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NOTE PER LO STUDIO DELLA CERAMICA ANTICA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE PSICOLOGICHE UMANISTICHE E
DEL TERRITORIO
LABORATORIO DI ARCHEOLOGIA
A.A. 2013-2014
STUDIO DELLA CERAMICA ANTICA
A cura di Patrizia Staffilani
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “GABRIELE d’ANNUNZIO” DI CHIETI-PESCARA
(rielaborazione di N. Cuomo di Caprio, La ceramica in archeologia. Antiche tecniche di
lavorazione e moderni metodi d’indagine, Roma 1985)
Da diversi anni, ormai, si parla di archeometria, ossia della necessità di un
trattamento quantitativo delle “cose antiche”, in altre parole dell’apporto delle conoscenze
scientifiche e tecnologiche, come ad es. la fisica, la chimica, la metallurgia, la mineralogia, la
botanica, alla risoluzione di quelle domande che l’archeologo si pone di fronte ai fenomeni e
ai resti materiali del passato (che cos’è? come è stato fatto? È stato prodotto localmente o è
arrivato nel sito tramite commercio? chi l’ha fatto?) . Questo modo nuovo di porsi nei
confronti delle testimonianze antiche ha prodotto enormi progressi nel campo delle
metodologie dello scavo (indagine stratigrafica, esplorazione “per grandi aree”) e nello
sviluppo e nell’affermazione dell'archeologia urbana e dell’archeologia del paesaggio.
Queste brevi note vogliono essere un’introduzione all’applicazione dei metodi
scientifici e tecnologici allo studio dei manufatti, in altre parole l’insieme di nozioni che
riguardano le antiche tecniche di lavorazione e i moderni metodi analitici.
Le TECNICHE DI LAVORAZIONE si riferiscono all’aspetto materiale del reperto
archeologico, alle materie prime, agli strumenti di lavoro, ai sistemi lavorativi che
presumibilmente sono stati usati nell’antichità e all’applicazione e all’evoluzione che essi
hanno avuto nel corso dei secoli.
La TECNOLOGIA DI ANALISI riguarda i moderni metodi analitici che possono
verificare e approfondire le conoscenze acquisite.
La tecnologia è concepita dunque coma materia interdisciplinare: le conoscenze
umanistiche devono essere affiancate da quelle scientifiche (chimica, fisica, metallurgia,
mineralogia) ed entrambe da cognizione pratiche (tecnica ceramica, metallurgica, arte del
vetro, della tessitura, ecc.) ed etnografiche (la conoscenza delle tradizioni artigianali può
aiutare per una maggiore comprensione delle antiche tecniche di lavorazione).
Cosa significa parlare di TECNOLOGIA CERAMICA?
È accettato da tutti, oramai, che la ceramica (il reperto fittile) è un importante “fossile
guida” ma fino a qualche tempo fa l’attenzione degli studiosi veniva quasi esclusivamente
rivolta alla forma e alla decorazione che l’oggetto presentava (da qui la predilezione e gli
studi per alcune classi definite di lusso e l’emarginazione di altre ritenute di poco valore sia
artistico che conoscitivo, v. ceramica domestica, da fuoco, ecc..) e in minima parte alla
tecnica con cui il manufatto fittile era realizzato. È una conquista piuttosto recente che lo
studio tipologico-stilistico tradizionale sia stato affiancato dall’esame tecnico del manufatto
e dalle relative verifiche sperimentali, laddove è possibile.
Le indagini scientifiche comprendono due momenti:
1) esame macroscopico,
2) esame microscopico.
L’ESAME MACROSCOPICO, ossia l’esame ad occhio nudo, comprende
l’accertamento delle caratteristiche principali del manufatto:
aspetti del corpo ceramico,
tipo di modellazione (a mano, a tornio, a calco),
tipo di rivestimento eventualmente presente (argilloso o vetroso),
effetti della cottura.
L’ESAME MICROSCOPICO, ossia l’esame con attrezzature scientifiche, riguarda
l’analisi dei componenti interni del manufatto.
Occupiamoci ora dell’esame macroscopico, esso presuppone la conoscenza dei
metodi di lavorazione impiegati dagli antichi vasai ed è compito dell’archeologo individuarli
attraverso l’osservazione diretta dei reperti, delle strutture e degli attrezzi rinvenuti negli
scavi archeologici ed anche attraverso la conoscenza dei metodi di lavorazione impiegati da
artigiani di zone geografiche poco sviluppate.
È basilare quindi conoscere le tecniche di lavorazione: dalla preparazione dell’argilla
alla cottura in fornace del manufatto, ma è altrettanto importante conoscere la tecnologia
ceramica, ossia lo studio delle trasformazioni subite dalle materie prime ceramiche durante
la lavorazione.
Questo tipo di studio non può prescindere da nozioni di chimica, fisica, mineralogia,
geologia, perché le proprietà di una materia prima dipendono dalla sua struttura interna,
dalla sua composizione, la quale a sua volta può essere influenzata dai processi di
lavorazione.
L’ARGILLA è la materia prima della ceramica, pertanto essa sarà il punto di partenza
di un qualsiasi studio in campo ceramico: è di fondamentale importanza conoscere le
proprietà dell’argilla per compiere un’appropriata valutazione dei reperti fittili. È importante
quindi conoscere l’argilla dal punto di vista mineralogico, geologico e tecnologico.
L’ARGILLA DAL PUNTO DI VISTA MINERALOGICO.
In mineralogia l’argilla ha la seguente definizione:
roccia composta prevalentemente da uno o più “minerali delle argille”, cioè da
silicati idrati di alluminio e da quantità minori di altri elementi: magnesio, sodio, potassio,
calcio e ferro.
Questi minerali sono formati da cristalli di dimensioni inferiori a qualche micron e
solo eccezionalmente si presentano sotto forma di materiale amorfo o criptocristallino.
I minerali delle argille, dal punto di vista cristallografico, appartengono ai
FILLOSILICATI (dal greco fullon = foglia), che sono così detti per la loro struttura
lamellare, condizionata dal reticolo cristallino omogeneo e periodicamente ripetuto. Il
reticolo cristallino dei fillosilicati è formato dalla sovrapposizione di strati di tetraedri (T) a
strati di ottaedri (O). I tetraedri hanno ai vertici atomi di ossigeno e al centro un atomo di
silicio o di alluminio. Gli ottaedri hanno ai vertici atomi di ossigeno e ossidrili (gruppi
monovalenti di ossigeno e idrogeno) e al centro un atomo di alluminio, o talvolta un atomo
bivalente: ferro o magnesio. Gli strati di tetraedri e ottaedri formano, con modalità
complesse, i «pacchetti», che sono l’unità fondamentale di ogni specie; il ripetersi dei
pacchetti forma il reticolo cristallino del minerale.
Nell’interstrato tra pacchetto e pacchetto, secondo le forze di legame chimico tra i
pacchetti, si possono avere sia cationi monovalenti e bivalenti (potassio, sodio, calcio), sia
molecole d’acqua. Queste molecole prendono il nome di “acqua d'interstrato” o “acqua
interfoliare”. Essa è tipica di alcuni minerali argillosi (la montmorillonite) e poiché il legame
nel reticolo è molto debole, può essere facilmente eliminabile riscaldando l’argilla a basse
temperature.
