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I diritti fondamentali dei soggetti sprovvisti di cittadinanza europea con particolare riguardo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia

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SOMMARIO
SOMMARIO .................................................................................................. 1
Introduzione.................................................................................................... 4
Fonti e bibliografia ............................................................................... 10
Piano dell’opera .................................................................................... 11
CAPITOLO 1: La tutela dei Diritti Umani da parte della Corte di Giustizia
in relazione ai cittadini di Stati terzi ...................................................................... 13
I diritti fondamentali dai Trattati istitutivi allo sviluppo della tutela da
parte della Corte di Giustizia ............................................................................. 13
La sentenza Stauder .............................................................................. 16
Le sentenze Internationale Handelsgesellschaft e Nold ....................... 17
La sentenza Hauer ................................................................................ 18
Il test di proporzionalità ........................................................................... 19
L’approccio razionalista alla tutela dei diritti umani da parte della Corte
di Giustizia Europea........................................................................................... 21
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ...................... 23
La politica migratoria dell’Unione Europea e la tutela dei Diritti
Fondamentali dei soggetti sprovvisti della cittadinanza europea ...................... 24
Quadro normativo del Consiglio d’Europa e della CEDU ................... 26
Quadro normativo dell’Unione Europea .............................................. 27
Evoluzione storica della politica migratoria nell’integrazione europea ... 29
La Comunicazione COM(74)2250: basi per l’evoluzione successiva. 30
La Comunicazione COM(85)48def. ..................................................... 33
Dall’Atto Unico Europeo a Maastricht: inerzia comunitaria e accordi
prodromici alla disciplina comune dell’immigrazione. ................................. 36
Dal Trattato di Amsterdam al Trattato di Lisbona: i Programmi di
Tampere e dell’Aja ........................................................................................ 38
Il Programma di Tampere (1999 – 2004): il concetto di “cittadinanza
civile” ............................................................................................................. 40
Il Programma dell’Aja (2004 – 2009) .................................................. 44
Il Trattato di Lisbona e il Programma di Stoccolma ............................ 46
La disciplina della condizione giuridica delle persone regolarmente
soggiornanti sprovviste della cittadinanza europea nel diritto derivato
dell’Unione Europea .......................................................................................... 48
La Direttiva Soggiornanti di Lungo Periodo 2003/109/CE.................. 48
La Direttiva Soggiornanti Regolari 2011/98/UE.................................. 53
CAPITOLO 2: Il Diritto d’asilo nell’Unione Europea ................................. 55
Le Direttive Requisiti per l’Asilo 2004/83/CE e 2011/95/CE ............. 57
Ufficio Europeo per il Sostegno dell’Asilo .......................................... 65
Criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro
competente per l'esame di una domanda d'asilo ............................................ 68
Valutazioni del Regolamento Dublino III ............................................ 73
La prevenzione di trattamenti inumani o degradanti inerenti o
conseguenti all’applicazione del Regolamento Dublino II: Sentenza N.S. ed
altri ................................................................................................................. 75
Legislazione e procedure italiane per l’asilo ............................................ 84
CAPITOLO 3: Immigrazione illegale e irregolare e rimpatrio nel diritto
dell’Unione ............................................................................................................ 89
La Direttiva Rimpatri 2008/115/CE ..................................................... 91
Il Capo IV e la Sentenza “El Dridi” ..................................................... 98
La sentenza Achughbabian ................................................................. 102
Valutazioni della Direttiva Rimpatri da un punto di vista contenutistico
..................................................................................................................... 103
Accordi di riammissione .................................................................... 107
Fondo Europeo per i Rimpatri ............................................................ 110
Modelli migratori e sistemi di soggiorno e di accesso alle cittadinanze
nazionali ....................................................................................................... 112
I limiti all’operare dell’espulsione derivanti dall’applicazione delle norme
2
internazionali a tutela dei diritti umani ............................................................ 114
Le norme a tutela dei diritti umani direttamente riguardanti l’espulsione
..................................................................................................................... 116
L’applicazione delle norme che vietano la tortura in relazione
all’espulsione ............................................................................................... 117
La sentenza Hirsi e altri contro Italia ................................................. 119
Limiti all’operare dell’espulsione derivanti dal diritto alla vita privata e
familiare e da altri diritti non assoluti .......................................................... 126
Conclusioni ................................................................................................. 129
Abbreviazioni ............................................................................................. 135
Bibliografia ................................................................................................. 137
3
4
INTRODUZIONE
In questi ultimi anni, all’attenzione di ognuno in Italia, quanto meno di tipo
mediatico, si sono imposti due grandi temi, spesso presentati come intimamente
correlati o, addirittura, come uno funzionale all’altro. Le due grandi categorie
sono, essenzialmente, l’Unione Europea, e le conseguenze di farne parte a un così
avanzato livello di integrazione, e la gestione da parte di tutti gli attori del
fenomeno migratorio.
Per quanto attiene all’Unione Europea, essa è indubitabilmente balzata in
primo piano, dopo anni di colpevole disattenzione, in merito alla situazione
economico-finanziaria dello Stato, e degli obblighi conseguenti soprattutto in
rapporto alla sua appartenza alla “Eurozona”.
Per quanto attiene, invece, al fenomno migratorio, l’attenzione mediaticopolitica è radicalmente mutata di segno per giungere alla sua forma attuale tra il
2010 e il 2011, cioè dal nascere di quella serie di operazioni di destabilizzazione
politica e di sostituzione di regime, note collettivamente come “Primavera
Araba”1. Queste operazioni, causando le note, gravi instabilità e muovendo da
precarie situazioni economiche e sociali, determinarono un afflusso migratorio di
assoluto rilievo e di inedite dimensioni, insistente soprattutto sugli Stati Membri
dell’Unione Europea affacciati sul Mediterraneo.
Il ruolo sempre più preminente dell’Unione Europea e la crisi immigratoria
hanno quindi determinato una focalizzazone specifica dell’attenzione mediaticopolitica: una delle tematiche maggiormente presenti oggi all’interno del dibattito
politico nazionale è – essenzialmente – il ruolo più o meno rilevante da attribuire
all’Unione Europea nella gestione del fenomeno immigratorio, la cui incidenza
numerica ha raggiunto, non solo per gli Stati appartenenti all’Unione affacciati sul
Mar Mediterraneo, soglie di assoluta rilevanza in ogni settore del vivere associato.
1
Cfr. Alfredo Macchi, Rivoluzioni S.p.A., Alpine Studio, Lecco, 2012
5
Un tema egualmente discusso, e in verità discendente dal primo, riguarda altresì le
modalità con cui questo ruolo dovrebbe essere tradotto in atti concreti.
Solitamente, all’interno del dibattito comunemente osservabile, l’attenzione
viene posta sulla concreta sostenibilità del ricevimento di cittadini di Stati che non
sono membri dell’Unione Europea, mentre vengono in genere sottaciute le
implicazioni derivanti dal fatto che si chiami in causa l’intervento dell’Unione
stessa, né si eccepisce, per una serie di cause che non sono l’oggetto dell’analisi
presentata, al fatto che la politica migratoria sia di pertinenza almeno in parte in
capo all’Unione Europea.
In funzione di tali elementi di incompleta consapevolezza, la presente tesi
mira a proporre una riflessione in merito al rapporto che intercorre tra la
protezione, anche giurisdizionale, dei diritti fondamentali dei cittadini di Stati non
appartenenti all’Unione Europea che risiedono – in modo regolare o irregolare all’interno del territorio dell’Unione, e profili della dimensione politica sovrana
nell’ambito della comunità politica europea, considerata anche nelle sue
articolazioni esterne, anche se da tempo non più estranee, all’Unione Europea
medesima quali in primo luogo l’ambito inerente alla Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo e la tutela giurisdizionale che le è propria.
La scelta di focalizzare l’attenzione sugli atti e sulle politiche dell’Unione
Europea in materia migratoria, così come sulle sentenze della Corte di Giustizia e
della Corte Europea, e non sulle loro controparti statuali, è dovuta all’esigenza di
prendere atto della competenza, esercitata da tempo e dal 2009 a pieno titolo, che
si rinviene in capo all’Unione Europea in funzione dell’attuale Titolo V del
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, inerente allo «Spazio di libertà,
sicurezza
e
giustizia»,
e
quindi
anche
alla
disciplina
della
materia
dell’immigrazione.
Le materie trattate dal Titolo V precedentemente erano rubricate come
Giustizia e Affari Interni e attengono alla dimensione più propria del concetto di
Sovranità nazionale, malgrado la clausola di salvaguardia di cui all’art. 72 TFUE,
6
che garantisce il permanere della competenza degli Stati Membri in merito al
mantenimento della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico interno. Tale
previsione di competenza statuale, in effetti, è analoga ad altre riserve a favore
degli Stati; il che vuol dire essenzialmente che gli Stati Membri rimangono
soggetti all’obbligo di cooperazione con le norme dell’Unione.
In particolare, il controllo dei confini – da tempo non più “frontiere” – degli
Stati è di pertinenza assai poco nazionale, a partire dalla comunitarizzazione
dell’Accordo di Schengen. Il regredire della competenza statuale in materia di
frontiere è un regredire della competenza statuale da uno degli ambiti che
costituiscono il cuore della sovranità, per come tradizionalmente intesa. Se lo
Stato Membro (o per lo meno lo Stato Membro che accetta integralmente l’acquis
communitaire) non esercita più la competenza a vigilare sulle frontiere, interne e
in buona parte esterne, è una questione di non poco momento su chi
effettivamente abbia la competenza ultima a decidere su una caratteristica
essenzialmente sovrana come quella di chi abbia diritto e a quale titolo di
attraversare la linea di demarcazione tra uno Stato e un altro, o tra uno Stato e lo
spazio internazionale.
La questione su quale sia il destino della sovranità sui confini, che per
definizione costituiscono il limitare della potestà di un potere, non si porrebbe con
l’evidenza con la quale invece si pone, se il regredire della sovranità dello Stato
Membro (non solo in materia di cofnini) coincidesse con l’avanzare della
sovranità dell’Unione Europea. Tale sovranità, tuttavia, è nella migliore delle
ipotesi solo in fieri, e una larga parte della letteratura inerente al sistema politico
dell’Unione Europea dubita che esista un reale progetto di costituzione di
un’entità politica pienamente sovrana – federale o meno, dal momento che la
dottrina politica presente alla base di tutto il processo dell’integrazione europea,
malgrado i contributi federalisti di grandi pensatori come Altiero Spinelli, è il
7
Funzionalismo2, direttamente critico con la statualità sovrana, percepita come di
per sé generatrice di conflitti.
Se la questione del progressivo ritrarsi della sovranità dai confini è di per sé
degna di nota, con essa si interseca la questione dell’impatto dei grandi flussi
migratori odierni sul tessuto sociale degli Stati Membri, in particolare di quelli di
primo arrivo delle persone provenienti dagli Stati che non appartengono
all’Unione Europea. Le conseguenze sono in effetti di tipo diverso a seconda che
si tratti di migranti e immigrati provenienti da Stat terzi dell’Europa orientale o da
Stati extra-europei. Nel primo caso, oltre a una minore rilevanza numerica, la
migrazione viene spesso a incidere su antagonismi che derivano da coesistenze
etniche e culturali ben più che secolari, antagonismi che non hanno sempre
bisogno di una migrazione per esplodere, come ben dimostra la crisi in Ucraina,
nata e sviluppatasi in contemporanea alla redazione della presente tesi. Nel caso in
cui l’afflusso migratorio sia originario di aree geografiche meno in contatto con
gli Stati di destinazione o di ingresso – quale è il caso dei migranti e degli
immigrati provenienti dall’Africa subsahariana, dal Vicino Oriente e dall’Africa
cis-sahariana
–
possono
insorgere
problematiche
di
stampo
diverso,
contrassegnate da un più aperto rigetto dell’apporto etnico, culturale e sociale
estraneo alle culture europee in genere.
Accanto a quelle derivanti dal rapporto tra culture ed etnie differenti, si
aggiunge anche la difficoltà derivante dalla aumentata concorrenza sul mercato
del lavoro. Se è vero, come si avrà modo di illustrare nel corpus della tesi, che da
ultimo l’immigrazione legale è stata ristretta, è anche vero che, per parola delle
stesse Istituzioni dell’Unione, il flusso migratorio è considerato una immissione di
forza lavoro, tendenzialmente a buon mercato. Anche ultime regolamentazioni
considerano il cittadino di Stati terzi principalmente sotto l’aspetto lavorativo ed
economico, e a più riprese la regolare integrazione è stata descritta – per parola
2
Marco Mascia, Teorie dell’integrazione europea,
http://www.isissbojano.it/attachments/article/276/Saggio_Mascia_Teorie.pdf, p. 2
8
delle Istituzioni dell’Unione – come dimostrata soprattutto dal regolare impiego.
A mero titolo di esempio, la cosiddetta “Carta Blu” prevede per i lavoratori
altamente qualificati sprovvisti della cittadinanza europea uno stipendio minimo
non inferiore a una volta e mezza all’importo dello stipendio medio nazionale, e
nemmeno dello stipendio medio del comparto in cui il cittadino dello Stato terzo è
impiegato.
Solo accennando le questioni successivamente riprese in conclusione, si
nota quindi un regredire della competenza dello Stato in proposito delle materie
sovrane e sembra volersi instaurare un meccanismo nel quale la volontà politica –
che in definitiva costiuisce l’elemento cardine di ogni decisione sovrana – è
strutturalmente messa nell’angolo da un impianto di esigenze riconosciute come
diritti, tutelate da meccanismi giurisdizionali che alla volontà politica fanno quasi
da cordone sanitario.
Per quanto attiene alla letteratura scientifica presente sull’argomento, essa
presenta un panorama variegato, come tipico della maggior parte delle materie
giuridiche; accanto ad opere sistematiche di grande completezza, ma che
necessariamente necessitano di tempo per la pubblicazione e che quindi rischiano
di non essere aggiornate all’ultima regolamentazione emanata, sono diffuse
numerose analisi particolari di singoli aspetti di un campo collegato alla disciplina
della materia migratoria, le quali, grazie alla loro specificità, spesso risultano
essere in grado di seguire tale mutevole area di studio con puntualità. D’altro
canto, le raccolte sistematiche e di più ampio respiro soffrono in misura minore di
obsolescenza.
Inoltre, essendo la materia migratoria parte del dibattito pubblico nazionale,
numerosi contributi – redatti da parte di autorevoli esponenti della dottrina –
offrono particolari prospettive e punti di vista riguardo alle concrede discipline
legislative, tanto nazionali quanto dell’Unione Europea.
In merito al metodo adottato per la redazione della presente tesi, esso si
focalizza su tre ambiti principali: i documenti programmatici delle varie
9
Istituzioni, ove essi rilevano; le disposizioni legislative dell’Unione Europea e la
giurisprudenza, tanto di quella che ora è la Corte di Giustizia dell’Unione
Europea, quanto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La scelta di includere
i documenti programmatici, soprattutto del Consiglio Europeo e della
Commissione Europea, è stata compiuta a causa del loro valore di “soft law” e del
valore di ausilio interpretativo che essi rivestono per gli organi giurisdizionali
dell’Unione Europea.
Fonti e bibliografia
Le fonti utilizzate per la tesi consistono tanto di fonti primarie (atti
comunitari e sentenze, analizzati secondo schemi autonomi o suggeriti dalle fonti
secondarie), quanto di fonti secondarie. In particolare, accanto a raccolte di
articoli e saggi in merito alla disciplina generale dell’immigrazione o riguardanti i
meccanismi di tutela giurisdizionale dei diritti riconosciuti, sono stati utilizzati
numerosi articoli reperiti su riviste scientifiche che trattano aspetti specifici e
settoriali, come un particolare Consiglio Europeo o una particolare direttiva.
I testi principali, che a loro volta raccolgono numerosi autori, sono quelli di
Marta Cantabria, inerente ai diritti e alla loro tutela, di Miguel Poiares e Loïc
Azoulai in merito all’azione specifica della Corte di Giustizia e quello ad opera di
Gabriella Carella, Giovanni Cellamare, Luciano Garofalo, Pitero Gargiulo,
Giuseppina Pizzolante, Annita Sacovelli e Raffaella Di Chio, che riguarda in
modo specifico l’immigrazione e la mobilità delle persone nell’Unione.
Accanto a queste tre collezioni di saggi, è stata utilizzata una varietà di
articoli singoli, riviste giurirdiche (in special modo la rivista “Diritto,
Immigrazione e Cittadinanza”), manuali istituzionali, manuali per operatori
giuridici e di contributi, ad opera di esponenti accademici, reperibili in rete nei
database disponibili al pubblico di centri studi. In ultimo, in merito alla
legislazione italiana, sono stati consultati numerosi siti web di istituzioni
10
nazionali, in particolar modo del Ministero dell’Interno.
Per la conclusione, sono stati utilizzati alcuni contributi dell’illustre giurista
tedesco Carl Schmitt.
Piano dell’opera
La presente tesi si organizza in due parti principali: la prima parte,
composta dal primo capitolo, riguarda gli strumenti e le questioni di principio
giurisidizionali e l’illustrazione dell’approccio generale alla disciplina della
materia migratoria da parte dell’Unione Europea; la seconda parte, composta dai
capitoli 2 e 3, verte sulle discipline particolari all’interno della normativa in
materia migratoria, riguardanti, rispettivamente, il diritto di asilo così per come
disciplinato, e il contrasto all’immigrazione irregolare o illegale.
La scelta di includere nel primo capitolo un approfondimento, per quanto
rapido, dedicato alla tecnica del controllo di proporzionalità è giustificata
dall’incidenza che questo tipo di tecnica ha avuto tanto sulla disciplina legislativa
analizzata, quanto dalla più generale questione di quanto il legislatore sia sovrano
in ordinamenti nei quali il controllo giurisdizionale (judicial review) è parte
integrante della vita pubblica.
Il secondo capitolo si sofferma sul diritto di asilo dell’Unione Europea, così
come risulta nella sua formulazione vivente, per come integrato sia dalla
giurisprudenza in merito, sia dagli orientamenti giurisprudenziali di fondo che,
pur non immediatamente attinenti al diritto di asilo, lo hanno influenzato nei suoi
principi ispiratori. Accanto all’analisi dei punti più interessanti, anche per la
dinamica dell’esercizio della sovranità, vengono illustrate anche la legislazione e
la procedura italiana per il recepimento e la gestione delle persone con
cittadinanza di Stati terzi o senza alcuna cittadinanza che richiedono asilo o
protezione.
Infine, il terzo capitolo si sofferma sulla repressione dell’immigrazione
11
irregolare ed illegale, e sulla tutela dei diritti umani e fondamentali, anche per via
giurisdizionale, in merito a questa fase, che rappresenta il momento più
caratterizzante della manifestazione dell’autorità sovrana sui confini. Sempre nel
terzo capitolo, sono stati inclusi alcuni dei più significativi modelli nazionali di
normativa migratoria e di cittadinanza, appartenenti alla famiglia giuridica
continentale.
12
CAPITOLO 1: LA TUTELA DEI DIRITTI UMANI DA PARTE
DELLA CORTE DI GIUSTIZIA IN RELAZIONE AI CITTADINI DI
STATI TERZI
I diritti fondamentali dai Trattati istitutivi allo sviluppo della tutela da
parte della Corte di Giustizia
I Trattati istitutivi della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e
della Comunità Economica Europea non prevedevano, nella loro formulazione
originale, che per il Trattato CECA rimase in vigore fino al 2002, né un elenco di
interessi qualificati come diritti fondamentali, né la previsione della tutela dei
diritti fondamentali.
Per giustificare questa scelta, la dottrina ha esposto due motivazioni
principali1: il primo ramo di giustificazioni si riferisce all’obiettivo strettamente
economico della prima fase dell’integrazione europea – in funzione della dottrina
funzionalista così come elaborata da Schumann – e alla conseguente scarsa
importanza attribuita ai diritti fondamentali in ambito economico. Tale
giustificazione non tiene conto del momentum a favore della codificazione dei
diritti umani da parte dei medesimi Stati contraenti. La giustificazione ritenuta più
appropriata e coerente è, tuttavia, quella dell’assetto della tutela previsto dai
promotori dell’integrazione europea originaria: secondo questa teoria, l’intento
dei “founding fathers” era quello di affidare agli Stati Membri la tutela dei diritti
fondamentali tramite gli apparati giurisdizionali e gli organismi giurisdizionali
costituzionali dei singoli ordinamenti. La previsione della tutela nazionale dei
diritti era giustificata dal fatto che prima della formulazione e del recepimento
1
Marta Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in Marta Cartabia (a cura
di), I diritti in azione , Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 15-16
13
della teoria della primauté era coerente vedere le Costituzioni degli Stati come
prevalenti sul Trattato. Pertanto, è possibile affermare che, se i Trattati
presentavano una lacuna nella previsione dei diritti fondamentali, tale lacuna non
si rispecchiava nella tutela giurisdizionale dei diritti, essendo essa poggiata sul
sistema delle tutele nazionali2.
Una giustificazione ulteriore addotta per l’esclusione dei diritti fondamentali
dai Trattati istitutivi risiede nella considerazione accordata al pluralismo
3
nell’ambito dei diritti stessi e all’autonomia in tale campo attribuita agli Stati
Membri. La differenza tra i livelli di tutela assicurati e le stesse aree nelle quali la
tutela è prevista è la cifra fondamentale dell’integrazione europea, che si fonda su
un’unione pluralistica4.
Le sentenze C-26/1962 Van Gend en Loos del 1963 e C-6/1964 Costa c.
Enel del 1964 stabilirono la supremazia del diritto derivato dai Trattati sugli
ordinamenti nazionali. La supremazia del diritto di derivazione comunitaria rese
precario l’iniziale sistema di tutela dei diritti fondamentali da parte delle Corti
5
Costituzionali degli Stati Membri .
Tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta – a
cavallo delle sentenze della primazia – la Corte di Giustizia delle Comunità rigettò
le richieste avanzate dalle Corti costituzionali degli Stati di garantire il rispetto dei
diritti fondamentali, così come garantiti dalle Costituzioni, da parte degli atti
comunitari. La Corte di Giustizia motivava tali rifiuti adducendo come motivo
l’esigenza di uniformità del diritto, e l’incompatibilità dell’uniformità del diritto
con le diverse tutele accordate dalle diverse Costituzioni nazionali6.
L’orientamento giurisprudenziale della Corte, tuttavia, mutò a partire dal
2
3
4
5
6
Ivi, p. 17
Ibidem
Ivi, p. 18
Ibidem.
Ivi, p. 19; sent. C-1/1958, Stork; cause da 16 a 18/1959, Geitling.
14
19657, quando essa affermò che il rispetto dei diritti fondamentali è parte
integrante dei principi generali del diritto il cui rispetto la stessa Corte è chiamata
ad assicurare. La sentenza che aprì la svolta dell’orientamento giurisprudenziale è
la sentenza C-29/1969, Stauder c. Città di Ulm.
L’approccio operativo improntato alla separatezza delle giurisdizioni,
tuttavia, suscitò riserve da parte di alcune corti costituzionali che affermarono che
il nucleo essenziale dei diritti fondamentali contemplati dalle rispettive carte
costituzionali fosse inviolabile anche da parte di un ordinamento ai cui atti pure
era stata riconosciuta una supremazia nei confronti delle stesse costituzioni
nazionali. La dottrina dei “controlimiti” mira a far valere i singoli diritti nazionali,
così come interpretati dai singoli ordinamenti nazionali, nei confronti degli atti
comunitari. Le corti costituzionali più attive su questo fronte furono le Corti
italiana, spagnola (successivamente alla transizione e all’adesione), belga e
tedesca.
Parte della dottrina ritiene che la teoria dei controlimiti sia una forma di
8
nazionalismo giuridico .
Negli anni Ottanta, la Corte affermò che, secondo la dottrina
dell’incorporazione, il solo limite certo posto alla sua azione fosse il divieto di
esercitare la tutela contro atti degli Stati membri che riguardino materie del tutto
estranee alle competenze dell’Unione Europea9.
L’azione dei diritti comunitari riguarda principalmente due tipi di casi: il
primo è l’originario caso in cui gli Stati Membri agiscano in mera attuazione di
normative comunitarie; il secondo riguarda invece l’eventualità che gli Stati
7
José Narciso Cunha Rodrigues, The Incorporation of Fundamental Rights in the Community
Legal Order, in Miguel Poiares e Loïc Azoulai (a cura di), The Past and The Future of EU Law,
Haart Publishing, Oxford&Portland, 2010, p. 91; C-18/1965 e C-35/1965, Max Gutmann c.
Commissione.
8
Ivi, p. 25; Brun-Otto Bryde, The ECJ’s fundamental rights jurisprudence – a milestone in
trasnational consititutionalism, in Miguel Poiares e Loïc Azoulai (a cura di), The Past and The
Future of EU Law, cit., p. 121
9
Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’UE, cit., p. 26
15
invochino una delle clausole di giustificazione per la limitazione delle libertà
economiche previste dai trattati (artt. 36, 45.3, 52.1 TFUE)10.
La sentenza Stauder
Se le sentenze Internationale Handelsgesellschaft e Nold sono le sentenze di
svolta e maggiormente note in merito all’evoluzione della tutela dei diritti, le
premesse per tale svolta furono poste dalla sentenza C-29/1969 Stauder c. Città di
Ulm-Sozialamt.
La sentenza Stauder si deve segnalare all’attenzione per le considerazioni
svolte in merito ai principi generali del diritto comunitario:
La disposizione di cui è causa non rivela alcun elemento
che possa pregiudicare i diritti fondamentali della persona,
che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario,
di cui la Corte garantisce l'osservanza11.
Questa considerazione, scritta in capo alla sentenza, segnala la
considerazione dei diritti umani come oggetto di tutela da parte della Corte. Pur
non giungendo a delineare tali diritti in modo oggettivo, la sentenza riconosce
l’esistenza di un fattore capace di imporre un controbilanciamento rispetto alle
politiche della Comunità: essi sono capaci di un tale effetto perché i diritti
fondamentali fanno parte, ma non esauriscono, dei principi generali del diritto. Se
i diritti fondamentali non fossero contenuti nei principi generali del diritto12, essi
non sarebbero in grado di contrapporsi, e temperare, altri principi generali del
diritto differenti dai diritti fondamentali.
10
11
Ivi, p. 27
C-29/1969, Massime, punto 2.
12
Robles Morochón, La protezione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in Aa. Vv., Ars
Interpretandi. Annuario di Ermeneutica Giuridica, VI, Giustizia internazionale e interpretazione,
Padova, 2001, p. 256
16
Il fatto che i diritti fondamentali siano parte dei principi generali è da
leggersi a fianco della riaffermazione della competenza della Corte di Giustizia
sui principi generali del diritto delle Comunità: la combinazione delle due
rivendicazioni genera la competenza della CGE in merito ai diritti fondamentali.
Le sentenze Internationale Handelsgesellschaft e Nold
Le sentenze centrali ai fini dell’evoluzione della tutela dei diritti
fondamentali da parte della Corte di Giustizia sono due: la sentenza C-11/1970
“Internationale Handelsgesellschaft mbH c. Einfuhr-und Vorrastsselle für
Getreide und Futtermittel” e la sentenza C-4/1973 “J Nold, Kohlen-und
Baustoffgroßhandlung c. Commissione delle Comunità Europee”. Esse si
collocano nel periodo di piena affermazione della supremazia del diritto
comunitario e tanto nelle motivazioni quanto nelle concrete decisioni la Corte con
tali sentenze stabilisce con chiarezza quali siano i parametri essenziali dello
standard di tutela dei diritti fondamentali adottato da allora in avanti: la sentenza
Internationale Handelsgesellschaft stabilì come cardini della tutela il requisito
della proporzionalità e il principio ispiratore delle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati Membri; la sentenza Nold incluse nelle tradizioni costituzionali comuni
a cui la Corte di Giustizia poteva rivolgersi per trovare principi guida anche i
trattati a cui gli Stati Membri avevano aderito o alla cui stesura cui avevano
collaborato.
Come nota Takis Tridimas, venne operato un trasferimento di competenze
giudiziali dalle corti costituzionali degli Stati Membri alla CGE, facendo perdere
alle prime in favore della seconda il diritto di sottoporre le misure della Comunità
alla verifica del rispetto dei diritti fondamentali per come internamente accordati a
livello nazionale1314. Inoltre, su un piano tutto interno alle istituzioni
13
Takis Tiridimas, Primacy, Fundamental Rights and the Search for Legitimacy, in Miguel
Poiares e Loïc Azoulai (a cura di), The Past and The Future of EU Law, cit., p. 99
14
Conclusioni del Sig. Duthuillet De Lamothe – Causa 11/70, in Raccolta della Giurisprudenza
17
“comunitarie”, grazie al favore incontrato dall’argomento dei “diritti umani”, la
Corte si appropriò col beneplacito altrui della competenza a contestare l’azione
della Comunità sul piano dei diritti, inserendosi come interlocutore di rilevante
importanza nella stessa formulazione delle politiche pubbliche. Infine, la CGE
pose le basi per la progressiva estensione della sua giurisdizione anche, in
prospettiva e a partire dai tardi anni Ottanta, su ogni misura nazionale ricadente,
direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, nello scopo della Comunità.
La sentenza Hauer
La sentenza C-44/1979 Hauer è considerata segnare un punto conclusivo
della fase maggiormente significativa dell’evoluzione della giurisprudenza e della
rivendicazione di competenze in materia di diritti fondamentali da parte della
Corte di Giustizia Europea. Essa è stata resa nel 1979, due anni dopo cioè che la
dichiarazione congiunta dell’allora Assemblea Parlamentare, del Consiglio dei
Ministri e della Commissione Europea del 5 aprile 1977 aveva avallato da parte
delle altre Istituzioni CEE l’azione creativa e innovativa della Corte di Giustizia in
materia di tutela dei diritti dell’uomo, al fianco di riferimenti all’importanza della
CEDU.
Sulla scorta di tale dichiarazione15, la sentenza in sé ribadisce le sentenze
Internationale e Nold, specificando ulteriormente il raggio d’azione dei diritti
umani secondo la definizione comunitaria: in essa è esplicito il riferimento alla
CEDU e ai suoi Protocolli16, a cui la sentenza Nold aveva solo implicitamente
fatto riferimento.
La Corte si richiama all’impossibilità per le Costituzioni e dei cataloghi di
della Corte di Giustizia Europea, 1970, p. 1149
15
C-44/1979, par. 15
16
Anna Valentini, I Diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali nell’Unione Europea, in Diritti
Umani in Italia – Rivista Scientifica di Informazione Giuridica, ISSN 2240-2861,
http://www.duitbase.it/note-e-commenti/50-i-diritti-delluomo-e-le-liberta-fondamenti-nellunioneeuropea
18
diritti nazionali di essere parametri validi per giudicare su violazioni di diritti
fondamentali mediante atti emanati da istituzioni comunitari17; inoltre, ribadisce
che solo i meri principi di origine nazionale sono idonei a porre limiti ai
provvedimenti comunitari, per come sono ricavabili non solo dalla comparazione
sistematica tra i vari documenti di tutti gli Stati Membri della Comunità (in quel
momento storico in fase di deciso allargamento), ma anche dall’analisi dei trattati
internazionali in materia di diritti dell’uomo. L’insieme delle fonti considerate
concorre a formare uno standard di protezione strettamente comunitario, anche se
almeno parzialmente aperto alla giurisprudenza della Corte CEDU. Tale apertura
si nota soprattutto nelle sentenze dell’ultimo decennio18, rendendo la Corte
Europea un benchmark di particolare significato19 per verificare la validità di un
atto della Comunità20.
Il test di proporzionalità
La tutela dei diritti – umani o fondamentali – è praticata tanto per via
legislativa, quanto per via giurisdizionale, di controllo alla legislazione: il termine
anglosassone adoperato per l’operazione è significativamente “judicial review”, in
quanto attiene alla vigilanza esercitata sulle politiche pubbliche e sulle normative
perseguite dall’autorità politica.
L’approccio che i vari organismi giurisdizionali hanno elaborato e
mantenuto nel corso dei decenni durante i decenni in cui essi sono stati incaricati
di correggere le pratiche politiche ritenute abusive dei diritti appartiene al
“Paradigma razionale dei diritti umani”21.
17
C-44/1979, par. 14
18
Maria Elena Gennusa, La CEDU e l’Unione Europea, in Marta Cartabia (a cura di), I diritti in
azione cit., p. 115
19
Luigi Daniele, Diritto dell’Unione Europea, Giuffrè Editore, Milano, 2010, p. 172
20
Ibidem
Mattias Kumm, Institutionalizing Socratic Contestation: the Rationalist Human Right
Paradigm, legitimate authority and the point of Judicial Review, p. 6
21
19
Il nucleo del paradigma razionalista non consiste tanto nell’esame e
nell’interpretazione dell’autorità “legale”, quanto sulla giustificazione delle azioni
intraprese da parte delle pubbliche autorità sulla base di parametri di ragione
pubblica. Mentre l’opposto paradigma legalistico è fondato su un approccio più
classicamente giuridico alle questioni, il paradigma razionalistico, dominante
nella prassi degli ordinamenti europei, dedica a questi elementi un’attenzione
relativamente minore nella tutela dei diritti. Per converso, il cuore della prassi
razionalistica è costituito dal “Test di proporzionalità”, che consiste in una
valutazione delle “ragioni pubbliche” adotte ed eventualmente valide per
giustificare un comportamento ritenuto lesivo di un “diritto”.
