internazionale per la prima volta in uno Stato membro (art. 7, par. 2). In linea generale, lo Stato 20 Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit, p. 122 71 competente è lo Stato di primo arrivo o di ingresso nell’UE (art. 13). La concreta formulazione della gerarchia pone in primissimo piano la tutela degli interessi dei minori, e in netto subordine considerazioni oggettive e meno attinenti alla realtà soggettiva del richiedente asilo. Il secondo blocco di articoli del Capo dei criteri è relativo al minore non accompagnato e, in genere, alla situazione familiare per l’individuazione dello Stato Membro competente a prendere in carico l’esame della domanda di asilo. In caso di minore non accompagnato (art. 8), è competente lo Stato dove si trova legalmente il padre, la madre, o un altro adulto legalmente responsabile. L’art. 8, par. 3 disciplina il caso in cui i famigliari di cui ai precedenti due paragrafi soggiornino in più di uno Stato Membro; in tale situazione lo Stato Membro competente (e quindi di invio) è determinato sulla scorta dell’interesse superiore. In mancanza di parenti, lo Stato Membro competente è quello di presentazione della domanda (art. 8, par. 4). Inoltre, se un familiare del richiedente è stato autorizzato a soggiornare in qualità di beneficiario di protezione internazionale in uno Stato membro (art. 9) o ha presentato domanda in un altro Stato Membro (art. 10), tale Stato membro è competente, purché gli interessati lo desiderino; in entrambi i Regolamenti, non è necessario che fossero familiari anche nel Paese d’origine. In caso di domande di più familiari, presentate simultaneamente o in modo tra loro ravvicinato (art. 11), è competente per l'esame delle domande di tutti i familiari o fratelli minori non coniugati lo Stato che sarebbe competente per la maggior parte di esse o, in mancanza, quello competente per l'esame della domanda del richiedente più anziano. Infine, il terzo tipo di criteri del Capo III attiene principalmente ai requisiti non collegati alla situazione personale del richiedente. L’articolo che viene in rilievo è l’art. 13, che d etta le condizioni generali: salvo eccezioni, lo Stato Membro competente è lo Stato Membro in cui si può comprovare l’ingresso. Il Capo IV (artt. 16 e 17) disciplina il caso delle persone a carico del 72 richiedente, che vengono trattate congiuntamente (art. 16, par.1) o se già presenti nell’UE vengono riunite (art. 16, par. 2) al richiedente medesimo, a condizione che il legame esistesse anche nel Paese d’origine, e che tale richiedente sia effettivamente in grado di assistere dette persone a carico; l’art. 17, par. 1 riprende parzialmente l’art. 3, par. 2 del regolamento Dublino II, sebbene solo in deroga. Il Capo V ripartisce gli obblighi e le competenze; fatte salve le disposizioni precedenti, le competenze vengono trasferite secondo l’art. 19: se uno Stato ha già rilasciato un permesso di soggiorno al richiedente, diviene competente anche per la richiesta di asilo (par. 1); le competenze cessano se il richiedente si è dimostrabilmente allontanato per almeno tre mesi, a meno che egli non possegga un permesso di soggiorno rilasciato per altri motivi in corso di validità (par. 2) o se, infine, il richiedente è stato fatto oggetto di decisione di rimpatrio e ha lasciato il territorio degli Stati Membri (par. 3). Rispetto alla Direttiva Requisiti o alla Direttiva Rimpatri, le premesse per il trattenimento in vista del trasferimento (disciplinato nel complesso dal Capo V, Sezione VI) sono ancora più restrittive: il “trattenimento” è autorizzato solo se esiste un “notevole” rischio si fuga e solo in rispetto dell’onnipresente principio di proporzionalità e di scelta di misure meno coercitive (art. 28, par. 2) e deve durare il minimo necessario (art. 28, par. 3). Gli artt. 31 e 32 disciplinano l’insieme dello scambio di informazioni da attuarsi tra Stati Membri, da intendersi principalmente nell’interesse dell’immigrato richiedente asilo, comprendendo le informazioni sanitarie e poco altro. Ulteriori scambi informazioni, la cui disciplina è all’art. 34 (Capo VII) e all’art. 38 (Capo IX), sono sottoposti a un regime particolarmente restrittivo, che mira a tutelare la “riservatezza” dell’immigrato. L’art. 33 si collega all’eventualità di particolare pressione immigratoria, prevedendo che lo Stato Membro sottoposto alla prevista pressione particolare rediga un piano d’azione preventivo e si rivolga all’EASO. Valutazioni del Regolamento Dublino III 73 Il principio generale alla base del Regolamento Dublino III è lo stesso della Convenzione di Dublino del 1990 e di Dublino II: ogni domanda di asilo deve essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l’esame di una domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all’ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio degli Stati membri, salvo eccezioni. In linea generale, l’unità familiare – quanto meno quella di arrivo – è tutelata in tutte le parti del Regolamento, e sono previste facilitazioni anche per i ricongiungimenti familiari scaglionati nel tempo. La novità più rilevante appare essere lo spostamento del focus del summenzionato art. 3, par. 2: nel regolamento Dublino II la decisione dello Stato di inizio esame di avocare a sé la domanda di asilo era una decisione sovrana, suscettibile di essere utilizzata anche a sostegno di scopi distinti dalla protezione dei diritti umani; nella rifusione del regolamento Dublino III, il medesimo articolo attua un rovesciamento di prospettive, poiché lo Stato Membro perde anche questa – ridotta – aliquota di sovranità in materia immigratoria e di asilo, e le eccezioni al meccanismo si limitano al mero contrasto di trattamenti giudicati inumani e degradanti e, perciò, in contrasto con l’art. 3 CEDU e con le analoghe previsioni di altri strumenti convenzionali. La competenza è individuata attraverso i criteri del regolamento, che secondo alcuni autori lasciano uno spazio ridotto alle preferenze dei singoli21. I problemi che tali autori individuano attengono all’intero concetto del sistema di Dublino, più che a quest’ultima rifusione di norme, che anzi viene vista solo come un leggero miglioramento. Il punto considerato maggiormente critico è quello della ridotta mobilità riconosciuta al rifugiato che ottiene la protezione internazionale; questa ridotta mobilità internazionale è deplorata in un’ottica che 21 Alessandro Fiorini, Asilo in Europa – Il Regolamento Dublino III articolo per articolo, Melting Pot, 25 luglio 2013, http://www.meltingpot.org/Asilo-in-Europa-Il-Regolamento-Dublino-IIIarticolo-per.html#.U0ua5Fdf_zp, link consultato in data giovedì 14 aprile 2014 74 persegue dichiaratamente il melting pot. Secondo la valutazione dell’UNHCR a proposito della Comunicazione COM(2008), 3 dicembre 2008 della Commissione Europea, con cui si avanzavano proposte per il recast di Dublino II, il meccanismo del Sistema di Dublino presuppone una generale equivalenza tra i contenuti della protezione internazionale, giustificando una sorta di “mutuo riconoscimento”; a parere dell’Alto Commissariato, tuttavia, tale equivalenza non vi sarebbe22. Il Regolamento Dublino III in parte si sottrae alle criticità rilevate dall’Alto Ciommissariato, tramite il novellato art. 3.2, che impedisce agli Stati Membri di trasferire i richiedenti verso gli Stati che presentano “fallimenti” nel rispetto dei diritti. Inoltre, l’estensione del sistema di Dublino alle “zone di transito” è vista con favore dall’AC in modo da assicurare una più completa copertura dell’esame delle richieste individuali rispetto alla precedente disciplina23; l’Alto Commissariato esprime altresì la sua approvazione per la tutela dei minori, sia accompagnati che no24, e per la riformulazione della gerarchia dei criteri, che 25 ulteriormente consolida la protezione minorile . La prevenzione di trattamenti inumani o degradanti inerenti o conseguenti all’applicazione del Regolamento Dublino II: Sentenza N.S. ed altri Le modifiche maggiormente significative apportate al sistema di Dublino da parte del Regolamento Dublino III attengono, oltre che all’aumentata tutela del minore extracomunitario richiedente protezione internazionale o sussidiaria, anche e forse soprattutto al meccanismo che viene instaurato tra Stati Membri per evitare trasferimenti coatti in Stati dove è ritenuta esservi una situazione di trattamento 22 UNHCR, UNHCR comments on the European Commission’s Proposal for a recast of the Dublin Regulation, cit., p. 2 23 Ivi, p. 3 24 25 Ivi, p. 5 Ivi, p. 6 75 delle richieste di asilo caratterizzata dai surricordati fallimenti in materia di diritti umani, con particolare riguardo al rispetto dell’art. 3 CEDU e analoghe disposizioni, tra cui l’art. 4 della Carta dei Diritti Fondamentali UE, negli Stati Membri dell’Unione Europea. Tale importante cambiamento, che ha eliminato di fatto la clausola di sovranità di cui al precedente art. 3.2, è stato dettato, a parere di alcuni autori26, da alcune sentenze nazionali e della CGUE, nonché, secondo lo stesso Alto Commissariato, dagli inviti che esso rivolgeva agli Stati a non attuare il trasferimento verso i summenzionati Paesi. Di particolare rilievo è la decisione sui casi riuniti C-411/10 e C-493/10, N.S. e altri c. Secretary of State for the Home Department. La sentenza resa è una pronuncia pregiudiziale sul citato art. 3.2 del Regolameno 343/03, sui diritti fondamentali dell’Unione europea, per enunciati agli artt. 1, 4, 18, 19. 2, e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea e, infine, sul Protocollo n.30 sull’applicazione della Carta in Polonia e nel Regno Unito. Tali pronunce pregiudiziali sono state sollecitate nell’ambito di una serie di controversie tra i richiedenti asilo, da rinviare in Grecia, e le autorità del Regno Unito e dell’Irlanda. Con questa sentenza, la Corte chiarisce come la definizione dell’art. 3, par. 2 come una «clausola di sovranità» sia impropria, in quanto essa è pienamente soggetta al diritto dell’Unione e agli obblighi che ne derivano. CAUSA C-411/10: N.S. C. SECRETARY OF STATE Il signor N.S., ricorrente del procedimento C-411/10, è un cittadino afgano arrivato nel Regno Unito transitando, in particolare, per la Grecia. In tale Stato N.S. fu sottoposto a una misura di arresto il 24 settembre 2008, ma non presentò domanda di asilo in Grecia27. Secondo N.S. al momento del rilascio le autorità 26 27 Vassallo Paleologo, L’Italia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo, cit., p. 1 Sentenza N.S. e altri, par. 34 76 greche gli intimarono di lasciare il territorio greco entro 30 giorni. Egli sostenne anche che, mentre cercava di lasciare la Grecia, egli sarebbe stato arrestato dalla polizia e respinto in Turchia, dove sarebbe stato detenuto. Sarebbe indi evaso dal suo luogo di detenzione in Turchia e, a partire da tale Stato, sarebbe arrivato nel Regno Unito, il 12 gennaio 2009, presentandovi il giorno stesso domanda di asilo28. Il 1º aprile 2009 il Secretary of State for the Home Department chiedeva alla Repubblica ellenica, in base a quanto previsto dall’art. 17 del regolamento n. 343/2003, di prendere in carico il N.S. per l’esame della sua domanda di asilo. La Repubblica ellenica non rispondeva cosicché, ai sensi dell’art. 18 del regolamento il suo silenzio veniva equiparato al riconoscimento29. Il N.S. era quindi informato il 30 luglio 2009 che sarebbe stato trasferito in Grecia il 6 agosto 2009. Egli denunciava che il suo trasferimento in Grecia era in contrasto con la CEDU, ma il 31 luglio la denuncia veniva valutata infondata ai sensi della normativa del Regno Unito del 2004 sull’asilo. Pertanto al N.S. era negata la possibilità di opporre ricorso con effetto sospensivo. Il N.S. chiedeva all’autorità competente di assumere la competenza in forza della clausola di Sovranità di cui all’art. 3, par. 2, sostenendo che un suo rinvio in Grecia comprometteva i suoi diritti fondamentali30. Il 4 agosto 2009, il Secretary of State confermava le decisioni già prese. Il 6 agosto 2009, il N.S. chiedeva di presentare ricorso giurisdizionale contro le decisioni del Secretary of State. Quest’ultimo annullava, di conseguenza, le disposizioni impartite per il suo trasferimento. Il ricorso veniva esaminato dalla High Court of Justice (England & Wales), Queen’s Bench Division (Administrative Court), dal 24 al 26 febbraio 2010. Con sentenza 31 marzo 2010 il giudice Cranston lo respingeva, ma autorizzava il ricorrente nel procedimento principale a proporre l’appello alla Court of Appeal 28 29 30 Ivi, par. 35 Ivi, par. 36 Ivi, par. 40 77 (England & Wales) (Civil Division). La High Court of Justice affermava che le procedure di asilo in Grecia presenterebbero gravi carenze; i richiedenti incontrerebbero numerose difficoltà per adempiere le formalità necessarie, non riceverebbero informazioni e assistenza sufficienti e le loro domande non sarebbero esaminate con attenzione. Inoltre, come ulteriore elemento di “violazione” dei diritti umani, si presenterebbe il fatto che i casi di concessione di asilo in Grecia sarebbero rarissimi: un reasoning di tal segno implica la considerazione della concessione dell’asilo come un diritto fondamentale. Tuttavia, la medesima High Court of Justice considerava che i rischi di respingimento dalla Grecia verso l’Afghanistan e la Turchia non sono dimostrati per quanto riguarda le persone rinviate ai sensi del regolamento n. 343/2003. Inoltre, la High Court of Justice affermava che che il Secretary of State aveva l’obbligo di prendere in considerazione i diritti fondamentali dell’Unione allorché esercita potere discrezionale che gli attribuisce l’art. 3, n. 2, del regolamento n. 343/2003 in quanto ambito di applicazione del diritto 31 dell’Unione . Il Secretary of State sosteneva che l’economia del regolamento Dublino II gli conferiva la facoltà di muovere dalla presunzione assoluta che la Grecia (o qualunque altro Stato membro) adempia gli obblighi ad essa imposti dal diritto dell’Unione32. La Court of Appeal stabiliva la necessità di un rinvio pregiudiziale su sette quesiti: 1) Se la decisione adottata da uno Stato membro ai sensi dell’art. 3, n. 2, del regolamento n. 343/2003 rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai fini dell’attuale art. 6 TUE e/o dell’art. 51 della Carta; 2) Se, in caso di subordinazione dell’art. 3.2 di Dublino II, l’obbligo di uno Stato 31 32 Ivi, parr. 44-46 Ivi, par. 47 78 membro di osservare i diritti fondamentali dell’Unione europea sia assolto allorché tale Stato invii il richiedente asilo nello Stato membro che l’art. 3, n. 1 di Dublino II designa come lo Stato competente, indipendentemente dalla situazione in tale Stato competente; 3) In particolare, se l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali dell’Unione osti all’applicazione di una presunzione assoluta nel senso che lo Stato competente osserverà (i) i diritti fondamentali del richiedente asilo ai sensi del diritto dell’Unione e/o (ii) le norme minime; 4) In subordine, se uno Stato membro sia obbligato dal diritto dell’Unione e, in caso di soluzione affermativa, in quali circostanze, ad esercitare la facoltà prevista all’art. 3, n. 2, del regolamento Dublino II 5) Se l’ambito della protezione attribuita dal diritto dell’Unione sia più ampio della protezione attribuita dall’art. 3 CEDU; 6) Se sia compatibile con i diritti stabiliti all’art. 47 della Carta che una disposizione di diritto nazionale imponga ad un organo giurisdizionale, al fine di determinare se una persona possa essere legalmente espulsa verso un altro Stato membro in conformità del regolamento [n. 343/2003], di considerare detto Stato membro come uno Stato dal quale la persona non sarà inviata in un altro Stato in violazione dei suoi diritti scaturenti dalla CEDU o dalla Convenzione [di Ginevra] e dal Protocollo del 1967 (...); 7) Per la parte in cui le precedenti questioni concernono obblighi del Regno Unito, se le soluzioni delle questioni debbano comunque tener conto del Protocollo. CAUSA C-493/10 La Causa C-493/10 concerne cinque ricorrenti, senza legami reciproci, originari dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Algeria. Ciascuno di loro transitava per il territorio greco e vi era stato arrestato per ingresso illegale. Essi 79 successivamente si recavano in Irlanda, dove chiedevano asilo. Il sistema EURODAC confermava il precedente ingresso di tutti i cinque ricorrenti nel territorio greco, ma che nessuno di loro vi aveva presentato domanda di asilo33. Nessuno dei ricorrenti nel procedimento principale intendeva ritornare in Grecia. A differenza del N.S., da parte dei ricorrenti della Causa C-493/10 non è stato invocato il fatto che il loro trasferimento in Grecia violerebbe l’art. 3 della CEDU o altre disposizioni della medesima convenzione. I ricorrenti si limitavano a denunciare l’inadeguatezza delle condizioni elleniche e, quindi, l’obbligo delle autorità irlandesi di esercitare le facoltà di cui all’art. 3.234. La High Court ha perciò deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: 1) Se lo Stato membro che provvede al trasferimento ai sensi del regolamento Dublino II ia tenuto ad accertare il rispetto, da parte dello Stato ricevente, dell’art. 18 della Carta dei Diritti Fondamentali e delle direttive 2003/9, 2004/83 e 2005/85 nonché del regolamento Dublino II stesso; 2) In caso di soluzione affermativa, ove lo Stato membro ricevente risulti non attenersi a una o più di tali disposizioni, se lo Stato membro che provvede al trasferimento sia obbligato ad accettare la competenza ad esaminare la domanda di cui all’art. 3, par. 2 OSSERVAZIONI PRESENTATE ALLA CORTE Tra le osservazioni presentate, il Regno Unito sottolineava che il ricorso a tale clausola non costituiva un’attuazione del diritto dell’Unione; il governo belga rimarcava che l’esecuzione della decisione di trasferire il richiedente asilo comporta l’attuazione del regolamento n. 343/2003 e, pertanto, rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 6 TUE e della Carta; infine, per il governo ceco il diritto 33 34 Ivi, par. 51 Ivi, par. 52 80 dell’Unione nell’ambito in esame si attivava solo in caso di effettivo esercizio della clausola di sovranità35. RAGIONAMENTO DELLA CORTE La Corte decide di analizzare le questioni poste in quattro momenti: dapprima analizza la prima domanda della Court of Appeal del caso N.S. c. Secretary of State of Home Department; in seguito analizza le questioni seconda, terza, quarta e sesta della C-411/10 e le due questioni della C-493/10; infine, in due momenti successivi, analizza le questioni quinta e settima della C-411/10. In prima battuta, la Corte di Giustizia esamina il diritto internazionale di natura pattizia, non strettamente riguardante l’Unione Europea, ma riguardante gli Stati Membri; in particolare, viene sotto esame la Convenzione di Ginevra sui rifugiati36; in particolare è posto in rilievo che tutti gli Stati Membri parte del Sistema di Dublino sono anche parti contraenti della Convenzione; l’Unione non è parte di tale convenzione, ma l’art. 78 TFUE e l’art. 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea si rifanno espressamente a tale convenzione. Appare quindi del tutto pacifico che i principi stabiliti da questo strumento di diritto internazionale classico possano essere inclusi nei principi generali dl diritto dell’Unione Europea. In particolare, nell’ambito della Convenzione di Ginevra del 1951, viene posto l’accento sull’art. 33, che vieta l’espulsione o il respingimento in Stati dove la vita o la libertà della persona espulsa o respinta sarebbero in pericolo a motivo delle sue condizioni personali. L’esame viene condotto anche a proposito del C.E.A.S.37: il fondamento giuridico delle direttive di cui ai giudizi principali è l’allora art. 63 CE (attuali artt. 78 e, per quanto attiene la solidarietà tra gli Stati Membri, 80 TFUE). In ambito 35 36 37 Ivi, parr. 52 e 63 Ivi, parr. 3-5 Ivi, parr. 6-22 81 CEAS le norme che attengono al caso sono la Direttiva 2003/9/CE, recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo, la Direttiva 2004/83/CE e la Direttiva Procedure (2005/85/CE). Inoltre, con la Direttiva 2001/55/CE, si regolamenta la protezione temporanea in caso di massiccio afflusso di rifugiati; infine, l’EURODAC è stato istituito con il regolamento 2725/2000. Ognuno di questi testi normativi è ferreo nel ribadire il rispetto dei diritti fondamentali e dei principi elencati nella Carta dei Diritti Fondamentali38. La Corte nota che, come risulta dai Considerando premessi alle varie disposizioni, la politica comune nel settore dell’asilo costituisce un elemento fondamentale della costruzione dello spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. Per quanto attiene all’applicabilità del complesso normativo, il Regno Unito partecipa all’applicazione integrale delle direttive e dei regolamenti esaminati nei paragrafi 11-13 della medesima sentenza; l’Irlanda non applica la Direttiva 2003/9/CE39, mentre la Danimarca applica solo i regolamenti 343/03 e 2725/0040; infine, per quanto attiene agli Stati membri del Sistema di Dublino ma non dell’Unione Europea, la Comunità Europea concluse nel 2001 un accordo con l’Islanda e con la Norvegia con riguardo al CEAS e al sistema di Dublino41 e nel 2008 con la Confederazione Elvetica, integrato l’anno successivo con un 42 Protocollo che veniva esteso anche al Liechtenstein . La Corte, rispondendo alla prima delle questioni della Court of Appeal del Regno Unito (Caso N.S.), afferma che il potere discrezionale di cui all’art. 3.2, reg. 343/03 deve essere esercitato dagli Stati membri nel rispetto delle altre disposizioni del regolamento medesimo. L’esercizio del potere discrezionale comporta che lo Stato membro che prende la decisione di esaminare esso stesso 38 39 40 41 42 Ivi, par. 15 Ivi, par. 23 Ivi, par. 24 Ivi, par. 35 Ivi, par. 26 82 una domanda di asilo diventa, infatti, lo Stato membro competente. Pertanto, il potere discrezionale fa parte dei meccanismi di determinazione dello Stato membro competente43. Se fa parte dei meccanismi previsti da un regolamento, uno Stato membro che esercita tale potere discrezionale previsto da un atto dell’Unione, deve essere ritenuto attuare il diritto dell’Unione: come nota l’Avvocato Generale44, fin dalla Sentenza Wachauf la Corte ha stabilito che la tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico dell’Unione vincolano gli Stati membri, quando essi danno esecuzione alle discipline del diritto dell’Unione. Per le ragioni esposte, secondo la Corte di Giustizia la prima questione posta dalla Court of Appeal deve quindi essere risolta nel senso che anche la rinuncia ad esaminare la richiesta di di asilo ai sensi dell’art. 3, par. 2 del Regolamento in questione dà attuazione al diritto dell’Unione ai fini tanto dell’art. 6 TUE, quanto dell’art. 51 della Carta45. Con riguardo alle questioni prima e seconda C-493/10 e alle questioni seconda, terza, quarta e sesta C-411/10, la CGUE dapprima riconosce che il contesto permette di supporre il rispetto dei diritti fondamentali per come garantiti dalla CEDU e da Ginevra, da parte di tutti gli Stati che sono parte del sistema di 46 47 Dublino , al netto di eventuali «gravi difficoltà» pratiche , che ad ogni modo non consentono agli altri Stati Membri di presupporre una sistematica violazione, in quanto ciò presupporrebbe, secondo la Corte, il venir meno dello Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia48: pertanto, una «minima violazione» da parte di uno Stato Membro non è idonea a impedire il trasferimento 49. Tuttavia la 43 Conclusioni dell’Avvocato Generale Verica Trstenjak alla Causa C-411/10 N.S. c. Secretary of State of Home Department, presentate il 22 settembre 2011, par. 80 44 Ivi, par. 77 45 46 47 48 49 Sentenza N.S. e altri, parr. 66-69 Ivi, parr. 78 e 80 Ivi, par. 81 Ivi, par. 83 Ivi, par. 85 83 presunzione di rispetto dei diritti fondamentali non può essere di natura assoluta50, ma relativa51: le carenze sistematiche costituiscono un’effettiva violazione del divieto di cui all’art. 4 della Carta e all’art. 3 CEDU52. Nella valutazione della situazione nello Stato di destinazione, spettante agli organi giurisdizionali in caso di ricorso opposto al provvedimento di trasferimento, secondo la CGUE possono e devono concorrere anche i rapporti e le informazioni provenienti dalle cosiddette «organizzazioni non governative», non essendo sufficienti le informazioni ufficiali dello Stato stesso; in linea con una prassi durevole nel tempo, la Corte di Giustizia basa il suo parametro di accettabilità delle fonti sugli standard adottati anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo53. Inoltre, si arriva alla situazione in cui lo Stato Membro è tenuto all’osservanza di una proposta di riforma del medesimo regolamento Dublino II54 che, tanto all’epoca dei fatti quanto al momento della sentenza ancora non era stata approvata. Si determina in questo modo l’obbligo dello Stato a ricorrere alla c.d. «clausola di sovranità» in caso di situazione a rischio di trattamenti inumani o degradanti. Legislazione e procedure italiane per l’asilo Ogni Stato Membro dell’Unione Europea adatta la sua legislazione per recepire le Direttive del Consiglio e per eseguire i regolamenti. Accanto alla materia legislativa, ogni Stato Membro dispone delle sue proprie strutture amministrative per gestire la materia immigratoria in generale e, per quanto qui attiene, la politica di asilo e le sue procedure, di dettato tanto nazionale quanto 50 51 52 53 54 Ivi, par. 99 Ivi, parr. 104 e 105 Ivi, par. 94 Ivi, par. 91 Ivi, par. 92 84 dell’Unione. LEGISLAZIONE E ORGANISMI PER L’ASILO In Italia la materia dei requisiti per l’asilo è stata recepita dal decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, che attua senza modifiche di rilievo la direttiva 2004/83/CE, individuando il «punto di contatto» ai sensi dell’art. 35 direttiva 2004/83/CE, ora art. 36 direttiva 2011/95/CE, in una struttura diversa dall’amministrazione di Pubblica Sicurezza55 quale il Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione e specificatamente la Direzione Centrale dei Servizi Civili per l'immigrazione e l'asilo. Il decreto ha anche introdotto nell’ordinamento italiano la nozione di «protezione internazionale» mutuandolo dalle previsioni dell’Unione Europea. Inoltre, la Direttiva 2003/9/CE, che istituisce il sistema di asilo, è stata recepita dal d.lgs. n.140/2005. Organi deputati alla valutazione delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato sono la Commissione nazionale per il diritto di asilo e le commissioni territoriali. La Commissione Nazionale ha compiti di indirizzo e coordinamento delle Commissioni territoriali, di formazione e aggiornamento dei componenti delle medesime commissioni e di raccolta di dati statistici e ha poteri decisionali in tema di revoche e cessazione degli status concessi56, mentre le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale esaminano in modo decentrato le istanze. È da rilevare come la Commissione Nazionale, accanto ai componenti tratti dai vari dicasteri italiani (Ministero degli Esteri, Ministero dell’Interno e Presidenza del Consiglio), includa anche tre 55 56 D. lgs. 251/07, art. 31 http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/asilo/sottotema0021/ 85 rappresentanti dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite57, mentre le Commissioni territoriali così come riformate dal D.M. 6 marzo 2008 sono istituite in seno alle Prefetture-U.T.G. Tali organi sono stati istituiti dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 e confermati anche dal decreto legislativo 28 gennaio 2008 n. 25, recante norme per l’attuazione della Direttiva “Procedure” 2005/85/CE. ASSISTENZA E ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI ASILO E DEI BENEFICIARI DELLA PROTEZIONE L’accoglienza dei richiedenti asilo è garantita prioritariamente attraverso i centri predisposti dagli enti locali e finanziati con il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, anch’esso istituito con la legge n.189/2002; in armonia con i dettami della Direttiva Requisiti Asilo, con Decreto Legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 e con D.P.R. 303/2004, sono stati istituiti, alle dipendenze dell’Ufficio II58, degli specifici Centri di Accoglienza per i Richiedenti Asilo (C.A.R.A.), che sono strutture nelle quali lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera viene inviato e ospitato per un periodo che può variare da 20 a 35 giorni, allo scopo di consentire l’identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato59. L’Ufficio III della Direzione Centrale dei Servizi civili cura tutte le attività connesse all’assistenza ed accoglienza dei richiedenti asilo e di coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato. Esso è l’organismo centrale che sovrintende alle Commissioni territoriali e alla Commissione Nazionale per il diritto di asilo. 57 http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/asilo/sottotema0021/Composizi one_della_Comissione_Nazionale_per_il_Diritto_di_Asilo.html 58 http://www.libertaciviliimmigrazione.interno.it/dipim/site/it/dipartimento/direzioni_centrali/serv izi_civili/ufficioii/ 59 http://www.libertaciviliimmigrazione.interno.it/dipim/site/it/dipartimento/direzioni_centrali/serv izi_civili/ufficioii/attivitx/ 86 Tra le varie strutture operanti nell’ambito dell’Ufficio III, ha particolare rilevanza l’“Unità Dublino”, struttura preposta a svolgere gli adempimenti amministrativi relativi all’applicazione del Regolamento Dublino II fino al 31 dicembre 2013 e del Regolamento Dublino III a partire dal 1 gennaio 2014. Tale attività viene svolta in collaborazione con la Direzione Centrale dell'immigrazione e della Polizia delle frontiere, struttura del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, responsabile nazionale della gestione del sistema EURODAC e, in misura più contenuta, con il Ministero degli Affari Esteri, responsabile del rilascio di visti di ingresso in Italia; la Polizia delle Frontiere coordina inoltre i 103 Uffici Immigrazione incardinati in seno alle Questure. PIANIFICAZIONE DELLE POLITICHE IMMIGRATORIE Accanto alla Direzione Centrale dei Servizi civili per l’immigrazione e l’asilo, è presente la Direzione Centrale per le politiche dell’immigrazione e dell’asilo, sempre afferente al Ministero dell’Interno, incaricata di concorrere alla definizione delle politiche migratorie e di favorire l'accoglienza e l'integrazione degli immigrati regolari. In tale ottica, la Direzione Centrale per le politiche svolge funzioni di analisi e programmazione delle politiche migratorie e di monitoraggio e di sostegno delle politiche di “integrazione” degli stranieri. La stessa Direzione cura, inoltre, la partecipazione dell'Italia alle due reti che sono state costituite nell'ambito della Direzione Generale Giustizia e Affari Interni della Commissione Europea: la Rete Europea delle Migrazioni e la Rete dei punti di contatto nazionali sull'integrazione degli immigrati, prevista fin dal 200760. 