Thesis Individuo e mondo nel pensiero dell'antico Egitto: percorsi antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale "pre-greca" FRASCHINI, Luigi Abstract Les objectifs de la thèse sont essentiellement deux : a) en premier lieu, celui d'effectuer une relecture historique-philosophique de la conception égyptienne de l'être humain, en essayant de faire ressortir le rôle joué par la sphère corporelle ; b) en deuxième lieu, celui de s'interroger sur la structure et les implications du système de pensée qui se trouve à l'origine de cette conception, en cherchant à trouver des parcours conceptuels qui nous permettent de mieux en saisir, autant que possible, le «statut épistémologique». La conception égyptienne de l'être humain n'est pas fondée sur le binôme âme-corps, apparu en Grèce vers le V siècle a. J. Ch. Dans l'Égypte pharaonique, l'homme est conçu comme un ensemble ou une constellation de composantes en relation entre eux. La résultante de cet ensemble de rapports est l'individualité humaine. Le monde présente la même structure. Tant l'homme que le monde, d'après les Égyptiens, sont un réseau de relations qui se réorganise selon la situation concrète ou le problème donné. En abordant ces thématiques, la thèse propose des nouvelles [...] Reference FRASCHINI, Luigi. Individuo e mondo nel pensiero dell'antico Egitto: percorsi antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale "pre-greca". Thèse de doctorat : Univ. Genève, 2013, no. L. 789 URN : urn:nbn:ch:unige-312864 DOI : 10.13097/archive-ouverte/unige:31286 Available at: http://archive-ouverte.unige.ch/unige:31286 Disclaimer: layout of this document may differ from the published version. UNIVERSITÉ DE GENÈVE FACULTÉ DES LETTRES DÉPARTEMENT DE PHILOSOPHIE Thèse de doctorat Individuo e mondo nel pensiero dell’antico Egitto Percorsi antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale «pre-greca» Candidat: Luigi Fraschini N° matricule: 08-340-184 Directeur de thèse: Prof Paolo Crivelli Co-directeur de thèse: Prof Patrizia Piacentini Président du jury: Prof Pascal Engel 1 En souvenir de Curzio Chiesa 2 INDICE Introduzione 6 Capitolo I Il mondo abitato dall’uomo egiziano 12 1. Un itinerario concettuale insolito: dall’ontologia greca a quella della Valle del Nilo 12 2. In principio era il non essere 17 3. La prima volta: l’essere prende «corpo» 20 4. La struttura dell’esistente 28 5. I tre livelli della realtà secondo la speculazione del Nuovo Regno 37 6. Tra essere e non essere: il tempo 41 7. Maat, ritmo e coesione dell’esistente 46 8. Ontologie a confronto: un quadro sintetico 51 Capitolo II L’individuo come rete di relazioni 58 1. Il dualismo psicofisico e le sorti del corpo 59 2. Un modello antropologico arcaico 62 3. La costellazione Uomo nell’Egitto faraonico 68 4. La fisiologia corporea 78 5. Breve esplorazione del lessico corporeo egiziano 87 Capitolo III Osiri prototipo dell’essere umano 3 95 1. Il mito di Osiri come modello antropologico 96 2. Le forze cosmiche e la rinascita di Osiri 112 3. La riconfigurazione dell’individuo: dal cadavere alla mummia all’akh 119 Capitolo IV L’individuo tra anima e corpo 131 1. La concezione greca dell’anima (yuchv) tra il VI e il V secolo a. C. e i suoi possibili punti di convergenza con l’antropologia egiziana 131 2. Gli sviluppi della nozione di yuchv nella filosofia platonica e aristotelica 139 3. La fisiologia del sw`ma 149 Capitolo V La fisiologia degli umori 163 1. Il ruolo degli umori nella concezione greca del corpo 163 2. Una fisiologia umorale egiziana? 170 Capitolo VI Costellazione Uomo e corporeità 186 1. Una visione d’insieme della «costellazione Uomo» egiziana 186 2. Il corpo «attuale» 192 3. La «performatività» del corpo: il canone artistico 196 4. La «performatività» del corpo: il gesto musicale 208 5. «Mappa» della dimensione umana e osservazioni conclusive 212 Capitolo VII La visione del mondo: modelli egiziani e modelli greci 216 1. Un sistema di pensiero alternativo a quello greco? 216 2. Un «metodo» per conoscere tutto ciò che esiste 224 3. L’impostazione «logica» della matematica egiziana 229 4. Il riflesso ontologico-teologico del sapere matematico 235 5. Un retaggio egiziano nella matematica greca? 239 6. Dalla matematica alla dialettica platonica: alla ricerca di un modello per la scienza 7. L’«assiomatizzazione» come cesura e svolta nel pensiero occidentale 4 244 249 Capitolo VIII L’approccio egiziano al mondo tra oralità e scrittura 1. Il sistema della magia come organon conoscitivo-operativo 256 2. La performatività del linguaggio 261 3. Discorso performativo e pensiero analogico 265 4. L’esordio performativo del papiro di Ebers 275 5. Il contesto appropriato: il Verbo della «prima volta» 279 6. Oralità e scrittura: una scrittura che parla 280 7. La logica del corpo articolare tra oralità e scrittura geroglifica 288 8. Il circuito della conoscenza e il «metodo osiriano» 292 Bibliografia 5 255 297 INTRODUZIONE Le tematiche affrontate nella presente ricerca sono abbastanza inusuali a chi si occupa di filosofia. Generalmente, infatti, tutte le questioni filosofiche sono collocate in un arco temporale che ha il suo punto di partenza nel mondo greco. Può apparire, pertanto, quantomeno singolare e forse un po’ provocatorio porre la domanda circa l’esistenza e le caratteristiche di una «speculazione filosofica» nelle culture precedenti a quella greca, culture che, apparentemente, manifestano al più una componente mitica e religiosa. Nell’ambito della cultura greca è sorto, infatti, l’approccio alla realtà e all’uomo che ha determinato la nascita e lo sviluppo della civiltà occidentale. Generalmente, il modo di pensare che ha prodotto le grandi speculazioni filosofiche e scientifiche dell’Occidente viene considerato come l’unico possibile, l’unico, cioè, in grado di generare la «vera» conoscenza. Non molto distante dalla Grecia, nella Valle del Nilo, è sorta una cultura differente, di durata plurimillenaria, i cui splendori hanno da sempre affascinato l’uomo occidentale. Della vastissima documentazione che gli antichi Egiziani ci hanno tramandato, tuttavia, non un solo testo può essere definito «filosofico» in senso stretto, secondo i parametri della nostra impostazione culturale di matrice greca. In proposito, Sergio Donadoni osserva: «Non ci sarebbe […] nessuna difficoltà, in astratto, a immaginare che domani una scoperta di papiri potesse portarci sotto gli occhi un testo propriamente filosofico o speculativo in aggiunta ai testi di altro carattere che l’Egitto ci ha dato. Eppure, anche in questa fiducia nelle sorprese che è uno dei tratti più appariscenti della nostra psicologia di egittologi, una sorpresa così io non me la saprei aspettare. Non si tratterebbe di un testo in più; ma tutto un modo di essere diverso da quel che è la nostra esperienza della civiltà egiziana si manifesterebbe in questo modo».1 Ciò non significa, chiaramente, che per l’Egiziano non fosse rilevante porsi la domanda circa l’origine e la natura del cosmo e dell’uomo che lo abita. Una moltitudine di testimonianze afferma il contrario. Il pensiero egiziano appare, tuttavia, sfuggente a chi si accosta ad esso e solo parzialmente e approssimativamente 1 S. Donadoni, I modi egiziani del conoscere, in Id., Cultura dell’antico Egitto, Università degli studi di Roma "La Sapienza", Roma 1986, p. 138. 6 si presta a una sistematizzazione. Si è, quindi, spesso giudicato questo modo di pensare «illogico» o, utilizzando un eufemismo, «prelogico». In un saggio apparso nell’immediato dopoguerra, Karl Jaspers, nel tentativo di individuare le origini del nostro universo intellettuale, introduce il concetto di «età assiale» (Achsenzeit). Questa nozione indica uno spartiacque storico, il periodo più antico dove è ancora possibile trovare traccia dei valori e dei criteri di giudizio che caratterizzano il nostro modo di essere e di pensare: «Lì si trova la più netta linea di demarcazione della storia. Allora sorse l’uomo come oggi lo conosciamo».2 Jaspers colloca quest’epoca intorno al 500 a.C. (più o meno trecento anni). Considerato in relazione a questa soglia temporale, il pensiero egiziano nel suo complesso non appare più come un universo concettuale ancora allo stato embrionale, cioè in una fase meno avanzata rispetto al nostro, bensì come il frutto di un approccio completamente diverso, che potremmo definire «preassiale».3 Partendo da questa premessa, ci siamo rivolti al mondo egiziano con l’intento di esplorare un sistema di pensiero alternativo a quello originatosi in Grecia; un pensiero, dunque, differente rispetto a quello che ha fondato la speculazione occidentale, ma che, a nostro avviso, può rivelarsi foriero di apporti significativi anche all’attuale sviluppo della coscienza e della conoscenza umane. Le pagine che seguono si propongono sostanzialmente due obiettivi. Il primo è quello di effettuare una rilettura storico-filosofica della concezione egiziana dell’essere umano, facendo emergere, in particolare, il ruolo svolto dalla sfera corporea secondo il «pensatore» egiziano. Il secondo è quello di introdurre il problema dell’approccio alla realtà tipico della cultura egiziana e di tentare di individuare dei percorsi concettuali che consentano di inquadrarne meglio, per quanto possibile, lo «statuto epistemologico». Nella trattazione delle tematiche di cui ci occupiamo, alcuni dei concetti principali formulati dalla filosofia greca costituiscono un punto di riferimento essenziale. Questa scelta è maturata dall’esigenza di sviluppare una riflessione critica sui presupposti del nostro approccio contemporaneo a una cultura profondamente diversa dalla nostra. Quando indaghiamo un determinato fenomeno, infatti, applichiamo inevitabilmente una serie di categorie, la cui origine e le cui implicazioni 2 K. Jaspers, Origine e senso della storia, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di comunità, Milano 1972, p. 20. L’età assiale di cui parla Jaspers non è riferita unicamente al mondo occidentale, ma riguarda la storia mondiale. 7 non sempre ci sono sufficientemente chiare. Uno studio serio richiede, quindi, che questi schemi concettuali siano posti in luce. Diversamente, nel caso di un’indagine storica, il rischio è quello di appiattire e deformare un orizzonte culturale differente, attraverso modelli che gli sono sostanzialmente estranei. Sulla base di questa consapevolezza e nel tentativo di essere foriera di intuizioni e provocazioni produttive, la nostra ricerca procede servendosi, in diverse occasioni, di un «metodo contrastivo», da un lato per evidenziare meglio la peculiarità del pensiero egiziano, facendolo interagire con le categorie concettuali che hanno forgiato il nostro modo di pensare, dall’altro per fare emergere eventuali punti di contatto o cesure nette con la speculazione greca. Relativamente ai temi trattati, le nostre fonti egiziane privilegiate sono costituite dalle principali composizioni della letteratura definita «religiosa», di epoca faraonica (Testi delle Piramidi, Testi dei Sarcofagi, Libro dei Morti e i cosiddetti Testi dell’Oltretomba), e da parte della letteratura medica e matematica.4 L’arco temporale nel quale si collocano queste fonti è molto ampio. In questo lunghissimo periodo, il mondo egiziano va incontro a trasformazioni anche di vasta portata. Si pensi, per esempio, ai mutamenti sociali e culturali conseguenti alla caduta dell’Antico Regno e alla crisi del Primo Periodo Intermedio, tra i quali spicca la cosiddetta «democratizzazione» dell’aldilà, in virtù della quale ogni essere umano che viva in modo conforme alla giustizia può aspirare a una vita ultraterrena. Nei testi egiziani, tuttavia, è possibile riscontrare una continuità, un filo conduttore. Il modo di concepire l’uomo e il mondo acquisisce, nel corso della storia dell’Egitto faraonico, nuovi elementi e sfumature, ne perde altri, ma non cambia nella sostanza.5 In alcuni contesti, ci è parso opportuno richiamare alcune nozioni e alcuni dati che, di per sé, potrebbero apparire un po’ scontati ora al lettore filosofo, ora al lettore egittologo. La scelta è funzionale a una maggiore completezza e a una migliore intelligibilità del discorso, muovendoci all’interno di due territori disciplinari differenti che, generalmente, non sono in comunicazione tra loro. Il primo capitolo presenta sinteticamente i concetti fondamentali di quella che potremmo definire l’«ontologia» dell’antico Egitto, cercando di evidenziare il 3 Cfr. le osservazioni di J. Assmann in Id., Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, Verlag C. H. Beck, München 2001, pp. 24 sgg. 4 Relativamente ai Testi delle Piramidi, ai Testi dei Sarcofagi e al Libro dei Morti, la trad. dei passi che citiamo segue quella di C. Carrier. Per quanto riguarda, invece, i testi medici seguiamo la trad. di T. Bardinet (cfr. Bibliografia). Ogni modifica rilevante viene dichiarata in nota. 8 rapporto tra «essere» e «non essere» e la conseguente visione del mondo. Lo scopo di questo capitolo è soprattutto quello di tracciare una mappa generale del cosmo egiziano, che fornisca una serie di punti di riferimento, per una migliore contestualizzazione e gestione degli argomenti trattati nel prosieguo. I cinque capitoli successivi sviluppano la tematica antropologica. La concezione dell’uomo propria della civiltà egiziana non è fondata sul binomio anima-corpo. L’essere umano è concepito come una realtà più complessa, più sfaccettata, come un insieme o una costellazione di componenti in relazione tra loro. La risultante di questo insieme di relazioni è l’individualità umana. Questo modo di pensare l’uomo è presente nel mondo egiziano fin dall’Antico Regno. Nel proporre un possibile schema di lettura della concezione antropologica egiziana, introduciamo alcune categorie concettuali, in parte coniate da noi e in parte desunte da altri studiosi, che ci sembrano dotate della forza euristica adeguata a porre nel giusto risalto la peculiarità e l’originalità della concezione egiziana rispetto al modo di concepire l’uomo che ha avuto origine, successivamente, in Grecia. Chiamiamo «individuo articolare» l’essere umano nel suo complesso. Un’articolazione svolge un duplice ruolo: legare due parti e permetterne il movimento. Il sistema «uomo» mostra, infatti, due caratteristiche essenziali: la connettività e la motricità. Tra gli elementi costitutivi dell’uomo egiziano, possiamo distinguere: a) una serie di componenti sottili, non immediatamente tangibili; b) il corpo, che, come cercheremo di mettere in evidenza, non costituisce soltanto una realtà terrena. Il corpo umano manifesta due aspetti: da un lato riproduce il modello articolare, caratteristico dell’individuo nel suo complesso, dall’altro svolge la funzione di involucro. Parliamo, quindi, di «corpo articolare» e di «corpo inviluppo»; riprendiamo questi due concetti dal saggio di Guillemette Bolens, La logique du corps articulaire, dedicato allo studio della concezione del corpo nei testi omerici e nei principali poemi della letteratura europea medievale.6 Si tratta di due categorie 5 6 Cfr. P. Piacentini, Continuità e trasformazione nell’Egitto faraonico, in Ocnus, 2 (1994), pp. 139 sgg. Abbiamo scelto il termine «inviluppo», per rendere in italiano il concetto di corps-enveloppe. I due vocaboli, nonostante la somiglianza, non sono propriamente sinonimi. Ci è sembrato, tuttavia, che «inviluppo» denotasse efficacemente e in modo originale la nozione in questione, in quanto esprime l’idea di un involucro che avvolge e contiene. 9 che, a nostro avviso, si possono utilizzare produttivamente anche nell’ambito della cultura egiziana. Durante la vita terrena prevale il primo aspetto, quello articolare. Con l’avvento della morte, la rete di rapporti costitutiva dell’essere umano viene meno. Dell’individuo non resta che una sommatoria di pezzi dis-articolati. In questo contesto, anche il corpo appare come una semplice giustapposizione di membra disiecta. Esso rimane principalmente un involucro, un «corpo inviluppo» da sottoporre alle pratiche di mummificazione. In questo caso, a una «logica articolare» se ne sostituisce un’altra fondata sul rapporto interno/esterno. La mummificazione e i riti di passaggio ad essa connessi sono funzionali al ripristino della rete di relazioni che la morte ha temporaneamente interrotto. Le componenti dell’individualità, una volta riorganizzate in un nuovo sistema di rapporti, garantiscono al defunto un’esistenza post mortem. Una volta portate a compimento tutte le pratiche chirurgiche e liturgiche relative alla mummificazione e alla sepoltura, il defunto è dotato anche di un nuovo corpo, funzionale alla sua nuova vita nella dimensione ultraterrena. Si tratta chiaramente di un corpo di fattura diversa rispetto a quello terreno. L’immagine del corpo che emerge dalle fonti egiziane è, a nostro avviso, quella di un veicolo e di un supporto dell’individualità, la cui natura non è legata esclusivamente alla dimensione terrena. Che l’uomo si trovi sulla terra o nell’aldilà, egli necessita comunque di un corpo per potersi manifestare e per poter agire. Naturalmente, questo corpo dovrà essere «consustanziale» alla dimensione in cui l’individuo si trova. La natura corporea manifesta, dunque, un aspetto che potremmo definire «trascendentale», intendendo con ciò che si tratta di una condizione di possibilità dell’esistenza. Indichiamo la sfera corporea concepita in questo modo con l’espressione «corpo attuale», in quanto esso è ciò che supporta e rende operativa (pone, cioè, in atto) un’individualità. Gli ultimi due capitoli si interrogano sul «sistema logico» che sottende il modo egiziano di concepire l’umano, il divino e l’insieme delle loro manifestazioni. Sia l’uomo sia il mondo sono pensati e vissuti come una rete di relazioni che si riconfigura in base alle singole situazioni concrete. Il pensiero, nel suo procedere, riproduce il medesimo modello. I concetti egiziani non possono essere racchiusi, pertanto, in definizioni univoche. Essi, pur possedendo una propria identità, sono «dinamici», «aperti», sono come delle parole che si declinano, assumendo, di volta in 10 volta, il genere, il numero e il caso richiesti. Il percorso che seguiamo, nell’affrontare queste tematiche, passa attraverso alcuni aspetti caratteristici della matematica e del linguaggio dell’antico Egitto. Nello specifico, ci soffermiamo sulle nozioni di «proporzionalità» e «performatività». Nella stretta correlazione tra la lingua egiziana classica, la scrittura geroglifica e un ordine cosmico che si manifesta come una serie di rapporti di proporzionalità ritroviamo i principi della logica del corpo articolare. I percorsi seguiti nello sviluppo complessivo della nostra ricerca non approdano a schemi «chiusi». Abbiamo cercato, infatti, di evitare di formulare definizioni univoche dei singoli concetti del pensiero egiziano presi in considerazione (in particolare di quelli antropologici). Abbiamo provato, invece, a mettere insieme e a fare interagire tra loro una serie di elementi tratti dalle fonti via via selezionate, tentando di riprodurre, per certi versi, il procedimento indicato dal mito di Osiri. Questo mito, presente in modo frammentario nell’antico Egitto fin dalle epoche più antiche, è un punto di riferimento fondamentale per le concezioni antropologiche egiziane; il nucleo del racconto narra dello smembramento e della ricomposizione del corpo del dio. Il nostro lavoro è stato, quindi, quello di reperire e assemblare le parti necessarie a comporre e articolare una visione d’insieme sufficientemente organica dell’approccio egiziano all’uomo e al mondo, sempre consapevoli del fatto, tuttavia, che per gli Egiziani non c’è un unico modo di pensare e rappresentare la realtà. 11 CAPITOLO I IL MONDO ABITATO DALL’UOMO EGIZIANO 1. Un itinerario concettuale insolito: dall’ontologia greca a quella della Valle del Nilo La paternità dell’ontologia occidentale viene unanimemente ascritta a Parmenide di Elea. Questo filosofo, infatti, ha tematizzato per la prima volta in maniera esplicita la questione dell’essere, affermando che due sole «vie» sono aperte al pensiero: «l’una che “è” [e[stin], e che non è possibile che non sia […] l’altra che “non è” [oujk e[stin], e che è necessario che non sia».7 Il lovgo~ parmenideo, veicolato da immagini mitiche, delinea due orizzonti incommensurabili e inconciliabili, quello dell’essere e quello del non essere, tra i quali è imperativo operare una scelta categorica. La scelta dell’Eleate cade a favore dell’essere. La prima via, dunque, è quella conforme a verità e, delle due, l’unica che risulta realmente percorribile; il non essere, infatti, non può essere né pensato, né detto. L’unico oggetto della conoscenza scientifica è l’essere assolutamente immobile e indifferenziato; il mondo sensibile, invece, teatro del movimento e della molteplicità è pura apparenza e può essere, pertanto, solo oggetto di opinione. Il pensiero di Gorgia da Lentini, antitetico a quello di Parmenide, rientra nel medesimo quadro concettuale univoco, nel quale non si fa alcuna distinzione tra i diversi significati che possono appartenere a «essere» e a «non essere». Anche in questo caso è necessario assumere una posizione radicale: Gorgia si pone dalla parte del non essere. Per tentare un superamento di questo rigido dualismo Platone dovrà compiere un atto altrettanto radicale. La definizione di «sofista» come creatore di apparenze, a cui egli perviene nell’omonimo dialogo, lo costringe, infatti, ad ammettere l’esistenza del falso, ossia di un discorso che pensa e che dice ciò che non è. Sostenere una simile tesi, tuttavia, non è affatto impresa semplice: «In che modo si debba parlare per dire o opinare che il falso è realmente, e senza che questa asserzione comporti una 7 Parmenide, B2, trad. it. di G. Reale, in Id. (a cura di), I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2006. 12 contraddizione, è una cosa assolutamente difficile da mostrare».8 E la difficoltà che Platone espone attraverso le parole dello Straniero di Elea sembra apparentemente insormontabile: «Questo discorso ha l’audacia di porre come ipotesi che il non essere sia; in nessun altro modo, infatti, il falso potrebbe venire ad essere. Ma il grande Parmenide […] a noi che eravamo ragazzi ha testimoniato questo dal principio alla fine, ripetendo così ogni volta in prosa e in versi: “Non costringere mai ad essere, egli dice, ciò che non è; tu anzi da questa via di ricerca trattieni il pensiero”. Questa dunque è la sua testimonianza».9 L’unica difesa possibile della posizione assunta dallo Straniero richiede il coraggio di infrangere il divieto parmenideo e di forzare «il non essere ad essere in un certo senso e l’essere, viceversa, in qualche modo a non essere».10 Platone individua cinque sommi generi nel mondo delle Idee: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico e il diverso. Proprio l’ammissione di quest’ultimo genere gli consente di sostenere che, in qualche modo, anche il non essere è. Lo Straniero osserva, infatti: «Quando diciamo “il non essere”, a quanto sembra, non diciamo qualcosa di contrario [ejvnantivon] all’essere, ma soltanto di diverso [e{teron] dall’essere».11 La negazione, dunque, espressa in greco dalle particelle mhv e ouj, non significa contrarietà, ma indica la «diversità» degli enti di cui si parla. L’essere si presenta come molteplice e differenziato in quanto partecipa del genere del diverso. Con il «parricidio» compiuto da Platone la filosofia greca, concedendo uno statuto sia all’essere che al non essere, pone in relazione quelli che erano apparsi in precedenza come i termini di una contraddizione irriducibile. Nel solco di questo nuovo orientamento, la filosofia di Aristotele afferma la multivocità del verbo «essere»: «Tanti quanti sono i modi in cui si predica altrettanti sono i significati dell’essere».12 A una molteplicità di significati di «essere», individuata in primo luogo nelle «categorie», corrisponde una polivocità dell’espressione linguistica «non essere»: «Infatti anche il non essere si dice in molti sensi, poiché in molti sensi si dice l’essere».13 8 Platone, Sofista, 236 e, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. II, Utet, Torino 1981. 9 Ibid., 237 a-b. 10 Ibid., 241 d. 11 Ibid., 257 b. 12 Aristotele, Metafisica, V, 7, 1017 a, 23-24, trad. it. di C. A. Viano, Utet, Torino 2005. D’ora in poi faremo riferimento a questa ed. 13 Tra la posizione aristotelica e quella sostenuta nel Sofista c’è, tuttavia, una differenza rilevante, che viene messa in luce dallo stesso Aristotele: per Platone l’essere è ancora un termine unitario, capace di diventare molteplice solo mescolandosi al non essere; per Aristotele, invece, l’essere è originariamente molteplice e il non essere è subordinato ad esso, è interno alla sua molteplicità. Secondo lo Stagirita, la filosofia platonica rimarrebbe in qualche modo nel quadro dell’eleatismo. Platone, ammettendo un non essere «relativo», rende possibile, in effetti, proprio quel discorso che nega il non essere assoluto.14 Abbiamo creduto opportuno richiamare sinteticamente questi punti chiave dell’ontologia greca per inquadrare meglio l’oggetto del presente capitolo e per poter disporre di un indispensabile termine di confronto. Per collocarci nell’orizzonte che ci proponiamo di esplorare, dobbiamo compiere un salto sia temporale sia concettuale piuttosto consistente. Il «parricidio» platonico ripropone in termini differenti e in modo più sistematico una tematica con la quale si erano già misurati, molti secoli prima della nascita del pensiero greco, gli antichi Egiziani.15 Nell’antico Egitto, infatti, possiamo trovare traccia di una «ontologia» almeno a partire dalla seconda metà del terzo millennio a. C., epoca in cui furono redatti i Testi delle Piramidi.16 Fin dai primordi della «speculazione» egiziana, essere e non essere sussistono l’uno accanto all’altro e costituiscono i due poli di un rapporto mai interrotto sul quale si fonda l’esistente. Siamo distanti, quindi, dalle origini greche dell’ontologia non solo temporalmente. Su un sarcofago della XXI dinastia, il tema dell’essere e del non essere è rappresentato in modo insolito ma alquanto efficace in una pittura che raffigura una lepre, il segno grafico egiziano per un (wn), «essere», posta sul trespolo sul quale generalmente poggiano le immagini divine e completamente circondata dal serpente Uroboro (fig. 1). A proposito di questa immagine, scrive Erik Hornung: «Possiamo soltanto supporre che cosa esprima realmente questa figura: l’essere divino è circondato da ciò che non esiste, che rappresenta l’orizzonte del mondo, nel quale continuamente ringiovanisce e nel quale si annullerà alla fine dei tempi. Allo stesso 13 Ibid., XIV, 2, 1089 a, 15-16. 14 Cfr., in particolare, ibid., XIV, 2, 1088 b, 35 – 1089 a, 6. 15 C. Sini definisce il «parricidio» compiuto da Platone «l’atto fondatore dell’intera nostra cultura scientifica». Cfr. Id., Prefazione a Parmenide, I frammenti, Marcos y Marcos, Milano 1990, p. 3. 16 Questi testi costituiscono la più antica raccolta di formule religiose egiziane. Essi sono stati fatti iscrivere dai sovrani dell’Antico Regno all’interno delle loro piramidi, a partire da Unis, ultimo re della V dinastia. L’ultimo sovrano nella cui piramide sono state redatte queste formule è Ibi, appartenente all’VIII dinastia. 14 modo il corpo del serpente rappresenta il luogo in cui si compie la rigenerazione notturna di ciò che esiste; già l’Amduat riporta questa concezione nell’”anello che circonda il mondo”, espressione da cui deriverebbe proprio questa immagine più tarda».17 Fig. 1 (dal sarcofago Cairo CG 6271; disegno di A. Niwinski)18 Per il «filosofo» egiziano tutto l’esistente, comprendente la sfera del divino e quella dell’umano, è in rapporto costante con il non essere, concepito come non esistente; quest’ultimo manifesta un duplice aspetto di minaccia e di eterna rigenerazione. Nella sinteticità e nell’immediatezza di questa immagine possiamo già intravedere i capisaldi del pensiero ontologico egiziano: dualismo, complementarietà e movimento. Prima di affrontare, nelle loro linee essenziali, i temi complessi dell’ontologia e della visione del mondo formulate dalla civiltà egiziana, vorremmo, tuttavia, richiamare brevemente l’attenzione su un aspetto linguistico che ha inevitabilmente delle forti ripercussioni sulla genesi e sullo sviluppo di un discorso ontologico: l’utilizzo del verbo «essere». Nella lingua greca questo verbo può assumere un significato esistenziale, ma può anche essere usato come copula seguita da un predicato nominale.19 Parmenide e Gorgia probabilmente sovrappongono queste due funzioni del verbo «essere». 17 E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, trad. it. di A. Amenta, L’Erma di Bretschneider, Roma 2002, p. 44. Il Libro dell’Amduat menzionato dall’egittologo è il più antico dei testi dell’oltretomba del Nuovo Regno, redatti nelle tombe della Valle dei Re. I primi esemplari completi di questo libro si trovano nelle tombe di Thutmosi III e del suo visir User-Amon. 18 L’immagine è tratta da E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 44. 19 Sull’utilizzo del verbo «essere» nella filosofia greca, cfr. L. Brown, The verb “to be” in Greek philosophy: some remarks, in S. Everson (a cura di), Language, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 212 sgg. 15 Aristotele, invece, osserva che, nel suo uso copulativo, il verbo «essere» è in grado di fungere da «vicario universale» di tutti i verbi, in quanto, non avendo alcun significato proprio, veicola quello del predicato con cui viene unito. Da questa proprietà deriva la multivocità di quello che Aristotele indica come l’essere per sé: «Poiché delle cose che si predicano alcune indicano l’essenza, altre la qualità, altre la quantità, altre la relazione, altre l’azione fatta o subita, altre il luogo, altre il tempo, l’essere ha significati corrispondenti a ciascuna di queste predicazioni: infatti non c’è nessuna differenza tra dire che l’uomo è in via di guarigione e dire che l’uomo guarisce, o che l’uomo è camminante o tagliante o che l’uomo cammina o taglia, e così dicasi anche per gli altri casi».20 La lingua egiziana, al contrario, non presenta questa caratteristica tipica delle lingue indoeuropee, poiché la sua morfologia e la sua sintassi rispecchiano quelle delle lingue semitiche. In generale, in egiziano sono possibili due tipi di proposizioni: le proposizioni a predicato avverbiale e quelle a predicato nominale. Le prime esprimono una relazione di situazione tra un soggetto e un predicato (per es.: «il sacerdote è nel tempio»), le seconde enunciano una relazione di identità o classificano un soggetto, collocandolo nell’insieme denotato dal predicato (per es.: «il sacerdote è un uomo»). In entrambi i casi, soggetto e predicato sono giustapposti senza l’utilizzo di una copula. Le proposizioni a predicato verbale rientrano in quelle del primo gruppo: si tratta cioè di proposizioni il cui predicato avverbiale contiene una parola che ha il significato di un verbo.21 Vogliamo, inoltre, precisare che le proposizioni a predicato nominale della lingua egiziana corrispondono a quelle proposizioni che in greco utilizzano il verbo «essere» per asserzioni atemporali. In egiziano, infatti, le proposizioni a predicato nominale, esprimendo una relazione (tra un soggetto e un predicato) atemporale e permanente, non vincolata alle contingenze spaziali e temporali, si prestano a formulare una definizione o ad affermare un principio.22 Quando, invece, viene utilizzato un verbo per esprimere la nozione di «essere», esso assume sempre un senso esistenziale. Due verbi in particolare assolvono a questa funzione nella lingua egiziana: 20 Aristotele, Metafisica, V, 7, 1017 a, 24-30. 21 Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, ed. it. a cura di Ch. Orsenigo, Ananke, Torino 2007, pp. 43 sgg. Cfr. anche infra, pp. 271 sgg. 22 Cfr. ibid., pp. 295 sg. 16 (wnn) e (xpr).23 Il primo significa «essere», «esistere», e lo troviamo anche come ausiliare nella costruzione dei tempi verbali, nelle proposizioni a predicato avverbiale. Il secondo esprime il medesimo concetto, ma in senso dinamico; xpr indica, infatti, l’azione del «venire all’esistenza». Il segno geroglifico con il quale si scrive questo verbo è quello dello scarabeo, che è simbolo di nascita o di «rinascita». Wnn denota, dunque, l’esistente e xpr la sua trasformazione e il suo rinnovamento. 2. In principio era il non essere Il mondo per gli Egiziani non è esistito da sempre. All’origine regna il non essere, inteso come «non esistente». Tutte le narrazioni cosmogoniche concordano nella descrizione di questo stato che precede la creazione. Questa condizione primordiale è descritta nei Testi delle Piramidi con queste parole: «quando il cielo ancora non esisteva [n xprt pt], quando la terra ancora non esisteva [n xprt tA], quando gli uomini ancora non esistevano [n xprt rmT], quando non erano nati gli dei [n mst ntrw], quando ancora non esisteva neppure la morte [n xprt mt]».24 Come emerge da questo brano e da altri enunciati sparsi nella letteratura egiziana, la sfera originaria del «non esistente» si presenta assolutamente uniforme e indifferenziata. Essa è assolutamente priva di spazialità, sia metrica sia di altro tipo. Non essendoci dei punti di riferimento, dei «punti cardinali», non c’è la possibilità di distinguere delle direzioni o delle regioni. Cielo, terra, aldiquà e aldilà costituiscono, infatti, delle articolazioni che sono proprie soltanto dell’esistente. Un testo di epoca abbastanza recente afferma, per esempio, che il dio creatore non ha ancora trovato un punto d’appoggio sul quale stare in piedi.25 Questo caos primordiale è assolutamente privo anche di temporalità; la nascita e la morte sono eventi ad esso estranei.26 Non 23 Entrambi i termini sono attestati a partire dall’Antico Regno. Cfr. R. Hannig, Ägyptisches Wörterbuch I. Altes Reich und Erste Zwischenzeit, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2003, pp. 339 sgg e 937 sgg. 24 Pyr, 1466 c-d. Cfr. anche ibid., 1040 a-d. 25 Si tratta del Libro di abbattere Apopi, un testo scritto sul Papiro Bremner-Rhind, di età tolemaica, ma risalente con buona probabilità al Nuovo Regno. Cfr. R. O. Faulkner, The Papyrus Bremner-Rhind, Édition de la Fondation reine Élisabeth, Bruxelles 1933, pp. 60 (26, 23) e 70 (28, 24). 26 Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, trad. it. di D. Scaiola, Salerno Editrice, Roma 1992, pp. 154 sgg. Cfr. anche S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, in La naissance du monde, Édition du Seuil, Paris 1959, pp. 22 sgg. Secondo l’interpretazione di J.-Fr. Pépin, invece, il Nun non rappresenterebbe semplicemente una condizione di passività e indifferenziazione, ma sarebbe un «luogo» con degli abitanti, «coloro che sono nel Nu» (jmyw nww), e con una sua topografia sacra, fatta di porte, strade e 17 essendo ancora nati dei e uomini, inoltre, non si è ancora manifestato un principio di coscienza. Nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno leggiamo che «non era ancora venuta all’esistenza una seconda cosa [n xprt 2 jSt snt]».27 Non troviamo, dunque, ancora traccia di quelli che abbiamo presentato come i capisaldi dell’ontologia egiziana: dualismo, complementarietà e movimento. Per descrivere la non esistenza antecedente alla creazione, i Testi delle Piramidi, così come anche altre fonti successive, utilizzano una particolare forma negativa del verbo: n xprt=f, che viene tradotta «quando ancora non esisteva». Con questa costruzione viene negata l’eventualità che ci sia stata un’azione che abbia lasciato un segno;28 l’azione in questione è l’esistere. Il verbo impiegato in questo caso non è wnn, bensì xpr, che oltre al significato «statico» di «esistere», ha anche quelli dinamici di «divenire», «accadere», «sorgere», «prendere forma»;29 ciò esclude la presenza di qualsiasi processo di trasformazione, ossia esclude la vita. Il non creato, tuttavia, non è connotato dagli Egizi soltanto in modo apofatico; esso viene descritto anche come una distesa d’acqua illimitata, Nun Keku semau (nwn),30 o come tenebra originaria (kkw smAw).31 Questo abisso se da un lato, come abbiamo visto, si configura come inerzia assoluta, dall’altro rappresenta anche un presupposto indispensabile per la generazione dell’esistente. Secondo la cosmogonia elaborata a Eliopoli, da questo «brodo primordiale» emerge una collina; su di essa il dio demiurgo trova il terreno solido sul caverne. Esso sarebbe, in sintesi, «non la matrice dell’universo», ma «l’universo che sta nascendo e ordinandosi» (cfr. Id., Quelques aspects de Nouou dans les Textes des Pyramides et les Textes des Sarcophages, in Akten des vierten internationalen Ägyptologen Kongresses, München 1985, Helmut Buske Verlag, Hamburg 1989, pp. 339 sgg). A nostro avviso, la lettura di Pépin non è esaustiva, coglie, cioè, soltanto un aspetto del Nun, quello che assume precisamente quando l’universo sta per nascere. 