La prassi del giudizio consiste in tre fasi di progressivo accertamento. Il
primo passo consiste nell’accertare se effettivamente non è stato rispettato un
diritto garantito dall’ordinamento22; in un secondo momento si procede a
determinare se e in quale modo il mancato rispetto dell’interesse-diritto può essere
giustificato dalla clausola limitativa presente nella formulazione del diritto preso
in esame; in ultimo, se la clausola limitativa non consente la giustificazione del
mancato rispetto del diritto garantito, si accerta la vera e propria violazione del
diritto.
Il test di proporzionalità è quindi mirato a consentire di determinare quale
sia la priorità a cui attribuire precedenza a seconda delle esigenze dettate dalle
circostanze concrete23.
Il test mira a stabilire l’esistenza o meno di tre requisiti in capo alla misura
della pubblica autorità posta sotto esame: l’obiettivo legittimo, l’idoneità della
misura a raggiungere l’obiettivo legittimo prefissato e la necessità di adozione
della misura idonea – e non di altre – ai fini del pieno raggiungimento
dell’obiettivo di cui alla prima fase.
22
23
Mattias Kumm, The Rationalist Human Rights Paradigm, cit., p. 7
Ivi, p. 9
20
L’aspetto maggiormente suscettibile di discrezionalità è la valutazione della
necessità dell’adozione di quella particolare misura per raggiungere quel
particolare obiettivo. Si presume che un’azione della pubblica autorità sia, per
definizione, suscettibile di essere invasiva di un diritto, e che quindi debba, per
definizione, essere giustificata dalla “pubblica ragione”.
Il fatto che una misura persegua una concezione di “giustizia” più o meno
condivisa non contribuisce a giustificarne il mancato rispetto dei diritti, fallendo
24
nel rispettare il requisito dell’obiettivo legittimo .
Diventa impossibile, in questo paradigma dove il giudice viene investito
della responsabilità invero non indifferente di tutelare questi valori di stampo
limitativo delle leggi e delle azioni della pubblica autorità, non ripensare al severo
monito del giurista tedesco Carl Schmitt, quando metteva in guardia contro la
tirannia dei valori.
L’approccio razionalista alla tutela dei diritti umani da parte della
Corte di Giustizia Europea
Tramite l’affermazione che i diritti fondamentali sono parte integrante dei
principi generali del diritto tutelati dalla Corte, la CGUE ha conseguito due
obiettivi di fondo: da una parte ha incorporato il principio della tutela
giurisdizionale dei diritti, caratteristica centrale del costituzionalismo del
dopoguerra, nel corpus iuris dell’allora Comunità Europea, portandolo ad essere
nucleo essenziale dell’acquis communitaire; dall’altra ha contribuito a rafforzare
l’autorità del diritto comunitario25.
Il modello di tutela dei diritti fondamentali da parte della CGUE appartiene
all’approccio di tipo razionalista, presentando tre punti peculiari: l’ambito, la
struttura e le fonti.
24
25
Ivi, p. 19
Mattias Kumm, the New Human Rights Paradigm, cit., p. 106
21
Ogni interesse di libertà in quanto tale gode in prima battuta di una
protezione come se fosse un diritto. I diritti umani sono concepiti come una
protezione contro ogni restrizione alla libertà individuale, dagli interessi
fondamentali a quelli che non attengono alla vita stessa dell’individuo26. Tanto la
sentenza Internationale Handelsgesellschaft quanto la sentenza Nold si collocano
sulla breccia di tale spostamento del focus, spostamento iniziato fin dalla sentenza
Stauder.
L’approccio perseguito dalla Corte di Giustizia si distingue anche
dall’intento originario della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo, a cui pure essa si ispira in modo estensivo.
Rispetto alla CEDU, la CGUE muove da premesse differenti. Essa è un
organo giurisdizionale in un ordinamento originariamente esclusivamente e
strettamente economico, che solo in seguito, e tuttora in modo non certo
prioritario, ha assunto determinate caratteristiche politiche. In Internationale
Handelsgesellschaft, l’Avvocato Generale Dutheillet de Lamothye sostenne che
l’individuo non dovrebbe essere limitato nella sua libertà d’azione oltre il limite
strettamente necessario all’interesse generale, e che questa libertà d’azione come
base, e la sua limitazione come eccezione, sia un diritto fondamentale27.
La
Corte
accolse il
principio
elaborato
dall’Avvocato
Generale,
concentrandosi sulle giustificazioni delle misure che restringevano il diritto.
Una volta atteso che il mancato rispetto di un interesse-diritto può essere
giustificato, è necessario stabilire che cosa può giustificare il mancato rispetto di
questo interesse-diritto.
L’approccio della CGUE adotta il principio del requisito della
proporzionalità28. Inserendosi nell’approccio razionalista, la Corte considera le
esigenze generate dalle politiche pubbliche allo stesso livello dei diritti e allo
26
27
28
Ivi, p. 115
Conclusioni del Sig. Dutheillet De Lamothe – Causa 11/70, cit., p.1148
Kumm, the New Human Rights Paradigm, cit., p. 108
22
stesso modo soggette al test di proporzionalità. Di tali diritti, nessuno di essi
sfugge al requisito di proporzionalità, che solo a partire dall’equiparazione della
Carta dei Diritti Fondamentali ha un valore giuridico analogo alle norme che la
CGUE sottoponeva ad esso.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
Coerentemente con il paradigma razionalista adottato, le fonti giuridiche di
volta in volta menzionate hanno avuto un ruolo minoritario nella guida o nella
limitazione della giurisprudenza della Corte.
La profonda differenza del contesto giuridico e istituzionale in cui la Corte
di Giustizia si trova ad operare rispetto agli ordinamenti nazionali, comporta che
l’apporto delle tradizioni costituzionali si fermi alla giustificazione offerta
dall’anologia di comportamento concreto e a poco più della sanzione che parte
della dottrina definisce quasi «apologetica»29 dell’operato della Corte.
Nell’ambito dell’Unione Europea, l’approccio razionalista fonda le sue
motivazioni anche sulla mancanza di un vero e proprio testo costituzionale
europeo a cui fare riferimento.
Il testo dall’apparenza maggiormente somigliante a un catalogo dei diritti
nell’Unione Europea, la Carta Europea dei Diritti Fondamentali, proclamata
solennemente in occasione del Consiglio Europeo di Nizza del dicembre 2000 e
resa vincolante e con lo stesso valore dei trattati in occasione del Trattato di
Riforma di Lisbona del 2009, è uno strumento a sostegno della mera codificazione
dell’apporccio razionalista e come tale utilizzato anche dalla Corte CEDU come
mezzo interpretativo della Convenzione30. La Carta infatti integra la
giurisprudenza CGUE e – fin dal suo stesso preambolo – restringe il suo
prpoposito al rafforzamento e all’aumento di visibilità di ciò che è stato già
29
30
Ibidem
Gennusa, La Cedu e l’Unione, cit., pp. 124-125
23
stabilito. In questo senso è da interpretarsi il riferimento esplicito al principio di
proporzionalità.
La Carta dell’Unione Europea dei Diritti Fondamentali include nella sua
enumerazione alcuni diritti non riconosciuti in modo completo neppure dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia di allora31, ma sempre in chiave
strettamente individualistica, omettendo ogni riferimento autonomo alle
formazioni sociali: la Carta è quindi uno strumento che pone fortemente l’accento
sull’individuo e sulla sua libera e completa autodeterminazione, di converso
privando di tutela propria le formazioni sociali entro cui la persona si sviluppa.
La politica migratoria dell’Unione Europea e la tutela dei Diritti
Fondamentali dei soggetti sprovvisti della cittadinanza europea
La migrazione verso l’Unione Europea e al suo interno è disciplinata da un
corpus di norme composto da diritto nazionale, diritto dell’UE, CEDU, CSE e dai
rimanenti obblighi internazionali assunti dagli Stati europei, non ultime le
convenzioni in ambito ONU e OIL.
L’immigrazione transnazionale è un tema all’attenzione degli organismi di
integrazione
europea
dall’inizio
del
processo.
Il
focus
della
materia
dell’immigrazione, regolata per quanto attiene i cittadini degli Stati Membri fin
dal Trattato di Roma del 1957, è gradualmente cambiato e ha acquisito nel corso
degli anni una sua profondità ed autonomia da materie sia pur collegate come, ad
esempio,
le
cosiddette
Quattro
Libertà
di
movimento
interno.
Con
l’approfondimento dell’integrazione europea sancito dai Trattati di Maastricht e
seguenti, giungendo al Trattato di Riforma in vigore dal 2009, l’Unione Europea
ha progressivamente approfondito anche le politiche comuni in materia di
immigrazione da parte di persone non aveni la cittadinanza europea e di diritto
all’asilo. Essendo parte di una materia che tocca buona parte delle funzioni
31
Cartabia, L’ora dei diritti fondamentali nell’UE, cit., pp. 33-34
24
tradizionalmente sovrane, e cioè il controllo delle frontiere e del traffico attraverso
di esse, durante la vigenza della struttura “a pilastri” l’immigrazione è stata
rigidamente mantenuta nell’ambito intergovernativo del terzo pilastro, inerente
alla Giustizia e Afari Interni32. Con il superamento della struttura tripartita
l’immigrazione
ha
comunque
mantenuto
una
procedura
nettamente
intergovernativa, formulando le sue politiche quasi esclusivamente attraverso
Direttive.
L’Unione Europea ha elaborato nel quadro delle sue politiche attinenti allo
spazio di sicurezza, libertà e giustizia, numerosi atti normativi che riguardano la
regolazione della mobilità interna allo spazio europeo e dell’accesso a tale spazio
europeo da parte di persone – o individui – di nazionalità diversa da quella di uno
degli Stati Membri dell’UE e, in forza all’art. 21 TFUE, sprovvisti della
cittadinanza europea. All’interno del vasto gruppo di cittadini di Stati non
membri, sono da distinguere tre gruppi ulteriori: immigrati irregolari, persone
richiedenti asilo o a cui è stato accordato lo stato di rifugiato, cittadini di Stati non
membri in possesso di permesso di soggiorno o di visto che svolgono un’attività
lavorativa.
A sua volta, il gruppo degli immigrati irregolari può essere ulteriormente
suddiviso in due gruppi di massima: gli immigrati irregolari clandestini e gli
immigrati la cui irregolarità è nota alle pubbliche autorità ma il cui rimpatrio non
viene effettuato, solitamente per ragioni di ordine umanitario o pratico 33: di queste
ragioni di ordine umanitario, possono annoverarsi coloro che non hanno
strettamente diritto alla protezione internazionale, in quanto non sono
individualmente soggetti a un rischio concreto di minaccia alla loro vita e alla loro
32
Elspeth Guild (a cura di), The Developing Immigration and Asylum Policies of the European
Union, Kliwer Law International, L’Aia, 1996, p. 47
33
European Union Agency for Fundamental Rights, Fundamental rights of migrants in an
irregular situation in the European Union, European Union Publications Office, Lussemburgo,
2011, p. 16
25
persona34, o che non ricadono nei limiti previsti dalla protezione sussidiaria o
internazionale35.
Alcuni Stati Membri, come ad esempio la Finlandia36, tuttavia vanno oltre e,
sotto la sfera delle competenze tuttora nazionali, rilasciano permessi di soggiorno
su basi umanitarie anche a quegli stranieri residenti che non possono ritornare nei
Paesi d’origine o di precedente residenza, pur non ricadendo nei requisiti previsti
dall’UE, a causa di una catastrofe ambientale, a causa della situazione di sicurezza
degradata o di una situazione «povera» della tutela dei diritti umani; altri Stati,
invece, adottano profili meno automatici: la Lettonia consente l’omissione
dell’ordinanza di espulsione per ragioni umanitarie e autorizza la permanenza per
un periodo di tempo fino a un anno37; infine, l’Italia richiede l’emanazione di un
decreto del presidente del consiglio dei ministri perché possa essere emanato un
temporaneo permesso di soggiorno per condizioni simili a quelle rilevate nella
disciplina finlandese38, 39.
Quadro normativo del Consiglio d’Europa e della CEDU
Il Consiglio d’Europa ha elaborato nel corso della sua esistenza un sistema
regionale di protezione dei diritti umani composto da oltre duecento documenti tra
convenzioni e trattati vincolanti. Lo strumento principale consiste, ad ogni modo,
nella Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU).
Tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea sono Parti contraenti della CEDU;
malgrado l’art. 6 c. 2 TUE disponga l’adesione dell’Unione alla CEDU, il
passaggio formale non è ancora avvenuto, principalmente per le riserve circa le
34
35
36
37
38
39
Ivi, p. 31
Cfr. cap. 2
2004 Aliens Act, sez. 88a, par.1
Immigration Law, art. 2, par. 3
D.lgs. n. 286/1998, art. 19, c. 1
EU FRA, Fundamental rights of irregular migrants, cit., p. 31
26
conseguenze sul piano giurisdizionale.
All’interno della CEDU, sono presenti alcune disposizioni che si prestano
all’applicazione della tutela degli immigrati: il diritto di non essere soggetti alla
tortura o a trattamenti inumani e degradanti è contemplato nell’art. 3 CEDU e il
diritto al rispetto della vita familiare e privata è richiamato nell’art. 8 CEDU40:
l’art. 8 in particolare trova recepimento nella giurisprudenza CGUE.
Quadro normativo dell’Unione Europea
Il corpus iuris dell’Unione Europea prevede norme comuni applicabili agli Stati
membri dell’UE in materia di immigrazione ed asilo. La competenza ad emanare norme
in merito è attribuita dal Titolo V del TFUE, che istituisce lo Spazio di Libertà, Sicurezza
e Giustizia e, all’interno di esso, dal Capo 2, che disciplina le politiche a riguardo dei
controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione. Ai fini delle disposizioni contenute
nel Ttitolo V, Capo 2, i “cittadini di Stati terzi” sono coloro i quali mancano della
cittadinanza di uno degli Stati Membri, e quindi non sono cittadini europei ai sensi
41
dell’art. 20 TFUE: pertanto, la definizione comprende anche gli apolidi .
Lo spazio giuridico europeo si caratterizza per accordare la libertà di
circolazione al suo interno a chiunque risieda nell’Unione Europea, senza
distinguere tra cittadino di uno Stato Membro – e quindi cittadino europeo – e
cittadini di Stati non membri che abbiano avuto regolare accesso all’Unione
Europea42.
L’art. 77 TFUE enumera le aree in cui l’Unione Europea è coinvolta in materia di
assenza di controlli alle frontiere tra Stati Membri e di controlli integrati per le persone
che attraversano le frontiere esterne, dirette verso lo spazio dell’Unione (paragrafo 1). A
tal fine, l’articolo attribuisce all’Unione, secondo la normale procedura, il potere di
40
Ivi, p. 23
41
Giovanni Cellamare, La disciplina dell’immigrazione nell’Unione europea, G. Giappichelli
Editore, Torino, 2006, p. 99
42
Lucilla Deleo, La politica migratoria nell’Unione Europea, d.u.press, Bologna, 2007, p.111
27
attuare la politica comune dei soggiorni di breve durata, di regolare i controlli ai quali
sono sottoposte le persone che attraversano le frontiere esterne e le condizioni alle quali i
cittadini dei paesi terzi possono circolare liberamente nell'Unione per un breve periodo;
inoltre, lo stesso paragrafo 2 prevede, sia pure in prospettiva, l'istituzione progressiva di
un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne; attualmente il sistema esistente,
Frontex, è solo parzialmente operativo.
Tale prospettiva di istituzione di un controllo integrato e, di fatto, a livello UE,
combinato con l’assenza di qualunque controllo all’interno dello spazio giuridico è indice
di un processo di consistente statalizzazione.
Fino ad ora l’Unione ha legiferato all’interno di numerosi ambiti, quali ad esempio
il rilascio di visti di soggiorno di breve durata, l’attuazione delle attività di controllo e
sorveglianza di frontiera, i ricongiungimenti familiari, l’immigrazione illegale, l’asilo e i
requisiti per l’asilo.
L’Unione proibisce l’accesso clandestino tramite due strumenti principali: la
direttiva sui vettori 2001/51/CE e la direttiva sul favoreggiamento dell’immigrazione
43
clandestina 2002/90/CE .
Accanto alla normativa specifica, costituita dalla Direttiva 2003/86/CE
del
22 settembre 2003, in materia di ricongiungimento familiare vengono a rilevare anche
le norme più “tradizionali”, come la libera circolazione delle persone, la cui disciplina
44
principale si ritrova per i cittadini europei nella Direttiva 2004/38/CE
e per i cittadini
degli Stati terzi nella Direttiva 2003/109/CE. Come dimostrato da un’ormai consolidata
giurisprudenza, di cui la sentenza C-109/01 Akrich
45
è l’esempio preminente, il
ricongiungimento è un diritto azionabile anche qualora i familiari siano cittadini di Stati
terzi. In questo senso, la Corte individua l’elemento limitativo dei provvedimenti
delle autorità nazionali nel rispetto della vita familiare sancito dall’art. 8 CEDU e
43
Fundamental Rights Agency, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e
immigrazione, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Lussemburgo, 2013, p. 30
44
Cellamare, La disciplina dell’immigrazione UE, cit., p. 102
45
C-109/01, Decisione, punto 1
28
ripreso da molteplici strumenti. Inoltre, in quanto familiare di cittadino dell’Unione, il
coniuge o parente sprovvisto di tale cittadinanza gode del medesimo tenore meramente
dichiarativo del permesso di soggiorno. Tale giurisprudenza è, peraltro, molto precedente
alla formulazione dello stesso concetto di “Spazio di Sicurezza, Libertà e Giustizia”
46, 47
,
risalente ai tardi anni Novanta.
Infine, la politica migratoria dell’Unione Europea si collega alla politica
estera e di sicurezza comune nel prevedere un comune elenco di Stati i cui
cittadini debbono munirsi di visto sul passaporto per poter accedere al territorio
dell’Unione48. Tale lista comune per il visto di ingresso è tuttavia di molto
precedente alla nascita della Politica Eestera e di Sicurezza Comune, derivando
dalla cooperazione intergovernativa in tale ambito, iniziata nel 198749.
Malgrado l’Unione Europea dedichi un’approfondita attenzione normativa
alla regolamentazione delle persone che hanno la cittadinanza di Stati che non
sono Stati Membri dell’Unione Europea o che non possiedono cittadinanza alcuna
nell’ambito della concessione di protezione internazionale e dell’eventuale fase di
rimpatrio, la parte più rilevante della produzione legislativa dell’Unione in
materia immigratoria – tanto nella forma della Direttiva quanto in quella del
Regolamento – è dedicata alla disciplina e alla regolamentazione dell’accesso
legale al territorio dell’Unione Europea da parte di persone che possiedono la
cittadinanza di Stati terzi, nel suo essere distinto dall’accesso legale e considerato
“legittimo” dalle istituzioni dell’Unione per motivi umanitari.
Evoluzione storica della politica migratoria nell’integrazione europea
L’attenzione da parte dell’integrazione europea in materia migratoria ha
subito una evoluzione di durata sino ad ora quasi quarantennale, e ha attraversato
46
47
48
49
Cellamare, La disciplina dell’immigrazione UE, cit., p. 103
C-389/87 e C-390/87
FRA, diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, cit, p. 35
Guild, The Developing Policies, cit., p. 35
29
quasi tutti i Trattati, ad esclusione dall’Atto Unico Europeo e del Trattato di
Nizza, subendo le influenze dei vari periodi storici e politici: pur nelle differenze
di approccio, alcuni capisaldi dell’azione comunitaria prima e dell’Unione poi
sono rimasti come punti fermi sin dalla loro introduzione. Essi consistono,
principalmente, nella previsione dei ricongiungimenti familiari (e nella
conseguente disciplina delle situazioni giuridiche dei ricongiunti) e nella
costruzione di specifici modelli di integrazione sociale che costiuissero la base per
un riferimento di ordine sovranazionale, la cosiddetta “cittadinanza civile” o
“cittadinanza civica”50.
L’attenzione comunitaria a riguardo dell’immigrazione di cittadini di Stati
terzi risale alla metà degli anni Settanta, con la prima grande crisi industriale di
ambito CEE e con il crescere della rilevanza dei flussi migratori verso gli Stati
Membri; in tale circostanza, la Commissione Europea emanò la prima
Comunicazione in merito51, proponendo un Programma d’azione in materia di
assimilazione e di adeguamento delle condizioni sociali.
La Comunicazione COM(74)2250: basi per l’evoluzione successiva.
La Comunicazione della Commissione Europa COM(74)2250 del 14
dicembre 1974 rappresenta il primo passo in direzione dell’elaborazione di una
strategia comune: come di prammatica fino a tempi recenti – e come tuttora
perdura – l’immigrato era considerato in quanto lavoratore. Ciò nonostante, il
documento degli anni Settanta contiene al suo interno le spinte che verranno
inserite nei programmi degli anni e dei decenni successivi in tale materia.
50
Comitato economico e sociale europeo, SOC/141, Parere del Comitato economico e sociale
europeo
sul
tema
“Integrazione
nella
cittadinanza
dell'Unione
europea”,
http://www.cnel.it/application/xmanager/projects/cnel/attachments/shadow_documentazioni_attac
hment/file_allegatos/000/082/700/Parere_20CESE_20su_20_Integrazione_20nella_20citadinanza_
20europea_.pdf 14 maggio 2003, punto 4
51
Pietro Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi regolarmente soggiornanti:
integrazione e cittadinanza, in Carella, Cellamare, Garofalo, Gargiulo, Pizzolante, Sacovelli, Di
Chio, L’immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell’Unione Europea, Monduzzi
Editoriale, Milano, 2012, p. 83
30
La Comunicazione prende le mosse da una Risoluzione del Consiglio
risalente al 24 gennaio 1974 sul programma di azione sociale52. La Commissione
riconosceva che la condizione giuridica del lavoratore immigrato negli Stati
Membri e cittadino di uno Stato terzo non era regolamentata uniformemente e,
generalmente, non era paragonabile ai lavoratori immigrati ma cittadini di Stati
Membri. Per di più, essendo strettamente dipendente dall’esistenza o meno di
accordi bilaterali in tal senso, la condizione dei lavoratori cittadini di Stati terzi
era frammentata al suo interno. In generale, i lavoratori di Stati terzi erano
accettati – previo rilascio del permesso di soggiorno – come mera forza lavoro ed
erano sottoposti a controlli amministrativi; la discrezionalità delle autorità
preposte era segnalata come una disfunzione53, così come il fatto che il
ricongiungimento familiare fosse possibile solo con l’esplicito permesso delle
autorità54.
In forza di questo stato di cose, la Commissione proponeva di estendere
gradualmente l’uguaglianza di trattamento, già in programma per i lavoratori degli
55
Stati Membri, seppure con qualche ritardo , anche agli immigrati di Stati terzi,
tramite «specific actions» da adottare nel campo della sicurezza sociale.
Non fermandosi alla tutela degli immigrati di Stati Terzi, la Comunicazione
prospettava l’assistenza agli immigrati “potenziali”, offrendo loro la più ampia
gamma di informazioni che fosse possibile a proposito delle necessità del mercato
del lavoro56.
Le cause prime dell’inferiore trattamento accordato ai lavoratori cittadini di
Stati terzi derivavano da un insieme di fattori tra loro collegati, riassumibili in
genere nelle limitazioni frapposte tanto al mutuo riconoscimento dei periodi
52
53
54
55
56
Comunicazione della Commissione Europea del 14 dicembre 1974, COM(74)2250, p. 14
Ibidem
Ivi, p. 15
Ivi, p. 16
Ivi, p. 15
31
lavorativi e delle qualifiche conseguiti in Patria, quanto ai trasferimenti finanziari
e alle rimesse dall’estero.
La Commissione pertanto proponeva di raggiungere, tramite le citate fasi
progressive, la parità di trattamento con i lavoratori comunitari per tutti i
lavoratori extracomunitari la cui situazione non fosse regolata da accordi
bilaterali. L’azione della Commissione andava quindi a svolgere un ruolo
residuale rispetto all’azione diplomatica degli Stati Membri. Le concrete proposte
andavano nell’eliminazione del requisito della nazionalità per i benefici sociali,
nell’eliminazione delle barriere al trasferimento dei requisiti e nell’applicazione
delle misure riguardanti la sicurezza sociale anche ai lavoratori extracomunitari e
alle loro famiglie57.
Con la COM(74)2250, la Commissione si esprimeva inoltre su numerosi
altri aspetti inerenti l’integrazione e la gestione dell’immigrazione non
comunitaria, dall’educazione alle prestazioni sanitarie58; tuttavia, l’elemento che
rende tale comunicazione degna di nota è costituito dal secondo capitolo del
documento, dedicato ai “Diritti civici e politici”. La previsione di un insieme di
diritti civici e politici di natura comunitaria è un carattere costante nell’azione e
nei propositi dell’attuale Unione Europea, che trova nella risalente comunicazione
la fondazione originaria.
Nella Comunicazione si rileva come l’esercizio dei diritti civici (distinti dai
diritti civili) sia negativamente condizionato dal requisito della nazionalità; questo
requisito è definito come incompatibile con gli obiettivi dell’unificazione europea
e con il principio del libero movimento delle persone. Si definisce in questo modo
a chiare lettere il parallelismo intercorrente, secondo gli estensori del documento,
tra residenza e possibilità di esercizio dei diritti civici e politici, in opposizione al
legame tra nazionalità (o cittadinanza) e diritti politici59.
57
58
59
Ivi, p. 17
Ivi, pp. 17-19
Ivi, p. 20
32
Il Consiglio, nella Risoluzione del Consiglio del 9 febbraio 1976, prendeva
atto della proposta di un piano d’azione comune. Con tale strumento veniva al par.
2 riconosciuta per la prima volta la necessità di una accellerazione sulla
“umanizzazione” della libertà di movimento, allora garantita dagli articoli 48 – 51
CEE, allo scopo di svincolarla dal contesto strettamente economico. Solo
un’attenzione minoritaria veniva invece dedicata alla questione dei lavoratori
immigrati da uno Stato terzo.
La Comunicazione COM(85)48def.
La politica migratoria rimase subordinata ad altre, più complesse questioni
per tutta la durata degli ultimi anni Settanta e i primi anni Ottanta. Tuttavia, le
procedure di allargamento agli Stati del Mediterraneo e l’evoluzione della
Comunità Economica Europea in funzione dei mutati scenari geopolitici ebbero
necessari riflessi sulle politiche di immigrazione e di accoglienza degli Stati
Membri e della Comunità nel suo complesso.
Il principale documento di politica comune in materia di immigrazione di
questo periodo è la Comunicazione COM(85)48def., Orientamenti per una
politica comunitaria delle migrazioni, trasmessa al Consiglio il 7 marzo 1985.
Nell’introdurre la questione, la Commissione Europea rilevava come le
politiche immigratorie degli Stati Membri rispecchiassero il caratterizzarsi di
larga parte dell’immigrazione come permanente. In particolare, la Commissione
rilevava come fosse prevista l’adozione di politiche favorevoli ed all'integrazione
di residenti stranieri in direzione multi-culturale, inclusa la lotta contro le varie
60
manifestazioni di «intolleranza» .
Le proposte della Commissione erano divise in tre settori principali
60
Comunicazione COM(85)48def., Orientamenti per una politica comunitaria delle migrazioni,
trasmessa al Consiglio il 7 marzo 1985, par. 3, punti 8 e 9, in Commissione delle Comunità
europee (a cura di), Bollettino delle Comunità Europee, Supplemento 9/85, Orientamenti per una
politica comunitaria delle migrazioni, p. 6
33
d'intervento: la normativa comunitaria, la concertazione e la reciproca
informazione. Con riguardo all’azione comunitaria per l’approfondimento della
libera circolazione61, la Commissione proponeva di definire, tramite l’adozione di
apposito atto giuridico, norme intese a delimitare le eccezioni alla libera
circolazione di cui all'articolo 48, paragrafo 4 del Trattato CEE, relativo agli
impieghi nella pubblica amministrazione (ad es. Sentenza C-66/85, Lawrie-Blum
c. Land Baden-Württemberg); si spingeva inoltre per un rilassamento dei requisiti
occupazionali dei lavoratori comunitari di cui alla Direttiva n. 68/360/CEE del 15
ottobre 1968 del Consiglio. Per quanto attiene invece ai diritti “civici” e politici da
attribuire agli immigrati, la Commissione rinnovava l’invito e l’impegno a
proseguire nella concessione di tali diritti (ivi compresi i diritti elettorali)62, sia
pure ai cittadini degli Stati Membri.
Il passaggio maggiormente significativo della Comunicazione è tuttavia il
punto 2763, dove si afferma a chiare lettere la necessità di un cambiamento della
condizione giuridica degli immigrati – senza distinzioni riguardo alla provenienza
– volto a rendere più “sicura” la concessione dei permessi di vario genere, e a
facilitare ulteriormente le operazioni di naturalizzazione, presentata come
condizione propedeutica all’integrazione64.
L’azione comunitaria, per come proposta dalla Commissione, mirava anche
a una politica rieducativa tanto delle popolazioni europee, quanto degli immigrati
stessi tramite azioni sia repressive dell’opposizione «razzista» e «xenofoba» ai
sensi della Dichiarazione comune interistituzionale sui diritti fondamentali – di
cui evidentemente la libertà d’opinione non fa parte – sia propositive di un nuovo
approccio al fenomeno immigratorio, quali ad esempio le “Giornate
dell’Immigrato”, i corsi di formazione per il personale amministrativo, sostenere
61
62
63
64
Ivi, par. 4, punto 15, p. 8
Ivi, par. 4, punto 19, p. 9
Ivi p. 12
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 85
34
l’assistenza legale gratuita riservata agli immigrati e, segnatamente,
sviluppare, a livello comunitario, il raggruppamento
delle varie associazioni di lavoratori migranti per agevolare
il dialogo tra questi e le istituzioni comunitarie65.
Quest’ultima previsione di sussunzione delle organizzazioni di immigrati
all’interno del sistema consultivo degli organismi comunitari europei è di
particolare rilevanza, in quanto la cifra principale dell’appartenenza alla comunità
politica sovranazionale europea (tanto CEE quanto UE) si riconosce non solo e
non tanto nell’elezione dei componenti del Parlamento Europeo, quanto e
soprattutto nella possibilità di partecipare al dialogo con le istituzioni europee
meno influenzate dal processo elettorale.
Prendendo le mosse dalla Comunicazione, la Commissione elaborò e istituì
una apposita procedura per regolamentare la concertazione delle politiche
immigratorie tra gli Stati membri66; la procedura prevedeva il coinvolgimento
della Commissione (art. 1 par. 1), che organizza e presiede le riunioni (art. 4, par.
1), nella notifica dei progetti di legge e degli atti anche amministrativi e
regolamentari. L’art. 3 della Decisione stabilisce che il fine principaledella
concertazione (da esperire nel termine di due settimane, secondo all’art. 2) sia
quello di garantire che i progetti, gli accordi e i provvedimenti siano conformi alle
politiche e azioni comunitarie (art. 3, lett. b).
La decisione 85/381/CEE fu impugnata dinanzi alla Corte di Giustizia, che
con sentenza del 9 luglio 1987, la annullò, ritenendola priva di base giuridica.
Tuttavia la Corte, ai sensi dell’art. 118 del Trattato CEE, il quale attribuiva alla
Commissione il compito d‘incoraggiare la stretta collaborazione fra gli Stati
65
COM(85)48 def., par. 4, punto 42, p. 15
66
Decisione della Commissione dell'8 luglio 1985, decisione 85/381/CEE, che istituisce una
procedura di comunicazione preliminare e di concertazione sulle politiche migratorie nei confronti
degli stati terzi, in Commissione delle Comunità europee (a cura di), Bollettino delle Comunità
Europee, Supplemento 9/85, cit., p. 20
35
membri nel campo sociale, osservò in quella medesima pronuncia che la politica
migratoria rientrava nel campo sociale, anche in riferimento alla situazione del
lavoro67.
Il Consiglio recepì la Comunicazione COM(85)48def. con la Risoluzione
del Consiglio del 16 luglio 1985 sugli orientamenti per una politica comunitaria
delle migrazioni68, concentrandosi soprattutto sulle iniziative repressive e sul
sostegno gratuito di tipo assistenziale agli immigrati da Stati terzi.
Dall’Atto Unico Europeo a Maastricht: inerzia comunitaria e accordi prodromici
alla disciplina comune dell’immigrazione.
L’Atto Unico Europeo non prestò attenzione alla materia immigratoria in
quanto tale69, ma prestò attenzione al potenziamento di uno «spazio senza
frontiere interne». Collegato all’indebolimento delle frontiere, il 14 giugno 1985
fu firmato l’Accordo di Schengen tra Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e
Lussemburgo, a cui fece seguito la Convenzione di esecuzione di Schengen del
1990.