60 COM(2007)512 def, par. 3.1 87 CAPITOLO 3: IMMIGRAZIONE ILLEGALE E IRREGOLARE E RIMPATRIO NEL DIRITTO DELL’UNIONE L’espulsione degli stranieri o – in fasi storiche ormai passate – dei cittadini è da sempre una prerogativa sovrana dello Stato. Salvo quanto previsto dagli accordi internazionali recenti in materia di diritti umani, per essere espulso lo straniero non deve necessariamente trovarsi in una posizione irregolare. Tale prerogativa è la diretta conseguenza del controllo delle frontiere e del territorio su lo Stato cui rivendica la propria sovranità1. Ad ogni modo, gli stranieri in posizione regolare sono attualmente protetti dalle autolimitazioni degli Stati accettate in sede di convenzione internazionale2. Con riguardo al tipo di mancata rispondenza alla normativa migratoria, è stata avanzata una classificazione tripartita: gli immigrati illegali, gli immigrati irregolari e le vittime della tratta3. Gli immigrati irregolari sono coloro che, pur entrati nel territorio dell’Unione in modo regolare, vi permane anche senza o alla scadenza del permesso; gli immigrati illegali, ovvero i clandestini, la cui permanenza è sin dall’origine in contrasto con la normativa migratoria; e infine la vittima del traffico, sotttospecie degli immigrati illegali, soggetti però a un regime di schiavitù (o prossimo alla schiavitù) da parte del trafficante. La legittimazione ad adottare misure riguardo all’immigrazione illegale o iregolare è contenuta nell’art. 79 TFUE: il Paragrafo 1 stabilisce la competenza dell’Unione al fine di garantire l’equo trattamento degli immigrati regolari e il 1 Natalino Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Giappicchelli Editore, Torino, 2009, p. 19 2 Giovanni Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento di cittadini di Stati terzi in condizione irregolare, in Carella, Cellamare, Garofalo, Gargiulo, Pizzolante, Sacovelli, Di Chio, L’immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell’Unione Europea, Monduzzi Editoriale, Milano, 2012, p. 229 3 Oreste Liporace, Immigrazione illegale e immigrazione irregolare nell'Unione Europea, in Rassegna dell'Arma, 2009, n.4, http://www.carabinieri.it/Internet/Editoria/Rassegna+Arma/2009/4/Studi/studi_01.htm 89 contrasto all’immigrazione illegale; stabilita la procedura legislativa ordinaria al paragrafo 2, la lettera (c) e la lettera (d) chiariscono l’ambito di competenza entro cui il contrasto all’immigrazione illegale può dispiegarsi. La competenza tuttavia non è esclusiva, bensì concorrente, come precisato all’art. 67 TFUE e all’art. 72 TFUE. Ogni norma dei Trattati o derivata da essi deve inoltre rispettare l’art. 6 TUE, che rinvia al rispetto dei diritti umani secondo la formulazione CEDU e dei fondamentali descritti nella Carta dei Diritti Fondamentali, in quanto i primi fanno parte dei principi fondamentali del diritto e i secondi hanno pari valore giuridico rispetto al TUE e al TFUE. Come per tutte le previsioni attinenti allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, il Regno Unito e l’Irlanda da una parte e la Danimarca dall’altra godono di una posizione differenziata e meno vincolata, ai sensi dei Protocolli nn. 21 e 224. Il primo atto emanato in ambito UE a riguardo dell’espulsione di cittadini di paesi terzi risale al 2001. La direttiva 2001/40/CE, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento, fu adottata su proposta della Francia, nonostante l’avverso parere del Parlamento Europeo basato su motivi di competenza. Al fine di garantire una maggiore efficacia delle decisioni di allontanamento e una migliore cooperazione in materia di rimpatrio tra gli Stati membri dell'Unione, l’allora Comunità Europea ritenne necessario il reciproco riconoscimento delle decisioni di allontanamento. Secondo la Direttiva 2001/40, queste ultime dovevano avere due requisiti principali: essere state adottate da un'autorità amministrativa, ed essere fondate sulla sussistenza di un concreto interesse ad espellere. A sua volta, il secondo requisito può riscontrarsi o nell'esistenza di una minaccia grave e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza nazionale, ovvero sulla violazione della norme riguardanti l'ingresso o il soggiorno dello straniero. 4 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 228 90 Ad ogni modo, l’art. 3 dispone che l’attuazione di tale direttiva deve avvenire nel rispetto dei «diritti umani» e delle «libertà fondamentali». Inoltre, lo Stato Membro che adotta il provvedimento di esecuzione deve prevedere la possibilità per lo straniero di proporre ricorso avverso la misura che attua il riconoscimento della decisione di allontanamento. Gran parte dei principi della Direttiva Riconoscimento Rimpatri viene ad essere ripresa nella Direttiva Rimpatri, di sette anni successiva. La Direttiva Rimpatri 2008/115/CE Il principale strumento normativo per disciplinare la fase finale dell’immigrazione illegale è la cosiddetta “Direttiva Rimpatri”, 2008/115/CE del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, a cui si collegano numerose sentenze che dettagliano e chiariscono l’interpretazione da portarsi. Alla “Direttiva Rimpatri” fa riferimento la successiva Direttiva 2009/52/CE del 18 giugno 2009, che prevede sanzioni finanziarie a carico delle imprese che aumentano a seconda del numero di cittadini di paesi terzi assunti illegalmente e il pagamento dei costi di rimpatrio, nei casi in cui le assunzioni siano effettuate. La direttiva, discostandosi da altre che consentono una ridotta discrezionalità da parte degli Stati Membri, è formata da tre tipologie principali di norme: le norme obbligatorie, che non consentono particolari discrezionalità, le norme a riguardo di obiettivi che gli Stati possono recepire o meno, e l’ordinaria 5 previsione delle misure nazionali «più favorevoli» di cui all’art. 4. La parte lasciata alla libera decisione di recepire o meno rende difficile la completa uniformità nell’ambito UE. 5 Chiara Favilli, La Direttiva Rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell’espulsione dei cittadini di Paesi terzi, Osservatoriosullefonti.it, fasc. n. 2/2009, p. 3 91 La Direttiva è preceduta, in ossequio dall’obbligo di motivazione in fatto e in diritto posto in capo agli atti dell’Unione Europea, da trenta “Considerando”. Essi aprono la direttiva ed esplicitano gli obiettivi dell'Unione europea in materia di rimpatrio, dando altresì conto della scelta di intervenire a livello UE. La finalità principale, esposta nel Considerando n. 4, è quella di elaborare una politica di rimpatrio che sia «efficace» e quindi di armonizzare le norme nazionali e di renderle efficaci contro l’immigrazione illegale. Per raggiungere questo scopo (Considerando n. 5) è quindi necessario introdurre una normativa comune onnicomprensiva, la quale deve contenere garanzie giuridiche comuni (Considerando n. 11) essere ispirata e conforme ai principi generali del diritto dell’Unione Europea (Considerando n. 6), e quindi anche ai diritti umani come elaborati dalla costante giurisprudenza UE e CEDU, nonché conforme ai principi del non refoulement (Considerando n. 8). Ad ogni modo, il Considerando n. 7 prevede la possibilità di «Accordi di riammissione» con generici Stati terzi, non necessariamente gli Stati di origine, che sono tuttavia destinatari di altri accordi, individuabili nell’ambito della cooperazione internazionale con i paesi d'origine, considerata una condizione preliminare per un «rimpatrio sostenibile». . Il Considerando n. 20 afferma l’impossibilità degli Stati Membri di coordinarsi da sé raggiungendo norme comuni in materia di rimpatrio e misure connesse; pertanto l’intervento dell’allora Comunità Europea è legittimo ai sensi dell’art. 5 TUE, tanto nel principio di sussidiarietà quanto nell’autolimitazione in base al principio di proporzionalità. Al rimpatrio e al conseguente divieto di reingresso sono apposti limiti stringenti: programmaticamente non più di cinque anni in circostanze ordinarie (Considerando n. 14). I Considerando nn. 13, 16 e 17 prevedono la possibilità di ricorrere a mezzi coercitivi o a trattenere gli immigrati illegali, raccomandando il mantenimento dei principi di proporzionalità e del trattamento dignitoso; il Considerando n. 22 infine cita il criterio dell’interesse superiore del fanciullo. 92 Come tutela per i rifugiati, chi presenta domanda di asilo è esente, almeno fino al respingimento della domanda, dalla condizione di immigrato illegale. Un’attenzione a parte meritano i Considerando nn. 18 e da 25 a 30, poiché trattano del Sistema di Schengen e delle particolari eccezioni ed integrazioni ad esso. Per poter funzionare, la Direttiva Rimpatri si inserisce nel Sistema di Schengen e nel suo sistema informativo (Considerando n. 18). Come precedentemente accennato, il Regno di Danimarca e il Regno Unito non sono soggetti all’obbligo di trasposizione e recepimento nel diritto interno della Direttiva Rimpatri nella misura in cui essa si applica a cittadini di Stati non facenti parte del Sistema di Schengen (Considerando nn. 25 e 26). L’Irlanda, ai sensi del protocollo tra Regno Unito e Irlanda, non partecipa in alcun modo alla Direttiva Rimpatri (Considerando 27), mentre al contrario la Repubblica d’Islanda e il Regno di Norvegia sono soggetti alla Direttiva pur non facendo parte dell’UE, in forza dell’accordo di associazione di tali Stati con l’Unione Europea (Considerando 28). I Considerando 29 e 30 ineriscono all’accordo di associazione della Confederazione Elvetica al Sistema di Schengen e alla partecipazione del Principato del Lichtenstein a tale accordo: essendo considerato parte dell’acquis rilevante in merito, la Direttiva Rimpatri è soggetta all’applicazione anche in tali due Stati. L’art. 2 esclude l’applicazione della direttiva nei confronti delle persone o respinte alla frontiera o comunque entrate senza che la situazione sia sanata (par. 2, lett. a), sottoposte a rimpatrio come sanzione penale (lett. b) o beneficiari del diritto comunitario alla libera circolazione (par. 3) e che, ai sensi delle Direttive Requisiti per l’Asilo, non ricadano sotto questi ultimi. L’art. 2.2.b si riferisce a sanzioni penali, per fatti che siano diversi dall’immigrazione irregolare o illegale. Se così non fosse, verrebbe meno il principio dell’effetto utile. La salvaguardia 93 dell’effetto utile, già intuita in dottrina6, è stata confermata dalla giurisprudenza nella sentenza C-329/11 Achughbabian c. Prefét du Val-de-Marne. L’articolo 3, occupandosi delle definizioni utilizzate nel prosieguo dello strumento, introduce delle innovazioni tanto linguistiche quanto contenutistiche rispetto al diritto internazionale puro. Tali innovazioni si riscontrano soprattutto nei parr. 2 e 3. A riguardo del “soggiorno irregolare”, di cui all’art. 3 n. 2, esso è definito come irregolarità nei confronti del sistema di Schengen, senza distinguere 7 tra “irregolarità” e “illegalità” dell’immigrazione . La definizione di “rimpatrio” valida ai fini della Direttiva, descritta all’art. 3, n. 3, è una definizione che si discosta dal concetto di mera sovranità statale sulle frontiere e sul loro attraversamento, inserendo all’ultima definizione un concetto del tutto volontaristico da parte del cittadino in fase di espulsione: la terza definizione riguarda uno Stato terzo diverso da quello di provenienza, di origine o di transito, scelto volontariamente dallo straniero irregolare, ovviamente con il consenso dello Stato di destinazione. Oltre alle succitate “disposizioni più favorevoli”, l’art. 4 par. 4 impegna gli Stati Membri ad applicare il principio del “non respingimento”, per come formulato nella Convenzione di Ginevra del 1951 (lett. b) e ad applicare a chi viene escluso dall’art. 2 un equo trattamento (lett. a). L’art. 5, inoltre, stabilisce i criteri di base con cui interpretare le disposizioni: l’interesse preminente del minore, la tutela dell’unità familiare derivante dall’art. 8 CEDU e le condizioni di salute della persona da rimpatriare. Questi limiti, diversamente dal divieto di respingimento in caso di fondato pericolo di tortura o di trattamenti inumani, sono di carattere relativo, suscettibile di essere bilanciato con l’interesse all’espulsione. Il Capo II (artt. 6 – 11) disciplina i diversi tipi di rimpatrio e la procedura di massima. In linea generale, l’apporoccio seguito è quello della partenza volontaria 6 7 Ivi, p. 6 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 230 94 e delle garanzie del minore e della salute, tanto psichica quanto fisica. La disciplina “di sicurezza” del rimpatrio (artt. 6.2, 7.3, 7.4, 8.4, 11.1 lett. a, 11.2) interessa appena cinque commi: pur prevedendo una maggiore libertà d’azione in capo agli Stati Membri, non si discosta dall’impianto complessivo del Capo. L’art. 6 par. 1 attribuisce allo Stato di soggiorno irregolare del cittadino dello Stato terzo il compito di emettere una decisione di rimpatrio. Se tuttavia il cittadino dello Stato terzo è regolarmente soggiornante in un altro Stato Membro, ma non possiede i documenti che lo autorizzino a lasciare lo Stato dove risiede in modo regolare, questi ha il dovere di recarsi immediatamente nello Stato dove il suo soggiorno è regolare (par. 2); se l’immigrato in condizione irregolare non ottempera, o se lo richiedono motivi di ordine pubblico o di sicurezza nazionale, allora si procede con la decisione di rimpatrio. I paragrafi 3, 4 e 5 sono dedicati a delineare le facoltà di astensione da parte degli Stati Membri dalla decisione di rimpatrio: qualora il cittadino extra-UE irregolare sia stato ripreso da un altro Stato Membro, in virtù di previgenti accordi, e sia stato rimpatriato da quest’ultimo Stato Membro (par. 3), qualora lo Stato Membro decida di rilasciare un permesso di soggiorno al cittadino extra-UE irregolare per motivi «caritatevoli, umanitari o di altra natura» (par. 4), distinti dallo status di beneficiario di protezione internazionale di cui alle direttive specifiche, qualora un cittadino extra-UE irregolare stia rinnovando il permesso di soggiorno (par. 5). In ultimo, l’art. 6 par. 6 lascia liberi gli Stati Membri di emettere le decisioni di rimpatrio contestualmente agli altri provvedimenti connessi. Le condizioni di cui ai parr. 35 sono tassative: al di fuori di queste, gli Stati hanno l’obbligo di adottare il provvedimento8. La sentenza C-61/11 El Dridi charisce che il compito di cui all’art. 6.1 è a tutti gli effetti un obbligo posto in capo agli Stati Membri9. La decisione di rimpatrio è seguita dalla possibilità di partenza volontaria, 8 9 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 232 C-61/11 El Dridi, par. 35 95 concessa ordinariamente per un periodo compreso tra sette e trenta giorni (art. 7, par. 1); gli Stati Membri qualora il cittadino extra-UE in condizione irregolare costituisca una minaccia alla sicurezza o la domanda sia palesemente fraudolenta possono decidere di non concedere alcun termine per la partenza volontaria, o di concederne uno inferiore (par. 4). Di converso, gli Stati Membri possono decidere di allungare il periodo in considerazione dei legami instaurati in loco, l’esistenza di minori in età scolare e in genere le circostanze individuali (par. 2). Il par. 3 consente di impiegare alcuni strumenti atti a prevenire la fuga, ma non permette la limitazione completa della libertà personale tramite reclusione o detenzione. Qualora il periodo di partenza volontaria sia trascorso senza esiti, o qualora sussistano le condizioni di cui all’art. 7.4, gli Stati Membri agiscono per eseguire la decisione. Il ricorso alla coercizione è ammesso solo quale ultima istanza e comunque in modo «proporzionato» e non lesivo (art. 8 par. 4). L’allontanamento è tuttavia rinviato (art. 9) qualora esso violerebbe il principio di non refoulement o qualora incorra la sospensione prevista all’art. 13; inoltre, gli Stati Membri devono tenere conto delle condizioni del cittadino e dei mezzi di trasporto. L’art. 10 specifica le procedure proprie del rimpatrio di minori non accompagnati, stabilendo l’ingerenza di organismi diversi dalle autorità preposte al rimpatrio, e l’esigenza di accertarsi che il minore sia ricondotto alla famiglia, a un tutore o a strutture specifiche dello Stato di origine. L’art. 11, infine, disciplina il divieto di ingresso: esso può superare i cinque anni solo in caso di pericolo per la sicurezza collettiva, e può essere emesso qualora la partenza volontaria non sia stata concessa o non si sia ottemperato all’obbligo di rimpatrio. Il par. 3 esclude dal divieto di reingresso le vittime della tratta di esseri umani di cui alla direttiva 2004/81/CE e casi individuali o categorie determinate a discrezione dello Stato Membro sia per motivi umanitari che per altri, non specificati motivi. Il par. 5, inoltre, esclude dall’applicazione della norma i richiedenti protezione internazionale. 