27 CT, III, 383 a. Cfr. anche ibid., II, 396 b. I Testi dei Sarcofagi raccolgono le formule funerarie scritte sulle pareti e all’interno di sarcofagi lignei appartenenti a privati vissuti durante il Medio Regno. 28 In proposito, cfr. H. Grapow, Die Welt vor der Schöpfung, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 67 (1931), p. 35 sgg. Lo studioso elenca una serie di fonti di epoche differenti in cui viene impiegata la costruzione in questione. Cfr. inoltre E. Edel, Altägyptische Grammatik, Pontificium Institutum Biblicum, Roma 1955-1964, pp. 367 sg; P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., p. 425 e R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2006, p. 638. Secondo S. Bickel, che si discosta dalla teoria di Grapow, questa forma verbale non sarebbe riferita al non esistente, ma metterebbe in risalto un momento del processo della creazione; cfr S. Bickel, La cosmogonie égyptienne avant le Nouvel Empire, Éditions universitaires, Fribourg (Suisse) 1994, p. 31. 29 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 638, sg. 30 Cfr. ibid., p. 421. 31 Cfr. ibid., p. 961. 18 quale dare inizio alla propria opera. Anche gli altri racconti cosmogonici narrano di un sostegno emerso dalle acque del Nun, rappresentato diversamente come un fiore di loto, una grande vacca celeste, un’isola di fiamma, in virtù del quale il principio primo, di natura solare, avrebbe esercitato la sua azione creatrice, ponendo in essere con la sua luce la dimensione spaziale e con il suo percorso quella temporale.32 Lo stesso demiurgo Atum, di cui parla la cosmogonia più antica, quella eliopolitana, sarebbe emerso dall’indifferenziato per autogenerazione. Possiamo, quindi, affermare che, in un certo senso, il non essere contiene il germe dell’essere. La teologia di Ermopoli insiste particolarmente su questo aspetto. Questa dottrina sostiene, infatti, che il Nun ha avuto un ruolo «attivo» nella creazione, dando vita con un lento lavorio a otto entità e facendo emergere la prima terra ferma.33 In alcuni passi della letteratura religiosa, inoltre, il Nun viene personificato e appare come un dio che partecipa alla creazione. Nei Testi dei Sarcofagi, per esempio, troviamo la seguente dichiarazione: «Io sono Nu, che faccio per lui più di quanto egli desideri».34 E un’altra formula recita: «Chi è, il Grande, Colui che è venuto all’esistenza da se stesso? E’ il Nun».35 Secondo Théophile Obenga, il Nun egiziano richiamerebbe il concetto di «ragione spermatica» di cui parlano gli stoici: «Per gli Stoici, infatti, la sostanza all’inizio è essa stessa senza qualità: è la materia primordiale che si trasforma in acqua, in seguito, per il tramite dell’aria. La “ragione spermatica del mondo” resta nel liquido. Essa rende la materia adatta a ricevere la sua azione per la generazione degli altri esseri».36 Il non essere non ha una connotazione soltanto negativa nel pensiero egizio. Esso manifesta indubbiamente un lato ostile e distruttivo, ma si presenta anche come veicolo di rinnovamento e di rinascita. La rigenerazione scaturisce dalla momentanea negazione di ciò che esiste. L’immagine conclusiva del Libro delle Porte mostra il Nun nelle vesti di un dio che solleva la barca solare, consentendo così all’astro la sua 32 In proposito, cfr. S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., pp. 35 sg. 33 Cfr. ibid., pp. 51 sgg. 34 CT, IV, 114 i, B2L. 35 CT, IV, 188 b, B9Ca; 188/9 c, B9Ca e BH1Br. 36 T. Obenga, La philosophie africaine de la période pharaonique, L’Harmattan, Paris 1990, p. 32. 19 rinascita mattutina.37 Il non esistente interagisce con l’esistente, da un lato minacciandone l’integrità, dall’altro garantendone la continuità. L’ontologia egiziana postula, dunque, un dualismo che non risulta mai rigido, in cui i due estremi del rapporto si rivelano complementari.38 3. La prima volta: l’essere prende «corpo» Con l’espressione «la prima volta», sep tepy (sp tpy),39 l’uomo egiziano indica che il mondo in cui abita ha avuto un inizio. Un atto «creativo» ha strutturato e ordinato l’esistente a partire dal caos primordiale. La prima volta non costituisce, tuttavia, un avvenimento unico; il mondo, essendo soggetto alla caducità, necessita, infatti, di una periodica rigenerazione, per potersi ripresentare perfetto come agli inizi. Per tutta l’epoca faraonica manca un resoconto unico e sistematico sulla creazione, che si possa paragonare alla Genesi biblica. Tutto ciò che possediamo consiste in una serie di allusioni e affermazioni isolate, provenienti da fonti e periodi differenti. Soltanto nell’Egitto tolemaico e romano troviamo delle rappresentazioni cosmogoniche complete e coerenti. Questa apparente mancanza di coerenza, che è possibile riscontrare in molte espressioni della cultura faraonica, nasconde in realtà un aspetto dello «spirito» egiziano che ci sembra fondamentale: la tendenza a rifuggire dall’univocità e dal dogma. Serge Sauneron e Jean Yoyotte affermano in proposito: «Non c’era niente di esclusivo nel pensiero egiziano: si era fermamente convinti che una medesima realtà poteva essere colta e definita attraverso miti molto differenti, attraverso immagini varie. Nessuna credenza rendeva le altre necessariamente inaccettabili. E’ per questo che non ci fu, nella letteratura religiosa dell’Egitto, un unico racconto ufficiale della “Prima Volta” del mondo».40 37 Il Libro delle Porte fa parte dei testi dell’oltretomba del Nuovo Regno. Compare per la prima volta, in una versione incompleta, nella tomba di Horemheb, ultimo sovrano della XVIII dinastia. 38 In alcune formule dei Testi delle Piramidi, per indicare l’oceano primordiale, viene utilizzata la grafia nen, con la sua corrispondente femminile nenet. L’aspetto interessante consiste nel determinativo utilizzato nel termine nenet: un cielo capovolto. Ciò «implica l’idea di un mondo alla rovescia, controparte esatta di un mondo terrestre con il cielo visibile della dea Nut, un mondo popolato di abitanti sui quali non è data alcuna indicazione, e non è facile fare supposizioni» (M. Tosi, Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto, vol. I, Ananke, Torino 2004, p. 90). 39 Sull’origine di questa espressione, cfr. S. Bickel, La cosmogonie égyptienne avant le Nouvel Empire, cit., pp. 56 sgg. 40 S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., p. 19. 20 Un giudizio analogo è espresso da Hornung: «Sulla base di tutti questi enunciati e rappresentazioni si ricostruisce un quadro della creazione estremamente vario e differenziato, vale a dire che si ritrovano molti miti della creazione che, dalle angolazioni più diverse, affrontano il problema, fino ad oggi irrisolto, della nascita del mondo e dell’esistenza. Per l’uomo egiziano era chiaro che non si poteva ricondurre questo avvenimento ad una formulazione unica e semplice, ma si dovevano ricercare continuamente nuove strade per esprimere ciò che di per sé è indicibile e creare nuovi simboli».41 Prendendo in esame le differenti versioni del racconto della «prima volta», elaborate dai principali centri della speculazione cosmogonica egiziana, si riscontra che il passaggio dal non essere all’essere viene descritto facendo ricorso a un linguaggio che attinge ampiamente alla sfera corporea. L’epifania dell’esistente ha luogo attraverso l’impiego da parte del dio demiurgo di una facoltà o di un elemento «corporei», nello specifico: l’organo sessuale, il cuore, la lingua o la bocca, gli occhi e il braccio. Nella narrazione eliopolitana il dio Atum, principio primo che si autopone, innesca il processo di generazione di tutti gli enti attraverso un atto sessuale compiuto con se stesso: «Atum è colui che è venuto all’esistenza e che si è masturbato in Eliopoli! Egli ha posto nel suo pugno il suo fallo e ne ha provato voluttà! Così sono nati due gemelli, Shu e Tefnet».42 In questo dio il pensiero egiziano più antico individua il trait d’union, il punto di equilibrio tra il non essere e l’essere. Il verbo tem (tm), del quale il nome Atum è una particolare forma participiale, può significare, infatti, «non essere», «cessare di», ma anche «essere completo», «intero», «perfetto».43 Questa divinità rappresenta il «ponte» che consente il passaggio dall’indifferenziato all’universo differenziato e molteplice; è «l’Uno che si fa milioni», secondo una definizione che compare nel Nuovo Regno, dopo l’età di Amarna. 41 E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 35, sg. 42 Pyr, 1248 a-d. 43 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 1003. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, Actes Sud, Arles 2010, pp. 713 sgg. 21 Atum genera, dunque, la prima coppia di dei: Shu, il dio dell’aria e Tefnet, considerata generalmente dagli egittologi la dea dell’umidità44. I Testi dei Sarcofagi descrivono questo primo atto creativo in questo modo: «quando egli mise al mondo Shu e Tefnet in Eliopoli, quando era Uno e divenne Tre».45 Con questa frase, che risulta essere la più antica formulazione di una trinità, si afferma che la pluralità deriva dall’unità. Ciò è confermato anche dalla scrittura geroglifica, nella quale il segno grafico per esprimere il plurale è costituito da tre tratti orizzontali o verticali. Secondo una variante del racconto cosmogonico eliopolitano, l’atto creativo iniziale avviene in virtù di uno sputo del demiurgo. Rimanendo nell’ambito dei Testi dei Sarcofagi, il defunto, identificatosi con il dio Shu, afferma: «Shu che Atum ha creato [qmAw], nel giorno in cui egli è venuto all’esistenza [xpr(w)∼n=f], è N. Non è in un ventre [Xt] che sono stato foggiato [qd=j], non è in un uovo che sono stato messo insieme [Ts=j], non è per concezione che sono stato concepito! Atum mi ha sputato come saliva dalla sua bocca con mia sorella Tefnet; ella è uscita dopo di me che ero avvolto dal soffio della gola della fenice, nel giorno in cui Atum è venuto all’esistenza [xpr(w)∼n tm] nei flutti-hehu, nel nu, nelle tenebrekeku e nell’oscurità-tenemu!».46 La creazione prosegue con la generazione di Nut , dea del cielo, e Geb, dio della terra, da parte della prima coppia Shu e Tefnet. La seconda coppia di dei a sua volta si unisce e genera Osiri, Iside, Seth e Nefti. Atum insieme a questi otto dei forma la «grande Enneade» di Eliopoli; essa rappresenta il cosmo ormai completo, pienamente strutturato. Il numero nove esprime, infatti, una forma rafforzata del plurale: il tre ripetuto tre volte. Si tratta di una pluralità assoluta; l’Uno si è fatto «milioni». Tutti gli dei, dunque, insieme al resto del creato, procedono da Atum; già a 44 Sauneron e Yoyotte mostrano delle riserve nei confonti dell’identificazione di Tefnet con l’umidità atmosferica; cfr. Idd., La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., p. 30. Anche J. Assmann non è d’accordo con l’interpretazione corrente e ne propone una diversa; cfr. Id., Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, trad. fr. di N. Baum, Éditions du Rocher, Monaco 2003, p. 48. 45 CT, II, 39 d-e. 46 CT, II, 3 d – 4 d. Nella traduzione dell’espressione TAw Htt bnw («soffio della gola della fenice») non seguiamo la versione di C. Carrier. Ci allineiamo, invece, a quelle di P. Barguet (Les textes des sarcophages égyptiens du Moyen Empire, Les Éditions du Cerf, Paris 1986, p. 467) e di E. Bresciani (Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 14). 22 partire dai Testi delle Piramidi troviamo in Egitto l’affermazione, per noi inusuale, che «dio ha creato gli dei».47 Il pantheon egizio può essere concepito come un macrocorpo del quale ogni singola divinità rappresenta un membro. Di questo avviso è Jan Assmann che osserva: «Atum è l’insieme degli dei che egli contiene allo stato virtuale di ciò che non è ancora e che egli fa scaturire da sé allo stato di essere; è un theos pantheos, un dio che è nello stesso tempo tutti gli dei. Tutti gli dei sono nati dal corpo del dio primordiale Atum, così che essi, nel loro insieme, possono essere concepiti come un corpo».48 Una conferma di questa lettura ci proviene dall’antichissimo tema della «divinizzazione delle membra», in cui ogni parte del corpo del defunto è identificata con una divinità. La figura della mummia, inoltre, ripropone la forma arcaica con cui venivano raffigurati gli dei antropomorfi.49 Il corpo umano possiede, quindi, qualcosa di divino, per il fatto che la stessa dimensione divina si articola in un corpo cosmico. In un passo dei Testi delle Piramidi, le membra del sovrano defunto sono equiparate a quelle di Atum e il suo viso a quello di Anubi: «Il tuo braccio [a] è come quello di Atum, le tue due spalle [rmnwy] sono come quelle di Atum, il tuo ventre [Xt] è come quello di Atum, la tua schiena [sA] è come quella di Atum, le tue due natiche [pH(wy)] sono come quelle di Atum, le tue due gambe [rdwy] sono come quelle di Atum, e il tuo viso [Hr] è come quello di Anubi».50 Nella Litania del Sole del Nuovo Regno, il re defunto invocando gli dei come parti del suo corpo, afferma: «Le mie membra [awt] sono dei, io sono completamente un dio, nessun mio membro [at] è senza dio. Io entro come un dio, ed esco come un dio, gli dei si sono trasformati nel mio corpo [xpr∼n ntrw m Haw=j]».51 Abbiamo constatato che la nozione di essere, per il pensiero egizio, richiama quella di esistenza. Ora riscontriamo che la dimensione differenziata dell’esistente manifesta la struttura di un corpo. Questa «corporeità», che caratterizza sia la sfera divina che quella umana, secondo Assmann, si configura come «corporazione»: «Se il corpo 47 Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 132, sg. 48 J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 66. 49 Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 95 sgg. 50 Pyr, 135 a-b. 51 Litania del Sole, 214-215. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung, in Das Buch der Anbetung des Re im Westen (Sonnenlitanei), Éditions de Belles Lettres, Genève 1975-1976. L’edizione riporta anche il testo geroglifico. 23 appare come un mondo divino o un pantheon, il mondo divino può, all’inverso, apparire come un corpo, ossia come una corporazione. Il corpo del defunto rappresenta quindi la corporazione del mondo degli dei egiziani: “Egyptian Gods Incorporated”. In effetti, l’egiziano possiede un termine che esprime una nozione simile; La parola Xt designa tanto bene il corpo che una corporazione e si applica a delle collettività divine. Tutte le comparazioni funzionano nei due sensi».52 Il «corpo» divino e quello umano sarebbero, dunque, da intendersi come una corporazione di membra cooperanti. Anche il racconto della «prima volta» messo a punto nei templi di Menfi pone l’accento sull’aspetto «corporeo» dell’atto creativo; in un inno a Ptah, il dio demiurgo, recita: «Salute a te al cospetto degli dei primordiali che hai creato, dopo essere venuto all’esistenza come corpo divino [Haw nTr], tu che hai modellato tu stesso il tuo corpo [Haw] […] Tu hai formato la terra, tu hai riunito le tue carni [jwf], tu hai contato le tue membra [awt] […] Ciò che la tua bocca [rA] ha generato e che le tue mani [awy] hanno creato, tu l’hai attinto dal Nun. L’opera delle tue mani è come la tua perfezione».53 Secondo la teologia menfita, gli organi principali, in grado di esercitare una funzione direttiva su tutte le altre membra, sono il cuore e la lingua. Mediante essi, identificati mitologicamente con Horo e Thot, il demiurgo Ptah pone in essere l’esistente. Nel Testo di teologia menfita, leggiamo: «Colui che si è manifestato come il cuore [HAty], sotto l’aspetto di Atum; colui che si è manifestato come la lingua [ns], sotto l’aspetto di Atum, è Ptah l’antichissimo, che ha attribuito [la vita a tutti] gli dei e ai loro Ka, con questo cuore [HAty] in cui Horo ha preso forma come Ptah, e con questa lingua [ns] in cui Thot ha preso forma come Ptah. Accade che il cuore e la lingua abbiano potere su tutte le altre membra [awt] […] mentre l’uno (il cuore) pensa […] l’altro (la lingua) ordina tutto ciò che quello desidera».54 52 J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 67. 53 Inno a Ptah, trad. it di E. Bresciani, in Testi religiosi dell’antico Egitto, Mondadori, Milano 2001, p. 22. L’inno è contenuto nel Papiro di Berlino 3048, risalente al Nuovo Regno. Per il testo geroglifico, cfr. W. Wolf, L’hymne à Ptah de Berlin, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 64 (1929), pp. 17 sgg. 54 Testo di teologia menfita, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi, Torino 2007, p. 17. Per il testo geroglifico, cfr. H. Junker, Die Götterlehre von Memphis, Akademie der Wissenschaften, Berlin 1939. Questo documento ci è stato tramandato da una stele risalente al regno di Shabaka (fine VIII sec. a. C.). Secondo alcuni studiosi, come Sethe e Junker, il testo sarebbe stato redatto durante l’Antico Regno. Schlögl lo fa risalire, invece, alla XIX dinastia. Junge lo considera, infine, coevo al regno di Shabaka. Per riferimenti più precisi, cfr., per es., T. Bardinet, Dents et mâchoires dans les représentations religieuses et la pratique médicale de l’Égypte ancienne, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990, pp. 136 sg. 24 Questo sistema teologico pone il verbo come principio all’origine della realtà. Si tratta, tuttavia, di un verbo che non può sussistere indipendentemente dalla sua veste «corporea». La sede della parola creatrice è il cuore, lo strumento che gli permette di manifestarsi è la lingua. Ptah pronunciando il nome di tutte le cose le chiama all’esistenza. Il nome, ren (rn), per gli Egiziani rappresenta, infatti, tutt’altro che qualcosa di astratto e immateriale. Nominare un ente non significa semplicemente indicarlo, ma anche concedergli esistenza. Nell’aldilà egiziano, il nome svolge un ruolo fondamentale, poiché esso, esprimendo l’essenza di un individuo, permette la sopravvivenza della sua identità personale. Il Libro dei Morti, per esempio, al capitolo 25, contiene una formula affinché il defunto possa ricordare il proprio nome nella Duat. L’intero cosmo, dunque, è concepito nel cuore di Ptah e partorito dalla sua bocca. Quest’ultima costituisce anche la prima impalcatura del creato, in quanto gli dei originari, quelli dell’Enneade, sono identificati con i denti (jbHw) e le labbra (spt) del dio demiurgo. L’importanza del cuore e della bocca, tuttavia, è riconosciuta anche nella narrazione di Eliopoli, a proposito dell’opera creatrice del dio Atum. Nell’ultimo passo riportato dei Testi dei Sarcofagi, Shu afferma di essere stato espettorato dalla bocca di Atum insieme a sua sorella Tefnet. Nel Libro di abbattere Apopi, invece, lo stesso Atum dice: «Io posi le fondamenta (del creato) col mio solo cuore [jb]».55 La generazione dell’esistente attraverso la parola, tuttavia, non è legata soltanto al racconto cosmogonico tramandatoci dal Testo di teologia menfita. Secondo la speculazione teologica di Tebe, al principio è la parola di Amon che dà vita a tutto ciò che esiste.56 Il dio si manifesta sotto l’aspetto di un uccello primordiale che emette un grido: «Egli starnazzò, essendo il Grande Starnazzatore, nel luogo dov’era, solo: egli cominciò a parlare in mezzo al silenzio; aprì tutti gli occhi e fece che vedessero, egli cominciò a gridare, mentre la terra era inerte. Il suo urlo si diffuse, quando non c’era altri che lui. Mise al mondo ciò che esiste e fece che vivesse, fece che tutti gli uomini 55 Libro di abbattere Apopi, trad. it. di E. Bresciani, in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 16. Per il testo geroglifico, cfr. R. O. Faulkner, The Papyrus Bremner-Rhind, cit., p. 60 (26, 24). 56 Secondo una variante della narrazione cosmogonica di Eliopoli, anche Atum avrebbe generato l’esistente mediante il verbo fuoriuscito dal suo cuore-ib. Cfr. infra, pp. 188 sg. 25 conoscessero una strada per camminare, sicché vivono i loro cuori quando lo vedono».57 Anche in questo caso, all’elemento corporeo è attribuito un ruolo di primo piano. Prima della creazione, il cosmo era potenzialmente contenuto nel corpo di Amon: «L’Enneade era ancora chiusa nelle tue membra [Haw], […] tutti gli dei erano ancora riuniti nel tuo corpo [Dt]».58 Secondo un altro inno ad Amon, inoltre, gli uomini e gli dei provengono rispettivamente dagli occhi e dalla bocca del creatore.59 Accanto alle parti corporee finora menzionate, anche il braccio mostra il suo ruolo cosmogonico. Qui è chiamata in causa la teologia di Esna. In questo contesto è il vasaio divino Khnum ad assumere le vesti del demiurgo e a plasmare sul tornio tutti gli enti, agendo con il suo braccio: «Ha modellato sul tornio gli dei e gli uomini, ha plasmato gli animali piccoli e grandi, ha creato gli uccelli così come i pesci, ha creato i maschi riproduttori e ha messo al mondo le femmine. Ha organizzato il corso del sangue nelle ossa, operando con le sue braccia nel suo laboratorio».60 Khnum viene esaltato, inoltre, come colui che ha creato il corpo umano e la sua complessa fisiologia: «Ha fatto crescere le ciocche di capelli, ha fatto spuntare i peli, ha modellato la pelle sulle membra; ha costruito il cranio, ha modellato la faccia per dare i propri tratti alla figura; ha fatto aprire gli occhi, ha aperto l’ingresso delle orecchie, ha collegato il corpo [Xt] all’atmosfera; ha fatto la bocca per mangiare, ha costruito i denti per masticare; ha separato la lingua perché si esprima parlando, e le due mascelle perché potessero aprirsi, la gola per inghiottire, l’esofago per ingoiare, ma anche per vomitare; la spina dorsale per sostenere».61 57 I Mille canti in onore di Ammone e di Tebe, cap. 90, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., pp. 425 sg. 58 Ibid. Testo originale traslitterato in J. Zandee, De hymnen aan Amon van Papyrus Leiden I 350, Rijksmuseum van Oudheden de Leiden, Leiden 1947, p. 66. 59 Cfr. Inno ad Amon-Ra, VI, in Papiro di Bulaq 17 (ed. A. Mariette, Les papyrus égyptiens du Musée de Boulaq, vol. II, A. Franck, Paris 1872, tavv. 11-13). Per una trad., cfr. A. Barucq, F. Daumas, Hymnes et prières de l’Égypte ancienne, Éditions du Cerf, Paris 1980, p. 197. 60 Inno a Khnum creatore, 250, 6-8, in S. Sauneron, Le temple d’Esna, vol. III, IFAO, Le Caire 1968, pp. 130 sg. La trad. it. è di E. Bresciani (Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 27). Questo inno fa parte dei testi del tempio di Latopoli (Esna), databili al II sec. d.C., ma risalenti molto indietro nel tempo relativamente alle concezioni espresse. 61 Ibid., 250, 9-10, in Le temple d’Esna, vol. III, cit., p. 131 (trad. it. in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 28). 26 Nell’ultima dottrina menzionata, l’aspetto «concreto», «corporeo» della creazione ci sembra ancora più accentuato. Più in generale, la nostra impressione è che ogni singola teologia privilegi, in qualche modo, una fase determinata del processo cosmogonico, narrando l’opera complessiva del demiurgo alla luce di questa. Il che confermerebbe ulteriormente la complementarietà di queste formulazioni, sostenuta da Hornung. I sistemi cosmogonici presi in considerazione finora procedono secondo una falsariga comune, nella narrazione della «prima volta»: a) il passaggio dal non esistente all’esistente avviene ad opera di un dio originario che si è generato da sé; b) l’atto creativo del dio demiurgo necessita del supporto di uno o più elementi corporei. Da questa impostazione si discosta, invece, la dottrina di Ermopoli.62 Essa racconta la «prima volta» seguendo un modello che potremmo definire «speculare» rispetto a quello proposto dalle altre cosmogonie, in particolare rispetto a quello eliopolitano. All’origine viene posta un’Ogdoade, otto divinità elementari, che non fanno parte del creato, ma del caos stesso.63 Il principio solare che permetterà la comparsa dell’esistente non si è autogenerato, ma è stato formato dall’Ogdoade che nell’oscurità ha preparato la sua venuta. Gli otto dei, nati per generazione spontanea nelle acque illimitate del caos, fanno sorgere dall’elemento liquido una collina primordiale, rappresentata come un’isola di fiamma. Questo primo luogo permette al sole di sorgere e dare vita alla creazione. Abbiamo, dunque, un’Enneade al contrario: il principio solare è preceduto e non seguito da otto divinità; questi dei non sono il risultato di un processo cosmogonico, ma sono ancora immersi nell’abisso primordiale. La teologia di Ermopoli, presentandosi come speculare alle altre dottrine che abbiamo richiamato e, in particolare, a quella di Eliopoli, sembra voler evidenziare la «potenzialità» del non essere, il suo ruolo di progenitore dell’essere. Si è voluto con ciò affermare un primato del non essere sull’essere? 62 In proposito, cfr. S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., pp. 51 sgg. 27 4. La struttura dell’esistente L’evento della «prima volta» determina il passaggio dal non esistente all’esistente. Con ciò, tuttavia, il caos primordiale non viene affatto abolito. Accanto al mondo creato dal dio demiurgo esiste un residuo infinito che non si trasforma mai in essere. Questo residuo da un lato costituisce il confine ultimo, il limite invalicabile che circonda l’esistente, dall’altro è presente all’interno della creazione stessa. I libri dell’oltretomba del Nuovo Regno localizzano l’abisso oscuro delle acque nelle profondità della duat.64 Chi cade in queste profondità «non è» più, la sua identità viene dissolta. Il Libro di Nut, invece, pone le acque del Nun nel cielo, oltre il percorso del sole.65 Nell’abisso abita il principale nemico del dio sole e di tutto l’esistente: il serpente Apopi, che quotidianamente minaccia la marcia solare e che, pertanto, deve essere prontamente neutralizzato. La forma del serpente, che «ha per l’Egiziano una particolare affinità col non esistente», è la stessa con la quale viene rappresentato il cerchio più esterno del mondo.66 Fenomeni come l’inondazione prodotta dal Nilo ogni anno o la scomparsa del sole sotto l’orizzonte ogni giorno riportano il mondo alla condizione primordiale e sono un chiaro segno del fatto che il non esistente è presente sempre e ovunque. Perfino il sonno rappresenta un giacere nell’oceano Nun. Il non essere, dunque, penetra l’essere. Attribuire un atteggiamento nichilista all’uomo egiziano non sarebbe, tuttavia, corretto; egli vuole rimanere «dalla parte dell’essere». Al capitolo 125 del Libro dei Morti, che contiene la cosiddetta «confessione negativa» che il defunto deve pronunciare davanti al tribunale di Osiri, troviamo l’affermazione: «Io non ho cercato di conoscere coloro che non esistono [n rx=j jwtyw]!». Nei Testi dei Sarcofagi si dice in modo simile del defunto «trasfigurato» (akh): 63 La nozione di Ogdoade è già presente nei testi di ispirazione eliopolitana (cfr., per es., CT, formula 76) e compare anche in altre tradizioni, come la menfita e la tebana. In questi contesti, tuttavia, gli otto dei seguono e non precedono il demiurgo. 64 La duat (dwAt) è una zona della dimensione ultraterrena, la cui localizzazione nell’ambito del cosmo non è stabilita in modo rigido. Durante l’Antico Regno essa è situata principalmente nella regione celeste, a nord-est, secondo A. Moret (cfr. Id., La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, in BIFAO, 30 (1931), p. 735, nota 25). Nel Medio Regno, invece, la duat è considerata una regione «inferiore», attraversata dalla barca di Ra che si reca a visitare Osiri. Nei testi del Nuovo Regno, infine, essa è concepita come una regione sotterranea opposta al cielo e alla terra. Sulle attestazioni più antiche di questa nozione e sul loro significato, cfr., per es., N. Beaux, La douat dans les Textes des Pyramides. Espace et temps de gestation, in BIFAO, 94 (1994), pp. 1 sgg. 65 Il Libro di Nut fa parte dei cosiddetti «libri del cielo». Si tratta di composizioni risalenti al Nuovo Regno, riportate sui soffitti delle tombe. Questi testi traspongono il viaggio notturno e diurno del sole nel corpo della dea Nut. 66 Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 159. 28 «il suo abominio è ciò che non esiste, è escluso che egli abbia visto ciò che è disordinato [jsft]».67 Mantenersi entro i confini dell’ordine cosmico significa rimanere in vita e continuare a esistere anche dopo la morte. La salvaguardia di questo ordine è il compito del re e degli dei. Abbiamo riscontrato che la sfera dell’essere non può prescindere da quella oscura e minacciosa del non essere. Ma non va dimenticato che quest’ultimo manifesta anche un aspetto rigenerante e fecondo. Proprio i fenomeni menzionati dell’inondazione del Nilo e del tramonto del sole sono espressione di questo secondo volto del non esistente. Tutto ciò che esiste è soggetto a un progressivo deterioramento e necessita, pertanto, di essere periodicamente rinnovato e rigenerato. Questa possibilità è garantita dal non esistente che, agendo come una sorta di «solvente universale»68, permette a ogni ente del creato di essere rielaborato e di manifestarsi nuovamente in una forma ringiovanita. Potremmo parlare di una creatio continua che si traduce in una perenne ripetizione della «prima volta». Il non essere, quindi, tenendo in gestazione l’essere, si rivela funzionale a esso. Questa gestazione, però, non è mai esente da pericoli, a causa del potenziale distruttivo insito nel non esistente. L’ordine e la struttura del creato manifestano, dunque, una dinamicità intrinseca. Tutto ciò che è non conosce la definitività, è sempre in fieri. Ma come si articola nello specifico la struttura dinamica dell’esistente? Anzitutto dobbiamo tenere presente che all’interno del kosmos egiziano rientrano sia la sfera terrena che quella ultraterrena. Uomini e dei condividono lo stesso mondo, anche se su piani differenti. Questo mondo possiede una temporalità e una spazialità. Il tempo scaturisce dalle profondità della creazione. Nel Libro dell’Amduat, esso è raffigurato come un serpente dal quale nascono le ore e al quale ritornano dopo aver compiuto il loro ciclo (fig. 2).69 67 CT, VI, 136 k. 68 Questa espressione è desunta dal linguaggio della tradizione alchimica occidentale. In proposito, cfr., per es., M. Pereira, Arcana sapienza. L’alchimia dalle origini a Jung, Carocci, Roma 2001, pp. 59 sgg. 69 Cfr. Libro dell’Amduat, ora XI, registro I. 29 Fig. 2 (tomba di Thutmosi III)70 L’immagine del serpente è presente anche nel Libro delle Porte, dove accanto a questa troviamo quella di una doppia corda che scaturisce dalla bocca di una divinità.71 Le singole ore appaiono, invece, sotto forma di stelle o di donne. Il tempo si dispiega in un continuo, senza interruzione, per ritornare poi negli abissi dai quali ha avuto origine; le ore sono generate e poi «divorate». La dimensione temporale si manifesta in modo differente nel mondo dell’aldiquà e in quello dell’aldilà. In una prospettiva ultraterrena è possibile abbracciare il tempo nella sua totalità, lo si può guardare in qualsiasi direzione ed estensione, verso il passato e verso il futuro. Tuttavia, entrambi gli orizzonti del creato, terreno e ultraterreno, sono immersi in un tempo che scorre e che non è infinito. Se da una parte, infatti, la durata della vita sulla terra appare sicuramente trascurabile rispetto 70 L’immagine è tratta dal sito www.thebanmappingproject.com (gennaio 2013). 30 a quella dell’esistenza condotta dai defunti beati (akhu) nell’aldilà, dall’altra anche i trapassati e gli dei, come gli uomini della terra, non conoscono un’«eternità» atemporale, senza fine. Per esprimere gli aspetti della temporalità gli egizi utilizzano termini differenti:72 rer rek (rr) indica il tempo in generale; (rk) è il tempo di qualcuno o qualcosa, per esempio di un dio, di un re, o di un luogo. Quest’ultimo termine è riferito in genere al passato; nu (nw) denota, nello specifico, il momento in cui accade o si fa qualcosa; ahau (aHaw) indica, infine, la durata della vita umana. Quando si parla dell’«eternità» ultraterrena, i termini in questione sono, invece, neheh (nHH) e djet (Dt). 73 Nei Testi delle Piramidi più antichi, quelli relativi al re Unis, si afferma: «La durata di vita [aHaw] di Unis è l’eternità-neheh, il suo limite è l’eternità-djet».74 Per riferirsi alla durata della vita degli dei Ra e Osiri, spesso si ricorre all’espressione «signore di neheh e djet». Si tratta di un’eternità che ha un’estensione temporale misurata in «milioni di anni».75 E’ una vexata quaestio se questi due termini debbano essere considerati sinonimi, oppure se denotino due concetti differenti. Molte sono le soluzioni proposte.76 I Testi dei Sarcofagi, utilizzando delle proposizioni a predicato nominale, danno le seguenti definizioni: 71 Cfr. Libro delle Porte, ora VI, registro I. 72 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 503, 511, 169, 420. 73 Assmann osserva che nella cultura egiziana non c’è una reale opposizione tra il tempo ultraterreno e quello terreno, in quanto non viene posta una distinzione netta tra la dimensione divina e il mondo umano. Per questa ragione, i due termini in questione possono essere tradotti in certi casi con «eternità» e in altri con «tempo». Cfr. J. Assmann, La notion d’éternité dans l’Égypte ancienne, in V. Pirenne-Delforge, Ö. Tunca (a cura di), Représentations du temps dans les religions, Droz, Genève 2003, pp. 111 sg. 74 Pyr, 412 a. La formula 274, che contiene il passo citato, è conosciuta come «Inno cannibale». 75 Cfr. E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 59 sgg. 76 Riportiamo alcune delle varie interpretazioni: djet come passato e neheh come futuro (Gardiner); djet come Aldiquà e neheh come Aldilà (Thausing); neheh come eternità che precede la creazione e djet come eternità che la segue (Bakir); neheh come ritorno delle medesime cose e djet come tempo che non conosce mutamenti (Otto); neheh come tempo e djet come spazio (Westendorf); neheh come tempo ciclico e djet come tempo lineare (Morenz). Hornung afferma, invece: «neheh appartiene […] in maggior misura al giorno e al dio sole Ra, mentre 31 «Quanto a ciò che esiste [jr nt(y)t Ø wn(=w)], è l’eternità-neheh e l’eternità-djet [nHH pw Hna Dt]».77 «Quanto all’eternità-neheh, è il giorno [jr nHH hrw pw]! Quanto all’eternità-djet, è la notte [jr Dt grH pw]!».78 Neheh e djet costituiscono la totalità del tempo cosmico; essi si intrecciano strettamente con la dimensione spaziale dell’esistente, che fa la sua comparsa con la creazione di Nut e Geb. Cielo e terra configurano, infatti, lo spazio del creato, uno spazio completamente riempito di tempo. Nel Libro della Vacca Celeste, risalente alla fine della XVIII dinastia, neheh e djet sono presentati come i sostegni del cielo, sotto forma di una coppia divina (fig. 3).79 La medesima concezione è attestata anche da fonti più antiche come i Testi dei Sarcofagi, in cui i due «sostegni» sono equiparati a Shu e Tefnet. In una formula che si apre con un’invocazione agli otto geni-Heh, creati da Shu, «che circondano il cielo con le loro braccia»,80 si afferma, infatti, in modo esplicito: «Shu è l’eternità-neheh e Tefnet l’eternità-djet!».81 Fig. 3 (C. Maystre, Le livre de la vache du ciel dans les tombeaux de la Vallée des Rois, cit., p. 114) djet in maggior misura alla notte e al signore dei morti Osiri; neheh è un concetto più che altro dinamico, djet più che altro statico» (Id., Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 66). Sul problema dell’interpretazione dei termini neheh e djet e sulla questione del tempo in generale, cfr., inoltre, lo studio recente di F. Servajean, Djet et Neheh. Une histoire du temps égyptien, Université Paul Valéry, Montpellier 2007. Secondo Servajean, neheh indica il tempo del mondo percettibile, terreno; djed esprime, invece, l’eternità propria della dimensione ultraterrena. 77 CT, IV, 200 d-e. 78 CT, IV, 202/3 a, Sq1C, Sq7C, Sq1Sq, L1NY e BH1Br. 79 Cfr. C. Maystre, Le livre de la vache du ciel dans les tombeaux de la Vallée des Rois, in BIFAO, 40 (1941), pp. 114 sg. 80 CT, II, 27 e. I geni-Heh aiutano il dio Shu a sostenere il cielo. 