Anche durante il periodo intercorso tra l’Atto Unico Europeo e il Trattato di
Maastricht, ad buon conto, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ebbe
modo di chiarire la posizione del cittadino dello Stato terzo in relazione alle
libertà fondamentali, come nel caso della Sentenza C-113/89 Rush Portuguesa
Lda e Office national d'immigration, resa il 27 marzo 199070, in cui si precisa
come la libertà di stabilimento garantisca che un prestatore di servizi stabilito in
uno Stato Membro possa spostarsi in tutto il Mercato Comune con tutto il suo
67
C-281/85, 283/85, 285/85 e 287/85, punti 10 e ss.
68
Risoluzione del Consiglio del 16 luglio 1985 sugli orientamenti per una politica comunitaria
delle migrazioni, in Commissione delle Comunità europee (a cura di), Bollettino delle Comunità
Europee, Supplemento 9/85, cit., p. 19
69
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 85
70
G. Scaccia (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, Quaderno
predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e
portoghese, par. II.2.3
36
personale – senza subire condizioni restrittive71. Nella sentenza il divieto di
restrizioni era applicato ai lavoratori portoghesi, che pure godevano di un regime
transitorio particolare, in forza dell’art. 216 dell’Atto di Adesione; tuttavia, il
divieto è valido anche nel caso di lavoratori aventi cittadinanza di Stati terzi72 e in
regola73, anche senza considerare l’apposito accordo tra la Comunità Europea e il
Regno del Marocco, che specificatamente garantisce ai lavoratori marocchini uno
status analogo a quello dei lavoratori comunitari74. La tutela giurisdizionale dei
cittadini di Stati terzi fu progressivamente estesa dalla Corte di Giustizia, anche
successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, sino a
ricomprendere il diritto di un cittadino di Stato terzo a rimanere nello Stato
Membro in caso di nuova offerta di lavoro, come nella Sentenza C-171/95 Recep
Tetik c. Land Berlin75.
Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore l’11
novembre 1993, diede per primo rilevanza comunitaria alla materia immigratoria,
inserendola nel Titolo VI “Giustizia e Affari Interni”, detto anche “terzo pilastro”
e caratterizzato da una procedura di tipo essenzialmente intergovernativo (art. K1
TUE, punto 3). Secondo tale procedura, la Commissione Europea era meramente
associata ai lavori, priva quindi della posizione di preminenza propria dell’ambito
“comunitario”, e il Parlamento era informato o al più consultato a riguardo delle
politiche da adottare. Dette Istituzioni, pertanto, avevano un ruolo secondario.
Tuttavia, la materia dei visti era inserita in una procedura di tipo comunitario,
appartenendo cioè nel primo pilastro (art. 100 C TCE)76, a cui poteva essere
trasferita la competenza di alcuni settori, tra i quali l’immigrazione77, sebbene
71
72
73
C-113/89, par. 12
C-43/93, par. 26
Ivi, par. 18
74
Ivi, par. 24
Scaccia (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, cit., par.
II.2.1
76
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 86
77
Marco D’Agostini e Francesco De Santis (a cura di), Il "terzo pilastro" e le altre politiche di
75
37
solo all’unanimità.
Tutti i settori di cui all’art. K1 dovevano essere trattati, ai sensi delle
disposizioni di cui all’art. K2 TUE, nel rispetto della CEDU e della Convenzione
di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati. Inoltre, lo stesso art. K2 conteneva
una clausola di salvaguardia intesa a chiarire che l'applicazione delle disposizioni
in materia di cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni non
esonerava le responsabilità degli Stati membri per il mantenimento dell'ordine
78
pubblico e la salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza interni (par. 2) .
Infine, le determinazioni adottate dal Consigio nell’ambito del Titolo VI non
potevano avere valenza legislativa – e quindi giustiziabile dalla Corte di Giustizia
Europea – ma potevano esplicarsi solo come “convenzioni” e “azioni comuni”.
Accanto alla novità costituita dalla previsione della materia immigratoria,
l’elemento maggiormente rilevante del Trattato di Maastricht è tuttavia
l’introduzione del concetto di cittadinanza europea. La cittadinanza europea,
creando un riferimento sovranazionale, è il primo nucleo di garanzie concesse in
ragione dell’appartenenza a una comunità politica sovranazionale, il cui criterio è
la residenza79.
Dal Trattato di Amsterdam al Trattato di Lisbona: i Programmi di Tampere e
dell’Aja
Il trattato di Amsterdam ha introdotto importanti innovazioni in materia di
cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni, che attengono
principalmente alla collocazione sistematica della materia. In seguito alle
modifiche apportate, le materie di cui al Titolo VI Giustizia e Affari Interni di
Maastricht vennero in parte ricomprese nel Titolo IV TCE, “Visti, asilo,
cooperazione in materia di giustizia e affari interni dopo Amsterdam, par. 1.4, Ufficio ricerche nel
settore giuridico e storico-politicoServizio Studi, Senato della Repubblica, 1999, consultato in
http://www.euganeo.it/europei/i-e031.htm
78
Ivi, par. 1.3
79
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 88
38
immigrazione e altre politiche conneesse con la libera circolazione delle persone”,
soggetto a una procedura di disciplina comunitaria80 e non più intergovernativa81,
opzione peraltro già prevista dal precedente art. K9 TUE82, tramite la cosiddetta
“passerella”. Sia pure con alcuni limiti, il Titolo IV di Amsterdam era quindi
sottoponibile alla tutela della Corte di Giustizia di Lussemburgo. In particolare, il
ricorso pregiudiziale era esperibile solo davanti a una giurisdizione avverso la
quale non era possibile proporre alcun rimedio giurisdizionale interno, la Corte
non era competente in caso di misure adottate per il mantenimento dell'ordine
pubblico e della salvaguardia della sicurezza interna e, infine, non si applicava
alle sentenze passate in giudicato al momento dell’entrata in vigore del nuovo
trattato83. Infine, un protocollo allegato al trattato di Amsterdam integrò
l'acquis di Schengen (ivi compresi i protocolli di allargamento intercorsi tra il
1985 e il Trattato di Amsterdam) nel quadro dell'Unione Europea, sotto la forma
della cooperazione raffozata84.
Le
innovazioni
apportate
dal
Trattato
di
Amsterdam
permisero
l’elaborazione delle prime due grandi linee programmatiche in materia di
immigrazione e di integrazione85: il Programma di Tampere nel 1999 e il
Programma dell’Aja nel 2004. Ai grandi programmi di politica immigratoria
comune, cui fece seguito il primo blocco di disposizioni legislative di diritto
derivato, si accompagnò l’introduzione della Carta dei Diritti Fondamentali
dell’Unione Europea.
Malgrado entrambi i programmi si fondino sul medesimo strumento di
diritto primario, presentano tra loro notevoli e profonde differenze nell’approccio
sistematico alla materia immigratoria, dovute anche alla mutata situazione geo80
81
82
83
84
85
Ivi, p. 89
Ivi, p. 90
D’Agostini e De Santis (a cura di), Il "terzo pilastro", cit., par. 2.1
Ivi, par. 2.3
Ivi, par. 3.2
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 90
39
politica mondiale e alle conseguenti esigenze percepite di sicurezza86.
Il Programma di Tampere (1999 – 2004): il concetto di “cittadinanza civile”
Il programma di Tampere prende il nome dal Consiglio Europeo tenutosi
nella città finlandese di Tampere il 15 e il 16 ottobre 1999; in tale vertice fu dato
ampio risalto alla costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia87, teso a
presidiare il fronte politico interno dell’Unione Europea. Il risultato teorico più
importante raggiunto dal Programma è stato l’elaborazione del concetto di
“cittadinanza civile” in relazione ai diritti da attribuire agli immigrati non cittadini
di uno Stato Membro per facilitarne l’integrazione. Nell’alveo dello spazio di
libertà, sicurezza e giustizia, fu sottolineato il suo carattere inclusivo nei confronti
delle persone non cittadine dell’Unione Europea88; per di più, fu esplicitamente
affermato che lo stesso spazio era programmaticamente aperto all’accoglienza di
quanti ricercassero la libertà considerata uno standard nell’UE. La garanzia della
libertà fu quindi la giustificazione delle politiche comuni in materia di asilo e
immigrazione89. Nelle Conclusioni, infine, si prevedeva l’equo trattamento degli
immigrati90 e il rafforzamento della «lotta contro il razzismo e la xenofobia»91, in
direzione di un set di diritti che costituissero una condizione giuridica il più
possibile simile a quella di cui beneficiavano i cittadini europei e,
specificatamente, con l’obiettivo della naturalizzazione dei residenti da lungo
tempo92.
Sulla scorta di simili tesi, la Commissione delineò la necessità di collegare
86
Ivi, p. 97
Consiglio Europeo di Tampere 15 e 16 Ottobre 1999, Conclusioni della Presidenza SN 200/99,
http://www.europarl.europa.eu/summits/tam_it.htm, Introduzione
88
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 93
89
Consiglio Europeo di Tampere, cit., par. 3
87
90
91
92
Ivi, par. 18
Ivi, par. 19
Ivi, par. 21
40
le politiche di immigrazione alla regolamentazione della permanenza degli
immigrati, tanto temporanei quanto permanenti; il tutto nell’ottica della
costruzione di società «pluralistiche», i cui vantaggi avrebbero dovuto essere
presentati ai cittadini, della «promozione della diversità»93, della repressione del
«razzismo» e della «xenofobia»94, unitamente al rafforzamento delle politiche di
integrazione. Un compito rilevante in tal senso è affidato anche ai mezzi di
comunicazione di massa95.
In questo senso, la Commissione elaborava il concetto di “cittadinanza
civile” come un concetto supplettivo alla naturalizzazione, e comunque come
l’introduzione di una gradualità progressiva nel godimento dei diritti – di ogni
tipo96. Inoltre, con l’attribuzione di tali diritti compresi nel concetto di
cittadinanza civile in nome del criterio dei diritti fondamentali, è stata notata una
progressiva del principio di reciprocità interstatuale97, proprio del diritto
internazionale classico.
Riprendendo le direttive del Consiglio Europeo, la Comunicazione annoverò
inoltre il paternariato con gli Stati d’origine, la conferma del diritto a chiedere
asilo e soprattutto l’equo trattamento dei cittadini di Stati terzi: fino a garantire
agli immigrati condizioni di vita e di lavoro comparabili a quelle di chi ha la
98
nazionalità , per arrivare al riconoscimento dei diritti civili e politici agli
immigrati di lunga permanenza99. In cambio, si chiedeva agli immigrati
l’accettazione dei principi e valori liberaldemocratici di tolleranza e di rispetto per
93
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo su una politica
comunitaria in materia di immigrazione del 22 novembre 2000, COM(2000)757 def., pp. 5 e 20
94
Ivi, p. 20
95
Ibidem
96
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 95
Angela Di Stasi, Verso uno “statuto” euro-nazionale del cd. immigrato di lungo periodo, in
Leanza (a cura di), Le Migrazioni. Una sfida per il diritto internazionale comunitario e interno,
Atti del IX Convegno SIDI del 17-18 giugno 2004, Napoli, 2005, p. 451
98
COM(2000)757, p. 17
99
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 94
97
41
le minoranze, considerati dall’Unione Europea come fondamentali100. Per
raggiungere questo obiettivo, ai “leader” politici era assegnato il compito di
«creare il contesto necessario per l’accettazione della diversità» e di predisporre
un processo di integrazione di lungo periodo, da focalizzare principalmente su
donne, bambini e immigrati di seconda generazione, da attuare coinvolgendo
anche la società civile, ivi incluse le associazioni di immigrati101. Con riguardo
alle generazioni successive a quella di ingresso, e in particolare la terza
generazione, la Commissione Europea non esita a proporre una misura come
l’attribuzione automatica della cittadinanza dello Stato di nascita, secondo il
principio dello ius soli102.
Invero, come si può leggere nelle conclusioni di detta Comunicazione,
l’immigrazione in Tampere è concepita esplicitamente come un rimedio numerico
al calo demografico dell’Unione Europea103; la previsione dell’integrazione degli
immigrati, anche a livello politico, è la conseguenza in linea con i principi
sottostanti ai diritti fondamentali atta a evitare fenomeni di disgregazione sociale
apportati da quello che appare come essere un fenomeno di importazione di
cittadini. Al fine di dirigere la politica comune dell’immigrazione, la
Commissione
coordinamento
nel
104
2001
sceglieva
la
tecnica
del
metodo
aperto
di
. Durante il Consiglio Europeo di Siviglia del 2002 gli obiettivi
di Tampere vennero riaffermati, sottolineando la necessità di equilibrio tra
capacità recettiva e legittimate aspirazioni degli immigrati, e di combattere
l’immigrazione clandestina105. Nel 2003 viene rilasciata anche una nuova
100
101
102
COM(2000)757, p. 18
Ibidem
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 95
103
COM(2000)757, p. 19
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo relativa ad un
metodo aperto di coordinamento della politica comunitaria in materia di immigrazione del 11
luglio 2001, COM(2001) 387 def.
105
Benedetta Pricolo, L’integrazione dei cittadini di Stati Terzi nelle politiche comunitarie di
gestione dell’immigrazione: da Siviglia a Salonicco, passando per Bruxelles,
http://www.cestim.it/index.htm?/15politiche.htm, p. 2
104
42
comunicazione
(COM
in
(2003)336),
cui
si
ribadisce
l’importanza
dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali sull’acquisto della cittadinanza, in
direzione della facilitazione dell’accesso a tale condizione giuridica, e
l’opportunità del conferimento della “cittadinanza civile” per i non cittadini
stabilmente residenti nello Stato106. L’acquisto della cittadinanza, ad ogni modo, è
presentato come il punto di arrivo finale di un percorso che presuppone, in primis,
un ruolo lavorativo stabile, la padronanza linguistica, la soddisfacente condizione
abitativa e il ruolo sociale e culturale
107
. Definendo quindi nella Comunicazione la
“cittadinanza civile” come un nucleo di diritti e doveri anche politici acquisito in
funzione della lunga durata e dalla stabilità della residenza dello straniero, la
Commissione Europea propone di superare la concezione della cittadinanza come
discendente dal fattore nazionale108; tale condizione giuridica, a parere della
Commissione, sarebbe stata da inserire nel Trattato che adotta una Costituzione
per l'Europa109.
Infine, il 19 e il 20 giugno 2003 si tenne il Consiglio Europeo di Salonicco,
dove venne ribadita l’esigenza della condivisione degli oneri per gli Stati Membri
più esposti, derivanti dall’immigrazione110, di ordine strettamente amministrativo
e finanziario. Infine, viene omesso il riferimento alla “cittadinanza civile” di cui
alla Comunicazione di poco precedente
111
.
Stanti le forti differenze tra gli obiettivi particolari degli Stati Membri, le
principali normazioni risalenti al Programma di Tampere sono state valutate come
armonizzazioni al ribasso112. Esse assumono la forma della direttiva e attengono
106
Ivi, p. 5
107
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 94
Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato
Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni su immigrazione, integrazione e
occupazione del 3 Giugno 2003, COM(2003)336, par. 3.3.6, p. 25
109
Pricolo, L’integrazione dei cittadini di Stati terzi nelle politiche comunitarie, cit., p. 7
108
110
111
112
Ivi, p. 8
Ivi, p. 9
Ivi, p. 4
43
al ricongiungimento familiare (Direttiva 2003/86/CE) e alla condizione giuridica
degli immigrati di lunga permanenza (Direttiva 2003/109/CE).
Il Programma dell’Aja (2004 – 2009)
L’elaborazione del Programma dell’Aja, valido per il quinquennio
intercorso tra il 2004 e il 2009, venne a inserirsi in un momento in cui la rinnovata
attenzione per la tutela della sicurezza interna si collegava strettamente alla
vigilanza sull’immigrazione.
Il 9 luglio 2003, il Ministro dell’Interno della Repubblica Italiana –
all’epoca titolare della Presidenza – illustrò davanti all’Europarlamento i punti
principali del programma sui temi dell’immigrazione, della criminalità
organizzata e del terrorismo, punti che furono ripresi dai Consigli Europei
successivi113. La scelta di collegare la regolamentazione dell’immigrazione alla
tutela della sicurezza è da collegarsi alla consapevolezza dell’avanzato stadio
della “globalizzazione” delle connessioni economiche di ogni tipo114, ma anche
alla mutata percezione del contesto internazionale115, su cui la diffusione della
violenza politica di matrice islamica negli Stati euroatlantici (ironicamente
cominciata nella prima metà del periodo di vigenza del Programma di Tampere)
pesò come un macigno.
In particolare, con le determinazioni del Consiglio Europeo tenutosi a
Bruxelles il 4 e 5 novembre 2004, si sottolinearono le nuove urgenze in funzione
degli attacchi a sfondo terroristico perpretrati a New York nel 2001 e a Madrid nel
2004116.
113
Consiglio Europeo di Bruxelles 4 e 5 Novembre 2004, Conclusioni della Presidenza
14292/1/04 REV 1,
http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/it/ec/82551.pdf , par. 14, p. 10
114
Giovanni Maria Flick, Le sfide della sicurezza e della solidarietà e il ruolo dell'Europa, in
Rassegna dell'Arma dei Carabinieri, n. 2/2005, par. 2, p. 8
115
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 97
116
Consiglio Europeo di Bruxelles, Conclusioni della Presidenza, cit., par. 14, p. 10
44
Per quanto attiene all’immigrazione e alla sua gestione, il Programma
dell’Aja spostò il focus dallo spazio di libertà generalizzato alla regolamentazione
dell’immigrazione legale in funzione delle esigenze dell’economia europea. In
particolare, grande attenzione venne data al rafforzamento dell’economia della
conoscenza117, in ottemperanza alla Strategia di Lisbona118, stante la
determinazione a gestire il fenomeno nella sua globalità119. Riprendendo le
succitate conclusioni del Consiglio Europeo di Salonicco, inoltre, viene ventilato
il concetto tra ripartizione degli oneri e delle responsabilità fra gli Stati membri
120
,
così come l’elaborazione di un sistema europeo in materia di asilo121. In merito al
processo dell’integrazione, è rimarcabile l’assenza di ogni riferimento a concetti
quali la naturalizzazione o la cittadinanza civile, concetto introdotto fin dalla
summenzionata Comunicazione del 1974 e approvata a Tampere122, dedicandosi il
Programma a sottolineare la sua bidirezionalità, l’individuazione dei valori
europei
nei «diritti umani fondamentali» e la multisettorialità del processo
dell’integrazione123.
Le determinazioni del Consiglio Europeo di Bruxelles e il Programma
dell’Aja determinarono un rinnovato orientamento della Commissione Europea,
che si manifestò nella serie di Comunicazioni in cui essa esponeva gli obiettivi
politici di dettaglio, sulla scorta delle linee guida prefissate. Tra di esse, appaiono
rilevanti la Comunicazione COM(2005)389 e la Comunicazione COM(2007)512
per le priorità attribuite nel contesto dell’integrazione.
Nella Comunicazione COM(2005)389 def, si affermava a chiare lettere che
l’integrazione avrebbe implicato, da allora in avanti, il rispetto per i valori di base
117
Consiglio Europeo di Bruxelles, Conclusioni della Presidenza, Allegato I, Programma
dell’Aja, par. 1.4, p. 19
118
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 97
119
120
121
122
123
Programma dell’Aja, cit., par. 1.2, p. 16
Ivi, p. 17
Ivi, par. 1.3, p. 18
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 98
Programma dell’Aja, cit., par. 1.5, p. 20
45
dell’Unione Europea124,
125
. A livello nazionale si sarebbe dovuto operare per
l’introduzione di orientamento civico per assicurare la condivisione dei valori
nazionali ed europei da parte dei nuovi arrivati, mentre a livello europeo si
sarebbero dovuti includere anche i cittadini di Stati terzi nella costituenda Agenzia
per i Diritti Fondamentali. D’altro canto, si manteneva dalle elaborazioni
precedenti la necessità di educare i cittadini europei a riguardo degli immigrati e
delle loro culture, per evitare fenomeni di estraneità sociale, in particolar modo
negli ambienti urbani
126
. Viene in rilievo la costante formulazione dell’esigenza di
fornire ai cittadini di Stati terzi adeguate sistemazioni abitative.
La Comunicazione COM(2007)512 def è un rapporto intermedio di
attuazione del Programma dell’Aja. In essa si sottolinea l’importanza sotto il
profilo demografico dell’immigrazione, nonostante la diversità degli approcci
nazionali su quale categoria di immigrazione legale privilegiare127. In merito
all’attribuzione e alla protezione dei diritti fondamentali ai cittadini di Stati terzi,
viene tra gli altri impegni ribadita la necessità della repressione della
128
xenofobia
; infine, si afferma la necessità di rinviare ad una fase di ulteriore
studio la questione dei modelli di cittadinanza da attribuire agli abitanti sprovvisti
della cittadinanza europea129.
Il Trattato di Lisbona e il Programma di Stoccolma
Il Trattato di Lisbona che modifica il trattato sull'Unione europea e il trattato
124
Comunicazione dalla Commissione al Consiglio, il Parlamento Europeo, il Comitato
Economico e Sociale Europeo e il Comitato delle Regioni del 1 settembre 2005, Un’agenda
comune per l’integrazione – Quadro per l’intergrazione di cittadini di Stati terzi nell’Unione
Europea, COM(2005)0389 def, par. 2
125
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 98
126
COM(2005)389 def, par. 7
Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato
Economico e Sociale Europeo e Al Comitato Delle Regioni dell’11 settembre 2007, Terza
relazione annuale su migrazione e integrazione, COM(2007)512 def, par. 2
128
Ivi, par. 3.2
129
Ivi, par. 5, Conclusioni
127
46
che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbona iln 13 dicembre 2007 ed
entrato in vigore il 1° dicembre 2009, rappresenta il superamento dell’impasse
determinatasi con il fallimento del Trattato Costituzionale del 2004. Nel trattato
del
2007 vengono inequivocabilmente eliminati alcuni aspetti inerenti
all’esteriorità dell’azione sovrana e alla Carta dei Diritti Fondamentali è attribuito
rango pari a quello del TUE e del TFUE; per quanto attiene alla politica
migratoria, d’ora in avanti avente carattere comune (di cui all’art. 79 TFUE), è
riconosciuto il dovere di “equità” nei confronti dei cittadini degli Stati terzi
130
: la
formulazione letterale, con l’abbandono del concetto di “eguaglianza” di
trattamento, è stata posta da parte di alcuni autori in contrasto con le intenzioni di
cui al Programma di Tampere131.
Funzionale al nuovo corso – determinato anche dalla contemporanea crisi
economica del mondo “occidentale” – è il Programma di Stoccolma, in vigore dal
2010 e fino al 2014. Tale programma era stato anticipato da alcuni documenti e ha
un orientamento fortemente dissonante con le intenzioni aperturiste dell’originario
Programma di Tampere
132
. In tale senso, il Programma presenta una connotazione
diretta a restringere l’immigrazione, distinta dall’asilo e dal soggiorno nell’UE per
motivi legati alla protezione internazionale, privilegiando l’importazione di
lavoratori altamente qualificati, peraltro a condizioni assai diverse da quelle
previste per i lavoratori analogamente qualificati che possiedono la cittadinanza
dell’Unione.
All’ultimo periodo di vigenza del Programma dell’Aja e al Programma di
Stoccolma, che peraltro nel momento in cui il testo viene redatto è in fase di
superamento a causa del termine della vigenza, fa capo buona parte della
disciplina attualmente in vigore a riguardo dell’immigrazione legale e a riguardo
della disciplina dell’asilo.
130
131
132
Gargiulo, La condizione giuridica dei cittadini di Stati terzi, cit., p. 91
Ibidem
Ivi, p. 102
47
La disciplina della condizione giuridica delle persone regolarmente
soggiornanti sprovviste della cittadinanza europea nel diritto derivato
dell’Unione Europea
Come precedentemente accennato, l’approccio alla questione migratoria da
parte della Comunità e dell’Unione si è evoluto nell’arco di una prospettiva ormai
quindicennale; ai tre programmi ufficialmente rilasciati sino al 2009 – e in vigore
sino al 2014 – se ne aggiungerà un quarto, successivo al Programma di
Stoccolma. Dall’introduzione del Programma di Tampere alla scadenza del
Programma di Stoccolma è inevitabilmente mutato il contesto, e mutando il
contesto sono mutate le esigenze che il legislatore europeo, nelle sue molteplici
articolazioni, ha deciso di privilegiare. In tal senso, nella sua evoluzione storica, la
legislazione di diritto derivato dell’Unione Europea è raggruppabile in due
principali macroaree, quali i diritti dei soggiornanti di lungo periodo e regolari,
rispettivamente disciplinati nel 2003 e nel 2011, e le previsioni per i lavori ad alta
qualificazione o per le persone il cui soggiorno nell’Unione è comunque inerente
allo sviluppo dell’economia della conoscenza, materie disciplinate nel 2004, nel
2005 e nel 2009133.
La Direttiva Soggiornanti di Lungo Periodo 2003/109/CE
La Direttiva 2003 del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status
dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo fu emanata
verso la fine della vigenza del Programma di Tampere; richiamando le
conclusioni del vertice, il Considerando 2 ribadisce che ogni Stato membro
dovrebbe garantire una serie di diritti uniformi e quanto più simili a quelli di cui
beneficiano i cittadini dell'Unione Europea alle persone che soggiornano
regolarmente in un determinato Stato membro per un periodo da definirsi e sono
133
Ivi, p. 104
48
in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata. La Direttiva è
considerata essere improntata all’integrazione e al già citato principio del
trattamento comparabile134. In particolare, l’art. 12 rende – di fatto – molto
complessa l’adozione di un provvedimento di espulsione anche contro si sia reso
protagonista di azioni dirette a mettere in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica.
Infine, il diritto alla circolazione dei cittadini di Stati terzi trova nella direttiva la
sua prima regolamentazione legislativa, malgrado il fatto che tale diritto fosse già
stato creato dalla Corte di Giustizia, nei primi anni Novanta
135
.
L’art. 1 chiarisce lo scopo della direttiva, che riguarda essenzialmente i
requisiti circa il permesso di soggiorno e la mobilità degli immigrati di lunga
permanenza all’interno dell’Unione Europea. L’applicazione della direttiva non è
tuttavia generale nemmeno all’interno degli immigrati di soggiorno regolare:
secondo l’art. 3, par. 2, sono esclusi dall’applicazione coloro che soggiornano
nell’UE per motivi di studio o di formazione professionale (lett. a), godono di una
delle forme della protezione internazionale o sono in attesa della decisione (lettere
b, c, d); è anche escluso l’individuo sprovvisto di cittadinanza europea che
soggiorni unicamente per motivi di carattere temporaneo (lett. e) o che godano di
uno status giuridico relativo ai rapporti internazionali degli Stati, per come
disciplinato dalle convenzioni internazionali sulle relazioni diplomatiche (lett. f).
L’art. 3, par. 3 lascia impregiudicate le eventuali condizioni più favorevoli che
possano derivare da accordi bilaterali e multilaterali, nonché dai documenti degli
organismi europei.
Il Capo II disciplina in linea generale la condizione giuridica di
soggiornante di lungo periodo. Esso è permanente, fatta salva la revoca o la
rinuncia, e comporta la concessione di un permesso di soggiorno apposito valido
nell’intero ambito dell’attuale Unione Europea, dalla durata di almeno cinque anni
134
Ivi, p. 108
Scaccia (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, cit., par.
II.2.3
135
49
e, su richiesta, automaticamente rinnovato (art. 8); qualora il permesso non
venisse rinnovato, la condizione di soggiornante di lungo periodo è comunque
fatta salva (art. 9, par. 6). Infine, ai sensi dell’art. 13, gli Stati membri possono
rilasciare permessi di soggiorno a condizioni più favorevoli, che però non non
conferiscono il diritto di soggiornare negli altri Stati membri.
Perché tale condizione sia concessa, l’art. 4, par. 1 stabilisce che i
richiedenti debbono aver soggiornato legalmente e ininterrottamente per cinque
anni nel territorio dello Stato Membro prima della presentazione della domanda. I
cinque anni sono calcolati come presenza stabile: la residenza diplomatica o
consolare e i soggiorni temporanei non sono considerabili, mentre la formazione
professionale o lo studio possono essere calcolati «a metà» (par. 2); se le assenze
dal territorio dello Stato Membro sono inferiori a dieci mesi, esse non
interrompono i cinque anni (par. 3). Al periodo successivo del medesimo
paragrafo, infine, viene come sempre fatta salva la possibilità per gli Stati Membri
di richiedere condizioni più favorevoli all’immigrato richiedente, così come quella
di non considerare i soggiorni all’estero dovute al distacco per lavoro.
Inoltre, gli Stati Membri devono assicurarsi, come prescritto all’art. 5, che i
richiedenti dispongano di risorse stabili e regolari, tali da non avere necessità di
fare ricorso all’assistenza sociale (par. 1, lett. a) e di un tipo di assicurazione
medica che fornisca una copertura analoga a quella prevista per i cittadini
nazionali (lett. b). La ratio dell’art. 5, par. 1 è, evidentemente, quella di garantire
che l’immigrato richiedente non sia di peso – economico e sociale – per la
comunità nazionale di residenza. Questa disposizione è peraltro di tono
sostanzialmente analogo all’art. 7, par. 1, lettere (b) e (c) della nota Direttiva
2004/38/CE del Consiglio, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro
familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri. Per quanto attiene agli oneri sociali, gli Stati Membri possono esigere
che i cittadini di paesi terzi soddisfino le condizioni di integrazione, di cui alle
legislazioni nazionali (par. 2).
50
L’art. 6 fa inoltre salva la possibilità per gli Stati Membri di negare la
condizione giuridica di immigrato di lungo soggiorno e i benefici che ne derivano
per ragioni di ordine e sicurezza pubblica. Conformemente alla consolidata prassi
in materia, tale elenco è da ritenersi di natura strettamente tassativa; il par. 2
precisa che il diniego non può essere opposto per ragioni economiche. L’art. 7
disciplina la procedura specifica, e inoltre stabilisce al par. 3 l’obbligo
generalizzato dello Stato Membro a conferire lo status giuridico richiesto a
qualsiasi cittadino di Stato terzo la richieda, posto che le condizioni di cui agli
artt. 4, 5 e 6 siano soddisfatte.
Lo status è revocato, a norma dell’art. 9, se esso è stato acquisito in modo
fraudolento (art. 9, par. 1, lett. a), se la persona è stata fatta oggetto di un
provvedimento di allontanamento (lett. b) o se sia stata assente per almeno dodici
mesi consecutivi (lett. c), fatte salve le disposizioni più favorevoli eventualmente
accordate (par. 2) e includendo il caso di minaccia all’ordine pubblico che non sia
sufficiente a far scattare l’allontanamento (par. 3); quest’ultima disposizione
appare essere un meccanismo in larga parte discrezionale. Inoltre, lo status in uno
Stato Membro si perde a seguito della concessione del medesimo status in un altro
Stato Membro o non vi abbia soggiornato per almeno sei anni, fatte salve le
disposizioni più favorevoli (par. 4). In ogni caso, la revoca, motivata ai sensi
dell’art. 10, par. 1, è soggetta a possibilità di impugnazione da parte
dell’interessato (par.2).
Ai sensi dell’art. 11, par. 1, il soggiornante di lungo periodo gode dello
stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le condizioni di
lavoro, subordinato o autonomo, con l’eccezione dell’esercizio di pubblici poteri,
di istruzione e formazione professionale, di riconoscimento dei titoli, l'assistenza
sociale di vario genere, le agevolazioni fiscali, l'accesso a beni e servizi a
disposizione del pubblico, nonché alla procedura per l'ottenimento di un alloggio.
Al pari dei cittadini nazionali, i cittadini di Stati terzi che godono dello status in
parola godono anche della piena libertà di associazione professionale, fatte salve
51
le disposizioni nazionali in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza e il
libero accesso a tutto il territorio dello Stato membro interessato.
L’art. 12 dispone una serie di limitazioni per l’espulsione di un soggiornante
di lungo periodo per i motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza, che sono
sottoposti a specifici criteri per il test di proporzionalità: lo Stato Membro deve
considerare la durata della permanenza del soggiornante che agisce contro
l’ordine e la sicurezza pubblica, la sua età, le conseguenze che possono derivare a
chi è soggetto all’ordine di espulsione e ai suoi familiari e i vincoli con lo Stato
Membro di soggiorno dal quale viene espulso per motivi di ordine e sicurezza
pubblica e l'assenza di vincoli con il paese d'origine. Il provvedimento è soggetto
a tutela giurisdizionale.
Per quanto attiene alla mobilità dell’immigrato di lungo periodo, essa è
disciplinata al Capo III. La persona che gode dello status in esame può
soggiornare in altri Stati Membri anche per periodi superiori a tre mesi (art. 14,
parr. 1 e 2), fatta salva la possibilità di limitare tale libertà in considerazione della
tutela del mercato di lavoro, che rimane riconosciuta in capo agli Stati Membri di
destinazione (parr. 3 e 4), con l’eccezione dei lavoratori distaccati (par. 5). Le
condizioni prescritte per il soggiorno in altro Stato Membro diverso da quello di
soggiorno, descritte all’art. 15, parr. 2 e 3, sono le medesime di cui all’art. 5, par.
