Che cosa è la La linguistica è la scienza che studia il linguaggio umano e le lingue parlate e linguistica scritte dagli uomini. Linguaggio e lingua sono due termini che non hanno lo stesso significato. Il linguaggio è l’insieme dei fenomeni di comunicazione e di espressione che si manifestano sia nel mondo umano sia al di fuori di esso. La lingua è il principale modo concreto e storicamente determinato in cui si manifesta la facoltà del linguaggio nel genere umano. La linguistica è una disciplina descrittiva ovvero si occupa della descrizione delle lingue usate dagli uomini sia nel loro funzionamento attuale (sincronia) sia nella loro evoluzione nel tempo (diacronia). La linguistica si distingue dalla grammatica, che individua e cataloga gli elementi che compongono una lingua ai fini pratici dell’insegnamento della lingua stessa. Le norme della grammatica sono state fornite dalla grammatica normativa che prescrive le forme giuste e censura quelle sbagliate basandosi su un modello di riferimento chiamato standard. La grammatica normativa diversamente dalla linguistica non tiene conto del fatto che la lingua è una realtà dinamica e in movimento, che dunque si modifica nel tempo e, cosa ancora più importante, consente una molteplicità di usi (varietà dell’italiano). In Italia non si usa una lingua unitaria ma si usano più varietà di lingua. L’insieme di tutte le varietà di lingua (dialetti, lingue ufficiali, ecc.) presenti in una comunità di persone o in un parlante viene denominato repertorio linguistico. Le strutture La lingua costituisce un sistema, cioè è composta da un insieme di elementi tra dell’italiano loro interdipendenti. La struttura del sistema è l’organizzazione dei suoi elementi. Secondo la linguistica strutturale la lingua è un sistema costituito da più sistemi tra loro correlati: SISTEMA FONOLOGICO SISTEMA MORFOLOGICO- SISTEMA LESSICALE SINTATTICO Costituito da fonemi Costituito da morfemi e Costituito da lessemi dalle strutture sintattiche Questi sistemi tra loro correlati rappresentano altrettanti livelli di analisi. Le unità presenti in un livello si possono scomporre in unità definite e minime (cioè tali che non si possono analizzare ulteriormente senza passare a un livello inferiore). Alcuni linguisti parlano di doppia articolazione. Vale a dire che il significante di un segno linguistico è articolato in due livelli diversi: a un primo livello (o prima articolazione) il segno è scomponibile in unità portatrici di significato (morfemi) che possono essere reimpiegate per formare altri segni linguistici; a un secondo livello (o seconda articolazione), si possono individuare segni ancora più piccoli che non hanno un significato autonomo ma sono capaci di opporre semanticamente due parole identiche negli altri elementi che le compongono (fonemi). Il segno è un qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Il sistema di segni di uno stesso tipo destinato a rappresentare e a trasmettere informazioni viene denominato codice. Per potersi capire due interlocutori devono usare lo stesso codice. Ciascun segno linguistico possiede due facce: la sequenza di fonemi o grafemi che lo compongono (significante), e il concetto che esso esprime (significato). Con il cosiddetto triangolo semiotico si può rappresentare i rapporti dei componenti che sono implicati nella definizione di segno linguistico. La linea tratteggiata in basso vuol dire che il rapporto fra il significante (‘tavolo’, per esempio) e il referente, cioè l’oggetto extralinguistico (l’oggetto “tavolo”), non è diretto ma è mediato dal significato (la nozione di tavolo). In questo senso il significato sarebbe il riflesso, l’immagine depositata nelle menti degli utenti, di una serie di enti ‘reali’ ovvero di un referente. Sistema fonologico La fonologia o fonematica studia i suoni presenti nelle lingue umane in rapporto alla loro funzione distintiva. Questi suoni sono detti fonemi. La fonetica descrive, classifica e fornisce la trascrizione dei suoni o foni prodotti dall’uomo. Possiamo definire un fono come la realizzazione concreta di un qualunque suono della lingua. Nella trascrizione dei foni si usano le parentesi quadre [ ]. Un qualsiasi fono ha lo statuto di fonema di una determinata lingua se con esso si riesce a formare una coppia minima. Due parole che differiscono tra loro soltanto per un fonema (pino ~ vino; /ˈpɛska/ ~ /ˈpeska/ ) formano una coppia minima. I fonemi sono indicati da barre oblique / /. Le possibili realizzazioni di uno stesso fonema sono pressoché infinite, e variano con il variare del sesso, dell’età, della cultura, della regione e dell’ambiente sociale di provenienza del parlante, delle sue caratteristiche e condizioni fisiche, persino del suo umore. Tanti foni realizzano uno stesso fonema. Quindi, il repertorio dei foni è più ampio di quello dei fonemi, in quanto ogni fonema è anche un fono, mentre non tutti i foni sono fonemi, hanno cioè potere distintivo. Il sistema Premesse: Nell’italiano, come in quasi tutte le lingue del mondo, i suoni fonologico linguistici utilizzano l’aria solo nella fase di espirazione. L’aria, uscita dai polmoni, dell’italiano s’incanala nella trachea e passa quindi nella laringe, dove incontra un primo ostacolo: le corde vocali, che sono due spesse pieghe con margini liberi, che possono trovarsi in due diverse posizioni: -posizione aperta: l’aria passa attraverso la glottide, che è la zona libera compresa tra le corde vocali, senza farle vibrare. Si produce così una suono sordo. -posizione chiusa: le corde vocali, per l’azione meccanica dell’aria in uscita, entrano in vibrazione producendo un suono sonoro. In italiano tutte le vocali sono sonore. Dopo aver superato le corde vocali; l’aria incontra il velo palatino (cioè la parte posteriore, mobile, del palato, che termina con l’ugola). Se il velo palatino si solleva e si appoggia alla parte posteriore della faringe, chiudendo così l’accesso alla cavità nasale, l’aria uscirà dalla bocca; avremo in questo caso una consonante orale. Se il velo palatino è abbassato e l’aria penetra anche nella cavità nasale avremo una consonante nasale. Sordità e sonorità, oralità e nasalità sono tratti distintivi dei fonemi perché permettono di distinguere fonemi che altrimenti risulterebbero identici: /p/, /t/, /k/ si distinguono rispettivamente da /b/, /d/, /g/ solo perché i primi sono sordi, i secondi sonori; allo stesso modo /d/ e /b/ si distinguono rispettivamente da /n/ e /m/ solo perché i primi sono orali, i secondi nasali. Il sistema fonologico dell’italiano standard è composto da 30 fonemi: 7 vocali, 21 consonanti e 2 semiconsonanti. Per trascrivere i fonemi nello studio scientifico e in alcuni dizionari ci si riferisce all’alfabeto dell’Associazione fonetica internazionale (AFI). Le vocali Segmenti vocalici, o vocoidi sono foni pronunciati senza che l’aria, uscendo dal canale orale, incontri ostacoli e con la vibrazione delle corde vocali. Costituiscono il nucleo (ovvero il centro di intensità sonora) delle sillabe che li compongono. Cinque sono i grafemi che usiamo per rappresentare le vocali. I suoni vocalici dell’italiano sono sette e vengono classificati in base a dei parametri: -il movimento orizzontale, avanti/indietro, del dorso della lingua: anteriori (l. verso le labbra), centrali, posteriori (l. verso il velo palatino); -il movimento verticale, alto/basso, del dorso della lingua: alte, medio-alte, medio-basse, basse; -Ampiezza dello spazio tra lingua e palato: chiuse, semi chiuse, aperte, semi aperte. -Posizione delle labbra: arrotondate, non arrotondate. /a/ = vocale centrale, bassa, di massima apertura, non arrotondata: la lingua si abbassa sul fondo della bocca, lasciando completamente aperto il canale orale. /ɛ/ = vocale anteriore, medio-bassa, palatale aperta o semi aperta, non arrotondata: la lingua si solleva e si avvicina al palato duro, avanzando rispetto alla posizione della /a/. /e/ = vocale anteriore, medio-alta, palatale chiusa o semi chiusa, non arrotondata: la lingua si accosta al palato in un punto ancora più avanzato. /i/ = vocale anteriore, alta, palatale di massima chiusura, non arrotondata: è l’ultima delle vocali anteriori, che si articola con un ulteriore sollevamento e avanzamento della lingua. /ɔ/ = vocale posteriore, medio-bassa, velare aperta o semi aperta, arrotondata: le labbra si restringono, mentre la lingua si solleva e si avvicina al velo palatino, retrocedendo rispetto alla posizione della /a/. /o/ = vocale posteriore, medio-alta, velare chiusa o semi chiusa, arrotondata: aumentano l’arrotondamento e l’avanzamento delle labbra, mentre la lingua retrocede ulteriormente. /u/ = vocale posteriore, alta, di massima chiusura, arrotondata: si raggiunge il massimo grado di arrotondamento e di avanzamento delle labbra; la lingua giunge fino al limite posteriore del palato duro. I diversi foni vocalici sono classificati dall’IPA mediante un trapezio: l’asse orizzontale rappresenta il coefficiente di anteriorità-posteriorità; l’asse verticale il parametro di altezza; in ogni posizione a sinistra sono indicate le vocale non arrotondate, a destra quelle arrotondate. Le vocali dell’italiano sono sette in posizione tonica, cioè accentata: [a], [ɛ], [e], [i], [ɔ], [o], [u]. In posizione atona, cioè non accentata, le vocali sono cinque: [a], [e], [i], [o], [u] (non esistono quindi [ɛ] ed [ɔ] in sillaba non accentata). Le consonanti Suoni