32 Spazio e tempo formano, dunque, un’unità inscindibile, che si articola in quattro componenti principali: cielo, terra, neheh, djet. Questa «quadratura», della quale possiamo ritrovare una lontana eco nell’omonimo concetto teorizzato da Martin Heidegger in età contemporanea, costituisce la struttura fondamentale dell’esistente.82 I quattro si possono intendere, cioè, come le direzioni costitutive nelle quali il mondo si dispiega, come l’apertura del mondo all’interno del quale gli enti si manifestano. Questa visione la ritroviamo anche nelle creazioni artistiche egiziane, dove il contorno di una scena o i bordi di un monumento (per es. una stele) rappresentano i confini del cosmo. L’inquadramento delle raffigurazioni, infatti, è spesso composto nella parte superiore dal segno del cielo, in quella inferiore dal segno della terra e ai lati da due scettri uas, che indicano i due sostegni (fig. 4). Fig. 4 (P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., p. 220) Il cosmo egiziano, come abbiamo rilevato, è limitato spazialmente e temporalmente. Il limite è un elemento connaturato nell’esistente. Per esprimere il concetto di limite, il pensiero egiziano ricorre generalmente a questi due termini: tash (tAS) e djer (Dr). Il primo termine denota dei limiti superabili, quelli stabiliti dagli dei e dagli uomini all’interno del mondo; il secondo, invece, indica i limiti propri della struttura del creato, non dilatabili e non superabili.83 81 CT, II, 28 d. In diversi passi dei testi religiosi si fa riferimento ai sostegni del cielo; cfr., per es: Pyr, 1143 b e 1385 a; CT, I, 263 f e 264 a; ibid., II, 375 c – 376 a. In alcuni casi, si parla di quattro pilastri; cfr., per es., CT, V, 41 g-h. 82 I Quattro che formano la «quadratura» (Geviert) heideggeriana sono: cielo, terra, i divini e i mortali. Pur non essendo equivalenti alle nozioni di neheh e djet, i concetti di «divini» e «mortali» richiamano, a nostro avviso, la temporalità nel suo complesso, ultraterrena e terrena. In proposito, cfr. i due saggi di M. Heidegger, Bauen, Wohnen, Denken e Das Ding, in Id., Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954; trad. it. Costruire, abitare, pensare e La cosa, in Id., Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991. 83 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 986 sg; 1085. Cfr. anche E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 69. 33 Tash può essere il confine di una proprietà, di un distretto o di uno stato; si tratta, dunque, di confini che possono essere modificati. Il faraone nel momento in cui assume il potere, eredita dal suo predecessore il compito di proteggere i confini dell’Egitto contro qualsiasi tentativo di modificarli. La funzione del re però non è soltanto quella di custode e reggitore dello stato; egli in quanto «dio in terra» deve assumere anche il ruolo di «creatore», cercando di superare le opere di coloro che lo hanno preceduto. Questo impegno si traduce nella costruzione di nuovi edifici o nell’ampliamento di quelli preesistenti e nell’estensione dei confini dello stato, attraverso campagne militari. Il tempio egiziano è progettato per venire incontro a questo compito; esso infatti, a differenza di quello greco, non ha una struttura compiuta, ma può essere continuamente ampliato. Nell’area sacra di Karnak, per esempio, si continuò a costruire per più di due millenni. Questa funzione di «innovatore» esercitata dal faraone risponde a quello che l’egittologia ha definito il «principio di superamento del preesistente». Esso è esplicitamente formulato a partire dal Primo Periodo Intermedio. Nel testo sapienziale conosciuto come L’Insegnamento per Merikara, il faraone Kheti II esorta suo figlio in questo modo: «Cerca di superare tuo padre ed i tuoi predecessori: ciò si realizzerà […] per mezzo della saggezza. Le loro parole sono rimaste in scritti: svolgi(li), leggi(li) e supera il loro sapere. […] Proteggi i tuoi confini [tAS]. […] Possa io vedere un guerriero che (mi) sorpassi in ciò, facendo egli più di quello che io ho fatto: avrei vergogna di un erede meschino. […] una persona agisce anche per il suo predecessore, per desiderio che sia migliorato ciò che ha fatto da parte di un altro che verrà dopo di lui».84 Qualsiasi sforzo di superare il preesistente incontra però, prima o poi, i limiti estremi e invalicabili, propri della struttura del mondo, che in egiziano sono denominati djeru (il senso letterale di djer è «fine», «ultima meta», «confine»). Nei Testi delle Piramidi, per esempio, il sovrano viene indicato come colui «che risiede nei limiti dell’orizzonte per l’eternità dell’eternità [jm(y) Drw Axt Dt r nHH]».85 Nei Testi dei Sarcofagi il defunto dichiara, invece: 84 L’Insegnamento per Merikara, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., pp. 92, 94, 97, 99. Per il testo geroglifico, cfr. A. Volten, Zwei altägyptische politische Schriften, Einar Munksgaard, Copenhagen 1945, pp. 5 sgg. 85 Pyr, 412 c. 34 «Sono andato a riposarmi ai confini dell’orizzonte [r Drw Axt]».86 Un altro aspetto essenziale del cosmo egiziano è costituito dalla simmetria. L’unità dell’esistente è sempre pensata ed espressa linguisticamente in modo «duale». Il territorio egiziano è indicato come «le due terre» (tAwy) o, più specificamente, come «l’Alto (Smaw) e il Basso Egitto (mHw)» o «la Nera (kmt) e La Rossa (dSrt)», il tempo cosmico come «neheh e djet», ecc. L’unità si manifesta, dunque, nella dualità, in due metà simmetriche e complementari. Prima della creazione, infatti, quando regnava il caos, «non c’erano ancora due cose».87 La simmetria caratterizza l’arte egiziana. Tutte le diverse parti architettoniche di un tempio sono disposte simmetricamente lungo un asse. Anche nelle iscrizioni e nelle decorazioni ritroviamo questo principio. A uno sguardo attento, però, questa simmetria rivela una lieve anomalia; le due metà non sono mai perfettamente identiche. Oggi non si è più dell’idea che si tratti di casualità o di errori, ma si riconosce all’artista egiziano una precisa consapevolezza nell’introduzione di anomalie nella simmetria. Ogni schema rigido, infatti, è contrario allo spirito egiziano e non si accorda con la concezione di un universo dinamico. La rottura della simmetria perfetta introduce tra le due polarità dell’intero un movimento che le fa interagire, dando vita all’insieme. Il cosmo differenziato si fonda sul principio del dualismo. Ogni ente è la risultante di due elementi complementari in relazione tra loro. La «quadratura» di cui abbiamo parlato costituisce, invece, l’orizzonte entro cui ogni fenomeno accade, il luogo epifanico di tutti gli enti. Il mondo così strutturato, per l’egiziano, si rivela una molteplicità di forze. Il dio demiurgo può disporre, in particolare, di tre forze che lo aiutano a realizzare la sua opera: sia, la «visione percipiente», hu, l’«enunciazione creativa» e heka, la «magia». Tutte e tre sono rappresentate come divinità in forma umana. Tra queste, heka (HkA), che in Egitto aveva ottenuto anche un culto, è la forza che porta a compimento la creazione. L’importanza della magia nella cultura egizia è attestata già nei Testi delle Piramidi. In essi, la heka è messa in relazione con il cuore, la sede della volontà e della coscienza. Nel medesimo contesto, 86 CT, IV, 128 d, B2L. I confini ultimi del cosmo sono anche le quattro «frontiere» (Tnww) del cielo; cfr. CT, formula 1018. 87 Cfr. supra, p. 18. 35 viene detto che il corpo (Xt) degli dei è «pieno di magia».88 Nessuna indagine sulla civiltà egiziana può evitare di prendere in considerazione questo aspetto. Il termine «magia» viene letto, generalmente, come sinonimo di superstizione. Secondo Adolf Erman, «la magia è un impulso (Seitentrieb) selvaggio della religione; essa si accinge a costringere le forze che governano il destino dell’uomo».89 Tuttavia, a quanto emerge dai testi egiziani, la heka risulta essere un’energia attiva che pervade l’esistente. Nella formula dei Testi delle Piramidi che associa la magia al cuore si dice del re Unis: «Egli si è appropriato dei cuori [HAtyw] degli dei, egli ha mangiato la Rossa [dSrt], egli ha ingoiato la Verde [wADt] […] e sarà soddisfatto di vivere dei cuori [HAtyw] e della loro magia-heka».90 La Rossa e la Verde indicano probabilmente le due corone dell’Egitto.91 In ogni caso, si tratta di un riferimento alle due terre e, per traslato, alla dualità cosmica. La magia che ha sede nel cuore appare, a nostro avviso, come una forza che nutre e dà coesione alla compagine cosmica, così come al corpo di un dio o di un uomo. Questa lettura è in accordo con alcune delle interpretazioni più recenti del termine heka, secondo le quali si tratterebbe, infatti, di energia o campi di forze. Sauneron parla della magia come dell’«energia attiva dell’universo».92 Hornung la definisce «l’energia atomica degli inizi dell’umanità».93 Questo potere può essere utilizzato sia dagli dei che dagli uomini, per trasformare il mondo; il suo veicolo principale è la parola, recitata, ma anche scritta.94 Gli egiziani concepiscono, dunque, la sfera dell’esistente come una dimensione duale, organizzata secondo un ordine ben preciso e fortemente dinamica. Si tratta, tuttavia, di un orizzonte limitato, finito. Il mondo creato non conosce l’eternità, intesa come durata perpetua. E’ lo stesso Atum a stabilire un termine ultimo per la sua creazione. Nel Libro dei Morti leggiamo il suo annuncio: 88 Cfr. Pyr, 397 b. 89 A. Erman, Ägyptische Religion, Georg Reimer, Berlin 1909, p. 167. 90 Pyr, 409 c – 410 c. Anche questo passo fa parte del cosiddetto «Inno cannibale». Abbiamo preferito tradurre letteralmente i termini dSrt e wADt, allineandoci alle trad. di A. Piankoff, Le «cœur» dans le textes égyptiens depuis l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel Empire, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Paris 1930, p. 61 e di S. Donadoni, Testi religiosi egizi, Garzanti, Milano 1997, p. 33. 91 Cfr. Piankoff e Donadoni, cit. 92 S. Sauneron, Le monde du magicien égyptien, in Le monde du sorcier, Éditions du Seuil, Paris 1966, p.32. 93 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 187 sg. 94 Ci soffermeremo meglio sul ruolo della magia nella cultura egiziana nell’ultimo capitolo. Cfr. infra, pp. 256 sgg. 36 «Ma distruggerò tutto ciò che ho creato e questa terra ridiventerà il Nun, allo stato di distesa d’acqua come in principio! Io sono colui che resterà con Osiri dopo che avrò attuato la mia trasformazione in altra cosa, un serpente, che gli uomini non conoscono o che gli dei non hanno ancora visto!».95 Non possiamo dire con certezza se si tratti di un termine definitivo o, viceversa, del preludio di un nuovo atto creativo. Ci sembra, però, fuori di dubbio che lo stato successivo a quello del mondo manifesto non sia pensato come un nulla assoluto. Atum, il mediatore tra l’essere e il non essere, continua, infatti, a sussistere sotto una nuova forma e, accanto a lui, è presente anche Osiri, il «re dei viventi»,96 colui che garantisce a tutto il creato la rinascita a nuova vita. Se da un lato il non essere «infinito» sembra sovrastare l’essere «finito», dall’altro lo sguardo dell’uomo egiziano è rivolto costantemente all’esistente. Ogni aspetto della cultura e della società egiziane si rivela funzionale al rispetto e al mantenimento dell’ordine cosmico. L’Inno ad Amon-Ra riportato da uno dei papiri di Bulaq esprime, in modo efficace e con semplicità di linguaggio, entusiasmo e riconoscenza nei confronti del dio demiurgo per aver posto in essere il creato: «”Salute a te, – dicono tutti. – Adorazione a te, che ti affatichi per noi! Grazie, mentre ci crei”. “Salute a te”, dice ogni animale selvatico. “Adorazione a te”, dice ogni paese straniero, quanto è alto il cielo, ampia la terra, profondo il mare. […] “Esaltiamo la tua gloria perché ci hai creato, ti adoriamo perché ci hai formati, cantiamo inni a te perché ti affatichi per noi”. Salute a te creatore di tutto ciò che esiste».97 Un simile atteggiamento non concede al non essere un primato sull’essere. 5. I tre livelli della realtà secondo la speculazione del Nuovo Regno All’interno della sfera dell’esistente si possono distinguere tre livelli: la terra abitata dagli uomini, ta dalla dea Nut, 95 (tA), al di sopra di essa il cielo (pt) impersonato (nwt) e al di sotto la duat (dwAt). Libro dei Morti, cap. 175. 96 Si tratta di uno dei numerosi appellativi di Osiri. In proposito cfr. M. Tosi, Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto, vol. I, cit., pp. 92 sgg. 97 Inno ad Amon-Ra, VII, VIII, in Papiro di Bulaq 17, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 409. 37 Delle due regioni ultraterrene che avvolgono la terra parlano sia i Testi delle Piramidi che i Testi dei Sarcofagi. Descrizioni più ampie e dettagliate le troviamo, però, soltanto nei testi del Nuovo Regno dipinti sulle pareti e sui soffitti delle tombe reali. Il principio unificatore e organizzatore dei differenti livelli dell’esistente è il sole nel suo ciclo giornaliero. Durante il giorno esso porta luce e vita alla dimensione terrena, mentre durante la notte percorre la dimensione invisibile dell’aldilà, rappresentata come un mondo sotterraneo o come il corpo di Nut, la dea del cielo. Il sorgere mattutino del sole corrisponde alla vittoria sulle forze distruttive del non esistente e alla rinascita di tutto il creato. I cosiddetti libri dell’oltretomba descrivono il percorso notturno del sole nell’aldilà sotterraneo, chiamato duat. Questi testi, a differenza di quelli risalenti all’Antico e al Medio Regno, sono estremamente ricchi di immagini, che non sono delle semplici vignette accessorie, ma costituiscono un’unità formale con la parte scritta. I più antichi di questi testi, il Libro dell’Amduat e il Libro delle Porte, sono suddivisi in dodici sezioni, ciascuna delle quali è ripartita in tre registri. Ogni sezione rappresenta un’ora notturna del ciclo solare. Nel registro centrale di ciascuna ora è raffigurata la barca solare; il dio sole Ra appare nella sua forma notturna, a testa di ariete. I libri più recenti (Libro delle Caverne e Libro della Terra) presentano, invece, alcune varianti nell’impostazione: la suddivisione è organizzata in modo differente e la barca è sostituita dal disco solare. Di questo viaggio notturno ci limitiamo a evidenziare quegli aspetti che, a nostro avviso, contribuiscono meglio a far luce sull’ontologia e sulla concezione del mondo elaborate dagli Egizi. L’elemento che risalta maggiormente nei libri dell’oltretomba e che fa da sfondo a tutti gli altri è ancora una volta il rapporto irrinunciabile tra essere e non essere. Le acque che attraversano la duat, sulle quali naviga la barca solare, provengono dall’abisso del Nun e corrispondono sulla terra a quelle del Nilo. Come si è già riscontrato, il non esistente si riversa nell’esistente. Queste acque dell’aldilà, così come quelle del fiume che attraversa l’Egitto, manifestano principalmente l’aspetto rigenerante del non essere. Il lato oscuro e distruttivo delle forze del caos si incarna, invece, soprattutto nella figura mitica del serpente Apopi, che tenta incessantemente di arrestare la corsa solare e, quindi, il movimento dell’intero cosmo. Questo tentativo rimane, tuttavia, vano, grazie all’intervento delle forze favorevoli a Ra, impersonate da varie divinità, che bloccano l’azione del serpente. Un passo del secondo registro della settima ora del Libro dell’Amduat recita: 38 «Queste dee puniscono Apopi nella Duat, esse impediscono i progetti dei nemici di Ra. Così è fatto, esse portano i loro coltelli e puniscono Apopi nella Duat, ogni giorno».98 Questo intervento deve essere ripetuto quotidianamente, in quanto il serpente Apopi, che non fa parte dell’esistente, è indistruttibile e può essere fermato soltanto per un arco temporale limitato. Nella sesta ora della notte il sole raggiunge il punto più profondo e oscuro della duat. Si tratta del confine ultimo del creato; qui l’esistente sfiora l’«infinità» del non esistente. Questo abisso viene chiamato hetemyt (Htmyt), il cui significato è «luogo di distruzione» o «luogo dello sterminio». In questo luogo vengono puniti i dannati, ossia coloro che sono stati giudicati dal tribunale dei defunti come nemici dell’ordine cosmico. Diverse immagini dei libri dell’oltretomba mostrano le punizioni dei dannati. In esse vediamo braci ardenti, sangue, corpi fatti a pezzi, demoni punitori; motivi che ricordano le scene dell’inferno dantesco o quelle di alcuni quadri fiamminghi. La pena a cui sono sottoposti tutti i prigionieri di questi inferi è la perdita dell’identità personale, la distruzione del proprio nome, ossia la non esistenza. Nel Libro dell’Amduat i dannati vengono definiti «coloro che sono annientati» (Htmyw). Nella seconda sezione del Libro delle Caverne il dio sole si rivolge ai nemici di Osiri in questo modo: «O decapitati, che non hanno una testa, nel Luogo dello sterminio! O caduti, che non hanno un ba, nel Luogo dello sterminio! O voi, che poggiate sulla testa, incatenati nel Luogo dello sterminio! O voi, che poggiate sulla testa, sanguinanti, voi con il cuore strappato nel Luogo dello sterminio! O nemici del signore della duat, Osiri capo degli occidentali, io vi consegno alla distruzione, io vi condanno alla non esistenza! I macellatori […] vi massacrano […] Voi siete i nemici, così voi non esistete più e più vi trasformerete! […] Io vi consegno al Luogo dello sterminio, da cui i vostri bau non usciranno!».99 Da questo luogo non c’è possibilità di ritorno. Hornung per parlare di questi inferi utilizza l’espressione «buco nero». Nella scrittura geroglifica, infatti, troviamo un segno che si potrebbe definire proprio utilizzando l’espressione menzionata. Si tratta 98 Libro dell’Amduat, ora VII, registro II, trad. it. di A. Fornari e M. Tosi, in Nella sede della verità. Deir el Medina e l’ipogeo di Thutmosi III, Ricci, Milano 1987, p. 73. 39 di un cerchio tutto nero, presente già nei Testi delle Piramidi. Esso compare come determinativo in parole come «morte», «nemico», «fossa», «buco», o «Inferi». Questo segno grafico indica «ciò che non è». In qualche occasione, per esprimere il medesimo concetto, la scrittura egizia ricorre anche allo spazio vuoto.100 Come è tipico dei concetti del pensiero egiziano, tuttavia, il «luogo dello sterminio» presenta un contenuto polivalente. Nel punto più profondo della duat, infatti, ha luogo l’evento principale del viaggio notturno del sole: l’unione di Ra e Osiri, come ba e corpo101. In questo abisso riposa il cadavere del sole, immagine di Osiri. Nel Libro dell’Amduat, questi viene raffigurato avvolto da un serpente dalle molte teste che lo protegge e con uno scarabeo sul capo. Lo scarabeo (kheper) è il simbolo per eccellenza della rigenerazione. Il cadavere del sole contiene, dunque, il germe della vita. Per poter rinnovarsi e rinascere il sole, e con esso tutto il creato e ogni suo abitante, deve prima morire e disfarsi. E’ solamente dal disfacimento e dalla decomposizione che può manifestarsi una nuova esistenza.102 Ra, sfiorando nel corso del suo cammino l’abisso del non essere, si unisce in quanto ba al suo cadavere, chiamato «carne» (jwf). In questa immagine la speculazione egiziana sintetizza il concetto di «resurrezione della carne», mettendo in evidenza che l’esistenza, su qualunque piano della realtà si manifesti, rivela una imprescindibile componente corporea. A ulteriore conferma di ciò, lo stesso dio sole a testa di ariete che attraversa la regione della duat ha l’appellativo di «carne». L’unione tra il ba e il corpo, che si ripete ogni notte, costituisce la condicio sine qua non per la sopravvivenza ultraterrena di ogni defunto. Nel Libro dei Morti, il defunto invoca che il suo ba possa tornare a lui e discendere sulla propria mummia.103 Il ciclo giornaliero del sole, che mantiene in vita l’esistente, viene rappresentato dagli Egizi anche come un viaggio celeste, ambientato all’interno del corpo della dea Nut. La concezione del sole che nasce e viene, infine, inghiottito da Nut è presente già nei Testi delle Piramidi;104 essa viene sviluppata successivamente in alcuni testi che compaiono nel Nuovo Regno. Di questi, il Libro di Nut, descrivendo l’immagine della 99 Libro delle Caverne, sezione II, registro V. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung in Die Unterweltsbücher der Ägypter, Patmos Verlag, Düsseldorf 2002, p. 338. 100 In un punto del Libro delle Porte, per es., la parola «sterminati» è sostituita da uno spazio vuoto. In proposito cfr. E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 95. 101 Cfr., per es., Libro dell’Amduat, ora VI. 102 Nella Litania del Sole una delle 75 forme assunte da Ra è chiamata «colui che muore» (xpy). 103 Cfr. Libro dei Morti, cap. 89. 104 Cfr., per es., Pyr, 1417 b. 40 dea, traccia una sorta di topografia celeste. Il viaggio solare è compiuto durante la notte. Anche il Libro della Notte narra il cammino notturno del sole in un aldilà celeste che corrisponde, in sostanza, a quello sotterraneo. Ritroviamo, infatti, motivi come le tenebre e le acque primordiali, l’unione dei ba con i corpi, i defunti beati e dannati. La volta celeste viene rappresentata con le sembianze di una donna, il cui corpo incurvato e teso ad arco ricopre la terra; le sue gambe sono poste a oriente e la sua testa a occidente. E’ la dea Nut, che la sera inghiotte il sole e al mattino lo partorisce nella forma di uno scarabeo o di un fanciullo. Nel Libro del Giorno troviamo, invece, una descrizione della corsa diurna del sole nel corpo di Nut, speculare a quella notturna, ma anch’essa ambientata in una dimensione ultraterrena.105 Anche qui i temi presenti ricalcano quelli del mondo sotterraneo. La regione celeste si rivela, pertanto, speculare a quella sotterranea della duat. In questo contesto, il mondo terreno fa da spartiacque, o meglio, da asse tra due dimensioni ultraterrene simmetriche, confinanti con le acque del Nun. 6. Tra essere e non essere: il tempo Per disegnare la mappa dell’esistente in modo forse più efficace, potremmo anche raffigurarci la terra come un cerchio, concentrico ad un altro più ampio, che rappresenta l’aldilà nella sua duplice valenza di cielo e duat, il quale a sua volta è inserito nel «cerchio» illimitato del non esistente. In questa rappresentazione, il secondo cerchio corrisponde all’Uroboro, il serpente che circonda il mondo. Esso da un lato separa e protegge il creato dal non esistente, dall’altro mette in comunicazione le due sfere. Dall’incontro tra caos e cosmos scaturisce il movimento che anima l’esistente, il cui ritmo è cadenzato dal ciclo giornaliero del sole. Abbiamo rilevato che per il pensiero egizio il non esistente pervade l’intera creazione. A quanto emerge dai testi egizi, tuttavia, il luogo originario e privilegiato di questo incontro è la dimensione ultraterrena, lambita dalle acque e dalle tenebre primordiali. I libri del Nuovo Regno che descrivono l’aldilà forniscono ulteriori elementi che possono aiutarci a comprendere meglio la natura dell’interazione tra essere e non essere. In diversi punti di questi testi si parla del tempo. Abbiamo individuato precedentemente nei due aspetti della temporalità cosmica, neheh e djet, due 105 Sul percorso solare nel corpo di Nut, cfr. R. Schumann Antelme, S. Rossini, Nout, le cosmos des pharaons, Éditions du Rocher, Monaco 2007, pp. 197 sgg. 41 componenti di quella «quadratura» che consente e regola la manifestazione degli enti sui differenti piani dell’esistente. La struttura della dimensione ultraterrena appare, in ogni caso, principalmente di natura temporale; i settori in cui si articola la duat sono, infatti, ore solari. Esse emergono dalle profondità della creazione e cadono successivamente nel precipizio dove l’esistente e il non esistente vengono a contatto tra di loro. Questo «buco nero» rappresenta, così, anche il recipiente del tempo trascorso. In proposito, Hornung pone la questione in questi termini: «In questo luogo tutto il passato diventa presente. Ma le tenebre di questo buco non significano forse una rigenerazione anche per le ore che sono trascorse e “morte”, una rinascita rinnovata? Forse che le ore del passato ritornano trasformate e ringiovanite come ore del futuro, che diventano allora esse stesse il presente?»106 Se rispondiamo affermativamente a questi quesiti, il contatto tra essere e non essere che avviene nella «zona di confine» e che permette il movimento e il rinnovamento di tutto l’esistente, a nostro avviso, si configura anzitutto in senso «temporale». Si tratta di una temporalità non lineare, bensì a spirale, che ritorna cioè su se stessa senza formare un cerchio chiuso. La rigenerazione del creato non si presenta mai, infatti, come un «eterno ritorno», ossia come la perpetua ripetizione degli stessi eventi affermata da Eraclito, dagli Stoici e, molti secoli più tardi, da Friedrich Nietzsche. Ogni nuovo ciclo appare sempre diverso rispetto a quello precedente. L’«inversione» temporale che innesca la rinascita è raffigurata dagli Egizi nella dodicesima sezione del Libro dell’Amduat, corrispondente all’ultima ora della notte, quella che precede il sorgere del sole. A questo punto del suo viaggio, la barca solare deve attraversare il corpo di un gigantesco serpente, dalla coda alla bocca. La direzione rovesciata del rettile allude all’inversione del tempo. Tutto ciò che entra nella coda come vecchio e logoro esce dalla bocca in forma rinnovata (fig. 5). Così recita il testo di accompagnamento: «Essi trainano questo grande dio all’interno della spina dorsale del serpente “Che fa vivere gli dei”. I privilegiati di Ra sono dietro di lui e davanti a lui e nascono ogni giorno sulla terra, dopo la nascita di questo grande dio nell’oriente del cielo. Essi entrano in questa misteriosa immagine del serpente “Che fa vivere gli dei” come privilegiati. Essi escono come “giovani di Ra” ogni giorno».107 106 42 E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 115, sg. Fig. 5 (tomba di Amenhotep II)108 Questa inversione temporale che mantiene in vita il kosmos presuppone l’evento della morte. Ogni ente del creato per potersi perpetuare deve passare attraverso il proprio disfacimento. Si tratta di un tema centrale della cultura egiziana. Pur nella sua inevitabile drammaticità, la morte è concepita come un elemento funzionale alla vita. «Benché tu abbia dormito, tu vuoi risvegliarti! Benché tu sia morto, tu vuoi vivere!», affermano in modo sintetico i Testi delle Piramidi.109 Neanche gli dei possono sottrarsi a questa legge ineluttabile. Lo abbiamo riscontrato nel motivo della morte quotidiana e del ritorno alla vita del dio sole, che caratterizza i libri dell’oltretomba. Anche il Libro della vacca celeste narra di un dio sole divenuto ormai vecchio e debole, la cui condizione provoca la ribellione degli uomini malvagi, minacciando così l’ordine del mondo. Affinché l’ordine possa consolidarsi nuovamente, il dio sole nomina come suo sostituto il dio Thot. Ma il «mistero» della morte e della resurrezione degli dei e degli uomini, per l’uomo egiziano, è incarnato soprattutto nella figura di Osiri, dio dei morti e dell’oltretomba. Tra i numerosi epiteti di questa divinità troviamo quelli di «signore del tempo di 107 108 Libro dell’Amduat, ora XII, registro II, trad. it. di A. Fornari e M. Tosi, in Nella sede della verità, cit., p. 89. L’immagine è tratta da K. R. Weeks (a cura di), La Valle dei Re. Le tombe e i templi funerari di Tebe ovest, White star, Vercelli 2001, p. 144. 109 Pyr, 1975 b. 43 vita», «re dei viventi», «dio dalla durata infinita».110 Secondo il mito che ci è stato tramandato, Osiri, sovrano giusto e benefico, viene ucciso dal violento fratello Seth, che successivamente smembra il suo cadavere e ne disperde le parti. La sposa Iside, tuttavia, con l’aiuto di altre divinità, ricompone il corpo di Osiri e genera con lui un figlio postumo, Horo, che divenuto adulto riconquista il trono del padre usurpato da Seth. Osiri rappresenta, quindi, il prototipo di colui che, passando attraverso il disfacimento e la decomposizione, vince la morte e si trasfigura in un individuo nuovo. Un passo dei Testi dei Sarcofagi parla del defunto in questi termini: «Questo N è il germoglio di vita che è uscito da Osiri, che è cresciuto sulle labbra di Osiri, che fa vivere gli dei, che divinizza [snTr(w)t] gli dei, che trasfigura [sAx(w)t] i defunti beati [Axw], […] che fa prosperare i viventi e che fortifica le membra [Haw] dei viventi».111 Il sancta sanctorum in cui dimora Osiri è il punto più profondo della Duat, dove il non esistente incontra l’esistente. Qui ha luogo l’unione di Ra e Osiri, evento che rende possibile l’inversione del tempo. Quest’ultima si compie immediatamente prima del sorgere del sole, durante l’ultima ora della notte. Nel registro inferiore della dodicesima sezione del Libro dell’Amduat, dove viene raffigurato questo tema, troviamo ancora l’immagine di Osiri (fig. 5). È, infatti, questo dio la chiave che regola la marcia temporale e quindi il movimento solare che da vita al cosmo. Le divinità che attendono la rinascita del sole si rivolgono a Osiri con queste parole: «Vivi, vivi, tu che risiedi nelle tenebre tue, vivi o grande che sei nelle tenebre tue, Signore della vita, Signore dell’Occidente, Osiri che è a capo degli Occidentali. Ecco, vivi, vivi tu che sei a capo della Duat. Il soffio di Ra è per le tue narici, il respiro di Khepri è davanti a te e tu vivi una vita. Salve, Osiri, Signore della vita».112 Accanto alla figura di Osiri troviamo, tuttavia, anche quella di un archetipo femminile che, attraverso un processo di gestazione, rigenera l’individuo anziano e debole. Il tema della morte e dell’inversione temporale è interpretato in questo caso come un «ritorno a casa» o «un ritorno nel grembo materno». Questo aspetto è stato approfondito da Assmann, che ha esaminato le iscrizioni dei sarcofagi in cui una divinità si rivolge al defunto «in quanto bara e in quanto madre». Esistono migliaia di queste iscrizioni, a partire dall’Antico Regno: 110 Relativamente agli epiteti di Osiri, cfr. supra, p. 37, nota 96. 111 CT, formula 269. 112 Libro dell’Amduat, ora XII, registro III, trad. it. di A. Fornari e M. Tosi, in Nella sede della verità, cit., p. 90. 44 «Re Teti è il mio figlio più anziano, quegli che ha aperto il mio corpo, il mio amato, da cui ho tratto piacere». Sul coperchio della bara del faraone Merenptah (XIX dinastia), leggiamo invece: «Sono tua madre che sugge la tua bellezza, m’ingravido di te all’alba e ti partorisco la sera come dio Sole. Tu entri in me, io abbraccio la tua immagine, sono la tua bara, per celare il tuo segreto aspetto». Un’altra iscrizione sepolcrale recita: «Ti depongo dentro di me, ti partorisco una seconda volta, sí che tu entri ed esca sotto le stelle imperiture, e sia eletto, vivo e ringiovanito come il dio Sole giorno dopo giorno».113 Nei sarcofagi del periodo tardo, questa divinità materna viene spesso dipinta all’interno del coperchio, con le sembianze della dea del cielo Nut. La figura è disposta nell’atto di distendersi sopra il defunto per accoglierlo in sé e tenerlo in gestazione. Assmann parla dell’unione del defunto con la «madre» come di una imitatio Solis. Gli inni al Sole, nel descrivere il moto circolare dell’astro, ripropongono, infatti, le stesse immagini e le stesse parole utilizzate nei testi funebri. Nut accoglie in sé il Sole la sera e lo partorisce all’alba: «Colui che di notte è portato in grembo ed è partorito all’alba, che al rischiararsi del cielo è nel suo posto di ieri. Colui che entra nella bocca ed esce dalle cosce, […] risorgendo senza stancarsi, per irradiare le terre e le isole, corridore che corre eternamente in cerchio, che non cessa di irradiare giorno dopo giorno».114 Commenta Assmann: «Il Sole esemplifica ciò in cui ognuno vorrebbe imitarlo: mutare la linea dritta della vita in un tratto circolare, così da poter tornare all’origine, superare la morte attribuendole la funzione del concepimento e facendola coincidere con la nascita».115 I concetti strettamente collegati di morte, inversione temporale e rigenerazione sono sviluppati, dunque, secondo due direzioni: quella del principio «paterno», impersonato da Osiri, e quella della «Grande Madre» Nut. Si tratta, tuttavia, di approcci complementari: il defunto diventa Osiri e in quanto tale è accolto nel grembo materno di Nut, dove viene rigenerato.116 Sia il singolo individuo che l’intero 113 J. Assmann, La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, trad. it. di U. Gandini, Einaudi, Torino 2002, p. 18. 114 Ibid., p. 29. 115 Ibid. 116 Cfr. infra, pp. 106 sg. 45 cosmo si uniformano, dunque, al ciclo del Sole, che ogni notte si unisce a Osiri e viene, poi, nuovamente partorito al mattino. L’inversione del tempo, che costituisce l’elemento essenziale del movimento cosmico, risponde, a nostro avviso, a un ideale che potremmo definire di «eterno presente». Per chiarire meglio questo aspetto, ci soffermiamo ancora, brevemente, sul termine neheh. Esso esprime la totalità del tempo dell’esistente, nel suo aspetto dinamico, ciclico.117 Nella sua grafia geroglifica, questo termine è composto dal segno del sole circondato da due corde doppiamente annodate che formano ciascuna tre anelli:118 Abbiamo rilevato che l’immagine della corda doppia è utilizzata nel Libro delle Porte per indicare il tempo. I tre anelli potrebbero alludere ai differenti livelli della realtà, intessuti di tempo. La presenza di due corde rimanderebbe, invece, alla natura duale e simmetrica del cosmo. Seguendo questa interpretazione, potremmo dire che il principio solare irradia la sua luce nella totalità spazio-temporale del creato. La luce solare è sempre e ovunque. Se riteniamo, tuttavia, che neheh esprima un concetto fondamentalmente dinamico, il tempo, allora, generato dall’incontro tra essere e non essere, può essere pensato come il tessuto cosmico che tiene in movimento, e quindi in vita, ciò che esiste, garantendogli un costante rinnovamento. In virtù di questo meccanismo, il cosmo nel suo complesso e gli individui che si uniformano alla legge che lo governa si mantengono nel «presente». 7. Maat, ritmo e coesione dell’esistente Una delle scene più significative ed efficaci che troviamo raffigurate nei templi egizi è l’«offerta della Maat». Il faraone offre agli dei una piccola immagine di dea accovacciata, che porta, come suo attributo caratteristico, una piuma di struzzo sulla testa. La nozione di «Maat», come hanno chiarito le ricerche di alcuni egittologi, costituisce il trait d’union di tutti i contenuti principali in cui si articola la 117 Cfr. J. Assmann, La notion d’éternité dans l’Égypte ancienne, cit., pp. 116 sgg. Cfr. anche S. Bickel, Temps liminaires, temps meilleurs? Qualifications de l’origine et de la fin du temps en Égypte ancienne, in V. PirenneDelforge, Ö. Tunca (a cura di), Représentations du temps dans les religions, cit., pp. 44 sg. 118 Questa che riportiamo è una delle varianti grafiche del termine. 46 speculazione egiziana.119 Questo concetto può, quindi, fornirci un’importante chiave per una comprensione più approfondita della cultura dell’antico Egitto. Maat (mAat), oltre a essere il nome di una dea, è un termine della lingua egiziana che il celebre Wörterbuch der aegyptischen Sprache curato da Erman e Grapow traduce das Rechte (la giustizia) o die Wahrheit (la verità).120 Nella prima metà del XX secolo, infatti, l’egittologia interpretava questa nozione più che altro in senso etico. Successivamente si è affermata una nuova interpretazione che identifica Maat con l’«ordine cosmico». Curiosamente questa idea è maturata in un contesto «filosofico» e solo in seguito è stata recepita dagli egittologi. Negli anni Venti del secolo scorso, Ernst Cassirer parlava già di Maat come dell’«ordine universale». Nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche leggiamo, infatti: «Il nome che indica la misura perfettamente esatta e immutabile (maat) diventa anche qui il nome per designare l’ordine eterno ed immutabile che regna nella natura come nei costumi. Questo concetto della “misura”, nel suo duplice significato, è stato perfino indicato quale base dell’intero sistema religioso degli Egizi».121 Anche Jaspers riprende la nozione di Maat nell’opera Origine e senso della storia. In questo contesto, Jaspers introduce il concetto di «età assiale» (Achsenzeit) per indicare l’epoca storica più lontana nel passato nella quale possiamo ancora trovare le tracce del nostro universo intellettuale. Questo spartiacque culturale, come abbiamo già rilevato nell’introduzione, si situerebbe intorno al 500 a.C. (più o meno trecento anni). Con l’età assiale, secondo il filosofo, si genera una tensione tra l’ordine trascendente e la realtà del mondo. Prima di questa svolta storica, invece, veniva concepito un unico ordine immanente: l’ordine cosmico, cioè Maat. L’Egitto appare, dunque, a Jaspers come un mondo opposto al nostro, come il modello di una civiltà «preassiale».122 Attualmente questo orientamento nei confronti di Maat è accolto anche dagli egittologi. Nel recente dizionario della lingua egiziana di Rainer Hannig, alla voce 119 In proposito, cfr. J. Assmann, Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, cit. Cfr. anche B. Menu, Maat. L’ordre juste du monde, Éditions Michalon, Paris 2005. 120 Cfr. Wb, II, pp. 18 sgg. 121 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. II, Il pensiero mitico, trad. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1964, p. 164. 