1 e 2. Previo soddisfacimento delle condizioni di cui all’art. 15, lo Stato Membro
attribuisce il permesso di soggiorno e informa il primo Stato Membro (art. 19).
Gli eventuali dinieghi del permesso di soggiorno nel secondo Stato Membro sono
soggetti a limitazoni del tutto analoghe a quanto previsto per il caso del primo
Stato Membro.
Infine, in caso di ottenimento dello status di soggiornante di lungo periodo
nel secondo Stato Membro, lo status ottenuto nello Stato Membro precedente
viene revocato ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 9 (art. 23): il meccanismo è
finalizzato a garantire un solo Stato di soggiorno di lungo periodo alla volta, allo
scopo di evitare il cumulo delle condizioni di “quasi cittadinanza”.
52
La Direttiva Soggiornanti Regolari 2011/98/UE
La direttiva 2011/98/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13
dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un
permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare
nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori
di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, non riguarda i
cittadini di paesi terzi che hanno acquisito lo status di soggiornanti di lungo
periodo ai sensi della direttiva 2003/109/CE (Considerando 8) e, per converso, i
lavoratori puramente temporanei (Considerando 9).
La direttiva, emanata nell’ambito del Programma di Stoccolma, stabilisce un
insieme comune di diritti per i lavoratori aventi la cittadinanza di Stati terzi, così
come una procedura unificata per il permesso di soggiorno e il permesso di lavoro
(art. 1, par 1). Rispetto alla Direttiva 2003/109, è possibile notare il restringimento
dell’ambito: da una posizione di generalizzata apertura, a cui vengono apposte più
o meno significative eccezioni, si passa a una selezione specifica dei profili di
cittadini di Stati terzi, e cioè essenzialmente lavoratori funzionali all’economia
dell’Unione.
La direttiva prevede per i lavoratori di Paesi terzi la parità di trattamento
con i cittadini nazionali riguardo a condizioni di lavoro, istruzione,
riconoscimento di diplomi e qualifiche, agevolazioni fiscali (se domiciliati) e
sicuezza sociale e accesso ai beni e servizi offerti al pubblico, incluso l’accesso
all’abitazione. Lo schema è analogo a quello della Direttiva 2003, almeno per
quanto attiene alle aree per cui è prevista la parità di trattamento (art. 12, par. 1).
Diversamente dalla direttiva soggiornanti di lungo periodo, la direttiva
2011/98 contiene alcune possibilità per gli Stati membri di derogare o restringere
la portata del principio di parità di trattamento in alcune situazioni che variano in
53
relazione all’area tematica (art. 12, par. 2)136. All’art. 13 viene fatta salva la
possibilità di prevedere disposizioni più favorevoli che possano derivare da
accordi bilaterali e multilaterali, nonché dai documenti degli organismi europei.
136
http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1994&l=it
54
CAPITOLO 2: IL DIRITTO D’ASILO NELL’UNIONE EUROPEA
Il diritto di asilo è un'antica nozione giuridica, in base alla quale una
persona perseguitata nel suo paese d'origine può essere protetta da un'altra autorità
sovrana. Questo diritto ha una lunga tradizione occidentale; ogni Stato ha offerto
protezione a stranieri perseguitati.
La fonte alla base del diritto d’asilo per come inteso dal secondo dopoguerra
è la Convenzione di Ginevra del 1951, accanto al Protocollo del 1967.
Il rifugiato è colui che, per effetto della legge dello Stato ospite e
delle convenzioni internazionali, gode di tale status e della relativa protezione
attraverso l'asilo politico.
La materia dell’asilo in ambito generalmente europeo – comprendendo
quindi tanto i singoli Stati quanto le organizzazioni internazionali e sopranazionali
regionali – trova il suo fondamento nella Convenzione di Ginevra del 1951 in
materia di diritti dei rifugiati1. La politica dell’Unione Europea in materia di
immigrazione e asilo è prevista all’art. 78 TFUE, il quale richiama espressamente
detta Convenzione.
In particolare, l’art. 78, par. 2 TFUE prevede l’istituzione di uno status
uniforme dell’asilo, superando il Trattato di Amsterdam che prevedeva, come
descritto nel Programma di Tampere, una semplice definizione di standard
minimi2.
Approfondendo ulteriormente l’integrazione in materia, e probabilmente
anche in riferimento alla situazione geografica e politica delle frontiere esterne,
l’art. 78, par. 3 TFUE così come formulato a Lisbona prevede un meccanismo
semplificato e principalmente in capo a Commissione e Consiglio per le situazioni
di emergenza. In precedenza anche il Parlamento Europeo era coinvolto nelle
1
Fundamental Rights Agency, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e
immigrazione, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Lussemburgo, 2013, p. 64
2
Giuseppina Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione internazionale, in Carella, Cellamare,
Garofalo, Gargiulo, Pizzolante, Sacovelli, Di Chio, L’immigrazione e la mobilità delle persone nel
diritto dell’Unione Europea, Monduzzi Editoriale, Milano, 2012, p. 118
55
procedure emergenziali.
La politica dell’Unione Europea di asilo e di protezione internazionale,
come specie distinta e a sé stante dell’immigrazione, è una materia introdotta per
la prima volta dal Trattato di Amsterdam. Essa rappresenta un passo rilevante
nella caratterizzazione in senso politico dell’integrazione europea: dalla
regolazione intergovernativa passò alla regolazione comunitaria, allora propria del
cosiddetto “primo pilastro” dei tre istituiti a Maastricht.
La “comunitarizzazione” dell’asilo e della protezione internazionale è stata,
sinora, scandita da tre fasi, a loro volta definite da tre Programmi europei: il
Programma di Tampere del 1999, il Programma dell’Aia del 2004 e, da ultimo, il
Programma di Stoccolma del 2009.
La prima fase, iniziata nel 1999, ha previsto l’armonizzazione di norme
minime, che non definiscono una procedura comune ma introducono mere
«norme procedurali»3. La seconda fase è stata lanciata con il Programma dell’Aia,
adottato nel 2004, con l’obiettivo di creare una procedura integrata dell’intero
meccanismo. A questo scopo nel 2010 è stato istituito l’Ufficio Europeo per il
Sostegno all’Asilo, aperto a Malta nel 2011, che si aggiunge alla Direttiva
Qualifiche. Infine, per il periodo 2010 – 2014 è stato elaborato il Programma di
Stoccolma volto a portare all’adozione delle proposte elaborate dalla
Commissione Europea durante il periodo di vigenza del Programma dell’Aia.
L’ordinamento dell’Unione Europea non si limita al riconoscimento del
diritto di richiedere asilo ma va oltre, riconoscendo il diritto all’asilo stesso; lo
strumento a tal fine è l’art. 18 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea4.
La fase del Programma di Stoccolma si è conclusa nel giugno 2013, con gli
strumenti più rilevanti modificati entro tale periodo. Sono stati approvati numerosi
3
4
Ivi, p. 117
FRA, diritto europeo in materia di asilo, frontiere e immigrazione, cit., p. 47
56
strumenti che innovano norme precedenti o che le completano; al primo gruppo
appartengono la Direttiva Qualifiche del 2011, la Direttiva Accoglienza del 2013,
la Direttiva Procedure del 2013, il Regolamento Dublino III (Regolamento UE n°
604 del 2013) e il nuovo Regolamento Eurodac (Regolamento UE n° 603 del
2013).
Le norme di attuazione dell’art. 78 TFUE consitono principalmente nel
Sistema di Dublino, composto a sua volta da più strumenti, nella Direttiva
2005/85/CE del 1 dicembre 2005, recante norme minime per le procedure, e nelle
Direttive 2004/83/CE del 29 aprile 2004 e 2011/95/CE del 13 dicembre 2011,
recanti norme minime sull'attribuzione della qualifica di rifugiato, nonché norme
minime sul contenuto della protezione riconosciuta. Inoltre, per quanto attiene la
riunificazione familiare dei rifugiati, il riferimento normativo è la Direttiva
2003/86/CE del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento
familiare; tuttavia, la norma non si riferisce solamente ai rifugiati o alle persone
che godono della protezione internazionale ma in genere a chi entra nell’Unione
Europea; la Direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003 reca invece
norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.
Le Direttive Requisiti per l’Asilo 2004/83/CE e 2011/95/CE
La politica di asilo e di protezione internazionale dell’Unione si basa, per il
suo effettivo dispiegarsi con efficacia negli Stati Membri, sulla previsione di una
serie di requisiti comuni, fondati sulla Convenzione Europea sui Diritti
dell’Uomo, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, ai sensi dell’art. 6 TUE,
sulla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ai sensi dell’art. 78 TFUE, e sulle linee
guida stabilite dai vari programmi in materia.
L’esigenza di un “sistema qualifiche” di ambito “comunitario”, che
garantisca identità di requisiti per l’acquisizione e per la revoca della protezione in
tutti gli Stati Membri, è funzionale a garantire la massima libertà di circolazione
57
secondaria (cioè derivante dall’acquisizione dello status di rifugiato) all’interno
dell’Unione Europea.
La normativa in merito all’individuazione di chi può ricevere la protezione
internazionale è stata emanata con la Direttiva 2004/83/CE, originaria ancora
della fase di Tampere e successivamente trasposta e rifusa nella direttiva
2011/95/CE5; la seconda Direttiva, emanata per adeguare la normativa alle
innovazioni apportate dal Trattato di Lisbona, è entrata in vigore il 21 dicembre
2013. Ai sensi dei Protocolli nn. 21 e 22 allegati ai Trattati, tuttavia,
dall’applicazione sono esclusi il Regno Unito, l’Irlanda6 e la Danimarca7,
mantenendo l’efficacia per i 25 Stati Membri rimanenti. Le due “Direttive
Qualifiche”, malgrado si susseguano a distanza di sette anni l’una dall’altra,
condividono la medesima impostazione di fondo, diretta a fissare una serie di
requisiti comuni, pur lasciando aperta la strada delle disposizioni maggiormente
favorevoli (art. 3 della nuova norma, facoltà peraltro già previsto dal medesimo
articolo della precedente direttiva).
In particolare, la Direttiva 2011/95/CE presenta alcune differenze dirette ad
aumentare
la
“integrazione”
dei
rifugiati
o
degli
altri
beneficiari
dell’integrazione8.
Tutto il sistema qualifiche, tanto nella Direttiva del 2004 quanto in quella
del 2011, si basa sul contenuto delle varie forme di protezione e sui requisiti per
ottenerle: pertanto, vengono in esame una serie di aspetti come la percezione del
pericolo da parte del richiedente, le possibili alternative di protezione interna nel
Paese di origine o, nel caso delle persone apolidi, di residenza, e i motivi della
persecuzione9.
5
6
7
8
9
Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit., p. 136
Protocollo n. 21, artt. 1, 2 e 4 bis
Protocollo n. 22, artt. 1 e 2
Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit., p. 136
Ivi, p. 137
58
Entrambe le direttive sono composte da due elementi principali: da un lato i
requisiti veri e propri per i vari tipi di protezione internazionale, e dall’altro la
disciplina di ciò che gli status eventualmente accordati comportano. In ultimo,
viene dettagliato il contenuto della protezione internazionale (Capo VII), nei suoi
diritti ed obblighi.
Il Capo IV regola lo condizione giuridica dei Rifugiati, mentre il Capo VI
disciplina la condizione dei beneficiari della protezione sussidiaria: l’art. 14
disciplina i motivi di cessazione dello status, stabilendo in linea generale,
conformemente alle prescrizioni dell’art. 19 della Carta dei Diritti Fondamentali
dell’Unione Europea, che gli accertamenti debbano essere condotti su base
individuale.
Il Capo II regola le norme essenziali e i criteri di valutazione delle domande
di protezione internazionale. Esso è il Capo centrale, che prevede le procedure
comuni per tutti i tipi di protezione. Ulteriori Capi appartenenti alla categoria dei
requisiti sono il Capo III (Requisiti Rifugiati) e il Capo V (Requisiti Protezione
Sussidiaria).
Lo status di protezione internazionale, di qualunque gradazione, è
subordinato all’esame preventivo da parte dello Stato che per primo accoglie la
richiesta, individuato ai sensi del «Sistema di Dublino». Tale esame include, ai
sensi dell’art. 4 di entrambe le versioni, i dati anagrafici e personali del
richiedente ed eventualmente dei suoi familiari (par. 2), nonché i motivi della sua
domanda di protezione internazionale. La valutazione di cui al par. 3 prevede una
valutazione ad ampio raggio da parte delle autorità dello Stato “ospite” di tutte le
opzioni che possono confermare o inficiare la fondatezza della domanda di asilo.
L’art. 5 prevede una protezione internazionale anche laddove la minaccia al
richiedente si sia verificata anche dopo il suo abbandono della sua Patria, cioè
dopo che ha intrapreso l’emigrazione, che quindi non è stata determinata da
motivi di protezione personale. Tuttavia, il par. 3 prevede una clausola di
esclusione se a determinare la minaccia posta in essere è stato l’emigrato stesso
59
dopo
la
partenza:
questo
paragrafo
dovrebbe
servire
ad
evitare
la
strumentalizzazione dell’asilo da parte di nemici dello Stato di origine.
L’art. 6 descrive gli autori della persecuzione o del danno grave necessari
all’accoglimento della domanda di asilo. In linea con le previsioni internazionali
di tutela dei diritti umani, essi sono lo Stato di origine (lett. a), le organizzazioni
non strettamente statali che controllano lo Stato o una parte consistente del suo
territorio (lett. b) o altre organizzazioni, sempre non statali, nel caso in cui né le
organizzazioni internazionali, né lo Stato, comprese le organizzazioni di cui alla
lett. b, possano o vogliano fornire una protezione adeguata. L’incapacità, la
mancanza di volontà o l’inerzia devono essere dimostrate.
Specularmente all’art. 6, il successivo art. 7 definisce chi può offrire
protezione contro persecuzioni o danni gravi all’interno dello Stato di orgine (che
ai sensi del par. 2 è «effettiva e non temporanea»): gli attori sono lo Stato (par. 1,
lett. a oppure dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni
internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio
(lett. b). È da rilevare come l’art. 7 nella nuova formulazione restringa
tassativamente i soggetti capaci di offrire protezione contro persecuzioni o danni
gravi a quelle organizzazioni elencate. Sempre nella nuova formulazione, si
chiarisce che perché possa verificarsi la possibilità di protezione interna debbano
essere presenti la volontà e la capacità di offrire protezione. Ad ogni modo, la
protezione contro persecuzioni o danni gravi va tenuta distinta dalla protezione
interna, di cui all’articolo successivo.
L’articolo 8 prevede la possibilità della “Protezione interna”, e cioè del
trasferimento in un’altra parte dello Stato di origine, se è giudicato ragionevole
che il richiedente vi si trasferisca e vi si stabilisca (par. 1). Nella formulazione del
2011, l’art. 8 par. 1 è una norma dal carattere opzionale, lasciando la libertà di
scelta agli Stati Membri10. È da rilevare come il par. 2 del medesimo articolo,
10
Ivi, p. 140
60
nella versione della direttiva del 2011, restringa le fonti di informazione «da fonti
pertinenti, quali l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e
l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo»; nella disciplina del 2004, gli Stati erano
tenuti a considerare in modo autonomo le «condizioni generali», senza avere la
necessità di consultare simili autorità internazionali.
Dall’art. 8 della Direttiva del 2011 è infine eliminato il par. 3 presente nella
norma del 2004, il quale prevedeva la possibilità per gli Stati di applicare il
concetto di protezione interna, "nonostante ostacoli tecnici al ritorno nel Paese di
origine"11.
Il Capo III inerisce ai requisiti specifici perché sia accordato lo status di
rifugiato. L’art. 9 precisa che gli atti di persecuzione devono essere di grave
portata (par. 1) e successivamente include un’ampia serie di atti o azioni posti in
essere da parte dello Stato, anche se tale elenco non appare tassativo. Si giunge al
punto da includere, alla lettera (e) del par. 2, sanzioni penali se il richiedente si
rifiuta di prestare servizio militare, laddove questo avrebbe portato a compiere i
“crimini contro la pace” o crimini comuni. L’art. 10 completa il precedente,
elencando i motivi della persecuzione o del danno grave che possono dar luogo
alla concessione dello status di rifugiato, che sono la razza, la nazionalità, la
religione, la fede politica e l’appartenenza a un gruppo sociale. Rispetto alla
direttiva del 2004, le norme del 2011 innovano nel riconoscere il genere e
l’orientamento sessuale come fattore passibile di autonoma qualificazione di
persecuzione12: il Considerando (30) specifica che per «gruppo sociale» è
necessario tenere conto delle tradizioni di origine del richiedente.
Gli artt. 11 e 12, in entrambe le direttive, si occupano dei limiti interni ai
criteri per la concessione dello status di rifugiato, e cioè le cause di cessazione
11
Alessandro Fiorini, Asilo - Il Parlamento europeo approva la nuova Direttiva Qualifiche,
Melting Pot, 4 novembre 2011, http://www.meltingpot.org/Asilo-Il-Parlamento-europeo-approvala-nuova-Direttiva.html#.U0ZEaah_vDU, link consultato in data giovedì 10 aprile 2014 09.13.23
12
Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit, p. 141
61
(art. 11) e di esclusione (art. 12) dello status.
L’art. 11, par. 1 prevede che cessi lo status di rifugiato qualora intervengano
mutamenti di cittadinanza tali da porre in carico allo Stato di origine o a un nuovo
Stato l’obbligo di protezione o siano venute meno le condizioni di cui agli articoli
precedenti che avevano giustificato la precedente concessione dello status di
rifugiato. A tutela della condizione dei rifugiati, il par. 2 prevede che gli Stati
verifichino che il mutamento delle circostanze non sia meramente temporaneo. La
direttiva 2011/95/CE inserisce al nuovo par. 3 un ulteriore requisito perché cessi
la condizione di rifugiato: la novazione esclude che il criterio del mutamento delle
circostanze si possa applicare in caso che le persecuzioni siano particolarmente
gravi.
L’art. 12 tratta invece dei casi di esclusione dalla concessione dello status di
rifugiato dall’origine, che intercorre anche qualora i requisiti previsti dagli artt. 9,
10 e 11 siano soddisfatti. Il par. 1, lett. (a) rinvia alla Convenzione di Ginevra,
escludendo dalla protezione da parte di uno Stato Membro coloro che sono già
sotto la protezione di un’organizzazione o di un’istituzione delle Nazioni Unite
che non sia l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, mentre la
successiva lettera (b) prevede che sia escluso chi ha ottenuto la cittadinanza o
13
status analogo da parte dello Stato di destinazione . Infine, i paragrafi 2 e 3
escludono gli indesiderabili: coloro riconosciuti colpevoli di crimini «contro la
pace» o
«contro l’umanità», coloro che si siano resi colpevoli di crimini
«comuni» di particolare gravità, anche se per scopo politico e coloro che si siano
resi responsabili di atti – non necessariamente criminosi – contrari agli scopi
dichiaratamente perseguiti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite14.
Il Capo V disciplina i requisiti per l’attribuzione di uno status aggiuntivo,
chiamato “Protezione Sussidiaria”, collegata alla possibilità del verificarsi di un
13
14
Cfr. art. 1E Convenzione di Ginevra
Cfr. art.. 1F della Convenzione di Ginevra
62
“danno grave”, descritto all’art. 15 di entrambe le direttive. Come per la
protezione di cui al Capo III, essa cessa in caso di un mutamento stabile e
significativo delle circostanze (art. 16, par. 2), e viene completamente esclusa nel
caso in cui il richiedente abbia commesso (art. 17, par. 1) o istigato o altrimenti
concorso alla commissione (par. 2) di un crimine contro la pace o contro
l’umanità (par. 1, lett. a), di un «reato grave» (lett. b), la cui determinazione è
lasciata allo Stato di destinazione o di atti contrari alle finalità dell’ONU (lett. c),
per come individuati ai sensi dell’art. 12, o sia un pericolo per la sicurezza dello
Stato che ospita il richiedente (lett. d).
Infine, al Capo VII (artt. 20-37), la protezione internazionale è
dettagliatamente descritta in ciò che essa comporta.
L’art. 20 ai paragrafi 3 e 5, dopo aver precisato che i benefici elencati sono
da intendersi per tutti i tipi di protezione ove non diversamente specificato,
stabilisce i criteri generali di scelta: valutazione individuale, attenzione alle
numerose categorie disagiate o particolarmente vulnerabili (par. 3) e soprattutto
l’interesse prevalente del minore (par. 5).
Come primo contenuto di diritti del Capo VII viene in rilievo il principio del
non respingimento in conformità degli obblighi internazionali in capo agli Stati
Membri (art. 21, par. 1). Tale principio è ripreso direttamente dalla Convenzione
di Ginevra del 1951, e si collega con l’art. 3 CEDU, che vieta la tortura e i
trattamenti inumani. Sebbene tale articolo fosse stato deciso in riferimento alla
situazione interna delle parti contraenti, una costante e sistematica giurisprudenza
della Corte Europea e, a partire dagli anni Duemila, anche della Corte di Giustizia
ha esteso la sua portata anche al divieto per gli Stati di rimpatriare persone
cittadine o abitualmente residenti all’interno di Stati dove le torture e i trattamenti
inumani sono un concreto e reale rischio. Tuttavia, quando l’art. 21, par. 1 non
imponga altrimenti, il par. 2 consente l’espulsione e, ai sensi del par. 3, la revoca
o la cessazione dello status, per coloro che siano di pericolo per la sicurezza dello
Stato o che si siano resi colpevoli di reati «di particolare gravità», lasciando agli
63
Stati la libertà di scelta in merito ai requisiti di tali reati.
Unitamente alla rilevanza dell’art. 3 CEDU, le due direttive riconoscono
l’importanza dell’unità del nucleo familiare, stabilita in origine dall’art. 8 CEDU
ed espressamente tutelata anche dall’art. 23, il quale rimanda alle normative e alle
procedure in materia di ricongiungimento familiare. Al par. 2. l’articolo stabilisce
l’obbligo per gli Stati Membri di riconoscere ai familiari i medesimi diritti
accordati al rifugiato (par. 2, primo capoverso), mentre resta aperta la possibilità
di accordare o meno tale eguaglianza ai familiari di chi gode della protezione
sussidiaria (par. 2, secondo capoverso). I benefici possono essere ulteriormente
estesi ai congiunti (par. 5), come anche revocati per motivi di sicurezza e ordine
pubblico (par. 4).
Per effetto delle disposizioni di cui all’art. 22, gli Stati Membri mettono a
disposizione dei richiedenti informazioni appropriate e in una lingua a loro
comprensibile.
Gli artt. 24-34 (direttiva 2011) consistono nel catalogo dei diritti accordati ai
beneficiari della condizion di protezione internazionale e, ai sensi dell’art. 23,
eventualmente ai loro familiari e congiunti. Essi consistono nel permesso di
soggiorno, che nel 201115 è stata estesa alla durata minima di due anni (art. 24),
nella concessione di passaporto o documenti di viaggio (art. 25) senza che, come
nel 2004, debbano esistere gravi ragioni umanitarie che rendano necessaria la
presenza dei rifugiati genericamente intesi in un altro Stato16, rendendo così
possibile un’ampia capacità di movimento, nell’accesso all’occupazione a pari
condizioni con tutte le altre persone legalmente residenti nel territorio (art. 26),
nell’accesso all’istruzione per tutti i minori a pari condizioni con tutti i minori
(art. 27.1) e per gli adulti a pari condizioni con gli immigrati cittadini di Stati terzi
legalmente residenti (art. 27.2), nel riconoscimento delle eventuali qualifiche
15
16
Fiorini, Asilo - Il Parlamento europeo approva la nuova Direttiva Qualifiche, cit.
Ibidem
64
professionali (art. 28 direttiva 2011/95/CE), nel godimento dell’assistenza sociale
(art. 29 direttiva 2011/95/CE, art. 28 direttiva 2004/83/CE) e sanitaria (art. 30
direttiva 2011, art. 29 direttiva 2004), nella protezione efficace dei minori non
accompagnati (art. 31 direttiva 2011, art. 30 direttiva 2004), nell’accesso
all’alloggio (art. 32 direttiva 2011, art. 31 direttiva 2004), nella libera circolazione
nello Stato ospite a pari condizioni con gli immigrati regolari extra-UE (art. 33
direttiva 2011, art. 32 direttiva 2004) e nell’accesso agli strumenti di
«integrazione» (art. 34 direttiva 2011, art. 33 direttiva 2004) .
In ultimo, l’art. 35, precedentemente art. 34, consente agli Stati Membri di
assistere il beneficiario che desideri rimpatriare.
I rimanenti Capi VIII e IX, concernenti la Cooperazione amministrativa e le
Disposizioni finali, stabiliscono la necessità di un punto di contatto a livello
nazionale e dell’opportuna formazione tecnica del personale amministrativo
addetto.
Ufficio Europeo per il Sostegno dell’Asilo
L’Ufficio Europeo per il Sostegno dell’Asilo è un’Agenzia dell’Unione
Europea, istituita nel 2010 ed effettivamente operante dal 2011 in Malta, con lo
scopo di rafforzare la cooperazione pratica tra gli Stati Membri, sostenere gli Stati
Membri sotto pressione particolare e di migliorare l’attuazione del Sistema
Europeo Comune per l’Asilo. L’Ufficio è stato istituito con il Regolamento (UE)
N. 439/2010 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 maggio 2010, che
istituisce l'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo. La forma giuridica prescelta è
quella dell’Agenzia UE perché, come notato al Considerando n. 8, è stato
giudicato opportuno che l’Ufficio di sostegno sia indipendente per quanto
riguarda le questioni tecniche e possieda autonomia giuridica, amministrativa e
finanziaria.
In particolare, l’Ufficio è preposto alla raccolta di informazioni sugli Stati di
65
origine delle persone richiedenti asilo o protezione internazionale; ciò include
l’analisi dei dati sugli arrivi di massa di individui sprovvisti della cittadinanza
comunitaria che possono sottoporre uno Stato Membro a pressioni particolari.
Per quanto invece attiene all’implementazione del C.E.A.S. (Common
European Asylum System), l’Ufficio è focalizzato sul coordinamento dello
scambio di informazioni tra gli stakeholders coinvolti nell’implementazione del
sistema stesso. A questo proposito, l’Ufficio può istituire database appositi. Infine,
su richiesta dello Stato Membro sotto particolare pressione, l’Ufficio può
distaccare delle squadre per l’assistenza tecnica (art. 2, parr. 2 e 3), garantendo
che al tempo stesso che i sistemi di asilo e accoglienza non siano oggetto d'abuso
(Considerando n. 7), o addirittura procedere alla ricollocazione del beneficiario
della protezione internazionale da uno Stato Membro sottoposto a particolare
pressione a un altro Stato Membro, sia pure con il consenso di tutti gli attori
coinvolti, nonché, se del caso, in consultazione con l'UNHCR (art. 5).
A riguardo dei poteri riconosciuti in capo all’Ufficio, esso può coordinare le
risorse degli Stati Membri (art. 2, par. 2), presta assistenza tecnica anche per la
legislazione UE in materia di asilo (art. 2, par. 3), ma non ha alcun potere in
relazione al processo decisionale delle autorità degli Stati membri responsabili per
l’asilo per quanto riguarda le singole domande di protezione internazionale (art. 2,
par. 4). L’assistenza tecnica si concreta anche, secondo l’art. 6, nell’attività di
formazione destinata ai membri delle amministrazioni nazionali responsabili in
materia di asilo negli Stati membri, in stretta cooperazione con le autorità degli
Stati membri, appoggiandosi anche ad organizzazioni «pertinenti». Ovviamente, il
curriculum di formazione mira a sviluppare una maggiore consapevolezza dei
«diritti umani internazionali» ed è, piuttosto logicamente, mirato a sviluppare una
sempre maggiore convergenza delle prassi e delle decisioni amministrative.
Su richiesta degli Stati membri interessati, l'Ufficio di sostegno coordina le
azioni di sostegno agli Stati membri sottoposti a una particolare pressione.
Secondo l’art. 10 tale sostegno consiste nel coordinamento nelle azioni per
66
facilitare le azioni di esame delle domande di asilo (lett. a), le squadre di
assistenza tecnica (lett. c) e in genere ogni azione necessaria ad assicurare
l’assistenza ai richiedenti asilo. È da rilevare come tale art. 10, cui si collega
l’attività di raccolta informativa di cui all’art. 9, consiste in una ulteriore
espropriazione delle attività di regolamentazione dell’accesso al territorio
nazionale
in
capo
agli
Stati
Membri,
a
favore
di
un’organismo
programmaticamente a favore di una politica di accesso estremamente attenta ai
diritti umani dei richiedenti asilo.
Ai sensi dell’art. 8 par. 2 della Direttiva Requisiti Asilo 2011, inoltre,
l’Ufficio è, assieme all’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, la sola fonte
deputata a raccogliere informazioni sugli Stati di origine delle persone che
presentano domanda di asilo o di protezione internazionale, avvalendosi di «ogni
fonte pertinente», comprese le «organizzazioni non governative e da
organizzazioni internazionali», nonché da istituzioni e organismi dell'Unione (art.
4, par. introduttivo). Questo tipo di fonte, a cui si aggiungono anche le
“organizzazioni governative”, garantisce che la situazione dei diritti umani sia
sempre interpretata secondo parametri strettamente occidentali e molto severi.
L’ambito informativo si estende anche, ai sensi dell’art. 7, alla «dimensione
esterna» del sistema d’asilo, attinente agli Stati di reinsediamento.
Il Capo 3 disciplina in modo specifico i vari tipi di assistenza, dal
coordinamento degli aiuti (art. 13), alle squadre di assistenza tecnica (art. 14), alla
costituzione di un gruppo d'intervento in materia di asilo (art. 15); l’assistenza
viene fornita sulla base dell’elaborazione di un piano operativo, di cui all’art. 18, a
seguito di una procedura descritta all’art. 17, che consiste soprattutto nella
comunicazione scritta e formale da parte dei vari membri, su decisione ultima del
Direttore Esecutivo. Il piano operativo deve comprendere una descrizione della
situazione, degli obiettivi operativi, la durata prevista, l’area geografica di
destinazione,
le
istruzioni
specifiche
in
merito
alle
banche
dati
e
all’equipaggiamento, nonché la composizione richiesta delle squadre stesse. Tali
67
squadre, quando sono a destinazione, si interfacciano con il «Referente nazionale»
(art. 19) e vengono coordinate dal «Referente dell’Unione» (art. 20). Il regime di
responsabilità civile (art. 21) e penale (art. 22) è analogo a quello nazionale di
destinazione, fatti salvi la negligenza grave o il dolo.
Gli artt. 50, 51 e 52 trattano della rilevante questione delle cooperazioni con
altri organismi. Il partner privilegiato della cooperazione è senza dubbio l’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), con il quale sono
previsti non solo accordi operativi (art. 50, par. 1), ma anche l’accessibilità a
risorse finanziarie per coprire spese dell'UNHCR per attività non previste nei
medesimi accordi (art. 50, par. 2). Il forum consultivo di cui all’art. 51 è
finalizzato a creare una camera di scambio con la «società civile», vale a dire con
le organizzazioni coinvolte nelle materie di asilo. Il par. 3 specifica che l'UNHCR
è membro di diritto del Forum. In ultimo, all'art. 52, viene prevista – e solo
prevista – la possibilità di stringere accordi con gli altri organismi dell’Unione
Europea, quali FRONTEX, l’Agenzia per i Diritti Fondamentali e con
organizzazioni internazionali nei settori disciplinati dal regolamento.
Criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per
l'esame di una domanda d'asilo
Non sempre l’immigrato che può richiedere asilo presenta la domanda allo
Stato Membro competente per territorio, a seconda del suo punto di ingresso
nell’Unione Europea. A tal fine, il Sistema di Dublino rappresenta il meccasimo
tramite il quale lo Stato responsabile per la domanda di asilo dello straniero è
identificato all’interno degli Stati Membri UE, della Norvegia, dell’Islanda e della
Svizzera. L’obiettivo del Sistema Dublino è quello di eliminare le richieste di
asilo multiple in più Stati Membri, e al tempo stesso quello di evitare l’incertezza
su chi debba decidere su una domanda di asilo.
Il 15 giugno 1990 è stata fermata la Convenzione di Dublino, per i primi
68
dodici firmatari (Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia,
Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito), il 1 ottobre 1997
per Austria e Svezia, e il 1 gennaio 1998 per la Finlandia. Recentemente, il
sistema è stato esteso anche ad alcuni paesi al di fuori dell’Unione, come
la Svizzera.
Il cosiddetto Regolamento Dublino II – Regolamento del Consiglio (CE) n.