consonantici, o contoidi sono foni prodotti dal passaggio non libero dell’aria attraverso il canale orale: l’aria incontra un ostacolo o nella chiusura totale temporanea del canale orale, o nel suo forte restringimento, in modo che si senta il rumore del passaggio forzato dell’aria. Per descrivere e classificare le consonanti è necessario considerare tre elementi: -il modo di articolazione: tipo di ostruzione (totale, parziale) incontrato dall’aria. Relativamente al modo di articolazione, distinguiamo consonanti: occlusive (dette anche momentanee o esplosive): la fuoriuscita dell’aria è completamente bloccata dall’ostruzione prodotta dal contatto degli organi fonatori. Dopo un certo tempo di tenuta gli organi fonatori si separano, provocando l’esplosione dell’aria che era stata bloccata (ad es. [p t k b d g]). continue o costrittive: comportano un flusso continuo dell’aria, con la sua fuoriuscita attraverso il canale espiratorio parzialmente ostruito. Esse a loro volta si dividono in: laterali, con l’aria che esce lateralmente alla lingua protesa verso il palato; vibranti, articolate facendo vibrare l’apice della lingua sul palato; fricative o spiranti, nella cui pronuncia l’aria passa attraverso uno stretto canale, in modo che si determini una specie di fruscio, di frizione, di sibilo; nasali, nella cavità orale si forma un’occlusione completa degli organi fonatori, che consente all’aria di uscire in modo continuo solo dal naso attraverso l’abbassamento del velo palatino. affricate o semiocclusive: sono quelle consonanti la cui pronuncia inizia con un suono occlusivo, per poi lasciare posto a un suono continuo, articolato nello stesso punto del precedente. Sono strettamente fuse che vengono percepite come un unico suono (ad es. [ts] è la fusione di [t] e di [s]). -il luogo di articolazione: il punto in cui uno degli organi della fonazione si frappone alla corrente d’aria che sale dai polmoni. Relativamente al luogo di articolazione, distinguiamo tra: bilabiali, pronunciate unendo le due labbra e poi aprendole; labiodentali, quando sono interessati il labbro inferiore e i denti superiori; dentali, con la lingua a contatto con la parte interna dell’arcata dentale superiore; alveolari, articolate con la punta della lingua contro gli alveoli degli incisivi superiori; palatali, articolate con la lingua che tocca il palato; velari, l’occlusione si produce tra la parte posteriore della lingua e il velo palatino. -Oltre che dal luogo e dal modo di articolazione, le consonanti vengono individuate da due ulteriori tratti distintivi: il carattere orale o nasale del fono e il grado di articolazione, cioè la presenza o assenza di vibrazione delle corde vocali, che determina presenza o assenza di sonorità. L’intensità delle consonanti: le consonanti, rispetto alla loro forza articolatoria, possono essere brevi (anche tenui, o scempie) e lunghe (intense, o doppie): in posizione intervocalica, sono sempre lunghe [ʎ], [ɲ], [ʃ], [ʦ], [ʣ] (rispettivamente in figlio, bagno, pesce, azione, azoto, parole in cui il suono consonantico intervocalico è pronunciato intenso, anche se la rappresentazione grafica non prevede la doppia: [ˈfiʎʎo], [ˈbaɲɲo], [ˈpeʃʃe], [atˈʦjone], [adˈʣɔto]), mentre sempre breve è la fricativa sonora [z]. fonema definizione fonetica /p/ occlusiva bilabiale sorda /b/ occlusiva bilabiale sonora orale /m/ continua/occlusiva bilabiale sonora nasale /t/ occlusiva dentale sorda /d/ occlusiva dentale sonora orale /n/ continua/occlusiva dentale sonora nasale /ɲ/ continua/occlusiva palatale sonora nasale /k/ occlusiva velare sorda /g/ occlusiva velare sonora /ʦ/ affricata alveolare sorda /ʣ/ affricata alveolare sonora /ʧ/ affricata palatale sorda /ʤ/ affricata palatale sonora /f/ continua fricativa labiodentale sorda /v/ continua fricativa labiodentale sonora /s/ continua fricativa alveolare sorda /z/ continua fricativa alveolare sonora /ʃ/ continua fricativa palatale sorda /r/ continua vibrante alveolare sonora /l/ continua laterale alveolare sonora /ʎ/ continua laterale palatale sonora Semiconsonanti Le semiconsonanti dell’italiano sono due: [j], anteriore o palatale (detta jod), e [w], posteriore o velare (detta uau). Sono foni che si impostano rispettivamente come le vocali [i] e [u] ma hanno una durata molto più breve rispetto ad esse. Per produrre le semiconsonanti il canale orale si stringe più che per le vocali [i] e [u]; ne risulta un suono intermedio tra la vocale e la consonante. A differenza delle vocali, le semiconsonanti non si articolano mai da sole, ma necessitano sempre di una vocale tonica o atona seguente, diversa da quella omorganica, e con la quale formano un dittongo. Dittonghi formati con /j/: ia (iato, aia, piazza), ie (/jɛ/ o /je/: fieno, iettatore), io (/jɔ/ o /jo/: Ionio, pioggia, corridoio), iu (iugoslavo, aiuto, schiuma). Dittonghi formati con /w/: ua (quasi, lingua), ue (/wɛ/, /we/: querulo, questo, sangue), ui (quindici, anguilla), uo (/wɔ/, /wo/: cuore, liquore, languore). Semivocali Col termine di semivocale (spesso usato come semplice sinonimo di semiconsonante) ci si riferisce a /i/ e /u/ quando seguano un elemento vocalico tonico o atono. Una suddivisione più fine oppone le semivocali alle semiconsonanti sulla base della posizione rispetto alla vocale: se ricorrono prima sono dette semiconsonanti, se ricorrono dopo semivocali. Rispetto alle semiconsonanti, la durata è più lunga e hanno pieno valore vocalico. In trascrizione fonetica, infatti, i loro simboli non sono /j/ e /w/ ma /i/ e /u/. Dittonghi formati con la semivocale /i/: ai (faida /ˈfaida/, laico /ˈlaiko/ ), ei (/ɛi/, /ei/: lei /ˈlɛi/, ehilà /eiˈla/), oi (/ɔi/, /oi/: poi /ˈpɔi/, coibente /koiˈbɛnte/), ui (altrui /alˈtrui/, suicidio /suiˈʧidjo/). Dittonghi formati con la semivocale /u/: au (causa /ˈkauza/, laureato /laureˈato/), eu (/ɛu/, /eu/: reuma /ˈrɛuma/, feudo /ˈfɛudo/, neurologia /neuroloˈʤia/). Dittongo I gruppi costituiti da una vocale preceduta da semiconsonante o seguita da Si noti che nelle parole che terminano in “vocale accentata + i”: amai, perdei, noi, voi, lui, guai, mai, finii, farei, darai, poi la -i è vocale sillabica se è alla fine della frase: solo Isa amai, dove si ha /aˈma.i/; la -i è invece asillabica, è cioè il secondo elemento di un dittongo discendente, se si trova al centro di una frase: solo Isa amai nella mia vita, dove si ha /aˈmai/. Lo stesso dicasi di fi.ni.i, che può diventare bisillabo e po.i, lu.i e ma.i, che può diventare monosillabo. semivocale, prendono il nome di dittonghi. I dittonghi sono unità sillabiche formate da una vocale in funzione di centro della sillaba e da una i oppure una u con funzione consonantica, ovverosia di margine della sillaba. Si distingue tra dittonghi ascendenti, quando la sonorità aumenta passando dal primo al secondo elemento (semiconsonante + vocale: piede /ˈpjɛde/) o dittonghi discendenti, quando la sonorità diminuisce passando dal primo al secondo elemento (vocale + semivocale: noi /ˈnoi/). In alcuni casi si ha l’incontro di una semiconsonante, una vocale e una semivocale (in genere /i/), oppure di due semiconsonanti e di una vocale: parliamo allora di trittonghi. Distinguiamo: /j/ + vocale + semivocale: miei /ˈmjɛi/. /w/ + vocale + semivocale: suoi /ˈswɔi/, tuoi /ˈtwɔi/, guai /ˈɡwai/, quei /ˈkwei/. /j/ + /w/ + vocale (/ɔ/): aiuola /aˈjwɔla/ (combinazione rara nel lessico italiano). /w/ + /j/ + vocale: quieto /ˈkwjɛto/, seguiamo /seˈgwjamo/. Iato Lo iato è invece l’incontro di due vocali che non formano dittongo e appartengono a sillabe diverse. Ciò avviene essenzialmente: -se nessuna delle due vocali è i o u : ma-e-stro, re-a-to , le-o-ne, pa-e-se; -se una delle due vocali è i tonica o u tonica e l’altra è a, e, o: fa-ì-na, Ma-rì-a, spì-a, ci-go-lì-o, pa-ù-ra, dù-e, sù-o; -nelle parole prefissate in cui è ancora percepito il rapporto tra prefisso (ri, bi, di, su, tri, anti) e base: ri-a-ve-re, ri-u-nio-ne, ri-a-ma-re, bi-en-na-le, di-archì-a, su-e-spo-sto, tri-an-go-lo, an-ti-a-e-re-o. La «pronuncia Non ci sono dubbi dell’esistenza di un solo italiano per la lingua scritta, infatti, modello» leggendo un brano non siamo in grado di risalire alla regione di provenienza dello scrivente. Invece, il modo d’articolare i singoli foni e l’intonazione (o calata o, genericamente, accento) sono legati alla zona d’origine del parlante. Ciò non vuol dire, però, che non ci sia un “italiano modello”, da identificare in quello realizzato dal parlante che “lascia capire il più tardi possibile la propria provenienza regionale e sociale”. Un italiano di questo tipo ha alla base i modello fiorentino colto depurato di alcuni tratti idiomatici. Che una pronuncia normativa esista, possa e debba essere insegnata ci sembra quindi indubbio. Tuttavia, si deve tener conto di due precisazioni: -la sanzione sociale di fronte alle pronunce regionali è in genere modesta ed è comunque molto meno marcata della censura ortografica. -alcune pronunce che deflettono dalla norma sono più accettate di altre (perché sono diffuse in aree molto vaste, perché sono presenti in varietà di prestigio, come quelle proprie delle grandi aree metropolitane del Nord). Varietà regionali nel Nell’estrema Italia meridionale (Sicilia, gran parte della Calabria, basso Salento) vocalismo il sistema vocalico tonico è ridotto a cinque unità, giacché mancano /e/ e /o/. Nella varietà settentrionale, specie nell’area lombardo-veneta, la /e/ tonica tende ad essere pronunciata chiusa in sillaba libera (/ˈbene/, /poˈeta/, /teˈlefono/, /ˈpjede/) e aperta in sillaba chiusa (/ˈfrɛddo/, /biʧiˈklɛtta/, /kaˈpɛlli/, /ˈkwɛllo/), tranne che non sia seguita da nasale (/ˈdente/, /ˈventi/, senza l’opposizione tra /ˈvɛnti/ «nome» ~ /ˈventi/ «numerale») e davanti a s + consonante (/ˈkwɛsto/, /ˈpɛska/, senza l’opposizione tra /ˈpɛska/ «frutto» e /ˈpeska/ «atto del pescare», /teˈdɛsko/). La e tonica in fine di parola è pronunciata aperta (/perˈkɛ/, /finˈkɛ/, /ˈtrɛ/). Una caratteristica che accomuna Puglia, Molise, Abruzzo, Marche, Emilia, Romagna e Umbria alto-tiberina è la palatalizzazione di /a/ tonica, specialmente in sillaba aperta, in [ɛ] o [æ] (ad es. m[ɛ]no «mano»). In alcune aree dell’Italia meridionale, come in Campania e Molise, ié si pronuncia chiuso (/ˈtjene/, /ˈvjene/), mentre è aperto il suono in -mènte/o (/solaˈmɛnte/). Il dittongo [jɛ], anche nell’italiano di Milano, si pronuncia chiuso [je]: [ˈpjeːde] piede, [ˈvjeːne] viene, [ˈmjeːle] miele, [saluˈmjeːre] salumiere, [ˈpjeːno] pieno, [ˈdjeːtro] dietro. Circa il vocalismo atono, merita segnalare una certa tendenza alla centralizzazione (in direzione dello schwa [ə]) delle vocali finali di parola nel Sud, segnatamente in Campania, Puglia, Molise, parte dell’Abruzzo: [ˈkanə] però nei dialetti e in varietà di italiano molto trascurate si centralizzano tutte le vocali atone presenti in una parola ([rəˈʧevərə] «ricevere»). In Toscana e a Roma il dittongo ascendente /wɔ/ possono monottongarsi in /ɔ/ (da [’bwɔno] a [’bɔno]). Varietà regionali Nell’italiano del Nord le consonanti si articolano sempre tenui. Oltre che nel relative a mancato raddoppiamento fonosintattico, non segnalato dalla grafia ([aˈkaːza] a consonanti casa, [faˈkaldo] fa caldo, [aˈme] a me), questo tratto regionale emerge quando la scrittura non indichi adeguatamente il tratto di intensità, come accade per [ʃʃ], [ʎʎ] e [ɲɲ] in posizione intervocalica ([ˈfiʎo], [ˈaːʎo] aglio, [ˈvɔːʎo] voglio, [biˈzoːɲo] bisogno, [ˈoːɲi] ogni, [ˈkɔːʃa] coscia). Nelle pronunce trascurate [ʎ], [ɲ], [ʃ] tendono addirittura a ridursi perdendo il tratto palatale e ad essere realizzate come nesso di alveolare e semiconsonante [lj] [nj] [sj]: [ˈaːljo], [ˈvɔːljo], [biˈzoːnjo], [ˈkɔːsja]. Tra vocali o tra vocale e semiconsonante anche [ʦ] e [ʣ] sono pronunciate scempie se non sono rafforzate nella grafia: quindi [ˈpεtːso] pezzo, [ˈmεdːzo] mezzo, ma [aˈʦjoːne] azione, [baˈʣar] bazar; e nelle pronunce trascurate tendono anch’esse a ridursi perdendo l’elemento dentale: [aˈsjoːne], [baˈzar]. Per la s in posizione intervocalica all’interno di parola la pronuncia varia a seconda delle regioni. Infatti: -Nell’Italia settentrionale si ha in genere la sonora. -In Toscana, si ha opposizione tra /s/ e /z/, per es. nelle coppie minime /ˈfuso/ ‘arnese per filare’ ~ /ˈfuzo/ participio passato e /ˈkjɛse/ passato remoto ~ /ˈkjɛze/ sostantivo; ma va considerato che nel fiorentino parlato questa opposizione si sta perdendo, per la tendenza a generalizzare la pronuncia sonora di s, secondo l’uso settentrionale. -Nell’Italia meridionale si ha in genere la sorda. Caratteristica della Toscana è la cosiddetta «gorgia», per la quale le occlusive sorde tenui intervocaliche, all’interno di parola o di frase, si spirantizzano (cioè diventano ‘spiranti’, costrittive): la casa [laˈhasa], coca-cola [kɔhaˈhɔla]. Tipico tratto toscano è pure la perdita dell’elemento occlusivo nelle affricate palatali intervocaliche [ʧ], [ʤ] (deaffricazione): la cena [laˈʃena], pace [ˈpaːʃe], agile [ˈaʒile]. A Roma la laterale palatale [ʎʎ] è spesso realizzata come [jj]: figlio [ˈfijjo]. A Roma e nella restante Italia centro-meridionale (escluse generalmente la Toscana e buona parte di Umbria e Marche) si ha un generale rafforzamento di [b] e [ʤ] intervocaliche: pronunce come roba [ˈrɔbba] e la gente [la d’ʤɛnte] sono normali anche in parlanti colti. Solo popolaresca è invece la pronuncia tenue di [rr], proprio anche del litorale toscano: terra [ˈtɛra]. Nei dialetti meridionali si osserva l’assimilazione progressiva totale in gruppi consonantici in cui il primo elemento è una nasale: [nd] > [nː] in roman. monno ~ it. mondo, quanno ~ it. quando. In Campania la fricativa alveolare preconsonantica davanti a consonanti velari o dentali si palatalizza: scala [ˈʃkala], stupido ['ʃtupido]. Assimilazione L’assimilazione è il fenomeno per il quale un fono assume in tutto o in parte i tratti di un altro suono vicino. Si tratta, quindi, della propagazione di uno o più tratti distintivi da un suono (quello assimilante) a un altro (quello assimilato). A seconda del numero di tratti che si propagano da un suono a un altro si usa distinguere l’assimilazione totale da quella parziale. Nell’assimilazione totale il suono interessato diviene in tutto uguale al suono assimilante. Nell’assimilazione parziale, invece, il suono assimilato diviene in parte simile all’altro da cui riceve solo alcuni tratti, per lo più inerenti al luogo di articolazione o al valore di sonorità. A seconda della direzione del processo, si suole distinguere tra assimilazione regressiva e assimilazione progressiva. Nell’assimilazione regressiva i tratti articolatori di un suono vengono anticipati, in tutto o in parte, nei tratti di un suono precedente. A questo tipo di assimilazione possono essere ricondotti numerosi fenomeni sistematici dell’italiano: -Le nasali subiscono spesso mutamenti dovuti ad assimilazione regressiva: una nasale preconsonantica cambia luogo di articolazione assumendo quello della consonante seguente: [ˈfaŋgo] fango, [ˈaŋkora] ancora → la /n/ si pronuncia [ŋ] (nasale velare) con lo stesso luogo velare di [g] e [k]. [ˈdɛnte] dente, [ˈfondo] fondo → la /n/ si pronuncia [n] (nasale dentale) con lo stesso luogo dentale di [t] e [d]. [iɱˈveʧe] invece, [ˈgoɱfjo] gonfio → la /n/ si pronuncia [ɱ] (nasale labiodentale) con lo stesso luogo labiodentale di [v] e [f]. -La fricativa alveolare preconsonantica sarà sorda se seguita da una consonante sorda, come in [ˈstaɲːo] stagno, [ˈspiːa] spia, [ˈskonto] sconto, [ˈsfaʃːo] sfascio; sarà invece sonora se seguita da una consonante sonora, come in [ˈzbaʎːo] sbaglio, [ˈzdeɲːo] sdegno, [ˈzgombro] sgombro, [zveˈlaːre] svelare. Quelli appena citati sono casi di assimilazione regressiva parziale. L’assimilazione regressiva totale è invece una delle ragioni della nascita di consonanti geminate, come nella diacronia dei nessi seguenti: [b] + consonante: it. sollevo < lat. sublevo [k] + consonante: it. fatto < lat. factum, it. letto < lat. lectum, it. otto < octo [d] + consonante: it. affetto < lat. adfectum, it. aggravare < lat. adgravare, it. allegare < lat. adlegare, it. avvenire < advenire [g] + consonante: it. giullare < provenz. joglar [j] + consonante: it. fummo < lat. fuimus [m] + consonante: it. danno < lat. damnum, it. autunno < lat. autumnum [n] + consonante: it. illegale < inlegale, it. irreale < inreale [p] + consonante: it. scritto < lat. scriptum, it. sette < lat. septem, it. rotto < ruptum [t] + consonante: it. spalla < lat. spat(u)la L’assimilazione regressiva può avvenire non solo all’interno di parola, ma anche all’interno di frase: it. a casa /akˈkasa/ < lat. ad casam. Nell’assimilazione progressiva i tratti di un suono permangono in tutto o in parte nel suono successivo. L’assimilazione progressiva è un fenomeno poco sistematico in italiano. L’assimilazione progressiva totale si presenta principalmente in fenomeni di variazione diacronica e diatopica (in special modo nei dialetti meridionali). L’assimilazione progressiva parziale è molto rara in italiano standard. Il meccanismo assimilatorio può pure essere al contempo regressivo e progressivo quando un suono si modifica a causa dell’influenza congiunta del suono precedente e di quello successivo. Questo tipo di assimilazione (detto bidirezionale o bilaterale) in italiano settentr. riguarda, ad es., il comportamento delle fricative alveolari che, in posizione intervocalica (quindi in ambiente sonoro), vengono sistematicamente sonorizzate: [ˈkaːza] casa, [ˈkɔːza] cosa, [ˈpiːza] Pisa. Pertanto la distinzione tra fricativa alveolare sorda e sonora non risulta distintiva in italiano settentr. perché sempre determinata dal contesto. Varianti L’espressione variante combinatoria indica, fra le possibili realizzazioni di un combinatorie e fonema (allofoni), quelle determinate dal contesto, che cioè dipendono libere dall’intorno fonetico in cui compaiono e quindi si sottraggono alla scelta del parlante. La diversa realizzazione di un fonema in italiano è determinata dal segmento successivo o precedente (è il fenomeno dell’assimilazione). Le varianti combinatorie [n ɱ ŋ] sono semplici allofoni di un medesimo fonema /n/. Gli allofoni non hanno valore distintivo. In altre lingue queste varianti combinatorie hanno statuto fonematico; per esempio in inglese (to) sing ‘cantare’ /ˈsiŋ/ è in coppia minima con sin ‘peccato’ /sin/. Accanto alle varianti combinatorie dobbiamo considerare le cosiddette varianti libere, che sono realizzazioni fonetiche individuali, dovute a difetti di pronuncia o a particolari abitudini dei singoli parlanti (allofoni individuali) o di gruppi regionalmente definiti di parlanti (allofoni geografici): è questo il caso della vibrante uvulare [ʀ] che è dovuta a difetti di pronuncia, a particolari abitudini dei singoli parlanti (la [ʀ] è tradizionalmente