Oltre all’acqua d’interstrato e all’acqua chimicamente combinata, esiste anche la c.d.
“acqua d’impasto” ovvero l’acqua usata per modellare l’argilla. Quest'acqua non coinvolge
il reticolo cristallino ma si dispone intorno alle particelle argillose, per cui si può aggiungere
o togliere anche a temperatura ambiente; il processo è reversibile.
Riassumendo si può dire che l'acqua di impasto e l'acqua di interstrato si possono
aggiungere o togliere in un processo reversibile mentre l’eliminazione dell’acqua
chimicamente combinata, distruggendo il reticolo cristallino, attua un processo irreversibile.
Gli strati di tetraedri e ottaedri, che si sovrappongono ordinatamente nella struttura
cristallina, costituiscono un valore caratteristico per ogni minerale argilloso; detto valore,
chiamato comunemente «spessore», viene utilizzato come base per la classificazione dei
diversi tipi strutturali dei minerali argillosi; viene misurato in Ångstrom e varia tra 7Å della
caolinite e 15Å della montmorillonite (1Å = 10-7 mm).
I minerali argillosi diffusi in natura e interessanti dal punto di vista pratico sono la
caolinite, la montmorillonite, l’illite e la vermiculite; quelli meno utilizzati nel campo
ceramico sono la clorite, la sepiolite, l’attapulgite e le allofane.
Per quanto riguarda il comportamento dei minerali argillosi sottoposti a lavorazione
ogni gruppo ha il suo, varia sia la quantità d’acqua di impasto, necessaria per renderli
plastici, sia la plasticità stessa, sia la quantità di calore necessaria a far perdere acqua e
ossidrili fino ad arrivare a composti più o meno refrattari.
L’ARGILLA DAL PUNTO DI VISTA GEOLOGICO.
In geologia la definizione di argilla è:
roccia sedimentaria dalla composizione mineralogica molto variabile. Costituisce
circa l’80% dei depositi sedimentari presenti sulla crosta terrestre.
In linea generale, poiché non è stato raggiunto un accordo definitivo circa la
terminologia e la classificazione, le argille vengono distinte in due gruppi, a seconda che tra
i loro componenti prevalgano particelle detritiche più grossolane o più fini. Il processo di
formazione delle argille influisce sulla percentuale dei componenti delle rocce stesse.
I GRUPPO - appartengo a questo gruppo le argille con granulometria minuta,
composta da minerali delle sabbie (quarzo e feldspati), da un’alta percentuale di miche e da
una minima percentuale di minerali argillosi. La granulometria varia da 62 micron a 4
micron. Queste argille vengono dette limose o siltite (dall’inglese silt=limo) e sono
caratterizzate da scarsa plasticità, essendo in prevalenza sabbiose, e quindi poco adatte ad
essere lavorate.
II GRUPPO - fanno parte di questo gruppo le argille cosiddette “fini”, in quanto
caratterizzate dalla presenza di detriti inferiori ai 4 o ai 2 micron. Queste argille sono dotate
di una buona plasticità e di altri requisiti che le fanno adatte alla lavorazione ceramica. Le
argille fini sono caratterizzate dalla presenza dei seguenti principali componenti:
minerali delle argille - uno o più minerali delle argille sono sempre presenti nella
composizione delle rocce sedimentarie detritiche, anche se raramente ne costituiscono
l'elemento principale (come ad es. il caolino che è formato dal minerale caolinite). I minerali
argillosi più diffusi in natura sono la caolinite, l’illite e la montmorillonite, in particolare gli
ultimi due costituiscono le particelle più fini delle rocce, i loro cristalli misurano di solito
qualche micron;
minerali delle sabbie - questi minerali sono composti prevalentemente da quarzo e da
feldspati, le cui dimensioni sono generalmente micrometriche, alcune volte però possono
essere anche millimetriche. Abbondante può essere anche la quantità di miche, sia le
muscovite (mica bianca) che le biotite (mica nera).
La presenza del quarzo o “silice libera” (SiO2 biossido di silicio cristallino naturale)
ha un'importanza fondamentale nella lavorazione ceramica, sia al momento della
modellazione sia durante la cottura del manufatto, infatti il quarzo viene riconosciuto come il
degrassante tout court . La percentuale di questo minerale presente nelle argille ne influenza
le caratteristiche: una percentuale troppo alta di quarzo riduce la plasticità; una percentuale
troppo bassa le rende prive di nerbo e argille di questo tipo non sono adatte alla lavorazione,
quindi la composizione va modificata con appositi correttivi.
Le trasformazioni strutturali del quarzo, a determinate temperature, rappresentano il
momento più critico del ciclo termico dei manufatti ceramici, e possono provocare rotture e
fessurazioni nel manufatto stesso, per cui occorre rallentare l’immissione di combustibile. Il
quarzo infatti al variare della temperatura subisce delle forti contrazioni o dilatazioni, che
naturalmente si ripercuotono negativamente sull’accordo dilatometrico tra l’argilla usata per
il manufatto e il suo rivestimento, formando scaglie e cavilli.
Sostanze diverse - possono essere sostanze organiche, calcare, composti del ferro e
altri materiali. La loro importanza non è data tanto dalla quantità, che spesso è limitata,
quanto dagli effetti causati direttamente e indirettamente.
Le sostanze organiche sono i resti di organismi animali e vegetali, rimasti inglobati
durante la formazione delle rocce che hanno subito una lenta putrefazione. Il processo di
putrefazione aumenta il grado di plasticità dell’argilla, creando un colloide organico, e, in
crudo, ne influenza il colore, rendendola più scura, fino al bruno nerastro
proporzionalmente al grado di putrefazione.
Il calcare è una roccia formata prevalentemente da calcite (CaCO3 = carbonato di
calcio), da dolomite (CaCO3.MgCO3 -formula chimica- CaMg(CO3)2 -formula
strutturale- = carbonato doppio di calcio e magnesio) e da minerali argillosi. La quantità di
calcare presente nell’argilla può variare da un minimo fino ad arrivare al 20%, nel qual caso
l’argilla è detta “calcarea” e può essere lavorata così com’è o con opportune modifiche.
Durante la cottura il calcare subisce trasformazioni tali da renderlo un ottimo legante,
cementando gli altri componenti con il risultato di una maggiore solidità del corpo ceramico.
L’argilla calcarea ha la caratteristica di essere molto porosa e ciò favorisce sia l’applicazione
del rivestimento sia l’accordo dilatometrico con il rivestimento, tanto da evitare difetti come
le scaglie.
Il calcare, sempre in cottura, può influire sul colore: ha proprietà schiarenti e, in
quantità elevate, può ridurre o anche annullare l’effetto degli ossidi di ferro, che invece
tendono ad arrossare il corpo ceramico. Le argille calcaree, quindi, danno manufatti dal
corpo ceramico molto chiaro, dal giallo tenue al rosato.