122 Sul concetto di «età assiale» cfr. K. Jaspers, Origine e senso della storia, cit., pp. 19 sgg. 47 maat, accanto alle classiche traduzioni Gerechtigkeit e Wahrheit troviamo, infatti, il termine Weltordnung (ordine universale).123 Maat è una concezione antichissima che risale alle origini della storia egiziana.124 Durante l’Antico Regno la ritroviamo, per esempio, nei Testi delle Piramidi: «Il cielo è in pace e la terra è in gioia, dopo che essi hanno appreso che Neferkara offrirà Maat al posto di Isefet».125 In quanto principio normativo di un cosmo duale, Maat è essa stessa duplice: «Shu ha giudicato Unis con Tefnet, le due Maat hanno ascoltato, Shu era testimone e le due Maat hanno ordinato di consegnargli i troni di Geb […] che Unis salga verso Maat, affinché egli possa condurla con lui».126 Maat è espressione di due ordini distinti ma complementari: quello celeste o ultraterreno e quello terreno. Questa divinità si manifesta, infatti, «in due persone diverse (interpretate anche come i due occhi di Ra, sole e luna) ma della stessa essenza, come due sorelle gemelle».127 Nelle fonti dell’Antico Regno, tuttavia, si parla di Maat come di un concetto ben conosciuto, che non è necessario spiegare. Si tratta cioè di un elemento implicito, che si sottrae a una tematizzazione completa, in quanto è già visibile in modo evidente nell’agire del re. Questi, infatti, rappresenta l’istituzionalizzazione e l’incarnazione della legge cosmica.128 Con la caduta della monarchia dell’Antico Regno questa evidenza viene meno e la nozione di Maat, divenuta problematica, viene tematizzata. I testi in cui questa concezione viene maggiormente esplicitata sono quelli conosciuti sotto il nome di «letteratura sapienziale». Alcuni di questi testi assumono la forma di un insegnamento impartito da un padre ormai prossimo alla morte al proprio figlio. Lo scopo degli insegnamenti è quello di illustrare un comportamento conforme alla Maat. Altri testi, invece, impostati come dei lamenti, descrivono un mondo privo di Maat, per dimostrare la necessità di quest’ultima. 123 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 335. 124 In proposito, cfr. B. Menu, Maat. L’ordre juste du monde, cit., pp. 15 sgg. 125 Pyr, 1775 a-b. Isefet, menzionata nel passo, è il «disordine», l’esatto opposto di Maat. 126 Pyr, 317 a-c; 319 b. 127 B. Menu, Maat. L’ordre juste du monde, cit., p. 11. 128 Il sovrano è il garante della giustizia terrena; egli «conferma» (smn), pertanto, l’insieme delle norme che regolano il complesso delle attività sociali. Non si è a conoscenza, tuttavia, dell’esistenza di un codice legislativo anteriore a quello redatto in età tarda, per iniziativa di Dario I. Precedentemente all’istituzione di questo codice, le regole del diritto sono distribuite nell’ambito di più fonti, di carattere liturgico, amministrativo e giuridico. L’insieme di tutti i regolamenti viene denominato hepu (hpw), termine che sembra essere desunto dal linguaggio dei geometri, che utilizzano una corda-hep per effettuare misurazioni. In proposito, cfr. ibid., pp. 62 sgg. 48 Tra gli insegnamenti, Bernadette Menu segnala, in particolare, le Massime di Ptahhotep. Secondo l’egittologa, infatti, in questo scritto sarebbe esposta una «teoria della Maat» che illustrerebbe il comportamento sociale che si confà a un dignitario chiamato a esercitare delle funzioni importanti.129 Tra i lamenti c’è, invece, un’opera conosciuta come L’oasita eloquente che, secondo Assmann, costituisce un vero e proprio Trattato su Maat. A un certo punto della narrazione leggiamo: «Non c’è ieri [sf] per il pigro! Non c’è amico per chi si è mostrato sordo a Maat! Non c’è giorno felice per l’avido!».130 Nella pigrizia, nella sordità mentale e nell’avidità Assmann individua i tre elementi opposti a Maat. La pigrizia si manifesta come mancanza di azione. Il kosmos egiziano è, invece, dinamico nella sua essenza ed esige che ogni ente si uniformi al suo movimento. Il compito dell’uomo è quello di contribuire al buon funzionamento dell’«ingranaggio dell’agire», mantenendo il passato nel presente. Ciò che valeva ieri deve valere anche oggi. In altri termini, l’azione non deve essere improvvisata, ma deve mostrare coerenza e continuità relativamente al contesto in cui è inserita. Questo aspetto viene ribadito dall’oasita in un altro passo del testo: «Ma è al suo posto di ieri che una buona azione ritorna sempre! E’ come ordinare a se stessi: “Agisci in favore di colui che agisce, per far sì che egli agisca!” E’ come ringraziare un dio, per ciò che egli realizza!».131 Agire per colui che agisce significa realizzare Maat. Il pigro dimentica lo «ieri» e così facendo spezza il legame tra l’azione e le sue conseguenze. Un tale atteggiamento provoca la disgregazione del mondo sociale. Scrive Assmann: «L’agire solidale presuppone una memoria sociale, ossia un orizzonte di motivazioni che non si costituisce sempre di nuovo di giorno in giorno secondo gli interessi del momento, ma che risale al passato, che include ieri e oggi e che ricollega l’oggi allo ieri. Questo si chiama l’agire pienamente responsabile nel senso di Maat».132 Come il contrario della pigrizia è l’agire, il contrario della sordità mentale è l’ascolto o, più in generale il linguaggio. La parola per l’uomo egiziano è un veicolo di vita e d’integrazione sociale. 129 Cfr. ibid., pp. 25 sgg. 130 L’Oasita eloquente, B2, 109-111; la trad. si basa su quella francese di P. Grandet, in Id. (a cura di), Contes de l’Égypte ancienne, Khéops, Paris 2005, p. 62. Per il testo geroglifico, cfr. R. B. Parkinson (a cura di), The tale of the eloquent peasant, Griffith Institute, Ashmolean Museum, Oxford 1991. 131 Ibid., B1, 140-141, in Contes de l’Égypte ancienne, cit., p. 50. 132 49 J. Assmann, Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, cit., p. 62. Il discorso vivificante e solidale per eccellenza è Maat. Chi è sordo alla parola di Maat è escluso dalla vita. L’avidità, infine, in quanto mancanza di condivisione e isolamento egoistico, è un ulteriore fattore di disgregazione sociale. L’importanza dell’ascolto e della generosità nei confronti degli altri viene posta in risalto anche dalle Massime di Ptahhotep. L’ordine universale che regge tutto l’esistente, per l’Egiziano, si deve declinare nella struttura della società umana e nel comportamento dei singoli individui. In questo contesto, l’elemento temporale si rivela, a nostro avviso, ancora una volta decisivo. Se, infatti, il movimento che anima il cosmo si configura anzitutto in senso temporale, Maat, allora, è il ritmo che scandisce lo scorrere del tempo, mantenendo lo ieri nell’oggi. Questo aspetto richiama il concetto di «eterno presente» delineato nel paragrafo precedente e, di conseguenza, il termine neheh. Le parole dell’oasita sembrano confermare questa lettura: «Tuttavia Maat è per l’eternità [nHH]! Con colui che la pratica, essa discende nella necropoli. Egli è sepolto, la terra si è richiusa su di lui, ma non si può cancellare il suo nome quaggiù: lo si ricorda a proposito del bene, perché è un modello della parola divina!».133 Il termine tradotto in questo passo con «eternità» è proprio neheh. Rileviamo, inoltre, che nei Testi dei Sarcofagi alla dea viene attribuito l’appellativo di «signora dell’eternità-neheh» (nbt nHH).134 Maat dona l’eternità, intesa come «eterno presente», a colui che in vita si è uniformato a lei. Il nome del defunto che ha realizzato Maat «vibra», infatti, con lo stesso ritmo del creato. E il nome per gli egiziani è ciò che garantisce la sopravvivenza dell’identità personale. L’individuo diventa, così, specchio dell’ordine cosmico, inserendosi a pieno titolo nella dimensione dell’eterno presente. Le azioni non in sintonia con Maat non hanno durata; esse possono portare solo a un risultato temporaneo e perciò sostanzialmente vano: «Ma, se la menzogna si mette in marcia, si smarrisce; non può attraversare con il traghetto né andare spedita! Colui che si arricchisce con essa non ha né figli né eredi sulla terra! Colui che naviga con essa non può toccare terra, né la sua imbarcazione può ormeggiarsi al proprio porto!».135 133 L’Oasita eloquente, B1, 338-342, in P. Grandet (a cura di), Contes de l’Égypte ancienne, cit., p. 60. 134 Cfr. CT, VII, 175 b. 135 L’Oasita eloquente, B2, 98-103, in P. Grandet (a cura di), Contes de l’Égypte ancienne, cit., pp. 61 sg. 50 Nella «confessione negativa» contenuta nel Libro dei Morti il defunto nega tutte quelle azioni che si riferiscono non a Maat, ma al suo contrario, Isefet, il «disordine».136 Allo stesso modo, il compito più alto del faraone e dell’istituzione statale è quello di rendere il mondo abitabile, realizzando l’ordine armonico di Maat e allontanando Isefet. Nella tomba tebana di Neferhotep, leggiamo: «Oh Ra, generatore di Maat, è a lui che la si offre. Poni Maat nel mio cuore [jb], affinché io la faccia salire al tuo ka, poiché so che tu vivi d’ella e che sei tu che hai creato il suo corpo [Dt]».137 Maat proviene dal dio demiurgo e a lui ritorna sotto forma di offerta. Questo «cerchio sacrificale» è il principio di coesione dell’esistente. L’offerta della Maat rappresenta la risposta umana al principio primo solare e alle sue ipostasi divine. Osserva Hornung: «Gli dei non hanno bisogno di nessuna offerta materiale, ma della risposta dell’uomo alla loro esistenza […] La mancanza di risposta e il silenzio sono caratteristiche del non esistente, mentre a ciò che esiste appartiene il dialogo vivente e ininterrotto tra dio e l’uomo».138 Il faraone, rappresentante dell’umanità, e gli dei, offrendosi reciprocamente Maat, condividono lo stesso «cuore» e lo stesso nutrimento e in questo modo partecipano della stessa temporalità neheh. 8. Ontologie a confronto: un quadro sintetico Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di fare emergere quelli che ci sembrano i punti chiave del pensiero ontologico egiziano e di delineare in sintesi la visione del mondo che ne consegue. Abbiamo individuato nelle nozioni di dualismo, complementarietà e movimento i punti di riferimento essenziali attorno ai quali si organizza questa speculazione. Il kosmos egiziano è per sua natura duale e si regge sulla complementarietà degli opposti. L’esistente, tuttavia, non può sussistere indipendentemente dal non esistente. La dualità si ripropone, quindi, in modo ancora più radicale. Dall’interazione tra ciò che è e ciò che non è scaturisce il movimento e la possibilità per il kosmos di rinnovarsi periodicamente. Secondo la nostra lettura della «filosofia» egiziana, il movimento che anima l’esistente si configura anzitutto in 136 137 Cfr. Libro dei Morti, cap. 125. La trad. segue quella tedesca di J. Assmann, in Id., Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, cit., p. 191. Per il testo geroglifico, cfr. N. de G. Davies, The tomb of Nefer-hotep at Thebes, New York 1932, tav. 37. 138 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 193. 51 senso temporale. Il «ritmo» di questa temporalità è Maat, ordine e principio di coesione universale. Abbiamo iniziato la nostra indagine richiamando alcuni elementi essenziali dell’ontologia greca, allo scopo di inquadrare meglio il problema. Alla luce delle analisi sviluppate, vorremmo rivolgerci di nuovo al mondo greco, per calibrare ulteriormente la nostra prospettiva sul pensiero egiziano. Avevamo già sottolineato la divergenza di fondo tra l’impostazione parmenidea e quella egiziana. Che cosa emerge, invece, da un confronto schematico tra le posizioni ontologiche di Platone e Aristotele, ben più articolate e strutturate di quella di Parmenide, e le concezioni dell’antico Egitto? Platone si sforza di offrire un’analisi del concetto di «non essere» mediante la quale esso possa avere diritto di cittadinanza nell’ambito di una riflessione ontologica. Il filosofo associa il non essere al genere «diverso». L’essere, partecipando di questo genere, può, così, presentarsi come molteplice. All’interno della sfera dell’essere si possono distinguere due regioni: il mondo intelligibile e quello sensibile. Queste due regioni, tuttavia, non costituiscono i termini complementari in cui si manifesta l’intero. Il mondo sensibile è, infatti, soltanto una copia o un’«imitazione» (mivmhsi~) del mondo delle idee. Si tratta di una realtà intermedia tra il «vero essere» e il non essere assoluto. Di questa realtà che partecipa dell’essere e del non essere non può esserci «scienza» (ejpisthvmh), dal momento che solo «ciò che pienamente è, è pienamente conoscibile».139 Il diverso valore ontologico degli oggetti che popolano la sfera dell’essere si riflette, dunque, sul piano conoscitivo: «Se quindi la conoscenza si riferisce all’essere, e l’ignoranza al non essere, per ciò che è e non è dovremmo trovare un medio fra l’ignoranza e la scienza, se pure esiste una simile cosa?»140 La forma di conoscenza che si riferisce alla realtà sensibile è l’«opinione» (dovxa). Anche in un altro contesto, Platone ribadisce la differenza tra «l’essere [on] che sempre è e che non ha nascimento» e «quello che sempre si genera e mai non è».141 Il mondo sensibile conosce generazione e corruzione; le idee sono, al contrario, modelli eterni, ingenerati e incorruttibili. 139 Platone, Repubblica, 477 a, trad. it. di F. Adorno, in Id., Dialoghi politici, lettere, vol. I, Utet, Torino 1970. 140 Ibid., 477 a-b. 141 Platone, Timeo, 27 d, trad. it. di F. Adorno, in Id., Dialoghi politici, lettere, vol. I, cit. 52 Il tempo che scorre è un attributo del mondo sensibile; esso viene definito nel Timeo «un’immagine mobile dell’eternità» (kinhtovn tina aijw`no~).142 L’eternità del vero essere, della dimensione delle idee, si riflette, dunque, nella «durata», ossia nel ritmo di passato, presente e futuro, scandito dal moto degli astri. Il tempo ha un’origine, ma probabilmente non una fine, in virtù della sua somiglianza con l’eternità: «Il tempo, dunque, ebbe origine insieme al cielo, sì che generati insieme, anche insieme si dissolvano, se mai debbano dissolversi, ed è sul modello dell’eterna natura che è stato fatto, di modo che, quanto più è possibile, le somigli. E poiché il modello è per tutta l’eternità, il cielo per tutto il tempo è esisitito, esiste ed esisterà».143 Nella speculazione egiziana il mondo celeste (o quello della duat) è considerato più perfetto di quello terreno; tuttavia, l’intero esistente è «generato» e soggetto alla corruzione. Non viene postulata una dimensione nettamente privilegiata. Il dio demiurgo degli Egizi, infatti, pone in essere tutti gli enti, inserendoli allo stesso modo nel ciclo vita-morte. Anche gli dei sono generati e «mortali». Soltanto il non essere non è soggetto alla generazione e alla corruzione, poiché in esso non c’è movimento. Il dio creatore della teologia eliopolitana, Atum, si autogenera nell’abisso primordiale del Nun. Egli partecipa dell’essere e del non essere e, secondo quanto afferma il Libro dei Morti, insieme a Osiri sopravvivrà alla creazione, sotto diversa forma.144 L’esistente è finito, nello spazio e nel tempo, ma il suo germe si mantiene nel Nun. Nella filosofia di Aristotele il mondo sensibile assume anch’esso il rango di vero essere. Per questa ragione, al cosmo viene attribuita quella stessa eternità che caratterizzava l’Iperuranio platonico. Il mondo aristotelico non ha mai avuto inizio e non avrà mai fine. Sono eterne le sfere celesti, costituite da etere, e sono eterne le specie degli esseri viventi che popolano la terra. Il tempo è una proprietà del movimento, che caratterizza la realtà sensibile. Esso è continuo come il movimento; nel continuo si distinguono il «prima» e il «poi»; di qui la celebre definizione del tempo come «il numero del movimento secondo il prima e il poi».145 Come il mondo, anche il tempo non ha né origine né fine. Lo Stagirita distingue molti significati di «essere», irriducibili a un unico genere. Questi significati non denotano, tuttavia, i livelli di una stessa realtà che degrada 142 Ibid., 37 d. 143 Ibid., 38 b-c. 144 Cfr. Libro dei Morti, cap. 175. 145 Cfr. Aristotele, Fisica, IV, 11, 219 a, 10 – b, 8. 53 verso il non essere. Si tratta di aspetti qualitativamente differenti, dei quali l’essere si predica sempre a pieno titolo. Essi hanno il loro centro unificatore nella categoria di «sostanza» (oujsiva). Nella metafisica aristotelica, la sostanza gode, quindi, di un primato ontologico rispetto agli altri significati di «essere»: «l’essere in senso primario, ciò che non è un essere qualche cosa, ma è un essere in senso assoluto, è la sostanza».146 Tra le sostanze esistenti, quelle immobili e immateriali, cioè i motori celesti, detengono a loro volta un primato, poiché sono «atto puro». Anche nel pensiero egizio, il mondo sensibile è essere a pieno titolo; esso partecipa dell’esistente tanto quanto il mondo soprasensibile. Per un altro verso, tuttavia, la prospettiva egiziana è capovolta rispetto a quella aristotelica. Per gli Egizi, infatti, ciò che è «eterno» in senso assoluto non è l’esistente, bensì l’oceano oscuro del Nun. Questa condizione primordiale la possiamo intendere come «potenza pura». Non troviamo, invece, la concezione di una sostanza immobile che è eternamente in atto. Lo stesso dio demiurgo, in quanto mediatore tra il non esistente e l’esistente, partecipa necessariamente anche della «potenza». Torniamo ancora all’ontologia platonica. In essa sono riscontrabili due cesure. Una è presente all’interno di ciò che è: esiste una dimensione intelligibile che rappresenta il «vero» essere e ce n’è un’altra sensibile che non è essere in senso pieno. L’altra viene posta, invece, tra l’essere nella sua totalità e il non essere assoluto. Nell’ontologia egiziana, il rapporto tra le differenti regioni dell’essere e quello tra essere e non essere sono più flessibili; si tratta, infatti, di aspetti inscindibili di un’unica realtà. Il non essere «assoluto», inoltre, è un concetto ambivalente: da un lato rappresenta l’indifferenziato, ciò che è immobile e privo di qualsiasi attributo, dall’altro è l’oceano primordiale che contiene in potenza il seme dell’essere. Questa ambivalenza, come abbiamo visto precedentemente, si riversa nel rapporto tra esistente e non esistente. Quest’ultimo costituisce, infatti, per tutto ciò che è sia un elemento distruttivo, «corrosivo», sia una possibilità di rinnovamento e di rigenerazione. All’interno dell’esistente, la dimensione invisibile o «divina» e quella terrena sono complementari. Gli uomini necessitano dell’intervento degli dei, ma la sfera divina, a sua volta, ha bisogno della risposta degli uomini. E’ il «cerchio sacrificale» di cui 146 54 Aristotele, Metafisica, VII, 1, 1028 a, 30-31. abbiamo parlato. E’ la legge di Maat che mantiene in vita il creato. Questa legge di armonia toglie ogni attrito e ogni iato tra le parti dell’esistente. Nel kosmos egiziano gli dei hanno pari dignità. E’, infatti, una caratteristica della teologia egiziana l’attribuzione dell’appellativo «dio più grande» agli dei più diversi. Anche dei di importanza puramente locale possono ricevere questo appellativo. «Nel caso di Atum – afferma Hornung – sappiamo che presenta caratteristiche speciali come creatore del mondo e dio originario e che partecipa del non esistente, ma non è in nessun modo un dio sopra e dietro le altre divinità. “Il più grande” è senz’altro un antico e importante appellativo di Atum, ma già nell’Antico Regno anche altri dei rivendicano il diritto di essere “i più grandi”».147 La medesima pari dignità accomuna, per gli Egizi, anche gli uomini, almeno a partire dal Medio Regno. Uno dei più celebri studiosi della cultura greca, Werner Jaeger, ha sostenuto che l’idea di uomo è stata scoperta dai Greci, perché essi hanno scoperto la paideia, l’educazione dei fanciulli. La paideia consiste essenzialmente nel proporre un modello universale di uomo che deve essere progressivamente realizzato: «I Greci […] rappresentano rispetto ai grandi popoli storici dell’Oriente un “progresso” radicale, un nuovo “grado” in tutto ciò che concerne la vita dell’uomo nella comunità. […] la storia di ciò che possiamo chiamare cultura, nel nostro senso consapevole, non comincia che coi Greci».148 Le tesi hegeliane forniscono indubbiamente un supporto a questa concezione. Hegel ha affermato che la differenza tra il mondo greco e quello orientale antico consiste nella scoperta della libertà. Quest’ultima è ciò che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli altri animali. La scoperta della libertà corrisponde, quindi, alla scoperta dell’idea di uomo. E’ per questo motivo, secondo Hegel, che la filosofia nasce in Grecia, poiché c’è filosofia solo dove c’è libertà: «la più alta e più libera scienza filosofica, come pure la nostra bella e libera arte e il gusto e l’amore di esse, noi sappiamo che hanno le loro radici nella vita greca, al cui spirito si sono abbeverate. Se fosse permesso avere una nostalgia, questa si volgerebbe a siffatto paese e alla sua civiltà».149 147 148 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 167 sg. W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. I, trad. it. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1936, p. 3. 149 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 168. Hegel riconosce, tuttavia, che in Grecia l’uomo è libero non in quanto uomo, ma in quanto greco o in quanto cittadino. Questa è la differenza, secondo il filosofo, tra la civiltà greca e quella «cristianogermanica». 55 In Egitto, tuttavia, durante il Medio Regno, ossia almeno un millennio prima della nascita del mondo culturale greco, viene proclamato quello che potrebbe definirsi «un programma egiziano di “libertà, uguaglianza, fraternità”».150 In un famoso passo dei Testi dei Sarcofagi, infatti, il dio demiurgo afferma: «Io ho compiuto quattro buone azioni all’interno del portico dell’orizzonte. Ho creato i quattro venti, affinché ogni uomo potesse respirare nel suo tempo. Questa è una delle azioni. Ho creato la Grande Inondazione, affinché l’umile potesse avere lo stesso potere del grande. Questa è una delle azioni. Ho creato ogni uomo come il suo compagno, senza che fosse deciso che essi potessero fare il male [jsft]: sono i loro cuori [jbw] che hanno infranto ciò che avevo detto! Questa è una delle azioni. Io ho fatto che i loro cuori [jbw] cessassero di dimenticare l’Occidente, allo scopo di preparare delle offerte divine agli dei dei nômi. Questa è una delle azioni».151 L’ontologia egiziana postula, dunque, un sostanziale equilibrio tra le parti dell’esistente. Lo stesso ordine che regola la sfera divina è anche l’unità di misura dell’agire umano, che rende gli uomini simili tra loro. Maat non è mai l’espressione degli interessi di un singolo gruppo. Essa si pone al di là dell’ordine sociale, legando tra loro tutti gli esseri del creato. L’uomo, da parte sua, dispone di un notevole grado di libertà; egli può scegliere se conformarsi all’ordine cosmico o contravvenire a esso. Chi non agisce secondo Maat, però, si avvicina all’aspetto negativo e distruttivo del non esistente. Per quale motivo un uomo sceglie di allontanarsi dall’ordine armonioso del creato? Si potrebbe rispondere: per «miopia». Secondo i Testi dei Sarcofagi, infatti, gli uomini nascono dalle lacrime del dio creatore: «Le lacrime [rmyt] sono ciò che ho prodotto a causa del tumulto contro di me. Gli uomini [rmT] appartengono alla cecità che è dietro di me».152 Questa enunciazione si fonda sull’assonanza di due parole: remyt remet (rmyt), lacrima, e (rmT), uomini, umanità. Nella Litania del sole, una delle forme di manifestazione del dio Ra viene chiamata 150 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 177. 151 CT, VII, 462d-464f. 152 CT, VI, 344 f-g. Cfr. anche ibid., VII, 465 a. 56 remy (rmy), il piangente. Poiché gli uomini provengono dagli occhi appannati del demiurgo, essi, per natura, non vedono chiaramente le cose. Questo deficit visivo, e quindi conoscitivo, può essere, tuttavia, colmato. Chi non è così miope da allontanarsi definitivamente dalla legge di Maat ha la possibilità, dopo la morte, di diventare un akh, un «trasfigurato», e di condividere, oltre al luogo, anche la visione limpida degli dei. 57 CAPITOLO II L’INDIVIDUO COME RETE DI RELAZIONI Nel capitolo precedente abbiamo delineato in sintesi la visione del mondo sviluppata nel corso della storia dell’Egitto faraonico. Il cosmo è il risultato di una differenziazione: dalla distesa unitaria e informe delle acque primordiali del Nun emerge un principio demiurgico, virtualmente contenuto in essa, che opera il passaggio dal non esistente all’esistente. Abbiamo posto l’accento sul fatto che il mondo nel suo complesso, divino e umano, manifesta la struttura di un corpo, ossia di un insieme dinamico di membra cooperanti. Alla luce di quanto rilevato, rivolgeremo ora la nostra attenzione a una sfera più circoscritta. L’ambito in questione è quello che potremmo definire «antropologico». Ci occuperemo, dunque, della concezione egiziana dell’essere umano in generale e della sua dimensione corporea. Come evidenzieremo meglio in seguito, il «filosofo» egiziano avverte la necessità di disporre di una pluralità di linguaggi per veicolare in modo adeguato i contenuti di un mondo che si manifesta molteplice e dinamico e, pertanto, irriducibile a una codificazione rigida e schematica. Nel suo divenire, tuttavia, la realtà segue un ordine; essa, infatti, è la risultante di una rete di relazioni che articola e organizza gli enti che la compongono, rendendoli complementari e commensurabili tra loro. L’essere umano, parte integrante del cosmo, ne condivide la stessa natura. Il binomio «anima – corpo» o, in termini più moderni «mente – corpo», tuttora radicato nella cultura occidentale, come vedremo, si rivela un modello inadatto a cogliere le peculiarità della concezione egiziana della natura umana. Questo modello, di origine greca, ha alimentato un’antropologia tendenzialmente ostile ai valori del corpo, inteso come una res contrapposta a una dimensione più pura, di ordine mentale o spirituale. In epoca contemporanea, un tentativo controcorrente di grande rilevanza è rappresentato, in ambito filosofico, dalla fenomenologia. Essa, proponendosi di ritornare al «mondo della vita», ha rivalutato le ragioni del corpo e della soggettività in generale, nel tentativo di superare il dualismo bimillenario e di arrivare a una visione unitaria del fenomeno uomo nei suoi molteplici risvolti. 58 1. Il dualismo psicofisico e le sorti del corpo Le indagini filosofiche orientate verso la sfera della soggettività umana e la dimensione corporea si sono sviluppate per secoli nel solco del dualismo psicofisico apparso intorno alla metà del I millennio a.C. all’interno delle correnti orfica e pitagorica e codificato successivamente da Platone. Secondo i Misteri orfici, l’esistenza umana si snoda attorno a due elementi opposti: anima e corpo. L’anima è un principio divino (daivmwn) che è costretto a rivestirsi di un corpo mortale a causa di una colpa originaria e a reincarnarsi in corpi successivi, fino a quando, seguendo un iter palingenetico, non sarà riuscito ad affrancarsi dal ciclo delle reincarnazioni. Una concezione analoga emerge anche dai frammenti del pitagorico Filolao.153 Platone nel Cratilo riassume la concezione orfica in questi termini: «Alcuni lo dicono [il corpo] sh`ma (tomba) dell’anima, in quanto nella vita presente essa vi è sepolta; d’altra parte, poiché per mezzo di esso l’anima shmaivnei (significa) ciò che vuole significare, anche sotto questo aspetto è chiamato correttamente sh`ma (segno). Mi pare, tuttavia, che gli Orfici soprattutto abbiano posto questo nome, convinti che l’anima sconti la pena delle colpe per le quali espia ed abbia questo involucro, immagine di una prigione, affinché swævzhtai (si salvi): esso, dunque, come dice il nome stesso è sw`ma (custodia) dell’anima, finché essa non abbia scontato i suoi debiti. E non bisogna neppure mutare una lettera».154 Anche il Gorgia ripropone il gioco di parole tra corpo (sw`ma) e tomba (sh`ma), accennando anche a una suddivisione dell’anima stessa in parti più o meno «pure».155 In questo contesto, Platone non parla esplicitamente di un autore o di una corrente, ma è probabile che si riferisca a Filolao o a Empedocle: «Ho già sentito dire dai sapienti che noi ora siamo morti, che il nostro corpo [sw`ma] è una tomba [sh`ma] e che questa parte dell’anima, nella quale risiedono i desideri, è tale da obbedire ad essi e ne è quindi rivoltata in su e in giù. Un uomo raffinato, un narratore di miti, forse un siciliano o un italico, giocando sulle parole, chiamò questa parte, per il suo carattere credulo e facile alla persuasione [piqanov~], “botte” [pivqo~], chiamò “insensati” [ajnovhtoi] i non iniziati [ajmuvhtoi] e rappresentò la parte 153 Cfr. Filolao, B 14-15. 154 Platone, Cratilo, 400 c, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol II, cit. 59 dell’anima degli insensati, nella quale risiedono i desideri, incontinente e incapace di conservare nulla, come una botte forata, a causa del suo desiderio insaziabile».156 Nel Fedone, invece, il filosofo ateniese sancisce definitivamente la radicale scissione dell’essere umano in due orizzonti inconciliabili, evidenziando la natura divina e autonoma dell’uno e quella mortale e subordinata dell’altro: «“Noi stessi non siamo forse in parte corpo [sw`ma] e in parte anima [yuchv]?” “Nient’altro”».157 Poco oltre il discorso prosegue: «Quando l’anima e il corpo sono insieme, la natura prescrive all’uno di servire ed essere dominato, all’altra di comandare e dominare. Anche sotto questo aspetto, quale dei due ti pare simile al divino e quale al mortale? Non ti pare che il divino per natura sia tale da comandare e dirigere e il mortale da essere comandato e servire? […] A quale dei due, dunque, l’anima somiglia?».158 La risposta è scontata: «E’ chiaro, Socrate, che l’anima somiglia al divino, il corpo al mortale»159. Questo modello concettuale individua nell’anima o, se vogliamo, nell’io razionale il fulcro dell’esistenza autentica, ossia di quell’esistenza che, affrancandosi il più possibile dal mondo sensibile, è in grado di protendersi verso la luminosa regione della «verità».160 Per poter esprimere pienamente la sua natura, l’anima deve liberarsi dalla «follia del corpo» (th`~ tou` swvmato~ ajfrosuvnh~),161 attraverso la morte o l’esercizio di morte: «Finché abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata con questo male, non raggiungeremo mai pienamente ciò che desideriamo, la verità. […] se intendiamo conoscere con purezza qualcosa, dobbiamo liberarci da esso e contemplare con l’anima in se stessa le cose in se stesse. Solo allora, a quanto pare, avremo ciò che desideriamo e diciamo di amare, l’intelligenza: quando saremo morti, come dimostra il nostro discorso, non in vita»162. Il corpo, dunque, concepito nel Fedone come una materia inerte e non come una dimensione vivente, non rappresenta per l’uomo un’apertura sul mondo. Esso, 155 La questione della suddivisione dell’anima è affrontata da Platone in particolare nella Repubblica, nel Fedro e nel Timeo. 156 Platone, Gorgia, 493 a-b, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, Utet, Torino 1970. 157 Platone, Fedone, 79 b, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, cit. 158 Ibid., 79 e - 80 a. 159 Ibid., 80 a. 160 La vera essenza dell’uomo è costituita per Platone dalla parte razionale dell’anima, di natura divina. Nel Timeo, il filosofo afferma che delle tre parti in cui si suddivide l’anima solo quella razionale è immortale (cfr. Timeo, 69 c – 70 a). 161 Platone, Fedone, 67 a. 162 60 Ibid., 66 b-e. ridotto a mero oggetto tra gli oggetti, risulta essere soltanto un ostacolo sul sentiero della conoscenza che percorre l’anima, una zavorra dalla quale il «filosofo» deve cercare di liberarsi con tutte le sue forze. Infatti, colui che durante la vita aspira al sapere sarà coronato da successo solo nella misura in cui avrà a che fare il meno possibile con il corpo e non si lascerà contaminare dalla sua natura.163 La mortificazione del corpo va incontro a una decisiva radicalizzazione con la filosofia cartesiana e con la nascita del sistema delle scienze moderne. In questo contesto, il corpo, lungi dall’essere un soggetto che si apre al mondo e lo esplora attraverso i suoi canali sensibili, è una res extensa. Si tratta, pertanto, di una «cosa astratta», in quanto il concetto di res extensa è un’astrazione geometrica. La materia di cui tutti i corpi sono costituiti, infatti, è intesa da Cartesio come la pura estensione oggetto della geometria, divisibile all’infinito e suscettibile di assumere tutte le figure immaginabili. L’anima, completamente indipendente dal corpo, è invece pura mens e costituisce l’unico attributo essenziale della natura umana. Leggiamo nelle Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima: «Siccome osservo che nessun’altra cosa appartiene necessariamente alla mia natura o alla mia essenza, tranne l’essere una cosa pensante, concludo che la mia essenza consiste in ciò solo: che io sono una cosa pensante o una sostanza la cui essenza e natura è soltanto quella di pensare»164. Essendo la natura umana puro intelletto, l’uomo e il mondo possono ricevere un senso solo dalle cogitationes indubitabili dell’ego, unica vera bussola per orientarsi nel mare dell’esperienza sensoriale che accompagna la nostra vita quotidiana. Il corpo di cui parla Cartesio, dunque, è un prodotto dell’intelletto e non un corpo in carne e ossa, senziente e vivente. Le scienze moderne, derivando il loro modello concettuale da questo schema dicotomico, non riconoscono al corpo umano altro statuto se non quello dell’oggetto. Assolutizzando l’oggettività, il sistema delle scienze ha rotto i ponti con la soggettività e con il mondo della vita, che sono pur sempre il suo luogo di origine. Ciò è quanto denuncia Husserl nel saggio La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale e, più in generale, l’intero movimento fenomenologico. Anche la tradizione giudaico-cristiana, che accanto al pensiero greco costituisce l’altra grande fonte storica della filosofia occidentale, in origine è sostanzialmente 163 164 Cfr. Ibid., 67 a. R. Descartes, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, vol. II, trad. it. di A. Tilgher, riv. da F. Adorno, Laterza, Bari 1986, Sesta meditazione, p. 72. 61 estranea al dualismo di anima e corpo. Secondo alcuni studi di filologia biblica, fu la traduzione greca dei Settanta che introdusse nell’antropologia biblica la contrapposizione tra quelle entità che la tradizione greca e quella latina chiamarono corpo, anima e spirito: «Quando le parole principali più frequenti vengono di regola tradotte con “cuore”, “anima”, “carne”, e “spirito”, si producono in questo modo malintesi carichi di conseguenze. Essi risalgono già alla traduzione greca antica dei LXX, e fecero deviare su una antropologia dicotomica o tricotomica, nella quale il corpo, l’anima e lo spirito vengono concepiti in contrasto tra loro. Resta da provare come qui con la lingua greca una filosofia greca abbia stravolto e accantonato concezioni biblico-semitiche. L’uso linguistico del Vecchio Testamento deve perciò essere chiarito»165. La successiva speculazione patristica e scolastica si assoggetterà all’impostazione greca e, in generale, al dualismo di anima e corpo, considerando la vita una prerogativa esclusiva dell’anima e relegando il corpo nella sfera oscura di ciò che è corruttibile e mortale. 2. Un modello antropologico arcaico Prima di rivolgerci all’antropologia egiziana ci soffermeremo ancora sul mondo greco e, nello specifico, sulla tradizione omerica. Tenteremo di mettere in evidenza un modello antropologico arcaico, vigente ai primordi della cultura greca e oggi meno in luce per noi rispetto al binomio anima-corpo. Da questo esame ricaveremo delle categorie che, a nostro avviso, si riveleranno molto efficaci, per la loro forza euristica, nell’affrontare la concezione egiziana dell’essere umano. Nei poemi omerici le locuzioni sw`ma e yuchv sono già presenti, ma con un’accezione alquanto differente rispetto a quella ad esse attribuita dalla filosofia platonica. Omero si riferisce alla dimensione corporea con termini diversi a seconda delle circostanze e dell’aspetto che, di volta in volta, si vuole mettere in risalto. Troviamo, per esempio, la parola devma~ per designare la figura o la struttura corporea, crwv~ per indicarne la superficie delimitata dalla pelle, ma in particolare si parla di gui`a e mevlea, ossia di «membra». Ogni membro o aspetto corporeo non sembra essere concepito come un oggetto o uno strumento, ma come una possibilità, espressione di un soggetto vivente. 