considerata tipica dell’alta borghesia e può essere avvertita come il segno di un’affettazione snobistica) o alla loro provenienza regionale (la [ʀ] è tipica della Valle d’Aosta e dell’Alto Adige e presente con una certa frequenza in Piemonte e in alcuni centri dell’Emilia Romagna, come Parma); della fricativa palatale [ʃ], usata al posto della fricativa alveolare preconsonantica, che si avverte in occasionali pronunce enfatiche ([ˈʃtupido] invece del normale [ˈstupido]) e nell’italiano regionale campano; della monovibrante retroflessa [ɽ] (l’apice della lingua e spinto indietro, in modo che la superficie inferiore della parte anteriore della lingua aderisca alla regione postalveolare) e del nesso tr- con pronuncia retroflessa [ʈɽ] che sono tipici della Sicilia, della Calabria meridionale e dell’Umbria (siciliano tortula [ˈtɔɽtula] ‘trottola’, [ʈɽ]eno, [ʃʈɽ]ada, [ʈɽ]e). I grafemi e La cultura scritta occidentale è basata su scritture alfabetiche in cui, l’alfabeto teoricamente, ogni segno corrisponde a un fono. Questi segni grafici che riproducono i foni e i fonemi sono le lettere o grafemi, il cui insieme costituisce il sistema alfabetico. Lo studio scientifico dei grafemi è compiuto dalla grafematica. Appartiene invece all’ambito della didattica, e quindi ha finalità prescrittive, l’ortografia, che è la resa grafica di una determinata lingua secondo un modello di riferimento (ci dice se dobbiamo usare una lettera dell’alfabeto piuttosto che un’altra, se dobbiamo usare una maiuscola o una minuscola, un accento, un apostrofo, un certo segno d’interpunzione → segni paragrafematici). Le scritture alfabetiche naturali non rappresentano mai fedelmente i foni o i fonemi della lingua corrispondente; e questa sfasatura è accentuata dal fatto che la lingua parlata si evolve più velocemente di quella scritta, che resiste in forme più o meno cristallizzate. In alcune lingue (come lo spagnolo, il polacco, l’ungherese, il turco e lo stesso italiano) la corrispondenza tra grafia e pronuncia è abbastanza soddisfacente. In altre (come il francese e l’inglese) c’è una divaricazione molto forte. Nell’uso scientifico, per ovviare a questo inconveniente, ci si serve di alfabeti fonetici in cui si può ottenere piena corrispondenza tra grafia e pronuncia. Il più diffuso di tali sistemi è quello fissato dall’A.F.I. («Associazione Fonetica Internazionale», nota anche secondo la sigla inglese: I.P.A.). I grafemi che costituiscono l’alfabeto italiano sono 21; ad essi vanno aggiunte altre cinque lettere (j, k, w, x, y) che compaiono in parole straniere entrate nella lingua italiana. In italiano la corrispondenza 1 grafema : 1 fonema è raggiunta in un numero di casi abbastanza alto: delle 21 lettere dell’alfabeto ben 11 hanno valore univoco, designano cioè un solo fonema (a, b, d, f, l, m, n, p, r, t, v). Per i restanti 10 grafemi dobbiamo distinguere tra grafemi polivalenti, grafemi diacritici e un grafema funzionalmente sovrabbondante. I grafemi polivalenti sono quei simboli che, a seconda del contesto, possono avere valore fonematico diverso. Si tratta di quattro lettere vocaliche (e, o, i, u) e di quattro consonantiche (c, g, s, z): -i grafemi i e u rappresentano sia le vocali e le semivocali /i/ e /u/ sia le semiconsonanti /j/ e /w/. La corretta pronuncia delle vocali aperte e chiuse è difficile da apprendere: l’alternanza tra vocali chiuse e aperte infatti non è rappresentata dalla grafia. Pertanto, nell’italiano parlato fuori dalla Toscana, la pronuncia delle vocali aperte e chiuse si discosta in maniera più o meno significativa dal modello standard. -il grafema e sotto accento rappresenta la vocale /ɛ/ o /e/. Si ha /ɛ/: 1. nelle desinenze -èndo del gerundio (leggendo, sapendo), -ènte del participio (leggente, sapiente), -èi, -èbbe, -èbbero del condizionale (canterèi, canterèbbe, canterèbbero), -ètti, -ètte, -èttero del passato remoto (temetti, temette, temettero); 2. nel dittongo -iè- (fièno, sièpe, allièvo, piède, pièno). Fanno eccezione i casi in cui il dittongo è compreso in suffissi che vogliono la /e/ come -étto, -ézza (specchiétto, armadiétto, ampiézza, vecchiézza); 3. nelle parole che finiscono in -èllo, -èlla (cancèllo, bidèllo, poverèllo, padèlla, cartèlla); -ènza (beneficènza, decènza, partènza, influènza, sènza, Piacènza); èrio, èria (critèrio, desidèrio, misèria, fèria); -èstra, -èstre, -èstro (palèstra, minèstra, dèstra, campèstre, terrèstre, silvèstre, canèstro, sequèstro; maestro e maestra hanno la doppia pronuncia, aperta e chiusa); -èzio, -èzia (inèzia, scrèzio, trapèzio); 4. nei suffissi di numerativi -ènne (ventènne) e -ènnio (ventènnio) e di numerale ordinale -èsimo (ventèsimo). Si ha /e/: 1. in diverse desinenze verbali: -ére dell’infinito (bére, piacére, vedére); -éi, ésti, -é, -émmo, -éste, -érono del passato remoto (teméi, temésti, temé, temémmo, teméste, temérono); -ésti, -émmo, -éste del condizionale (canterésti, canterémmo, canteréste); -éssi, -ésse, -éssimo, -éste, -éssero del congiuntivo imperfetto (teméssi, temésse, teméssimo, teméste, teméssero); -évo, -évi, -éva, évano dell’imperfetto indicativo (temévo, temévi, teméva, temévano); -émo, -éte del futuro semplice (temerémo, temeréte); -éte dell’indicativo presente e dell’imperativo (teméte): 2. negli avverbi in -ménte (lentaménte, dolceménte, allegraménte); 3. nelle parole che finiscono in -ménto (sentiménto, moviménto, abbigliaménto, monuménto); -ése (paése, borghése, mése, bolognése, piemontése, ungherése); -éccio (cicaléccio, caseréccio); -éggio (noléggio, parchéggio); ézza (altézza, timidézza, purézza, lentézza); -éssa (principéssa, dottoréssa); ésimo (cristianésimo, umanésimo); 4. nei suffissi diminutivali -étto, -étta (librétto, animalétto, bambinétta); le parole che finiscono in -etto, -etta ma non sono diminutivi non seguono una regola precisa: brevétto, bigliétto, tétto, ma affètto, aspètto, concètto. -il grafema o sotto accento rappresenta la vocale /ɔ/ o /o/. -i grafemi c e g hanno valore velare (/k/ e /g/) davanti alle vocali a, o, u (cane /ˈkane/, cosa /ˈkɔsa/, culla /ˈkulla/, gatto /ˈgatto/, goccia /ˈɡoʧʧa/, guerra /ˈɡwɛrra/); davanti a una consonante c si pronuncia sempre /k/ (cloro /ˈklɔro/, fucsia /ˈfuksja/, tecnica /ˈtɛknika/); g vale /g/ (segmento /seɡˈmento/, tungsteno /tunɡsˈtɛno/, Sigfrido /siɡˈfrido/), tranne che davanti a l e n con cui forma digramma. Davanti a i ed e, c e g hanno sempre valore palatale (/ʧ/, /ʤ/): cesto /ˈʧesto/, circolo /ˈʧirkolo/, gesto /ˈʤɛsto/, giglio /ˈʤiʎʎo/. -il grafema s rappresenta la consonante fricativa alveolare sorda o sonora (/s/ o /z/). Si ha /s/: 1. in posizione iniziale, quando è seguita da vocale: sera /ˈsera/, sei /ˈsɛi/; 2. all’interno di parola, quando è doppia: grosso /ˈɡrɔsso/, commesso /komˈmesso/; 3. all’interno di parola, quando è preceduta da un’altra consonante: borsa /ˈborsa/, denso /ˈdɛnso/, penso /ˈpɛnso/; 4. quando la s si trovi in una parola composta: risalire /risaˈlire/, asettico /aˈsɛttiko/, antisismico /antiˈsizmiko/; 5. quando è seguita da consonanti sorde: cisterna /ʧisˈtɛrna/, scappare /skapˈpare/, sfogliare ; 6. nel suffisso etnico -ése (cinése /ʧiˈnese/, giapponése /ʤappoˈnese/, inglése /inˈɡlese/); vi sono però alcune eccezioni (francése /franˈʧeze/, cortése /korˈteze/, palése /paˈleze/, paése /paˈeze/); 7. nel suffisso aggettivale -óso (curióso /kuˈrjoso/, faticóso, nervóso /nerˈvoso/); 8. nelle desinenze verbali -ési, -éso, -ósi, -óso del passato remoto e del participio passato (accési, accéso, rósi, róso). Si ha /z/: 1. quando è seguita dalle consonanti sonore (asma /ˈazma/, sbadiglio /zbaˈdiʎʎo/, snello /zˈnɛllo/, disgiunto /dizˈʤunto/, risveglio /rizˈveʎʎo/); 2. nelle parole di origine dotta che finiscono in -asi, -esi, -isi, -osi (protasi /ˈprɔtazi/, tesi /ˈtɛzi/, crisi /ˈkrizi/, nevrosi /neˈvrɔzi/); 3. nelle parole in -esimo, -esima (battesimo /batˈtezimo/, umanesimo /umaˈnezimo/, ventesimo /venˈtɛzimo/, cresima /ˈkrezima/); 4. nelle parole che iniziano con es + vocale (esito /ˈɛzito/, esempio /eˈzɛmpjo/); 5. nelle desinenze verbali -asi, -ase, -asero del passato remoto (persuasi, persuase, persuàsero); -isi, -ise, -isero del passato remoto (divisi, divise, divìsero); -iso del participio passato (diviso); -usi, -use, -usero del passato remoto (chiusi, chiuse, chiùsero); -uso del participio passato (chiuso); 6. quando s è intervocalica (bisogno /biˈzoɲɲo/, esame /eˈzame/, rosa /ˈrɔza/, musica /ˈmuzika/, viso /ˈvizo/), in prevalenza, ma le eccezioni sono numerose (naso /ˈnaso/, cosa /ˈkɔsa/, riso /ˈriso/, riposo /riˈpɔso/ ecc.), e in alcune parole è possibile la doppia pronuncia (casa /ˈkasa/ o /ˈkaza/, mese /ˈmese/ o /ˈmeze/). -il grafema z corrisponde a due fonemi distinti: /ʦ/ e /ʣ/. I grafemi diacritici sono segni che non corrispondono ad un’entità fonetica ma servono soltanto a determinare nello scritto la giusta pronuncia di un’altra lettera o gruppo di lettere. In italiano i segni diacritici sono due: la h e la i. La funzione principale di h è quella di indicare la pronuncia velare di c e g davanti a i ed e: che, chi, ghe, ghi. h ha valore puramente diacritico anche nelle quattro persone del presente indicativo di avere (ho, hai, ha, hanno), per distinguerle dagli omofoni o (congiunzione e interiezione), ai (preposizione articolata), a (preposizione semplice), anno (sostantivo). La i diacritica dopo c, sc, e g va usata, di massima, solo davanti ad a, o, u, mentre non dovrebbe