Gli effetti negativi prodotti dal calcare sono l’eccessiva porosità e la formazione dei
“calcinelli”, piccolissimi glomeruli di ossido di calcio derivati dalla decarbonatazione dei
carbonati durante la cottura. I glomeruli assorbendo l’umidità atmosferica possono
rigonfiarsi e spaccarsi butterando la superficie del manufatto anche a distanza di tempo.
Nell’argilla possono trovarsi anche alcuni composti del ferro, sotto forma di ossidi e
idrossidi, in quantità molto variabili, da percentuali minime può superare anche il 15%,
come nel caso di alcune argille ferruginose usate soprattutto per la produzione di laterizi.
Tale percentuale influisce proporzionalmente sul colore assunto dall’argilla stessa in cottura,
infatti questi composti tendono ad arrossare il corpo ceramico. Gli ossidi e idrossidi di ferro
hanno anche un potere legante.
Oltre ai composti del ferro, nelle argille si possono trovare anche le piriti (FeS2
solfuro di ferro), le quali hanno un effetto fortemente negativo: ad alte temperature si
decompongono provocando sulla superficie del corpo ceramico macchie scure e
efflorescenze dovute a solfati.
Nell’argilla si possono occasionalmente trovare altri materiali, quali ad es. i gusci di
microfossili e resti fossili in genere con composizione calcarea e di dimensioni
macrometriche e micrometriche. I macrofossili possono essere facilmente eliminati durante
la lavorazione; i microfossili invece rimangono inglobati nell’argilla e in cottura producono
effetti negativi simili ai “calcinelli” calcarei. Oltre a questi materiali si possono rinvenire
anche frammenti di rocce alterate, noduli di selce e altri materiali eterogenei.
L’ARGILLA DAL PUNTO DI VISTA TECNOLOGICO
Argilla = materia prima del manufatto ceramica, sostanza solida, inorganica,
naturale, non metallica, da modellare a freddo e da consolidare a caldo.
Caratteristiche principali: plasticità, contrazione di volume, colorazione, refrattarietà,
resistenza.
Plasticità - è dovuta ad un insieme di cause: tipo e quantità di minerali argillosi,
carattere colloidale dell’argilla, granulometria e forma dei componenti dell’argilla, quantità e
tipo di degrassante, presenza di sostanze organiche, quantità appropriata di acqua
d’impasto.
L’argilla allo stato naturale si presenta più o meno umida e per diventare plastica
richiede acqua in quantità appropriata, in altre parole in quantità tale affinché ogni particella
argillosa sia completamente avvolta da un velo d’acqua.
La causa della plasticità dell’argilla non è del tutto nota, sono state formulate diverse
teorie, anche discordanti tra loro. Secondo alcuni la plasticità è dovuta alla granulometria
molto fine delle particelle argillose e alla loro forma lamellare. Questa teoria però non è
convincente perché non si riesce ad ottenere un impasto plastico usando ad es. talco o
grafite, materiali con le caratteristiche sopra descritte.
Secondo altri la plasticità è dovuta al carattere colloidale dell’argilla, cioè alla capacità
dell’argilla di formare sospensioni stabili.
Secondo una teoria più recente, la plasticità dipenderebbe dalla struttura del reticolo
cristallino dei minerali argillosi, cioè dalla capacità di assorbire le molecole d’acqua
nell’interstrato tra pacchetto e pacchetto di ottaedri e tetraedri.
Ci sono anche altri fattori che contribuiscono a rendere l’argilla più o meno plastica: i
degrassanti (quarzo, feldspato, “chamotte”, che se presenti in quantità eccessiva ne
impediscono la modellazione), le bollicine gassose (che restano nell’impasto argilloso per
insufficiente lavorazione), le sostanze organiche (che invece ne aumentano il carattere
colloidale).
Colorazione - Il manufatto fittile ha due colori: uno in crudo, ossia il colore
dell'argilla, e uno in cotto, ossia il colore che l'argilla assume quando si trasforma in corpo
ceramico, attraverso la cottura.
Le argille secondarie hanno di solito colore grigio-verdastro; quelle formatesi in
ambiente fluviale assumono talvolta tonalità più scure fino a raggiungere toni brunonerastri a causa dell'abbondante presenza di sostanze organiche. Alcune argille sono di
colore rosso o rossastro tendente al bruno, ciò è dovuto alla presenza di ossidi e idrossidi di
ferro molto fini, che hanno diffuso il loro colore in tutta la roccia.
Le argille primarie o residuali presentano invece un colore bianco o tendente
all'avorio, perché la componente principale è la caolinite, ma possono assumere anche un
colore grigio o tendente al giallo, secondo le modalità del loro processo di formazione e
della quantità di impurezze rimaste in esse inglobate.
Generalmente il colore in crudo di un manufatto ceramico non corrisponde al colore
in cotto; soltanto il caolino molto puro mantiene lo stesso colore bianco in crudo e in cotto,
le altre argille possono subire notevoli variazioni, per quanto riguarda il colore, e ciò
dipende da molteplici fattori:
- argille scure, per la presenza di sostanze organiche, possono acquistare vivaci
tonalità rosse;
- argille grigie o verdoline possono trasformarsi in tonalità gialle tenui;
- argille caoliniche impure, di colore grigio o giallo, possono acquistare la stessa
bianchezza di quelle caoliniche pure;
- le argille rosse acquistano tonalità rosate più o meno intense secondo la percentuale
degli ossidi di ferro in esse presenti (il colore rosso molto intenso delle tegole e dei mattoni,
ad es., è dovuto ad un'alta percentuale di ossidi di ferro contenuti nell’argilla usata).
La calcite (carbonato di calcio), un minerale molto diffuso e spesso presente nei
minerali argillosi, può attenuare l'effetto di arrossamento provocato dagli ossidi di ferro, ad
es. le argille calcaree si trasformano in corpo ceramico dal colore giallo tenue o rosato anche
in presenza di ossidi di ferro.
L'ossido di titanio invece esalta l'effetto colorante degli ossidi di ferro e quindi anche
argille a basso contenuto di ossidi di ferro possono dare colorazioni rosse e rosse tendenti
al bruno in presenza degli ossidi di titanio.
L'interazione di questi elementi, che possono essere contemporaneamente presenti
nelle argille utilizzate per la produzione di manufatti fittili, deve essere tenuta in
considerazione nella lettura dei dati desunti dalle analisi chimiche delle argille.
L'andamento della cottura (temperatura massima raggiunta nella fornace, tempo di
mantenimento di tale temperatura, atmosfera ossidante o riducente) è un fattore che può
influenzare fortemente la colorazione del corpo ceramico: le trasformazioni chimiche che
avvengono durante la cottura possono provocare ampie variazioni cromatiche, causando
sulla superficie del manufatto zone a diversa colorazione, aloni e macchie irregolari, colpi di
fuoco, effetti riducenti delimitati. Le imperfette tecniche di cottura seguite nell'antichità
(conduzione non uniforme del fuoco, sbalzi di temperatura, ingressi casuali di aria nella
fornace, uso di combustibili non appropriati) potevano accentuare maggiormente i fenomeni
descritti.