343/2003 del 18 febbraio 2003 – è stato adottato per superare la Convenzione di
Dublino e per assorbire la materia nell’ambito dell’allora esistente “Primo
Pilastro” a competenza comunitaria. Tale Regolamento definisce i gruppi di criteri
che determinano lo Stato Membro responsabile; i legami famigliari sono uno di
questi criteri, così come l’eventuale possesso di un permesso di soggiorno o di un
visto di ingresso, così come l’eventuale ingresso illegale in uno degli Stati
Membri. Il Regolamento Dublino II si collega al sistema EURODAC di
memorizzazione delle impronte digitali in ambito UE a cui gli Stati Membri
obbligatoriamente debbono inviare i dati relativi ai richiedenti asilo, e alla
Direttiva Ricongiungimenti Familiari, per quanto attiene l’eventualità che
familiari o parenti del richiedente siano residenti in modo legale in un altro Stato
Membro.
Il nuovo Regolamento Dublino III 604/2013 è entrato in vigore il 19 luglio
2013; tuttavia, la sua applicazione è cominciata solo a partire dal 1° gennaio 2014.
Inoltre, l’ambito di applicazione del Regolamento Dublino va oltre l’estensione
dell’Unione Europea, in quanto ne sono vincolati, oltre ai 28 Stati Membri UE,
anche Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein, in forza degli accordi di
associazione. L’ambito di applicazione si riferisce, come da intestazione, ai
cittadini di Paesi Terzi o apolidi17.
Dopo aver dettagliato il significato delle definizioni utilizzate all’art. 2, l’art.
3 del Regolamento chiarisce al par. 1 che gli Stati Membri sono obbligati ad
17
Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit, p. 122
69
esaminare qualsiasi domanda di protezione internazionale che venga loro
presentata in conformità ai criteri che ne stabiliscono la competenza, di cui al
Capo III. Qualora lo Stato Membro competente non possa essere identificato, ad
essere responsabile è il primo Stato Membro in cui viene presentata la domanda;
tuttavia, esiste la possibilità che, se lo Stato Membro riconosciuto come
competente presenta caratteristiche nel trattamento tali da implicare il rischio di
trattamenti inumani o degradanti, lo Stato che ha iniziato la procedura può
controllare se esiste un altro Stato Membro che sia competente. Qualora non esista
un simile Stato Membro, lo Stato Membro che ha iniziato l’esame diventa lo Stato
Membro competente (art. 3, par. 2).
Il paragrafo 3.2 Dublino III innova sostanzialmente dalla precedente
disciplina del Regolamento Dublino II, la quale prevedeva la mera possibilità per
lo Stato Membro non competente, senza riferimento ai trattamenti inumani o
degradanti, di farsi carico della domanda di asilo. L’innovazione sembra
rispondere a sentenze sia nazionali, sia della Corte di Giustizia, come i
procedimenti C-411/10 e C-493/10 N.S. ed altri; inoltre, anche l’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha più volte emesso
raccomandazioni di non trasferire i richiedenti asilo negli Stati competenti a causa
18
di “fallimenti” nella gestione dei rifugiati in relazione ai loro diritti .
Tale clausola di Dublino II era una clausola di sovranità19, e non di tutela
dei diritti umani, come invece è in Dublino III.
18
UNHCR, UNHCR comments on the European Commission’s Proposal for a recast of the
Regulation of the European Parliament and of the Council establishing the criteria and
mechanisms for determining the Member State responsible for examining an application for
international protection lodged in one of the Member States by a third country national or a
stateless person (“Dublin II”) (COM(2008) 820, 3 December 2008) and the European
Commission’s Proposal for a recast of the Regulation of the European Parliament and of the
Council concerning the establishment of ‘Eurodac’ for the comparison of fingerprints for the
effective application of [the Dublin II Regulation] (COM(2008) 825, 3 December 2008), p. 2
19
Fulvio Vassallo Paleologo, L’Italia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo - Riflessioni a
margine della sentenza del Tribunale amministrativo di Francoforte: le condizioni dei richiedenti
asilo in Italia, 7 ottobre 2013 in Magistratura Democratica, Questione Giustizia, Osservatorio
Internazionale, p. 1
70
L’art. 4 Dublino III è dedicato allla procedura di informazione, per la quale
si prevedono diritti di trattamento dei dati personali del tutto analoghi a quelli
previsti per i consumatori in ambito UE (art. 4, par. 1, lett. e, f). L’informazione è
comunicata in modo che sia ragionevolmente comprensibile al richiedente asilo, e
anche in via orale se necessario (art. 4, par. 2). L’art. 4 Dublino III ripropone con
piccoli aggiustamenti l’art. 3, par. 4, Dublino II.
L’art. 5 introduce l’obbligo di effettuare un colloquio personale in vista del
trasferimento del richiedente nello Stato Membro di competenza, a meno che non
sopravvenga l’impossibilità pratica in caso di fuga o che il richiedente abbia già
fornito le informazioni richieste. Il colloquio deve essere condotto da una persona
qualificata secondo la normativa nazionale.
L'interesse superiore del minore, soprattutto non accompagnato, deve essere
secondo l’art. 6 di Dublino III un criterio fondamentale nell'attuazione delle
procedure. Viene introdotta la figura del Rappresentante del minore non
accompagnato, che ha accesso ai documenti. Mentre nel corrispondente art. 6
Dublino II la scelta era da compiersi in ordine al ricongiungimento familiare, in
base al quale lo Stato competente era quello ove si trovavano legalmente i
famigliari dello stesso e in mancanza di questi lo Stato di esame, ora vengono in
rilievo anche l'interesse superiore, il benessere e lo “sviluppo sociale”, le
considerazioni di sicurezza e, ultimo, l'opinione del minore.
Il Capo III è dedicato all’illustrazione dei criteri per determinare lo Stato
membro competente. Tale Capo è strutturato in tre grandi blocchi: art. 7, artt. 8-11
e artt. 12-15.
L’art. 7 elenca la gerarchia dei criteri20, carattere mantenuto dal precedente
Dublino II: l’analisi deve essere fatta con riferimento alla situazione esistente al
momento in cui il richiedente ha presentato domanda di protezione internazionale
per la prima volta in uno Stato membro (art. 7, par. 2). In linea generale, lo Stato
20
Pizzolante, Asilo e altre forme di protezione, cit, p. 122
71
competente è lo Stato di primo arrivo o di ingresso nell’UE (art. 13). La concreta
formulazione della gerarchia pone in primissimo piano la tutela degli interessi dei
minori, e in netto subordine considerazioni oggettive e meno attinenti alla realtà
soggettiva del richiedente asilo.
Il secondo blocco di articoli del Capo dei criteri è relativo al minore non
accompagnato e, in genere, alla situazione familiare per l’individuazione dello
Stato Membro competente a prendere in carico l’esame della domanda di asilo.
In caso di minore non accompagnato (art. 8), è competente lo Stato dove si
trova legalmente il padre, la madre, o un altro adulto legalmente responsabile.
L’art. 8, par. 3 disciplina il caso in cui i famigliari di cui ai precedenti due
paragrafi soggiornino in più di uno Stato Membro; in tale situazione lo Stato
Membro competente (e quindi di invio) è determinato sulla scorta dell’interesse
superiore. In mancanza di parenti, lo Stato Membro competente è quello di
presentazione della domanda (art. 8, par. 4). Inoltre, se un familiare del
richiedente è stato autorizzato a soggiornare in qualità di beneficiario di
protezione internazionale in uno Stato membro (art. 9) o ha presentato domanda in
un altro Stato Membro (art. 10), tale Stato membro è competente, purché gli
interessati lo desiderino; in entrambi i Regolamenti, non è necessario che fossero
familiari anche nel Paese d’origine.
In caso di domande di più familiari, presentate simultaneamente o in modo
tra loro ravvicinato (art. 11), è competente per l'esame delle domande di tutti i
familiari o fratelli minori non coniugati lo Stato che sarebbe competente per la
maggior parte di esse o, in mancanza, quello competente per l'esame della
domanda del richiedente più anziano.
Infine, il terzo tipo di criteri del Capo III attiene principalmente ai requisiti
non collegati alla situazione personale del richiedente. L’articolo che viene in
rilievo è l’art. 13, che d etta le condizioni generali: salvo eccezioni, lo Stato
Membro competente è lo Stato Membro in cui si può comprovare l’ingresso.
Il Capo IV (artt. 16 e 17) disciplina il caso delle persone a carico del
72
richiedente, che vengono trattate congiuntamente (art. 16, par.1) o se già presenti
nell’UE vengono riunite (art. 16, par. 2) al richiedente medesimo, a condizione
che il legame esistesse anche nel Paese d’origine, e che tale richiedente sia
effettivamente in grado di assistere dette persone a carico; l’art. 17, par. 1 riprende
parzialmente l’art. 3, par. 2 del regolamento Dublino II, sebbene solo in deroga.
Il Capo V ripartisce gli obblighi e le competenze; fatte salve le disposizioni
precedenti, le competenze vengono trasferite secondo l’art. 19: se uno Stato ha già
rilasciato un permesso di soggiorno al richiedente, diviene competente anche per
la richiesta di asilo (par. 1); le competenze cessano se il richiedente si è
dimostrabilmente allontanato per almeno tre mesi, a meno che egli non possegga
un permesso di soggiorno rilasciato per altri motivi in corso di validità (par. 2) o
se, infine, il richiedente è stato fatto oggetto di decisione di rimpatrio e ha lasciato
il territorio degli Stati Membri (par. 3).
Rispetto alla Direttiva Requisiti o alla Direttiva Rimpatri, le premesse per il
trattenimento in vista del trasferimento (disciplinato nel complesso dal Capo V,
Sezione VI) sono ancora più restrittive: il “trattenimento” è autorizzato solo se
esiste un “notevole” rischio si fuga e solo in rispetto dell’onnipresente principio di
proporzionalità e di scelta di misure meno coercitive (art. 28, par. 2) e deve durare
il minimo necessario (art. 28, par. 3). Gli artt. 31 e 32 disciplinano l’insieme dello
scambio di informazioni da attuarsi tra Stati Membri, da intendersi principalmente
nell’interesse dell’immigrato richiedente asilo, comprendendo le informazioni
sanitarie e poco altro. Ulteriori scambi informazioni, la cui disciplina è all’art. 34
(Capo VII) e all’art. 38 (Capo IX), sono sottoposti a un regime particolarmente
restrittivo, che mira a tutelare la “riservatezza” dell’immigrato. L’art. 33 si collega
all’eventualità di particolare pressione immigratoria, prevedendo che lo Stato
Membro sottoposto alla prevista pressione particolare rediga un piano d’azione
preventivo e si rivolga all’EASO.
Valutazioni del Regolamento Dublino III
73
Il principio generale alla base del Regolamento Dublino III è lo stesso della
Convenzione di Dublino del 1990 e di Dublino II: ogni domanda di asilo deve
essere esaminata da un solo Stato membro e la competenza per l’esame di una
domanda di protezione internazionale ricade in primis sullo Stato che ha svolto il
maggior ruolo in relazione all’ingresso e al soggiorno del richiedente nel territorio
degli Stati membri, salvo eccezioni.
In linea generale, l’unità familiare – quanto meno quella di arrivo – è
tutelata in tutte le parti del Regolamento, e sono previste facilitazioni anche per i
ricongiungimenti familiari scaglionati nel tempo.
La novità più rilevante appare essere lo spostamento del focus del
summenzionato art. 3, par. 2: nel regolamento Dublino II la decisione dello Stato
di inizio esame di avocare a sé la domanda di asilo era una decisione sovrana,
suscettibile di essere utilizzata anche a sostegno di scopi distinti dalla protezione
dei diritti umani; nella rifusione del regolamento Dublino III, il medesimo articolo
attua un rovesciamento di prospettive, poiché lo Stato Membro perde anche questa
– ridotta – aliquota di sovranità in materia immigratoria e di asilo, e le eccezioni al
meccanismo si limitano al mero contrasto di trattamenti giudicati inumani e
degradanti e, perciò, in contrasto con l’art. 3 CEDU e con le analoghe previsioni
di altri strumenti convenzionali.
La competenza è individuata attraverso i criteri del regolamento, che
secondo alcuni autori lasciano uno spazio ridotto alle preferenze dei singoli21. I
problemi che tali autori individuano attengono all’intero concetto del sistema di
Dublino, più che a quest’ultima rifusione di norme, che anzi viene vista solo come
un leggero miglioramento. Il punto considerato maggiormente critico è quello
della ridotta mobilità riconosciuta al rifugiato che ottiene la protezione
internazionale; questa ridotta mobilità internazionale è deplorata in un’ottica che
21
Alessandro Fiorini, Asilo in Europa – Il Regolamento Dublino III articolo per articolo, Melting
Pot, 25 luglio 2013, http://www.meltingpot.org/Asilo-in-Europa-Il-Regolamento-Dublino-IIIarticolo-per.html#.U0ua5Fdf_zp, link consultato in data giovedì 14 aprile 2014
74
persegue dichiaratamente il melting pot.
Secondo la valutazione dell’UNHCR a proposito della Comunicazione
COM(2008), 3 dicembre 2008 della Commissione Europea, con cui si avanzavano
proposte per il recast di Dublino II, il meccanismo del Sistema di Dublino
presuppone una generale equivalenza tra i contenuti della protezione
internazionale, giustificando una sorta di “mutuo riconoscimento”; a parere
dell’Alto Commissariato, tuttavia, tale equivalenza non vi sarebbe22. Il
Regolamento Dublino III in parte si sottrae alle criticità rilevate dall’Alto
Ciommissariato, tramite il novellato art. 3.2, che impedisce agli Stati Membri di
trasferire i richiedenti verso gli Stati che presentano “fallimenti” nel rispetto dei
diritti. Inoltre, l’estensione del sistema di Dublino alle “zone di transito” è vista
con favore dall’AC in modo da assicurare una più completa copertura dell’esame
delle
richieste
individuali
rispetto
alla
precedente
disciplina23;
l’Alto
Commissariato esprime altresì la sua approvazione per la tutela dei minori, sia
accompagnati che no24, e per la riformulazione della gerarchia dei criteri, che
25
ulteriormente consolida la protezione minorile .
La prevenzione di trattamenti inumani o degradanti inerenti o conseguenti
all’applicazione del Regolamento Dublino II: Sentenza N.S. ed altri
Le modifiche maggiormente significative apportate al sistema di Dublino da
parte del Regolamento Dublino III attengono, oltre che all’aumentata tutela del
minore extracomunitario richiedente protezione internazionale o sussidiaria, anche
e forse soprattutto al meccanismo che viene instaurato tra Stati Membri per evitare
trasferimenti coatti in Stati dove è ritenuta esservi una situazione di trattamento
22
UNHCR, UNHCR comments on the European Commission’s Proposal for a recast of the
Dublin Regulation, cit., p. 2
23
Ivi, p. 3
24
25
Ivi, p. 5
Ivi, p. 6
75
delle richieste di asilo caratterizzata dai surricordati fallimenti in materia di diritti
umani, con particolare riguardo al rispetto dell’art. 3 CEDU e analoghe
disposizioni, tra cui l’art. 4 della Carta dei Diritti Fondamentali UE, negli Stati
Membri dell’Unione Europea.
Tale importante cambiamento, che ha eliminato di fatto la clausola di
sovranità di cui al precedente art. 3.2, è stato dettato, a parere di alcuni autori26, da
alcune sentenze nazionali e della CGUE, nonché, secondo lo stesso Alto
Commissariato, dagli inviti che esso rivolgeva agli Stati a non attuare il
trasferimento verso i summenzionati Paesi.
Di particolare rilievo è la decisione sui casi riuniti C-411/10 e C-493/10,
N.S. e altri c. Secretary of State for the Home Department. La sentenza resa è una
pronuncia pregiudiziale sul citato art. 3.2 del Regolameno 343/03, sui diritti
fondamentali dell’Unione europea, per enunciati agli artt. 1, 4, 18, 19. 2, e 47
della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea e, infine, sul Protocollo
n.30 sull’applicazione della Carta in Polonia e nel Regno Unito. Tali pronunce
pregiudiziali sono state sollecitate nell’ambito di una serie di controversie tra i
richiedenti asilo, da rinviare in Grecia, e le autorità del Regno Unito e
dell’Irlanda. Con questa sentenza, la Corte chiarisce come la definizione dell’art.
3, par. 2 come una «clausola di sovranità» sia impropria, in quanto essa è
pienamente soggetta al diritto dell’Unione e agli obblighi che ne derivano.
CAUSA C-411/10: N.S. C. SECRETARY OF STATE
Il signor N.S., ricorrente del procedimento C-411/10, è un cittadino afgano
arrivato nel Regno Unito transitando, in particolare, per la Grecia. In tale Stato
N.S. fu sottoposto a una misura di arresto il 24 settembre 2008, ma non presentò
domanda di asilo in Grecia27. Secondo N.S. al momento del rilascio le autorità
26
27
Vassallo Paleologo, L’Italia non è un Paese sicuro per i richiedenti asilo, cit., p. 1
Sentenza N.S. e altri, par. 34
76
greche gli intimarono di lasciare il territorio greco entro 30 giorni. Egli sostenne
anche che, mentre cercava di lasciare la Grecia, egli sarebbe stato arrestato dalla
polizia e respinto in Turchia, dove sarebbe stato detenuto. Sarebbe indi evaso dal
suo luogo di detenzione in Turchia e, a partire da tale Stato, sarebbe arrivato nel
Regno Unito, il 12 gennaio 2009, presentandovi il giorno stesso domanda di
asilo28. Il 1º aprile 2009 il Secretary of State for the Home Department chiedeva
alla Repubblica ellenica, in base a quanto previsto dall’art. 17 del regolamento n.
343/2003, di prendere in carico il N.S. per l’esame della sua domanda di asilo. La
Repubblica ellenica non rispondeva cosicché, ai sensi dell’art. 18 del regolamento
il suo silenzio veniva equiparato al riconoscimento29. Il N.S. era quindi informato
il 30 luglio 2009 che sarebbe stato trasferito in Grecia il 6 agosto 2009. Egli
denunciava che il suo trasferimento in Grecia era in contrasto con la CEDU, ma il
31 luglio la denuncia veniva valutata infondata ai sensi della normativa del Regno
Unito del 2004 sull’asilo. Pertanto al N.S. era negata la possibilità di opporre
ricorso con effetto sospensivo. Il N.S. chiedeva all’autorità competente di
assumere la competenza in forza della clausola di Sovranità di cui all’art. 3, par. 2,
sostenendo che un suo rinvio in Grecia comprometteva i suoi diritti
fondamentali30. Il 4 agosto 2009, il Secretary of State confermava le decisioni già
prese.
Il 6 agosto 2009, il N.S. chiedeva di presentare ricorso giurisdizionale
contro le decisioni del Secretary of State. Quest’ultimo annullava, di conseguenza,
le disposizioni impartite per il suo trasferimento.
Il ricorso veniva esaminato dalla High Court of Justice (England & Wales),
Queen’s Bench Division (Administrative Court), dal 24 al 26 febbraio 2010. Con
sentenza 31 marzo 2010 il giudice Cranston lo respingeva, ma autorizzava il
ricorrente nel procedimento principale a proporre l’appello alla Court of Appeal
28
29
30
Ivi, par. 35
Ivi, par. 36
Ivi, par. 40
77
(England & Wales) (Civil Division).
La High Court of Justice affermava che le procedure di asilo in Grecia
presenterebbero gravi carenze; i richiedenti incontrerebbero numerose difficoltà
per adempiere le formalità necessarie, non riceverebbero informazioni e assistenza
sufficienti e le loro domande non sarebbero esaminate con attenzione. Inoltre,
come ulteriore elemento di “violazione” dei diritti umani, si presenterebbe il fatto
che i casi di concessione di asilo in Grecia sarebbero rarissimi: un reasoning di tal
segno implica la considerazione della concessione dell’asilo come un diritto
fondamentale. Tuttavia, la medesima High Court of Justice considerava che i
rischi di respingimento dalla Grecia verso l’Afghanistan e la Turchia non sono
dimostrati per quanto riguarda le persone rinviate ai sensi del regolamento n.
343/2003. Inoltre, la High Court of Justice affermava che che il Secretary of State
aveva l’obbligo di prendere in considerazione i diritti fondamentali dell’Unione
allorché esercita potere discrezionale che gli attribuisce l’art. 3, n. 2, del
regolamento n. 343/2003 in quanto ambito di applicazione del diritto
31
dell’Unione .
Il Secretary of State sosteneva che l’economia del regolamento Dublino II
gli conferiva la facoltà di muovere dalla presunzione assoluta che la Grecia (o
qualunque altro Stato membro) adempia gli obblighi ad essa imposti dal diritto
dell’Unione32.
La Court of Appeal stabiliva la necessità di un rinvio pregiudiziale su sette
quesiti:
1) Se la decisione adottata da uno Stato membro ai sensi dell’art. 3, n. 2, del
regolamento n. 343/2003 rientri nell’ambito di applicazione del diritto
dell’Unione europea ai fini dell’attuale art. 6 TUE e/o dell’art. 51 della Carta;
2) Se, in caso di subordinazione dell’art. 3.2 di Dublino II, l’obbligo di uno Stato
31
32
Ivi, parr. 44-46
Ivi, par. 47
78
membro di osservare i diritti fondamentali dell’Unione europea sia assolto
allorché tale Stato invii il richiedente asilo nello Stato membro che l’art. 3, n.
1 di Dublino II designa come lo Stato competente, indipendentemente dalla
situazione in tale Stato competente;
3) In particolare, se l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali dell’Unione osti
all’applicazione di una presunzione assoluta nel senso che lo Stato competente
osserverà (i) i diritti fondamentali del richiedente asilo ai sensi del diritto
dell’Unione e/o (ii) le norme minime;
4) In subordine, se uno Stato membro sia obbligato dal diritto dell’Unione e, in
caso di soluzione affermativa, in quali circostanze, ad esercitare la facoltà
prevista all’art. 3, n. 2, del regolamento Dublino II
5) Se l’ambito della protezione attribuita dal diritto dell’Unione sia più ampio
della protezione attribuita dall’art. 3 CEDU;
6) Se sia compatibile con i diritti stabiliti all’art. 47 della Carta che una
disposizione di diritto nazionale imponga ad un organo giurisdizionale, al fine
di determinare se una persona possa essere legalmente espulsa verso un altro
Stato membro in conformità del regolamento [n. 343/2003], di considerare
detto Stato membro come uno Stato dal quale la persona non sarà inviata in un
altro Stato in violazione dei suoi diritti scaturenti dalla CEDU o dalla
Convenzione [di Ginevra] e dal Protocollo del 1967 (...);
7) Per la parte in cui le precedenti questioni concernono obblighi del Regno
Unito, se le soluzioni delle questioni debbano comunque tener conto del
Protocollo.
CAUSA C-493/10
La Causa C-493/10 concerne cinque ricorrenti, senza legami reciproci,
originari dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Algeria. Ciascuno di loro transitava per
il territorio greco e vi era stato arrestato per ingresso illegale. Essi
79
successivamente si recavano in Irlanda, dove chiedevano asilo. Il sistema
EURODAC confermava il precedente ingresso di tutti i cinque ricorrenti nel
territorio greco, ma che nessuno di loro vi aveva presentato domanda di asilo33.
Nessuno dei ricorrenti nel procedimento principale intendeva ritornare in
Grecia. A differenza del N.S., da parte dei ricorrenti della Causa C-493/10 non è
stato invocato il fatto che il loro trasferimento in Grecia violerebbe l’art. 3 della
CEDU o altre disposizioni della medesima convenzione. I ricorrenti si limitavano
a denunciare l’inadeguatezza delle condizioni elleniche e, quindi, l’obbligo delle
autorità irlandesi di esercitare le facoltà di cui all’art. 3.234. La High Court ha
perciò deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti
questioni pregiudiziali:
1) Se lo Stato membro che provvede al trasferimento ai sensi del regolamento
Dublino II ia tenuto ad accertare il rispetto, da parte dello Stato ricevente,
dell’art. 18 della Carta dei Diritti Fondamentali e delle direttive 2003/9,
2004/83 e 2005/85 nonché del regolamento Dublino II stesso;
2) In caso di soluzione affermativa, ove lo Stato membro ricevente risulti non
attenersi a una o più di tali disposizioni, se lo Stato membro che provvede al
trasferimento sia obbligato ad accettare la competenza ad esaminare la
domanda di cui all’art. 3, par. 2
OSSERVAZIONI PRESENTATE ALLA CORTE
Tra le osservazioni presentate, il Regno Unito sottolineava che il ricorso a
tale clausola non costituiva un’attuazione del diritto dell’Unione; il governo belga
rimarcava che l’esecuzione della decisione di trasferire il richiedente asilo
comporta l’attuazione del regolamento n. 343/2003 e, pertanto, rientra nell’ambito
di applicazione dell’art. 6 TUE e della Carta; infine, per il governo ceco il diritto
33
34
Ivi, par. 51
Ivi, par. 52
80
dell’Unione nell’ambito in esame si attivava solo in caso di effettivo esercizio
della clausola di sovranità35.
RAGIONAMENTO DELLA CORTE
La Corte decide di analizzare le questioni poste in quattro momenti:
dapprima analizza la prima domanda della Court of Appeal del caso N.S. c.
Secretary of State of Home Department; in seguito analizza le questioni seconda,
terza, quarta e sesta della C-411/10 e le due questioni della C-493/10; infine, in
due momenti successivi, analizza le questioni quinta e settima della C-411/10.
In prima battuta, la Corte di Giustizia esamina il diritto internazionale di
natura pattizia, non strettamente riguardante l’Unione Europea, ma riguardante gli
Stati Membri; in particolare, viene sotto esame la Convenzione di Ginevra sui
rifugiati36; in particolare è posto in rilievo che tutti gli Stati Membri parte del
Sistema di Dublino sono anche parti contraenti della Convenzione; l’Unione non è
parte di tale convenzione, ma l’art. 78 TFUE e l’art. 18 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea si rifanno espressamente a tale convenzione.
Appare quindi del tutto pacifico che i principi stabiliti da questo strumento di
diritto internazionale classico possano essere inclusi nei principi generali dl diritto
dell’Unione Europea. In particolare, nell’ambito della Convenzione di Ginevra del
1951, viene posto l’accento sull’art. 33, che vieta l’espulsione o il respingimento
in Stati dove la vita o la libertà della persona espulsa o respinta sarebbero in
pericolo a motivo delle sue condizioni personali.
L’esame viene condotto anche a proposito del C.E.A.S.37: il fondamento
giuridico delle direttive di cui ai giudizi principali è l’allora art. 63 CE (attuali artt.
78 e, per quanto attiene la solidarietà tra gli Stati Membri, 80 TFUE). In ambito
35
36
37
Ivi, parr. 52 e 63
Ivi, parr. 3-5
Ivi, parr. 6-22
81
CEAS le norme che attengono al caso sono la Direttiva 2003/9/CE, recante norme
minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo, la Direttiva 2004/83/CE e la
Direttiva Procedure (2005/85/CE). Inoltre, con la Direttiva 2001/55/CE, si
regolamenta la protezione temporanea in caso di massiccio afflusso di rifugiati;
infine, l’EURODAC è stato istituito con il regolamento 2725/2000. Ognuno di
questi testi normativi è ferreo nel ribadire il rispetto dei diritti fondamentali e dei
principi elencati nella Carta dei Diritti Fondamentali38.
La Corte nota che, come risulta dai Considerando premessi alle varie
disposizioni, la politica comune nel settore dell’asilo costituisce un elemento
fondamentale della costruzione dello spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia.
Per quanto attiene all’applicabilità del complesso normativo, il Regno Unito
partecipa all’applicazione integrale delle direttive e dei regolamenti esaminati nei
paragrafi 11-13 della medesima sentenza; l’Irlanda non applica la Direttiva
2003/9/CE39, mentre la Danimarca applica solo i regolamenti 343/03 e 2725/0040;
infine, per quanto attiene agli Stati membri del Sistema di Dublino ma non
dell’Unione Europea, la Comunità Europea concluse nel 2001 un accordo con
l’Islanda e con la Norvegia con riguardo al CEAS e al sistema di Dublino41 e nel
2008 con la Confederazione Elvetica, integrato l’anno successivo con un
42
Protocollo che veniva esteso anche al Liechtenstein .
La Corte, rispondendo alla prima delle questioni della Court of Appeal del
Regno Unito (Caso N.S.), afferma che il potere discrezionale di cui all’art. 3.2,
reg. 343/03 deve essere esercitato dagli Stati membri nel rispetto delle altre
disposizioni del regolamento medesimo. L’esercizio del potere discrezionale
comporta che lo Stato membro che prende la decisione di esaminare esso stesso
38
39
40
41
42
Ivi, par. 15
Ivi, par. 23
Ivi, par. 24
Ivi, par. 35
Ivi, par. 26
82
una domanda di asilo diventa, infatti, lo Stato membro competente. Pertanto, il
potere discrezionale fa parte dei meccanismi di determinazione dello Stato
membro competente43. Se fa parte dei meccanismi previsti da un regolamento,
uno Stato membro che esercita tale potere discrezionale previsto da un atto
dell’Unione, deve essere ritenuto attuare il diritto dell’Unione: come nota
l’Avvocato Generale44, fin dalla Sentenza Wachauf la Corte ha stabilito che la
tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico dell’Unione vincolano
gli Stati membri, quando essi danno esecuzione alle discipline del diritto
dell’Unione.
Per le ragioni esposte, secondo la Corte di Giustizia la prima questione posta
dalla Court of Appeal deve quindi essere risolta nel senso che anche la rinuncia ad
esaminare la richiesta di di asilo ai sensi dell’art. 3, par. 2 del Regolamento in
questione dà attuazione al diritto dell’Unione ai fini tanto dell’art. 6 TUE, quanto
dell’art. 51 della Carta45.
Con riguardo alle questioni prima e seconda C-493/10 e alle questioni
seconda, terza, quarta e sesta C-411/10, la CGUE dapprima riconosce che il
contesto permette di supporre il rispetto dei diritti fondamentali per come garantiti
dalla CEDU e da Ginevra, da parte di tutti gli Stati che sono parte del sistema di
46
47
Dublino , al netto di eventuali «gravi difficoltà» pratiche , che ad ogni modo
non consentono agli altri Stati Membri di presupporre una sistematica violazione,
in quanto ciò presupporrebbe, secondo la Corte, il venir meno dello Spazio
europeo di libertà, sicurezza e giustizia48: pertanto, una «minima violazione» da
parte di uno Stato Membro non è idonea a impedire il trasferimento 49. Tuttavia la
43
Conclusioni dell’Avvocato Generale Verica Trstenjak alla Causa C-411/10 N.S. c. Secretary of
State of Home Department, presentate il 22 settembre 2011, par. 80
44
Ivi, par. 77
45
46
47
48
49
Sentenza N.S. e altri, parr. 66-69
Ivi, parr. 78 e 80
Ivi, par. 81
Ivi, par. 83
Ivi, par. 85
83
presunzione di rispetto dei diritti fondamentali non può essere di natura assoluta50,
ma relativa51: le carenze sistematiche costituiscono un’effettiva violazione del
divieto di cui all’art. 4 della Carta e all’art. 3 CEDU52.
Nella valutazione della situazione nello Stato di destinazione, spettante agli
organi giurisdizionali in caso di ricorso opposto al provvedimento di
trasferimento, secondo la CGUE possono e devono concorrere anche i rapporti e
le informazioni provenienti dalle cosiddette «organizzazioni non governative»,
non essendo sufficienti le informazioni ufficiali dello Stato stesso; in linea con
una prassi durevole nel tempo, la Corte di Giustizia basa il suo parametro di
accettabilità delle fonti sugli standard adottati anche dalla Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo53. Inoltre, si arriva alla situazione in cui lo Stato Membro è
tenuto all’osservanza di una proposta di riforma del medesimo regolamento
Dublino II54 che, tanto all’epoca dei fatti quanto al momento della sentenza ancora
non era stata approvata.
Si determina in questo modo l’obbligo dello Stato a ricorrere alla c.d.
«clausola di sovranità» in caso di situazione a rischio di trattamenti inumani o
degradanti.
Legislazione e procedure italiane per l’asilo
Ogni Stato Membro dell’Unione Europea adatta la sua legislazione per
recepire le Direttive del Consiglio e per eseguire i regolamenti. Accanto alla
materia legislativa, ogni Stato Membro dispone delle sue proprie strutture
amministrative per gestire la materia immigratoria in generale e, per quanto qui
attiene, la politica di asilo e le sue procedure, di dettato tanto nazionale quanto
50
51
52
53
54
Ivi, par. 99
Ivi, parr. 104 e 105
Ivi, par. 94
Ivi, par. 91
Ivi, par. 92
84
dell’Unione.
LEGISLAZIONE E ORGANISMI PER L’ASILO
In Italia la materia dei requisiti per l’asilo è stata recepita dal decreto
legislativo 19 novembre 2007, n. 251, che attua senza modifiche di rilievo la
direttiva 2004/83/CE, individuando il «punto di contatto» ai sensi dell’art. 35
direttiva 2004/83/CE, ora art. 36 direttiva 2011/95/CE, in una struttura diversa
dall’amministrazione di Pubblica Sicurezza55 quale il Dipartimento per le Libertà
Civili e l’Immigrazione e specificatamente la Direzione Centrale dei Servizi Civili
per l'immigrazione e l'asilo. Il decreto ha anche introdotto nell’ordinamento
italiano la nozione di «protezione internazionale» mutuandolo dalle previsioni
dell’Unione Europea.