esserci quando la vocale sia e, dato che essa basta da sola a garantire il suono palatale della consonante precedente: cia ≠ ca, cio ≠ co, ciu ≠ cu; gia ≠ ga, gio ≠ go, giù ≠ gu; scia ≠ sca, scio ≠ sco, sciu ≠ scu; Questa norma ortografica va però soggetta a molte oscillazioni. Ci sono casi in cui nella grafia si usa una i superflua, che non si pronuncia e non ha neanche una funzione diacritica: -Nei plurali dei nomi in -cia, -gia: camicie, valigie . -Nella 1ͣ persona plurale dell’indicativo e del congiuntivo dei verbi in -gnare (sogniamo) e nella 2ͣ persona plurale del congiuntivo (sogniate, contro sognate indicativo). Piuttosto diffuse le forme senza i, più conformi alla fonetica anche se sacrificano –ma solo nella scrittura– la riconoscibilità delle desinenze verbali iamo, -iate. -Inoltre la i si mantiene nei suffissi -(c)iente, -(c)ienza, -(c)iere, -(c)iera e, in un limitato numero di casi, in –(g)iero, -(g)iera: cosciente e coscienza, deficiente e deficienza, efficiente ed efficienza, sufficiente e sufficienza, scienza (invece: beneficenza, conoscenza, licenza, ecc., conformi al modello latino, senza i ); artificiere, braciere, paciere, pasticciere; - crociera, cartucciera; -formaggiera, gorgiera. Molti sostantivi e aggettivi in -giero, che hanno mantenuto la i fino agl’inizi del Novecento, l’hanno eliminata in epoca molto recente: leggero (ma leggiero ancora in Gentile e Croce), cavalleggero (ma cavalleggiero in Baldini e Bacchelli), messaggero (il giornale «Il Messaggero» in origine recava la i nel titolo), passeggero (ma passeggiero in Saba). Anche nelle altre serie suffissali si notano nell’uso letterario novecentesco spinte verso una semplificazione. Leggiamo bracere in Campana, Palazzeschi e Silone, pasticcere in Pratolini, cartuccera in D’Annunzio, Silone, Pavese, crocera ‘incrocio’ in Jahier, formaggera in Cassola. -Per influsso della grafia latina, la i si conserva in singole parole come specie, superficie, effigie, ecc. -In alcune parole in cui la i è il residuo di un’antica pronuncia: cieco, cielo. La i diacritica dopo gl va usata davanti ad a, e, o, u. glia ≠ gla, glie ≠ gle, glio ≠ glo, gliu ≠ glu Digrammi e trigrammi Il gruppo di due grafemi che indicano un fonema si dice digramma; il gruppo di tre, trigramma. L’italiano ha i seguenti digrammi: ch (che riproduce l’occlusiva velare sorda /k/); gh (che riproduce l’occlusiva velare sonora /g/); gn (per la palatale nasale /ɲ/) + a, e, i, o, u = cagna /ˈkaɲɲa/, ingegnere /inʤeɲˈɲɛre/. Nella sequenza -gnia, -gnie la i va pronunciata in compagnia /kompaɲˈɲia/, compagnie /kompaɲˈɲie/, mentre non va pronunciata negli altri casi, per esempio quando fa parte della desinenza verbale -iamo (sogniamo /soɲˈɲamo/); gl (per la palatale laterale sonora /ʎ/) + i = figli /ˈfiʎʎi/, scogli /sˈkɔʎʎi/; sc (per la fricativa palatale sorda /ʃ/) + i, e = scimmia /ˈʃimmja/, scena /ˈʃɛna/. Quando è seguito da a, o, u si pronuncia /sk/: scala, scomodo, scusa; ci (per l’affricata palatale sorda /ʧ/) + a, o, u = ciao /ˈʧao/, ciocca /ˈʧɔkka/; gi (per l’affricata palatale sonora /ʤ/) + a, o, u = giardino /ʤarˈdino/. L’italiano ha, inoltre, i trigrammi: sci (per la fricativa palatale sorda /ʃ/) + a, o, u = sciame /ˈʃame/, sciopero /ˈʃɔpero/, prosciutto /proʃˈʃutto/, scienza /ˈʃɛnʦa/?. Fanno eccezione il sostantivo scia, le forme del verbo sciare (scio, scii, scia, sciamo, sciate, sciano ecc.) e i derivati di sci (sciolina, sciata), nei quali la i va pronunciata: /ˈʃia/, /ʃiˈare/, /ˈʃio/, /ʃioˈlina/; gli (per la palatale laterale sonora /ʎ/) + a, e, o, u = maglia /ˈmaʎʎa/, famiglia /faˈmiʎʎa/, moglie /ˈmoʎʎe/, piglio /ˈpiʎʎo/. gl è nesso biconsonantico all’inizio di parola (glia /ˈɡlia/, glicemia /ɡliʧeˈmia/), eccetto che in gli e composti (glielo /ˈʎelo/, glie ne, ecc.). In posizione interna ha valore di /gl/ quando è preceduto da n (anglicano, inglese), in geroglifico, in negligente, negligenza, in tutte le voci del verbo siglare (tu sigli /ˈsiɡli/, ecc.). Col nome di grafema sovrabbondante ci riferiamo a q, che è un semplice doppione di c come primo elemento di un nesso labiovelare sordo (/kw/). In parole come cuore e quota la prima sillaba è identica: /ˈkwɔre/, /ˈkwɔta/; sono soltanto ragioni storiche che impongono cu nel primo caso (che risente del lat. CŎR, CŎRDIS) e qu nel secondo (tratto dal lat. QUŌTUS ‘in qual numero’). Per indicare il grado intenso /kkw/ la grafia normale è cqu: acqua /ˈakkwa/, giacque, nacque. Si ha qq in soqquadro e nel raro biqquadro, «due eccezioni fastidiose e assurde». Fonetica sintattica La fonetica sintattica si occupa di tutti quei fenomeni che si producono nel contatto tra due parole susseguentisi nella catena parlata. Infatti la separazione delle parole a cui siamo abituati dall’ortografia non corrisponde alla realizzazione fonetica della frase, in cui alcune parole (specie se brevi e con funzione grammaticale: articoli, preposizioni, congiunzioni) si fondono con le unità lessicali successive, perdendo o attenuando l’accento che avevano e adattando il fono terminale a quello iniziale della parola seguente. Soffermiamoci sui principali fenomeni fonosintattici dell’italiano: il raddoppiamento fonosintattico, l’elisione, l’apocope. Il raddoppiamento Il raddoppiamento fonosintattico si verifica quando la consonante iniziale di fonosintattico una parola, in particolari condizioni, raddoppia nella pronuncia e – nel caso delle univerbazioni – anche nella grafia. Alla base del raddoppiamento fonosintattico ci sono ragioni di carattere storicolinguistico, infatti, esso è causato da un’assimilazione regressiva all’interno di frase. Quest’ultimo fenomeno si è avuto non soltanto all’interno della parola (ADMĬTTO → ammetto), dando luogo nello scritto a una consonante intensa, ma anche nel contatto di due parole (AD CĂSAM → [ak’kasa] → a casa ), dando luogo nella pronuncia a una consonante intensa non segnalata dalla grafia. La grafia registra l’assimilazione regressiva soltanto quando si è avuta l’univerbazione. Il raddoppiamento è prodotto da: -Tutti i monosillabi con accento grafico (è, già, giù, dà, dì, sé, ciò, più, ecc.: dì pure [dip’pure], più su [pjus’su]) e le seguenti forme disaccentate: a, che, chi, da, do, e, fa, fra (preposizione e nome), fu, gru, ho, ha, ma, o (congiunzione), qua, qui, sa, se (congiunzione), so, sta, sto, su, tra, tre, tu, va, blu, te (forma tonica): da noi [dan’noi], sta bene [stab’bɛne], qua sopra [kwas’sopra]; i nomi delle lettere dell’alfabeto (bi, ci, di...) e le note musicali (mi, la...). -Un qualunque polissilabo ossitono (cioè tronco): sanità, caffè, perché, finì, portò, virtù, andò, però, farò: andò via [an’dɔv’via], perché mai [per’kem’mai], caffè nero [caf’fɛn’nero]. -Alcune parole piane (come, dove, qualche, sopra, ogni). -Qualsiasi mosillabo usato come sostantivo: «il di non raddoppia» [di n’non], «lo si usa nei seguenti casi...» [lo s’si]. Inoltre, dopo una parola terminante per vocale si pronuncia intensa la consonante iniziale di Dio; lo stesso avviene per Maria in Ave Maria e per Santo in Spirito Santo: [a’mor di d’dio], [’ave m’maria], [’spirito s’santo]. Il raddoppiamento fonosintattico, presente nell’italiano standard, è fenomeno proprio del toscano e dell’italiano centromeridionale; nei dialetti del Nord le consonanti hanno tutte grado tenue e mentre all’interno di parola il parlante settentrionale apprende dall’italiano scritto a pronunciare [’mamma] e [’tutto] in luogo dei nativi [’mama] e [’tuto], all’interno di frase, senza il soccorso della grafia, egli tende a mantenere la pronuncia spontanea con la consonante tenue (e lo stesso avviene nell’articolare le consonanti palatali). Tra la pronuncia toscana e quella centromeridionale vi sono alcune differenze: per esempio, da provoca rafforzamento nella varietà toscana ma non in quella centromeridionale, mentre il contrario accade per ogni, che rafforza al CentroSud, non in Toscana. C’è un caso in cui il raddoppiamento fonosintattico trova espressione grafica: quando le due parole si scrivono unite (univerbazione). Quindi: così detto ma cosiddetto, e come! ma eccome!, se no ma sennò, da capo ma daccapo, Ave Maria ma Avemmaria, davvero, chissà, sopracciglio, soprattutto. Dunque, la ragione per cui si scrive soprattutto ma innanzitutto consiste proprio nel rafforzamento fonosintattico. L’elisione L’elisione è la perdita – fonetica e grafica – della vocale finale atona di una parola davanti a parola iniziante per vocale. Nella scrittura va obbligatoriamente indicata con l’apostrofo: una ora → un’ora, di essere → d’essere, senza altro → senz’altro. Parlando, pratichiamo correntemente molte riduzioni di vocali atone finali che sarebbero bizzarre – o addirittura impossibili – nella pagina scritta. Ad esempio, degli amici può scriversi soltanto così ma può essere pronunciato [’deʎʎi a’miʧi] o [deʎʎ-a’miʧi]; potranno entrare può diventare [po’trann-en’trare], ecc. In altri casi non si ha la soppressione della vocale ma piuttosto la sua fusione con la vocale iniziale della parola successiva; è il fenomeno della sinalefe, ben noto in poesia. L’elisione grafica è obbligatoria con gli articoli singolari (lo, la, una) e con le relative preposizioni articolate (l’oro, nell’età, un’amica; poco comune al plurale e per il maschile solo davanti a i: gl’Italiani, l’erbe); con gli aggettivi bello e quello (un bell’uomo, quell’albero) e con santo, santa (sant’Antonio, sant’Anna) . L’elisione