In uno scavo accade non di rado di rinvenire reperti la cui superficie presenta
colorazioni diverse, provocate dalla cottura, e, nel caso di frammenti non ricongiungibili, tali
differenze di colori possono far pensare, erroneamente, che si tratti di più manufatti. È
opportuno quindi tenere presenti le cause delle variazioni cromatiche nel caso in cui si
operino raggruppamenti di reperti sulla base dl loro colore.
Refrattarietà - proprietà dell'argilla secondo la quale essa può essere sottoposta a
cottura a temperature elevate senza deformarsi. Tale proprietà dipende dai vari componenti
dell'argilla, dalla loro quantità e granulometria che si influenzano e si condizionano a
vicenda.
Le argille possono essere suddivise in tre gruppi, secondo il comportamento che
assumono rispetto al calore: fusibili, vetrificabili, refrattarie.
- Argille fusibili: sono in generale quelle marnose o contenenti un'alta percentuale di
carbonato di calcio sotto forma di calcite. Possono sopportare il calore fino ad una certa
temperatura rimanendo porose, dopodiché fondono bruscamente (la calcite è responsabile
della brusca fusione).
Il punto di fusione delle argille calcaree è compreso tra 800° C e 1000° C (il processo
di decomposizione del carbonato di calcio inizia a 800° C e si completa a 1000° C: CaCO3CaO+CO2).
Le argille calcaree usate dai vasai nella lavorazione artigiana tradizionale rientrano
nelle argille fusibili.
- Argille vetrificabili: possono sopportare il calore fino ad una certa temperatura
rimanendo porose, poi durante un intervallo di tempo detto "fase di vetrificazione" o "fase
di greificazione", diventano pastose e la porosità inizia a diminuire, dopodiché interviene
una brusca fusione.
Le argille vetrificabili sono le illiti e le montmorilloniti, queste argille non contengono
carbonato di calcio o lo contengono in percentuale non superiore al 2-3 %, permettendo così
di evitare l'effetto fondente degli ossidi CaO (ossido di calcio detto anche “calce viva”) e
MgO (ossido di magnesio, materiale refrattario) e consentendo una fase di vetrificazione
piuttosto ampia. Tale fase corrisponde all'intervallo di temperatura entro cui l'impasto inizia
a rammollire fino a quando inizia a deformarsi, la temperatura ottimale di cottura di un
manufatto cade in detto intervallo, non troppo vicino all'inizio, onde ridurre la porosità e
non troppo vicino al termine finale, onde evitare i rischi di deformazioni. Tanto più è ampio
l'intervallo di vetrificazione, tanto maggiore è la possibilità che il 'fornaciaio' riesca a
'centrare' la temperatura ottimale e tanto minore è il pericolo che i manufatti escano dalla
fornace poco cotti o troppo cotti.
L'ampiezza dell'intervallo di vetrificazione è fortemente influenzato dal tipo e dalla
quantità di fondenti presenti nell'argilla, gli alcali, che derivano dai minerali argillosi e dai
feldspati del degrassante, e gli ossidi di ferro.
Punto di fusione: tra 950° C e 1100° C.
-Argille refrattarie: possono sopportare il calore fino ad una certa temperatura, poi
subentra una fase di vetrificazione che continua fino a quando tutto l'impasto si trasforma in
massa vetrosa, annullando la porosità.
Queste argille contengono una elevatissima percentuale di silice e alto tenore di
allumina e sono privi di carbonati e altri fondenti. Esempio tipico di argilla refrattaria è la
caolinite pura, che fonde a circa 1770° C.
Nelle argille refrattarie, come in quelle vetrificabili, si ha una fusione vischiosa
nell'intervallo di vetrificazione, il passaggio dallo stato solido allo stato pastoso allo stato
liquido richiede un certo lasso di tempo, a temperatura appropriata; in queste argille la
vetrificazione è completa e la porosità si annulla totalmente; il manufatto ha un corpo
ceramico compatto, molto duro e resistente all'attacco chimico e all'abrasione.
Punto di fusione: oltre 1500°C.
Resistenza - proprietà dell'argilla di resistere alle sollecitazioni ad essa impresse, per
es. dalle mani del vasaio durante la modellazione.
Come già detto in relazione alla plasticità, l'argilla eccessivamente plastica non
presenta resistenza sufficiente per poter essere modellata nella forma prestabilita, per cui è
cascante e si affloscia. Per renderla lavorabile occorre aumentare il grado di resistenza,
aggiungendo del degrassante per ottenere una pi˘ consistente ossatura silicea.
Altro tipo di resistenza è quella opposta dall'argilla al calore (v. refrattarietà).
L'argilla dopo la cottura, cioè quando si è trasformata in corpo ceramico, è
caratterizzata da tre tipi di resistenza, quella meccanica, quella all'attacco chimico, quella al
calore.
La resistenza meccanica consiste nella capacità del manufatto di reggere pesi prima di
rompersi, di avere cioè un proprio carico di rottura. In un manufatto ceramico tale capacità
dipende dal grado di compattezza , più il corpo ceramico è compatto maggiore è la sua
resistenza.
La resistenza all'abrasione rientra nella resistenza meccanica, consiste nella resistenza
all'asportazione dello strato superficiale del manufatto, provocata da una ripetuta azione di
attrito.
La resistenza all'attacco chimico è in funzione della composizione chimica del corpo
ceramico e della sua porosità: se il manufatto è molto poroso, la sua superficie resta
facilmente intaccata dall'azione corrosiva delle sostanze acide con cui viene a contatto. Per
migliorare la resistenza occorre usare degrassanti di granulometria non uniforme. In
presenza del rivestimento l'attacco chimico interessa quest'ultimo (es. vernice piombifera,
facilmente alterabile al contatto con acidi, grassi, etc.).
La resistenza al calore è importante per la ceramica utilizzata per la cottura delle
vivande a diretto contatto con il fuoco.
Per ottenere un manufatto dotato di buona resistenza al calore e alle variazioni di
temperatura occorre impiegare impasti argillosi refrattari.
La resistenza al gelo è importante per i materiali da costruzione: tegole, antefisse,
acroteri, elementi decorativi collocati sui tetti, maggiormente esposti alle intemperie e alle
variazioni di temperatura diurne e stagionali.
LA SCALA DI MOHS
Durezza = dal punto di vista mineralogico, è la resistenza che un minerale oppone alla
scalfittura.
Tale proprietà dipende dal grado di maggiore o minore compattezza del minerale.
Per misurare la durezza esistono delle apparecchiature particolari, gli “sclerometri”,
con i quali, però, è difficile ottenere misurazioni di assoluta precisione (infatti la qualità, la
forma, l’inclinazione della punta che scalfisca influenzano notevolmente il risultato),
pertanto si ricorre ai valori della scala di Mohs, che sono il risultato di misure empiriche, e
che si basa sul principio del minerale più duro che scalfisce quello più tenero.