Inoltre, la Direttiva 2003/9/CE, che istituisce il sistema di asilo, è stata
recepita dal d.lgs. n.140/2005.
Organi deputati alla valutazione delle domande di riconoscimento dello
status di rifugiato sono la Commissione nazionale per il diritto di asilo e le
commissioni territoriali.
La Commissione Nazionale ha compiti di indirizzo e coordinamento delle
Commissioni territoriali, di formazione e aggiornamento dei componenti delle
medesime commissioni e di raccolta di dati statistici e ha poteri decisionali in
tema di revoche e cessazione degli status concessi56, mentre le Commissioni
territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale esaminano in
modo decentrato le istanze. È da rilevare come la Commissione Nazionale,
accanto ai componenti tratti dai vari dicasteri italiani (Ministero degli Esteri,
Ministero dell’Interno e Presidenza del Consiglio), includa anche tre
55
56
D. lgs. 251/07, art. 31
http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/asilo/sottotema0021/
85
rappresentanti dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite57,
mentre le Commissioni territoriali così come riformate dal D.M. 6 marzo 2008
sono istituite in seno alle Prefetture-U.T.G. Tali organi sono stati istituiti dalla
legge 30 luglio 2002, n. 189 e confermati anche dal decreto legislativo 28 gennaio
2008 n. 25, recante norme per l’attuazione della Direttiva “Procedure”
2005/85/CE.
ASSISTENZA E ACCOGLIENZA DEI RICHIEDENTI ASILO E DEI BENEFICIARI
DELLA PROTEZIONE
L’accoglienza dei richiedenti asilo è garantita prioritariamente attraverso i
centri predisposti dagli enti locali e finanziati con il Fondo nazionale per le
politiche e i servizi dell’asilo, anch’esso istituito con la legge n.189/2002; in
armonia con i dettami della Direttiva Requisiti Asilo, con Decreto Legislativo 28
gennaio 2008, n. 25 e con D.P.R. 303/2004, sono stati istituiti, alle dipendenze
dell’Ufficio II58, degli specifici Centri di Accoglienza per i Richiedenti Asilo
(C.A.R.A.), che sono strutture nelle quali lo straniero richiedente asilo privo di
documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera viene
inviato e ospitato per un periodo che può variare da 20 a 35 giorni, allo scopo di
consentire l’identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento
dello status di rifugiato59.
L’Ufficio III della Direzione Centrale dei Servizi civili cura tutte le attività
connesse all’assistenza ed accoglienza dei richiedenti asilo e di coloro che hanno
ottenuto lo status di rifugiato. Esso è l’organismo centrale che sovrintende alle
Commissioni territoriali e alla Commissione Nazionale per il diritto di asilo.
57
http://www.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/temi/asilo/sottotema0021/Composizi
one_della_Comissione_Nazionale_per_il_Diritto_di_Asilo.html
58
http://www.libertaciviliimmigrazione.interno.it/dipim/site/it/dipartimento/direzioni_centrali/serv
izi_civili/ufficioii/
59
http://www.libertaciviliimmigrazione.interno.it/dipim/site/it/dipartimento/direzioni_centrali/serv
izi_civili/ufficioii/attivitx/
86
Tra le varie strutture operanti nell’ambito dell’Ufficio III, ha particolare
rilevanza l’“Unità Dublino”, struttura preposta a svolgere gli adempimenti
amministrativi relativi all’applicazione del Regolamento Dublino II fino al 31
dicembre 2013 e del Regolamento Dublino III a partire dal 1 gennaio 2014. Tale
attività viene svolta in collaborazione con la Direzione Centrale dell'immigrazione
e della Polizia delle frontiere, struttura del Dipartimento della Pubblica Sicurezza,
responsabile nazionale della gestione del sistema EURODAC e, in misura più
contenuta, con il Ministero degli Affari Esteri, responsabile del rilascio di visti di
ingresso in Italia; la Polizia delle Frontiere coordina inoltre i 103 Uffici
Immigrazione incardinati in seno alle Questure.
PIANIFICAZIONE DELLE POLITICHE IMMIGRATORIE
Accanto alla Direzione Centrale dei Servizi civili per l’immigrazione e
l’asilo, è presente la Direzione Centrale per le politiche dell’immigrazione e
dell’asilo, sempre afferente al Ministero dell’Interno, incaricata di concorrere alla
definizione delle politiche migratorie e di favorire l'accoglienza e l'integrazione
degli immigrati regolari. In tale ottica, la Direzione Centrale per le politiche
svolge funzioni di analisi e programmazione delle politiche migratorie e di
monitoraggio e di sostegno delle politiche di “integrazione” degli stranieri. La
stessa Direzione cura, inoltre, la partecipazione dell'Italia alle due reti che sono
state costituite nell'ambito della Direzione Generale Giustizia e Affari Interni della
Commissione Europea: la Rete Europea delle Migrazioni e la Rete dei punti di
contatto nazionali sull'integrazione degli immigrati, prevista fin dal 200760.
60
COM(2007)512 def, par. 3.1
87
CAPITOLO 3: IMMIGRAZIONE ILLEGALE E IRREGOLARE E
RIMPATRIO NEL DIRITTO DELL’UNIONE
L’espulsione degli stranieri o – in fasi storiche ormai passate – dei cittadini
è da sempre una prerogativa sovrana dello Stato. Salvo quanto previsto dagli
accordi internazionali recenti in materia di diritti umani, per essere espulso lo
straniero non deve necessariamente trovarsi in una posizione irregolare. Tale
prerogativa è la diretta conseguenza del controllo delle frontiere e del territorio su
lo Stato cui rivendica la propria sovranità1. Ad ogni modo, gli stranieri in
posizione regolare sono attualmente protetti dalle autolimitazioni degli Stati
accettate in sede di convenzione internazionale2.
Con riguardo al tipo di mancata rispondenza alla normativa migratoria, è
stata avanzata una classificazione tripartita: gli immigrati illegali, gli immigrati
irregolari e le vittime della tratta3. Gli immigrati irregolari sono coloro che, pur
entrati nel territorio dell’Unione in modo regolare, vi permane anche senza o alla
scadenza del permesso; gli immigrati illegali, ovvero i clandestini, la cui
permanenza è sin dall’origine in contrasto con la normativa migratoria; e infine la
vittima del traffico, sotttospecie degli immigrati illegali, soggetti però a un regime
di schiavitù (o prossimo alla schiavitù) da parte del trafficante.
La legittimazione ad adottare misure riguardo all’immigrazione illegale o
iregolare è contenuta nell’art. 79 TFUE: il Paragrafo 1 stabilisce la competenza
dell’Unione al fine di garantire l’equo trattamento degli immigrati regolari e il
1
Natalino Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Giappicchelli Editore, Torino, 2009, p.
19
2
Giovanni Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento di cittadini di Stati terzi in condizione
irregolare, in Carella, Cellamare, Garofalo, Gargiulo, Pizzolante, Sacovelli, Di Chio,
L’immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell’Unione Europea, Monduzzi Editoriale,
Milano, 2012, p. 229
3
Oreste Liporace, Immigrazione illegale e immigrazione irregolare nell'Unione Europea, in
Rassegna dell'Arma, 2009, n.4,
http://www.carabinieri.it/Internet/Editoria/Rassegna+Arma/2009/4/Studi/studi_01.htm
89
contrasto all’immigrazione illegale; stabilita la procedura legislativa ordinaria al
paragrafo 2, la lettera (c) e la lettera (d) chiariscono l’ambito di competenza entro
cui il contrasto all’immigrazione illegale può dispiegarsi. La competenza tuttavia
non è esclusiva, bensì concorrente, come precisato all’art. 67 TFUE e all’art. 72
TFUE. Ogni norma dei Trattati o derivata da essi deve inoltre rispettare l’art. 6
TUE, che rinvia al rispetto dei diritti umani secondo la formulazione CEDU e dei
fondamentali descritti nella Carta dei Diritti Fondamentali, in quanto i primi fanno
parte dei principi fondamentali del diritto e i secondi hanno pari valore giuridico
rispetto al TUE e al TFUE.
Come per tutte le previsioni attinenti allo spazio di libertà, sicurezza e
giustizia, il Regno Unito e l’Irlanda da una parte e la Danimarca dall’altra godono
di una posizione differenziata e meno vincolata, ai sensi dei Protocolli nn. 21 e
224.
Il primo atto emanato in ambito UE a riguardo dell’espulsione di cittadini di
paesi terzi risale al 2001. La direttiva 2001/40/CE, relativa al riconoscimento
reciproco delle decisioni di allontanamento, fu adottata su proposta della Francia,
nonostante l’avverso parere del Parlamento Europeo basato su motivi di
competenza. Al fine di garantire una maggiore efficacia delle decisioni di
allontanamento e una migliore cooperazione in materia di rimpatrio tra gli Stati
membri dell'Unione, l’allora Comunità Europea ritenne necessario il reciproco
riconoscimento delle decisioni di allontanamento.
Secondo la Direttiva 2001/40, queste ultime dovevano avere due requisiti
principali: essere state adottate da un'autorità amministrativa, ed essere fondate
sulla sussistenza di un concreto interesse ad espellere. A sua volta, il secondo
requisito può riscontrarsi o nell'esistenza di una minaccia grave e attuale per
l'ordine pubblico o la sicurezza nazionale, ovvero sulla violazione della norme
riguardanti l'ingresso o il soggiorno dello straniero.
4
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 228
90
Ad ogni modo, l’art. 3 dispone che l’attuazione di tale direttiva deve
avvenire nel rispetto dei «diritti umani» e delle «libertà fondamentali».
Inoltre, lo Stato Membro che adotta il provvedimento di esecuzione deve
prevedere la possibilità per lo straniero di proporre ricorso avverso la misura che
attua il riconoscimento della decisione di allontanamento. Gran parte dei principi
della Direttiva Riconoscimento Rimpatri viene ad essere ripresa nella Direttiva
Rimpatri, di sette anni successiva.
La Direttiva Rimpatri 2008/115/CE
Il principale strumento normativo per disciplinare la fase finale
dell’immigrazione illegale è la cosiddetta “Direttiva Rimpatri”, 2008/115/CE del
16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati
membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, a cui si
collegano numerose sentenze che dettagliano e chiariscono l’interpretazione da
portarsi. Alla “Direttiva Rimpatri” fa riferimento la successiva Direttiva
2009/52/CE del 18 giugno 2009, che prevede sanzioni finanziarie a carico delle
imprese che aumentano a seconda del numero di cittadini di paesi terzi assunti
illegalmente e il pagamento dei costi di rimpatrio, nei casi in cui le assunzioni
siano effettuate.
La direttiva, discostandosi da altre che consentono una ridotta
discrezionalità da parte degli Stati Membri, è formata da tre tipologie principali di
norme: le norme obbligatorie, che non consentono particolari discrezionalità, le
norme a riguardo di obiettivi che gli Stati possono recepire o meno, e l’ordinaria
5
previsione delle misure nazionali «più favorevoli» di cui all’art. 4. La parte
lasciata alla libera decisione di recepire o meno rende difficile la completa
uniformità nell’ambito UE.
5
Chiara Favilli, La Direttiva Rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell’espulsione dei
cittadini di Paesi terzi, Osservatoriosullefonti.it, fasc. n. 2/2009, p. 3
91
La Direttiva è preceduta, in ossequio dall’obbligo di motivazione in fatto e
in diritto posto in capo agli atti dell’Unione Europea, da trenta “Considerando”.
Essi aprono la direttiva ed esplicitano gli obiettivi dell'Unione europea in materia
di rimpatrio, dando altresì conto della scelta di intervenire a livello UE.
La finalità principale, esposta nel Considerando n. 4, è quella di elaborare
una politica di rimpatrio che sia «efficace» e quindi di armonizzare le norme
nazionali e di renderle efficaci contro l’immigrazione illegale. Per raggiungere
questo scopo (Considerando n. 5) è quindi necessario introdurre una normativa
comune onnicomprensiva, la quale deve contenere garanzie giuridiche comuni
(Considerando n. 11) essere ispirata e conforme ai principi generali del diritto
dell’Unione Europea (Considerando n. 6), e quindi anche ai diritti umani come
elaborati dalla costante giurisprudenza UE e CEDU, nonché conforme ai principi
del non refoulement (Considerando n. 8). Ad ogni modo, il Considerando n. 7
prevede la possibilità di «Accordi di riammissione» con generici Stati terzi, non
necessariamente gli Stati di origine, che sono tuttavia destinatari di altri accordi,
individuabili nell’ambito della cooperazione internazionale con i paesi d'origine,
considerata una condizione preliminare per un «rimpatrio sostenibile».
. Il Considerando n. 20 afferma l’impossibilità degli Stati Membri di
coordinarsi da sé raggiungendo norme comuni in materia di rimpatrio e misure
connesse; pertanto l’intervento dell’allora Comunità Europea è legittimo ai sensi
dell’art. 5 TUE, tanto nel principio di sussidiarietà quanto nell’autolimitazione in
base al principio di proporzionalità.
Al rimpatrio e al conseguente divieto di reingresso sono apposti limiti
stringenti: programmaticamente non più di cinque anni in circostanze ordinarie
(Considerando n. 14).
I Considerando nn. 13, 16 e 17 prevedono la possibilità di ricorrere a mezzi
coercitivi o a trattenere gli immigrati illegali, raccomandando il mantenimento dei
principi di proporzionalità e del trattamento dignitoso; il Considerando n. 22
infine cita il criterio dell’interesse superiore del fanciullo.
92
Come tutela per i rifugiati, chi presenta domanda di asilo è esente, almeno
fino al respingimento della domanda, dalla condizione di immigrato illegale.
Un’attenzione a parte meritano i Considerando nn. 18 e da 25 a 30, poiché
trattano del Sistema di Schengen e delle particolari eccezioni ed integrazioni ad
esso. Per poter funzionare, la Direttiva Rimpatri si inserisce nel Sistema di
Schengen e nel suo sistema informativo (Considerando n. 18).
Come precedentemente accennato, il Regno di Danimarca e il Regno Unito
non sono soggetti all’obbligo di trasposizione e recepimento nel diritto interno
della Direttiva Rimpatri nella misura in cui essa si applica a cittadini di Stati non
facenti parte del Sistema di Schengen (Considerando nn. 25 e 26). L’Irlanda, ai
sensi del protocollo tra Regno Unito e Irlanda, non partecipa in alcun modo alla
Direttiva Rimpatri (Considerando 27), mentre al contrario la Repubblica d’Islanda
e il Regno di Norvegia sono soggetti alla Direttiva pur non facendo parte dell’UE,
in forza dell’accordo di associazione di tali Stati con l’Unione Europea
(Considerando 28).
I Considerando 29 e 30 ineriscono all’accordo di associazione della
Confederazione Elvetica al Sistema di Schengen e alla partecipazione del
Principato del Lichtenstein a tale accordo: essendo considerato parte dell’acquis
rilevante in merito, la Direttiva Rimpatri è soggetta all’applicazione anche in tali
due Stati.
L’art. 2 esclude l’applicazione della direttiva nei confronti delle persone o
respinte alla frontiera o comunque entrate senza che la situazione sia sanata (par.
2, lett. a), sottoposte a rimpatrio come sanzione penale (lett. b) o beneficiari del
diritto comunitario alla libera circolazione (par. 3) e che, ai sensi delle Direttive
Requisiti per l’Asilo, non ricadano sotto questi ultimi. L’art. 2.2.b si riferisce a
sanzioni penali, per fatti che siano diversi dall’immigrazione irregolare o illegale.
Se così non fosse, verrebbe meno il principio dell’effetto utile. La salvaguardia
93
dell’effetto utile, già intuita in dottrina6, è stata confermata dalla giurisprudenza
nella sentenza C-329/11 Achughbabian c. Prefét du Val-de-Marne.
L’articolo 3, occupandosi delle definizioni utilizzate nel prosieguo dello
strumento, introduce delle innovazioni tanto linguistiche quanto contenutistiche
rispetto al diritto internazionale puro. Tali innovazioni si riscontrano soprattutto
nei parr. 2 e 3. A riguardo del “soggiorno irregolare”, di cui all’art. 3 n. 2, esso è
definito come irregolarità nei confronti del sistema di Schengen, senza distinguere
7
tra “irregolarità” e “illegalità” dell’immigrazione . La definizione di “rimpatrio”
valida ai fini della Direttiva, descritta all’art. 3, n. 3, è una definizione che si
discosta dal concetto di mera sovranità statale sulle frontiere e sul loro
attraversamento, inserendo all’ultima definizione un concetto del tutto
volontaristico da parte del cittadino in fase di espulsione: la terza definizione
riguarda uno Stato terzo diverso da quello di provenienza, di origine o di transito,
scelto volontariamente dallo straniero irregolare, ovviamente con il consenso dello
Stato di destinazione.
Oltre alle succitate “disposizioni più favorevoli”, l’art. 4 par. 4 impegna gli
Stati Membri ad applicare il principio del “non respingimento”, per come
formulato nella Convenzione di Ginevra del 1951 (lett. b) e ad applicare a chi
viene escluso dall’art. 2 un equo trattamento (lett. a). L’art. 5, inoltre, stabilisce i
criteri di base con cui interpretare le disposizioni: l’interesse preminente del
minore, la tutela dell’unità familiare derivante dall’art. 8 CEDU e le condizioni di
salute della persona da rimpatriare. Questi limiti, diversamente dal divieto di
respingimento in caso di fondato pericolo di tortura o di trattamenti inumani, sono
di carattere relativo, suscettibile di essere bilanciato con l’interesse all’espulsione.
Il Capo II (artt. 6 – 11) disciplina i diversi tipi di rimpatrio e la procedura di
massima. In linea generale, l’apporoccio seguito è quello della partenza volontaria
6
7
Ivi, p. 6
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 230
94
e delle garanzie del minore e della salute, tanto psichica quanto fisica. La
disciplina “di sicurezza” del rimpatrio (artt. 6.2, 7.3, 7.4, 8.4, 11.1 lett. a, 11.2)
interessa appena cinque commi: pur prevedendo una maggiore libertà d’azione in
capo agli Stati Membri, non si discosta dall’impianto complessivo del Capo.
L’art. 6 par. 1 attribuisce allo Stato di soggiorno irregolare del cittadino
dello Stato terzo il compito di emettere una decisione di rimpatrio. Se tuttavia il
cittadino dello Stato terzo è regolarmente soggiornante in un altro Stato Membro,
ma non possiede i documenti che lo autorizzino a lasciare lo Stato dove risiede in
modo regolare, questi ha il dovere di recarsi immediatamente nello Stato dove il
suo soggiorno è regolare (par. 2); se l’immigrato in condizione irregolare non
ottempera, o se lo richiedono motivi di ordine pubblico o di sicurezza nazionale,
allora si procede con la decisione di rimpatrio. I paragrafi 3, 4 e 5 sono dedicati a
delineare le facoltà di astensione da parte degli Stati Membri dalla decisione di
rimpatrio: qualora il cittadino extra-UE irregolare sia stato ripreso da un altro
Stato Membro, in virtù di previgenti accordi, e sia stato rimpatriato da
quest’ultimo Stato Membro (par. 3), qualora lo Stato Membro decida di rilasciare
un permesso di soggiorno al cittadino extra-UE irregolare per motivi «caritatevoli,
umanitari o di altra natura» (par. 4), distinti dallo status di beneficiario di
protezione internazionale di cui alle direttive specifiche, qualora un cittadino
extra-UE irregolare stia rinnovando il permesso di soggiorno (par. 5). In ultimo,
l’art. 6 par. 6 lascia liberi gli Stati Membri di emettere le decisioni di rimpatrio
contestualmente agli altri provvedimenti connessi. Le condizioni di cui ai parr. 35 sono tassative: al di fuori di queste, gli Stati hanno l’obbligo di adottare il
provvedimento8. La sentenza C-61/11 El Dridi charisce che il compito di cui
all’art. 6.1 è a tutti gli effetti un obbligo posto in capo agli Stati Membri9.
La decisione di rimpatrio è seguita dalla possibilità di partenza volontaria,
8
9
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 232
C-61/11 El Dridi, par. 35
95
concessa ordinariamente per un periodo compreso tra sette e trenta giorni (art. 7,
par. 1); gli Stati Membri qualora il cittadino extra-UE in condizione irregolare
costituisca una minaccia alla sicurezza o la domanda sia palesemente fraudolenta
possono decidere di non concedere alcun termine per la partenza volontaria, o di
concederne uno inferiore (par. 4). Di converso, gli Stati Membri possono decidere
di allungare il periodo in considerazione dei legami instaurati in loco, l’esistenza
di minori in età scolare e in genere le circostanze individuali (par. 2). Il par. 3
consente di impiegare alcuni strumenti atti a prevenire la fuga, ma non permette la
limitazione completa della libertà personale tramite reclusione o detenzione.
Qualora il periodo di partenza volontaria sia trascorso senza esiti, o qualora
sussistano le condizioni di cui all’art. 7.4, gli Stati Membri agiscono per eseguire
la decisione. Il ricorso alla coercizione è ammesso solo quale ultima istanza e
comunque in modo «proporzionato» e non lesivo (art. 8 par. 4).
L’allontanamento è tuttavia rinviato (art. 9) qualora esso violerebbe il
principio di non refoulement o qualora incorra la sospensione prevista all’art. 13;
inoltre, gli Stati Membri devono tenere conto delle condizioni del cittadino e dei
mezzi di trasporto.
L’art. 10 specifica le procedure proprie del rimpatrio di minori non
accompagnati, stabilendo l’ingerenza di organismi diversi dalle autorità preposte
al rimpatrio, e l’esigenza di accertarsi che il minore sia ricondotto alla famiglia, a
un tutore o a strutture specifiche dello Stato di origine.
L’art. 11, infine, disciplina il divieto di ingresso: esso può superare i cinque
anni solo in caso di pericolo per la sicurezza collettiva, e può essere emesso
qualora la partenza volontaria non sia stata concessa o non si sia ottemperato
all’obbligo di rimpatrio. Il par. 3 esclude dal divieto di reingresso le vittime della
tratta di esseri umani di cui alla direttiva 2004/81/CE e casi individuali o categorie
determinate a discrezione dello Stato Membro sia per motivi umanitari che per
altri, non specificati motivi. Il par. 5, inoltre, esclude dall’applicazione della
norma i richiedenti protezione internazionale.
96
Tuttavia, come definito nella sentenza C-297/12 Filev, l’art. 11, par. 2 osta a
una disposizione nazionale che subordini la limitazione della durata di un divieto
d’ingresso alla presentazione da parte del cittadino interessato di un paese terzo di
una domanda specifica volta a ottenere il beneficio di una siffatta limitazione10.
Il Capo III (artt. 12, 13 e 14) disciplina le garanzie procedurali accordate per
opporsi al rimpatrio tramite impugnazione dinanzi a un’autorità amministrativa o
giudiziaria. In ogni caso, per rispettare le previsioni dell’art. 19 della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, le espulsioni collettive sono vietate.
L’art. 12 stabilisce che le decisioni di rimpatrio siano adottate in forma
scritta (par. 1, primo capoverso) e che siano, su richiesta, tradotte per renderle
comprensibili agli immigrati soggetti a rimpatrio (par. 2); tuttavia, l’obbligo della
traduzione non è previsto per gli immigrati irregolari (par. 3). L’obbligo di
informazione e di motivazione, in fatto e in diritto, può essere limitato laddove
sussistano esigenze collegate alla tutela d indagini penali o alla salvaguardia della
sicurezza (par. 1, secondo capoverso).
L’art. 13 garantisce l’imparzialità e l’indipendenza dell’autorità dinanzi a
cui il provvedimento è impugnato e il potere di questa di sospenderlo in via
cautelare; il diritto all’assistenza legale è assicurato, come pure il diritto
all’assistenza legale gratuita, se del caso.
Infine, l’art. 14 assicura al par. 1 il rispetto del mantenimento dell’unità
familiare (lett. a), della fornitura delle prestazioni sanitare essenziali (lett. b),
dell’accesso all’istruzione di base, se la durata del soggiorno lo consente (lett. c) e
delle varie esigenze di vita delle persone «vulnerabili» (lett. d).
Collegandosi alle previsioni degli artt. 7.3 e 8.4, il Capo IV autorizza il
trattenimento ai fini di rendere possibile l’allontanamento dal territorio nazionale.
Tuttavia, tale trattenimento deve essere tenuto distinto dalla reclusione la quale,
come stabilito dalla succitata sentenza El Dridi, non può essere irrogata
10
C-297/12, Decisioni, par. 1
97
«al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione
che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il
territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo»11.
Non solo l’art. 15, in particolare nella sentenza C-357/09 Kadzoev12, ma tutto il
Capo IV in generale è stato riconosciuto come dotato di effetto diretto, essendo
state
le
sue
disposizioni
ritenute
sufficientemente
chiare,
precise
e
incondizionate13. Il divieto di trattenimento oltre i termini vige anche contro le
14
ragioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica . Oltre a questioni di
legalità e garanzie procedurali, il trattenimento deve anche rispettare i diritti
fondamentali garantiti dalla CEDU e dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea15.
Ai sensi della giurisprudenza CEDU, inoltre, la conformità del trattenimento
al diritto nazionale o, in questo caso, al diritto dell’Unione Europea non è
sufficiente di per sé: ogni restrizione della libertà deve essere completamente
estranea a qualsiasi elemento di arbitrarietà: pertanto essa deve essere condotta in
buona fede, strettamente collegata al motivo, e le condizioni devono essere
idonee; inoltre, la durata della detenzione non dovrebbe eccedere il tempo
ragionevolmente richiesto per l’obiettivo perseguito dell’allontanamento16.
Il Capo IV e la Sentenza “El Dridi”
Uno degli aspetti più delicati in merito alla tutela dei diritti fondamentali
11
C-61/11 El Dridi, Decisione.
12
Francesco Viganò, Luca Masera, Addio articolo 14: Nota alla sentenza El Dridi della Corte di
Giustzia UE in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, pubblicato in Rivista
Associazione Italiana Costituzionalisti, Rivista n.: 3/2011, pubblicata il 5 luglio 2011, p. 5
13
C-61/11 El Dridi, par. 47
14
Fabio Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri tra efficienza del sistema e tutela dei
diritti dello straniero, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, Anno XV, n. 1/2013, p. 30
15
C-329/11 Achughbabian c. Prefet du Val-de-Marne, par. 49.
16
Fundamental Rights Agency, Manuale sul diritto europeo in materia di asilo, frontiere e
immigrazione, Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, Lussemburgo, 2013, p. 164
98
degli immigrati irregolari e soggetti a misure di rimpatrio è costituito dal Capo IV
della Direttiva Rimpatri; ad esso fa riferimento un importante intervento
giurisprudenziale da parte della Corte di Giustizia, la sentenza della causa C11/61, El Dridi.
Il Capo IV, costituito dagli articoli 15, 16 e 17, descrive le condizioni
dell’eventuale trattenimento forzoso nei casi in cui sussistano concreti pericoli di
fuga. L’art. 15 par. 2 assicura il carattere giurisdizionale dell’irrogazione e del
riesame della misura di trattenimento, il quale non può superare i sei mesi (par. 5),
prolungabili di altri dodici in circostanze particolari (par. 6).
L’art. 16 par. 1 stabilisce chiaramente che gli immigrati “trattenuti” non
sono in nessun modo comparabili ai detenuti ordinari, anche nel caso in cui essi
debbano essere ospitati all’interno di istituti penitenziari.
La Sentenza El Dridi è una sentenza rilevante soprattutto nell’ordinamento
giuridico italiano, a cui essa fa riferimento, poiché essa esclude la punibilità con la
reclusione (anche se non proibisce l’esistenza dell’illecito penale in sé e per sé 17)
previsto dall’art. 14 comma 5 ter del decreto legislativo 286/98, per come
novellato dalla cosddetta “legge Bossi-Fini” e precedente alle successive
modifiche che prevedono la sola irrogazione di una multa.
Il sig. El Dridi è un cittadino di un paese terzo entrato illegalmente in Italia
e privo di permesso di soggiorno. Nei suoi confronti il Prefetto di Torino emanò
un decreto di espulsione in data 8 maggio 2004 a cui fece seguito l’ordine di
allontanamento (art. 13 d.lgs. 286/98), emanato dal Questore di Udine sei anni
dopo. Il sig. El Dridi non si conformò all’ordine di allontanamento. In funzione
dell’allora vigente all’art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998, fu
condannato. La Corte d’Appello di Trento rinviò alla Corte di Giustizia il giudizio
pregiuiziale sulla possibilità di disporre una sanzione penale, nel corso della
procedura amministrativa di rimpatrio di uno straniero, per inosservanza di una
17
C-61/11 El Dridi, par. 52
99
delle fasi di tale procedura18.
Secondo le conclusioni dell’Avvocato Generale, l’art. 2 par. 2 lett. b esclude
dall’ambito di applicazione della Direttiva solo le espulsioni adottate tramite una
decisione di tipo giurisdizionale e non, come invece nel caso in esame e più in
generale
nella
normativa
italiana
sull’immigrazione
illegale,
tramite
provvedimento amministrativo. Pertanto, un ordine di allontanamento emanato da
un’Autorità di Pubblica Sicurezza quale il Prefetto è rientra appieno nella
Direttiva medesima.
L’Avvocato Generale in seguito rileva la differenza tra il trattenimento
funzionale all’espulsione vera e propria e la reclusione penale prevista dall’art. 14
c. 5-ter del d. lgs. 286/98, per come vigente al momento della sentenza: la
questione diviene quindi se la reclusione penale prevista dall’ordinamento dello
Stato Membro siano classificabili come “misure necessarie”, se cioè rispettino il
criterio di proporzionalità tra “intromissione” pubblica e sfera privata di interessi
e, quindi, l’art. 8 par. 1 della Direttiva Rimpatri o se, al contrario, la misura
nazionale frapponga ostacoli allo scopo della direttiva. La conclusione della
CGUE è che la reclusione comporta necessariamente un ritardo nell’esecuzione
concreta del rimpatrio coatto. Inoltre, dalla posizione assunta dalla Repubblica
Italiana emerge come la disposizione del testo unico sull’immigrazione in esame
fosse destinata a mantenere e garantire l’autorità del pubblico potere, venendo
concepita come una punizione per il mancato ottemperamento all’ordine emanato
e subordinando l’obiettivo “comunitario” del rimpatrio al mantenimento
dell’autorità pubblica e all’irrogazione della “punizione”. A parere dell’Avvocato
Generale, un obiettivo di tal fatta è incompatibile con il dichiarato scopo della
Direttiva, in quanto esso rischia di compromettere, o anche solo di ritardare, un
obiettivo comunitario19.
18
C-61/11 El Dridi, parr. 18-24
Rosa Raffaelli, The returns directive in light of the El Dridi judgment, pubblicato in
Perspectives on Federalism, Vol. 3, n. 1, 2011, ISSN: 2036-5438, p. 38.
19
100
Nell’argomentare la sentenza, la CGUE richiama il Considerando n. 2 della
Direttiva, ponendo l’accento sulla tutela dei diritti fondamentali20, sul rispetto
della procedura prevista21 e includendo quindi nella sua tutela anche i diritti
fondamentali dell’immigrato illegale nella procedura di rimpatrio22. I principi
salvaguardati esplicitamente dalla sentenza sono quello della tutela dell’effetto
utile, successivamente ribadito nella sentenza C-329/11 Achughbabian c. Prefét
du Val-de-Marne e quello dell’effettività della misura di rimpatrio23.
Ulteriore limitazione per la possibilità degli Stati di proteggere le loro
frontiere con mezzi di natura penale deriva dalla giurisprudenza stabilita con la
succitata sentenza C-297/12 Filev; in tale decisione della CGUE, l’art. 11, par. 2
della Direttiva è stato dichiarato ostare a che una violazione di un divieto
d’ingresso e di soggiorno nel territorio di uno Stato membro, emesso oltre cinque
anni prima della data del nuovo ingresso dell’interessato o dell’entrata in vigore
della normativa nazionale che recepisce tale direttiva, comporti una sanzione
penale, a meno che tale cittadino non costituisca una grave minaccia per l’ordine
24
pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale . Come sempre, tali
criteri vengono interpretati in modo restrittivo.
Nel prevedere una serie di metodi via via più restrittivi della libertà
personale, la Direttiva organizza un sistema graduato
25
che arriva sino al
trattenimento personale. La graduazione e la progressività dei mezzi autorizzati
per realizzare il rimpatrio rendono possibile scorgere il rispetto del principio di
proporzionalità e del minore intervento della pubblica autorità possibile: la CGUE
ha deciso che con l’irrogazione della reclusione tanto l’effetto utile quanto la
20
21
C-61/11 El Dridi, par. 31
C-61/11 El Dridi, par. 34
22
Francesco Viganò, Luca Masera, Addio articolo 14: Nota alla sentenza El Dridi della Corte di
Giustzia UE in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, pubblicato in Rivista
Associazione Italiana Costituzionalisti, Rivista n.: 3/2011, pubblicata il 5 luglio 2011, p. 4
23
C-61/11 El Dridi, par. 58
24
25
C-297/12, Decisioni, par. 2
C-61/11 El Dridi, par. 42
101
proporzionalità verrebbero ad essere compromessi.