è possibile ma non obbligatoria con gli aggettivi questo, questa, quella e bella (quest’asino o questo intervento, quell’epoca o quella epoca, bell’idea o bella idea). Si ha elisione solo in particolari contesti: con l’avverbio o congiunzione come e l’avverbio di luogo ci davanti al verbo essere (com’è andata?, com’era cambiato, c’è, c’erano ma ci abitano, ci arrivano, come avevo detto, come immaginerai ecc.); in una serie di espressioni idiomatiche: a quattr’occhi, l’altr’anno, tutt’altro, senz’altro e nient’altro, mezz’ora, ecc. L’elisione è presente anche nei monosillabi, in particolare in di (specialmente davanti a parola cominciante per i: d’invitare, d’improvviso; elisione obbligatoria in d’accordo, d’epoca [«un quadro d’epoca»], d’oro [un braccialetto d’oro»]; facoltativa davanti a un verbo: d’essere o di essere, d’udire o di udire). Con altri monosillabi l’elisione è più probabile quando la vocale iniziale della parola seguente è la stessa ed è atona (ti importa → t’importa, si impunta → s’impunta; invece, più spesso: ti ascolta, si isola, mi irriti) o quando segua un altro monosillabo uscente con la stessa vocale (ce la ha ... = ce l’ha ...; lo ho ... = l’ho; ma le è piaciuto ... = non *l’è piaciuto). L’elisione è prevalente, ma non obbligatoria con i pronomi atoni lo, la, mi, ti, si, vi, ne: l’incontrai o lo incontrai, l’ospitò o la ospitò, m’avvisò o mi avvisò ecc. Da non si elide mai: da amare, da eroi, da Ancona (d’amare, d’eroi, d’Ancona = di amare ...), tranne che nelle formule cristallizzate d’ora in poi, d’ora in avanti, d’altronde, d’altra parte. L’elisione non si produce mai: -davanti a i semiconsonantica: lo iato, lo iodio, di ieri, quello iettatore (è possibile invece davanti a u semiconsonantica: l’uomo, l’uovo); -con i pronomi atoni le, li in funzione di complemento oggetto (le ammiravo, le osservavo, li avvertii, li incontrai) e con il pronome atono le in funzione di complemento di termine (le affiancherò un tutore, le annuncerò la novità); -con il pronome personale atono ci (noi, a noi) seguito da vocale diversa da i: ci osserva, ci ama. ! Poiché l’elisione è un fenomeno che riguarda le vocali atone, essa non interessa i monosillabi tonici (con accento grafico o senza): tre amici, là in fondo, qui in basso, un blu intenso ecc., né le parole terminanti in vocale accentata: andò al cinema, prestò attenzione ecc. L’apocope L’apocope (o troncamento) consiste nella caduta della parte finale di una parola (vocale o sillaba) anche davanti a consonante. Si possono avere pertanto due tipi di troncamento: -troncamento vocalico: professore → professor ; nessuno → nessun; -troncamento sillabico: grande → gran; quello → quel. A differenza dell’elisione, il troncamento si può avere anche quando la parola seguente comincia per consonante (purché non s preconsonantica, z, gn, ps, x) :un buon anno, ma anche un buon vino; un buon padre, ma un buono zio; un bel posto, ma un bello scarponcino. Nel troncamento vocalico la consonante che precede la vocale atona troncata deve essere l, m, n, o r: una tal persona, ben detto, non possiam venir, far soldi; non si ha troncamento al plurale e al femminile: *i buon parroci, *alcun cosa; la a si tronca solo nella parola suora seguita da nome proprio: suor Paola. Gli aggettivi e gli avverbi si troncano solo quando precedono il nome o il verbo: ben fatto, ma non *fatto ben; un bel vestito, ma non *un vestito bel. Il troncamento vocalico è obbligatorio: -con le parole buono, bene: un buon vino, ben arrivato, buon giorno, ben fatto; -con l’articolo uno, e con gli aggettivi indefiniti alcuno, nessuno, ciascuno, che si regolano in proposito come uno : un marinaio, alcun problema, ma alcuno straniero, nessun incidente, ciascun partecipante; -con signore, professore, dottore, ingegnere, cavaliere, suora seguiti da un nome proprio: il signor Rossi, il dottor Fanti, l’ingegner Pascucci, suor Giacinta. Il troncamento vocalico è possibile: -con le parole tale e quale: un tal Mario ti ha cercato; qual è il mio posto? -con gli infiniti verbali: andar via, prestar fede, cantar vittoria, ecc. Il troncamento è obbligatorio negli infiniti seguiti da un pronome atono (amare + lo → amarlo; fare + ci → farci); -in alcune espressioni cristallizzate: amor proprio, amor sacro, amor profano, in particolar modo, in fin di vita, in fin dei conti, mal di testa, mal di schiena ecc. Il troncamento sillabico interessa le parole bello, santo, quello (là dove si userebbero il e un), grande, frate (seguito da nome proprio), poco: un bel libro, ma che bello studio!, san Giorgio, ma santo Spirito; quel quadro, un gran giorno, fra Cristoforo, un po’ di gente. Il troncamento sillabico non si verifica mai davanti a parola cominciante per vocale. Di regola il troncamento non va mai segnalato con l’apostrofo, tuttavia l’apostrofo è obbligatorio: -nelle forme po’ (poco): un po’ di soldi -con la 2a persona singolare del presente imperativo dei verbi andare, dare, dire, fare, stare: va’ per vai, da’ per dai, di’ per dici, fa’ per fai, sta’ per stai. Un accorgimento per distinguere l’elisione dal troncamento, e quindi per sapere se è necessario l’apostrofo, consiste nel vedere se la parola può o meno essere elisa anche davanti a consonante: sull’uscio perché sull’ non può ricorrere davanti a consonante; un uomo perché un si usa davanti a consonante (un cane); qual è perché si può dire qual vita, qual buon vento. La sillaba La nozione di sillaba, per quanto intuitivamente posseduta dai parlanti (siamo tutti in grado di pronunciare una parola sillabandola), è di difficile definizione. In termini generali, possiamo qualificare la sillaba come un fonema o un insieme di fonemi (tra i quali deve necessariamente esservene uno vocalico) che costituiscono un gruppo stabile e ricorrente nella catena parlata e che vengono pronunciati con un’unica emissione di voce. Dal punto di vista acustico si nota che, in una sequenza di suoni, alcuni sono più sonori, e che ciascun culmine di sonorità corrisponde a un centro di sillaba, rappresentato, per l’italiano, da una vocale. Ma in altre lingue il centro sillabico può essere rappresentato anche da una sonante (suoni simili alle vocali): ciò accade nel serbocroato trg ‘mercato’. La sillaba si costruisce attorno a un nucleo, tipicamente occupato da una vocale. Alla sua sinistra si ha l’attacco , a destra la coda, entrambi occupati da elementi consonantici. Per es., nella sillaba lin si ha /l/ in attacco, /i/ nel nucleo, /n/ in coda. Una sillaba può essere libera o implicata. Le sillabe libere o aperte sono quelle che terminano con una vocale; possono essere costituite da una sola V (a-ra), da CV (a-ra), da CCV (gra-no), da CCCV (stra-no); in tutte le posizioni le vocali possono essere sostituite da dittonghi ascendenti o discendenti (ie-ri, Mau-ro, Friu-li, di-spnoi-co). Le sillabe implicate o chiuse sono quelle che terminano con una consonante; possono essere costituite da VC (al-to), CVC (sal-to), CCVC (stal-la), CCCVC (spran-ga), CVCC o CCVCC (perlopiù in parole dotte d’origine non latina: feldspato, e-clamp-sia); anche qui, in luogo della vocale, può comparire un dittongo. A seconda del numero di sillabe che costituiscono una parola distinguiamo monosillabi (una sola sillaba) e i polisillabi (di due o più sillabe), ulteriormente suddivisibili in bisillabi, trisillabi, quadrisillabi. Divisione sillabica Talvolta c’è un contrasto tra sillabazione grafica e sillabazione fonetica: la prima sillaba di resto e paglia è chiusa perché termina in consonante [ˈrɛs-to], [ˈpaʎ-ʎa], anche se la sillabazione scritta è re-sto e pa-glia. Un punto su cui l’ortografia tradizionale insiste molto è la corretta spezzatura delle parole andando a capo. Ecco le regole per la corretta sillabazione: 1. Una vocale iniziale seguita da consonante costituisce da sola una sillaba: amo-re. 2. Una consonante semplice fa sillaba con la vocale seguente: ma-re, ca-sa. Anche x, che foneticamente corrisponde a due consonanti [ks], conta come una consonante semplice: a-xio-lo-gia. 3. Le consonanti doppie si dividono tra due sillabe (compreso cq): sot-to, val-le, ac-qua. 4. Gruppi di consonanti diverse fanno sillaba con la vocale seguente se possono trovarsi all’inizio di parola, come i nessi di b, c, d, f, g, p, t, v + l o r: ru-blo, recla-mo, sa-cro, ri-fles-so, ca-pra, ma-gro (esistono infatti blasfemo, clericale, creativo, prato, grosso). 5. Non si divide il gruppo di s seguita da un’altra consonante (o da più consonanti): na-sco, pa-sta, ca-schi, e-sclu-do, mo-stro. 6. Gruppi di consonanti diverse sono divisi tra le due sillabe se non possono trovarsi all’inizio di parola, come bd, cm, cn, lm, rt, ecc: sal-do, cal-ma, tor-ta. 7. I dittonghi e i trittonghi sono indivisibili (cuo-re, lie-ve, fiu-me, zai-no, suoi, a-iuo-la), mentre possono essere divise due vocali in iato (pa-u-ra, be-a-to); per semplificare, è opportuno non andare mai a capo con una vocale. 