165 62 H. W. Wolff, Antropologia dell’Antico Testamento, trad. it. di E. Buli, Queriniana, Brescia 1975, p. 15. Con la parola sw`ma Omero indica principalmente il «cadavere», quello che Husserl chiama Körper, e non il corpo vivo nel suo complesso.166 Anche il termine yuchv lo troviamo in riferimento al «cadavere» o all’essere umano che sta per morire, che sta per emettere l’ultimo «respiro». Scrive Hermann Fränkel: «Non nella vita, bensì soltanto nella morte (e nella perdita dei sensi) l’uomo omerico si scindeva in corpo e anima. Egli si sentiva non una dualità spaccata, ma un sé unitario»167. La yuchv è il «respiro» che è nell’uomo finché questi è in vita e che, tuttavia, non lo identifica. Come precisa Max Pohlenz, «la psyché non coincide neppure con l’io dell’uomo»168; coincidenza che, invece, è evidente nella filosofia platonica. Di quale visione antropologica è latore, dunque, il mondo omerico? Partiamo dalla dimensione corporea. Bruno Snell ha mostrato l’importanza del movimento e delle articolazioni nella concezione omerica del corpo umano. La sua posizione trova una conferma anche nel modo di rappresentare l’uomo proprio dell’arte greca arcaica, nella quale le figure sono un insieme di «membra con forti muscoli, distinte le une dalle altre da giunture fortemente accentuate. Certamente […] ha la sua parte anche l’abbigliamento, ma ancor più importanza ha qui quel particolare modo di vedere le cose in forma “articolata” che è proprio dei Greci di questa prima era».169 La realtà corporea vera e propria nel linguaggio omerico è indicata soltanto dai plurali gui`a e mevlea, dove il primo termine indicherebbe, secondo Snell, «le membra in quanto vengono mosse dalle articolazioni», il secondo, invece, «le membra in quanto ricevono forza dai muscoli».170 L’immagine della corporeità dell’uomo omerico che Snell propone è quella di una pluralità articolata e mobile di membra che non riesce a formare, tuttavia, un complesso organico e unitario. Quest’ultima circostanza, secondo lo studioso, sarebbe 166 Secondo un’opinione consolidata, il termine sw`ma in Omero sarebbe riferito esclusivamente al cadavere. R. Renehan, tuttavia, ha rilevato che delle otto occorrenze di questo termine che troviamo nei poemi omerici due sembrano essere utilizzate con riferimento a esseri viventi. Lo studioso fa notare, inoltre, che in Esiodo, autore vissuto pressappoco nella stessa epoca di Omero, sw`ma è utilizzato senza ambiguità per connotare un corpo vivente. La conclusione di Renehan è che «sw`ma significa in Omero ciò che esso significa più tardi – non “corpo vivente” e non “corpo morto” ma “corpo” puro e semplice, senza connotazioni a priori né di vita né di morte». L’assenza di esempi inequivocabili in cui il termine in questione sia usato per denotare corpi viventi si spiegherebbe con il fatto che sw`ma indicherebbe il corpo inteso come «massa». Per riferirsi, invece, alla vitalità e al movimento delle membra si ricorrebbe a vocaboli ed espressioni differenti. In proposito, cfr. R. Renehan, The meaning of SWMA in Homer: a study in methodology, in California Studies in Classical Antiquity, 12 (1979), pp. 269 sgg. Sulla nozione di corpo nella Grecia antica cfr. anche B. Holmes, The Symptom and the Subject. The emergence of the physical body in ancient Greece, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2010. 167 H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, Verlag C. H. Beck, München 1976, p. 84. 168 169 M. Pohlenz, L’uomo greco, trad. it. di B. Proto, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 16. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. di V. Degli Alberti, Einaudi, Torino 1951, p. 29. 63 da addebitare a un deficit del pensiero greco arcaico, che non aveva ancora sviluppato una coscienza del corpo tale da permettergli di concepirlo come unità compatta.171 L’aspetto che volevamo richiamare è comunque il concetto di «articolazione». Esso riveste un ruolo di primo piano nell’antropologia omerica ma, come cercheremo in seguito di mostrare, può rivelarsi anche un’utile e produttiva chiave di lettura della concezione egiziana della sfera umana. Per meglio delineare i contorni della nozione di articolazione, utilizzata in un contesto antropologico, e chiarirne lo statuto, ci richiameremo ora alle ricerche di Guillemette Bolens che, come abbiamo anticipato nell’introduzione, si è dedicata allo studio della concezione del corpo in Omero e nei principali poemi della letteratura europea medievale.172 Prendiamo in considerazione il seguente passo dell’Iliade: «E allora il figlio di Amarinceo, Diore, lo prese nel suo laccio destino di morte. Alla gamba destra fu percosso da un macigno tutto a punte, vicino alla caviglia: e a colpirlo era il condottiero dei Traci, Piroo figlio di Imbrasio, venuto da Eno. Tutt’e due i tendini e le ossa gli sfracellò la pietra smisurata: e lui, Diore, cadde giù riverso nella polvere tendendo le braccia ai suoi compagni, e già spirava. L’altro, Piroo, dopo quel primo colpo gli corse sopra, e lo feriva con la lancia all’ombelico: fuori si rovesciarono a terra tutte le budella, il buio l’avvolse agli occhi».173 La scena descritta è quella dell’uccisione di Diore, alleato degli Achei, da parte dell’alleato dell’esercito troiano Piroo, durante una battaglia cruenta. A Diore vengono inferti dall’avversario due colpi, che provocano due ferite di tipo differente. La prima interessa una zona articolare, quella della caviglia, determinando la rottura di tendini e ossa (tevnonte kai; ojsteva), la seconda, invece, perfora il ventre causando il riversamento delle viscere. Diversamente da quanto ci si attenderebbe, il primo colpo ha già un esito mortale: il guerriero, infatti, esala il suo qumov~ (qumo;n ajpopneivwn), il che significa che la ferita in questione non lascia scampo. 170 Ibid., p. 27. 171 Secondo Fränkel, invece, l’uomo dei poemi omerici è essenzialmente unitario: «L’uomo omerico non è una somma di corpo e anima, bensì un intero (Ganzes). Ma in questo intero, di volta in volta, possono manifestarsi delle parti specifiche, o meglio, degli organi. Tutti i singoli organi sono espressione diretta della persona. Le braccia sono un organo dell’uomo, non del corpo, allo stesso modo, il thymos (l’organo delle emozioni) è un organo dell’uomo, non dell’anima. L’uomo intero è vivo ovunque, in modo identico; ogni attività che noi saremmo portati a chiamare “spirituale” può essere ascritta a ciascuna delle sue membra» (Id., Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, cit., p. 85). 172 Cfr. G. Bolens, La logique du corps articulaire, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2000. 173 64 Omero, Iliade, IV, 517-526, trad. it. di G. Tonna, Garzanti, Milano 1981. Le due ferite menzionate nel passo citato rimandano a due distinti modelli di corporeità. Bolens ha cercato di approfondire questi modelli, mostrando come essi si fondino su logiche molto diverse. Secondo la studiosa, l’Iliade «veicola un sapere anatomico che è trasmesso attraverso la descrizione di ogni ferita e la designazione precisa delle parti lese».174 Da questa rassegna anatomica emerge una concezione del corpo organizzata in funzione delle articolazioni. Si può parlare dunque di «corpo articolare» (corps articulaire). In questo contesto, le ossa e i legamenti svolgono il ruolo principale, tutto il resto è in qualche modo accessorio. Il corpo articolare si contrappone nettamente al «corpo inviluppo» (corps-enveloppe), la cui peculiarità essenziale è invece quella di essere un mero contenitore di organi, organizzato in funzione degli orifizi (occhi, orecchie, narici, bocca, ombelico, ecc.). «Ciò che determina la logica del corpo articolare è la nozione di giuntura, mentre la logica del corpo inviluppo si definisce mediante una dialettica tra l’interno e l’esterno. Il corpo articolare resta in vita fintantoché le ossa rimangono unite e i tendini svolgono il loro ruolo di legami; il corpo inviluppo resta in vita fintantoché le viscere sono mantenute all’interno grazie al rivestimento cutaneo».175 Le ferite inferte al corpo articolare lo colpiscono, quindi, sempre nei punti di giuntura e ai tendini, come già emergeva dal passo dell’Iliade che abbiamo esaminato. Enea, per esempio, viene colpito all’anca; l’avversario acheo «lo colse nel fianco, là dove la coscia si lega all’anca, nel punto che chiamano il bacino. Glielo schiacciò, e gli ruppe inoltre tutt’e due i tendini».176 Solo l’intervento divino di Afrodite evita la morte dell’eroe. Ettore, invece, è colpito da Achille alla spalla e più precisamente «dove le clavicole separano il collo dalle spalle, alla gola. Qui si perde subito la vita».177 Lo stesso Achille in seguito morirà per una lesione a una articolazione, quella della caviglia. Uccidere, nell’Iliade, significa sostanzialmente «slegare». Il verbo maggiormente impiegato per narrare l’evento della morte è luvw (sciogliere, slacciare, separare) ed espressioni tipiche sono «lu`se gui`a» (slegò le membra) e «gouvnatV ejvlusen» (slegò le ginocchia). Se, come abbiamo appena rilevato, la caratteristica di una ferita articolare è quella di dividere due ossa o due zone di contatto, considerate i veri punti vitali di un 174 G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 22. 175 Ibid., p. 9. 176 Omero, Iliade, V, 305-307. 177 Ibid., XXII, 324-325. 65 individuo, la guarigione consiste, invece, in una riunione di ciò che è stato separato. Ogni azione terapeutica è finalizzata al ripristino ed eventualmente all’incremento della capacità motoria. Il corpo dell’uomo omerico non è concepito, pertanto, come un ente singolo e omogeneo, bensì come una rete di relazioni, un sistema di rapporti tra elementi tenuti insieme da connettivi fisiologici, denominati ijv~, tevnwn o neu`ron. I legamenti assicurano anche la mobilità del sistema; la caratteristica principale del corpo articolare è, infatti, la «motricità». Con la morte la rete di relazioni viene meno, gli elementi costitutivi del sistema si slegano. Un primo effetto è la perdita delle funzioni motorie; un secondo effetto parallelo è l’emissione del qumov~. Questo termine, di decifrazione molto complessa, ha dato luogo a svariate interpretazioni e traduzioni, tra cui quelle di «anima», «soffio vitale», «desiderio», «ira». Snell lo mette in relazione con la sfera delle emozioni. Lo definisce, tuttavia, anche un «organo di movimento», legandolo alle ossa e alle membra, per il fatto che in Omero compare sette volte la frase «livpe dV ojvstea qumov~» (il qumov~ abbandona le ossa) e due volte la frase «w\ca de; qumov~ wæjvcetV ajpo; melevwn» (presto il qumov~ si staccò dalle membra): «Sappiamo che quest’organo determina anche i movimenti del corpo, ed è quindi naturale dire che esso, nel momento della morte, abbandona le ossa e le membra coi loro muscoli».178 La difficoltà insita nell’interpretazione di Snell consiste soprattutto nel fatto che il qumov~, a differenza di un qualsiasi organo, non è localizzabile e circoscrivibile a una zona del corpo. Secondo Caroline Caswell, nella prima epica greca il «qumov~ forma la base della coscienza e di conseguenza di tutte le esperienze interne e possiede anche certe precise caratteristiche che sono strettamente affini a quelle della natura dei venti. Il suo vigore è strettamente connesso con la condizione fisica del corpo e aiuta a determinare come l’individuo funzioni intellettualmente ed emotivamente». Esso in ultima analisi è «un vento interiore, portatore di coscienza, energia ed esperienza».179 La lettura che di questo concetto propone Norman Austin lo descrive come una sorta di coscienza sensoriale distinta dagli organi.180 E’ di questo avviso anche Bolens, la quale precisa che si tratta di «una relazione a un processo sensoriale». Spiegato più estesamente, «il thumos è un rapporto dell’io alle proprie sensazioni o, più 178 B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 32. 179 C. Caswell, A study of thumos in early greek epic, E. J. Brill, Leiden 1990, pp. 62 sg. 180 Cfr. N. Austin, Archery at the dark of the moon, University of California Press, Berkeley 1975, p. 108. 66 esattamente, un rapporto delle sensazioni a un io al dativo. Il thumos è una relazione dell’io a ciò che lo costituisce sotto l’aspetto sensoriale, ragione per cui il thumos non può essere localizzato fisiologicamente, neanche nel soffio o in un sistema nervoso centrale».181 Presentando questa breve rassegna di interpretazioni della nozione di qumov~ (la più ricorrente in Omero tra quelle a connotazione «psicologica»), volevamo evidenziare i seguenti aspetti: a) il qumov~ è strettamente legato al corpo vivente, a differenza della yuchv che si manifesta solo al momento della morte, come respiro esalato; b) esso ha a che fare con il movimento, un incremento del suo vigore corrisponde a un aumento della motricità dell’individuo; c) si tratta sostanzialmente di una forma di coscienza sensoriale, connaturata al corpo nel suo insieme, non individuabile quindi in un singolo elemento corporeo. Sulla base di quanto rilevato a proposito dell’antropologia omerica, a nostro avviso, è possibile spingersi oltre il concetto di corpo articolare e introdurre quello più generale di «individuo articolare». Nel contesto esaminato, infatti, la dimensione corporea non è concepita come un oggetto, separato o separabile da ulteriori livelli dell’essere umano. In altri termini, l’uomo non è inteso come un ente semplicemente rivestito di un organismo biologico, bensì come una rete di relazioni coesa e dinamica, dotata di una coscienza sensoriale che la rende aperta al mondo e ne regola la motricità. Questa posizione è suffragata inoltre dal fatto che, nell’epica omerica, non soltanto gli uomini, ma anche gli dei, che abitano una regione più sottile dell’esistente, condividono questa natura. Parlando di «individuo articolare», tuttavia, non intendiamo accantonare tout court (e indebitamente) il concetto di corpo, intendiamo invece inscriverlo in una nozione più ampia, che gli dia il dovuto risalto ed eviti possibili fraintendimenti con quello omonimo, veicolato dal binomio anima – corpo. La categoria di individuo articolare e quelle più specifiche di corpo articolare e corpo inviluppo costituiranno il leit motiv con il quale affronteremo nei prossimi paragrafi le concezioni antropologiche egiziane. Il percorso che seguiremo contribuirà a chiarirne meglio lo statuto e la portata. 181 67 G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 50. 3. La costellazione Uomo nell’Egitto faraonico Una formula che compare sui sarcofagi antropoidi della Bassa Epoca e che Thomas G. Allen ha considerato parte del Libro dei Morti recita: «O tu che accompagni i bau, o tu che decapiti le ombre, o voi dei che siete sopra i viventi, venite, pregate, accompagnate il ba di N a lui! Possa esso unirsi al suo corpodjet, che il suo cuore-ib si rallegri! Possa il suo ba venire al suo corpo-djet e al suo cuore-ib. Fate che il suo ba resti nel suo corpo-djet e nel suo cuore-ib, munite il suo ba del suo corpo-djet e del suo cuore-ib. […] Egli ha il suo cuore-ib come Ra, egli ha il suo cuore-haty come Khepri. Pure, pure (sono le offerte) per il tuo ka, per il tuo corpo-djet, per tuo ba, per tua spoglia [XAt], per la tua ombra [Swt], per la tua mummia [saH], O N!».182 Il contesto è quello della ricostituzione dell’essere umano dopo la morte e, più in particolare, della riunione di due degli elementi che formano l’individualità, il ba e la spoglia.183 Il passo riportato è sufficiente a mostrare la complessità dell’antropologia egiziana rispetto a quella affermatasi in Grecia a partire dal V secolo a. C. Come già accennato in precedenza, infatti, il pensiero egizio concepisce l’individuo umano come una molteplicità di componenti, complementari tra loro. Alla dimensione «corporea» si associa una costellazione di elementi più «sottili», come il ka, il ba, l’ib, il ren e altri ancora, il cui numero può variare a seconda delle epoche e delle fonti. Sul reale significato di queste nozioni gli egittologi non si dimostrano ancora d’accordo. Il luogo privilegiato in cui gli Egiziani sviluppano il loro discorso antropologico è costituito dalla letteratura funeraria e dalle formule liturgiche. I concetti menzionati fanno la loro comparsa nell’Antico Regno, nei Testi delle Piramidi, una raccolta di formule, inni e rituali che dovevano costituire un viatico per il sovrano nel mondo dell’aldilà e permettergli di ottenere l’immortalità. Si ritrovano in seguito copiosamente nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno, nel Libro dei Morti e nei libri dell’oltretomba del Nuovo Regno. Vengono inoltre rappresentati attraverso numerose pitture e statue, poste a corredo di tombe e templi. Per quanto riguarda invece le 182 Questa formula, da noi riportata non nella sua interezza, è stata classificata da T. G. Allen come capitolo 191 del Libro dei Morti. In proposito, cfr. Id., Additions to the Egyptian Book of the dead, in Journal of Near Eastern Studies, 11 (1952), pp. 177 sgg. La trad. segue quella inglese di Allen. Secondo J. C. Goyon, invece, la formula farebbe parte di un rituale osiriaco: le glorificazioni (sAx.w). Cfr. Id., La véritable attribution des soi-disant chapitres 191 et 192 du Livre des Morts, in Studia Aegyptiaca, 1 (1974), pp. 117 sgg. 183 I due elementi maggiormente in risalto nel passo citato sono il ba e il corpo-djet. Quest’ultimo sostituisce il cadavere (XAt), generalmente associato al ba. 68 concezioni anatomiche e fisiologiche, le fonti principali sono i papiri medicali che ci sono pervenuti, in primo luogo il papiro di Ebers.184 Prima di tentare un qualsiasi tipo di lettura del pensiero antropologico egiziano nel suo complesso è opportuno, tuttavia, focalizzare un aspetto basilare: la sfera corporea in generale è considerata sede della vita in misura non inferiore a qualsiasi altra componente della personalità umana. Non c’è, infatti, nessun tipo di contrapposizione o discriminazione tra i singoli elementi della costellazione Uomo. La vita è presente a pieno titolo tanto nella totalità del corpo, quanto in ogni sua parte. Questa immanenza della vita alla dimensione corporea non viene meno neanche con il sopravvenire della morte. Il decesso, infatti, non costituisce l’annichilimento della vita ma soltanto una sua sospensione temporanea, funzionale a un rinnovamento e a una riorganizzazione dei tasselli costituenti il mosaico umano. La vita ultraterrena richiama quella terrena, perché il mondo dell’aldilà e quello dell’aldiquà costituiscono due modalità di un’unica esistenza. Questa impostazione di pensiero ha garantito al popolo egizio un rapporto sostanzialmente sereno con la sfera corporea e i bisogni ad essa connaturati. Durante il periodo faraonico, infatti, non c’è traccia di pratiche ascetiche o di automortificazione. La costellazione Uomo si rivela una realtà dinamica, in cui ogni componente da un lato gode di una propria autonomia, dall’altro si dimostra funzionale al mantenimento e all’evoluzione del sistema nella sua globalità. Si tratta cioè di una rete di relazioni che, attraversando le tre fasi costituite dalla vita terrena, dalla morte e dalla vita post mortem, è in grado di organizzarsi in accordo con le circostanze ed evolvere. In questo contesto, la dimensione corporea svolge il ruolo di supporto e veicolo del sistema. Prima di entrare maggiormente nel dettaglio relativamente alla natura e al significato della corporeità di cui stiamo parlando, vogliamo delineare i tratti principali della sfera umana in generale e del suo «funzionamento». A tal fine prenderemo in considerazione quelle due componenti che, a nostro avviso, costituiscono le coordinate fondamentali nella mappa dell’essere umano: il ba e il ka. 184 La maggior parte dei papiri medici di cui disponiamo risale al Nuovo Regno. Tra i papiri ritrovati, quelli che sembrano essere i più antichi sono stati rinvenuti in una tomba in prossimità del Ramesseum e risalgono alla XII o alla XI dinastia (Medio Regno). Il papiro di Ebers può considerarsi al momento la principale fonte relativa alla medicina egiziana. Il manoscritto è datato intorno al 1550 a.C., ma sembra attingere a testi redatti nell’Antico Regno. In proposito, cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, Fayard, Paris 1995, pp. 13 sgg. 69 Fig. 1 (uccello Ba, tempio di Dendera. Foto di P. Pietrapiana) 70 Il ba, scritto in geroglifico nei seguenti modi: (bA), appare generalmente nelle raffigurazioni sotto forma di uccello (ciconia nigra) con testa umana, a volte anche dotato di braccia. Considerato spesso in modo abbastanza improprio come «anima», esso costituisce un aspetto della coscienza dell’individuo, sia durante la vita terrena che dopo la morte, anche se nella quasi totalità delle fonti si parla del ba del defunto. In uno dei rari testi in cui si fa menzione del ba di un uomo ancora in vita, Le avventure di Sinuhe, il protagonista del racconto trovandosi al cospetto del sovrano dell’Egitto, ipostasi della divinità, è sul punto di perdere i sensi e così riferisce del suo stato: «Io ero steso sul mio ventre [Xt] e persi la conoscenza davanti a lui, benché questo dio mi salutasse affabilmente. Ma io ero come un uomo preso nel crepuscolo: il mio ba mancava, il mio corpo [Haw] vacillava, il mio cuore [HAty] non era più nel mio petto [Xt] perché potessi distinguere la vita dalla morte».185 Ma la principale testimonianza relativa al ba di un essere umano che abita il mondo terreno è costituita dal Dialogo del disperato con il suo ba, espressione della crisi determinatasi a seguito della caduta dell’Antico Regno.186 In questo testo letterario un uomo deluso e disperato si augura la morte come liberazione dai mali insanabili del mondo. Il suo ba, che funge in questo caso da alter ego, lo esorta invece alla vita e appellandolo «mio complemento (nj-sw=j), mio fratello (sn=j)», conclude la parte di dialogo che è giunta fino a noi con queste parole: «Desiderami qui, rinvia per te l’Occidente. Quando giungerai all’Occidente dopo che il tuo corpo [Haw] si sarà unito alla terra, mi poserò quando sarai stanco ed allora abiteremo insieme».187 Le due fonti citate descrivono il ba da un lato come una sorta di coscienza sensoriale, come il qumov~, dall’altro come la coscienza personale depositaria dei valori vitali 185 Le avventure di Sinuhe, B 252-256, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 174. Abbiamo modificato leggermente la trad. di E. Bresciani, sostituendo «anima» con il termine originale ba. Per il testo geroglifico, cfr. A. M. Blackman (a cura di), Middle Egyptian stories, Éditions de la Fondation Égyptologique Reine Élisabeth, Bruxelles 1932, pp. 1 sgg. 186 Con la caduta della monarchia dell’Antico Regno e la conseguente crisi dei valori che la caratterizzavano, l’uomo egiziano cerca di ridefinire il suo posto nell’universo. In un contesto in cui lo Stato non rappresenta più un punto di riferimento rassicurante e una protezione per gli individui, vengono composte alcune opere letterarie che appaiono tutte contrassegnate da un pessimismo di fondo. Tra le più rilevanti, oltre al Dialogo dell’uomo con il suo ba, possiamo ricordare l’opera già menzionata conosciuta come L’oasita eloquente, espressione metaforica dello scontro tra le forze positive e quelle negative che lacera la società dell’epoca. 187 Dialogo del disperato con il suo ba, 150-154, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 205. Per il testo geroglifico, cfr. R. O. Faulkner, The man who was tired of life, in The Journal of Egyptian Archaeology, 42 (1956), pp. 21 sgg. 71 conformi all’ordine cosmico. Dal Dialogo emerge però anche un aspetto ulteriore: la relazione tra il ba e il cadavere, della quale troviamo spiegazioni esaustive nella letteratura funeraria. Prima che un defunto fosse definitivamente inumato, aveva luogo un rituale che aveva lo scopo di «allontanare il ba dal cadavere» (sHr bA r XA.t). Nei Testi dei Sarcofagi troviamo parte di questa liturgia: «Allontanare il ba dal cadavere. Altro libro dell’uscita al giorno. Io sono questo grande ba di Osiri grazie al quale gli dei hanno ordinato che egli copuli, che vive in alto durante il giorno, che Osiri ha creato dai suoi umori [rDw] che sono nel suo corpo [jwf=f], semenza [mtwt] uscita dal suo fallo, […] Io sono il figlio di Osiri, il suo erede nelle sue funzioni. Io sono il ba nel suo sangue [dSrw=f]».188 Un altro passo recita: «Mio ba, allontanati dal cadavere [XA.t] che ha ucciso mio padre! Anziano, fai per me un cammino! Salva il mio ba dalla mano di Coloro che intrappolano […] Non ci si deve appropriare del mio cadavere né esso deve essere tenuto prigioniero (poiché) mi appartiene questo cadavere per il quale Atum ha pianto e che Anubi ha sepolto! [Il mio] ba [appartiene al] mio corpo [D.t]».189 Una volta che è stato separato dal cadavere, il ba acquisisce la capacità di muoversi liberamente nel mondo ultraterreno: «Va! Va mio ba, mio akh, mia magia [HkA.w], mia ombra [Swy.t]! Apri dunque i due battenti della finestra del cielo! Apri dunque la cappella della tomba! Sali e scendi, (poiché) tu disponi della tua gamba!»190 Altre formule esprimono il medesimo concetto, come la seguente: «Va! Va, questo ba che è mio, (in modo) che quel dio possa vederti in qualunque luogo egli sia, nella mia apparenza, nella mia forma e nella mia essenza! Che egli si alzi! Che si sieda, (poiché) tu sei di fronte a lui! […] Possa tu lasciare gli umori [rDw] del mio corpo [jwf=f] e di questo sudore della mia testa! Possa tu avere potere sulla tua gamba in quanto ba vivente».191 L’unità dell’individuo, tuttavia, non deve venire meno. E’ necessario, quindi, che il ba continui a mantenere una relazione con il cadavere, anche dopo avere ottenuto la sua 188 CT, formula 94. L’origine del ba è messa in relazione con gli umori del corpo di Osiri anche in altri passi; cfr., per es., CT, formule 96, 99, 101. 189 CT, VI, 73 c-e; 74 f-i. 190 CT, VI, 71 a-e. 191 CT, II, 108 a-c; 108 g – 109 a. 72 libertà di movimento. Una serie di formule, tra cui quella richiamata all’inizio del paragrafo, testimonia l’importanza cruciale del ritorno del ba alla sua spoglia: il defunto invoca la divinità affinché esso «veda il suo corpo e si posi nuovamente sulla sua mummia».192 Durante il giorno il ba dimora nelle regioni celesti, durante la notte fa ritorno alla tomba e si unisce alla mummia. In proposito Assmann afferma: «Il ba trae da questa unione con il cadavere la forza di rinnovamento che gli permette di risalire verso il cielo per una nuova corsa diurna. In questa rigenerazione ciclica, il ba e il cadavere operano insieme e dipendono l’uno dall’altro, sono subordinati l’uno all’altro, indissociabili».193 In questo modo l’individuo ricostituito condivide l’esistenza del dio sole, che al tramonto scende nel mondo sotterraneo, per poi risorgere rinnovato il mattino seguente. Ogni notte, infatti, nel luogo più profondo della duat, Ra si unisce in quanto ba alla spoglia di Osiri, che lì giace.194 Il ba e il cadavere (XA.t) sono espressione, quindi, di due regioni dell’esistente differenti ma, nello stesso tempo, strettamente legate. «Il cielo appartiene al tuo ba e la terra al tuo cadavere»; così si rivolgono gli dei misteriosi a Ra, nel testo conclusivo della terza ora del Libro dell’Amduat.195 Nel Libro delle Porte, parimenti, alla sesta ora, dodici divinità accolgono il dio Ra con queste parole: «Il tuo ba appartiene al cielo, sovrano dell’orizzonte, […] il tuo cadavere appartiene alla terra, tu che sei in cielo! Consegnaci a lui (al cielo), o Ra, tu che (ora) sei separato da esso, o Ra! Tu respiri quando occupi il tuo cadavere che è nella duat».196 Il movimento ciclico del ba ha la funzione di mantenere e rinnovare la coesione delle parti, sia sul piano cosmico che su quello individuale. In sintesi, le caratteristiche del ba che volevamo evidenziare, consultando la letteratura funeraria, possono essere schematizzate in questo modo: a) il ba ha un legame «genetico» con la sfera della corporeità: esso è originato dagli umori (rDw) del corpo di Osiri, al quale per analogia si richiama il defunto; b) esso possiede, inoltre, la forza vitale e di conseguenza il potere di generare: è veicolato dal sangue (dSrw) e dalla semenza (mtw.t); 192 Libro dei Morti, cap. 89. 193 J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 149. 194 Cfr. supra, p. 40. 195 Libro dell’Amduat, ora III, testo conclusivo. Abbiamo modificato leggermente la trad. di A. Fornari e M. Tosi sostituendo «anima» con il termine originale ba (Nella sede della verità, cit., p. 60). 196 Libro delle Porte, ora VI, registro mediano, scena 38. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung in Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p. 246. 73 c) è per sua natura un elemento assolutamente dinamico: esso può spostarsi, infatti, in qualsiasi luogo del mondo visibile e di quello invisibile; d) nonostante la sua dipendenza dal cadavere o più in generale dal corpo, il ba appartiene in primo luogo alla dimensione celeste. Si tratta, dunque, di una componente «sottile» dell’essere umano. Abbiamo visto, infatti, che alcuni testi letterari lo descrivono come una forma di coscienza; e) in virtù della sua mobilità, è un fattore di integrazione, sia individuale che cosmica. L’esame di questa nozione antropologica lascia già intravedere l’immagine complessiva dell’essere umano, concepito come una rete di relazioni particolare che ne riproduce un’altra universale, cosmica. In primo piano risaltano quelle che, a nostro avviso, costituiscono le due caratteristiche essenziali del sistema: connettività e motricità. Si tratta dei due aspetti principali del «corpo articolare» omerico di cui parla Bolens, o di quel complesso più ampio che abbiamo chiamato «individuo articolare». Parliamo di individuo articolare per il fatto che le interazioni e i legami tra le parti in relazione tra loro non ineriscono a un’unica sfera dell’esistente, nello specifico quella corporea, ma chiamano in causa i diversi livelli della realtà. Il quadro delineato è, tuttavia, ancora parziale; proseguiamo il nostro iter introducendo il secondo tassello fondamentale: il ka (kA). L’interpretazione più comune di quest’altro elemento sottile della natura umana vede in esso la maggiore espressione della forza vitale dell’uomo. Il ka, tuttavia, costituisce uno dei concetti più controversi nel campo dell’egittologia. E’ stato inteso come un «doppio», una sorta di alter ego o come il daivmwn dei greci; è stato anche avvicinato alla nozione orientale di Mana. Thomas Mann lo ha definito «il corpo spirituale delle cose, che è accanto al corpo»197. Ci sembra, in ogni caso, del tutto plausibile l’accostamento fatto da molti studiosi tra il ka e la vita. Questa ipotesi fu formulata per la prima volta da Erman, all’inizio del secolo scorso: «In ogni tempo gli Egizi si sono figurati la differenza fra esseri vivi e senza vita in modo che nei primi fosse infusa una forza vitale particolare che chiamano il ka. Ogni uomo riceve questo ka alla sua nascita, quando Ra lo ordina, e fintantoché l’uomo lo possiede ed è il signore 197 «Der geistige Leib der Dinge, der neben dem Leibe ist». Questa definizione viene formulata da Mann nel romanzo Joseph in Ägypten. 74 del suo ka e va con il suo ka, per tutto questo tempo egli rimane in vita».198 L’espressione «andare con il proprio ka» (sbj Hna kA=f) risale ai Testi delle Piramidi ed è utilizzata ancora in epoca tarda per indicare la condizione del defunto che lascia il mondo terreno: «Colui che se ne è andato, se ne è andato con il suo ka! Horo se ne è andato con il suo ka! Seth se ne è andato con il suo ka! Thot se ne è andato con il suo ka! Dunanuy se ne è andato con il suo ka! Osiri se ne è andato con il suo ka! Khenty-irty se ne è andato con il suo ka! Tu stesso te ne sei andato con il tuo ka».199 Nei Testi dei Sarcofagi troviamo un’invocazione simile, ma con una variante: non si tratta in questo caso di andare «con il proprio ka», bensì «al proprio ka» (sbj xr kA=f): «Possa tu vivere […]! Colui che è andato al suo ka è andato! Horo è andato al suo ka! Seth è andato al suo ka! Thot è andato al suo ka! Dunauy è andato al suo ka! Osiri è andato al suo ka, è andato in quanto Khenty-enirty al suo ka! O [N], se tu sei andato, è perché tu vivevi!».200 L’espressione «andare al proprio ka» indica il ricongiungimento alle proprie radici, ai propri antenati.201 Varcare la soglia dell’aldilà come defunto beato (akh), infatti, significa anche ritornare al proprio padre: «Se sono venuti a te i messaggeri del tuo ka, sono venuti a te i messaggeri di tuo padre e sono venuti a te i messaggeri di Ra! […] Possa tu essere al fianco del dio […] Entra nel luogo dove è tuo padre, nel luogo dove è Geb, in modo che egli ti dia ciò che è sulla fronte di Horo: tu distruggerai grazie a lui, tu diventerai potente grazie a lui e grazie a lui tu sarai alla testa degli Occidentali».202 Secondo i Testi delle Piramidi, il dio demiurgo Atum dopo aver dato esistenza alla prima coppia di dei, Shu e Tefnet, trasmette loro il proprio ka, ponendo le braccia dietro di loro. In virtù di questo gesto, ogni ente del creato porta in sé la natura del demiurgo e riceve la sua protezione: «Tu hai espettorato Shu, tu hai sputato Tefnet, come le braccia di un ka, tu hai posto le tue due braccia dietro di loro, affinché il tuo ka fosse con loro! Atum, poni dunque le tue due braccia dietro Neferkara, come le braccia di un ka, in modo che il ka di Neferkara sia con lui, durevole per l’eternità! O Atum, poni la tua protezione su 198 A. Erman, Ägyptische Religion, cit., p. 102. 199 Pyr, 17 a-c. 200 CT, VII, 22 e-i. 201 Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 160. 75 questo Neferkara, su questa piramide che è sua, su questa costruzione di Neferkara! Possa tu allontanare ogni cosa malvagia che sopravverrà contro di lui per l’eternità, così come la tua protezione è stata posta su Shu e Tefnet!».203 Trasferire il proprio ka significa infondere la vita: «A Te appartiene il ka di tutti gli dei! Tu sei andato a prenderli, per foggiarli e per farli vivere! Che possa vivere Osiri Neferkara! […] Tu hai potere su tutti gli dei e sui loro ka!».204 La posizione delle braccia del demiurgo, rileva Erman, doveva corrispondere al significato del ka, dal momento che il geroglifico che denota questo concetto è formato da due braccia distese.205 Anche Assmann pone l’accento su questo aspetto.206 Hornung osserva, invece, che queste braccia avvolgono l’essere umano come un involucro protettivo.207 Il ka, dunque, è trasmesso di padre in figlio, come una sorta di patrimonio genetico, che assicura la continuità e l’identità di una linea genealogica. L’idea della continuità è confermata dal capitolo 105 del Libro dei Morti, in cui il defunto rivolge al proprio ka queste parole: «Salute a te mio ka, mia durata di vita! Eccomi venuto a te». Per quanto riguarda, invece, il concetto di identità, è interessante ciò che afferma Donadoni relativamente alla parola ka: «Essa designa qualcosa come la personalità nel suo complesso […] In qualche modo può servire a capire cosa esso sia il fatto che in età tarda il termine egiziano classico ka è tradotto con la parola che vuol dire “nome” (ren)».208 Il termine ka, inoltre, è omofono di quello che significa «toro» (kA); quest’ultimo è scritto con due determinativi, uno dei quali raffigura il fallo, simbolo di forza generatrice. Uno degli appellativi del sovrano fin dall’Antico Regno era «toro» e a partire dal regno di Thutmosi I (XVIII dinastia) al nome di Horo del 202 Pyr, formula 214, 136 b; 137 c; 139 b-d. 203 Pyr, 1652 c – 1654 d. 204 Pyr, formula 592, 1623 a-c; 1626. 205 A. Erman, Ägyptische Religion, cit., p. 102. 206 Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 83. 207 E. Hornung, Fisch und Vogel: zur altägyptischen Sicht des Menschen, in Eranos, 52 (1983), p. 475. 208 S. Donadoni, La religione egizia: profilo introduttivo, in Civiltà degli Egizi. Le credenze religiose, a cura di A. M. Donadoni Roveri, Istituto Bancario San Paolo, Torino 1988, p. 18. 76 faraone viene aggiunto l’epiteto «toro possente» (kA nxt).209 Il re, depositario di un ka trasmessogli dalla sfera divina, poteva, pertanto, garantire la permanenza dinastica o, più in generale, dell’istituzione monarchica. Anche il ka, come il ba, oltre a essere una componente dell’essere umano, è un principio cosmico. Il demiurgo è dotato di milioni di ka e questa proprietà gli permette di sostenere e ricreare il mondo costantemente. I singoli dei, invece, possono avere un numero variabile di ka; ciò dipende dal raggio d’azione del loro potere creativo. La coesione di tutte queste forze vitali è rappresentata dal serpente primordiale e invulnerabile Nehebu-kau (nHbw-kAw), «colui che tiene insieme i ka», attestato già nei Testi delle Piramidi. Il nome di questo serpente è anche un epiteto di alcune divinità, in particolare di Ra.210 Nei Testi dei Sarcofagi, viene menzionato il serpente Rerek (rrk), che ha l’appellativo di Hedj-kau (HD-kAw), «colui che distrugge i ka» e che impersona il principio contrario, che tenta di scindere questo tessuto di forze.211 Relativamente al ka, gli aspetti che volevamo rilevare sono in breve i seguenti: a) A differenza del ba, il ka non ha a che fare in modo diretto con la sfera corporea; b) Esso costituisce un principio di continuità generazionale, che il padre trasmette al figlio; c) Il ka esercita un’azione difensiva nei confronti dell’individuo al quale appartiene e di salvaguardia della sua identità; d) Esso è inoltre espressione della forza vitale e della capacità di generazione che è presente sia nel cosmo che nell’uomo. Questo aspetto è presente in una certa misura anche nel ba. Il ba e il ka rappresentano, potremmo dire, l’orizzonte e il raggio d’azione della natura umana, specchio della realtà cosmica. Questi elementi, pur possedendo ciascuno una propria specificità, non mostrano confini netti, ma per certi versi si intersecano tra di loro. Sarà, dunque, il contesto a indirizzare e a calibrare, di volta in volta, la lettura di queste nozioni. Abbiamo individuato nella connettività e nella motricità le due principali peculiarità del ba. Questi due aspetti, tuttavia, esercitano la loro azione su un piano che definiremmo «sincronico». Il ba è quel principio che lega e mette in movimento le 209 Cfr. H. Jacobsohn, Die dogmatische Stellung des Königs in der Theologie der Alten Ägypter, Augustin, Glückstadt 1939, p.58. 