I valori vanno da 1 a 10 (si possono usare anche valori intermedi, 2,5, 3,5, ecc.): ogni
minerale scalfisce l’inferiore ed è scalfito da quello superiore.
TALCO
GESSO
CALCITE
FLUORITE
APATITE
ORTOCLASIO
QUARZO
TOPAZIO
CORINDONE
DIAMANTE
MATERIE PRIME COMPLEMENTARI, DEGRASSANTI E FONDENTI
Le materie prime complementari sono quelle materie che sono già presenti o vengono
aggiunte all’argilla, materia prima fondamentale, per migliorare le sue capacità ed ottenere
una buona modellazione e cottura. Qualora tali materie venissero aggiunte dal vasaio, non è
quasi mai possibile risalire dal reperto fittile a questo intervento, si possono solo avanzare
delle ipotesi dopo un accurato esame al microscopio.
Si distinguono due tipi di materie prime complementari, a seconda della loro
funzione: degrassanti e fondenti (alcuni ceramologi sostengono che i fondenti facciano parte
dei degrassanti e suddividono i degrassanti in inerte e fondente).
Degrassanti - detti anche “sgrassanti”, “smagranti”, “inclusi”, “frazione sabbiosa”,
servono a diminuire la plasticità dell’argilla quando è eccessiva, conferendo all’impasto
maggiore nerbo, quindi maggiore resistenza in crudo e di conseguenza una minore
contrazione di volume, che a sua volta riduce il rischio di rotture durante la fase
dell’essiccamento del manufatto.
I degrassanti più comuni sono la silice sotto forma di quarzo e la chamotte, sono
detti inerti perché la loro funzione principale è quella di ridurre la plasticità e perché in
cottura, alle normali temperature, non alterano le loro caratteristiche originarie.
Meno comuni sono le miche e altri minerali presenti nelle sabbie naturali.
Quarzo: fa parte dei minerali delle sabbie ed è sempre presente nelle argille, in
percentuali variabili ma a volte anche molto alte, o perché è la composizione naturale
dell’argilla o perché è stato aggiunto dal vasaio intenzionalmente.
Il quarzo all’aumentare della temperatura e precisamente a 575° C passa dalla forma
alfa alla forma beta con un aumento di volume e della dilatazione totale dell’impasto, tale
processo rende più o meno facile l’accordo dilatometrico con il rivestimento del manufatto.
Dall’esame macroscopico e microscopico dei reperti archeologici si deduce che la
granulometria del quarzo usato come degrassante è molto variabile, di dimensioni
micrometriche e/o millimetriche a seconda dei manufatti, e tali esami, soprattutto quelli al
microscopio stereoscopico eseguiti su un ampio numero di reperti, hanno condotto alla
stesura di una classificazione (non definitiva):
degrassante finissimo, la maggioranza dei granuli hanno una granulometria inferiore a 0,05
mm;
degrassante fine, la maggioranza dei granuli hanno una granulometria compresa tra 0,05 e
0,15 mm circa;
degrassante medio fine, la maggioranza dei granuli hanno una granulometria compresa tra
0,15 e 0,30 mm circa;
degrassante grossolano, la maggioranza dei granuli hanno una granulometria superiore a
0,30 mm.
L’esame granulometrico del degrassante può aiutare a dare un giudizio
sull’uniformità o meno del corpo ceramico: se i granuli di degrassante hanno
prevalentemente simili dimensioni, il corpo ceramico è detto “uniforme”, se le dimensioni
sono molto diverse tra loro, il corpo ceramico è detto “poco uniforme” o “non uniforme”.
Colore: il quarzo è solitamente trasparente o bianco lattescente ma a volte può
assumere una colorazione che va dal giallo tenue al brunastro, ai colori più svariati.
Caratteristiche: lucentezza vitrea, privo di sfaldature e con frattura concoide.
Chamotte: termine francese per indicare la terracotta macinata fine detta anche
“biscotto macinato”, in quanto si tratta di frammenti di terracotta, cioè puro e semplice corpo
ceramico senza rivestimento, macinato più o meno finemente a seconda delle attrezzature e
del tempo impiegati per la macinazione. La chamotte è un ottimo degrassante, non apporta
alcuna modifica alla composizione chimica dell’impasto argilloso ed è facilmente
riconoscibile nell’impasto utilizzato per modellare il manufatto, a volte anche ad occhio
nudo ma soprattutto al microscopio stereoscopico e mediante l’analisi microscopica su
sezioni sottili.
Colore: tonalità più o meno intense del rosso, tipiche della terracotta.
Fondenti: sono così dette le materie prime complementari contenute nell’argilla che
ne abbassano il punto di fusione: feldspati, ossidi di ferro, calcare e talco.
I feldspati chimicamente sono considerati dei silicati di alluminio con potassio
(Ortoclasio), o con sodio (Albite), o con calcio (Anortite); il talco è un silicato di magnesio,
che ha un potere fondente molto blando.
Queste materie, durante il processo di cottura, subiscono delle profonde
trasformazioni, che si ripercuotono anche sulle caratteristiche originarie: passando dapprima
allo stato pastoso, poi a quello fluido, avvolgendo in un sottile velo vischioso gli altri
componenti, che una volta raffreddati, formano un unico corpo compatto. Questa proprietà
dei fondenti, di legare saldamente gli altri componenti l’impasto argilloso, è detta potere
legante.
I fondenti, oltre a svolgere la loro azione primaria, hanno anche un potere
degrassante, cioè diminuiscono la plasticità dell’impasto argilloso.
Occorre tenere presente, inoltre, che degrassanti e fondenti possono trovarsi
nell’argilla naturalmente o possono essere aggiunti intenzionalmente dal vasaio.
L’intervento del vasaio non è facilmente riconoscibile, a parte il caso della chamotte
che è sempre un’aggiunta intenzionale, se non nel caso di minerali ben definiti e tipici di
particolari aree geografiche.
L’indagine macroscopica condotta sul reperto è incompleta e deve essere affiancata da
esami condotti al microscopio stereoscopico e al microscopio a luce polarizzata su sezioni
sottili del corpo ceramico.
ARGILLA, CRETA, TERRA
Fin dall’antichità i tre termini sono stati usati con molta confusione, a volte con
significato equivalente, altre contrastante, ma essi hanno delle differenziazioni ben precise:
ARGILLA: materiale solido, inorganico, naturale, non metallico, dotato di plasticità,
da modellare a freddo e consolidare a caldo; è formato da minerali delle argille, da minerali
delle sabbie e da altre sostanze quali carbonati, composti del ferro, sostanze organiche; le
particelle hanno dimensioni di pochi micron.
È il materiale principale per la modellazione di manufatti ceramici.
CRETA: è il calcare a grana fine, cioè una roccia sedimentaria composta
essenzialmente dal minerale calcite (carbonato di calcio), Questo termine non viene usato
dai geologi e dai mineralogisti perché ritenuto improprio, tranne che per indicare il calcare
bianco friabile (in francese craie), formatosi dall’accumulo di microscopici gusci calcarei di
organismi unicellulari in alcune zone della Francia.