8. Digrammi e trigrammi non si dividono e fanno sillaba con la vocale che segue: a-glio, fi-gli, spu-gna, ba-cio, fa-scia-to, a-ghi. 9. Nei gruppi di tre o più consonanti la divisione avviene in genere tra la prima e la seconda: sem-pre, al-tro, sol-sti-zio; nel caso che l’incontro tra la seconda e la terza (ed eventualmente la quarta) consonante dia luogo a un nesso non tollerato, la spezzatura avviene tra seconda e terza consonante: lamb-da-cismo, tung-ste-no, splanc-no-lo-gia. L’accento Col termine di accento dinamico si indica il rilievo assunto nella catena parlata da una sillaba rispetto alle altre, attraverso un generale accrescimento della forza espiratoria (o intensità). Non in tutte le lingue l’accento è dinamico: in latino, per esempio, era di tipo musicale, fondato su una variazione di altezza della voce (quando aumenta le vibrazioni delle corde vocali aumenta anche l’altezza, cioè il suono si fa più acuto; quando diminuisce le vibrazioni delle corde vocali l’altezza si riduce, e il suono si fa più grave). L’accento in italiano, come nella maggior parte delle lingue (ma in alcune lingue è fisso, per esempio sulla prima sillaba in ceco, slovacco, ungherese; sulla penultima, in polacco; sull’ultima, in francese) è libero o mobile, e questo determina il suo carattere distintivo e quindi la presenza di coppie m inime, cioè parole che si differenziano solo in base alla posizione dell’accento [gli omografi sono parole che hanno la stessa grafia, ma differiscono nella pronuncia: viòla (sostantivo) / vìola (3a persona singolare dell’indicativo presente del verbo violare)]. Le sillabe accentate si chiamano toniche, quelle non accentate atone ma si distingue tra protonica, quella che precede la tonica, e postonica, quella che la segue. Ma, oltre all’accento primario che distingue le toniche dalle atone, può esistere, nelle parole più lunghe e soprattutto in quelle composte, un accento secondario (è una ‘via di mezzo’: le sillabe colpite da esso sono pronunciate più intensamente delle sillabe atone, ma meno intensamente di quelle toniche): per esempio, asciugamàno (accento primario su -ma-, secondario su -sciu-). La maggior parte delle parole italiane sono accentate sulla penultima sillaba, e si definiscono piane o parossitone (casa, canto, cavalleria, volere). Se l’accento cade sull’ultima sillaba, la parola è tronca o ossitona (virtù, andò); se cade sulla terzultima la parola è sdrucciola o proparossitona (ténebra, mòbile); rare sono le parole bisdrucciole (càpitano, scìvolano) e ancora più rare sono le trisdrucciole, che hanno l’accento sulla quintultima sillaba (forme verbali composte con pronomi atoni (vìncolameli, rècitamelo). Le parole prive di accento proprio sono chiamate clitiche: enclitiche se si appoggiano alla parola precedente, unendosi anche graficamente ad essa (dirvi, dimmelo), proclitiche se si appoggiano alla parola che segue, restandone graficamente separate (lo chiamo, ti dirò). In italiano sono enclitici i pronomi atoni mi, ti, si, ci, vi, lo, la, ne ecc. e gli avverbi ci,vi. Tali elementi si possono unire all’avverbio ecco (eccolo, eccomi) e ad alcune forme verbali: l’imperativo (parlagli), l’infinito (parlarle), il gerundio (parlandone), il participio passato (superatolo); in italiano antico l’uso di enclitici dopo il verbo era molto più esteso. Dopo una parola tronca e dopo la prima persona dell’imperativo dei verbi andare, fare, dare, stare, la consonante iniziale dell’enclitica si rafforza: dimmi, fammi, facci. Si possono avere anche accoppiamenti di pronomi: daglielo, diccelo. Sono proclitici articoli, preposizioni, alcuni pronomi e avverbi; anche in tal caso si possono avere accoppiamenti di pronomi (me lo disse, ce lo mandò). Si deve distinguere tra l’accento tonico e l’accento grafico. L’ortografia italiana prevede l’obbligo di segnare l’accento in un numero limitato di casi: -Sulle parole tronche e monosillabi bivocalici: virtù, generosità, già, giù, può, ciò, più. -Sui monosillabi che rischierebbero di confondersi con omografi: ché = perché; che, in tutti gli altri usi dà, indicativo di dare; da, preposizione è, verbo; e, congiunzione là, avverbio; la, articolo lì, avverbio; li, pronome né, congiunzione; ne, pronome o avverbio sé, pronome tonico (pieno di sé); se, pronome atono (se ne vanta) o congiunzione (se ti va, ci andremo) sì, avverbio; si, pronome tè, bevanda; te, pronome -All’interno di parola, generalmente l’accento non è segnato, ma può esserlo per evitare ambiguità, quando la parola possieda un omografo e possa esservi, in quel contesto, incertezza tra le due parole identiche tranne che per l’accento, che cade su sillabe diverse: per esempio prìncipi/princìpi, sùbito/subìto, dànno verbo/danno sostantivo. Quanto all’uso dei diversi accenti grafici, l’accento grave (‘) viene di preferenza messo sulle vocali in cui non si può distinguere tra diversi gradi di apertura (à, ì, ù ) e quello acuto (ʼ) o grave a seconda che si vogliano indicare /e/, /o/ oppure /ɛ/, /ɔ/: é, è, ó, ò. Un altro sistema accentuativo oggi in uso prevede l’accento acuto per tutte le vocali chiuse (í, é, ú, ó ) e il grave per tutte le aperte (à, è, ò). L’accento circonflesso (ˆ) è oggi in disuso, raramente impiegato sui plurali dei nomi e aggettivi in -io (principio/principî, vario/varî ). Gran parte dei dubbi di accentazione dell’italiano riguardano parole dotte d’origine greca, ma trasmesse a noi attraverso il latino classico, o più spesso medievale e moderno. L’accento greco seguiva regole diverse da quello latino, saldamente governato dalla “legge della penultima”. Per un certo numero di grecismi l’accento coincide nelle due lingue classiche e in genere non ci sono oscillazioni nemmeno in italiano: Afrodìte (lat. APHRODĪTE, gr. Aphrodítē ), Agamènnone (lat. AGAMEMNŎNEM, gr. Agamémnona: entrambi accusativi), ecc. Altre volte l’accento greco (mímesis, sáppheiros, Oidípus) contrasta con quello latino (MIMĒSIS, SAPPHĪRUS, OEDĬPUS ). In linea di massima, è preferibile seguire l’accentazione latina. Tuttavia esistono usi consolidati che sarebbe assurdo pretendere di modificare. Come nessuno parlerebbe di complesso di Èdipo, alla latina, così appare senza concorrenti la pronuncia alla greca di accadèmia (contro il lat. ACADEMĪA). La pronuncia alla greca è sostanzialmente stabile: -nelle parole terminanti in –ìa (generalmente proparossitone in latino: PHILOSOPHĬA / gr. philosophía; tranne qualche caso, come il citato ACADEMĪA): liturgìa, parodìa, alopecìa, alchimìa, ecc. -nei nomi proprio in -eo (che in latino erano accentati sulla penultima): Morfèo, Odissèo, Timèo; ma per alcuni nomi è ugualmente diffusa l’accentazione latina: Epimèteo, Promèteo, Tìdeo e pochi altri. Con altre due terminazioni (-ema e -osi: voci del lessico medico) è preferibile, là dove l’uso non sia consolidato, uniformarsi all’accentazione latina, piana: edèma, flogòsi, anastomòsi, scleròsi e arterioscleròsi. Vi sono casi di arbitraria anticipazione della sillaba tonica, spiegabili (ma non giustificabili) con la baritonesi, cioè la tendenza a far risalire l’accento verso l’inizio della parola in voci non popolari o non usuali: alcàlino (pronuncia errata); alcalìno (pronuncia corretta) Bènaco (pron. errata); Benàco (pron. corretta) nome latino del lago di Garda Bèngasi (pron. errata); Bengàsi (pron. corretta) città libica codàrdia (pron.errata); codardìa (pron. corretta) cosmopòlita; cosmopolìta èdile; edìle Frìuli; Friùli persuàdere; persuadére rùbrica; rubrìca sàlubre; salùbre Particolare il caso di utènsile/utensìle: la pronuncia sdrucciola, che può appoggiarsi al latino UTENSĬLIS, prevale in macchina utènsile; ma nell’uso sostantivato (gli utensìli del falegname), ricalcato sul neutro latino UTENSILĬA, è preferibile la pronuncia piana. Tratti Fono, fonemi, morfemi, sintagmi, parole, sono i segmenti che, disposti in soprasegmentali successione secondo determinate regole, costituiscono un enunciato. La realizzazione concreta dell’enunciato, tuttavia, non è mai esclusivamente segmentale: è sempre accompagnata da tratti che si dicono soprasegmentali, perché in un certo senso si ‘sovrappongono’ ai singoli segmenti. In altre parole, è detto soprasegmentale quell’elemento linguistico che è in rapporto con gli altri elementi della frase parlata non secondo la successione lineare, ma in simultaneità con uno o più di essi. I principali sono: l’accento, che riguarda la parola, e l’intonazione, che riguarda l’enunciato. L’intonazione L’intonazione riguarda le modalità di pronuncia di insiemi di parole, detti gruppi tonali: possiamo definire gruppo tonale un segmento di discorso orale tra due pause, caratterizzato da un particolare andamento melodico ( variazione nel tempo della frequenza fondamentale della voce). Gli elementi che contraddistinguono un gruppo tonale sono il tono, cioè la frequenza delle vibrazioni delle corde vocali, la distribuzione e l’intensità degli accenti. L’andamento intonativo di un enunciato, percepibile soprattutto nella sua parte finale, viene chiamato tonìa. Sono state individuate fondamentalmente tre diverse tonìe: -la tonìa conclusiva, ad andamento discendente: ‘esprime certezza’; usato per frasi dichiarative e interrogative parziali. -la tonìa interrogativa, ad andamento ascendente: ‘esprime incertezza’; usato per interrogative totali. -la tonìa sospensiva. alle quali si aggiungono altri diversi andamenti intonativi di tipo particolare. L’intonazione viene rappresentata dal sistema grafico solo parzialmente, con segni come il punto interrogativo o i puntini di sospensione. L’intonazione degli enunciati degli italiani è fortemente condizionata dalla variazione regionale o diatopica: è infatti molto evidente come gli italiani delle diverse regioni e aree diversifichino il profilo intonativo del loro parlato, estendendo all’italiano della varietà regionale l’andamento tipico del dialetto di quell’area. La