Parte della dottrina in materia collega la sentenza in esame al periodo di
notevole afflusso di immigrati – anche non in possesso dei requisiti per la
richiesta dello status di asilo politico – in cui essa è stata resa proprio al fine di
ribadire il coinvolgimento della Corte di Giustizia nella protezione dei diritti
fondamentali anche degli immigrati illegali26. Per giungere a tale fine, la Corte
afferma che non si possa eccedere al trattenimento di cui al Capo IV27 e che tale
trattenimento deve intendersi come mera necessità pratica e non come reclusione
punitiva.
Poiché le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea hanno
valore erga omnes, interpretando in maniera autoritativa il diritto dell’Unione con
effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, con la
Sentenza El Dridi la CGUE ha delineato il limite massimo della riduzione della
libertà personale esercitabile sugli immigrati illegali, ovviamente in riferimento
alla loro condizione immigratoria irregolare e alla procedura di rimpatrio da porre
in essere nei loro confronti.
La sentenza Achughbabian
La sentenza C-329/11 Achughbabian viene in rilivo quale contrappunto alla
quasi contemporanea sentenza El Dridi, rendendo più chiaro l’ambito di
applicazione della Direttiva Rimpatri.
Se nella sentenza C-61/11 El Dridi, precedentemente delineata, era stata
categoricamente esclusa la possibilità di irrogare la reclusione per il reato di
clandestinità, nella sentenza Achughbabian viene fatta salva la possibilità di
prevedere il reato di immigrazione clandestina, in quanto a dire della Corte la
Direttiva non vieta che il diritto di uno Stato membro preveda sanzioni penali per
26
27
Viganò-Masera, Addio art. 14, cit. p. 8
Ibidem
102
scoraggiare e reprimere la commissione di siffatta infrazione28, 29.
Ad ogni buon conto, nell’ammettere la possibilità di prevedere tale reato e
tali contromisure, la sentenza ribadisce che la sanzione detentiva non può essere
irrogata né quando ancora non è stato accertato il soggiorno irregolare30, né prima
che sia stato eseguito il rimpatrio31, e quindi implicitamente non può essere
irrogata mai, richiamando espressamente la consolidata giurisprudenza in merito
all’effetto utile già resa con la sentenza El Dridi.
La causa principale, da cui è scaturita la questione pregiudiziale, vedeva
l’imputato, Alexandre Achughbabian, sollevare l’eccezione dell’incompatibilità
tra la pena della detenzione detentiva prevista dalla legge francese e il diritto
dell'Unione Europea in materia di rimpatri: poiché la misura di sicurezza a cui
Alexandre Achughbabian era sottoposto è applicabile solo in caso di sospetto di
un reato punibile con la reclusione, la misura stessa sarebbe irregolare, non
potendo essere l’immigrazione illegale punita con la reclusione stessa per effetto
delle rese sentenze.
Se la reclusione è esclusa, la sentenza C-430/11 Sagor chiarisce che la pena
pecuniaria è pienamente compatibile con il requisito di celerità ed efficacia del
rimpatrio, compatibilità che invece la Corte non ravvisa nella sostituibilità della
sanzione pecuniaria con l’obbligo di permanenza domiciliare, per ragioni
analoghe a quelle esposte a riguardo della reclusione nelle precedenti sentenze El
Dridi e Achughbabian 32.
Valutazioni della Direttiva Rimpatri da un punto di vista contenutistico
Da un punto di vista non strettamente giuridico ma più orientato alla
28
29
30
31
32
C-329/11 Achughbabian, par. 28
Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri, cit., p. 17
Ivi, p. 19
C-329/11 Achughbabian, par. 45
Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri, cit., p. 22
103
valutazione politica, la direttiva rimpatri è stata accolta in modo differenziato,
principalmente in funzione della weltanschauung politico-ideologica propria di
ciascun estensore di commenti e reazioni. In linea di massima, gli estensori dei
commenti alla Direttiva Rimpatri – principalmente nella sua versione del 2008 –
sono classificabili in due categorie: da un lato coloro che la ritengono adeguata ad
un serio contrasto all’immigrazione irregolare, dall’altro coloro che vi scorgono
una possibile compressione di diritti dello straniero33.
Nell’ambito dei sostenitori dichiarati del «melting pot», il Professor Fulvio
Vassallo Paleologo, ha espresso un’opinione fortemente negativa34. A suo parere,
la Direttiva Rimpatri si inserirebbe in un quadro di scarsa integrazione europea e
di una libertà di differenziamento tra le normative nazionali; tale margine di
manovra rimasto in capo agli Stati Membri è percepito eccessivo. Pertanto, è
asserita la capacità della Direttiva di indurre gli Stati Membri a rendere più
sfavorevoli per immigrati migranti le normative nazionali.
Le misure della Direttiva, precedentemente accennate, vengono inquadrate
da Vassallo Paleologo quali discriminatorie e contrastanti con la Costituzione
della Repubblica Italiana per il fatto di stabilire all’art. 13 regole processuali
specifiche per
gli immigrati irregolari.
In particolare viene sollevata
l’incompatibilità con l’art. 6 CEDU, che garantisce un ricorso effettivo, malgrado
l’articolo dedicato alla procedura preveda al paragrafo 2 la facoltà in capo
all’organo di cui al precedente art. 13 par. 1 di sospendere temporaneamente
l'esecuzione del rimpatrio, a meno che la sospensione temporanea non sia già
applicabile ai sensi del diritto interno.
È rimarcabile l’interpretazione del Prof. Paleologo in materia di minori non
accompagnati (art. 10), che sembra non tenere conto del comma 2 dello stesso
33
Ivi, p. 13
34
Fulvio Vassallo Paleologo, Approvata la direttiva rimpatri – Il filo spinato che accerchia
l’Europa, Melting Pot, 18 giugno 2008, http://www.meltingpot.org/Approvata-la-direttivarimpatri-Il-filo-spinato-che.html#.Uw21suN5PNk, link consultato in data mercoledì 26 febbraio
2014 10.51.05
104
articolo, il quale subordina il rimpatrio del minore all’esistenza di una struttura
famigliare in grado di accoglierlo.
Gli accordi «di riammissione» con gli Stati di transito degli immigrati
irregolari, di cui all’art. 3 della presente direttiva, sono uno dei pochi ambiti in cui
l’Unione Europea attua una politica esterna in qualche misura svincolata dalla
politica commerciale comune, e anzi pone le premesse per un rafforzamento dei
legami euro-mediterranei ed euro-africani, con il potenziamento della stabilità
interna degli Stati partner dell’Unione.
Tali accordi vengono criticati per numerose ragioni. La ragione addotta in
prima battuta è che gli accordi verrebbero stretti con dittatori, cioè con regimi
marcatamente ostili all’approccio politico e sociale europeo occidentale e
strategicamente avversi al c.d. occidente. Lo scopo sarebbe quello di «impedire
l’accesso […] ai soggetti più vulnerabili come donne e bambini», nonostante la
previsione di cui, ad esempio, al Considerando n. 21 della direttiva.
Con l’accusa, esposta in toni inequivocabili, di volere impedire l’accesso a
“potenziali” richiedenti asilo
35
si delinea una concezione per la quale il diritto
d’asilo è interpretato come mezzo di immigrazione quasi ordinaria e applicabile
su larga scala, in un senso oggettivamente molto distante dal classico asilo offerto
quando esso era una decisione politica e sostanzialmente extra-giuridica.
Per quanto attiene all’approccio che la CGUE ha utilizzato a riguardo della
Direttiva Rimpatri, parte della dottrina lo ritiene “utile ma paradossale”36: da un
lato esso infatti disapplica e demolisce le previsioni di natura penalistica e
soprattutto detentiva, ma dall’altro non agisce in questo senso in nome dei diritti
dello straniero in condizione di soggiorno irregolare, bensì in funzione della
celerità del sistema. Pertanto, i diritti rivendicati dall’immigrato irregolare sono
35
Fulvio Vassallo Paleologo, Accordi di riammissione e direttiva sui rimpatri, L'altro diritto –
Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità,
http://www.altrodiritto.unifi.it/frontier/storia/riammiss.htm, link consultato in data 25 marzo 2014
10.54
36
Spitalieri, L’interpretazione della direttiva rimpatri, cit., p. 25
105
tutelati in un modo ravvisato come «indiretto», invece che essere il focus del
ragionamento giuridico della Corte, allo scopo di dare efficacia diretta alla
Direttiva che quei diritti attribuisce37, approccio peraltro adottato nella sentenza
C-357/09 Kadzoev38.
A parere di chi scrive, la Direttiva Rimpatri, in definitiva, comporta una
prevalenza generale accordata alla tutela dell’immigrato irregolare da espellere,
sia direttamente, sia in modo indiretto e riferito al minore o alla salute, a sua volta
tanto dell’immigrato irregolare quanto del minore, ostacolando in modo
sistematico l’azione della forza pubblica e della tutela della legalità; da un punto
di vista più generale, la sorveglianza delle frontiere cessa di essere un momento
schmittianamente «politico», per cedere il passo alla regolamentazione esterna e
improntata all’erosione della sovranità statale; la succitata sentenza El Dridi rende
chiaro che qualsiasi prospettiva di qualificare la sovranità sulle frontiere rendendo
illegale per se l’immigrazione non conforme è destinata a scontrarsi con la tutela
realizzata dalla Corte. Per di più, perfino l’inosservanza dell’ordine di rimpatrio è
stata esclusa dalla Corte come motivo legittimante l’irrogazione della reclusione
all’immigrato illegale soggetto alla decisione. Prevedendo il rimpatrio come – di
fatto – un’eccezione alla regola, si cessa di considerare lo spazio nazionale come
qualcosa di strutturalmente distinto dal territorio di giurisdizione di un mero ente
erogatore di servizi.
La stessa previsione di durata limitata del divieto di reingresso – stabilita a
partire dal considerando n. 21 che precede le disposizioni della Direttiva – implica
che la frontiera europea cessa (se mai lo è stata) di essere tale. L’approccio
elaborato e proposto non è, quindi, quello dell’eccezionalità dell’immigrazione,
ma quello della sua ordinarietà, a cui un’eccezione può essere posta solo se le
37
38
Ivi, p. 26
Ivi, p. 30
106
modalità di ingresso non sono regolari e comunque solo in via transitoria.
Accordi di riammissione
Il contrasto dell’immigrazione illegale, essendo un’attività rivolta ad evitare
che soggetti esterni all’Unione Europea vi entrino in modo non conforme alle
disposizioni, coinvolge anche la proiezione esterna dell’UE stessa, poiché la
procedura di rimpatrio sarebbe impossibile senza la cooperazion degli Stati verso
cui il rimpatrio è diretto.
La competenza per gli «accordi di riammissione» è attribuita in capo
all’Unione Europea dall’art. 79, par. 3 TFUE. Allo stato attuale, l’Unione ha
concluso dodici accordi di riammissione, dei quali ben otto con Stati europei, tra
cui gli Stati precedentemente appartenenti alla Repubblica Socialista Federativa di
Jugoslavia e non ancora appartenenti all’UE, l’Albania, l’Ucraina, la Moldova, la
Georgia e la Russia. Non sono stati firmati accordi di alcun genere con la
Repubblica di Crimea. Altri accordi sono stati conclusi con il Pakistan, lo Sri
Lanka e le Regioni Amministrative Speciali di Hong Kong e Macao39. È da
segnalare l’assenza di accordi stipulati tra l’UE nel suo complesso e gli Stati
dell’area sub-sahariana, gli Stati nordafricani e quelli vicino-orientali, da cui pure
proviene una quota non indifferente di immigrazione, anche illegale.
In genere, gli accordi di riammissione (ARUE) stipulati tra l’Unione
Europea e l’altra parte contraente prevedono semplicemente l’obbligo di ciascuna
Parte di riaccogliere i propri cittadini su richiesta della Parte richiedente, che si
trovino sul terri torio del richiedente e che non soddisfino i criteri di residenza,
40
ingresso e soggiorno applicabili su detto territorio .
La riammissione dei propri cittadini è considerato un obbligo in capo agli
Stati derivante dal diritto internazionale di natura consuetudinaria, ma per
39
http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti/Pagine/Accordi-UE.aspx
consultato in data 19/03/2014
40
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 248
107
link
riconoscere un soggetto come cittadino di un dato Stato è ncessaria l’esistenza di
una documentazione che ne attesti la cittadinanza; inoltre, in tutti gli accordi di
questo tipo meno quello stipulato con l’Ucraina, probabilmente a causa della
particolare situazione etnico-linguista di tale Stato, è stabilito un insieme di criteri
che consentono di presumere l’esistenza di tali documenti41.
Estranee al diritto consuetudinario sono invece le previsioni che regolano la
riammissione nel territorio delle Parti contraenti di cittadini di Stati terzi e di
persone apolidi: meno che per la Regione Amministrativa Speciale di Macao, è
prevista l’accettazione degli apolidi, secondo uno schema standardizzato; infine,
la R.A.S. di Hong Kong non tratta di cittadini di Stati terzi ma, a causa della
peculiare situazione giuridica e politica pan-cinese, più genericamente di
«cittadini di altra giurisdizione». Gli appartenenti a Stati terzi e gli apolidi sono
riammessi, nel territorio della Parte contraente, sulla base di tre criteri comuni a
tutti gli accordi: permesso di soggiorno, autorizzazione alla residenza (che nel
caso di Ucraina e Russia sono considerati in modo distinto) o provenienza diretta
dal territorio della Parte. Per quanto attiene a Pakistan e Sri Lanka, per
provenienza diretta si intende l’arrivo per mezzo marittimo o aereo senza transito
nel territorio di un altro Stato.
Tutti gli accordi di riammissione stipulati sinora che contemplino anche il
caso degli apolidi o di cittadini di Stati terzi contengono solitamente due clausole
di esclusione dalla riammissione nel territorio della Parte; la riammissione non si
applica qualora il cittadino di Stato terzo o l’apolide abbia compiuto mero scalo in
un aeroporto internazionale dello Stato a cui è richiesta la riammissione o la Parte
richiedente abbia rilasciato al cittadino di Stato terzo o all’apolide un permesso di
soggiorno o un visto d’ingresso, a meno che – clausola di esclusione alla clausola
di esclusione – il soggetto di cui trattasi sia in possesso di un visto o di un
permesso di soggiorno rilasciato dalla Parte a cui è richiesta l’ammissione con una
41
Ibidem
108
maggiore durata temporale.
Le clausole relative ai cittadini di paesi terzi o apolidi in alcuni casi sono
state applicabili dopo una proroga di due anni per l'Albania (con decorrenza dal 1°
maggio 2008 per l'Albania) e l'Ucraina (con decorrenza 1° gennaio 2010), di tre
anni per la Federazione russa (con decorrenza 1° giugno 2010)42.
Secondo la Commissione Europea, la stipula degli accordi di riammissione è
propedeutica non solo alla repressione dell’immigrazione illegale, ma anche alla
sua prevenzione: in quattro anni di vigenza comunque parziale (2007 – 2011) la
percentuale di cittadini di Stati terzi con accordi di riammissione è calata del
6,8%43.
È da sottolineare come l'UE consideri gli ARUE esclusivamente come
strumenti tecnici che apportano miglioramenti procedurali alla cooperazione tra
amministrazioni. La situazione della persona da riammettere non è disciplinata e
rimane quindi soggetta alla legislazione internazionale, dell'UE e nazionale
applicabile44, ivi compresi la Direttiva Rimpatri e i divieti di rimpatrio in caso di
pericolo di violazione dei diritti umani.
ACCORDI DI RIAMMISSIONE BILATERALI CONCLUSI DALL’ITALIA
Dal 1997 ad oggi la Repubblica Italiana stipula una serie di accordi
bilaterali finalizzati alla riammissione nei territori di provenienza o di transito di
immigrati illegali ed alla cooperazione tra forze di polizia, a cui vanno aggiunti gli
accordi relativi al controllo dell’immigrazione e delle frontiere45.
L’Italia ha concluso accordi di riammissione con alcuni Stati Membri
dell’Unione Europea come Francia, Austria, Grecia e Spagna, con Stati che
42
COM(2011) 76 definitivo, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al
Consiglio, 23 febbraio 2011, p. 5
43
Ivi, p. 4
44
Ivi, p. 11
http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti/Pagine/Accordi-Italia.aspx, link
consultato il 23-03-2014
45
109
successivamente sono divenuti parte dell’Unione Europea come Slovenia,
Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Croazia e
infine con Stati tuttora esterni all’UE, sia europei (Jugoslavia, Macedonia,
Albania, Georgia, Svizzera), sia extra-europei (Marocco, Tunisia, Algeria,
Nigeria). Il testo degli accordi è identico46.
Fondo Europeo per i Rimpatri
Il Fondo Europeo per i Rimpatri nell’ambito del programma “Solidarity and
Management of Migration Flows” ed è formalmente istituito con decisione n.
575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 maggio 2007. Esso
ha avuto durata per il periodo dal 1gennaio 2008 al 31 dicembre 2013 (art. 1).
L’obiettivo generale del fondo è sostenere gli sforzi compiuti dagli Stati
membri per migliorare la gestione dei rimpatri in tutte le sue dimensioni (art. 2
par. 1), sulla base del principio di una possibile gestione integrata del problema
(rimpatri forzati e rimpatri volontari assistiti). In particolare, il fondo mira a
introdurre una gestione integrata dei rimpatri (art. 3, par. 1, lett. b) e migliorarne
l’organizzazione e l’attuazione da parte degli Stati membri (Considerando 21; art.
3, par. 1, lett. a), rafforzare la cooperazione tra Stati membri nel quadro della
gestione integrata dei rimpatri e della loro attuazione. I piani di rimpatrio integrati
si incentrano in particolar modo sull'efficacia e sul carattere duraturo dei rimpatri,
di qualsiasi tipo siano (art. 3 par. 3).
In particolare, meta del fondo è promuovere un’applicazione efficace e
uniforme delle norme comuni concernenti il rimpatrio, predisporre misure per
incoraggiare programmi di rimpatrio volontario dei cittadini di paesi terzi
(Considerando 22) e, se necessario, operazioni di rimpatrio forzato (Considerando
23), nel rispetto dei diritti umani. Il Considerando 24 richiama l’importanza degli
accordi di riammissione e, più in generale della collaborazione con gli Stati terzi.
46
http://www.uil.it/immigrazione/riammissione.pdf
110
L’art. 4 elenca nei suoi tre paragrafi il tipo di azioni intraprese dagli Stati
Membri che sono sostenibili dal fondo; in modo particolare esse possono
riguardare il miglioramento della «cooperazione» con le apposite autorità, anche
consolari, degli Stati terzi (par. 1, lett. a; par. 2 lett. b), l’incoraggiamento al
rimpatrio volontario (lett. b e lett. c), la creazione di sistemi integrati interni ad
ogni Stato Membro per velocizzare il flusso di informazioni e l’adozione delle
best practices straniere (par. 1, lett. d e par. 2, lett. e), a cui fa da controparte la
formazione in tal senso di tutto il personale coinvolto (par. 3, lett. d), il
potenziamento degli organi giudiziari in grado di giudicare sulle decisioni di
rimpatrio avverso le quali è stato presentato ricorso (par. 3, lett. c) e, infine, la
semplificazione e l'attuazione dei rimpatri forzati (lett. e). È da rilevare come
quest’ultimo punto sia previsto «al fine di rafforzare la credibilità e l'integrità
delle politiche di immigrazione e di ridurre il periodo durante il quale le persone
in attesa di rimpatrio forzato devono essere trattenute», ponendo l’accento quindi
sulla tutela degli immigrati illegali e sull’immagine delle politiche UE, e non sulla
repressione dell’immigrazione.
I principi di intervento del Fondo devono rispettare i criteri di
complementarità, coerenza e conformità (art.8) e di sussidiarietà (art. 10).
L’art. 14 descrive la ripartizione delle risorse del fondo: 300.000 € per ogni
Stato Membro, aumentati a 500.000 € per gli Stati di nuova accessione (2004 e dal
2007 al 2013), mentre le restanti risorse vengono assegnate secondo un doppio
criterio proporzionale che incentiva lo Stato Membro nella repressione
dell’immigrazione illegale: il 50% secondo il numero dei soggiornanti illegali che
nei tre anni precedenti siano stati soggetti a una decisione di rimpatrio e il 50%
secondo al numero di cittadini effettivamente dipartitisi dal territorio dello Stato
Membro che siano effettivamente entrati o che non debbano essere rimpatriati
verso un altro Stato Membro.
L’art. 18 pone in capo alla Commissione il compito di adottare un piano
strategico complessivo per la durata del Fondo, attuato tramite programmi annuali
111
(art. 20), a cui devono seguire (art. 19) un programma nazionale pluriennale, che
la Commissione deve approvare entro tre mesi dalla loro presentazione ufficiale.
Il Capo V è dedicato alla previsione di sistemi di gestione e di controllo dei
programmi pluriennali stabiliti dagli Stati membri e delle loro caratteristiche
obbligatoriamente presenti. Tali sistemi consistono in autorità di gestione e
controllo, che sono direttamente coinvolte nell’attuazione (art. 27), autorità di
certificazione (art. 29) e autorità di audit e ispettive (art. 30).
Secondo l’art. 31, spetta agli Stati membri garantire la sana gestione
finanziaria dei programmi pluriennali e annuali e la legittimità e la regolarità delle
operazioni soggiacenti; dal canto suo, la Commissione vigila sull’attuazione del
sistema di controlli (art. 33) e collabora con le autorità di audit degli Stati Membri
(art. 34), secondo uno schema ampiamente collaudato in numerosi settori anche
molto distanti dall’immigrazione illegale.
Modelli migratori e sistemi di soggiorno e di accesso alle cittadinanze nazionali
Malgrado l’armonizzazione generata dalle direttive in materia di
accoglienza, identificazione, concessione dell’asilo e rimpatrio, in capo agli Stati
Membri permane ancora buona parte delle funzioni sovrane in materia di
immigrazione, condizioni di soggiorno e cittadinanza.
Si possono distinguere tre gruppi di politiche nazionali in materia di accesso
alla cittadinanza: politiche basate sullo jus soli (cioè ispirate al criterio del luogo
di nascita del soggetto cui attribuire la cittadinanza), politiche miste e politiche
basate sullo jus sanguinis (cioè basate sul criterio della cittadinanza degli
ascendenti del soggetto). Gli ordinamenti maggiormente caratteristici perché
fortemente tipizzati sono quello italiano, considerato un modello di jus sanguinis,
quello tedesco, visto come sistema misto, e quello francese, basato
prevalentemente sullo jus soli. In ogni caso, tutte le normative in essere negli
ordinamenti degli Stati Membri dell’Unione Europea devono tenere conto delle
112
Direttive UE, in particolar modo per quanto riguarda il soggiorno dei non
cittadini.
ITALIA
L’accesso alla cittadinanza in Italia è disciplinato dalla legge 5 febbraio
1992, n. 91 s.m.i.. Il principio ispirartore è quello del sangue, tale per cui è
cittadino italiano chi sia figlio di almeno un cittadino italiano (art. 1 c. 1, lett. a).
Al criterio generale del sangue fanno eccezione alcuni casi, ispirati alla tutela dei
diritti umani, qualora il soggetto sia figlio di apolidi o di genitori ignoti (art. 1, c.
1, lett. b), o qualora il soggetto nato in Italia sia impedito all’accesso della
cittadinanza dal Paese di origine dei genitori. Ulteriore eccezione al criterio della
discendenza è quella per cui lo straniero nato in Italia può richiedere la
cittadinanza entro il diciannovesimo anno di età, previa continuativa residenza in
Italia (art. 4, c. 2).
In aggiunta all’acquisto della cittadinanza per gli stranieri nati in Italia, è
previsto l’accesso anche per i coniugi apolidi di cittadini italiani (art. 5, purché
incensurati ai sensi dell’art. 6), ai figli di chi acquista la cittadinanza italiana,
senza particolari limitazioni (art. 14) e agli esuli istriani e dalmati e ai loro
discendenti (art. 17bis).
Infine, il cittadino di uno Stato Membro, qualora risieda legalmente per
quattro anni continuativi in Italia, può richiedere la cittadinanza con una
procedura particolare (art. 9, c.1, lett.d), aprendo così una via per il mutuo
riconoscimento delle normative nazionali degli altri Stati Membri.
La disciplina strettamente immigratoria è disciplinata invece dal Decreto
legislativo 25 luglio 1998, n° 286 s.m.i., testo unico dell’immigrazione.
GERMANIA
La legge tedesca è ispirata al criterio del luogo di nascita, con l’aggiunta del
113
criterio del sangue, ribaltando la normativa in vigore prima del 2000. Per essere
cittadini tedeschi è sufficiente che almeno uno dei genitori sia residente da almeno
otto anni e abbia un permesso di soggiorno illimitato. Salvo prova contraria, il
bambino figlio di ignoti trovato in territorio tedesco è considerato tedesco47.
Tuttavia, lo straniero richiedente cittadinanza tedesca – senza che si verifichino le
condizioni di attribuzione della cittadinanza alla nascita – deve rispettare una serie
di stringenti requisiti.
48
La politica migratoria è invece considerata flessibile , tanto per la
percezione di doveri umanitari fin dal secondo dopoguerra quanto per interessi
economici, legando l’accesso al territorio tedesco alla necessità di forza lavoro,
possibilmente qualificata, del mercato.
FRANCIA
La Francia adotta un regime di cittadinanza ispirato in prevalenza allo jus
soli: cittadino francese è: il figlio di una coppia di cui almeno uno dei genitori sia
a sua volta cittadino francese; colui che nasce in Francia, qualore almeno un
genitore vi sia nato, a prescindere dalla cittadinanza; ogni bambino nato in Francia
da genitori stranieri, sebbene la cittadinanza venga automaticamente attribuita
solo alla maggiore età, salvo eccezioni meno ostative; colui che ha almeno uno dei
genitori che ha risieduto in Francia per almeno cinque anni49.
A seguito delle normative più recenti, la politica immigratoria francese è
ispirata alla necessità da parte dello straniero di possedere un lavoro o comunque
una fonte di reddito legale50.
I limiti all’operare dell’espulsione derivanti dall’applicazione delle norme
47
48
49
50
Lucilla Deleo, La politica migratoria nell’Unione Europea, d.u.press, Bologna, 2007, p. 140
Ivi, p. 141
Ivi, p. 144
Ivi, p. 147
114
internazionali a tutela dei diritti umani
Ogni previsione, tanto degli Stati Membri se attinente all’esecuzione della
disciplina comunitaria51 quanto dell’Unione Europea stessa, deve essere intesa
come soggetta ai limiti dell’effettività e della proporzionalità, quest’ultima intesa
come applicazione del triplo standard precedentemente descritto. Tanto quello
dell’effettività quanto quello della proporzionalità sono criteri considerati parte
dei principi generali del diritto dell’Unione Europea e, in quanto tali, la loro
applicazione viene garantita dalla Corte di Giustizia. La materia immigratoria e –
segnatamente – quella espulsiva non fanno eccezione e la succitata sentenza El
Dridi è l’esempio dell’applicazione del principio dell’effettività.
Accanto a quelle derivanti tali principi, che svolgono da contrappeso
generalizzato alle norme positive adottate, limitazioni di altro tipo possono
sorgere da norme di diritto internazionale contenute in convenzioni in materia di
diritti umani.
Tali norme fanno pienamente parte delle tradizioni costituzionali comuni a
cui la Corte di Giustiza fa riferimento, così come evidenziato da una costante e
duratura giurisprudenza, che fa risalire le sue origini alle succitate sentenze Nold e
Hauer, principio peraltro ricordato dall’art. 6, par. 3 TUE; le norme sui diritti
umani, essendo considerate principi fondamentali del diritto, sono in grado di
prevalere, entro certi limiti, sulle disposizioni tanto dei Trattati quanto degli atti
derivati. Tra le norme internazionali a salvaguardia dei diritti umani, speciale
preminenza hanno quelle derivanti dalla Convenzione Europea per la
Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali 52, così come
specificato dall’art. 6 TUE e dall’art. 52, par. 3 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea, la quale a sua volta ha uguale valore giuridico
rispetto ai Trattati. Le norme CEDU, inoltre, non sono interpretate
51
52
C-540/03, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea, punto 105
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 251
115
autonomamente dalla Corte di Giustizia, bensì sono recepite per come interpretate
dall’apposita Corte Europea, andando a costituire il già ricordato sistema
composto da «Due Corti, Uno Standard» che, per quanto attiene materie
concernenti l’immigrazione e l’espulsione, non ha conosciuto fasi di difformità di
parametri a causa del carattere relativamente recente della disciplina comunitaria
in tale ambito.
Le norme a tutela dei diritti umani direttamente riguardanti l’espulsione
Le
norme
direttamente
riguardanti
l’espulsione
delle
convenzioni
internazionali a tutela dei diritti umani occupano un posto secondario, sia per
numero di disposizioni che, di conseguenza, per l’importanza della giurisprudenza
che la Corte CEDU ha potuto rendere in tale ambito53.
In linea generale, anche la CEDU ha chiarito che le persone che entrano
illegalmente nel territorio di uno Stato parte non possono, in generale, far valere
una aspettativa legittima che venga loro accordato un diritto di soggiorno. Questa
linea è stata confermata in numerose sentenze, come ad esempio Chandra e altri
c. Paesi Bassi54.
L’articolo 5, par. 1, lett. (f) CEDU autorizza le Parti a privare della libertà
personale chi tenti di entrare illegalmente nel territorio, così come chi sia fatto
oggetto di un un procedimento d’espulsione o d’estradizione. Ad ogni modo, la
Convenzione caratterizza anche questo trattenimento in arresto o in detenzione
come soggetto alla revisione giurisdizionale. L’art. 4 del Protocollo n. 4 alla
Convenzione, inoltre, vieta nettamente qualsiasi espulsione collettiva, principio
ripreso dall’art. 19 par. 1 della Carta dei Diritti Fondamentali, il quale si spinge a
richiamare direttamente due principi-cardine della CEDU.
53
Ivi., p. 252
54
Barbara Randazzo (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo – Quaderno predisposto in occasione dell’incontro trilaterale delle Corti costituzionali
italiana, spagnola e portoghese, par. 3.3.
116
Nonostante la relativa importanza secondaria, la giurisprudenza sull’art. 5.1,
lett. (f) CEDU ha indicato che il ricorso deve poter effettivamente fermare il
provvedimento di espulsione; questa lettura incide grandemente sull’art. 13 della
Direttiva Rimpatri55.
L’applicazione delle norme che vietano la tortura in relazione all’espulsione
La tipologia di norma posta più frequentemente in rilievo dinanzi ai
rispettivi organi giurisdizionali istitituiti dalle diverse convenzioni internazionali
sulla tutela dei diritti umani riguarda tuttavia il divieto di tortura o di pene e
trattamenti «disumani e degradanti»56. Tale divieto è previsto dall’art. 3 CEDU,
dall’art. 7 del Patto sui diritti civili e politici e, indirettamente, dall’art. 19 della
Carta UE.
La relazione con la materia dell’espulsione viene in evidenza se gli articoli
succitati vengono collegati agli articoli dei medesimi strumenti che definiscono la
giurisdizione delle Parti contraenti: tanto la CEDU (art. 1) quanto il Patto (art. 2)
obbligano le parti ad includere nei diritti individuali tutti coloro che si trovano
sotto la loro giurisdizione. In particolare, la Corte Europea ha con costante
giurisprudenza57 precisato che per “giurisdizione” non si intende solo il territorio
dello Stato e delle sue eventuali dipendenze territoriali, ma che si estende anche
all’espulsione e all’estradizione e quando lo Stato ha propri agenti – secondo la
pacifica definizione del diritto internazionale – che di fatto ne esercitino i poteri
su un individuo al di fuori del rimpatrio e del territorio nazionale: il caso tipico di
tale situazione rapportata alla materia immigratoria è quello della nave militare di
uno Stato che intercetti un vascello in acque internazionali.
Malgrado il fatto che tanto l’estradizione quanto la gestione generale
55
56
57
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 253
Ivi, p. 254
Decisione del 12/12/2001, Bankovic e altri contro Belgio
117
dell’immigrazione siano materie escluse dalla Convenzione in quanto attinenti al
dominio riservato degli Stati, il rimpatrio, sotto qualunque forma, di un individuo
può contrastare con l’art. 3 CEDU se la Corte ritiene che sia possibile che la
persona da rimpatriare possa essere sottoposta ai trattamenti vietati dall’articolo
stesso. Poiché l’individuo da rimpatriare è sottoposto alla sua giurisdizione, lo
Stato firmatario CEDU è tenuto al rispetto del divieto, che mancherebbe nel caso
in cui l’individuo fosse esposto a seri pericoli di tortura.
Non solo, tale divieto opera anche quando lo Stato di destinazione non sia
quello d’origine e non offra garanzie da una protezione nei confronti dello Stato
d’origine dell’individuo58.