In Italia sono molto diffusi i terreni cretacei, ossia formati da calcari di vario tipo
(“maiolica” in Lombardia, “biancone” nel Trentino, calcari bianchi stratificati in Puglia,
Lucania e Calabria, calcari grigi in Sicilia).
Il calcare non viene usato per la lavorazione ceramica, in quanto manca di una
proprietà fondamentale, la plasticità, infatti ridotto in polvere e a contatto con l’acqua
diventa una massa appiccicosa che non può essere modellata, né a mano né a tornio. Il
calcare inoltre, inoltre se sottoposto a cottura, si trasforma in ossido di calcio, la cosiddetta
calce viva, usata per la preparazione della malta da costruzione.
Come precedentemente detto, il calcare è un componente importante dell’argilla, ma
da solo non può essere utilizzato per fini ceramici.
TERRA: termine usato per indicare sostanze polverulenti e incoerenti, come i
pigmenti colorati naturali e alcune specie di argilla. Sostanze che hanno composizione
estremamente variabile e con poche caratteristiche in comune, vi viene incluso anche
l’humus del terreno agricolo, il quale è il risultato della decomposizione di residui vegetali e
animali ad opera dei batteri (colloidi organici).
Risulta evidente che l’uso dei termini “creta” e “terra” come sinonimo di argilla è
improprio.
PREPARAZIONE DELL’ARGILLA
L’argilla per diventare corpo ceramico deve subire diverse trasformazioni e diversi
passaggi. Il primo è necessariamente quello dell’estrazione dalla cava.
La cava ha delle caratteristiche ben definite a seconda dell’area geografica nella quale
si trova e rispecchia la giacitura e la composizione della roccia che viene estratta.
L’estensione e la profondità degli strati di materia prima adatta alla lavorazione, sono
strettamente collegate con la formazione geologica dell’area, mentre lo sfruttamento della
cava dipende dai metodi di estrazione. Per quanto riguarda i metodi di estrazione antichi, si
può supporre che fossero molto simili a quelli ancora in uso nel Meridione fino all’inizio
del secolo.
L’estrazione ha inizio rimuovendo (con piccone, badile, vanga) lo strato superficiale
di terra, detto in linguaggio tecnico “sterile”, formato da humus (con radici, sabbia, ghiaia,
ciottoli, etc.). Una volta individuato lo strato di argilla, si allarga lo scavo formando un
fossato a cielo aperto, man mano che si abbassa il livello, vengono tagliati dei gradini sulla
parete della cava per permettere la discesa e le risalita degli scavatori, che trasportavano
l’argilla estratta in secchie o ceste.
L’argilla può essere estratta anche in gallerie come quelle del carbone, ma questo
sistema comporta molte difficoltà tecniche, pertanto è poco probabile che venisse usato
nell’antichità.
Altro sistema di approvvigionamento è quello di estrarre l’argilla dalle sponde dei
fiumi.
La fase successiva all’estrazione è la stagionatura: l’argilla estratta viene lasciata
all’aperto, per far si che gli agenti atmosferici (sole, pioggia, gelo) provochino la
putrefazione delle sostanze organiche in essa contenute (si è detto che la putrefazione
influenza la plasticità dell’argilla con la formazione di un colloide organico); il lasso di
tempo è estremamente variabile e dipende dal clima, dalle abitudini locali e soprattutto dal
tipo di produzione a cui l’argilla è destinata (ad es. in Cina, secondo antiche tradizioni, si
sottoponeva il caolino ad un periodo di stagionatura lunghissimo, anche di cento anni,
questo perché il caolino di tipo residuale che si trova in Cina è dotato di poca plasticità e una
lunga stagionatura favorisce la formazione della flora batterica che è in grado di renderlo più
plastico).
La stagionatura, oltre alla putrefazione, innesca anche altri processi chimici, quali
l’ossidazione della pirite (solfuro di ferro), che forma dei solfati solubili in acqua, quindi
facilmente asportabili dalle acque piovane. La pirite infatti, nel caso in cui non venga
eliminata totalmente, si decompone durante la cottura del manufatto provocando una serie di
reazioni chimiche visibili sulla superficie con macchie ed effluorescenze.
Altra fase è la depurazione, ossia l’eliminazione dei materiali estranei di diversa
natura: frammenti di rocce e minerali di diverse dimensioni, fossili, resti vegetali, etc.
Il processo di depurazione non veniva praticato in età preistorica, come mostrano i
reperti rinvenuti: l’argilla veniva utilizzata allo stato naturale, solo molto più tardi, in epoca
greca e romana, è da supporre che il vasaio antico praticasse in qualche modo la
depurazione, infatti molti manufatti fittili, rinvenuti negli scavi, attestano l’uso di un impasto
molto fine e quindi di una argilla ben lavorata.
Il processo di depurazione o raffinazione dell’argilla può avvenire secondo diverse
metodiche, quelle più comuni sono:
per sedimentazione in acqua ferma,
per levigazione in acqua corrente,
per setacciatura.
1. DEPURAZIONE PER SEDIMENTAZIONE IN ACQUA FERMA
La raffinazione avviene mettendo l’argilla in grossi recipienti con molta acqua. Dopo
aver mescolato si lascia riposare la soluzione per un buon intervallo di tempo in modo da
far depositare i materiali più pesanti sul fondo. La parte liquida che rimane in supeficie
viene poi prelevata o con una ciotola o, se il recipiente è munito di bocchetta di scarico posta
ad una certa altezza, facendola scorrere in un altro recipiente. Si ottiene così una
sospensione argillosa di granulometria molto fine ed uniforme, più o meno densa - a
seconda del rapporto tra quantità di acqua e di argilla-, detta “barbottina” (dal francese
barbotine), destinata a vari usi, tra cui anche quello della decorazione a rilievo.
2. DEPURAZIONE PER LEVIGAZIONE IN ACQUA CORRENTE
È un procedimento che utilizza una serie di recipienti collegati fra di loro e posti ad
altezze di verse. L’argilla viene messa insieme all’acqua nel recipiente più alto e fatta
scorrere in quelli più bassi; anche in questo procedimento i materiali più pesanti si
depositano sul fondo dei recipienti, mentre quelli più fini rimangono in sospensione; ne
consegue che più è lento lo scorrimento dell’acqua e maggiore è il numero dei recipienti e
più fine è la barbottina che si ottiene.
3. DEPURAZIONE PER SETACCIATURA
L’argilla inumidita viene “setacciata” con degli appositi setacci, prima con quelli a
maglie più larghe, poi con magli esempre più fitte, a seconda del tipo di barbottina che si
vuole ottenere.
Questi procedimenti possono essere usati anche in combinazione, in modo da ottenere una
barbottina estremamente raffinata.
La barbottina per essere utilizzata deve avere una certa consistenza, deve, cioè,
perdere l’acqua in eccesso. Ciò è possibile attraverso diversi sistemi che tengono conto
della quantità del materiale, del clima locale, della stagione, etc.