morfologia La morfologia ha come principale oggetto di studio la struttura delle parole: vale a dire analizza i modi in cui gli elementi minimi dotati di un significato (i Morfema: la parola |topo| morfemi) si combinano tra loro per formare le parole di una lingua. sarebbe divisibile in due subcomponenti: |top-|, che convoglierebbe il suo significato fondamentale, e |-o|, che fornirebbe informazioni di tipo grammaticale (genere e numero). Il fatto di veicolare un significato rende i morfemi diversi dai fonemi, che sono privi di significato proprio e hanno carattere meramente distintivo. I morfemi si possono distinguere in almeno due classi a seconda dei loro connotati funzionali: i morfemi grammaticali, la cui funzione è quella di fornire indicazioni sulla natura grammaticale di un elemento linguistico; e i morfemi lessicali (o, talvolta, lessemi), che si qualificano in quanto elementi minimi costitutivi del lessico e hanno la funzione di veicolare le informazioni relative al significato di un elemento linguistico. I morfemi grammaticali sono divisi ulteriormente in morfemi derivativi, che costruiscono parole nuove da parole già esistenti, e morfemi flessionali, che danno luogo ad una forma della parola, ma non cambiano la parola stessa. Nella morfologia si distinguono due settori principali. -La morfologia flessionale si occupa di studiare e descrivere la flessione¹ dei nomi, degli aggettivi e dei verbi, i quali si modificano mediante morfemi flessionali, detti anche desinenze. Per esempio, cugino è diverso da cugini per la differenza della vocale finale, la quale da sola è capace di distinguere il singolare dal plurale: |cugin-|→ rappresenta il significato di base (morfema lessicale) |-o|, |-i|→ rappresentano la differenza singolare/plurale (morfema flessionale) I morfemi flessionali realizzano un valore (singolare, plurale, maschile, femminile...) di una determinata categoria grammaticale (tempo, modo, numero, genere...), o marcano il ruolo che la parola ha nella frase (caso, fenomeni di accordo...). I morfemi flessionali creano forme diverse della stessa entità lessicale (cugino, cugini, cugina, cugine ). ¹L’insieme dei mutamenti morfologici che subiscono le parole variabili per esprimere le diverse funzioni grammaticali: f. nominale, declinazione dei sostantivi e degli aggettivi; f. pronominale, declinazione dei pronomi; f. verbale, coniugazione dei verbi. -La morfologia derivativa riguarda la formazione delle parole: da basi lessicali si formano nuove parole mediante l’aggiunta di morfemi derivativi o affissi. Per esempio, lavorazione e lavoratore hanno in comune il significato di base |lavor-|, a cui può essere aggiunto il suffisso nominalizzatore con valore di “nome indicante un’azione” |-zion-| oppure il suffisso nominalizzatore con valore di “nome indicante l’agente del V + genere” |-tor|. I morfemi derivativi sono usati per formare parole nuove, per esempio cambiando la classe di parola della base da cui derivano ( come nel verbo computerizzare derivato dal nome computer) e/o aggiungendo un significato nuovo alla parola, con una modificazione del significato originario che può essere anche piuttosto concreta e profonda (come in futurismo da futuro) Gli elementi che si aggiungono a destra della base sono i suffissi (casetta, suffisso diminutivo nominale e aggettivale). Gli elementi che vengono attaccati a sinistra delle parole sono i prefissi (coerenza → incoerenza, prefisso di negazione). Si possono formare parole nuove attraverso la composizione, cioè il processo di aggiunzione di parole per formare un’entità unica, i cui membri sono I morfemi lessicali sono una lista aperta, a cui si possono aggiungere nuovi elementi, mentre i morfemi grammaticali sono una lista non completamente chiusa, ma a cui vengono aggiunti elementi molto raramente e in tempi lunghi. -I morfemi liberi possono comparire come parole isolate: sono morfemi che veicolano al tempo stesso informazioni lessicali e grammaticali (bar, ieri, ora). -i morfemi legati non possono mai comparire in isolamento, ma solo in combinazione con altri morfemi: lessicali (libr-, bell-, trov-, radici legate), grammaticali (-o, -issim-, in-, -abil-, -e). -Con parole (o vocaboli) s’intendono le parole quali appaiono nelle frasi: per esempio, ragazze, allegre, camminano, nelle, strade; -con il termine lessema s’intende invece l’unità di base (e astratta) del lessico: ragazza, allegro, camminare, in, strada. Dal punto di vista del lessicografo, il lessema si identifica col lemma, vale a dire la voce di cui tratta ogni singolo articolo di un dizionario; -con termine s’intende una parola che è propria di una determinata disciplina. perfettamente riconoscibili e veicolano il loro significato lessicale normale. Il nuovo vocabolo prende il nome di composto (o parola composta). Per esempio, capostazione, altopiano, portafinestra, pastasciutta, portacenere. La morfologia svolge due importanti funzioni: -la funzione economica. La modificabilità morfologica di una parola è un ritrovato semplice ma geniale che permette di usare gli stessi elementi di partenza in un elevatissimo numero di combinazioni. Da questo punto di vista i processi morfologici permettono alla lingua si espandersi in modo illimitato. -la capacità di garantire la coesione fra i componenti di una frase perché ci consente di indicare e di riconoscere le relazioni che esistono fra essi. Questo si può osservare nei fenomeni di accordo. Se dovessimo inventare un nuovo lessema, questo assumerà una configurazione morfologica e una relazione con gli altri elementi della frase secondo modalità che sono già disponibili nella lingua italiana. Analisi in unità minori Per descrivere le diverse forme di una parola si può ricorrere a un tipo di analisi, basato sulla scomposizione delle parole in unità minori, cioè in sequenze di suoni associate a funzioni e significati. Si riconosce nelle parole una parte comune: la radice, che porta un significato di tipo lessicale. La radice è un morfema legato lessicale (ad esempio amic-). Alla radice si aggiungono parti dette affissi, che ne modificano o precisano il significato e la funzione nella frase. Alla fine delle parole variabili si trova un suffisso obbligatorio, detto desinenza, che porta significati più strettamente grammaticali. Gli affissi e la desinenza sono morfemi legati grammaticali. La vocale tematica permette di attribuire una parola al suo paradigma, al suo modello di flessione: per i verbi, la vocale -a- attribuisce il verbo alla I classe flessiva, la vocale -e- alla II classe flessiva e la vocale -i- alla III. In base alla vocale tematica siamo di solito in grado di prevedere, a meno di eccezioni, quali desinenze occorreranno insieme a un tema. Il tema è l'unione della radice e della vocale tematica. La linguistica strutturale ha formalizzato la tecnica di scomposizione della parola introducendo la nozione di morfema, inteso come unità minima di significante e significato. L’individuazione dei morfemi avviene sulla base del confronto tra parole diverse: sequenze stabili di suoni associate a un significato stabile sono riconosciute come morfemi. riorganizzeremo rimorfema derivativo (prefisso di iterazione) organ morfema lessicale (radice) -izz- morfema derivativo (suffisso verbalizzatore) -er- morfema flessionale (desinenza futuro) -emo morfema flessionale (desinenza 1ª persona plurale) I morfemi flessionali, cioè morfemi propri dei meccanismi di flessione, occorrono in maniera sistematica, sono di significato più regolare e non possono essere utilizzati creativamente. I morfemi derivativi, cioè morfemi propri dei meccanismi di derivazione, sono di utilizzo e significato meno prevedibile e regolare, utilizzabili in maniera relativamente creativa e potenzialmente produttivi. Distinzione tra morfo e morfema Per morfo si intende la sequenza fonica o grafica di una parola e per morfema il significato concettuale veicolato dai morfi. Per esempio, mamma è costituita da due morfi esprimenti tre morfemi: mamm- → idea di genitore -a → singolare | femminile indiscutibile è costituito da quattro morfi che esprimono altrettanti morfemi: in- → morfema che conferisce un valore negativo all’intera parola; -discut- → morfema che reca il significato lessicale “parlare animatamente”; -ibil- → morfema che conferisce alla parola una sfumatura di aggettivo potenziale; -e → morfema che definisce il significato grammaticale di singolare. ha è costituita da un solo morfo che però esprime ben cinque morfemi (idea di avere, tempo, modo, diatesi e numero del verbo): L’allomorfia È la potenzialità di esprimere un solo morfema mediante l’uso di morfi diversi chiamati allomorfi. Si definiscono allomorfi due o più morfi che, pur differenziandosi in parte dal punto di vista fonologico, esprimono gli stessi morfemi. Il morfema lessicale col significato di “spostarsi avvicinandosi verso un luogo determinato”, quello cioè che troviamo nel verbo venire, appare in italiano nelle cinque forme ven- (come in venire), venn- (in venni), veng- (in vengo), vien- (in vieni), ver- (in verrò) ognuna delle quali costituisce un allomorfo dello stesso morfema ven-. Accanto allo studio delle forme, oggetto primario della morfologia, i grammatici e i linguisti individuano un settore, quello della morfosintassi, che si occupa delle relazioni tra la forma e la funzione, tra la forma e il suo uso in unione con altre parole.