Come affermato in toni netti e ultimativi in numerosi rescritti59 e sentenze,
la tutela dell’art. 3 CEDU non prevede limitazioni di alcun genere60, e in ciò
differisce dalla maggioranza delle altre disposizioni, che invece sono soggette al
citato test del principio di proporzionalità.
Ad ogni modo, l’art. 3 CEDU, e altre disposizioni dal contenuto analogo,
devono riferirsi a una certa soglia di severità perché siano invocabili. Tale soglia è
relativa, in quanto dipende dalle specifiche condizioni della persona
potenzialmente sottoposta ai trattamenti che si vogliono analoghi alla tortura o
inumani e degradanti, nonché dagli effetti del trattamento in particolare che
verrebbe riservato alla persona. Le specifiche nozioni di tortura, di trattamento
inumano e di trattamento degradante non sono, allo stato attuale della
giurisprudenza CEDU, definite in modo univoco e costante61.
Per quanto è inerente all’onere della prova, la Corte (come nella succitata
sentenza Hirsi) può ricevere dati e documentazione dalle parti e può procurarsele
d’ufficio; inoltre, vige un reciproco obbligo di dimostrazione tra le parti: il
58
59
M.E. Gennusa, La CEDU e l’UE, cit., p. 117
Su tutti, per quanto attiene al rimpatrio: A/AC.96/951, 13 settembre 2001
60
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 256
Barbara Randazzo (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, cit., par. 4.1.4.1.
61
118
ricorrente deve dimostrare il rischio dei trattamenti inumani e degradanti e lo
Stato avverso il quale è stato presentato ricorso deve contraporre elementi atti a
confutare il ricorrente62.
La sentenza Hirsi e altri contro Italia
A causa dell’influenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la
sentenza Hirsi e altri contro Italia, resa dalla Grande Camera il 23 febbraio 2012,
costituisce, assieme ad altre, un parametro di riferimento assolutamente di rilievo
per la varietà di temi trattati e di orientamenti giurisprudenziali confermati o
corretti in materia di espulsioni collettive e di divieto di tortura e di trattamenti
inumani o degradanti.
Come notato dal Giudice Pinto De Albuquerque nella sua Separate opinion
alla sentenza, «The Hirsi Jamaa case is about the international protection of
refugees, on the one hand, and the compatibility of immigration and bordercontrol policies with international law, on the other hand». Successivamente,
citando l’autrice liberale Hannah Arendt, riconosce che il caso tratta, nel suo più
implicito significato, del “diritto ad avere diritti”.
La domanda a proposito della questione se le persone prive della
cittadinanza europea, quali gli immigrati o i migranti sono, possiedano il “diritto
ad avere diritti” è un’efficace formulazione della domanda sulla quale si gioca
l’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali da parte tanto dell’Unione
Europea quanto del Consiglio d’Europa, oggi (ma in realtà da molto tempo) due
strutture che tendono a influenzarsi reciprocamente a un livello molto profondo,
quantomeno per quanto attiene all’Europa occidentale. L’evoluzione che viene a
porsi quale elemento di discussione altro non è che l’inclusione di nuove categorie
di persone all’interno della sfera di protezione dei diritti fondamentali. Una volta
raggiunta quella che è stata riconosciuta come una generale ed efficace tutela dei
62
Ivi, par. 4.1.4.2
119
diritti per quanti risiedono stabilmente all’interno dei confini delle giurisdizioni
europee, la sfida che viene sottintesa dalla domanda invero retorica del Giudice
De Albuquerque è quella di progressivamente allargare la soggettività giuridica
delle istituzioni c.d. “costituzionali” europee (intese in senso strettamente liberale
e borghese, cioè come produttrici e protettrici di diritti) alla più larga parte di
persone possibile, ivi compresi – per l’attuale impossibilità di imporre il diritto
europeo ad altri Stati – coloro che non sono ancora fisicamente presenti in Europa.
Tale natura funzionalmente ambivalente, tuttavia, si inserisce su piani di
stretta pertinenza della sovranità politica: l’attribuzione di diritti agli immigrati in
quanto persone e non in quanto componenti della comunità nazionale di
riferimento (in questo caso somali ed eritrei che azionano diritti nei confronti
dell’Italia davanti a una corte che fa del suo essere “Europea” un mero riferimento
geografico) è la manifestazione più avanzata del compiersi dell’universo di
“valori” giuridici tipico del liberalismo.
Il caso deriva da un ricorso contro la Repubblica Italiana da parte di undici
individui di nazionalità somala e tredici di nazionalità eritrea. Il ricorso verteva in
particolare sul fatto che la loro espulsione in Libia da parte delle autorità italiane
violasse l’art. 3 CEDU e l’art. 4 del Protocollo n. 4. Inoltre, i ricorrenti
contestavano l’assenza di rimedi effettivi che soddisfacessero l’art. 13 di detta
Convenzione.
Per quanto attiene alle circostanze fattuali che fecero da prodromo al
ricorso63, i ricorrenti erano parte di un gruppo di persone che lasciarono le coste
libiche a bordo di tre navi per raggiungere le coste italiane. A 35 miglia nautiche a
sud di Lampedusa – ben al di fuori delle acquetute territoriali o di prossimità
italiane e anzi all’interno dell’area di ricerca e soccorso di responsabilità maltese,
le cui autorità tuttavia non intervennero64 – furono intercettati da vascelli della
63
Sent. Hirsi e altri c. Italia, 23febbraio 2012., parr. 9-17
Alessia Di Pascale, La sentenza Hirsi e altri c. Italia: una condanna senza appello della politica
dei respingimenti, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, Anno XIV, n. 1/2012, p. 88
64
120
Guardia di Finanza e della Guardia Costiera. Una volta a bordo delle navi – tutte
appartenenti a corpi militari – non furono identificati e vennero rispediti a Tripoli
in forza, secondo quanto affermato dal Ministro dell’Interno, degli accordi
bilaterali italo-libici. All’arrivo nella città libica, i ricorrenti e le altre persone a
bordo delle navi vennero consegnati alle autorità libiche e, nonostante le loro
proteste, costretti a scendere dalle navi militari italiane65.
I ricorrenti contestavano l’assenza di informazioni sulla loro reale
66
destinazione e di tentativi di identificazione . Inoltre, secondo i rappresentanti dei
ricorrenti, dopo gli eventi contestati due dei medesimi ricorrenti morivano in
circostanze sconosciute67.
Secondo il Codice della Navigazione italiano (artt. 4 e 5 Regio Decreto 30
marzo 1942, n. 327 e s.m.i.), i vettori italiani in alto mare e nello spazio aereo
fuori dalla sovranità di uno Stato sono considerati essere parte del territorio
italiano.
Inoltre, tra l’Italia e l’organizzazione statuale libica allora vigente – vale a
dire la Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare Socialista – era in vigore un
accordo bilaterale che istituiva un sistema di vigilanza e repressione
dell’immigrazione clandestina, che si traduceva in un impegno operativo
congiunto, con la partecipazione di mezzi e di equipaggi misti delle due nazioni.
Inoltre, ai sensi dell’art. 6 del medesimo Trattato, tanto la Repubblica Italiana
quanto la Jamāhīriyya Libica si impegnavano ad esercitare le attività di contrasto
all’immigrazione clandestina nel rispetto della Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo e della Carta delle Nazioni Unite68.
La Corte prosegue l’analisi degli elementi di diritto che definiscono la
posizione dell’Italia in rapporto al ricorso presentato prendendo in considerazione
65
66
67
68
Sent. Hirsi, cit., Par. 12
Sent. Hirsi, cit., Par. 11
Sent. Hirsi, cit., Par. 15
Sent. Hirsi, cit., Parr. 19-20
121
gli strumenti di diritto internazionale a cui l’Italia adesrisce: di primaria rilevanza,
per un organo di garanzia di una convenzione sui diritti umani, è la Convenzione
di Ginevra sui rifugiati e in particolare gli artt. 1 e 33 par. 1.
L’art. 1 definisce il rifugiato, mentre l’art. 33 par. 1 proibisce alle Parti
contraenti di respingere tale rifugiato in un territorio dove la sua vita o la sua
libertà sarebbero minacciate per effetto dei criteri che all’art. 1 concorrono a
formare la definizione di rifugiato.
La medesima Corte Europea, in una nota del 2001, ribadisce come tale art.
33 della Convenzione di Ginevra sia
a cardinal protection principle enshrined in the
Convention, to which no reservations are permitted […].
This includes rejection at the frontier, interception and
indirect refoulement, whether of an individual seeking
asylum or in situations of mass influx. 69.
Tale ultimativa formulazione è parte della struttura logico-argomentativa secondo
la quale l’art. 3 CEDU, nella sua applicazione al rimpatrio da parte degli Stati che
sono parte contraente, non può essere soggetto al bilanciamento con altre
esigenze, ivi compresa la tutela della sicurezza nazionale dello Stato, né la sua
mancata osservanza nel più rigoroso dei termini essere giustificata da grandi e
straordinari afflussi di immigrazione70.
A fianco del complesso giuridico internazionale a tutela dei diritti umani, la
Corte Europea ha analizzato la nota Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto
del Mare del 1982 di Montego Bay, e in particolare gli artt. 92, 94 e 98, che
disciplinano la responsabilità e la giurisdizione delle navi in alto mare, nonché il
69
70
A/AC.96/951, cit., par. 16
Sent. Hirsi, cit., Par. 122
122
dovere di rendere assistenza71; inoltre, la Corte CEDU ha richiamato l’art. 3, par.
1, subparagrafo 9 dell’allegato della Convenzione Internazionale sulla Ricerca e
Soccorso in mare, che stabilisce che le Parti contraenti responsabili per la
specifica zona devono coordinare i comandanti delle navi perché provvedano
assistenza e soccorso72.
La Corte ha richiamato anche l’art. 19 della Carta UE dei diritti
fondamentali, che proibisce l’espulsione collettiva73, nonché numerosi strumenti
ONU e UE che ribadiscono, anche e sorpattutto in riferimento al succitato
protocollo italo-libico sull’immigrazione clandestina, che la priorità dell’Unione
Europea è quella di garantire il diritto all’asilo, ma che le disposizioni comunitarie
in materia di asilo non sono applicabili in alto mare, nonostante sia in vigore il
Codice delle Frontiere di Schengen74.
Infine, la Corte CEDU non solo ha tenuto conto di un rapporto del Comitato
per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani e Degradanti, dove si
sottolineava che gli immigrati respinti in Libia venivano privati del rispetto del
75
principio di non respingimento in un Paese non sicuro , ma veniva tenuta in
considerazione persino la relazione presentata da un’associazione politica
transnazionale
come
Human
Rights
Watch76,
condotta
intervistando
77
esclusivamente immigrati , secondo la quale l’apparato italiano di contrasto
all’immigrazione clandestina non discriminava gli eventuali soggetti in possesso
dei requisiti necessari per chiedere la concessione dello status di rifugiato 78.
L’attività informativa è stata condotta dalla Corte in autonomia in base a
71
72
73
Ivi, par. 24
Ivi, par. 25
Ivi, par. 26
74
Lettera del 15 luglio 2009 di Jacques Barrot, Vicepresidente della Commissione Europea, in
Sent. Hirsi, cit., Par. 34
75
Sent. Hirsi, cit., parr. 35-36
76
77
78
Ivi, parr. 37-39
Ivi, par. 38
Ibidem
123
precedenti abbastanza risalenti nel tempo79.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, dopo aver preso atto delle
posizioni tanto del Governo italiano quanto dei ricorrenti, e delle reciproche
obiezioni, ha precisato il senso di “giurisdizione”, per come deve essere inteso
secondo l’art. 1 CEDU80. In primo luogo, l’esercizio fattivo di tale giurisdizione è
la condizione necessaria e sufficiente perché vi sia una responsabilità dello Stato
in questione: essa si presume nel territorio dello Stato81 (di cui peraltro le navi
militari per la legge italiana fanno parte) e può sorgere, come da precedente
giurisprudenza, da azioni militari compiute dallo Stato82. Nel caso di specie,
quindi, erano presenti entrambi gli elementi che fanno sorgere la responsabilità in
capo all’Italia: territorio italiano secondo la legge italiana e azione per di più
compiuta esclusivamente da mezzi e operatori soggetti alla condizione militare
quali la Guardia di Finanza e il Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia
Costiera83; il fatto che fosse una missione di ricerca e soccorso in mare, per di più
nella zona di responsabilità maltese, e, quindi, i controlli fossero stati minimi non
84
attenua secondo la Corte CEDU l’effettività della giurisdizione italiana .
La proibizione di cui all’art. 3 CEDU viene in questa sentenza e più in
generale esaminata secondo due accezioni, preso atto che le Parti contraenti non
adottano simili pratiche: il rischio di subire atti contrari al citato articolo nello
Stato di origine e quello di subire atti dello stesso tipo nello Stato di destinazione
o di transito, ove questo sia diverso dal primo.
In primo luogo, la Corte afferma che la materia del rimpatrio è chiaramente
di competenza nazionale; tuttavia, laddove esistano rischi sostanziali di atti
contrari all’articolo in parola, sussiste per effetto della Convenzione
79
80
81
82
83
84
Sent. H.L.R. c. Francia, sentenza del 29 aprile 1997, par. 37
Sent. Hirsi, cit.,, parr. 70-75
Ivi, par. 71
Ivi, par. 73
Ivi, par. 76, 77 e 81
Ivi, par. 79
124
un’obbligazione a non espellere l’immigrato85; in tali casi la Corte ha il compito
di valutare l’esistenza o meno di rischi, esaminando documentazione sia
sottopostale dalle Parti, sia raccolta motu proprio86. sia Requisito emergente da
costante giurisprudenza, è che si dimostri che il rischio sia reale e individuale, e
che le autorità dello Stato di ricezione non siano in grado di evitarlo87.
In ogni caso, dedurre il trattamento ricevuto dopo il loro ritorno o dopo il loro
accesso allo Stato di transito dagli immigrati soggetti alla misura di espulsione è
responsabilità delle autorità dello Stato sotto la cui giurisdizione gli immigrati si
88
trovano .
Per quanto invece attiene all’annessa ma tuttavia distinta questione della
espulsione collettiva, viene fatto osservare dalla Corte CEDU come il divieto di cui
all’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU, peraltro ripreso letteralmente dall’art. 19,
par. 1 della Carta UE, descriva, come risulta da giurisprudenza invero risalente,
l’espulsione collettiva come qualsiasi misura diretta a indurre un gruppo di
stranieri in quanto tale a lasciare la nazione, senza che questo gruppo di stranieri
debba, per caratterizzare come collettiva l’espulsione, avere qualche carattere
oggettivo o soggettivo in comune oltre alla contemporaneità dell’espulsione
stessa. Unica eccezione è quando una tale misura è adottata solo dopo aver
esperito un esame oggettivo e ragionevole dei casi particolari di ogni singolo
straniero del gruppo, esame che sarebbe peraltro compromesso in presenza di una
legge che preveda l’espulsione immediata89 e senza la possibilità di sospenderne
gli effetti per mezzo di un’impugnazione davanti a un organo giurisdizionale.
Non fermandosi al mancato rispetto dell’esame della singola situazione, la
Corte CEDU rileva come l’art. 4 in parola non faccia alcuna menzione del
85
86
87
88
89
Ivi, par. 113
Ivi, parr. 114-116
Ivi, par. 120
Ivi, parr. 133 e 146-147
Ivi, parr. 166-168
125
concetto di “territorio” degli Stati Membri, anche a prescindere dal fatto che nel
caso di specie le navi militari costituiscono effettivamente territorio nazionale;
mancando qualsiasi altro limite spaziale, la logica conseguenza è che il divieto di
espulsione collettiva si riferisca alla “giurisdizione”, e che quindi non sfugga
all’applicazione di tale articolo anche la giurisdizione di tipo extraterritoriale90,
come emerge dall’analisi operata dalla Corte Europea sui lavori preparatori della
CEDU91.
Limiti all’operare dell’espulsione derivanti dal diritto alla vita privata e familiare
e da altri diritti non assoluti
Il divieto derivante dall’applicazione e dalla lettura estensiva dell’art. 3
CEDU è, come accennato, assoluto e prevalente su ogni altra considerazione di
interessi generali: esso sfugge quindi al principio di proporzionalità ed è immune
da ogni bilanciamento.
Non altrettanto si può dire, invece, dei limiti derivanti dal rispetto del diritto
alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU, disciplinato anche all’art. 17
del Patto sui diritti civili e politici e all’art. 7 Carta UE dei diritti fondamentali 92.
In particolare, l’art. 7 della Carta si ricollega al successivo art. 9, che afferma la
competenza nazionale a disciplinare le norme della famiglia93.
La vita familiare e privata dell’immigrato sono tutelate, secondo l’ormai
consolidato standard comune, anche dalla CGUE: lo spunto iniziale della tutela
del diritto per quanto attiene agli immigrati da espellere è e rimane di natura
economica oltre che inerente alle competenze derivanti dalla legislazione UE in
materia di asilo e di rimpatri; tuttavia, alcuni autori ritengono che sia la
90
91
Ivi, parr. 173, 174 e 178
Di Pascale, La sentenza Hirsi e altri c. Italia, cit., p. 90
92
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 256
Stefania Ninatti, Il diritto alla vita familiare all’esame della Corte di Giustizia, in Marta
Cartabia (a cura di), I diritti in azione , cit., p. 242
93
126
preoccupazione per i “diritti umani” a muovere l’azione della Corte UE e che il
richiamo alla libera circolazione sia stato strumentale a proteggere tali diritti94
prima dell’introduzione della normativa “comunitaria” in tali materie. È da
rilevare come la «vita privata» dell’immigrato comprenda non solo le relazioni
umane e personali, ma ricomprenda anche l’ambito lavorativo e commerciale95.
A riguardo del tipo concreto di “famiglia” da tutelare e da proteggere si è
storicamente verificata un’evoluzione che partiva da una concezione della
famiglia in senso tradizionale, per dirigersi in direzione di una concezione
“estensiva” del concetto, sempre facendo attenzione a evitare i c.d. “matrimoni di
comodo”, ma giungendo ad ammettere perfino l’assenza di stabile convivenza tra
i familiari la cui vita familiare “a distanza” dovrebbe essere tutelata, ivi compresa
la formazione di una vita familiare ancora al di là da avvenire ma la cui esistenza
è solo «intended»96 o costituita da una convivenza non sanzionata da atti validi o
riconosciuti nello Stato da cui gli immigrati dovrebbero essere espulsi97.
Benché l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa abbia adottato
una raccomandazione sulla non espulsione degli immigrati di lunga durata, la
Corte CEDU, pur tenendo conto98 del carattere permanente della vita privata e
familiare dell’immigrato di lunga durata, non ha costituito un diritto assoluto alla
99
sua permanenza .
Rispetto al carattere ferreo e di “firewall” del divieto di cui all’art. 3 CEDU,
tutte le disposizioni a riguardo della protezione della vita privata e familiare sono
pienamente soggette al test di proporzionalità, e la protezione di tali diritti deve
essere bilanciata con l’interesse generale ad adottare il provvedimento di
94
95
96
97
Ivi, p. 241
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 258
Sent. Abdul Aziz, Cabales and Balkandali v. The United Kingdom, 28 Maggio 1985, par. 62
Ivi, par. 63
98
Cellamare, Il rimpatrio e l’allontanamento, cit., p. 259
Randazzo (a cura di), Lo Straniero nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, cit., par. 4.1.3.
99
127
espulsione, pur mantenendo la tutela dell’interesse del minore un particolare
status di protezione.
Invero, nella tutela del diritto alla vita familiare e privata è stato realizzato il
primo concreto allargamento europeo della soggettività giuridica anche a
prescindere dal requisito della cittadinanza comunitaria: non solo l’art. 10 del
Regolamento (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativo alla
libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, estende una serie di
diritti sociali ai familiari del lavoratore cittadino di Stato Membro a prescindere
dalla cittadinanza di cui i familiari sono titolari100, ma l’art. 11 del medesimo
regolamento attribuisce ai familiari del lavoratore comunitario il diritto di
accedere a qualsiasi attività subordinata su tutto il territorio di tale Stato, anche se
non possiedono la cittadinanza di uno Stato membro. Il solo impedimento alla
concessione dei diritti previsti dal Regolamento a venire in rilievo è l’eventuale
soggiorno illegale nel territorio dell’Unione Europea. Non fermandosi al coniuge
e ai figli non cittadini comunitari del lavoratore comunitario, da tempo a godere
dei medesimi diritti sono anche gli ex-coniugi, anche qualora il lavoratore
cittadino di Stato Membro non eserciti più la sua attività.
100
Ad es. il diritto al ricongiungimento
Vreemdelingenzaken en Integratie c. R. N. G. Eind
128
familiare:
cfr.
C-291/05
Minister
voor
CONCLUSIONI
Dalla breve analisi condotta, è possibile trarre alcune conclusioni di fondo,
tanto riguardo alla concreta politica dell’Unione rispetto ai cittadini non
“comunitari” (per continuare ad usare una formula scorrevole ma ormai non più
corretta), tanto riguardo alla questione più risalente, e cioè all’effettivo incidere
della volontà e della decisione politica sul concreto ordinamento vigente.
La prima parte del I capitolo ci consente di riconoscere quanto,
nell’ordinamento liberaldemocratico, le volontà politiche del legislatore e
dell’amministratore (ammesso che siano distinte) siano sottoposte in modo
organico a un continuo sindacato di merito da parte degli organi giurisdizionali.
La
modalità
specifica
del
sindacato
giurisdizionale
varia
a
seconda
dell’ordinamento: esso può essere un controllo giurisdizionale (judicial review)
diffuso, come nell’ordinamento statunitense, o accentrato, come nel controllo di
legittimità costituzionale tipico degli ordinamenti continentali.
Il controllo di merito da parte degli organi giurisdizionali è esercitato, per
quanto attiene all’Unione Europea e ai suoi Stati Membri, da parte di organi
accentrati: le corti costituzionali, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e, in
certi casi, le corti di ultima istanza.
In particolare, come illustrato da Mattias Kumm, il test di proporzionalità
consiste nel bilanciare l’interesse pubblico con le esigenze di libertà del singolo
individuo. Le esigenze di libertà, secondo questo approccio, sono sempre
compromesse o ristrette, e il perseguimento dell’interesse pubblico può al più
essere giustificato.
Questa giustificazione, come sopra accennato, è frutto di una valutazione di
un giudice, che decide basandosi da una parte su un catalogo di diritti o, come è il
caso dell’Unione Europa, su un insieme di principi deli diritto e dall’altra su una
“public reason”, che non appartiene a una determinazione politica, ma al sentire di
chi giudica.
129
Dato questo paradigma, dove il giudice viene investito della responsabilità
di limitare le decisioni dell’autorità politica, è questione di attribuzione di priorità.
I principi definiti come valori in base al quale il giudice decide, non sono e
non possono essere mai “neutrali” o “oggettivi” e quindi veri di per sé, ma sono
espressioni di visioni del mondo, che possono vigere solo se gli altri valori,
derivanti dalle visioni del mondo confliggenti, sono posti in posizione di
secondaria importanza. Nello specifico, affermare che ogni misura pubblica
ingerisce con l’interesse dell’individuo e, soprattutto, che tale ingerenza deve
essere sempre motivata, costituisce l’enunciazione di una precisa teoria politica
che viene tutelata per via giurisdizionale.
L’attribuire al magistrato questa autorità di creare diritto – attraverso la
limitazione della decisione politica – tramite una sentenza, significa attribuire un
compito di tutela ai valori dominanti nei confronti della decisione politica che con
questi valori contrasta.
Una sorta di contro-assicurazione per la coerenza del giudice dei diritti con i
valori (di nuovo, non “oggettivi” o “neutrali”) prescelti dalla decisione politica è
l’esistenza di un catalogo di diritti o di principii a cui i giudici debbono fare
riferimento. Pertanto, un ulteriore elemento di erosione della preminenza
dell’autorità politica appare anche essere il ruolo minoritario o secondario
attribuito dall’approccio razionalista ai cataloghi dei diritti emanati sempre
dall’autorità politica, in questo caso la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea proclamata a Nizza nel 2000 e resa teoricamente vincolante dal Trattato
di Lisbona nel 2009, a tutela del ruolo prioritario a cui il test di proporzionalità fa
accedere i giudici dei diritti.
La seconda parte della tesi è dedicata, invece, all’approccio dell’Unione
rispetto alla politica migratoria. Come è naturale, tale approccio
consiste
nell’applicazione al settore specifico della filosofia che caratterizza l’intero
processo di integrazione europea.
Come accennato, l’integrazione europea si ispira ai principi del
130
funzionalismo di Mitrany, e si fonda sull’integrazione delle tecniche, come ben
descritto da Schumann, eliminando però la componente più schiettamente politica:
nel caso analizzato nel Capitolo 1, in riferimento alle Comunicazioni ufficiali, un
tema di così grande rilievo come quello dell’immigrazione – che concerne milioni
di persone sprovviste di cittadinanza europea e milioni di cittadini europei – viene
derubricato a metodo per contrastare l’arretramento demografico finalizzato al
rafforzamento economico dell’Unione.
Il punto dolente è proprio nella de-politicizzazione delle questioni, che va di
pari passo con la legittimazione in base ai (supposti) risultati concreti ottenuti
dalla regolazione. Mancando una decisione politica, viene a mancare la sovranità
dell’intera costruzione, che però le decisioni le emana eccome, e improntate a una
ben precisa visione del mondo. Sono decisioni non sovrane, travestite da tecniche
ma improntate alla realizzazione di una ben determinata visione del mondo
informata di un approccio essenzialmente materialistico.
Non è questa la sede opportuna per cedere alla demonizzazione delle
Istituzioni dell’Unione: esse sono portatrici, allo stesso modo per esempio della
Corte CEDU, della cultura politica dominante, dei “valori” considerati validi nella
porzione centro-occidentale del continente.
La frontiera della garanzia dei diritti fondamentali, come si può apprezzare
nella relazione di minoranza del caso Hirsi e altri c. Italia, si sposta dalla tutela
dei cittadini, alla tutela di chi non ha la cittadinanza ma risiede in modo stabile nel
territorio dell’Unione, fino alle persone che non sono ancora fisicamente presenti
in Europa. Tale natura funzionalmente ambivalente, tuttavia, si inserisce su piani
di stretta pertinenza della sovranità politica: l’attribuzione di diritti agli immigrati
in quanto persone e non in quanto componenti della comunità nazionale di
riferimento (in questo caso somali ed eritrei che azionano diritti nei confronti
dell’Italia davanti a una corte che fa del suo essere “Europea” un mero riferimento
geografico) è la manifestazione più avanzata del compiersi dell’universo di
“valori” (schmittiani) giuridici tipico del liberalismo.
131
L’estensione di insiemi di diritti a categorie via via sempre più vaste di
persone prive della cittadinanza – operato tanto per via politica quanto per via
giurisdizionale – si accompagna al fenomeno di protezione del “migrante” in
quanto persona, il che produce la cessazione di un elemento qualificante
l’esistenza di una sovranità come la tutela delle frontiere, per cedere il passo alla
regolamentazione esterna, anche a prescindere dalla bontà della concreta
regolamentazione esterna.
Qualsiasi prospettiva di conferma della sovranità sulle frontiere rendendo
punibile l’immigrazione non conforme è destinata a scontrarsi con la tutela
realizzata dalla Corte la quale, pur ammettendo la possibile qualificazione penale
dell’immigrazione illegale, non ne permette che il trattenimento, puramente
funzionale all’efficacia dell’espulsione. Per di più, perfino l’inosservanza
dell’ordine di rimpatrio è stata esclusa dalla Corte come motivo legittimante
l’irrogazione della reclusione all’immigrato illegale soggetto alla decisione.
Prevedendo il rimpatrio come – di fatto – un’eccezione alla regola, si cessa di
considerare lo spazio nazionale come qualcosa di strutturalmente distinto dal
territorio di giurisdizione di un mero ente erogatore di servizi. La stessa
previsione di durata limitata del divieto di reingresso in caso di ingresso illegale
implica che la frontiera europea cessa (se mai lo è stata) di essere tale, per
confermarsi come un mero limite giurisdizionale.
L’approccio elaborato e proposto non è, quindi, quello dell’eccezionalità
dell’immigrazione, ma quello della sua ordinarietà, a cui un’eccezione può essere
posta solo se le modalità di ingresso non sono regolari e comunque solo in via
transitoria. Questa ordinarietà dell’immissione di persone, si inserisce in un
quadro in cui, dall’altra parte, esisonto molteplici vincoli e limitazioni all’agire
dell’espulsione, per lo più grazie al requisito dell’opponibilità di ricorso al
provvedimento e all’inibizione dell’emanazione del provvedimento stesso per la
tutela dei diritti fondamentali.
Se l’ingresso e la mobilità nel territorio dell’Unione Europea e la possibilità
132
di ricevere una delle forme di protezione internazionale o sussidiaria sono stati
progressivamente resi più semplici nel corso degli anni, la regolarità del soggiorno
e, più ancora, la possibilità di godere di un insieme di diritti avanzato non sono
alla portata che di una porzione più ristretta dei cittadini di Stati terzi (o apolidi)
presenti all’interno dell’Unione. Anche in questo caso, ad ogni modo, la parità di
trattamento economico non è assicurata: basti l’esempio dato dalla “Direttiva
Carta Blu”, in cui si legalizza l’importazione a (relativo) basso costo di lavoratori
altamente qualificati.
La situazione che ne risulta consiste, essenzialmente, nell’esistenza di un
vasto numero di persone sprovviste della cittadinanza europea in uno spazio di
scarso – ma non nullo – godimento di diritti. La presenza di una tale massa di
persone, invero difficilmente quantificabile, sprovvista di consistenti protezioni
sociali genera due tipi di conseguenze.
Il primo ordine di conseguenze attiene ai cambiamenti che possono
occorrere alla sovranità e all’ordinamento attualmente vigenti. Il fondamento
1
costitutivo di ogni tipo di diritto, notava Carl Schmitt ne Il nomos della terra ,
non è nella tutela di un insieme di diritti soggettivi ed azionabili dinanzi a un
giudice; lo è piuttosto nella misura intrinseca della terra, che si fa divisione e
ordinamento dello spazio concreto e terrestre, da una parte, e forza inappellabile
dall’altra. In una parola: nel nomos della terra. Un ordinamento che stia in piedi,
cioè, non può prescindere dalla sua origine e dal suo limitare l’accesso altrui.
I diritti soggettivi, anche quelli fondamentali per come tutelati dalle
giurisdizioni, traggono senso dal fondamento derivante dall’occupazione dello
spazio fisico e dalla sua delimitazione.
Se tutte le formulazioni successive traggono origine dalla divisione dello
spazio, cioè dall’occupazione della terra, l’elemento etnico – o al limite
l’elemento che distingue una visione del mondo dalle altre – ritrova la sua
1
Cfr. Carl Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi Edizioni, Milano, 2011, in particolare Sul
significato del termine nomos.
133
fondamentale importanza nel garantire che un ordine si mantenga o nel permettere
che un nuovo ordine venga a costituirsi.
L’Unione Europea non considera il territorio come parte della sua essenza
ma, al massimo, come un elemento che deve cessare di essere una questione
giuridicamente rilevante, basti pensare alla legislazione per il Mercato Unico, e
alla normativa antitrust. Con il meccanismo dell’importazione demografica,
rivendicato esplicitamente dalle stesse Istituzioni europee, e dai Capi di Stato e di
Governo che, almeno ufficialmente, forniscono le line strategiche di fondo, si
attua un meccanismo di rimessa in discussione dell’ordinamento dello spazio e
quindi di rimessa in discussione dell’ordinamento che insiste su quello spazio e su
quello spazio si fonda.
Il secondo ordine di conseguenze attiene, forse più prosaicamente, alle
condizioni di lavoro, tanto dei lavoratori autoctoni quanto di quelli originari di
Stati terzi o apolidi. Appare innegabile che la presenza di lavoratori meno protetti
dal diritto e, nei fatti, meno organizzati dalle associazioni dei lavoratori consenta
una concorrenza accresciuta tra le diverse categorie di lavoratori, concorrenza che
si manifesta in una gara al ribasso e in leve di pressione aggiuntive per chi detiene
i mezzi di produzione maggiormente mobili e più facilmente ridispiegabili.
Nei mesi durante i quali la presente tesi è stata redatta, la vertenza più nota
di questo segno è rappresentata forse dal “Caso Electrolux”, che ben riassume
alcuni dei punti di crisi.
134
ABBREVIAZIONI
UE: Unione Europea
CGUE: Corte di Giustizia dell’Unione Europea
TFUE: Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea
CECA: Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio
CEE: Comunità Economica Europea
CEDU: Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo
CSE: Consiglio
UE: Unione Europea
OIL: Organizzazione Internazionale del Lavoro
ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite
TUE: Trattato sull’Unione Europea
TCE: Trattato sulla Comunità Europea
CEAS: Common European Asylum System, Sistema Comune Europeo per
l’Asilo
UNHCR:
United Nations
High Commissariat
Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite
ARUE: Accordi di Riammissione dell’Unione Europea
RAS: Regione Amministrativa Speciale
Art.: articolo
Par.: paragrafo
Lett.: lettera
135
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