96 Tuttavia, come definito nella sentenza C-297/12 Filev, l’art. 11, par. 2 osta a una disposizione nazionale che subordini la limitazione della durata di un divieto d’ingresso alla presentazione da parte del cittadino interessato di un paese terzo di una domanda specifica volta a ottenere il beneficio di una siffatta limitazione10. Il Capo III (artt. 12, 13 e 14) disciplina le garanzie procedurali accordate per opporsi al rimpatrio tramite impugnazione dinanzi a un’autorità amministrativa o giudiziaria. In ogni caso, per rispettare le previsioni dell’art. 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, le espulsioni collettive sono vietate. L’art. 12 stabilisce che le decisioni di rimpatrio siano adottate in forma scritta (par. 1, primo capoverso) e che siano, su richiesta, tradotte per renderle comprensibili agli immigrati soggetti a rimpatrio (par. 2); tuttavia, l’obbligo della traduzione non è previsto per gli immigrati irregolari (par. 3). L’obbligo di informazione e di motivazione, in fatto e in diritto, può essere limitato laddove sussistano esigenze collegate alla tutela d indagini penali o alla salvaguardia della sicurezza (par. 1, secondo capoverso). L’art. 13 garantisce l’imparzialità e l’indipendenza dell’autorità dinanzi a cui il provvedimento è impugnato e il potere di questa di sospenderlo in via cautelare; il diritto all’assistenza legale è assicurato, come pure il diritto all’assistenza legale gratuita, se del caso. Infine, l’art. 14 assicura al par. 1 il rispetto del mantenimento dell’unità familiare (lett. a), della fornitura delle prestazioni sanitare essenziali (lett. b), dell’accesso all’istruzione di base, se la durata del soggiorno lo consente (lett. c) e delle varie esigenze di vita delle persone «vulnerabili» (lett. d). Collegandosi alle previsioni degli artt. 7.3 e 8.4, il Capo IV autorizza il trattenimento ai fini di rendere possibile l’allontanamento dal territorio nazionale. Tuttavia, tale trattenimento deve essere tenuto distinto dalla reclusione la quale, come stabilito dalla succitata sentenza El Dridi, non può essere irrogata 10 C-297/12, Decisioni, par. 1 97 «al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo»11. Non solo l’art. 15, in particolare nella sentenza C-357/09 Kadzoev12, ma tutto il Capo IV in generale è stato riconosciuto come dotato di effetto diretto, essendo state le sue disposizioni ritenute sufficientemente chiare, precise e incondizionate13. Il divieto di trattenimento oltre i termini vige anche contro le 14 ragioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica . Oltre a questioni di legalità e garanzie procedurali, il trattenimento deve anche rispettare i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea15. Ai sensi della giurisprudenza CEDU, inoltre, la conformità del trattenimento al diritto nazionale o, in questo caso, al diritto dell’Unione Europea non è sufficiente di per sé: ogni restrizione della libertà deve essere completamente estranea a qualsiasi elemento di arbitrarietà: pertanto essa deve essere condotta in buona fede, strettamente collegata al motivo, e le condizioni devono essere idonee; inoltre, la durata della detenzione non dovrebbe eccedere il tempo ragionevolmente richiesto per l’obiettivo perseguito dell’allontanamento16. Il Capo IV e la Sentenza “El Dridi” Uno degli aspetti più delicati in merito alla tutela dei diritti fondamentali 11 C-61/11 El Dridi, Decisione. 12 Francesco Viganò, Luca Masera, Addio articolo 14: Nota alla sentenza El Dridi della Corte di Giustzia UE in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, pubblicato in Rivista Associazione Italiana Costituzionalisti, Rivista n.: 3/2011, pubblicata il 5 luglio 2011, p. 5 13 C-61/11 El Dridi, par. 47 14 Fabio Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri tra efficienza del sistema e tutela dei diritti dello straniero, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, Anno XV, n. 1/2013, p. 30 15 C-329/11 Achughbabian c. Prefet du Val-de-Marne, par. 49. 16 Fundamental Rights Agency, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Lussemburgo, 2013, p. 164 98 degli immigrati irregolari e soggetti a misure di rimpatrio è costituito dal Capo IV della Direttiva Rimpatri; ad esso fa riferimento un importante intervento giurisprudenziale da parte della Corte di Giustizia, la sentenza della causa C11/61, El Dridi. Il Capo IV, costituito dagli articoli 15, 16 e 17, descrive le condizioni dell’eventuale trattenimento forzoso nei casi in cui sussistano concreti pericoli di fuga. L’art. 15 par. 2 assicura il carattere giurisdizionale dell’irrogazione e del riesame della misura di trattenimento, il quale non può superare i sei mesi (par. 5), prolungabili di altri dodici in circostanze particolari (par. 6). L’art. 16 par. 1 stabilisce chiaramente che gli immigrati “trattenuti” non sono in nessun modo comparabili ai detenuti ordinari, anche nel caso in cui essi debbano essere ospitati all’interno di istituti penitenziari. La Sentenza El Dridi è una sentenza rilevante soprattutto nell’ordinamento giuridico italiano, a cui essa fa riferimento, poiché essa esclude la punibilità con la reclusione (anche se non proibisce l’esistenza dell’illecito penale in sé e per sé 17) previsto dall’art. 14 comma 5 ter del decreto legislativo 286/98, per come novellato dalla cosddetta “legge Bossi-Fini” e precedente alle successive modifiche che prevedono la sola irrogazione di una multa. Il sig. El Dridi è un cittadino di un paese terzo entrato illegalmente in Italia e privo di permesso di soggiorno. Nei suoi confronti il Prefetto di Torino emanò un decreto di espulsione in data 8 maggio 2004 a cui fece seguito l’ordine di allontanamento (art. 13 d.lgs. 286/98), emanato dal Questore di Udine sei anni dopo. Il sig. El Dridi non si conformò all’ordine di allontanamento. In funzione dell’allora vigente all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998, fu condannato. La Corte d’Appello di Trento rinviò alla Corte di Giustizia il giudizio pregiuiziale sulla possibilità di disporre una sanzione penale, nel corso della procedura amministrativa di rimpatrio di uno straniero, per inosservanza di una 17 C-61/11 El Dridi, par. 52 99 delle fasi di tale procedura18. Secondo le conclusioni dell’Avvocato Generale, l’art. 2 par. 2 lett. b esclude dall’ambito di applicazione della Direttiva solo le espulsioni adottate tramite una decisione di tipo giurisdizionale e non, come invece nel caso in esame e più in generale nella normativa italiana sull’immigrazione illegale, tramite provvedimento amministrativo. Pertanto, un ordine di allontanamento emanato da un’Autorità di Pubblica Sicurezza quale il Prefetto è rientra appieno nella Direttiva medesima. L’Avvocato Generale in seguito rileva la differenza tra il trattenimento funzionale all’espulsione vera e propria e la reclusione penale prevista dall’art. 14 c. 5-ter del d. lgs. 286/98, per come vigente al momento della sentenza: la questione diviene quindi se la reclusione penale prevista dall’ordinamento dello Stato Membro siano classificabili come “misure necessarie”, se cioè rispettino il criterio di proporzionalità tra “intromissione” pubblica e sfera privata di interessi e, quindi, l’art. 8 par. 1 della Direttiva Rimpatri o se, al contrario, la misura nazionale frapponga ostacoli allo scopo della direttiva. La conclusione della CGUE è che la reclusione comporta necessariamente un ritardo nell’esecuzione concreta del rimpatrio coatto. Inoltre, dalla posizione assunta dalla Repubblica Italiana emerge come la disposizione del testo unico sull’immigrazione in esame fosse destinata a mantenere e garantire l’autorità del pubblico potere, venendo concepita come una punizione per il mancato ottemperamento all’ordine emanato e subordinando l’obiettivo “comunitario” del rimpatrio al mantenimento dell’autorità pubblica e all’irrogazione della “punizione”. A parere dell’Avvocato Generale, un obiettivo di tal fatta è incompatibile con il dichiarato scopo della Direttiva, in quanto esso rischia di compromettere, o anche solo di ritardare, un obiettivo comunitario19. 18 C-61/11 El Dridi, parr. 18-24 Rosa Raffaelli, The returns directive in light of the El Dridi judgment, pubblicato in Perspectives on Federalism, Vol. 3, n. 1, 2011, ISSN: 2036-5438, p. 38. 19 100 Nell’argomentare la sentenza, la CGUE richiama il Considerando n. 2 della Direttiva, ponendo l’accento sulla tutela dei diritti fondamentali20, sul rispetto della procedura prevista21 e includendo quindi nella sua tutela anche i diritti fondamentali dell’immigrato illegale nella procedura di rimpatrio22. I principi salvaguardati esplicitamente dalla sentenza sono quello della tutela dell’effetto utile, successivamente ribadito nella sentenza C-329/11 Achughbabian c. Prefét du Val-de-Marne e quello dell’effettività della misura di rimpatrio23. Ulteriore limitazione per la possibilità degli Stati di proteggere le loro frontiere con mezzi di natura penale deriva dalla giurisprudenza stabilita con la succitata sentenza C-297/12 Filev; in tale decisione della CGUE, l’art. 11, par. 2 della Direttiva è stato dichiarato ostare a che una violazione di un divieto d’ingresso e di soggiorno nel territorio di uno Stato membro, emesso oltre cinque anni prima della data del nuovo ingresso dell’interessato o dell’entrata in vigore della normativa nazionale che recepisce tale direttiva, comporti una sanzione penale, a meno che tale cittadino non costituisca una grave minaccia per l’ordine 24 pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale . Come sempre, tali criteri vengono interpretati in modo restrittivo. Nel prevedere una serie di metodi via via più restrittivi della libertà personale, la Direttiva organizza un sistema graduato 25 che arriva sino al trattenimento personale. La graduazione e la progressività dei mezzi autorizzati per realizzare il rimpatrio rendono possibile scorgere il rispetto del principio di proporzionalità e del minore intervento della pubblica autorità possibile: la CGUE ha deciso che con l’irrogazione della reclusione tanto l’effetto utile quanto la 20 21 C-61/11 El Dridi, par. 31 C-61/11 El Dridi, par. 34 22 Francesco Viganò, Luca Masera, Addio articolo 14: Nota alla sentenza El Dridi della Corte di Giustzia UE in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, pubblicato in Rivista Associazione Italiana Costituzionalisti, Rivista n.: 3/2011, pubblicata il 5 luglio 2011, p. 4 23 C-61/11 El Dridi, par. 58 24 25 C-297/12, Decisioni, par. 2 C-61/11 El Dridi, par. 42 101 proporzionalità verrebbero ad essere compromessi. Parte della dottrina in materia collega la sentenza in esame al periodo di notevole afflusso di immigrati – anche non in possesso dei requisiti per la richiesta dello status di asilo politico – in cui essa è stata resa proprio al fine di ribadire il coinvolgimento della Corte di Giustizia nella protezione dei diritti fondamentali anche degli immigrati illegali26. Per giungere a tale fine, la Corte afferma che non si possa eccedere al trattenimento di cui al Capo IV27 e che tale trattenimento deve intendersi come mera necessità pratica e non come reclusione punitiva. Poiché le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno valore erga omnes, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, con la Sentenza El Dridi la CGUE ha delineato il limite massimo della riduzione della libertà personale esercitabile sugli immigrati illegali, ovviamente in riferimento alla loro condizione immigratoria irregolare e alla procedura di rimpatrio da porre in essere nei loro confronti. La sentenza Achughbabian La sentenza C-329/11 Achughbabian viene in rilivo quale contrappunto alla quasi contemporanea sentenza El Dridi, rendendo più chiaro l’ambito di applicazione della Direttiva Rimpatri. Se nella sentenza C-61/11 El Dridi, precedentemente delineata, era stata categoricamente esclusa la possibilità di irrogare la reclusione per il reato di clandestinità, nella sentenza Achughbabian viene fatta salva la possibilità di prevedere il reato di immigrazione clandestina, in quanto a dire della Corte la Direttiva non vieta che il diritto di uno Stato membro preveda sanzioni penali per 26 27 Viganò-Masera, Addio art. 14, cit. p. 8 Ibidem 102 scoraggiare e reprimere la commissione di siffatta infrazione28, 29. Ad ogni buon conto, nell’ammettere la possibilità di prevedere tale reato e tali contromisure, la sentenza ribadisce che la sanzione detentiva non può essere irrogata né quando ancora non è stato accertato il soggiorno irregolare30, né prima che sia stato eseguito il rimpatrio31, e quindi implicitamente non può essere irrogata mai, richiamando espressamente la consolidata giurisprudenza in merito all’effetto utile già resa con la sentenza El Dridi. La causa principale, da cui è scaturita la questione pregiudiziale, vedeva l’imputato, Alexandre Achughbabian, sollevare l’eccezione dell’incompatibilità tra la pena della detenzione detentiva prevista dalla legge francese e il diritto dell'Unione Europea in materia di rimpatri: poiché la misura di sicurezza a cui Alexandre Achughbabian era sottoposto è applicabile solo in caso di sospetto di un reato punibile con la reclusione, la misura stessa sarebbe irregolare, non potendo essere l’immigrazione illegale punita con la reclusione stessa per effetto delle rese sentenze. Se la reclusione è esclusa, la sentenza C-430/11 Sagor chiarisce che la pena pecuniaria è pienamente compatibile con il requisito di celerità ed efficacia del rimpatrio, compatibilità che invece la Corte non ravvisa nella sostituibilità della sanzione pecuniaria con l’obbligo di permanenza domiciliare, per ragioni analoghe a quelle esposte a riguardo della reclusione nelle precedenti sentenze El Dridi e Achughbabian 32. Valutazioni della Direttiva Rimpatri da un punto di vista contenutistico Da un punto di vista non strettamente giuridico ma più orientato alla 28 29 30 31 32 C-329/11 Achughbabian, par. 28 Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri, cit., p. 17 Ivi, p. 19 C-329/11 Achughbabian, par. 45 Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri, cit., p. 22 103 valutazione politica, la direttiva rimpatri è stata accolta in modo differenziato, principalmente in funzione della weltanschauung politico-ideologica propria di ciascun estensore di commenti e reazioni. In linea di massima, gli estensori dei commenti alla Direttiva Rimpatri – principalmente nella sua versione del 2008 – sono