Normalmente si mette a decantare la barbottina in recipienti molto larghi, bassi e con
fondo piatto per facilitare l’evaporazione dell’acqua. In questa fase tutte le particelle, anche
quelle più fini, sedimentano sul fondo, mentre l’acqua rimane in superficie e può essere
tolta o con una ciotola o lasciata evaporare naturalmente. I tempi di tale operazione sono
relativamente lunghi e dipendono dalla quantità di liquido presente.
Una volta evaporata l’acqua, la barbottina, raggiunta la consistenza adatta, può essere
lavorata subito oppure, fatta asciugare completamente, può essere immagazzinata in un
luogo adatto e utilizzata all’occorrenza (aggiungendo naturalmente dell’acqua).
Come è stato già detto non sempre l’argilla è utilizzabile allo stato naturale, ossia non
sempre ha la plasticità appropriata ad essere modellata: a volte può essere troppo “grassa”,
cioè troppo plastica, e ha bisogno dell’aggiunta di degrassanti per aumentare la resistenza;
altre volte può essere troppo “magra”, cioè poco plastica e quindi va corretta con l’aggiunta
di argilla ricca di minerali argillosi. La quantità di queste aggiunte è decisa dall’esperienza
del vasaio.
Di solito le “correzioni” vengono fatte dopo la fase di depurazione, ma a volte si
possono effettuare anche durante altre operazioni, quali ad es. la battitura dell’argilla.
A questo punto si è ottenuto il c.d. impasto (si usa anche il termine pasta) pronto
per essere modellato.
L’ultima fase prima della modellazione vera e propria è quella del degassamento,
ossia l’eliminazione delle piccole bollicine d’aria rimaste intrappolate nell’impasto, poiché al
momento della modellazione e della cottura potrebbero provocare delle imperfezioni e
determinare delle zone di minore consistenza e quindi delle rotture.
MODELLAZIONE
La modellazione è il procedimento seguito dal vasaio per impartire all’argilla una
determinata forma.
L’argilla in sè e per sè è materia informe, il manufatto è argilla modellata che a volte
può avere valore d’arte.
La modellazione è detta anche “foggiatura” e può essere eseguita con diverse
tecniche, risultanti dall’evoluzione dell’arte del vasaio attraverso i secoli.
L’attrezzatura necessaria è modesta e limitata. Le principali tecniche di modellazione
sono denominate: a mano, a tornio, a calco.
MODELLAZIONE A MANO
Viene così chiamata perché lo strumento principale è rappresentato dalle mani del
vasaio, è il modo più semplice e primitivo per plasmare l’argilla e può essere eseguita con
notevoli varianti.
Uno dei tanti modi di modellazione a mano consiste nell’incavare una palla di argilla,
scavandola all’interno e plasmandola all’esterno fino ad ottenere la forma desiderata. La
parete viene assottigliata o premendola con le dita o battendola con un ciottolo piatto. Si
ottengono così manufatti di piccole dimensioni e di forma molto semplice.
Un’altra maniera molto rudimentale consiste nell’appiattire con il palmo della mano o
con un ciottolo una piccola quantità di argilla fino a ridurla ad una sfoglia dello spessore
voluto; si rialzano i bordi e si ottiene uno scodellino concavo, che può essere ulteriormente
modellato.
Con questa tecnica venivano modellate le lucerne a forma aperta, monolicni e
polilicni, diffusesi dall’area Medio-orientale nella zona del Mediterraneo nel primo
millennio e presenti a Cartagine già nel VII sec. a. C.
La tecnica più comune, ancora oggi praticata, è detta “a colombina”, oppure “a
lucignolo”, o “a cercine” (fig. ........): consiste nell’avvolgere a spirale un cordone di argilla,
plasmata dal vasaio nello spessore proporzionato alle dimensioni del manufatto che intende
ottenere, sovrapponendo un anello all’altro fino a raggiungere la forma e le dimensioni
desiderate.
La base del vaso può essere ricavata da un blocco di argilla appiattito nel giusto
spessore, oppure da cordoni a spirali, come per le pareti.
Man mano che il manufatto cresce in dimensioni il vasaio batte con le mani o con un
attrezzo piatto, gli anelli di argilla per amalgamarli in un corpo unico.
Probabilmente, in origine, il vasaio ha lavorato l’argilla su una base fissa (ad es. una
grossa pietra piatta attorno alla quale egli si spostava durante la modellazione quando il
manufatto era di grandi dimensioni); successivamente, evolvendo il mestiere, il vasaio fa
ruotare il supporto su cui realizzava il manufatto con piccoli strappi della mano. detto
supporto poteva essere un disco di terracotta, un tondo di legno o altro oggetto piatto e
sottile, poggiato per terra (ancora oggi in alcuni paesi africani il vasaio poggia per terra, su
un mucchietto di sabbia fine, una piccola stuoia tondeggiante, sulla quale colloca l’argilla da
modellare e la fa ruotare con rapidi colpi della mano.
Tale tecnica rappresenta una innovazione che ha permesso al vasaio antico di non
spostarsi durante la modellazione e di avere una migliore visione d’insieme del manufatto.
Il risultato ottenuto con la modellazione a mano è comunque un manufatto di forma
asimmetrica, a volte sbilenca, con una superficie gibbosa e grossolana. Per conferire una
maggiore compattezza e omogeneità ed eliminare le tracce della lavorazione a spirale, veniva
eseguita una rifinitura della superficie esterna del vaso, battendola leggermente con un
ciottolo o un disco di legno, sostenendo, generalmente, con la mano l’interno per ricevere il
contraccolpo ed evitare rotture. Una volta raggiunto un buon grado di essiccamento e quindi
di resistenza, il manufatto veniva raschiato in superficie con un coltello o con una conchiglia
o con altro arnese tagliente, per diminuirne lo spessore e/o aggraziarne la forma. Ulteriore
levigazione poteva essere eseguita strofinando la superficie con stracci umidi, erba o altro
materiale morbido, da questa operazione può derivare anche una certa lucentezza
superficiale.
La tecnica della modellazione a mano è comune in epoca neolitica nella ceramica a
decorazione impressa e a decorazione dipinta, ad es. nelle culture di Stentinello, Serra
d’Alto, Lagozza e Remedello.
MODELLAZIONE A TORNIO
Il tornio o ruota da vasaio rappresenta un progresso tecnico rispetto alla modellazione a
mano permettendo al vasaio di dirigere l’energia trasmessa all’argilla mediante la forza di
rotazione, di ripetere con accuratezza forme cilindriche con diametro e altezza variabili e di
modificare questa forma fino all’aspetto voluto.
Il vantaggio consiste in una maggiore rapidità e precisione nella modellazione e in un
migliore sfruttamento dell’energia umana.
L’origine e la diffusione del tornio sono scarsamente attestati dalle evidenze
archeologiche ed è molto difficile delinearne l’evoluzione cronologica e i particolari
costruttivi. Di grande aiuto sono le poche raffigurazioni antiche e il confronto con gli
attrezzi utilizzati ancora oggi dai vasai tradizionali.
È ragionevole pensare che il tornio sia l’evoluzione naturale del piattello che il vasaio fa
ruotare sul terreno mentre modella il vaso con la tecnica del colombino.