210 Cfr. Pyr, 346 a; cfr. anche Wb II, 291, 14. 77 diverse regioni dell’esistente, a livello macrocosmico e microcosmico; in questo caso, ci sembra che sia la spazialità a essere posta maggiormente in risalto. Anche il ka esercita un’azione connettiva. Relativamente a questa componente, in genere, si sottolinea il fatto che non è dotata di capacità dinamiche. Se il ka può apparire statico sul piano sincronico, su quello «diacronico» manifesta, tuttavia, un comportamento differente. Esso rappresenta, infatti, un’identità che viene trasmessa dagli antenati ai discendenti e che, pertanto, si muove nel tempo, garantendo la continuità tra le generazioni. In questa direzione può essere letto, per esempio, il seguente passo dei Testi delle Piramidi: «O Unis, il braccio del tuo ka è davanti a te! O Unis, il braccio del tuo ka è dietro di te! O Unis, la gamba del tuo ka è davanti a te! O Unis, la gamba del tuo ka è dietro di te!».212 Relativamente al ka, a nostro avviso, l’elemento che si trova in primo piano è quello temporale. Nell’individuo, come anche nella compagine cosmica, il ba è un fattore di connettività sincronica, il ka, invece, è un fattore di connettività diacronica. Il centro a partire dal quale si proiettano queste due «direzioni» fondamentali dell’esistenza umana è costituito da due elementi ulteriori, dei quali ci occuperemo nel prosieguo: l’ib (cuore) e il ren (nome). 4. La fisiologia corporea Affrontando le nozioni di ba e di ka abbiamo cercato di tracciare la mappa della costellazione Uomo, nei suoi tratti essenziali. La sfera corporea è uno degli elementi della costellazione, nell’ambito della quale svolge un ruolo di importanza non inferiore a quello svolto da ciascuna delle altre componenti. Senza entrare nel dettaglio, più sopra abbiamo definito il corpo «supporto e veicolo del sistema». Ma come viene concepita in realtà la dimensione corporea nell’Egitto faraonico? Le categorie di corpo articolare e corpo inviluppo risultano in questo contesto realmente esplicative? Le fonti alle quali ci rivolgeremo per tentare di dare una risposta a queste domande sono alcuni passi della letteratura medica nei quali viene descritta la fisiologia umana. La documentazione di argomento medico attualmente a 211 78 Cfr. CT, formule 378, 381, 382, 885. disposizione degli studiosi, costituita da un certo numero di papiri, non offre, tuttavia, dei trattati teorici nel senso moderno del termine. Si tratta invece di testi essenzialmente tecnici, redatti per fornire al medico un utile sussidio nello svolgimento della sua pratica quotidiana. Le concezioni mediche non sono quindi esposte direttamente, ma vanno estrapolate attraverso un’analisi approfondita dei testi. Per quanto riguarda la fisiologia umana, i testi più elaborati, che si avvicinano a delle vere e proprie trattazioni, sono il Trattato del cuore, contenuto nel papiro di Ebers,213 e il Trattato sugli ukhedu, del quale sono note due versioni, una riportata dal papiro di Ebers e l’altra, più ampia, dal papiro di Berlino 3038.214 All’inizio del Trattato del cuore, dopo una prima frase che introduce l’argomento, leggiamo: «Dei condotti-met sono in lui (=l’uomo) e sono per ogni parte del corpo [n at nbt]. Quanto a ciò, ogni medico, ogni prete-uab di Sekhmet, ogni sa (-Serqet), che mette le mani o le dita sulla testa, sulla nuca, sulle mani, sulla sede del cuore-ib, sulle braccia, sulle gambe, è in direzione del cuore-haty che effettua il suo esame, perché i suoi condotti-met (dell’uomo) sono per ogni parte del suo corpo ed è indubbio che esso (=il cuore-haty) parla davanti ai condotti-met che appartengono a ogni parte del corpo».215 Le parole chiave contenute in questo passo sono le seguenti: met (mt); haty (HAty); ib (jb). 212 Pyr, 18 a-b. 213 Cfr. Eb. 854 a – 855 z. 214 Cfr. Eb. 856 a – h; Bln 163 a – h. 215 Eb. 854 a. 79 Il termine met è tra quelli che ricorrono più frequentemente nei testi medici.216 Esso si riferisce in generale a qualsivoglia vaso, condotto o canale del corpo umano. I condotti-met veicolano tutti gli elementi e le sostanze indispensabili al mantenimento della vita. In questi canali transitano i liquidi fisiologici, come per esempio il sangue, ma anche fluidi più sottili, ossia le correnti dinamiche e vitali la cui origine è legata alla sfera divina. L’importanza del ruolo svolto dai fluidi fisiologici e dal soffio animatore emerge anche dalla letteratura religiosa; restituire al defunto i suoi liquidi corporei e il soffio significa, infatti, ridargli la vita. Se da un lato i condotti-met trasportano tutto ciò che è funzionale alla vita, dall’altro, attraverso di essi passano e si distribuiscono nel corpo anche le sostanze patogene che sono causa delle malattie. L’immagine che si profila è quella di un corpo animato da correnti vitali apportatrici di movimento. La rigidità dei condotti-met, che per gli Egiziani può subentrare a causa della malattia o della vecchiaia, ostacola la libera circolazione dei fluidi e smorza, pertanto, la capacità di movimento del corpo. Il cadavere è l’espressione estrema di questa rigidità, che determina in questo caso un’assoluta assenza di movimento. Al termine met è stata attribuita, tuttavia, anche un’altra accezione. In determinati contesti, infatti, è stato tradotto con «legamento», «tendine», «muscolo». Questa interpretazione risale a James H. Breasted e allo studio da lui condotto sul papiro medico Smith.217 L’idea è stata ripresa successivamente da Gustave Lefebvre, secondo il quale la parola met, oltre a significare «vaso», «condotto», indica anche «i fasci di tessuto fibroso che noi chiamiamo legamenti, e quelli – contrattili – che formano i muscoli».218 La medesima lettura del termine in questione è riscontrabile anche in altre fonti, tra le quali il monumentale Grundriss der Medizin der Alten Ägypter.219 Non tutti gli studiosi sono però propensi a sostenere questa interpretazione. Nell’ampio saggio introduttivo alla sua traduzione del corpus dei papiri medici egiziani, Thierry Bardinet afferma che la parola met «non si deve mai, e in nessun contesto, tradurre con “legamento” o “muscolo”, poiché non sono i condotti-met che, contraendosi, fanno muovere le parti ossee. Essi ci sono soltanto per far passare le 216 Le fonti più antiche pervenuteci in cui si parla dei condotti-met sono i papiri medici risalenti alla XII o XI dinastia, rinvenuti presso il Ramesseum, insieme ad altri documenti di argomento differente. Uno dei papiri medici indica dei rimedi per questi «canali». 217 Cfr. J. H. Breasted, The Edwin Smith Surgical Papyrus, University of Chicago Press, Chicago 1930, p. 110. 218 219 G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, IFAO, Le Caire 1952, p. 8. Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, Akademie Verlag, Berlin 1961, pp. 400 sgg. 80 correnti dinamiche, ossia la fonte del movimento. Al contrario, la loro contrazione, la loro rigidità è patologica e si oppone a questo movimento».220 Per quanto riguarda, invece, i termini haty e ib, essi vengono generalmente tradotti con «cuore» e questo è in effetti il loro significato generale, anche se, come hanno evidenziato alcuni studiosi, queste due parole non possono essere considerate semplicemente dei sinonimi. I due termini si incontrano non soltanto nei papiri medici, ma ricorrono con frequenza anche nei testi religiosi e letterari. Il primo ampio studio condotto su queste nozioni è stato quello pubblicato da Alexandre Piankoff nel 1930, che rappresenta tuttora un punto di riferimento importante.221 Secondo l’interpretazione proposta da Piankoff, haty indicherebbe, nei testi dell’Antico e del Medio Regno, il «cuore fisico» di un uomo o di un animale, mentre ib designerebbe una sorta di «centro morale». Nei Testi delle Piramidi, per esempio, nei passi in cui le parti del corpo sono identificate con delle divinità, viene utilizzato il termine haty per riferirsi al cuore.222 Tuttavia, l’autore stesso di questa esegesi riconosce che «nei Testi delle Piramidi si trovano molti casi in cui jb appare là dove noi penseremmo di trovare HAty». 223 Nel Libro dei Morti, inoltre, haty e ib vengono spesso utilizzati parallelamente, in modo tale però da non consentire il rilevamento di una differenza di significato. Piankoff assume, pertanto, la seguente posizione: «Noi crediamo di poter dire che, nel periodo classico, il termine HAty significa “cuore”, con una certa preponderanza del senso fisico, mentre jb designa il “cuore” con una preponderanza del senso morale».224 Tra gli studi più recenti sull’argomento quello di Bardinet ha messo l’accento sulla stretta correlazione esistente tra haty e ib, rapporto in virtù del quale essi costituiscono le due parti di un unico complesso. Sulla base di questa constatazione, il cuore-haty viene definito come la «parte (del corpo) anteriore all’ib».225 Il termine hat (HAt), da cui deriva haty, significa, infatti, «ciò che sta davanti», «la parte anteriore». L’ib rappresenta invece un aspetto più interno, esso è la personalità profonda dell’individuo, che ha nell’haty il suo maggiore veicolo di espressione. Il cuore-haty realizza quindi la volontà dell’ib; nel passo del papiro di Ebers sopra 220 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 65. 221 Cfr. A. Piankoff, Le «cœur» dans les textes égyptiens depuis l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel Empire, Geuthner, Paris 1930. 222 Cfr., per es., Pyr, 1310 c; 1547 c. 223 A. Piankoff, Le «cœur» dans les textes égyptiens depuis l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel Empire, cit., p. 11. 224 Ibid., p. 13. 81 citato, esso è denominato «sede dell’ib» (st-jb). L’haty è un centro propulsore che anatomicamente corrisponde all’organo cardiaco e che trasmette le correnti dinamiche nei condotti-met. Dal punto di vista anatomico, l’ib corrisponde, invece, a una realtà più complessa, non circoscrivibile a un organo o a una singola parte del corpo. «L’ib – rileva Bardinet – è un insieme. Esso comprende la totalità delle parti corporee situate dietro il cuore-haty, in quella grande cavità del corpo che forma ciò che gli Egiziani chiamano lo shet e che corrisponderebbe, nella terminologia moderna, nello stesso tempo al ventre e al torace».226 L’ib si estende inoltre in tutte le membra attraverso i condotti-met. In alcuni contesti esso viene anche identificato con un dio. Su un sarcofago della Bassa Epoca, per esempio, leggiamo: «L’ib di un uomo è il suo dio personale, il mio ib è soddisfatto di ciò che facevo quando era nel mio corpo (Xt)».227 Questo passo conferma che il soffio animatore che assicura il mantenimento della vita è espressione del mondo divino. Come aveva già osservato Piankoff, non è possibile attribuire a questi due termini due sfere semantiche dai confini ben delimitati e nettamente separate tra di loro. Essi individuano due elementi indissociabili; ciò che colpisce l’uno ha delle ripercussioni sull’altro e dalla qualità del loro rapporto dipende lo stato di salute o di malattia di un individuo. Il rapporto tra haty e ib può essere paragonato al dialogo tra due interlocutori; leggiamo, infatti, nel papiro di Ebers: «Quanto al fatto che l’ib è inzuppato [amd], è il cuore-haty che non parla più, o ancora sono i condotti-met del cuore-haty che restano muti».228 Secondo la concezione fisiologica che è possibile estrapolare dai papiri medici egiziani, la struttura corporea risulta essere un insieme di ossa alle quali è legata una rete di condotti-met; sembra, infatti, che il ruolo dei muscoli non fosse riconosciuto.229 Il centro del sistema è costituito dal binomio haty-ib, che distribuisce ai condotti-met i soffi che animano il corpo. I papiri medici di Ebers e di Berlino elencano tutta una serie di condotti, specificando in genere la loro funzione fisiologica e le patologie di cui possono essere causa. Nel papiro di Berlino all’inizio della 225 Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 69 sgg. 226 Ibid., p. 71. 227 Testo riportato in A. Piankoff, Le «cœur» dans les textes égyptiens depuis l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel Empire, cit., pp. 92 sg. 228 Eb. 855 e. 229 82 Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 67. rassegna sono indicati i condotti «motori», quelli cioè che portano il soffio al cuorehaty, punto dal quale parte un gran numero di altri canali che raggiungono ogni luogo del corpo: «Il sistema conduttore [sSmt] degli uomini e tutte le malattie che in esso si sviluppano. La sua testa possiede ventidue dei vasi [mtw] che sono in lui (l’uomo). Essi portano il soffio fino al suo cuore-haty e sono loro che danno il soffio a ciascun luogo del corpo».230 I soffi che raggiungono il cuore-haty e che successivamente circolano in tutta la rete dei condotti-met possono essere di tipo differente e avere punti di accesso diversi al corpo umano. Il papiro di Ebers introduce l’argomento con queste parole: «Quanto al soffio che entra nel naso, esso entra nel cuore-haty e nella tracheapolmoni [smA] e sono loro che lo trasmettono a tutto l’interno del corpo [Xt]».231 In questo passo, accanto al cuore-haty sono menzionati anche i polmoni o, più in generale, si fa riferimento al complesso costituito dalla trachea e dai polmoni. La radice sema, che con l’aggiunta del determinativo che raffigura un pezzo di carne forma il termine egiziano che denota questa parte del corpo, significa «unire», «riunire», «legare», «collegare»: sema (smA), unire, legare; sema (smA), polmone, trachea-polmoni. Forse il ruolo dei polmoni, secondo la fisiologia egiziana, è quello di legare il soffio animatore che entra dal naso al sangue. A quanto emerge da un altro passo del papiro di Ebers, i polmoni sarebbero, infatti, una sorta di riserva di sangue; si parla di «masse sanguigne della trachea-polmoni» (snfw nw smA).232 Il sangue, dal canto suo, è il principale veicolo delle correnti vitali. Anche in questo caso possiamo rilevare un’assonanza di termini: senef 230 Bln 163 b. 231 Eb. 855 a. 232 Eb. 855 k. 83 (snf), sangue; senef (snf), far respirare, dare il soffio. L’azione del sangue è inoltre quella di legare gli elementi forniti dall’alimentazione, per garantire l’elaborazione della sostanza corporea. Una serie di passi dei papiri medici mette in evidenza questo aspetto, riferendosi, tuttavia, al sangue che non è più in grado di esercitare la sua azione legante e che necessita, pertanto, di un intervento terapeutico. Vediamo qualche esempio: «Tu dovrai dire a questo proposito: il sangue è un ristagno [sS] che non può essere legato [Ts]».233 «Altro (rimedio) per cacciare un ristagno [sS] di sangue che esso (= il sangue) non è in grado di legare [Ts]».234 «Rimedio per cacciare un ristagno [sS] di sangue che non può essere legato [Ts]».235 Il termine utilizzato in questi brevi passi, ma anche in altri contesti, per indicare il ruolo connettivo del sangue è il verbo tjes (Ts), legare, annodare, riunire, mettere insieme. Questo stesso verbo compare anche in alcuni testi, soprattutto religiosi, del periodo tardo, che espongono una teoria sulla formazione dello sperma e sulla generazione. Secondo questa dottrina la semenza maschile trae origine dalle ossa, grazie a un intervento del dio demiurgo. Questi, in genere nelle vesti del dio Khnum, produce, crea (jr, qmA) la semenza nelle ossa e in seguito «lega» (Ts) la secrezione ossea per permettere lo sviluppo dell’embrione. Consideriamo alcuni dei testi raccolti da Sauneron sull’argomento:236 Nel Tempio di File, Khnum è colui «che crea l’uovo, che fa crescere il pulcino e che crea la semenza nelle ossa e nel ventre [qmA mw m qsw m Xt]».237 Nel tempio di Edfu il medesimo dio ha l’epiteto di «colui che lega [Ts] la semenza nell’osso per dare vita al pulcino».238 233 Eb. 198 a. 234 Eb., 593. 235 Hearst, 143. 236 Cfr. S. Sauneron, Le germe dans les os, in BIFAO, 60 (1960), pp. 19 sgg. 237 Testo citato in H. Grapow, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. I, Anatomie und Physiologie, Akademie Verlag, Berlin 1954, p. 20. Cfr. anche S. Sauneron, Le germe dans les os, cit., p.21. 238 Edfu, V, 185, 1. 84 In entrambi i mammisi di Dendera viene detto ad Amon: «sei tu che fai vivere il pulcino all’interno del suo uovo e che leghi [Ts] la semenza nelle ossa».239 Nel tempio di Esna, Khnum ancora una volta è il dio «che lega [Ts] la semenza all’interno delle ossa».240 L’azione di «legare» la semenza è quella che consente la formazione della struttura ossea dell’individuo che deve venire alla luce. Un passo dei Testi dei Sarcofagi che concerne il concepimento di Horo conferma l’effetto che questa azione divina produce in utero. Il testo recita: «Io sono Iside, la sorella di Osiri, che piange sul padre degli [de]i, Osiri, che ha giudicato i massacri delle Due Terre! La sua semenza è all’interno del mio ventre [Xt=j], essa ha legato [Ts~n(=s)] una forma divina in un uovo».241 Bardinet, esaminando uno dei testi di Esna tradotti da Sauneron, osserva che nel processo di formazione di un nuovo essere vivente anche il sangue svolge un ruolo determinante: «il sangue è necessario alla crescita ossea (dunque alla crescita tout court). Il dio ha fatto in modo che il sangue penetrasse nelle ossa. E’ questo sangue che “legherà” la semenza-osso in ossa, ma questa azione dinamica non si produce che in ragione della presenza di un soffio di vita, fonte di ogni azione dinamica e che è di origine divina. E’ il dio Khnum che fa penetrare il sangue e il soffio che l’accompagna nei luoghi dove la loro azione è necessaria».242 Sulla base degli elementi raccolti e delle considerazioni sviluppate, è possibile affermare, a nostro avviso, che il corpo vivente concepito dalla fisiologia egiziana si presenta essenzialmente come un corpo articolare. I suoi tratti distintivi sono, infatti, la motricità e la connettività. Le correnti dinamiche trasportate dai condotti-met sono la fonte del movimento. Per quanto riguarda, invece, la connessione tra le parti, la rete dei condotti svolge una funzione per certi versi simile a quella dei tendini. I condotti-met, infatti, anche se non si contraggono e la loro identificazione fisiologica con i tendini risulta essere piuttosto dubbia, esercitano un’azione connettiva: essi, diffondendo il soffio vitale, legano e mettono in relazione tra loro tutte le parti del corpo. I condotti tengono insieme le ossa alle quali sono legati e le correnti in essi veicolate permettono allo scheletro di muoversi. Il legame tra i condotti-met e le ossa 239 Testo citato in F. Daumas, Sur deux chants liturgiques des mammisis de Dendara, in Revue d’Egyptologie, 8 (1951), p. 37. Cfr. anche S. Sauneron, Le germe dans les os, cit., p. 22. 240 Esna, 318, 10. 241 85 CT, II, 211 b – 212 b. è ulteriormente suffragato dal fatto che nel papiro di Ebers troviamo un rimedio «per far guarire un osso in ogni luogo del corpo di un uomo» tra le ricette riguardanti i condotti-met.243 La medesima relazione è istituita in un papiro medico-magico del Medio Regno, conservato a Torino.244 Anche il cuore, centro del sistema corporeo, nei suoi due aspetti di haty e ib è generatore di connettività. Abbiamo constatato che il cuore-haty è la sede dei soffi vitali che irrorano tutto il corpo. Esso è inoltre un centro di relazioni, dal momento che tutti i condotti-met passano necessariamente per questo luogo anatomico. Tutte le parti del corpo sono, quindi, in relazione con il cuore-haty. Relativamente alla funzione connettiva dell’ib, invece, leggiamo nei Testi dei Sarcofagi: «E’ il mio ib che creerà le mie membra [awt=j], la mia carne [jwf=j] mi obbedirà e mi costituirà [Ts(w)=f wj; lett.: mi legherà]».245 La «stanchezza» di un cuore che non riesce più a tenere aggregate le membra è sinonimo di morte. Uno degli epiteti di Osiri, in quanto dio dei morti, è «stanco di cuore» (wrD jb). Un cuore debole e affaticato provoca, infatti, una diminuzione delle correnti dinamiche e quindi della vitalità del corpo. Per poter iniziare una nuova esistenza nell’aldilà, il defunto necessita di un cuore riattivato, che occupi saldamente il suo posto; egli afferma pertanto: «Il mio ib non dimentica il suo posto (st=f), esso è fissato sul suo supporto».246 L’Egiziano concepisce, dunque, la vita come movimento e coesione, la morte come assenza di movimento e separazione. Questa impostazione di pensiero mostra una prevalenza di quella che possiamo chiamare una «logica articolare». L’essere umano, in quanto individuo articolare, è una rete di relazioni particolare inserita in un’altra rete di relazioni di carattere universale o cosmico. Il corpo vivente, elemento dell’individuo articolare e sua immagine, è intergrato a sua volta nell’ambiente che lo circonda e intrattiene con esso una serie di scambi. Abbiamo parlato del soffio che entra dal naso e che viaggia attraverso i condotti-met, dispensando al corpo una forza vitale. Non si tratta, tuttavia, dell’unico tipo di scambio. Ciò che viene condiviso con l’ambiente, inoltre, può essere anche di natura patogena e aggredire il cuore-haty o 242 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 148. 243 Eb., 636. 244 Cfr. A. Roccati, Papiro ieratico N. 54003. Estratti magici e rituali del Primo Medio Regno, Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Torino 1970, p. 26. 245 CT, I, 171 e – g. 246 86 CT, VI, 176 f. l’ib. Il papiro di Ebers parla, infatti, di un «soffio di vita» (TAw n anx) e di un «soffio di morte» (TAw n m[w]t), che entrano nel circuito dei condotti-met seguendo vie differenti rispetto a quelle costituite dalle due narici: «Quattro condotti-met sono per le sue due orecchie e (altri) due condotti-met sono per la sua spalla destra e (altri) due per la sua spalla sinistra. Il soffio di vita entra nel suo orecchio destro, il soffio di morte nel suo orecchio sinistro. Si dice ancora: esso (il soffio di vita) entra nella sua spalla destra e il soffio di morte entra nella sua spalla sinistra».247 Descrivendo la fisiologia del corpo vivente alla luce della nozione di corpo articolare, abbiamo cercato di dare una risposta alle domande con le quali abbiamo aperto il paragrafo. Prima di concludere questo capitolo e di proseguire nello sviluppo della tematica antropologica, tuttavia, alcune precisazioni si rendono necessarie; anzitutto per quanto riguarda il concetto di corporeità e la terminologia impiegata dagli Egiziani per parlarne, in secondo luogo relativamente al ruolo del corpo inviluppo nell’ ambito della concezione generale della corporeità. 5. Breve esplorazione del lessico corporeo egiziano Per parlare della dimensione corporea ricorrono più termini nella lingua egiziana. I testi medici, per esempio, non utilizzano un unico vocabolo per indicare il corpo. Nei testi religiosi si trova spesso la parola djet (Dt). Questo termine è attestato già a partire dai Testi delle Piramidi, dove in una delle formule leggiamo: «Il tuo corpo [Dt] è il corpo [Dt] di questo Unis, la tua carne è la carne di questo Unis, le tue ossa sono le ossa di questo Unis».248 Nel contesto dal quale è tratto questo passo viene messa in risalto la funzione di Osiri, in quanto principio di resurrezione. Poiché Osiri è tornato in vita (sDb), anche il sovrano può vincere la morte e ottenere una nuova esistenza nell’aldilà. Djet in questo caso indica il corpo di una divinità o di un essere divinizzato. Questa stessa 247 87 Eb. 854 f. accezione è conservata anche nell’espressione «tuo figlio del tuo corpo» (sA=k n Dt=k) che troviamo, per esempio, nei due passi seguenti: «Ra-Atum, (come) tuo figlio è venuto a te, Unis è venuto a te! Fallo salire a te, stringilo tra le tue braccia, (poiché) egli è tuo figlio del tuo corpo [Dt] eternamente [Dt]».249 «Atum fai dunque salire questo Unis! Avvolgilo nel tuo abbraccio, (poiché) egli è tuo figlio del tuo corpo [Dt] eternamente [Dt]».250 Ciò che, a nostro avviso, è interessante rilevare in questi passi è l’accostamento del termine djet con quello della medesima radice che viene tradotto con «eternità» o «eternamente»: djet o (Dt). Il corpo djet ha a che fare dunque con l’eterna durata della dimensione celeste nella quale è accolto il sovrano dopo aver lasciato il mondo terreno. Anche dai Testi dei Sarcofagi emerge l’importanza che il corpo-djet assume per il defunto: «Sei tu nel cielo? Sei nella terra? Che tua madre Nut ti apra i due battenti del firmamento […] Possa tu venire in pace! Possa tu disporre del tuo corpo-djet! Che i due battenti si scostino! Che si aprano le due porte della tomba!».251 A proposito di djet, Assmann parla di «corpo per l’aldilà» o «corpo di culto», che diventa oggetto delle pratiche funerarie: «Nonostante le operazioni di imbalsamazione siano compiute sul cadavere, esse si riferiscono ugualmente al corpo dell’aldilà. Mentre il corpo mummificato, riccamente ornato, riposa, tanto immobile quanto imperituro, nella camera sepolcrale, il corpo dell’aldilà è libero nei suoi movimenti. Al morto viene formalmente augurato che le bende della sua mummia siano disfatte. Tutte le altre dichiarazioni relative alla ricostituzione fisica e alla restituzione delle membra e degli organi del corpo concernono anche il corpo del defunto nell’aldilà».252 248 Pyr, 193 a-b. 249 Pyr, 160 a-c. 250 Pyr, 213 a-b. 251 CT, VII, 35 h-i; m-p. 252 J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 182. Cfr. anche ibid. pp. 495 sgg. 88 Quanto affermato da Assmann, a nostro avviso, trova un ulteriore riscontro in un altro vocabolo che presenta ancora una volta la stessa radice djet e che indica una istituzione funeraria o un rappresentante della medesima: djet o (Dt). Nei papiri medici sono impiegati termini differenti per denotare la corporeità. In qualche rara occasione, tuttavia, compare anche il corpo djet. All’inizio del papiro di Ebers, per esempio, troviamo un paio di occorrenze di djet, in riferimento, però, alla divinità. Il contesto è, infatti, quello delle formule magiche che vanno recitate in occasione dell’intervento terapeutico. In una di queste formule si chiede a Iside di intervenire in favore dell’orante, assimilato al giovane Horo. In un passo della formula, Horo, figlio di Osiri, è anche «corpo» di Ra: «O Ra, parla in favore del tuo rappresentante (lett.: del tuo corpo djet)! O Osiri, parla in favore di colui che è uscito da te! Allora Ra parlò in favore del suo rappresentante [mdw ra Hr Dt=f] e Osiri parlò in favore di colui che era uscito da lui». 253 In questo caso djet, che si riferisce in primo luogo a Horo, si estende anche alla figura dell’orante soltanto in quanto essa è associata per analogia a questa divinità. Ritroviamo djet anche nel papiro di Berlino, per indicare il corpo della donna, in una formula che propone una sorta di test di gravidanza.254 Djet indica, in ogni caso, una corporeità che principalmente ha a che fare con la dimensione dell’aldilà e che è immagine del divino. Termini ricorrenti nei testi medici sono invece shet e hau. (Xt) (Haw). Entrambi sono attestati a partire dall’Antico Regno e possono riferirsi sia a un essere umano che a una divinità. La parola shet significa propriamente «ventre», «addome» e per estensione «corpo». Anche shet forma un’espressione pressoché identica a quella menzionata relativamente al corpo djet: «suo figlio del suo ventre» (sA=f n Xt=f), ossia «suo figlio 253 Eb. 2 (1, 18-19). Cfr. anche la trad. di Grapow: «O Re, rede über deinen Leib (Dt) […] Es redet Re über seinen Leib (Dt)», in H. von Deines, H. Grapow, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. IV, Übersetzung der medizinischen Texte, Akademie-Verlag, Berlin 1958, p. 309. Cfr. inoltre Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 757. 254 Bln 197. 89 carnale».255 Il senso veicolato da shet, tuttavia, è quello di un involucro, di un contenitore, che è anche un luogo di gestazione. Ritroviamo shet, per esempio, nell’espressione «venire al mondo» (prj m Xt; lett. «uscire dal ventre»).256 Questo vocabolo denota, inoltre, anche il corpo della madre in quanto matrice o quello di Nut, dea del cielo. I Testi delle Piramidi insistono particolarmente sul motivo celeste: «Nut, diventa dunque benefica (poiché) tu eri (già) potente nel ventre [Xt] di tua madre Tefnut, quando non eri nata».257 «Ra, feconda il ventre [Xt] di Nut per mezzo di questa semenza del beato che è in lei».258 «Horo dell’orizzonte, […] quando ti alzi in verità come questa stella nella parte inferiore del corpo del cielo [Xt pt]».259 Anche nei Testi dei Sarcofagi ricorre shet associato al concetto di matrice o seno materno: «O “colui il cui nome è stato creato nel ventre [Xt] di sua madre prima che egli uscisse sulla terra”».260 Secondo Bardinet, lo shet non è semplicemente una cavità addominale ed eventualmente toracica, ma è «comparabile a un “sacco”, a un “involucro (enveloppe) corporeo” con delle “pareti”».261 Shet è dunque un vocabolo che sembra esprimere, in generale, la nozione di corpo inviluppo. Per quanto concerne, invece, il termine hau, esso indica, in diversi passi dei papiri medici, i tessuti molli o la «carne» e questo sembra essere stato il suo significato originale.262 Esiste, tuttavia, una parola più specifica per indicare le parti molli e non ossee del corpo, escludendo i soffi e i liquidi che transitano nei condotti-met: iuf (jwf), carne. 255 Cfr. Wb, III, pp. 356 sg. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 679. 256 Cfr. ibid. 257 Pyr, 779 a-b. 258 Pyr, 990 a. 259 Pyr, 346 b; 347 a. 260 CT, VI, 301 j. 261 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 71, nota 1. 262 Cfr. G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, cit., p. 4. 90 Hau designa anche la superficie corporea e in questo significato può essere accostato a shet.263 Va precisato, tuttavia, che hau, a differenza di shet, non ha l’accezione di ricettacolo materno o matrice. A sostegno di ciò, si può osservare che l’espressione «uscire dal corpo» (prj m Haw), rispetto a quella formata da shet, è in genere seguita da un pronome suffisso maschile, trattandosi del corpo di un dio o del re.264 Più in generale, hau si applica alle diverse parti del corpo e quindi indica il corpo come insieme di membra.265 Un singolo membro è designato dal termine at (at). Breasted ha definito at con l’espressione «any part of the body».266 Lefebvre si spinge oltre, parlando di «organo qualsiasi del corpo». Secondo Bardinet, invece, non sarebbe corretto assimilare at al concetto moderno di organo, in quanto il corpo per gli Egiziani non sarebbe diviso in organi, bensì in luoghi (endroits). Il vocabolo in questione, dunque, «potrà designare tanto delle parti per noi ben precise che delle regioni anatomiche. Per l’Egiziano at è un luogo qualsiasi del corpo che ha un nome. Possedendo un nome, esso ha dunque un’individualità».267 In un certo numero di passi dei papiri medici i due termini at e hau si trovano correlati, indicando il primo la singola parte corporea e il secondo l’insieme delle parti o membra. Un passo del papiro di Ebers, per esempio, parla di un «trattamento per cacciare gli ascessi-benut dal corpo di un uomo [m Haw n s] e da tutte le sue membra [m awt nbt]».268 Possiamo ritenere che, nella fisiologia egiziana, le singole parti o membra corporee siano collegate le une alle altre tramite delle zone di contatto o dei luoghi di giuntura. A questo proposito, infatti, nel papiro di Ebers leggiamo di un medicamento da porre «dove un membro si congiunge a un altro» (dmjw at r at).269 Il concetto di articolazione è comunque presente nella medicina egiziana ed è espresso tramite il duale di at (aty) o il termine composto ra-aty: (rA-aty).270 263 Bardinet nella sua traduzione dei papiri medici privilegia questo significato di hau. 264 Cfr. G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, cit., p. 5. 265 Cfr. Wb, III, pp. 37 sgg. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 545. 266 J. H. Breasted, The Edwin Smith surgical papyrus, cit., p. 322. 267 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 73. 268 Eb. 551 (72, 10-11); cfr. anche Eb. 863 (106, 2-3). 269 Eb. 711. 270 Cfr. Wb, II, p. 396. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 137. 91 Alcuni trattamenti medici, per esempio, hanno la funzione di «ammorbidire le articolazioni (rA-aty) in tutte le membra (m at nbt)».271 Lefebvre si domanda perché questo vocabolo sia al duale.272 L’impiego del duale, a nostro avviso, si spiega con una concezione dell’articolazione come intervallo tra due membra. Il termine ra (rA) significa «bocca», ma anche «apertura», «porta», «entrata». Ra-aty non è, dunque, una parte corporea «piena», ma è la giuntura che unisce e separa due elementi «pieni». In altri termini, l’articolazione è la «bocca» che permette a due parti contigue di dialogare. La sua funzione è quella di garantire la continuità tra le membra là dove esse terminano e di fare in modo che ogni parte sia in relazione con tutte le altre. Le giunture svolgono un ruolo complementare a quello dei condotti-met: l’articolazione ra-aty costituisce in sostanza un «intervallo» tra due «interlocutori», i condotti-met, invece, esercitano, come abbiamo già rilevato, una funzione connettiva simile a quella dei tendini. Sia le articolazioni ra-aty che i condotti-met, per poter svolgere adeguatamente il loro ruolo fisiologico, devono rimanere «morbidi», poiché un loro irrigidimento corrisponde a una diminuzione della capacità di movimento e dell’intensità delle correnti vitali. Anche il papiro di Ebers stabilisce una relazione tra ra-aty e met, in quanto i trattamenti prescritti per rendere morbide le giunture si trovano nel gruppo delle ricette che hanno lo scopo di curare l’irrigidimento dei condotti-met.273 Esiste, tuttavia, un altro termine che può assumere anche il significato di «tendine»:274 rudj (rwD). Attestato già nei Testi delle Piramidi, esso significa propriamente «corda», «legame», «corda d’arco». Questi significati veicolano nello stesso tempo l’idea di vincolo e quella di flessibilità, le due caratteristiche proprie del tendine. Nei testi medici, però, questo vocabolo non assume il significato specifico di tendine.275 271 Eb. 654; H. 123. 272 Cfr. G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, cit., p. 8. 273 Eb. 627 – 696. 274 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 492. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 363. 275 Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, Akademie Verlag, Berlin 1961, pp. 526 sg. In questa fonte, il significato attribuito a rwD nell’ambito dei testi medici è fest sein. 92 Un ultimo termine relativo alla corporeità sul quale vorremmo soffermaci brevemente è quello impiegato per indicare il corpo morto: shat (XAt), cadavere, spoglia. 276 Si tratta del cadavere ancora corruttibile, che deve quindi essere sottoposto alle pratiche di mummificazione. Esso è rappresentato ideograficamente da un pesce morto. Il ruolo e l’importanza di questo elemento vengono messi in rilievo da gran parte della letteratura religiosa, a partire dai Testi delle Piramidi, dove si dichiara che «lo stato di trasfigurato [Ax] è per il cielo e il cadavere [XAt] è per la terra».277 Negli stessi testi, tuttavia, si invocano anche le divinità, affinché impediscano la putrefazione del corpo morto.278 Una formula dei Testi dei Sarcofagi ha lo scopo di evitare «che un cadavere [XAt] scompaia nella terra»: «E’ escluso che il mio cadavere [XAt] si decomponga nella terra! Voglio essere incolume […] E’ escluso che io scompaia […] quando la decomposizione del mio corpo [Haw] [uscirà (?)]».279 Questo sintetico esame del lessico corporeo ci mostra una dimensione dell’essere umano complessa e variegata, che in nessun caso può considerarsi accessoria o comunque meno rilevante rispetto all’insieme delle altre componenti della natura umana. Il corpo è un’immagine del mondo divino e dell’eternità-djet, è inoltre un insieme di membra articolate e in relazione tra loro, ma è anche un involucro o un luogo di gestazione. La funzione del corpo inviluppo, che abbiamo individuato in particolare nel corpo shet, a nostro avviso, non è soltanto quella di contenere delle viscere o di nutrire un nuovo essere in formazione, ma consiste anche nel tenere in gestazione l’individuo, per permettergli di rinnovarsi. Tutto ciò che esiste, infatti, va incontro, per sua natura, a un inesorabile e progressivo deterioramento e necessita di essere periodicamente rielaborato per continuare a sussistere. Secondo questa concezione, la morte è funzionale al rinnovamento della vita. Durante la vita terrena, il corpo inviluppo è complementare al corpo articolare che è l’attore principale. Con la morte, l’involucro assume un ruolo di primo piano, in quanto il corpo morto, 276 Cfr. Wb, III, p. 359. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 680. 277 Pyr, 474 a. 278 Cfr. Pyr, 1257 d. 279 CT, VII, 23 a-b; e-f. 93 mediante il procedimento di mummificazione e i rituali ad esso connessi, diventa il luogo dove le membra disiecta del defunto sono riunite in un nuovo corpo animato e articolato. Assmann evidenzia che shet oltre a designare la corporeità indica anche un insieme o una «corporazione» di dei, ossia un pantheon, concetto che richiama quello di una unità articolata:280 il «corpo mummificato è trasfigurato in un pantheon. In linguaggio informatico, si potrebbe dire che esso è “formattato” per essere “convertito”, membro per membro, in un elemento del mondo divino».281 280 Cfr. supra, pp. 23 sg. Cfr. anche Wb, III, pp. 356 sg e R. Hannig, Grosses Handwörterbuch ÄgyptischDeutsch, cit., p. 679. 281 J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 66. 94 CAPITOLO III OSIRI PROTOTIPO DELL’ESSERE UMANO Abbiamo descritto l’essere umano concepito nell’Egitto faraonico come un individuo articolare. All’interno della costellazione delle componenti in cui si articola la natura umana, l’elemento corporeo ripropone il medesimo modello. La corporeità manifesta, tuttavia, anche un aspetto ulteriore, complementare a quello articolare, che abbiamo delineato utilizzando la categoria di corpo inviluppo. Benché entrambi gli aspetti contribuiscano a strutturare la dimensione corporea, in un corpo vivente il modello articolare detiene un primato. Il corpo, infatti, è in primo luogo la risultante dell’insieme dei rapporti tra le membra che lo costituiscono, dal momento che motricità e connettività sono il denominatore comune di ciò che è vivente. Con l’avvento della morte, la rete di rapporti costitutiva dell’essere umano viene meno. Dell’individuo non resta che una sommatoria di pezzi dis-articolati. In questo contesto, anche il corpo appare come una semplice giustapposizione di membra disiecta. Esso rimane principalmente un «inviluppo» da sottoporre alle pratiche di mummificazione. La mummificazione e i riti di passaggio ad essa connessi sono funzionali al ripristino della rete di relazioni che la morte ha temporaneamente interrotto. Le componenti dell’individualità, una volta riorganizzate in un nuovo sistema di rapporti, garantiscono al defunto un’esistenza post mortem. L’individuo che riesce a realizzare questa condizione è un akh, ossia un «trasfigurato», un vivente della stessa «sostanza» degli dei. La parabola umana è compendiata in uno dei miti più caratteristici della tradizione egiziana, quello di Osiri. Prototipo di colui che, passando attraverso il disfacimento del proprio corpo, ha vinto la morte e si è trasfigurato in un individuo nuovo, Osiri è il simbolo della ciclicità intrinseca alla natura dell’esistente, che per sussistere necessita di un periodico rinnovamento. Nell’inevitabile alternarsi di vita e morte, tuttavia, il primato spetta alla vita; questo dio rappresenta, infatti, la possibilità per l’uomo di raggiungere l’immortalità. L’epiteto di maa-khru 95 (mAa-xrw), giusto di voce, che il tribunale di Ra aveva riconosciuto a Osiri era attribuito a tutti i defunti che avevano vissuto conformemente a Maat, alla legge universale, e ogni defunto era un’immagine di Osiri. 1. Il mito di Osiri come modello antropologico In questo paragrafo vorremmo mettere in risalto gli aspetti fondamentali del mito di Osiri, seguendo una linea espositiva e interpretativa funzionale alla lettura della concezione egiziana dell’essere umano che stiamo proponendo. Anzitutto ci sembra necessaria qualche precisazione preliminare a proposito delle fonti e dell’evoluzione storica di questo mito, che si snodano in un arco temporale che supera i 2500 anni. La versione più completa del mito di Osiri di cui disponiamo è costituita senza dubbio dal De Iside et Osiride di Plutarco. Si tratta di una testimonianza molto tarda (Plutarco vive tra il 50 e il 120 d.C circa) e per di più indiretta, proveniente da un autore greco. Tutti gli elementi essenziali del mito, tuttavia, sono presenti nella cultura egiziana già a partire dall’Antico Regno, anche se non sono organizzati in un racconto lineare e coerente. Le attestazioni più antiche della storia del dio Osiri sono contenute nelle formule dei Testi delle Piramidi, il cui retaggio sfocia nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno e nel successivo Libro dei Morti.282 Una fonte più recente, la stele di Amenmes, risalente alla prima metà della XVIII dinastia, ci ha tramandato un celebre inno a Osiri, che enumera nomi, manifestazioni e forme del dio e riprende i motivi essenziali del suo mito.283 Affrontando il tema della «passione» del dio, le cappelle osiriane del tempio di Dendera, di epoca tolemaica, con le loro raffigurazioni offrono un’ulteriore importante testimonianza.284 Sono molti, inoltre, i documenti che si riferiscono in qualche modo a questo mito, presentandone uno o più aspetti.285 282 Per quanto riguarda le fonti più antiche del mito di Osiri, cfr. N. Guilhou, Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, in Égypte, 10 (1998), pp. 19 sgg. 283 Stele Louvre C 286. In proposito, cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., pp. 725 sgg. 284 Cfr. S. Cauville, Dendara, les chapelles osiriennes, 3 voll., IFAO, Le Caire 1997. 285 Vorremmo ricordare almeno il Racconto della disputa tra Horo e Seth, contenuto nel Papiro Chester Beatty I, risalente alla XX dinastia, e probabile adattamento di un racconto già noto durante il Medio Regno (cfr. A. H. Gardiner, The Library of A. Chester Beatty, London 1931); il Papiro Jumilhac, un trattato di geografia mitologica che spiega le differenti leggende relative al XVII nomo dell’Alto Egitto, raccolte in epoca tolemaica (cfr. J. Vandier, Le Papyrus Jumilhac, Paris 1961); il Papiro Salt 825, contenente il rituale della Casa della Vita (per ankh), redatto, secondo la datazione di P. Derchain, durante la XXX dinastia (cfr. P. Derchain, Le Papyrus Salt 825, rituel pour la conservation de la vie, Bruxelles 1965. Cfr. anche: F. R. Herbin, Les premières pages du Papyrus Salt 825, in BIFAO, 88 (1988), pp. 95 sgg.). 96 Fig. 1 (Osiri sul trono, davanti a lui il faraone Seti I; tempio di Seti I, Abido. Foto di P. Pietrapiana) 97 La storia di Osiri ripercorre le tre fasi principali che secondo gli Egiziani caratterizzano l’esistenza umana: la vita sulla terra, la morte con la conseguente scissione dell’individuo in una somma di parti slegate e infine la reintegrazione di queste parti in una nuova unità, che offre la possibilità di una vita post mortem. Prima di diventare signore dell’Occidente, ossia sovrano del mondo dell’aldilà, secondo il mito, Osiri governava l’Egitto. Relativamente alla sua esperienza sulla terra, le fonti più antiche non sono particolarmente eloquenti. Del regno terrestre di Osiri troviamo, per esempio, qualche cenno nei Testi dei Sarcofagi, dove si afferma che egli ha governato l’Egitto e gli abitanti della terra e che ha fatto cessare il «massacro» (Sat) nelle Due Terre.286 Il massacro in questione probabilmente si riferisce alla situazione di disordine precedente all’intronizzazione di Osiri.287 Il suo regno è presentato, infatti, come un periodo di civiltà e di benessere per l’Egitto. Nella stele di Amenmes, che a questo proposito è più prodiga di informazioni, uno degli appellativi di Osiri è «colui che ha stabilito Maat sulle due rive». Egli, erede di Geb, «ha posto questa terra nella sua mano; le sue acque, i suoi venti, la sua vegetazione, tutto il suo bestiame […] e le Due Terre ne sono soddisfatte. Salendo sul trono di suo padre, come Ra quando spunta all’orizzonte e pone la luce al di sopra delle tenebre, egli ha rischiarato l’ombra per mezzo delle sue due piume, egli ha inondato le Due Terre come Aton all’inizio del mattino».288 Le fonti greche ripropongono l’immagine di un regno civilizzatore. Plutarco riporta che «Osiri inaugurò il suo regno liberando immediatamente gli Egiziani dal loro tenore di vita povero e ferino. Così, mostrò loro i frutti dell’agricoltura, stabilì leggi e insegnò a onorare gli dei. In seguito percorse tutta quanta la terra egiziana, civilizzandola senza avere affatto bisogno di armi».289 Il resoconto di Plutarco relativo all’esperienza terrena di Osiri concorda nella sostanza con quello redatto almeno un secolo prima da Diodoro Siculo.290 Il passaggio dal disordine all’ordine descritto dalle fonti equivale alla creazione del cosmo. La salita al trono di Osiri corrisponde, dunque, alla ripetizione della «prima 286 287 Cfr. CT, I, 189 f-g; CT, II, 211 c. Una delle varianti del nome di Horo della titolatura regale di Osiri, presente a più riprese nel tempio di Dendera è «colui che ha fatto cessare il massacro nelle Due Terre». Cfr. B. Mathieu, Quand Osiris régnait sur terre …, in Égypte, 10 (1998), p. 9. 288 Stele Louvre C 286, righe 9; 11-13. Cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., pp. 737 sg. 289 Plutarco, De Iside et Osiride, 13, 356 A-B, in Id., Iside e Osiride e Dialoghi Delfici, trad. it. di V. Cilento, Bompiani, Milano 2008. D’ora in poi faremo riferimento a questa ed. 98 volta», l’evento che dà inizio all’esistente in seno al non esistente. Egli è il prototipo dell’individuo che realizza Maat sulla terra, condizione indispensabile per lo sviluppo e il mantenimento della vita. In virtù della conformità del suo agire all’ordine cosmico, Osiri è detto Unnefer (wn-nfr), cioè l’essere perfetto.291 Per il pensiero egiziano, tuttavia, la vita è nella sua essenza un movimento perenne. Tutti gli enti, per poter continuare a sussistere, necessitano di una periodica trasformazione. Ogni ordine naturale non può, pertanto, rimanere statico, ma deve potersi riconfigurare. Questo aspetto costituisce il tema affrontato dal nucleo centrale del mito, quello relativo alla morte e alla resurrezione di Osiri. Il racconto di Plutarco parla di una morte in due tempi; la narrazione procede secondo lo schema seguente: 1) Prima morte: Osiri è rinchiuso dal fratello Seth in una cassa e gettato nelle acque del Nilo. 2) Iside, sorella e sposa del dio, si reca fino a Biblo alla ricerca del corpo di Osiri, trova l’urna e la depone in un luogo appartato. 3) Seconda morte: Il corpo di Osiri è trafugato da Seth, fatto a pezzi e disperso su tutto il territorio dell’Egitto.292 4) Iside riesce a recuperare tutte le parti del cadavere dello sposo, tranne il fallo, che viene sostituito da un membro modellato appositamente dalla dea.293 5) In virtù di un’unione postuma tra Iside e Osiri, nasce Harpocrate (Horo bambino). La falsariga indicata nello schema, che costituisce l’ossatura del resoconto di Plutarco, attorno alla quale si inseriscono diversi aneddoti che non trovano riscontro nelle fonti egiziane, è presente già a partire dai Testi delle Piramidi, anche se ci è trasmessa in frammenti sparsi. 290 291 Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, I, 17. Si tratta dell’epiteto ufficiale di Osiri a partire dal Medio Regno. Cfr. British Museum, 580 e la stele di Ikhernofret, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung Berlin, 1204. Nella versione della titolatura del dio, presente nel tempio di Dendera, Unnefer è il nome introdotto dall’appellativo «figlio di Ra» (sA ra), dunque il nome di nascita. Cfr. J. Yoyotte, Une notice biographique du roi Osiris, in BIFAO, 77 (1977), pp. 145 sgg. 292 Relativamente al numero di pezzi in cui è diviso il corpo di Osiri, ci sono più tradizioni. Nel resoconto di Plutarco, le parti sono quattordici e sono messe in relazione con la metà del ciclo lunare. Anche il papiro Jumilhac menziona lo stesso numero di parti; secondo Diodoro Siculo, invece, i pezzi sarebbero ventisei. La geografia sacra illustrata nel tempio di Edfu, infine, elenca quarantadue pezzi del corpo di Osiri, tanti cioè quanti erano i nômi in cui era suddiviso l’Egitto nella Bassa Epoca. 293 L’aneddoto relativo alla perdita e alla sostituzione da parte di Iside del fallo di Osiri non trova riscontro nelle fonti egiziane. In proposito cfr. il commento di C. Froidefond in Plutarque, Œuvres morales, Tome V, 2° partie, Isis et Osiris, Les Belles Lettres, Paris 1988, p. 270, nota 2. Le mummie di Sethi I e Ramses II, tuttavia, potrebbero richiamare, in modo indiretto, questo aneddoto del mito osiriano. In entrambi i casi, infatti, durante il processo di mummificazione, il fallo è stato asportato, bendato e poi riposto in una statuetta cava rappresentante Osiri. 99 Nadine Guilhou ha individuato all’interno del corpus dei Testi delle Piramidi due gruppi di formule che narrano la «doppia morte» di Osiri.294 Per quanto riguarda la prima tappa della morte del dio, un passo sembra menzionare la cassa in cui Osiri sarebbe stato imprigionato: «Nel tuo nome di “Colui che è nella tenda divina, Colui che è nelle bende”, rinchiuso [dbn=w], poiché tu sei nel sarcofago, tu sei nel sacco di pelle».295 I testi del primo gruppo citati da Guilhou, in ogni caso, mettono in risalto soprattutto il gesto di Seth e le sue conseguenze: Osiri è fatto cadere, è abbattuto e giace su un fianco. L’uccisione di Osiri viene messa in rapporto con il luogo della scoperta del suo corpo. Ecco alcuni di questi passi: «Questo Grande è caduto sul suo fianco, colui che è in Nedit è stato abbattuto [nd=w] quanto a lui!».296 «L’ho trovato! L’ho trovato! – ha detto Iside. L’ho trovato! – ha detto Nefti, dopo che ebbero visto Osiri sul suo fianco sulle rive [di Nedit]».297 «E’ venuta Iside, è venuta Nefti, una da Ovest, una da Est, una come uccello-hat, una come nibbio; esse hanno trovato Osiri, (dopo che) l’ha gettato [ndj] a terra suo fratello Seth a Nedit».298 I documenti del secondo gruppo si riferiscono, invece, allo smembramento del dio e alla ricerca e alla raccolta delle parti del suo corpo: «E’ tua sorella primogenita che ha raccolto [sAqwt] le tue carni [jwf=k], che ha piegato le tue mani, che ti ha cercato e trovato, che ti ha scoperto sul tuo fianco sulla riva di Nedit, affinché cessassero le lamentazioni nei Due Consigli!».299 «Oh! Oh! Riassemblati [Ts Tw], questo Teti! Prendi dunque la tua testa [tp]! Riunisci le tue ossa [qsw]! Raggruppa dunque le tue membra [awt]! Togli la terra dalla tua carne [jwf]!».300 «Sono io, tuo figlio! Sono Horo! Egli è venuto verso di te per poterti purificare, per poterti rimettere in buono stato, per poterti fare vivere per poter raccogliere per te le tue ossa [qsw], per poter raccogliere per te i tuoi tessuti molli (?) [nbwt=k] e per poter 294 Cfr. N. Guilhou, Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, cit., pp. 21 sgg. 295 Pyr, 184 a-b. 296 Pyr, 819 a 297 Pyr, 2144 a-b. Nella trad., inserendo «Nedit», seguiamo la lettura di N. Guilhou (cfr. Id., Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, cit., p. 21). 298 Pyr, 1255 c – 1256 b. 299 Pyr, 1008 b – 1009 a. 300 Pyr, 654 a-d. 100 raccogliere per te le tue parti tagliate [dmAwt=k], poiché questo Pepy è in verità Horo che protegge suo padre! E’ per te che egli ha colpito colui che ti ha colpito!».301 Secondo alcuni passi dei Testi delle Piramidi sono Iside e Nefti coloro che recuperano i resti di Osiri dispersi per l’Egitto, conformemente alla testimonianza di Plutarco. Altre volte, invece, come nell’ultimo passo riportato, è Horo a effettuare la raccolta delle parti disperse del padre defunto. Lo stesso Horo è colui che vendica Osiri, contribuendo in questo modo, oltre che alla sua ricomposizione corporea, anche alla sua reintegrazione nella comunità degli dei. Le formule che presentano Horo in questa seconda veste attingono alla sfera del sacrificio, un animale sacrificale è assimilato a Seth, come nel passo seguente:302 «In piedi, affinché tu possa vedere ciò che ha fatto per te tuo figlio! Risvegliati, affinché tu possa comprendere ciò che ha fatto per te Horo! Egli ha colpito per te colui che ti ha colpito come (si colpisce) un bue; egli ha ucciso per te colui che ti ha ucciso come (si uccide) un toro selvaggio; egli ha legato per te colui che ti ha legato e l’ha posto sotto il controllo di tua sorella, la Grande che è in Qedem».303 L’elemento più interessante, funzionale al nostro discorso, che emerge da questi due gruppi di testi non è tanto la scansione temporale che individua due fasi distinte della morte di Osiri che si susseguono, quanto il fatto che la morte di cui si parla sembra chiamare in causa in modo piuttosto evidente un corpo articolare. Le «due morti» di Osiri corrispondono, infatti, al venire meno dei due requisiti essenziali alla vita del corpo articolare: il movimento e la coesione delle parti. Possiamo, dunque, sintetizzare la «doppia morte» di Osiri in questo modo: 1) Osiri è abbattuto e giace immobile a terra: il corpo perde la motricità; 2) il dio viene smembrato e i suoi resti dispersi: il corpo perde la connettività. La ricerca e la raccolta dei pezzi del cadavere di Osiri sono funzionali alla creazione di un nuovo corpo articolare. Relativamente alla morte del dio, tuttavia, è necessario prendere in considerazione un altro aspetto, di rilevanza non inferiore. Ci riferiamo al ruolo svolto dagli umori e dalle viscere del corpo di Osiri e più in generale al rapporto tra il dio e l’acqua. 301 Pyr, 1683 b – 1685 a. 302 In proposito, scrive N. Guilhou: «C’è ogni volta un gioco di parole, difficile da rendere nella traduzione, tra il verbo e il nome dell’animale. Il sacrificio appare chiaramente come un atto di riparazione: a ogni gesto compiuto un tempo da Seth corrisponde un gesto di Horo. Così il male non è soltanto annientato, ma è trasformato in atto positivo […]. La messa a morte dell’animale sacrificale fa parte dei riti funerari effettuati in occasione delle esequie, dopo la ricostituzione del corpo» (Id., Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, cit., pp. 22 sg). 101 Secondo il racconto di Plutarco, la cassa contenente Osiri viene gettata da Seth nel Nilo. Le fonti egizie in più occasioni fanno riferimento al corpo del dio alla deriva sulle acque. Questi documenti hanno fatto pensare all’annegamento come vera causa della prima morte di Osiri. Un riesame di questi testi, tuttavia, sembra escludere questa interpretazione.304 La tesi dell’annegamento si fonda sostanzialmente sul significato attribuito al verbo mehi (mHj). Pascal Vernus è dell’avviso che questo verbo, nei passi in questione, non possa essere tradotto con «annegare»; l’accezione corretta sarebbe, invece, «immergersi», «essere immerso», «andare alla deriva».305 La deriva del corpo di Osiri è un effetto del suo disfacimento in atto. Il processo di putrefazione si è innescato e il cadavere comincia a rilasciare delle sostanze liquide. Iside e Nefti hanno il compito di arginare la dispersione degli umori del loro fratello Osiri e di impedire la dissoluzione completa del suo cadavere. I Testi delle Piramidi si esprimono in questi termini: «Che esse (Iside e Nefti) impediscano che tu ti decomponga [rpw=k] secondo questo tuo nome di Anubi! Che esse impediscano che la tua putrefazione [HwAAt] si versi [sAb] a terra secondo questo tuo nome di Sciacallo [sAb] dell’Alto Egitto! Che esse impediscano che l’odore del tuo cadavere [SAt] diventi cattivo secondo questo tuo nome di Horo di Shat [Hr-SAt]! Che esse impediscano che si putrefaccia [HwAw] Horo l’Orientale! …».306 Il medesimo concetto è esposto nei Testi dei Sarcofagi in modo pressoché identico: «Iside è venuta, è venuta Nefti, l’una da Occidente, l’altra da Oriente, l’una come nibbio, l’altra come uccello-hat, per impedire che tu ti decomponga [rpw=k] secondo questo tuo nome di Anubi, per impedire che la tua putrefazione [HwAAt] si versi [sAb] a terra secondo questo tuo nome di Sciacallo [sAb] dell’Alto Egitto, per impedire che diventi cattivo l’odore del tuo cadavere [XAt] a terra secondo questo tuo nome di Horo della palude [Hr-XAty], per impedire che si putrefaccia [HwAw] Horo l’Orientale …».307 Questa componente del mito è riscontrabile anche nel periodo tardo della storia egiziana. Una formula che appare con frequenza sui monumenti funerari di epoca saita recita, infatti: 303 Pyr, 1976 a – 1977 d. Cfr. anche Pyr, 1007 c; 1544 a – 1545 d. 304 Per una rassegna e un’analisi di questi documenti, cfr.: P. Vernus, Le Mythe d’un mythe: la prétendue noyade d’Osiris. – De la dérive d’un corps à la dérive du sens, in Studi di egittologia e di antichità puniche, 9 (1991), pp. 19 sgg. 305 Cfr. ibid., pp. 24 sgg. 306 Pyr, 1257 a – 1258 a. 102 «Se tua sorella Iside è venuta a te […] è per proteggerti, affinché tu non vada alla deriva [mHj]».308 Vorremmo far notare alcuni giochi di parole che ricorrono nei due passi appena citati, estratti dai Testi delle Piramidi e dai Testi dei Sarcofagi. L’utilizzo della paronomasia, frequente nei testi egiziani, in questo caso pone in primo piano l’aspetto umorale e acqueo del corpo di Osiri.309 In entrambe le fonti sono impiegati due termini con la stessa fonetica per indicare il verbo «colare», «gocciolare» e lo sciacallo, che in questo contesto rappresenta una caratteristica della natura di Osiri: sab (sAb), colare, gocciolare; sab (sAb), sciacallo, cane selvaggio. Nel primo passo troviamo, inoltre, il termine shat, in riferimento al cadavere e a un’altra connotazione di Osiri, espressa dall’appellativo «Horo di Shat»: shat (SAt). Nella grafia del termine è presente il segno unilittero che rappresenta un lago o uno stagno: Her-shat (S); (Hr-SAt), Horo di Shat. Nel passo tratto dai Testi dei Sarcofagi, invece, vengono abbinati i due termini seguenti: shat Hr-shaty (XAt), cadavere, salma; (Hr-XAty), Horo della palude.310 Anche questa volta viene messo in risalto l’elemento liquido, umorale del cadavere di Osiri. L’aspetto «umorale» del corpo del dio e il ruolo svolto da esso nell’ambito del mito consente, a nostro avviso, di considerare la morte di Osiri doppia anche in un 307 CT, I, 303 d – 304 e. 308 Cfr. P. Vernus, Le Mythe d’un mythe: la prétendue noyade d’Osiris. – De la dérive d’un corps à la dérive du sens, cit., pp. 22 sgg. 309 Relativamente alla paronomasia, cfr. infra, pp. 290 sgg. 310 Shaty è un nome di relazione (o nisbe) formato a partire dal sostantivo shat (XAt), che significa «palude», «laguna». Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 680. 103 senso differente e, tuttavia, complementare rispetto a quello proposto poco sopra. Le fonti prese ora in considerazione descrivono, infatti, la morte di un corpo inviluppo, ossia di un involucro che si decompone e che rilascia il suo contenuto. In base a questa lettura, la morte del dio risulta doppia perché chiama in causa entrambi gli orizzonti della dimensione corporea: quello articolare e quello relativo al corpo inviluppo. L’azione di Iside e Nefti, volta a contenere la dispersione degli umori e a canalizzarne il flusso, prelude alla ricostituzione del corpo del dio. Secondo i Testi dei Sarcofagi, le due dee costruiscono una diga attorno al corpo del fratello defunto, cosa che fa pensare a una sorta di sarcofago, quindi a un luogo di gestazione: «Guarda, dunque: ti ho trovato sul tuo fianco, Grande Inerte. “Sorella mia”, ha detto Iside a Nefti, “costui è (nostro) fratello! Vieni, affinché solleviamo la sua testa! Vieni, affinché raccogliamo le sue ossa [qsw]! Vieni, affinché controlliamo le sue membra [awt]! Vieni, in modo da fare una diga [Dnjt] attorno a lui! Che l’Inerte non sia debole grazie a noi!” Cola [sAb], umore [rDw] uscito da questo Beato [Ax]! Riempi dunque i canali! Forma i nomi dei fiumi! Osiri, vivi dunque …».311 Gli umori che fuoriescono dal corpo di Osiri presentano una doppia valenza: da un lato essi sono un segno di morte, di una progressiva dissoluzione dell’individualità, dall’altro, una volta incanalati e governati, sono portatori del potere vitale insito nel dio, in grado di irrorare e fecondare le regioni dell’esistente. La componente umorale è assimilabile, dunque, alle acque primordiali del Nun o a quelle dell’inondazione che periodicamente bagnano e rinnovano la terra della Valle del Nilo. Nel capitolo precedente abbiamo già avuto modo di rilevare l’importanza degli umori di Osiri, nella misura in cui essi danno origine al ba, elemento dinamico per eccellenza e fattore di integrazione dell’individualità umana. Degli Egiziani Plutarco scrive che «non solo il Nilo, sì anche ogni forma di umidore, essi la chiamano, senz’altro, emanazione di Osiri; e nei loro riti sacri, costantemente, apre il corteo, a onore del dio, un’idria colma».312 In effetti, gli Egiziani consideravano l’acqua come la secrezione del corpo di Osiri, soprattutto quando essa veniva offerta al defunto sotto forma di libagione. Quest’ultima costituiva la parte essenziale del 311 CT, I, 306 c – 307 f. 312 Plutarco, De Iside et Osiride, 36, 365 B. 104 rituale funerario.313 L’acqua rappresentava, infatti, il fluido vitale in grado di rianimare l’ib del defunto e di rinnovare integralmente il suo essere.314 L’opera di contenimento degli umori di Osiri, intrapresa da Iside e Nefti, è il primo atto della ricostituzione del suo corpo, dopo la doppia morte subita. Il processo di rigenerazione parte dall’elemento liquido, così come l’esistente, la «prima volta», scaturisce per opera di un demiurgo dalle acque indifferenziate del Nun. All’interno della distesa liquida in espansione, costituita dagli umori del dio, le due dee circoscrivono un «luogo».315 La costruzione della diga individua, infatti, un limite, un «confine» all’interno dell’indifferenziato: l’espressione utilizzata nei Testi dei Sarcofagi mette in evidenza questo aspetto: Dnjt m Dr=f (lett.: una diga come suo confine).316 In questa fase dell’iter di Osiri, la presenza di un inviluppo, di un contenitore è la premessa necessaria per creare una nuova rete di relazioni a partire dalla sommatoria di parti corporee disarticolate. Nei passi che abbiamo preso in considerazione poco sopra Osiri è associato allo sciacallo, immagine del dio Anubi, che nella tradizione egiziana ricopre il ruolo di guida dei defunti e imbalsamatore. Uno degli epiteti attribuiti a questo dio è Imy-ut (jmy-wt), che può essere tradotto come «colui che è nelle bende» o «colui che è nell’involucro». Il termine ut (wt), infatti, variandone il determinativo, può assumere i significati di «benda della mummia», «inviluppo», «imbalsamatore», «sarcofago». Il verbo omonimo significa «avvolgere», «inviluppare», «bendare».317 Nel contesto esaminato, Anubi è messo in relazione con gli umori che fuoriescono dal corpo di Osiri in decomposizione. L’azione di questo dio va ad aggiungersi a quella di Iside e Nefti, diretta ad arrestare il processo di decomposizione della salma del loro fratello. Anubi in quanto agente della mummificazione da un lato impedisce che gli umori intacchino 313 In proposito, Assmann afferma: «Quando aveva la forma di un rituale completo, il culto funerario poteva comprendere una quantità di azioni e di presentazioni differenti, tra le quali un gran numero di riti con l’acqua. Esso poteva essere, però, anche accorciato o addirittura semplificato all’estremo e ridursi a una libagione d’acqua. Tutto era contenuto in nuce nella libagione» ( Id., Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., pp. 514 sg). 314 Cfr., per es., Pyr, formule 32 e 33. 315 La circoscrizione di un luogo da parte delle due dee richiama l’immagine della collina primordiale di cui parlano le cosmogonie egiziane, ossia della prima terra ferma emersa dall’oceano primordiale, a partire dalla quale il dio demiurgo dà luogo alla manifestazione cosmica. 316 CT, I, 307 a. 317 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 238 sg. 105 irrimediabilmente il cadavere, dall’altro crea l’involucro che permette la gestazione di un nuovo essere.318 Un passo dei Testi delle Piramidi, istituendo un’analogia tra il re Pepy I, Osiri e Anubi, presenta l’immagine di un corpo asciutto, secco, privo di umori e, pertanto, non più soggetto alla decomposizione: «Che Iside si sieda, con le sue due braccia su di lei! Nefti ha afferrato l’estremità dei loro due seni per loro fratello Pepy, raggomitolato sul suo corpo [Xt], (come) Osiri nel suo pericolo, (come) Anubi capo della stretta [xnty Amm]. Tu non hai decomposizione [jmk], questo Pepy! Tu non hai traspirazione [fdt], questo Pepy! Tu non hai umori [rDw], questo Pepy! Tu non hai polvere, questo Pepy!».319 Una formula dei Testi dei Sarcofagi, invece, si sofferma sull’opera del dio sciacallo in questi termini: «Che Anubi renda gradevole il tuo odore davanti al tuo posto nella tenda divina! Che egli ti dia l’incenso [per ogni stagione] […] Anubi si ricorderà di te in Busiri, il tuo ba si rallegrerà in Abido, il tuo cadavere [XAt] che è sull’altopiano desertico si rallegrerà. [L’imbalsamatore] si rallegrerà in qualunque luogo egli si trovi! Possa tu essere messo in conto e preservato sotto la forma di questa mummia [saH] che è davanti a me! Che l’ib di Anubi sia soddisfatto dell’abilità delle sue due mani!».320 Nella ricostituzione del corpo di Osiri interviene anche un’altra divinità: Nut, dea del cielo e madre del dio. L’intervento di Nut conferma ulteriormente il ruolo di primo piano dell’involucro o inviluppo nella parte del mito che stiamo esaminando. Se da un lato, come abbiamo rilevato, l’azione congiunta di Iside, Nefti e Horo permette il recupero e la riunione dei pezzi del cadavere di Osiri, impedendone la completa dissoluzione, dall’altro, per una effettiva riarticolazione e rianimazione del corpo, si rende necessario un elemento ulteriore: il sarcofago. Anubi presiede alla mummificazione del corpo defunto, Nut è il sarcofago che contiene la mummia; grazie ad esso la gestazione può essere portata a termine con esito positivo: «Tu sei stato dato a tua madre Nut nel suo nome di “Sarcofago” [qrswt], ella ti ha messo insieme [inq~n=s] nel suo nome di “Bara” [qrsw]! Tu sei condotto in alto da lei nel suo nome di “Tomba” [ja]!».321 318 Per quanto riguarda il rapporto tra Anubi, la mummificazione, gli umori e le viscere, cfr.: J.-C. Goyon, Momification et recomposition du corps divin: Anubis et les canopes, in Funerary Symbols and religion, Essays dedicated to Professor M.S.H.G. Heerma van Voss, J. H. Kok, Kampen 1988, pp. 34 sgg. 319 Pyr, 1281 b – 1283 b. 320 CT, I, 195 g – 196 b; 197 h – 198 f. 321 Pyr, 616 d-f. 106 L’importanza del ruolo svolto da una Dea Madre nel processo di rinascita del defunto è testimoniato dalle iscrizioni e dalle raffigurazioni di numerosissimi sarcofagi, a partire dall’Antico Regno. Si tratta di quell’immagine della morte che Assmann ha definito «ritorno nel grembo materno».322 La Grande Madre Nut, avvolgendo il corpo del figlio Osiri, assembla nuovamente le sue ossa in una struttura articolata e, pertanto, animata: «Tua madre è venuta affinché tu non languisca, Nut, affinché tu non languisca, Colei che avvolge [Xnm] il Grande, affinché tu non languisca e Colei che protegge lo Spaventato, affinché tu non languisca! Ella ti proteggerà e impedirà che tu languisca, ella ti darà la tua testa [tp=k], riunirà [jab] per te le tue ossa [qsw], raggrupperà [dmD] le tue membra [awt] e ti porterà [jnt] il tuo ib nel tuo corpo [Xt]».323 Su un sarcofago del Medio Regno leggiamo, invece: «Questo Osiri N, tua madre è venuta a te. Guarda, Nut è venuta, per poter riunire [wjab(w)=s] le tue ossa [qsw], per poter riattaccare [Ts(w)=s] i tuoi tendini [rwDw], per poter consolidare [smn(w)=s] le tue membra [awt], per poter impedire la tua decomposizione e per poter prendere la tua mano, affinché tu possa vivere nel tuo nome di Vita, vivente in eterno!».324 Le membra disiecta del corpo di Osiri si riorganizzano, dunque, in una nuova rete di relazioni, ossia in un nuovo corpo articolare, la cui struttura essenziale, come abbiamo rilevato, è costituita dalle ossa, animate dai condotti-met. Nell’ultimo passo dei Testi delle Piramidi che abbiamo riportato vengono menzionate le ossa e il cuoreib, ossia il centro dell’individuo che realizza la sua volontà attraverso il cuore-haty, la sede privilegiata dell’ib che trasmette le correnti vitali nei condotti. La fisiologia esposta nei papiri medici, come abbiamo riscontrato, sembra attribuire al cuore-ib l’insieme dei condotti-met, attraverso i quali esso raggiunge ogni parte del corpo. Nella formula tratta dai Testi dei Sarcofagi, invece, non viene menzionato l’ib, si insiste ancora, tuttavia, sulla riarticolazione delle ossa e, più in generale, delle membra, chiamando in causa anche i tendini. Un’altra formula dei Testi dei Sarcofagi pone l’accento sulla necessità di riattivare il circuito dei soffi vitali all’interno del corpo del defunto assimilato a Osiri : 322 Cfr. supra, pp. 44 sg. 323 Pyr, 827 b – 828 c. 324 CT, formula 850. 107 «Osiri N giusto di voce, Iside viene a te per permettere che l’aria [TAw] arrivi, poiché ella desidera che essa entri nelle tre cavità che sono nella tua testa, affinché tu possa vivere e che tu possa parlare davanti a lei, Osiri N giusto di voce!».325 L’importanza dell’aria e della respirazione nel processo di resurrezione di Osiri viene rimarcata anche dalla stele di Amenmes: «E’ lei che fa (per Osiri) dell’ombra con le sue piume, che crea [xprt] l’aria [TAw] con le sue ali, che fa (dei riti) di giubilo [hnw] e fa approdare [mnjt] suo fratello».326 Iside, accostandosi al fratello defunto sotto forma di uccello, con lo sbattere delle ali genera una corrente dinamica, apportatrice di nuova vita nelle membra del dio. Abbiamo messo in evidenza l’importanza degli umori e dell’involucro nel processo di ricomposizione del corpo articolare divino. Cercheremo ora di fare un passo ulteriore per comprendere meglio il rapporto tra l’aspetto articolare e la dimensione costituita dal corpo inviluppo e dalla sua componente umorale. Gli umori che fuoriescono dal cadavere di Osiri provengono dalla dissoluzione delle viscere contenute nella cavità denominata shet (Xt). Gli studi condotti da Bardinet sui papiri medici portano a ritenere che il contenuto dello shet sia considerato dalla fisiologia egiziana parte integrante della struttura anatomica dell’ib.327 I testi religiosi sottolineano a più riprese la necessità di ricollocare il cuore-ib del defunto all’interno del corpo-shet. L’ultimo passo dei Testi delle Piramidi sopra riportato mostra che anche l’intervento di Nut è funzionale a questo scopo. Un altro passo dei medesimi testi sviluppa in modo significativo questo aspetto: «Io ti ho portato il tuo ib e l’ho posto per te nel tuo corpo-shet, come Horo aveva portato [jnt] l’ib di sua madre Iside e come Iside aveva portato [jnt] l’ib di suo figlio Horo!».328 Ritroviamo lo stesso concetto espresso anche nei Testi dei Sarcofagi: «Io ti ho portato [jn~n] il tuo ib nel tuo corpo-shet, come Horo portò [jnt] un ib a sua madre e come Iside portò [jnt] un ib a suo figlio Horo!».329 Questi passi fanno riferimento a un reciproco scambio di ib tra Iside e Horo. Secondo il mito Iside genera con lo sposo defunto un Horo infante (l’Harpocrate di cui parla 325 CT, formula 777. 326 Stele Louvre C 286, riga 15. Cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., pp. 741 sgg. 327 Cfr. supra, p. 82. 328 Pyr, 1640 a-c. 329 CT, I, 80 l-o. 108 Plutarco).330 Bardinet sostiene che la semenza grazie alla quale Iside concepisce Horo è il risultato della dissoluzione delle parti corporee afferenti all’ib di Osiri.331 Trasmettendo ciò che resta dell’ib del suo sposo al figlio, Iside permette la rigenerazione dell’ib di Osiri in Horo. E’ necessario, quindi, che Horo a sua volta ritrasmetta l’ib a suo padre. Ciò avviene, secondo lo studioso, attraverso l’azione dei quattro figli che Iside genera con Horo: Hapi, Duamutef, Imseti e Qebehsenuf. Queste divinità nel Nuovo Regno furono associate ai quattro vasi canopi che dovevano custodire le viscere del defunto estratte dalla cavità shet.332 La rimozione degli organi interni dal cadavere è una pratica che risale all’Antico Regno e che diventa usuale nel Medio Regno, epoca a partire dalla quale vengono impiegati quattro contenitori differenti per conservare le interiora. A ciascuno dei suoi quattro figli Horo trasmette una parte dell’ib di suo padre; le formule citate affermano, infatti, che egli «portò un ib a sua madre». La progenie di Horo restituisce, quindi, a Osiri il suo cuore-ib rinnovato, nuovamente in grado di tenere insieme il complesso delle parti corporee del dio e di irrorarlo attraverso i condotti-met. L’interpretazione di Bardinet, a nostro avviso, trova indubbiamente delle buone fondamenta su cui poggiare nelle fonti religiose egizie, che fanno entrare a pieno titolo i quattro figli di Horo nel processo di resurrezione di Osiri. In più occasioni i Testi delle Piramidi mettono in rilievo il ruolo di queste quattro divinità: «Tutti i tuoi nipoti (lett.: i figli dei tuoi figli) ti hanno riassemblato [Ts], Hapi, Duamutef, Imseti e Qebehsenuf, dei quali tu hai creato in totalità i nomi».333 «Che si alzino questi quattro re per Pepy: Hapi, Duamutef, Imseti e Qebehsenuf, la discendenza di Horo di Latopoli! Che essi leghino una scala di corda [qAs] per Pepy! Che erigano una scala [mAqt] per questo Pepy! Che facciano salire Pepy accanto a 330 Cfr. Pyr, 632 a-d; 1635 b – 1636 b. Cfr. anche Stele Louvre C 286, riga 16 (A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., pp. 743 sg). Cfr. inoltre Plutarco, De Iside et Osiride, 19. Nelle fonti non è immediatamente chiaro il rapporto tra l’Horo infante e l’Horo che raccoglie i pezzi del cadavere di suo padre. In proposito, cfr. N. Guilhou, Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, cit., p. 24. 