classificabili in due categorie: da un lato coloro che la ritengono adeguata ad un serio contrasto all’immigrazione irregolare, dall’altro coloro che vi scorgono una possibile compressione di diritti dello straniero33. Nell’ambito dei sostenitori dichiarati del «melting pot», il Professor Fulvio Vassallo Paleologo, ha espresso un’opinione fortemente negativa34. A suo parere, la Direttiva Rimpatri si inserirebbe in un quadro di scarsa integrazione europea e di una libertà di differenziamento tra le normative nazionali; tale margine di manovra rimasto in capo agli Stati Membri è percepito eccessivo. Pertanto, è asserita la capacità della Direttiva di indurre gli Stati Membri a rendere più sfavorevoli per immigrati migranti le normative nazionali. Le misure della Direttiva, precedentemente accennate, vengono inquadrate da Vassallo Paleologo quali discriminatorie e contrastanti con la Costituzione della Repubblica Italiana per il fatto di stabilire all’art. 13 regole processuali specifiche per gli immigrati irregolari. In particolare viene sollevata l’incompatibilità con l’art. 6 CEDU, che garantisce un ricorso effettivo, malgrado l’articolo dedicato alla procedura preveda al paragrafo 2 la facoltà in capo all’organo di cui al precedente art. 13 par. 1 di sospendere temporaneamente l'esecuzione del rimpatrio, a meno che la sospensione temporanea non sia già applicabile ai sensi del diritto interno. È rimarcabile l’interpretazione del Prof. Paleologo in materia di minori non accompagnati (art. 10), che sembra non tenere conto del comma 2 dello stesso 33 Ivi, p. 13 34 Fulvio Vassallo Paleologo, Approvata la direttiva rimpatri – Il filo spinato che accerchia l’Europa, Melting Pot, 18 giugno 2008, http://www.meltingpot.org/Approvata-la-direttivarimpatri-Il-filo-spinato-che.html#.Uw21suN5PNk, link consultato in data mercoledì 26 febbraio 2014 10.51.05 104 articolo, il quale subordina il rimpatrio del minore all’esistenza di una struttura famigliare in grado di accoglierlo. Gli accordi «di riammissione» con gli Stati di transito degli immigrati irregolari, di cui all’art. 3 della presente direttiva, sono uno dei pochi ambiti in cui l’Unione Europea attua una politica esterna in qualche misura svincolata dalla politica commerciale comune, e anzi pone le premesse per un rafforzamento dei legami euro-mediterranei ed euro-africani, con il potenziamento della stabilità interna degli Stati partner dell’Unione. Tali accordi vengono criticati per numerose ragioni. La ragione addotta in prima battuta è che gli accordi verrebbero stretti con dittatori, cioè con regimi marcatamente ostili all’approccio politico e sociale europeo occidentale e strategicamente avversi al c.d. occidente. Lo scopo sarebbe quello di «impedire l’accesso […] ai soggetti più vulnerabili come donne e bambini», nonostante la previsione di cui, ad esempio, al Considerando n. 21 della direttiva. Con l’accusa, esposta in toni inequivocabili, di volere impedire l’accesso a “potenziali” richiedenti asilo 35 si delinea una concezione per la quale il diritto d’asilo è interpretato come mezzo di immigrazione quasi ordinaria e applicabile su larga scala, in un senso oggettivamente molto distante dal classico asilo offerto quando esso era una decisione politica e sostanzialmente extra-giuridica. Per quanto attiene all’approccio che la CGUE ha utilizzato a riguardo della Direttiva Rimpatri, parte della dottrina lo ritiene “utile ma paradossale”36: da un lato esso infatti disapplica e demolisce le previsioni di natura penalistica e soprattutto detentiva, ma dall’altro non agisce in questo senso in nome dei diritti dello straniero in condizione di soggiorno irregolare, bensì in funzione della celerità del sistema. Pertanto, i diritti rivendicati dall’immigrato irregolare sono 35 Fulvio Vassallo Paleologo, Accordi di riammissione e direttiva sui rimpatri, L'altro diritto – Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, http://www.altrodiritto.unifi.it/frontier/storia/riammiss.htm, link consultato in data 25 marzo 2014 10.54 36 Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri, cit., p. 25 105 tutelati in un modo ravvisato come «indiretto», invece che essere il focus del ragionamento giuridico della Corte, allo scopo di dare efficacia diretta alla Direttiva che quei diritti attribuisce37, approccio peraltro adottato nella sentenza C-357/09 Kadzoev38. A parere di chi scrive, la Direttiva Rimpatri, in definitiva, comporta una prevalenza generale accordata alla tutela dell’immigrato irregolare da espellere, sia direttamente, sia in modo indiretto e riferito al minore o alla salute, a sua volta tanto dell’immigrato irregolare quanto del minore, ostacolando in modo sistematico l’azione della forza pubblica e della tutela della legalità; da un punto di vista più generale, la sorveglianza delle frontiere cessa di essere un momento schmittianamente «politico», per cedere il passo alla regolamentazione esterna e improntata all’erosione della sovranità statale; la succitata sentenza El Dridi rende chiaro che qualsiasi prospettiva di qualificare la sovranità sulle frontiere rendendo illegale per se l’immigrazione non conforme è destinata a scontrarsi con la tutela realizzata dalla Corte. Per di più, perfino l’inosservanza dell’ordine di rimpatrio è stata esclusa dalla Corte come motivo legittimante l’irrogazione della reclusione all’immigrato illegale soggetto alla decisione. Prevedendo il rimpatrio come – di fatto – un’eccezione alla regola, si cessa di considerare lo spazio nazionale come qualcosa di strutturalmente distinto dal territorio di giurisdizione di un mero ente erogatore di servizi. La stessa previsione di durata limitata del divieto di reingresso – stabilita a partire dal considerando n. 21 che precede le disposizioni della Direttiva – implica che la frontiera europea cessa (se mai lo è stata) di essere tale. L’approccio elaborato e proposto non è, quindi, quello dell’eccezionalità dell’immigrazione, ma quello della sua ordinarietà, a cui un’eccezione può essere posta solo se le 37 38 Ivi, p. 26 Ivi, p. 30 106 modalità di ingresso non sono regolari e comunque solo in via transitoria. Accordi di riammissione Il contrasto dell’immigrazione illegale, essendo un’attività rivolta ad evitare che soggetti esterni all’Unione Europea vi entrino in modo non conforme alle disposizioni, coinvolge anche la proiezione esterna dell’UE stessa, poiché la procedura di rimpatrio sarebbe impossibile senza la cooperazion degli Stati verso cui il rimpatrio è diretto. La competenza per gli «accordi di riammissione» è attribuita in capo all’Unione Europea dall’art. 79, par. 3 TFUE. Allo stato attuale, l’Unione ha concluso dodici accordi di riammissione, dei quali ben otto con Stati europei, tra cui gli Stati precedentemente appartenenti alla Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia e non ancora appartenenti all’UE, l’Albania, l’Ucraina, la Moldova, la Georgia e la Russia. Non sono stati firmati accordi di alcun genere con la Repubblica di Crimea. Altri accordi sono stati conclusi con il Pakistan, lo Sri Lanka e le Regioni Amministrative Speciali di Hong Kong e Macao39. È da segnalare l’assenza di accordi stipulati tra l’UE nel suo complesso e gli Stati dell’area sub-sahariana, gli Stati nordafricani e quelli vicino-orientali, da cui pure proviene una quota non indifferente di immigrazione, anche illegale. In genere, gli accordi di riammissione (ARUE) stipulati tra l’Unione Europea e l’altra parte contraente prevedono semplicemente l’obbligo di ciascuna Parte di riaccogliere i propri cittadini su richiesta della Parte richiedente, che si trovino sul terri torio del richiedente e che non soddisfino i criteri di residenza, 40 ingresso e soggiorno applicabili su detto territorio . La riammissione dei propri cittadini è considerato un obbligo in capo agli Stati derivante dal diritto internazionale di natura consuetudinaria, ma per 39 http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti/Pagine/Accordi-UE.aspx consultato in data 19/03/2014 40 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 248 107 link riconoscere un soggetto come cittadino di un dato Stato è ncessaria l’esistenza di una documentazione che ne attesti la cittadinanza; inoltre, in tutti gli accordi di questo tipo meno quello stipulato con l’Ucraina, probabilmente a causa della particolare situazione etnico-linguista di tale Stato, è stabilito un insieme di criteri che consentono di presumere l’esistenza di tali documenti41. Estranee al diritto consuetudinario sono invece le previsioni che regolano la riammissione nel territorio delle Parti contraenti di cittadini di Stati terzi e di persone apolidi: meno che per la Regione Amministrativa Speciale di Macao, è prevista l’accettazione degli apolidi, secondo uno schema standardizzato; infine, la R.A.S. di Hong Kong non tratta di cittadini di Stati terzi ma, a causa della peculiare situazione giuridica e politica pan-cinese, più genericamente di «cittadini di altra giurisdizione». Gli appartenenti a Stati terzi e gli apolidi sono riammessi, nel territorio della Parte contraente, sulla base di tre criteri comuni a tutti gli accordi: permesso di soggiorno, autorizzazione alla residenza (che nel caso di Ucraina e Russia sono considerati in modo distinto) o provenienza diretta dal territorio della Parte. Per quanto attiene a Pakistan e Sri Lanka, per provenienza diretta si intende l’arrivo per mezzo marittimo o aereo senza transito nel territorio di un altro Stato. Tutti gli accordi di riammissione stipulati sinora che contemplino anche il caso degli apolidi o di cittadini di Stati terzi contengono solitamente due clausole di esclusione dalla riammissione nel territorio della Parte; la riammissione non si applica qualora il cittadino di Stato terzo o l’apolide abbia compiuto mero scalo in un aeroporto internazionale dello Stato a cui è richiesta la riammissione o la Parte richiedente abbia rilasciato al cittadino di Stato terzo o all’apolide un permesso di soggiorno o un visto d’ingresso, a meno che – clausola di esclusione alla clausola di esclusione – il soggetto di cui trattasi sia in possesso di un visto o di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Parte a cui è richiesta l’ammissione con una 41 Ibidem 108 maggiore durata temporale. Le clausole relative ai cittadini di paesi terzi o apolidi in alcuni casi sono state applicabili dopo una proroga di due anni per l'Albania (con decorrenza dal 1° maggio 2008 per l'Albania) e l'Ucraina (con decorrenza 1° gennaio 2010), di tre anni per la Federazione russa (con decorrenza 1° giugno 2010)42. Secondo la Commissione Europea, la stipula degli accordi di riammissione è propedeutica non solo alla repressione dell’immigrazione illegale, ma anche alla sua prevenzione: in quattro anni di vigenza comunque parziale (2007 – 2011) la percentuale di cittadini di Stati terzi con accordi di riammissione è calata del 6,8%43. È da sottolineare come l'UE consideri gli ARUE esclusivamente come strumenti tecnici che apportano miglioramenti procedurali alla cooperazione tra amministrazioni. La situazione della persona da riammettere non è disciplinata e rimane quindi soggetta alla legislazione internazionale, dell'UE e nazionale applicabile44, ivi compresi la Direttiva Rimpatri e i divieti di rimpatrio in caso di pericolo di violazione dei diritti umani. ACCORDI DI RIAMMISSIONE BILATERALI CONCLUSI DALL’ITALIA Dal 1997 ad oggi la Repubblica Italiana stipula una serie di accordi bilaterali finalizzati alla riammissione nei territori di provenienza o di transito di immigrati illegali ed alla cooperazione tra forze di polizia, a cui vanno aggiunti gli accordi relativi al controllo dell’immigrazione e delle frontiere45. L’Italia ha concluso accordi di riammissione con alcuni Stati Membri dell’Unione Europea come Francia, Austria, Grecia e Spagna, con Stati che 42 COM(2011) 76 definitivo, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio, 23 febbraio 2011, p. 5 43 Ivi, p. 4 44 Ivi, p. 11 http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti/Pagine/Accordi-Italia.aspx, link consultato il 23-03-2014 45 109 successivamente sono divenuti parte dell’Unione Europea come Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Croazia e infine con Stati tuttora esterni all’UE, sia europei (Jugoslavia, Macedonia, Albania, Georgia, Svizzera), sia extra-europei (Marocco, Tunisia, Algeria, Nigeria). Il testo degli accordi è identico46. Fondo Europeo per i Rimpatri Il Fondo Europeo per i Rimpatri nell’ambito del programma “Solidarity and Management of Migration Flows” ed è formalmente istituito con decisione n. 575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 maggio 2007. Esso ha avuto durata per il periodo dal 1gennaio 2008 al 31 dicembre 2013 (art. 1). L’obiettivo generale del fondo è sostenere gli sforzi compiuti dagli Stati membri per migliorare la gestione dei rimpatri in tutte le sue dimensioni (art. 2 par. 1), sulla base del principio di una possibile gestione integrata del problema (rimpatri forzati e rimpatri volontari assistiti). In particolare, il fondo mira a introdurre una gestione integrata dei rimpatri (art. 3, par. 1, lett. b) e migliorarne l’organizzazione e l’attuazione da parte degli Stati membri (Considerando 21; art. 3, par. 1, lett. a), rafforzare la cooperazione tra Stati membri nel quadro della gestione integrata dei rimpatri e della loro attuazione. I piani di rimpatrio integrati si incentrano in particolar modo sull'efficacia e sul carattere duraturo dei rimpatri, di qualsiasi tipo siano (art. 3 par. 3). In particolare, meta del fondo è promuovere un’applicazione efficace e uniforme delle norme comuni concernenti il rimpatrio, predisporre misure per incoraggiare programmi di rimpatrio volontario dei cittadini di paesi terzi (Considerando 22) e, se necessario, operazioni di rimpatrio forzato (Considerando 23), nel rispetto dei diritti umani. Il Considerando 24 richiama l’importanza degli accordi di riammissione e, più in generale della collaborazione con gli Stati terzi. 