Il tipo più semplice è chiamato tournette in francese, torniella in italiano ed è detto anche
tornio lento, dove “lento” sta ad indicare la velocità impressa alla ruota dal vasaio che è
direttamente proporzionale alla quantità di energia impiegata.
Il tornio è formato da un disco piatto e rotondo, di dimensioni limitate, in legno,
terracotta, pietra, che ruota liberamente sopra un asse verticale di sostegno, in pietra o altro
materiale pesante, saldamente infisso nel terreno.
Il tornio funziona a spinta, il vasaio o un aiutante, con la mano a con il piede, spinge a
strappo il disco facendolo ruotare per il tempo necessario alla modellazione di un oggetto.
Ulteriore evoluzione si ha con il tornio a piede o tornio veloce, azionato per mezzo di
spinte date col piede.
È costituito da un asse verticale di legno che collega in solido il disco, detto “girella”,
posto all’estremità superiore con la ruota, detta “volano” posta in basso. L’asse ruota
liberamente dentro un apposito alloggiamento infisso nel terreno, è mantenuto in posizione
verticale da un collarino di legno collegato ad una impalcatura più robusta che tende ad
evitare oscillazioni e vibrazioni.
I due parametri importanti agli effetti del rendimento del tornio sono la velocità di
rotazione e la durata del movimento rotatorio.
La velocità di rotazione, dipende dal diametro del volano, più è grande ed ampio lo
spazio a disposizione del piede, minore è lo sforzo del vasaio per raggiungere la velocità
desiderata. Un volano molto grande però si mantiene difficilmente in posizione
perfettamente orizzontale, tendendo a sbilanciarsi e ad ondeggiare.
La durata del movimento rotatorio dipende dal peso del volano, più è pesante, maggiore
è l’accumulo di energia, più a lungo mantiene la velocità. Un volano molto pesante però
richiede un forte dispendio di energia al momento dell’avvio (per vincere la forza d’inerzia)
e per variare la velocità durante la lavorazione.
Una buona velocità di rotazione è necessaria per modellare oggetti piccoli, un
prolungato movimento rotatorio per modellare oggetti grandi.
Il vantaggio del tornio a piede, per il vasaio, è quello di avere entrambi le mani libere, di
non avere bisogno di un aiutante e di graduare direttamente la velocità di rotazione.
La possibilità di regolare la velocità e di diminuirla al minimo è molto importante in
alcune fasi della lavorazione (manufatti molto grandi o forme anomale), nelle operazioni di
rifinitura e di giuntura delle sezioni staccate.
La modellazione al tornio avviene attraverso una serie di movimenti che sono rimasti
immutati nei secoli.
I fase: modellazione. Una quantità di argilla adeguata all’oggetto da modellare viene
posta sulla girella e, mentre il tornio gira, viene ben ancorata al centro (se così non fosse il
vaso verrebbe sbilenco); si ottiene un cilindro che si assottiglia per quanto è permesso dal
tipo di argilla; si raggiunge l’altezza desiderata e si conferisce l’aspetto voluto allargando la
parte superiore o inferiore, stringendo il collo, piegando l’orlo, ecc.
II fase: levigatura a stecca. Terminata la modellazione del manufatto, il vasaio passa la
stecca sulla superficie per togliere le striature lasciate dalle dita durante il movimento di
rotazione. Un lavoro poco accurato o un lavorante inesperto si possono riconoscere dalle
striature concentriche lasciate all’interno del manufatto, che nei vasi a forma chiusa, non
potendo utilizzare la stecca, sono difficilmente cancellabili. Nelle anfore da trasporto,
materiali di scarso pregio, sono ben visibili.
III fase: il vasaio stacca il vaso dalla girella passando un filo metallico sotto la base
mentre il tornio ancora gira, questa operazione, per quanto veloce, lascia una serie di
striature a vortice ben visibili, che sono un segno distintivo della lavorazione al tornio.
IV fase: il vasaio colloca il manufatto in un luogo adatto all’essiccamento.
Un manufatto di piccole e medie dimensioni viene modellato di getto e da un’unica
massa argillosa nasce il vaso completo.
Unici accorgimenti riguardano la modellazione del collo e del piede. Il vasaio, mentre il
tornio gira, stringe gradualmente la parte superiore del vaso per formare il collo e per evitare
che si chiuda del tutto vi inserisce un bastoncino a forma affusolata che serve anche per
evitare la formazione di striature elicoidali, difficili da eliminare e possibili cause di
fessurazioni.
Anche per modellare il piede il vasaio stringe il fondo del vaso analogamente a quanto
fatto per il collo, l’abilità consiste nell’evitare di “strozzare” l’attacco del piedino che
provocherebbe lo sbilanciamento ed anche la rottura del vaso stesso.
Un manufatto di grandi dimensioni, invece, viene modellato a sezioni separate: corpo,
collo, piede, che poi vengono uniti in un secondo momento. A volte può essere necessario
suddividere il corpo in più sezioni da congiungere prima dell’attaccatura del collo e del
piede.
Le varie sezioni però non possono essere unite subito dopo la foggiatura, perché
l’argilla umida non reggerebbe il peso delle sezioni e si schiaccerebbe in un ammasso
informe, né dopo l’essiccazione, perché le parti non farebbero presa tra loro e si
staccherebbero.
La soluzione sta nel formare, al momento della modellazione sul tornio, un incavo a
forma di U sull’orlo delle varie sezioni, riempirlo di barbottina molto liquida, far essiccare
le varie parti e quando esse hanno raggiunto un sufficiente grado di consistenza, unirle le
une alle altre ad incastro, togliendo la barbottina, che ha mantenuto umidi gli orli degli
incavi. Le tracce delle giunture vengono completamente eliminate lavorando e lisciando
bene sia la superficie esterna che quella interna.
Il piede viene attaccato alla base del vaso, posto capovolto sulla girella e avendo adottato
alcuni accorgimenti per evitare di danneggiarlo, già modellato e quasi finito oppure
modellandolo direttamente sul fondo del manufatto, applicando un cilindro di argilla umida
e dandogli la forma desiderata.
Le anse. Le anse vengono sempre preparate a parte, qualunque sia la grandezza del
vaso. Si ricavano da argilla molto morbida, appiattita o arrotondata e poi si applicano sul
vaso leggermente essiccato e posto sempre sul tornio. Si fissa prima l’estremità superiore e
poi quella inferiore (dall’alto verso il basso) facendola aderire al vaso solo con leggere
pressioni delle dita, senza utilizzare adesivi, leganti o altro; nemmeno l’acqua viene usata
perché farebbe scivolare l’ansa sulla superficie del vaso. Solo se il manufatto ha già
raggiunto un elevato grado di essiccamento si ammorbidisce la parte dove va posta l’ansa
con un po’ di barbottina.
Se le anse sono due, il vasaio dopo aver applicato la prima fa ruotare di 180° il tornio ed
applica la seconda in posizione diametralmente opposta.
Con l’applicazione delle anse, quando previste, si conclude la modellazione del
manufatto.