46 http://www.uil.it/immigrazione/riammissione.pdf 110 L’art. 4 elenca nei suoi tre paragrafi il tipo di azioni intraprese dagli Stati Membri che sono sostenibili dal fondo; in modo particolare esse possono riguardare il miglioramento della «cooperazione» con le apposite autorità, anche consolari, degli Stati terzi (par. 1, lett. a; par. 2 lett. b), l’incoraggiamento al rimpatrio volontario (lett. b e lett. c), la creazione di sistemi integrati interni ad ogni Stato Membro per velocizzare il flusso di informazioni e l’adozione delle best practices straniere (par. 1, lett. d e par. 2, lett. e), a cui fa da controparte la formazione in tal senso di tutto il personale coinvolto (par. 3, lett. d), il potenziamento degli organi giudiziari in grado di giudicare sulle decisioni di rimpatrio avverso le quali è stato presentato ricorso (par. 3, lett. c) e, infine, la semplificazione e l'attuazione dei rimpatri forzati (lett. e). È da rilevare come quest’ultimo punto sia previsto «al fine di rafforzare la credibilità e l'integrità delle politiche di immigrazione e di ridurre il periodo durante il quale le persone in attesa di rimpatrio forzato devono essere trattenute», ponendo l’accento quindi sulla tutela degli immigrati illegali e sull’immagine delle politiche UE, e non sulla repressione dell’immigrazione. I principi di intervento del Fondo devono rispettare i criteri di complementarità, coerenza e conformità (art.8) e di sussidiarietà (art. 10). L’art. 14 descrive la ripartizione delle risorse del fondo: 300.000 € per ogni Stato Membro, aumentati a 500.000 € per gli Stati di nuova accessione (2004 e dal 2007 al 2013), mentre le restanti risorse vengono assegnate secondo un doppio criterio proporzionale che incentiva lo Stato Membro nella repressione dell’immigrazione illegale: il 50% secondo il numero dei soggiornanti illegali che nei tre anni precedenti siano stati soggetti a una decisione di rimpatrio e il 50% secondo al numero di cittadini effettivamente dipartitisi dal territorio dello Stato Membro che siano effettivamente entrati o che non debbano essere rimpatriati verso un altro Stato Membro. L’art. 18 pone in capo alla Commissione il compito di adottare un piano strategico complessivo per la durata del Fondo, attuato tramite programmi annuali 111 (art. 20), a cui devono seguire (art. 19) un programma nazionale pluriennale, che la Commissione deve approvare entro tre mesi dalla loro presentazione ufficiale. Il Capo V è dedicato alla previsione di sistemi di gestione e di controllo dei programmi pluriennali stabiliti dagli Stati membri e delle loro caratteristiche obbligatoriamente presenti. Tali sistemi consistono in autorità di gestione e controllo, che sono direttamente coinvolte nell’attuazione (art. 27), autorità di certificazione (art. 29) e autorità di audit e ispettive (art. 30). Secondo l’art. 31, spetta agli Stati membri garantire la sana gestione finanziaria dei programmi pluriennali e annuali e la legittimità e la regolarità delle operazioni soggiacenti; dal canto suo, la Commissione vigila sull’attuazione del sistema di controlli (art. 33) e collabora con le autorità di audit degli Stati Membri (art. 34), secondo uno schema ampiamente collaudato in numerosi settori anche molto distanti dall’immigrazione illegale. Modelli migratori e sistemi di soggiorno e di accesso alle cittadinanze nazionali Malgrado l’armonizzazione generata dalle direttive in materia di accoglienza, identificazione, concessione dell’asilo e rimpatrio, in capo agli Stati Membri permane ancora buona parte delle funzioni sovrane in materia di immigrazione, condizioni di soggiorno e cittadinanza. Si possono distinguere tre gruppi di politiche nazionali in materia di accesso alla cittadinanza: politiche basate sullo jus soli (cioè ispirate al criterio del luogo di nascita del soggetto cui attribuire la cittadinanza), politiche miste e politiche basate sullo jus sanguinis (cioè basate sul criterio della cittadinanza degli ascendenti del soggetto). Gli ordinamenti maggiormente caratteristici perché fortemente tipizzati sono quello italiano, considerato un modello di jus sanguinis, quello tedesco, visto come sistema misto, e quello francese, basato prevalentemente sullo jus soli. In ogni caso, tutte le normative in essere negli ordinamenti degli Stati Membri dell’Unione Europea devono tenere conto delle 112 Direttive UE, in particolar modo per quanto riguarda il soggiorno dei non cittadini. ITALIA L’accesso alla cittadinanza in Italia è disciplinato dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 s.m.i.. Il principio ispirartore è quello del sangue, tale per cui è cittadino italiano chi sia figlio di almeno un cittadino italiano (art. 1 c. 1, lett. a). Al criterio generale del sangue fanno eccezione alcuni casi, ispirati alla tutela dei diritti umani, qualora il soggetto sia figlio di apolidi o di genitori ignoti (art. 1, c. 1, lett. b), o qualora il soggetto nato in Italia sia impedito all’accesso della cittadinanza dal Paese di origine dei genitori. Ulteriore eccezione al criterio della discendenza è quella per cui lo straniero nato in Italia può richiedere la cittadinanza entro il diciannovesimo anno di età, previa continuativa residenza in Italia (art. 4, c. 2). In aggiunta all’acquisto della cittadinanza per gli stranieri nati in Italia, è previsto l’accesso anche per i coniugi apolidi di cittadini italiani (art. 5, purché incensurati ai sensi dell’art. 6), ai figli di chi acquista la cittadinanza italiana, senza particolari limitazioni (art. 14) e agli esuli istriani e dalmati e ai loro discendenti (art. 17bis). Infine, il cittadino di uno Stato Membro, qualora risieda legalmente per quattro anni continuativi in Italia, può richiedere la cittadinanza con una procedura particolare (art. 9, c.1, lett.d), aprendo così una via per il mutuo riconoscimento delle normative nazionali degli altri Stati Membri. La disciplina strettamente immigratoria è disciplinata invece dal Decreto legislativo 25 luglio 1998, n° 286 s.m.i., testo unico dell’immigrazione. GERMANIA La legge tedesca è ispirata al criterio del luogo di nascita, con l’aggiunta del 113 criterio del sangue, ribaltando la normativa in vigore prima del 2000. Per essere cittadini tedeschi è sufficiente che almeno uno dei genitori sia residente da almeno otto anni e abbia un permesso di soggiorno illimitato. Salvo prova contraria, il bambino figlio di ignoti trovato in territorio tedesco è considerato tedesco47. Tuttavia, lo straniero richiedente cittadinanza tedesca – senza che si verifichino le condizioni di attribuzione della cittadinanza alla nascita – deve rispettare una serie di stringenti requisiti. 48 La politica migratoria è invece considerata flessibile , tanto per la percezione di doveri umanitari fin dal secondo dopoguerra quanto per interessi economici, legando l’accesso al territorio tedesco alla necessità di forza lavoro, possibilmente qualificata, del mercato. FRANCIA La Francia adotta un regime di cittadinanza ispirato in prevalenza allo jus soli: cittadino francese è: il figlio di una coppia di cui almeno uno dei genitori sia a sua volta cittadino francese; colui che nasce in Francia, qualore almeno un genitore vi sia nato, a prescindere dalla cittadinanza; ogni bambino nato in Francia da genitori stranieri, sebbene la cittadinanza venga automaticamente attribuita solo alla maggiore età, salvo eccezioni meno ostative; colui che ha almeno uno dei genitori che ha risieduto in Francia per almeno cinque anni49. A seguito delle normative più recenti, la politica immigratoria francese è ispirata alla necessità da parte dello straniero di possedere un lavoro o comunque una fonte di reddito legale50. I limiti all’operare dell’espulsione derivanti dall’applicazione delle norme 47 48 49 50 Lucilla Deleo, La politica migratoria nell’Unione Europea, d.u.press, Bologna, 2007, p. 140 Ivi, p. 141 Ivi, p. 144 Ivi, p. 147 114 internazionali a tutela dei diritti umani Ogni previsione, tanto degli Stati Membri se attinente all’esecuzione della disciplina comunitaria51 quanto dell’Unione Europea stessa, deve essere intesa come soggetta ai limiti dell’effettività e della proporzionalità, quest’ultima intesa come applicazione del triplo standard precedentemente descritto. Tanto quello dell’effettività quanto quello della proporzionalità sono criteri considerati parte dei principi generali del diritto dell’Unione Europea e, in quanto tali, la loro applicazione viene garantita dalla Corte di Giustizia. La materia immigratoria e – segnatamente – quella espulsiva non fanno eccezione e la succitata sentenza El Dridi è l’esempio dell’applicazione del principio dell’effettività. Accanto a quelle derivanti tali principi, che svolgono da contrappeso generalizzato alle norme positive adottate, limitazioni di altro tipo possono sorgere da norme di diritto internazionale contenute in convenzioni in materia di diritti umani. Tali norme fanno pienamente parte delle tradizioni costituzionali comuni a cui la Corte di Giustiza fa riferimento, così come evidenziato da una costante e duratura giurisprudenza, che fa risalire le sue origini alle succitate sentenze Nold e Hauer, principio peraltro ricordato dall’art. 6, par. 3 TUE; le norme sui diritti umani, essendo considerate principi fondamentali del diritto, sono in grado di prevalere, entro certi limiti, sulle disposizioni tanto dei Trattati quanto degli atti derivati. Tra le norme internazionali a salvaguardia dei diritti umani, speciale preminenza hanno quelle derivanti dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali 52, così come specificato dall’art. 6 TUE e dall’art. 52, par. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, la quale a sua volta ha uguale valore giuridico rispetto ai Trattati. Le norme CEDU, inoltre, non sono interpretate 51 52 C-540/03, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea, punto 105 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 251 115 autonomamente dalla Corte di Giustizia, bensì sono recepite per come interpretate dall’apposita Corte Europea, andando a costituire il già ricordato sistema composto da «Due Corti, Uno Standard» che, per quanto attiene materie concernenti l’immigrazione e l’espulsione, non ha conosciuto fasi di difformità di parametri a causa del carattere relativamente recente della disciplina comunitaria in tale ambito. Le norme a tutela dei diritti umani direttamente riguardanti l’espulsione Le norme direttamente riguardanti l’espulsione delle convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani occupano un posto secondario, sia per numero di disposizioni che, di conseguenza, per l’importanza della giurisprudenza che la Corte CEDU ha potuto rendere in tale ambito53. In linea generale, anche la CEDU ha chiarito che le persone che entrano illegalmente nel territorio di uno Stato parte non possono, in generale, far valere una aspettativa legittima che venga loro accordato un diritto di soggiorno. Questa linea è stata confermata in numerose sentenze, come ad esempio Chandra e altri c. Paesi Bassi54. L’articolo 5, par. 1, lett. (f) CEDU autorizza le Parti a privare della libertà personale chi tenti di entrare illegalmente nel territorio, così come chi sia fatto oggetto di un un procedimento d’espulsione o d’estradizione. Ad ogni modo, la Convenzione caratterizza anche questo trattenimento in arresto o in detenzione come soggetto alla revisione giurisdizionale. L’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione, inoltre, vieta nettamente qualsiasi espulsione collettiva, principio ripreso dall’art. 19 par. 1 della Carta dei Diritti Fondamentali, il quale si spinge a richiamare direttamente due principi-cardine della CEDU. 53 Ivi., p. 252 54 Barbara Randazzo (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese, par. 3.3. 116 Nonostante la relativa importanza secondaria, la giurisprudenza sull’art. 5.1, lett. (f) CEDU ha indicato che il ricorso deve poter effettivamente fermare il provvedimento di espulsione; questa lettura incide grandemente sull’art. 13 della Direttiva Rimpatri55. L’applicazione delle norme che vietano la tortura in relazione all’espulsione La tipologia di norma posta più frequentemente in rilievo dinanzi ai rispettivi organi giurisdizionali istitituiti dalle diverse convenzioni internazionali sulla tutela dei diritti umani riguarda tuttavia il divieto di tortura o di pene e trattamenti «disumani e degradanti»56. Tale divieto è previsto dall’art. 3 CEDU, dall’art. 7 del Patto sui diritti civili e politici e, indirettamente, dall’art. 19 della Carta UE. La relazione con la materia dell’espulsione viene in evidenza se gli articoli succitati vengono collegati agli articoli dei medesimi strumenti che definiscono la giurisdizione delle Parti contraenti: tanto la CEDU (art. 1) quanto il Patto (art. 2) obbligano le parti ad includere nei diritti individuali tutti coloro che si trovano sotto la loro giurisdizione. In particolare, la Corte Europea ha con costante giurisprudenza57 precisato che per “giurisdizione” non si intende solo il territorio dello Stato e delle sue eventuali dipendenze territoriali, ma che si estende anche all’espulsione e all’estradizione e quando lo Stato ha propri agenti – secondo la pacifica definizione del diritto internazionale – che di fatto ne esercitino i poteri su un individuo al di fuori del rimpatrio e del territorio nazionale: il caso tipico di tale situazione rapportata alla materia immigratoria è quello della nave militare di uno Stato che intercetti un vascello in acque internazionali. Malgrado il fatto che tanto l’estradizione quanto la gestione generale 55 56 57 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 253 Ivi, p. 254 Decisione del 12/12/2001, Bankovic e altri contro Belgio 117 dell’immigrazione siano materie escluse dalla Convenzione in quanto attinenti al dominio riservato degli Stati, il rimpatrio, sotto qualunque forma, di un individuo può contrastare con l’art. 3 CEDU se la Corte ritiene che sia possibile che la persona da rimpatriare possa essere sottoposta ai trattamenti vietati dall’articolo stesso. Poiché l’individuo da rimpatriare è sottoposto alla sua giurisdizione, lo Stato firmatario CEDU è tenuto al rispetto del divieto, che mancherebbe nel caso in cui l’individuo fosse esposto a seri pericoli di tortura. Non solo, tale divieto opera anche quando lo Stato di destinazione non sia quello d’origine e non offra garanzie da una protezione nei confronti dello Stato d’origine dell’individuo58. Come affermato in toni netti e ultimativi in numerosi rescritti59 e sentenze, la tutela dell’art. 3 CEDU non prevede limitazioni di alcun genere60, e in ciò differisce dalla maggioranza delle altre disposizioni, che invece sono soggette al citato test del principio di proporzionalità. Ad ogni modo, l’art. 3 CEDU, e altre disposizioni dal contenuto analogo, devono riferirsi a una certa soglia di severità perché siano invocabili. Tale soglia è relativa, in quanto dipende dalle specifiche condizioni della persona potenzialmente sottoposta ai trattamenti che si vogliono analoghi alla tortura o inumani e degradanti, nonché dagli effetti del trattamento in particolare che verrebbe riservato alla persona. Le specifiche nozioni di tortura, di trattamento inumano e di trattamento degradante non sono, allo stato attuale della giurisprudenza CEDU, definite in modo univoco e costante61. Per quanto è inerente all’onere della prova, la Corte (come nella succitata sentenza Hirsi) può ricevere dati e documentazione dalle parti e può procurarsele d’ufficio; inoltre, vige un reciproco obbligo di dimostrazione tra le parti: il 58 59 M.E. Gennusa, La CEDU e l’UE, cit., p. 117 Su tutti, per quanto attiene al rimpatrio: A/AC.96/951, 13 settembre 2001 60 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 256 Barbara Randazzo (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cit., par. 4.1.4.1. 61 118 ricorrente deve dimostrare il rischio dei trattamenti inumani e degradanti e lo Stato avverso il quale è stato presentato ricorso deve contraporre elementi atti a confutare il ricorrente62. La sentenza Hirsi e altri contro Italia A causa dell’influenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la sentenza Hirsi e altri contro Italia, resa dalla Grande Camera il 23 febbraio 2012, costituisce, assieme ad altre, un parametro di riferimento assolutamente di rilievo per la varietà di temi trattati e di orientamenti giurisprudenziali confermati o corretti in materia di espulsioni collettive e di divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Come notato dal Giudice Pinto De Albuquerque nella sua Separate opinion alla sentenza, «The Hirsi Jamaa case is about the international protection of refugees, on the one hand, and the compatibility of immigration and bordercontrol policies with international law, on the other hand». Successivamente, citando l’autrice liberale Hannah Arendt, riconosce che il caso tratta, nel suo più implicito significato, del “diritto ad avere diritti”. La domanda a proposito della questione se le persone prive della cittadinanza europea, quali gli immigrati o i migranti sono, possiedano il “diritto ad avere diritti” è un’efficace formulazione della domanda sulla quale si gioca l’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali da parte tanto dell’Unione Europea quanto del Consiglio d’Europa, oggi (ma in realtà da molto tempo) due strutture che tendono a influenzarsi reciprocamente a un livello molto profondo, quantomeno per quanto attiene all’Europa occidentale. L’evoluzione che viene a porsi quale elemento di discussione altro non è che l’inclusione di nuove categorie di persone all’interno della sfera di protezione dei diritti fondamentali. Una volta raggiunta quella che è stata riconosciuta come una generale ed efficace tutela dei 62 Ivi, par. 4.1.4.2 119 diritti per quanti risiedono stabilmente all’interno dei confini delle giurisdizioni europee, la sfida che viene sottintesa dalla domanda invero retorica del Giudice De Albuquerque è quella di progressivamente allargare la soggettività giuridica delle istituzioni c.d. “costituzionali” europee (intese in senso strettamente liberale e borghese, cioè come produttrici e protettrici di diritti) alla più larga parte di persone possibile, ivi compresi – per l’attuale impossibilità di imporre il diritto europeo ad altri Stati – coloro che non sono ancora fisicamente presenti in Europa. Tale natura funzionalmente ambivalente, tuttavia, si inserisce su piani di stretta pertinenza della sovranità politica: l’attribuzione di diritti agli immigrati in quanto persone e non in quanto componenti della comunità nazionale di riferimento (in questo caso somali ed eritrei che azionano diritti nei confronti dell’Italia davanti a una corte che fa del suo essere “Europea” un mero riferimento geografico) è la manifestazione più avanzata del compiersi dell’universo di “valori” giuridici tipico del liberalismo. Il caso deriva da un ricorso contro la Repubblica Italiana da parte di undici individui di nazionalità somala e tredici di nazionalità eritrea. Il ricorso verteva in particolare sul fatto che la loro espulsione in Libia da parte delle autorità italiane violasse l’art. 3 CEDU e l’art. 4 del Protocollo n. 4. Inoltre, i ricorrenti contestavano l’assenza di rimedi effettivi che soddisfacessero l’art. 13 di detta Convenzione. Per quanto attiene alle circostanze fattuali che fecero da prodromo al ricorso63, i ricorrenti erano parte di un gruppo di persone che lasciarono le coste libiche a bordo di tre navi per raggiungere le coste italiane. A 35 miglia nautiche a sud di Lampedusa – ben al di fuori delle acquetute territoriali o di prossimità italiane e anzi all’interno dell’area di ricerca e soccorso di responsabilità maltese, le cui autorità tuttavia non intervennero64 – furono intercettati da vascelli della 63 Sent. Hirsi e altri c. Italia, 23febbraio 2012., parr. 9-17 Alessia Di Pascale, La sentenza Hirsi e altri c. Italia: una condanna senza appello della politica dei respingimenti, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, Anno XIV, n. 1/2012, p. 88 64 120 Guardia di Finanza e della Guardia Costiera. Una volta a bordo delle navi – tutte appartenenti a corpi militari – non furono identificati e vennero rispediti a Tripoli in forza, secondo quanto affermato dal Ministro dell’Interno, degli accordi bilaterali italo-libici. All’arrivo nella città libica, i ricorrenti e le altre persone a bordo delle navi vennero consegnati alle autorità libiche e, nonostante le loro proteste, costretti a scendere dalle navi militari italiane65. I ricorrenti contestavano l’assenza di informazioni sulla loro reale 66 destinazione e di tentativi di identificazione . Inoltre, secondo i rappresentanti dei ricorrenti, dopo gli eventi contestati due dei medesimi ricorrenti morivano in circostanze sconosciute67. Secondo il Codice della Navigazione italiano (artt. 4 e 5 Regio Decreto 30 marzo 1942, n. 327 e s.m.i.), i vettori italiani in alto mare e nello spazio aereo fuori dalla sovranità di uno Stato sono considerati essere parte del territorio italiano. Inoltre, tra l’Italia e l’organizzazione statuale libica allora vigente – vale a dire la Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare Socialista – era in vigore un accordo bilaterale che istituiva un sistema di vigilanza e repressione dell’immigrazione clandestina, che si traduceva in un impegno operativo congiunto, con la partecipazione di mezzi e di equipaggi misti delle due nazioni. Inoltre, ai sensi dell’art. 6 del medesimo Trattato, tanto la Repubblica Italiana quanto la Jamāhīriyya Libica si impegnavano ad esercitare le attività di contrasto all’immigrazione clandestina nel rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e della Carta delle Nazioni Unite68. La Corte prosegue l’analisi degli elementi di diritto che definiscono la posizione dell’Italia in rapporto al ricorso presentato prendendo in considerazione 65 66 67 68 Sent. Hirsi, cit., Par. 12 Sent. Hirsi, cit., Par. 11 Sent. Hirsi, cit., Par. 15 Sent. Hirsi, cit., Parr. 19-20 121 gli strumenti di diritto internazionale a cui l’Italia adesrisce: di primaria rilevanza, per un organo di garanzia di una convenzione sui diritti umani, è la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e in particolare gli artt. 1 e 33 par. 1. L’art. 1 definisce il rifugiato, mentre l’art. 33 par. 1 proibisce alle Parti contraenti di respingere tale rifugiato in un territorio dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate per effetto dei criteri che all’art. 1 concorrono a formare la definizione di rifugiato. La medesima Corte Europea, in una nota del 2001, ribadisce come tale art. 33 della Convenzione di Ginevra sia a cardinal protection principle enshrined in the Convention, to which no reservations are permitted […]. This includes rejection at the frontier, interception and indirect refoulement, whether of an individual seeking asylum or in situations of mass influx. 69. Tale ultimativa formulazione è parte della struttura logico-argomentativa secondo la quale l’art. 3 CEDU, nella sua applicazione al rimpatrio da parte degli Stati che sono parte contraente, non può essere soggetto al bilanciamento con altre esigenze, ivi compresa la tutela della sicurezza nazionale dello Stato, né la sua mancata osservanza nel più rigoroso dei termini essere giustificata da grandi e straordinari afflussi di immigrazione70. A fianco del complesso giuridico internazionale a tutela dei diritti umani, la Corte Europea ha analizzato la nota Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982 di Montego Bay, e in particolare gli artt. 92, 94 e 98, che disciplinano la responsabilità e la giurisdizione delle navi in alto mare, nonché il 69 70 A/AC.96/951, cit., par. 16 Sent. Hirsi, cit., Par. 122 122 dovere di rendere assistenza71; inoltre, la Corte CEDU ha richiamato l’art. 3, par. 1, subparagrafo 9 dell’allegato della Convenzione Internazionale sulla Ricerca e Soccorso in mare, che stabilisce che le Parti contraenti responsabili per la specifica zona devono coordinare i comandanti delle navi perché provvedano assistenza e soccorso72. La Corte ha richiamato anche l’art. 19 della Carta UE dei diritti fondamentali, che proibisce l’espulsione collettiva73, nonché numerosi strumenti ONU e UE che ribadiscono, anche e sorpattutto in riferimento al succitato protocollo italo-libico sull’immigrazione clandestina, che la priorità dell’Unione Europea è quella di garantire il diritto all’asilo, ma che le disposizioni comunitarie in materia di asilo non sono applicabili in alto mare, nonostante sia in vigore il Codice delle Frontiere di Schengen74. Infine, la Corte CEDU non solo ha tenuto conto di un rapporto del Comitato per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani e Degradanti, dove si sottolineava che gli immigrati respinti in Libia venivano privati del rispetto del 75 principio di non respingimento in un Paese non sicuro , ma veniva tenuta in considerazione persino la relazione presentata da un’associazione politica transnazionale come Human Rights Watch76, condotta intervistando 77 esclusivamente immigrati , secondo la quale l’apparato italiano di contrasto all’immigrazione clandestina non discriminava gli eventuali soggetti in possesso dei requisiti necessari per chiedere la concessione dello status di rifugiato 78. L’attività informativa è stata condotta dalla Corte in autonomia in base a 71 72 73 Ivi, par. 24 Ivi, par. 25 Ivi, par. 26 74 Lettera del 15 luglio 2009 di Jacques Barrot, Vicepresidente della Commissione Europea, in Sent. Hirsi, cit., Par. 34 75 Sent. Hirsi, cit., parr. 35-36 76 77 78 Ivi, parr. 37-39 Ivi, par. 38 Ibidem 123 precedenti abbastanza risalenti nel tempo79. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dopo aver preso atto delle posizioni tanto del Governo italiano quanto dei ricorrenti, e delle reciproche obiezioni, ha precisato il senso di “giurisdizione”, per come deve essere inteso secondo l’art. 1 CEDU80. In primo luogo, l’esercizio fattivo di tale giurisdizione è la condizione necessaria e sufficiente perché vi sia una responsabilità dello Stato in questione: essa si presume nel territorio dello Stato81 (di cui peraltro le navi militari per la legge italiana fanno parte) e può sorgere, come da precedente giurisprudenza, da azioni militari compiute dallo Stato82. Nel caso di specie, quindi, erano presenti entrambi gli elementi che fanno sorgere la responsabilità in capo all’Italia: territorio italiano secondo la legge italiana e azione per di più compiuta esclusivamente da mezzi e operatori soggetti alla condizione militare quali la Guardia di Finanza e il Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera83; il fatto che fosse una missione di ricerca e soccorso in mare, per di più nella zona di responsabilità maltese, e, quindi, i controlli fossero stati minimi non 84 attenua secondo la Corte CEDU l’effettività della giurisdizione italiana . La proibizione di cui all’art. 3 CEDU viene in questa sentenza e più in generale esaminata secondo due accezioni, preso atto che le Parti contraenti non adottano simili pratiche: il rischio di subire atti contrari al citato articolo nello Stato di origine e quello di subire atti dello stesso tipo nello Stato di destinazione o di transito, ove questo sia diverso dal primo. In primo luogo, la Corte afferma che la materia del rimpatrio è chiaramente di competenza nazionale; tuttavia, laddove esistano rischi sostanziali di atti contrari all’articolo in parola, sussiste per effetto della Convenzione 79 80 81 82 83 84 Sent. H.L.R. c. Francia, sentenza del 29 aprile 1997, par. 37 Sent. Hirsi, cit.,, parr. 70-75 Ivi, par. 71 Ivi, par. 73 Ivi, par. 76, 77 e 81 Ivi, par. 79 124 un’obbligazione a non espellere l’immigrato85; in tali casi la Corte ha il compito di valutare l’esistenza o meno di rischi, esaminando documentazione sia sottopostale dalle Parti, sia raccolta motu proprio86. sia Requisito emergente da costante giurisprudenza, è che si dimostri che il rischio sia reale e individuale, e che le autorità dello Stato di ricezione non siano in grado di evitarlo87. In ogni caso, dedurre il trattamento ricevuto dopo il loro ritorno o dopo il loro accesso allo Stato di transito dagli immigrati soggetti alla misura di espulsione è responsabilità delle autorità dello Stato sotto la cui giurisdizione gli immigrati si 88 trovano . Per quanto invece attiene all’annessa ma tuttavia distinta questione della espulsione collettiva, viene fatto osservare dalla Corte CEDU come il divieto di cui all’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU, peraltro ripreso letteralmente dall’art. 19, par. 1 della Carta UE, descriva, come risulta da giurisprudenza invero risalente, l’espulsione collettiva come qualsiasi misura diretta a indurre un gruppo di stranieri in quanto tale a lasciare la nazione, senza che questo gruppo di stranieri debba, per caratterizzare come collettiva l’espulsione, avere qualche carattere oggettivo o soggettivo in comune oltre alla contemporaneità dell’espulsione stessa. Unica eccezione è quando una tale misura è adottata solo dopo aver esperito un esame oggettivo e ragionevole dei casi particolari di ogni singolo straniero del gruppo, esame che sarebbe peraltro compromesso in presenza di una legge che preveda l’espulsione immediata89 e senza la possibilità di sospenderne gli effetti per mezzo di un’impugnazione davanti a un organo giurisdizionale. Non fermandosi al mancato rispetto dell’esame della singola situazione, la Corte CEDU rileva come l’art. 4 in parola non faccia alcuna menzione del 85 86 87 88 89 Ivi, par. 113 Ivi, parr. 114-116 Ivi, par. 120 Ivi, parr. 133 e 146-147 Ivi, parr. 166-168 125 concetto di “territorio” degli Stati Membri, anche a prescindere dal fatto che nel caso di specie le navi militari costituiscono effettivamente territorio nazionale; mancando qualsiasi altro limite spaziale, la logica conseguenza è che il divieto di espulsione collettiva si riferisca alla “giurisdizione”, e che quindi non sfugga all’applicazione di tale articolo anche la giurisdizione di tipo extraterritoriale90, come emerge dall’analisi operata dalla Corte Europea sui lavori preparatori della CEDU91. Limiti all’operare dell’espulsione derivanti dal diritto alla vita privata e familiare e da altri diritti non assoluti Il divieto derivante dall’applicazione e dalla lettura estensiva dell’art. 3 CEDU è, come accennato, assoluto e prevalente su ogni altra considerazione di interessi generali: esso sfugge quindi al principio di proporzionalità ed è immune da ogni bilanciamento. Non altrettanto si può dire, invece, dei limiti derivanti dal rispetto del diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU, disciplinato anche all’art. 17 del Patto sui diritti civili e politici e all’art. 7 Carta UE dei diritti fondamentali 92. In particolare, l’art. 7 della Carta si ricollega al successivo art. 9, che afferma la competenza nazionale a disciplinare le norme della famiglia93. La vita familiare e privata dell’immigrato sono tutelate, secondo l’ormai consolidato standard comune, anche dalla CGUE: lo spunto iniziale della tutela del diritto per quanto attiene agli immigrati da espellere è e rimane di natura economica oltre che inerente alle competenze derivanti dalla legislazione UE in materia di asilo e di rimpatri; tuttavia, alcuni autori ritengono che sia la 90 91 Ivi, parr. 173, 174 e 178 Di Pascale, La sentenza Hirsi e altri c. Italia, cit., p. 90 92 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 256 Stefania Ninatti, Il diritto alla vita familiare all’esame della Corte di Giustizia, in Marta Cartabia (a cura di), I diritti in azione , cit., p. 242 93 126 preoccupazione per i “diritti umani” a muovere l’azione della Corte UE e che il richiamo alla libera circolazione sia stato strumentale a proteggere tali diritti94 prima dell’introduzione della normativa “comunitaria” in tali materie. È da rilevare come la «vita privata» dell’immigrato comprenda non solo le relazioni umane e personali, ma ricomprenda anche l’ambito lavorativo e commerciale95. A riguardo del tipo concreto di “famiglia” da tutelare e da proteggere si è storicamente verificata un’evoluzione che partiva da una concezione della famiglia in senso tradizionale, per dirigersi in direzione di una concezione “estensiva” del concetto, sempre facendo attenzione a evitare i c.d. “matrimoni di comodo”, ma giungendo ad ammettere perfino l’assenza di stabile convivenza tra i familiari la cui vita familiare “a distanza” dovrebbe essere tutelata, ivi compresa la formazione di una vita familiare ancora al di là da avvenire ma la cui esistenza è solo «intended»96 o costituita da una convivenza non sanzionata da atti validi o riconosciuti nello Stato da cui gli immigrati dovrebbero essere espulsi97. Benché l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa abbia adottato una raccomandazione sulla non espulsione degli immigrati di lunga durata, la Corte CEDU, pur tenendo conto98 del carattere permanente della vita privata e familiare dell’immigrato di lunga durata, non ha costituito un diritto assoluto alla 99 sua permanenza . Rispetto al carattere ferreo e di “firewall” del divieto di cui all’art. 3 CEDU, tutte le disposizioni a riguardo della protezione della vita privata e familiare sono pienamente soggette al test di proporzionalità, e la protezione di tali diritti deve essere bilanciata con l’interesse generale ad adottare il provvedimento di 94 95 96 97 Ivi, p. 241 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 258 Sent. Abdul Aziz, Cabales and Balkandali v. The United Kingdom, 28 Maggio 1985, par. 62 Ivi, par. 63 98 Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 259 Randazzo (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cit., par. 4.1.3. 99 127 espulsione, pur mantenendo la tutela dell’interesse del minore un particolare status di protezione. Invero, nella tutela del diritto alla vita familiare e privata è stato realizzato il primo concreto allargamento europeo della soggettività giuridica anche a prescindere dal requisito della cittadinanza comunitaria: non solo l’art. 10 del Regolamento (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, estende una serie di diritti sociali ai familiari del lavoratore cittadino di Stato Membro a prescindere dalla cittadinanza di cui i familiari sono titolari100, ma l’art. 11 del medesimo regolamento attribuisce ai familiari del lavoratore comunitario il diritto di accedere a qualsiasi attività subordinata su tutto il territorio di tale Stato, anche se non possiedono la cittadinanza di uno Stato membro. Il solo impedimento alla concessione dei diritti previsti dal Regolamento a venire in rilievo è l’eventuale soggiorno illegale nel territorio dell’Unione Europea. Non fermandosi al coniuge e ai figli non cittadini comunitari del lavoratore comunitario, da tempo a godere dei medesimi diritti sono anche gli ex-coniugi, anche qualora il lavoratore cittadino di Stato Membro non eserciti più la sua attività. 100 Ad es. il diritto al ricongiungimento Vreemdelingenzaken en Integratie c. R. N. G. Eind 128 familiare: cfr. C-291/05 Minister voor CONCLUSIONI Dalla breve analisi condotta, è possibile trarre alcune conclusioni di fondo, tanto riguardo alla concreta politica dell’Unione rispetto ai cittadini non “comunitari” (per continuare ad usare una formula scorrevole ma ormai non più corretta), tanto riguardo alla questione più risalente, e cioè all’effettivo incidere della volontà e della decisione politica sul concreto ordinamento vigente. La prima parte del I capitolo ci consente di riconoscere quanto, nell’ordinamento liberaldemocratico, le volontà politiche del legislatore e dell’amministratore (ammesso che siano distinte) siano sottoposte in modo organico a un continuo sindacato di merito da parte degli organi giurisdizionali. La modalità specifica del sindacato giurisdizionale varia a seconda dell’ordinamento: esso può essere un controllo giurisdizionale (judicial review) diffuso, come nell’ordinamento statunitense, o accentrato, come nel controllo di legittimità costituzionale tipico degli ordinamenti continentali. Il controllo di merito da parte degli organi giurisdizionali è esercitato, per quanto attiene all’Unione Europea e ai suoi Stati Membri, da parte di organi accentrati: le corti costituzionali, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e, in certi casi, le corti di ultima istanza. In particolare, come illustrato da Mattias Kumm, il test di proporzionalità consiste nel bilanciare l’interesse pubblico con le esigenze di libertà del singolo individuo. Le esigenze di libertà, secondo questo approccio, sono sempre compromesse o ristrette, e il perseguimento dell’interesse pubblico può al più essere giustificato. Questa giustificazione, come sopra accennato, è frutto di una valutazione di un giudice, che decide basandosi da una parte su un catalogo di diritti o, come è il caso dell’Unione Europa, su un insieme di principi deli diritto e dall’altra su una “public reason”, che non appartiene a una determinazione politica, ma al sentire di chi giudica. 129 Dato questo paradigma, dove il giudice viene investito della responsabilità di limitare le decisioni dell’autorità politica, è questione di attribuzione di priorità. I principi definiti come valori in base al quale il giudice decide, non sono e non possono essere mai “neutrali” o “oggettivi” e quindi veri di per sé, ma sono espressioni di visioni del mondo, che possono vigere solo se gli altri valori, derivanti dalle visioni del mondo confliggenti, sono posti in posizione di secondaria importanza. Nello specifico, affermare che ogni misura pubblica ingerisce con l’interesse dell’individuo e, soprattutto, che tale ingerenza deve essere sempre motivata, costituisce l’enunciazione di una precisa teoria politica che viene tutelata per via giurisdizionale. L’attribuire al magistrato questa autorità di creare diritto – attraverso la limitazione della decisione politica – tramite una sentenza, significa attribuire un compito di tutela ai valori dominanti nei confronti della decisione politica che con questi valori contrasta. Una sorta di contro-assicurazione per la coerenza del giudice dei diritti con i valori (di nuovo, non “oggettivi” o “neutrali”) prescelti dalla decisione politica è l’esistenza di un catalogo di diritti o di principii a cui i giudici debbono fare riferimento. Pertanto, un ulteriore elemento di erosione della preminenza dell’autorità politica appare anche essere il ruolo minoritario o secondario attribuito dall’approccio razionalista ai cataloghi dei diritti emanati sempre dall’autorità politica, in questo caso la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza nel 2000 e resa teoricamente vincolante dal Trattato di Lisbona nel 2009, a tutela del ruolo prioritario a cui il test di proporzionalità fa accedere i giudici dei diritti. La seconda parte della tesi è dedicata, invece, all’approccio dell’Unione rispetto alla politica migratoria. Come è naturale, tale approccio consiste nell’applicazione al settore specifico della filosofia che caratterizza l’intero processo di integrazione europea. Come accennato, l’integrazione europea si ispira ai principi del 130 funzionalismo di Mitrany, e si fonda sull’integrazione delle tecniche, come ben descritto da Schumann, eliminando però la componente più schiettamente politica: nel caso analizzato nel Capitolo 1, in riferimento alle Comunicazioni ufficiali, un tema di così grande rilievo come quello dell’immigrazione – che concerne milioni di persone sprovviste di cittadinanza europea e milioni di cittadini europei – viene derubricato a metodo per contrastare l’arretramento demografico finalizzato al rafforzamento economico dell’Unione. Il punto dolente è proprio nella de-politicizzazione delle questioni, che va di pari passo con la legittimazione in base ai (supposti) risultati concreti ottenuti dalla regolazione. Mancando una decisione politica, viene a mancare la sovranità dell’intera costruzione, che però le decisioni le emana eccome, e improntate a una ben precisa visione del mondo. Sono decisioni non sovrane, travestite da tecniche ma improntate alla realizzazione di una ben determinata visione del mondo informata di un approccio essenzialmente materialistico. Non è questa la sede opportuna per cedere alla demonizzazione delle Istituzioni dell’Unione: esse sono portatrici, allo stesso modo per esempio della Corte CEDU, della cultura politica dominante, dei “valori” considerati validi nella porzione centro-occidentale del continente. La frontiera della garanzia dei diritti fondamentali, come si può apprezzare nella relazione di minoranza del caso Hirsi e altri c. Italia, si sposta dalla tutela dei cittadini, alla tutela di chi non ha la cittadinanza ma risiede in modo stabile nel territorio dell’Unione, fino alle persone che non sono ancora fisicamente presenti in Europa. Tale natura funzionalmente ambivalente, tuttavia, si inserisce su piani di stretta pertinenza della sovranità politica: l’attribuzione di diritti agli immigrati in quanto persone e non in quanto componenti della comunità nazionale di riferimento (in questo caso somali ed eritrei che azionano diritti nei confronti dell’Italia davanti a una corte che fa del suo essere “Europea” un mero riferimento geografico) è la manifestazione più avanzata del compiersi dell’universo di “valori” (schmittiani) giuridici tipico del liberalismo. 131 L’estensione di insiemi di diritti a categorie via via sempre più vaste di persone prive della cittadinanza – operato tanto per via politica quanto per via giurisdizionale – si accompagna al fenomeno di protezione del “migrante” in quanto persona, il che produce la cessazione di un elemento qualificante l’esistenza di una sovranità come la tutela delle frontiere, per cedere il passo alla regolamentazione esterna, anche a prescindere dalla bontà della concreta regolamentazione esterna. Qualsiasi prospettiva di conferma della sovranità sulle frontiere rendendo punibile l’immigrazione non conforme è destinata a scontrarsi con la tutela realizzata dalla Corte la quale, pur ammettendo la possibile qualificazione penale dell’immigrazione illegale, non ne permette che il trattenimento, puramente funzionale all’efficacia dell’espulsione. Per di più, perfino l’inosservanza dell’ordine di rimpatrio è stata esclusa dalla Corte come motivo legittimante l’irrogazione della reclusione all’immigrato illegale soggetto alla decisione. Prevedendo il rimpatrio come – di fatto – un’eccezione alla regola, si cessa di considerare lo spazio nazionale come qualcosa di strutturalmente distinto dal territorio di giurisdizione di un mero ente erogatore di servizi. La stessa previsione di durata limitata del divieto di reingresso in caso di ingresso illegale implica che la frontiera europea cessa (se mai lo è stata) di essere tale, per confermarsi come un mero limite giurisdizionale. L’approccio elaborato e proposto non è, quindi, quello dell’eccezionalità dell’immigrazione, ma quello della sua ordinarietà, a cui un’eccezione può essere posta solo se le modalità di ingresso non sono regolari e comunque solo in via transitoria. Questa ordinarietà dell’immissione di persone, si inserisce in un quadro in cui, dall’altra parte, esisonto molteplici vincoli e limitazioni all’agire dell’espulsione, per lo più grazie al requisito dell’opponibilità di ricorso al provvedimento e all’inibizione dell’emanazione del provvedimento stesso per la tutela dei diritti fondamentali. Se l’ingresso e la mobilità nel territorio dell’Unione Europea e la possibilità 132 di ricevere una delle forme di protezione internazionale o sussidiaria sono stati progressivamente resi più semplici nel corso degli anni, la regolarità del soggiorno e, più ancora, la possibilità di godere di un insieme di diritti avanzato non sono alla portata che di una porzione più ristretta dei cittadini di Stati terzi (o apolidi) presenti all’interno dell’Unione. Anche in questo caso, ad ogni modo, la parità di trattamento economico non è assicurata: basti l’esempio dato dalla “Direttiva Carta Blu”, in cui si legalizza l’importazione a (relativo) basso costo di lavoratori altamente qualificati. La situazione che ne risulta consiste, essenzialmente, nell’esistenza di un vasto numero di persone sprovviste della cittadinanza europea in uno spazio di scarso – ma non nullo – godimento di diritti. La presenza di una tale massa di persone, invero difficilmente quantificabile, sprovvista di consistenti protezioni sociali genera due tipi di conseguenze. Il primo ordine di conseguenze attiene ai cambiamenti che possono occorrere alla sovranità e all’ordinamento attualmente vigenti. Il fondamento 1 costitutivo di ogni tipo di diritto, notava Carl Schmitt ne Il nomos della terra , non è nella tutela di un insieme di diritti soggettivi ed azionabili dinanzi a un giudice; lo è piuttosto nella misura intrinseca della terra, che si fa divisione e ordinamento dello spazio concreto e terrestre, da una parte, e forza inappellabile dall’altra. In una parola: nel nomos della terra. Un ordinamento che stia in piedi, cioè, non può prescindere dalla sua origine e dal suo limitare l’accesso altrui. I diritti soggettivi, anche quelli fondamentali per come tutelati dalle giurisdizioni, traggono senso dal fondamento derivante dall’occupazione dello spazio fisico e dalla sua delimitazione. Se tutte le formulazioni successive traggono origine dalla divisione dello spazio, cioè dall’occupazione della terra, l’elemento etnico – o al limite l’elemento che distingue una visione del mondo dalle altre – ritrova la sua 1 Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi Edizioni, Milano, 2011, in particolare Sul significato del termine nomos. 133 fondamentale importanza nel garantire che un ordine si mantenga o nel permettere che un nuovo ordine venga a costituirsi. L’Unione Europea non considera il territorio come parte della sua essenza ma, al massimo, come un elemento che deve cessare di essere una questione giuridicamente rilevante, basti pensare alla legislazione per il Mercato Unico, e alla normativa antitrust. Con il meccanismo dell’importazione demografica, rivendicato esplicitamente dalle stesse Istituzioni europee, e dai Capi di Stato e di Governo che, almeno ufficialmente, forniscono le line strategiche di fondo, si attua un meccanismo di rimessa in discussione dell’ordinamento dello spazio e quindi di rimessa in discussione dell’ordinamento che insiste su quello spazio e su quello spazio si fonda. Il secondo ordine di conseguenze attiene, forse più prosaicamente, alle condizioni di lavoro, tanto dei lavoratori autoctoni quanto di quelli originari di Stati terzi o apolidi. Appare innegabile che la presenza di lavoratori meno protetti dal diritto e, nei fatti, meno organizzati dalle associazioni dei lavoratori consenta una concorrenza accresciuta tra le diverse categorie di lavoratori, concorrenza che si manifesta in una gara al ribasso e in leve di pressione aggiuntive per chi detiene i mezzi di produzione maggiormente mobili e più facilmente ridispiegabili. Nei mesi durante i quali la presente tesi è stata redatta, la vertenza più nota di questo segno è rappresentata forse dal “Caso Electrolux”, che ben riassume alcuni dei punti di crisi. 134 ABBREVIAZIONI UE: Unione Europea CGUE: Corte di Giustizia dell’Unione Europea TFUE: Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea CECA: Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio CEE: Comunità Economica Europea CEDU: Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo CSE: Consiglio UE: Unione Europea OIL: Organizzazione Internazionale del Lavoro ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite TUE: Trattato sull’Unione Europea TCE: Trattato sulla Comunità Europea CEAS: Common European Asylum System, Sistema Comune Europeo per l’Asilo UNHCR: United Nations High Commissariat Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite ARUE: Accordi di Riammissione dell’Unione Europea RAS: Regione Amministrativa Speciale Art.: articolo Par.: paragrafo Lett.: lettera 135 for Refugee, Alto BIBLIOGRAFIA http://www.interno.gov.it/ http://www.integrazionemigranti.gov.it/ http://www.libertaciviliimmigrazione.interno.it/ Barcellona, G. 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