331 Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 74 sgg. 332 Generalmente si attribuisce ad Hapi, rappresentato con la testa di un babbuino, la conservazione dei polmoni, a Duamutef, a testa di sciacallo, quella della milza o dello stomaco, a Imseti, a testa umana, quella del fegato e, infine a Qebehsenuf, a testa di falco, la salvaguardia degli intestini. Relativamente a queste corrispondenze, tuttavia, non sempre c’è accordo tra i dati archeologici e quelli testuali. I quattro figli di Horo proteggevano, più precisamente, i coperchi dei vasi canopi; i quattro vasi erano custoditi, invece, da altrettante divinità femminili. Hapi era associato a Nefti, Duamutef era in coppia con Neith, Imseti con Iside e Qebehsenuf insieme a Serket. Gardiner ha raccolto un certo numero di testi che attribuiscono le diverse viscere ai ciascuno dei quattro figli di Horo; cfr. A. H. Gardiner, Ancient Egyptian Onomastica, vol. II, Oxford University Press, Oxford 1947, pp. 245* sgg. 333 Pyr, 1983 a-c. 109 Khepri, affinché questo Pepy venga all’esistenza sul lato orientale del cielo! […] le corde che sono in essa (la scala) sono consolidate [srwD=w] con i tendini [rwDw] di Gasuti, il toro del cielo…».334 In un altro passo si invocano i quattro figli di Horo affinché proteggano Osiri fino a quando egli non sarà riportato in vita (sDb) e colpiscano Seth.335 Le quattro divinità sono anche associate ai quattro arti che permettono al defunto risorto a nuova vita di muoversi nella dimensione dell’aldilà: «Sono le tue due braccia, Hapi e Duamutef, che tu solleciti affinché tu possa salire verso il cielo [pt] ogni volta che sali! Sono le tue due gambe, Imseti e Qebehsenuf, che tu solleciti affinché tu possa discendere verso il cielo inferiore [nnt], ogni volta che tu discendi!».336 Dalle formule riportate emerge che l’azione dei quattro figli di Horo consiste nel ridare coesione e movimento al corpo di Osiri. E’ espresso, infatti, il concetto di «legare», «assemblare» (Ts). Le corde della scala che conduce alla dimensione celeste sono paragonate a dei tendini (rwDw). Seth, la forza che contrasta la coesione delle parti viene neutralizzata. Il re defunto, equiparato a Osiri, dispone, infine, di membra che gli consentono di muoversi liberamente. I Testi dei Sarcofagi riconoscono alle quattro divinità il medesimo ruolo. Troviamo, infatti, quattro formule dedicate a ciascuna di esse, nelle quali Horo invoca il loro intervento a favore della rigenerazione del defunto, immagine del padre Osiri.337 In particolare, nella formula relativa a Imseti leggiamo: «Figlio mio, vieni! Dirigiti verso mio padre, questo Osiri N, nel tuo nome di Imseti! Vieni, dunque, affinché tu possa rimettere insieme [sAq] mio padre, questo Osiri N!».338 Un compito simile viene chiesto anche ad Hapi e a Duamutef, dal momento che nelle formule corrispondenti è utilizzato il verbo iab (jab), che oltre a significare «raggiungere», «riunirsi» a qualcuno, denota anche l’atto di «riunire» le membra di 334 Pyr, 2078 a – 2080 c. 335 Cfr. Pyr, 1333 a – 1334 a. 336 Pyr, 149 a-b. 337 Cfr. CT, formule 520 – 523. 338 CT, VI, 109 i – 110 a. 110 un defunto o di Osiri stesso.339 Il testo più esplicito, tuttavia, è quello relativo a Qebehsenuf: «Vieni, rinfresca dunque mio padre! Dirigiti verso di lui nel tuo nome di Qebehsenuf […] Riuniscilo [jab], dunque! Rimettilo insieme [dmD], dunque! Legalo [Ts] dunque alle sue ossa [qsw]…».340 Anche nel Libro dei Morti, che raccoglie l’eredità dei testi menzionati, sono presenti delle formule analoghe, dedicate ai quattro figli di Horo. Nel passo relativo a Qebehsenuf, tuttavia, troviamo un’aggiunta importante; si fa riferimento all’azione apportatrice dell’ib nel corpo-shet di Osiri: «Io sono Qebehsenuf! Sono venuto per poter essere la tua protezione, N! Io ho rimesso insieme [dmD] per te le tue ossa [qsw] e ho riunito [sAq] per te le tue membra [awt], ti ho portato il tuo ib, voglio metterlo per te al suo posto nel tuo corpo-shet».341 Le fonti esaminate confermano che l’opera svolta dalla discendenza di Osiri è funzionale alla rigenerazione e alla ricollocazione dell’ib del dio. Precedentemente alla generazione e al successivo intervento di Horo e dei suoi quattro figli, Osiri si trova nello stato indicato in più contesti dall’espressione «stanco di cuore» (wrD jb). In questa condizione, il binomio haty-ib non è più in grado di tenere insieme le membra e di trasmettere loro il movimento. Nell’involucro costituito dal corpo della dea Nut avviene la riarticolazione delle membra di Osiri; la ricostituzione dell’ib, tuttavia, ha luogo a partire dalla componente umorale, alla quale appartiene anche la semenza grazie alla quale Iside concepisce Horo.342 Gli umori sono in relazione con le viscere contenute nella cavità shet e, quindi, con la sfera del corpo inviluppo. Tutto ciò ci porta a concludere che l’ib è il trait d’union che collega tra loro il corpo articolare e il corpo inviluppo. Esso, infatti, da un lato costituisce il centro coesivo e animatore del corpo articolare al quale fa capo tutta la rete dei condotti-met, dall’altro comprende le viscere contenute nell’involucro shet. Durante la vita prevale il primo aspetto, durante la fase di passaggio costituita dalla morte prevale, invece, il secondo. Si tratta, dunque, di due dimensioni che si intersecano e che, in base alle circostanze riorientano la loro relazione, senza mai generare, tuttavia, una cesura tra 339 Cfr. CT, formule 521; 522. Relativamente al verbo menzionato, cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 28 sg. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 32. 340 CT, VI, 114 g – 115 a; 115 d-e. 341 Libro dei Morti, cap. 151 A. 342 Nella formula 525 dei Testi dei Sarcofagi vengono menzionati l’uno di seguito all’altro l’intervento di Nut e quello dei quattro figli di Horo. 111 di loro. Tutto ciò che attiene alla natura dell’involucro è funzionale alla rigenerazione e alla riarticolazione di una individualità. Corpo articolare e corpo inviluppo costituiscono, dunque, due versanti dell’essere umano imprescindibili e non separabili, che alternativamente detengono un primato l’uno sull’altro. 2. Le forze cosmiche e la rinascita di Osiri Il mito di Osiri mette in scena diversi personaggi; uno di essi, il dio Seth, rappresenta il principio della dissociazione, dell’isolamento, che si manifesta come azione violenta che recide dei legami e interrompe un movimento. Tutti gli altri attori che a turno recitano la loro parte sulla scena del mito operano, invece, in senso opposto. Il loro compito è quello di ricostituire il corpo del defunto Osiri e di reintegrare il dio nell’ordine cosmico. Le divinità che cooperano all’attuazione di questa rinascita sono molte; di queste ci siamo limitati a menzionare le principali. Per maggiore chiarezza, possiamo sintetizzare così il loro ruolo: 1) Iside e Nefti recuperano le membra disiecta di Osiri, ne arrestano la decomposizione, arginando la dispersione degli umori, e ricompongono il corpo del dio; 2) Anubi neutralizza definitivamente l’azione corrosiva degli umori, realizzando un primo involucro: la mummia; 3) Il ventre di Nut costituisce un secondo involucro: il sarcofago, nel quale le membra ricomposte di Osiri vengono riarticolate e l’ib, cioè il centro di coesione e movimento del sistema, viene ricollocato al suo posto (l’atto del ricollocare l’ib nel corpo del defunto è, in realtà, attribuito a più divinità dalle fonti); 4) L’ib di Osiri viene ricostituito a partire dalla dissoluzione delle viscere contenute nel corpo-shet e restituito al dio. Gli artefici di questa operazione sono Iside, Horo e i suoi quattro figli; 5) Horo agisce su due livelli: da un lato, secondo le fonti, partecipa alla ricomposizione del corpo del padre, dall’altro, affrontando Seth, restituisce a Osiri la sua dignità e il suo ruolo nell’ambito della comunità degli dei. Il secondo livello è relativo, dunque, alla reintegrazione cosmica di Osiri. La rinascita di Osiri coincide con una riorganizzazione e un rinnovamento di tutto l’esistente. L’ordine di Maat è ristabilito ovunque. La stele di Amenmes evidenzia in modo eloquente questo stato di benessere generale: 112 «Il figlio di Iside ha vendicato suo padre e il suo nome diventa illustre e perfetto. La forza è messa al suo posto; l’abbondanza si stabilisce grazie alle leggi di questo. Le vie sono libere; i cammini sono aperti. Come sono rese felici le Due Terre! Il male svanisce; l’accusatore si allontana. La terra è in pace sotto il suo signore. La giustizia [mAat] è ben stabilita per il suo signore; si voltano le spalle all’ingiustizia. Che il tuo cuore [jb] sia felice, Essere Perfetto [wn-nfr]!».343 I personaggi protagonisti del mito sono, inoltre, legati tra loro da rapporti di parentela; essi impersonano, infatti, principi e aspetti differenti di uno stesso cosmo, tutti indispensabili per la sua conservazione. Lo stesso Seth, riconosciuto colpevole e condannato dal tribunale degli dei, non viene annientato una volta per tutte. La sua eliminazione definitiva comporterebbe, infatti, la cancellazione della sfera dell’esistente. L’abbattimento di Seth assume, dunque, la forma simbolica del sacrificio di un animale.344 Allo stesso modo, nei libri dell’oltretomba del Nuovo Regno il serpente Apopi, che ogni notte si oppone a Ra per arrestarne la marcia, è costantemente neutralizzato dalle divinità alleate del dio sole, ma non è mai sconfitto per sempre. Nel pensiero egiziano, come abbiamo già rilevato, la vita e l’ordine che la regge detengono un primato sul non esistente.345 Essi contengono in se, tuttavia, anche la loro negazione che, se da un lato rappresenta un’effettiva possibilità di annientamento, dall’altro costituisce anche un elemento funzionale al loro rinnovamento e alla loro sussistenza. In proposito, Plutarco si esprime in questi termini: «È un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non sono, però, equilibrate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell’anima dell’universo, in un duello perenne con la potenza del bene».346 La «giustificazione» di Osiri e la conseguente condanna di Seth da parte del tribunale divino rappresentano l’ultimo atto della ricostituzione corporea e della reintegrazione 343 Stele Louvre C 286, righe 22-24. Cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., p. 747. 344 Cfr. supra, p. 101. 345 Cfr. supra, pp. 28 sgg. 346 Plutarco, De Iside et Osiride, 49, 371 A. 113 cosmica del dio.347 La rete di relazioni che la morte aveva interrotto è stata ripristinata; le membra corporee e, più in generale, le componenti dell’individualità formano nuovamente un complesso articolare. Non si tratta, tuttavia, dell’esatta ripetizione della condizione esistenziale antecedente alla morte. Osiri si trova ora nello stato di akh (Ax), ossia di «trasfigurato». Numerosi passi della letteratura religiosa descrivono più o meno estesamente il nuovo modo di essere di Osiri o del defunto assimilato al dio. Leggiamo, per esempio, in una formula dei Testi dei Sarcofagi: «Questo Osiri N, la tua perfezione [nfr] è per te, il tuo ka è la tua protezione, il tuo ba è dentro di te, le tue due gambe sono al tuo posto [st=k]. Tu sei rinnovato [mA=tj]. Tu sei ringiovanito [rnp=tj] in questo tuo nome di “Acqua Nuova” e ricomposto [Ts=tj] in questo bel giorno in cui tu sei apparso».348 Si tratta di un’esistenza che si colloca su un piano diverso rispetto a quella che precede l’evento della morte; potremmo definirla un’ottava superiore. I Testi delle Piramidi la situano nella regione celeste, identificando Osiri rigenerato con la costellazione di Orione: «“Ciò sarà bello, in effetti, da guardare”, ha detto Iside; “Ciò sarà soddisfacente, in effetti, da osservare”, ha detto Nefti a mio padre, questo Osiri Pepy, affinché egli possa, in effetti, salire al cielo tra le stelle, tra le Imperiture».349 «Che tu possa vivere come vivono coloro che sono in cielo! Che tu possa venire all’esistenza [xpr] più di quanto non vengano all’esistenza coloro che sono sulla terra! Ricomponiti [Ts tw] grazie alla tua forza, ogni volta che sali al cielo! Che il cielo ti metta al mondo come Orione [sAH], affinché tu possa disporre del tuo corpo [Dt]!».350 Osiri redivivo o il defunto che lo impersona dispone ora di un corpo-djet per l’eternità. Le parti che lo compongono sono costituite da «materie» differenti rispetto a quelle che formano un corpo terreno: 347 Relativamente a questa parte del mito cfr., per es., Pyr, 173 a; 957 a – 959 d. Cfr. anche: Stele Louvre C 286, righe 16-25 (A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., pp. 744 sgg.); Ostracon Senmut 149, in Égypte, 10 (1998), p. 4; Plutarco, De Iside et Osiride, 19. 348 CT, formula 840. 349 Pyr, 939 a – 940 a. 350 Pyr, 2115 b – 2116 b. 114 «Le ossa [qsw] di questo Meryra sono di ferro [bjAyw], le membra [awt] di questo Meryra sono le stelle imperiture».351 Un’altra formula simile recita invece: «Ricomponiti [Ts tw] sulle tue ossa [qsw] di ferro [bjAyw], sulle tue membra [awt] di oro [nbywt] e su questa carne [Ha] che è tua, che appartiene al dio: essa non può marcire, non può scomparire, non può decomporsi!».352 Il termine bia (bjA) significa in generale «minerale», «metallo». La stessa fonetica e talvolta anche la stessa grafia le ritroviamo, però, anche in un altro termine il cui significato è «cielo», «firmamento».353 Risulta, quindi, piuttosto naturale l’accostamento tra le ossa fatte di metallo-bia e le membra equiparate alle stelle circumpolari. Il metallo, in particolare l’oro, e le pietre preziose, secondo la letteratura egiziana, costituiscono la «materia» di cui è fatto il corpo degli dei e, di conseguenza, anche quello dei defunti che, assurgendo allo stato di akh, partecipano della condizione divina. Nel Racconto del naufrago, per esempio, quando appare al protagonista dell’avventura l’essere divino signore dell’isola del Ka sotto forma di serpente, «il suo corpo [Haw=f] era ricoperto d’oro [nbw], le sue due sopracciglia erano di vero lapislazzuli [xsbd]».354 Similmente nei Racconti del papiro Westcar ciascuno dei tre figli di Ra partoriti da Redgedet, moglie di un sacerdote del dio, viene descritto con queste parole: «le membra [awt] incrostate d’oro [nbw] e un’acconciatura di vero lapislazzuli [xsbd]».355 Oggetti di oreficeria erano inoltre parte integrante delle mummie dei sovrani e dei personaggi di alto rango, a testimonianza del loro nuovo modo di essere assunto dopo la vita terrena. Per le persone meno abbienti, generalmente, la pittura dorata rimpiazzava il metallo prezioso. Nel Rituale dell’imbalsamazione a un certo punto l’officiante deve recitare: «O Osiri N! Tu hai appena ricevuto i tuoi ditali d’oro e le tue dita sono d’oro [nbw] puro, le tue unghie di electrum [qtm]! L’emanazione di Ra giunge fino a te, essa che è, 351 Pyr, 2051 c-d. 352 Pyr, 621 c. 353 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 262. 354 Il racconto del naufrago, 64-65, trad. it. di E. Bresciani, in Id. (a cura di), Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 179. Per il testo geroglifico, cfr. A. M. Blackman (a cura di), Middle Egyptian stories, cit., pp. 41 sgg. 355 I racconti del papiro Westcar, 10, 10-11; 18; 25-26; trad. it. di E. Bresciani, in Id. (a cura di), Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 190. Per il testo geroglifico, cfr. A. M. Blackman, W. V. Davies, The story of king Kheops and the magicians, J.V. Books, Reading 1988. 115 in verità, il corpo [Haw] divino di Osiri! […] tu sei rigenerato dall’oro, tu sei rinvigorito dall’electrum! […] Osiri N! Per te viene l’oro che proviene dalla montagna, la buona protezione degli dei nelle loro sedi! Esso illuminerà il tuo viso nella duat, tu respirerai grazie all’oro, tu uscirai grazie all’electrum».356 Vorremmo concludere il nostro esame del mito di Osiri richiamando l’interpretazione del Libro delle Caverne formulata da Barguet.357 Secondo lo studioso, infatti, questa composizione funeraria del Nuovo Regno, comparsa per la prima volta nell’Osireion di Abido, riprenderebbe e rielaborerebbe tutti gli elementi di questo mito. L’aspetto della lettura di Barguet che ci sembra particolarmente interessante e funzionale alla nostra impostazione della tematica antropologica è quello di individuare nella ricostituzione e nella rigenerazione del corpo divino di Osiri il vero leitmotiv del Libro delle Caverne. L’insieme del testo, suddiviso in sei sezioni, è disposto secondo un asse rappresentato dal serpente Neha-her (nHA-Hr), eretto sulla coda tra la terza e la quarta sezione. Questo asse separa due regioni dell’aldilà, della duat. Nella prima regione, sostiene Barguet, ha luogo la ricerca e la riunione delle membra separate del dio; nella seconda regione avviene invece la rinascita di Osiri: «Dopo aver visitato ciò che si potrebbe chiamare la duat della morte o del vecchio corpo morto, dove tutto è statico, il sole entra di nuovo nelle “tenebre iniziali” che sono questa volta la duat del corpo nuovo, della resurrezione, dove tutto è dinamico, essendo i personaggi in azione».358 Ritroviamo in pratica gli stessi elementi e le stesse dinamiche che abbiamo descritto impiegando le nozioni di corpo articolare e corpo inviluppo. Nella prima parte del libro, comprendente le prime tre sezioni, vengono rappresentate le membra disiecta del dio; nello specifico: 1) la testa. Osiri sdraiato nel suo sarcofago è chiamato tpy qrrt=f e i due serpenti che lo circondano hanno l’appellativo di tpw qrrwt=sn, espressioni che Barguet traduce rispettivamente «colui che è la testa della sua caverna» e «coloro che sono le teste delle loro caverne»; 2) le sette vertebre cervicali, rappresentate da sette dei a testa di siluro; 356 Le rituel de l’embaumement, in J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, Les Éditions du Cerf, Paris 2004, p. 51. 357 Cfr. P. Barguet, Le Livre des Cavernes et la reconstitution du corps divin, in Id., Aspects de la pensée religieuse de l’Égypte ancienne, La maison de vie, Fuveau 2001, pp. 47 sgg. Articolo apparso precedentemente in Revue d’Égyptologie, 28 (1976). Per un’edizione completa del Libro delle Caverne (testo e trad. francese), cfr. A. Piankoff, Le Livre des Quererts, Imprimerie de l’Istitut Français d’Archeologie Orientale, Le Caire 1946. Per una trad. più recente, cfr. E. Hornung (a cura di), Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., pp. 309 sgg. 358 P. Barguet, Le Livre des Cavernes et la reconstitution du corps divin, cit., p. 55. 116 3) le spalle o più precisamente le clavicole. La scena mostra, in due tumuli, due figure mummiformi sdraiate a testa di ariete; 4) il cuore e le vertebre dorsali. Attorno al naos-kAr che racchiude Osiri in piedi si trovano tredici sarcofagi ovali contenenti delle divinità anch’esse in piedi;359 5) Quattro delle vertebre lombari. L’immagine mostra quattro figure mummiformi in piedi;360 6) L’addome e il bacino. Osiri posto sotto la divinità Aker è chiamato «questa grande immagine che è sotto il suo ventre [Xr Xt=f]». Le parti anatomiche messe in risalto da questa ricostruzione sono, in sostanza, le ossa di uno scheletro privo di arti e il cuore. Abbiamo a che fare, dunque, con le componenti essenziali di un corpo articolare: il sistema osseo e il suo centro propulsore che, diffondendo attraverso la rete dei condotti-met le correnti vitali, genera coesione e movimento. L’assenza delle ossa degli arti, a nostro avviso, si spiega probabilmente con il fatto che in questa fase della sua ricostituzione il corpo di Osiri è ancora una sommatoria di parti slegate e prive di movimento. Nella rassegna presentata c’è anche un riferimento alla cavità addominale (Xt). Si tratta di un luogo di gestazione, «il grembo che contiene gli elementi del nuovo corpo, che il serpente NHA-Hr “raccoglie” (sAq) nelle sue spire».361 Anche nel contesto del Libro delle Caverne, infatti, viene posto in rilievo il ruolo del corpo inviluppo e quanto ad esso attiene, in primo luogo le viscere e gli umori generati dalla loro decomposizione. Nella prima sezione del libro, alla fine del secondo registro, un dio e una dea portano al di sopra della loro testa le secrezioni del corpo di Osiri.362 Al termine del quarto registro, invece, è raffigurata una divinità a testa di coccodrillo; il testo ad essa relativo recita: «O Incolume [aDy] dalle forme misteriose che sei nella caverna di Osiri, tu sei l’immagine del capo della duat, dal quale tu sei nato! Egli ti ha preposto alla sua caverna, tu sei il suo cadavere in decomposizione [XAt HwA]».363 Il 359 Precisa Barguet: «Si sa che la parola kAr designa il naos di un dio, il suo tabernacolo, e rappresenta così il luogo più inaccessibile di un tempio; per questo essa è venuta a designare anche l’abitacolo del cuore, per es., in una frase della Saggezza di Amenemope, I, 9: “fare che il suo cuore discenda nel suo naos- kAr “; e nella quarta divisione del Libro delle Caverne (I reg., II scena), Osiri sembra designato semplicemente dall’epiteto: “questo grande cuore della duat”». Ibid., p. 52. 360 Invece di dodici vertebre dorsali e cinque lombari, ne sarebbero rappresentate tredici dorsali e quattro lombari. Relativamente alle vertebre lombari, tuttavia, Barguet non trova elementi sufficienti per giustificare la sua lettura. Cfr. ibid., p. 53. 361 Ibid., p. 54. 362 Cfr. ibid., pp. 48 sg. 363 Libro delle Caverne, sezione I, registro IV. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung in Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p. 319. 117 motivo centrale della seconda sezione, posto al centro del registro mediano, è la «cassa di Osiri», contenente la putrecenza del dio. Quattro divinità hanno il compito di custodire i «segreti» (sStA) del dio, le sue parti decomposte (snT): «O questi quattro dei che giubilano per me quando io entro nel mio regno, io vi glorifico quando voi vi chinate sul vostro mistero, su questo cadavere [snT] del capo della duat».364 Alla decomposizione di Osiri si fa riferimento anche altrove nel testo, in particolare, nella parte introduttiva della sesta sezione.365 Non ci soffermeremo nuovamente sul ruolo della componente umorale nel processo di rigenerazione di Osiri e sul suo rapporto con l’aspetto articolare della corporeità, questioni a cui abbiamo cercato di dare una risposta nel paragrafo precedente. Sottolineiamo, tuttavia, che il Libro delle Caverne mette in scena le forze cosmiche di cui si parla nelle varie fonti del mito di Osiri, quelle forze che presiedono al mantenimento e al rinnovamento della rete di relazioni che costituisce l’esistente, tanto a livello macrocosmico, quanto a livello del singolo individuo. Nella seconda metà del libro, relativa alla seconda regione della duat, ha luogo la formazione del nuovo individuo. Nello specifico, nella quarta sezione il corpo di Osiri viene ricomposto (Ts) da Iside e Nefti e fornito del necessario da Horo e Anubi (DbA). Nella quinta sezione vengono raffigurati una dea chiamata «la Misteriosa» (StAyt) e «Occidente» (imnt), che Hornung indentifica con Nut,366 e un Osiri itifallico sormontato dal suo ba, posti l’uno di fronte all’altra. Le scene raffigurate tra le due divinità «esprimono i momenti intermedi tra la concezione e la nascita; abbiamo dunque come un “trattato di embriologia”».367 L’unione tra la dea «la Misteriosa» e Osiri itifallico consente la generazione del nuovo essere o, detto in altri termini, la riarticolazione delle membra precedentemente riunite (quarta sezione). La nascita effettiva del nuovo individuo è il tema principale dei motivi rappresentati nella sesta sezione.368 Le membra di Osiri (o del defunto che ne è l’immagine) sono finalmente riunite e percorse nuovamente dai soffi vitali: «Tu stai respirando [srq], le tue 364 Libro delle Caverne, sezione II, registro III (Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p. 333). 365 Cfr. Ibid., sezione VI, parte introduttiva, nona e decima litania (Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., pp. 396 sg). 366 Cfr. E. Hornung, Les textes de l’au-delà dans l’Égypte ancienne, trad. fr. di N. Baum, Éditions du Rocher, Monaco 2007, p. 118. 367 P. Barguet, Le Livre des Cavernes et la reconstitution du corps divin, cit., p. 58. 368 Scrive Barguet a conclusione del suo saggio: «Sembra davvero, dunque, che l’insieme del Libro esponga in primo luogo, in qualche modo, la ricerca delle membra del dio, poi la sua ricostituzione e la creazione del nuovo essere, grazie alla dea, a partire dal corpo morto. Avremmo così tutti gli elementi della leggenda osiriana, secondo 118 membra [awt] sono rinnovate. O alzati, Colui il cui nome è nascosto, e respira, (poiché anche) Osiri respira e le sue membra sono rivitalizzate!».369 Relativamente al Libro delle Caverne un aspetto ulteriore ci sembra degno di nota: nel registro inferiore di ciascuna delle sei sezioni vengono rappresentati i nemici di Osiri e i castighi ad essi inflitti. Alcuni dei condannati sono legati, altri decapitati o fatti a pezzi. A tutti questi personaggi mancano, dunque, quelle che abbiamo indicato come le due condizioni essenziali alla sussistenza di un corpo articolare: la motricità e la connettività. Si tratta di coloro che, terminata la loro vita terrena, non sono stati riconosciuti «giusti di voce». Essi sono morti e rimangono tali: le componenti del loro essere non sono più in grado di riunirsi in un nuova rete di relazioni, garante della continuità di un’identità. 3. La riconfigurazione dell’individuo: dal cadavere alla mummia e all’akh In quanto immagine di Osiri, ogni essere umano che termina il suo cammino terreno in armonia con la legge di Maat è chiamato a riunire le componenti costitutive della sua individualità in una nuova costellazione. Tutte le pratiche funerarie introdotte dagli Egiziani sono funzionali a questo fine. Con l’avvento della morte gli elementi in relazione tra loro in cui si articola la natura umana si slegano dando luogo a una mera sommatoria di parti separate. Il corpo rigido, immobile e non più percorso dalle correnti vitali è ora soltanto un involucro, un inviluppo. Dal trattamento di questo involucro ha inizio il percorso di rigenerazione del defunto che lo condurrà a rinascere come akh, come nuovo Osiri. L’iter dell’imbalsamazione che si protrae idealmente per settanta giorni comincia all’insegna della purificazione.370 Dopo un lavaggio preliminare nella «tenda della purificazione» (ibw), il cadavere (XAt), trasferito nella uabet (wabt), ossia nel «luogo della purificazione», viene sottoposto all’ablazione del cervello e all’eviscerazione.371 la quale Iside avrebbe concepito Horo dal suo sposo morto. Questo testo è proprio al suo posto nell’Osireion di Abido, dove apparve per la prima volta». Ibid., pp. 63 sg. 369 Libro delle Caverne, sezione VI, parte introduttiva, nona litania (Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p. 396). 370 Tra le principali fonti documentarie sul procedimento di imbalsamazione di cui disponiamo possiamo menzionare il Papiro Bulaq n. 3 e il Papiro n. 5158 del Louvre, entrambi risalenti al I sec. Disponiamo poi delle fonti greche, in particolare Erodoto (Storie, II) e Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, I, V). Le prime attestazioni di questa pratica risalgono, tuttavia, all’inizio dell’età dinastica. 371 L’uso di estrarre gli organi interni risale all’Antico Regno. In quest’epoca, tuttavia, l’eviscerazione era riservata al re, ai membri della sua famiglia e a qualche nobile autorizzato dal sovano stesso. Per gli altri l’imbalsamazione consisteva nella fasciatura del corpo in numerosi strati di bende ricoperti poi da uno strato di gesso che veniva 119 Quest’ultima viene effettuata praticando un’incisione sul fianco sinistro ed estraendo a mano le viscere della cavità addominale e di quella toracica. Il cuore, centro direttivo del corpo vivente, viene lasciato, invece, nella sua sede.372 A questo punto il corpo viene nuovamente lavato all’esterno e all’interno, allo scopo di eliminare ogni residuo della rimozione delle interiora. Nelle rappresentazioni del rituale dell’imbalsamazione di cui disponiamo questa fase è rappresentata da un bagno purificatore. Il cadavere è sottoposto a un’aspersione d’acqua in un bacino chiamato «lago», «stagno»: (S). L’immagine del lago ci rimanda alla deriva del corpo di Osiri di cui abbiamo parlato in precedenza, ossia alle sostanze liquide, umorali rilasciate dal cadavere del dio per effetto della decomposizione in atto, processo che è necessario arrestare per consentire la rigenerazione corporea. L’elemento acqueo si manifesta, infatti, nella sua ambivalenza: da un lato come apportatore di nuova vita, dall’altro come costante minaccia di annientamento. Questo aspetto viene messo in rilievo in più occasioni dalla letteratura funeraria; i Testi delle Piramidi mettono in guardia il sovrano con queste parole: «O Unis, possa tu stare attento al lago [sA(w)=k S]! – Formula da recitare quattro volte».373 «Che il grande picchetto dell’ormeggio ti tolga un ostacolo come Osiri nel suo intervento! Nuu, Nuu, stai attento al grande lago [sA Tw S wr]!».374 «O questo Pepy, naviga e raggiungi, ma stai attento al grande lago [sA Tw S wr]!».375 A questo avvertimento fanno eco anche i Testi dei Sarcofagi: «O questo N, che il guardiano del grande lago ti protegga [sA(w) Tw iry S wr]! Quanto alla morte, possa tu sfuggirle! Possa tu evitare il cammino verso di lei».376 «Osiri N! Stai attento al grande lago [sA Tw r S wr]! […] Scendi sulla tavola della barca nella quale Ra naviga verso l’orizzonte, padre mio, questo Osiri N! Scendi dunque modellato ad immagine del defunto. Il viso in genere veniva dipinto. Durante il Medio Regno l’estrazione degli organi diventa una pratica usuale. Per quanto riguarda, invece, l’ablazione del cervello, essa diventa un’operazione abituale a partire dal Nuovo Regno, essendo in precedenza praticata solo saltuariamente. 372 Se capitava che il cuore venisse estratto insieme ai polmoni, esso veniva ricollocato all’interno del torace, in certi casi avvolto in bende di lino. Anche la vescica veniva generalmente lasciata al proprio posto e a volte i reni. 373 Pyr, 136 a. 374 Pyr, 872 b-d. 375 Pyr, 885. 376 CT, I, 284 e-h. 120 nella prua di questa barca di Ra! Possa tu discendervi come Ra! Possa tu sedervi come Ra!».377 La navigazione, a quanto emerge dai testi, rappresenta una fase necessaria dell’iter di rigenerazione; il defunto, tuttavia, come Osiri, corre costantemente il pericolo di una deriva, ossia del disfacimento del suo corpo. A questo proposito Assmann afferma: «Il grande lago attraverso il quale il viaggiatore deve passare nasconde il pericolo di fare naufragio, dal quale bisogna scampare. Il “lago” è un’allusione al rituale dell’imbalsamazione, definito come “traversata del lago” […] Il defunto deve in primo luogo superare la tappa della purificazione che rappresenta la metafora del lago, fase nel corso della quale il suo cadavere è svuotato e ripulito da tutte le sostanze putride».378 Terminata la fase della purificazione, il cadavere deve essere disidratato ed essiccato; a questo scopo, esso viene posto sotto degli strati di natron secco in grani per circa una quarantina di giorni.379 Dopo questa operazione il corpo è ormai ridotto allo stato di uno scheletro le cui ossa sono tenute insieme da una pelle rigida e incartapecorita. Nelle fasi finora descritte, il procedimento d’imbalsamazione, operando sul corpo inviluppo, ne elimina gli umori che generano corruzione e lo riduce agli elementi essenziali a partire dai quali è possibile riorganizzare il corpo articolare e la rete di relazioni che lo caratterizza. Le parti corporee che l’imbalsamatore ha selezionato sono, infatti: 1) le ossa, ricoperte di pelle secca; 2) il cuore; 3) le viscere estratte dalla cavità shet, che fanno parte della struttura anatomica dell’ib e che, appositamente trattate, sono conservate nei vasi canopi. Sono gli stessi elementi che abbiamo evidenziato a proposito della ricostituzione e riarticolazione del corpo di Osiri, di cui parlano i testi religiosi. Abbiamo, quindi, la struttura portante costituita dalle ossa e il centro motore e di coesione rappresentato dal complesso haty-ib, al quale appartiene anche la rete di condotti-met. 377 CT, VII, 41 f-g, n-q. 378 J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 191. 379 Il natron (Hsmn) è un sale che si trova in natura ed è composto principalmente da carbonato e bicarbonato di sodio. Il prodotto depurato veniva chiamato nTry, ossia «divino», da cui il termine arabo natron. Esso è tuttora reperibile prevalentemente nella zona dello Uadi Natrum, a nord-ovest del Cairo. Si è a lungo dibattuto fra gli studiosi se il cadavere fosse immerso in una soluzione liquida di natron, oppure ricoperto da natron secco. Attualmente si propende per il secondo sistema. In proposto cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., p. 33, nota 5. 121 Le fasi successive del processo d’imbalsamazione sono finalizzate alla riarticolazione del corpo del defunto. Le operazioni principali che vengono effettuate a questo scopo sono il trattamento del corpo con sostanze varie, le unzioni con gli oli sacri, il bendaggio e i rituali ad essi connessi. Viene eseguita una prima unzione del cadavere per ridare una certa elasticità alla pelle che ha l’aspetto del cuoio. Si procede poi a versare della resina e delle altre sostanze all’interno della cavità addominale, prima di chiudere l’incisione praticata per estrarre le viscere, ed eventualmente all’interno del cranio, attraverso le narici, se è stata effettuata l’ablazione del cervello. Contestualmente a ciò si introducono anche delle imbottiture per far riacquistare al corpo una certa forma. Il defunto riceve in seguito una serie di unzioni con degli oli rituali e, infine, ha inizio il bendaggio, accompagnato da altre unzioni, per assicurare una migliore coesione delle stoffe disposte in più strati. Relativamente a queste operazioni, la lettura che il rituale dell’imbalsamazione che ci è pervenuto suggerisce è la seguente: le centinaia di metri di bende che avvolgono il defunto riproducono la rete dei condotti-met; gli oli sono invece le correnti vitali che animano il corpo. Le resine e le altre sostanze fluide impiegate nel trattamento del cadavere rappresentano gli umori non corruttibili che arrestano il processo di decomposizione. Il rituale dell’imbalsamazione ci è tramandato da fonti molto tarde, che affondano, tuttavia, le loro radici in epoche più antiche. Il testo di cui disponiamo, infatti, sulla base di un’analisi linguistica, viene fatto risalire al Nuovo Regno.380 Questo rituale è riscontrabile, inoltre, allo stato embrionale già nei Testi delle Piramidi, a partire dal regno di Pepy I, sotto forma di allusioni al trattamento riservato al re defunto, immagine di Osiri.381 In un passo dei testi che si trovano nella piramide di questo sovrano, per esempio, si fa riferimento alle bende in questo modo: «Questo Pepy è questa benda di stoffa rossa [sSd n(y) Tmst] uscita da Ikhet la Grande!».382 Un altro passo dei medesimi testi recita: «Se Pepy è venuto presso di te, suo padre, se egli è venuto presso Geb, è perché ha raggiunto coloro che sono sottomessi [Xr(yw)] alle vostre bende [mt=Tn], o dei!».383 380 I testi a nostra disposizione sono contenuti nel Papiro Bulaq n. 3 e nel Papiro n. 5158 del Louvre (citati supra, p. 119, nota 370). Cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 17 sgg. Per il testo geroglifico, cfr. S. Sauneron, Le rituel de l’embaumement, Imprimerie Nationale, Le Caire 1952. 381 Cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 22 sg., nota 5. 382 Pyr, 1147 a. 383 Pyr, 1367 a-b. 122 L’aspetto interessante di quest’ultima formula consiste nel termine impiegato per indicare il bendaggio, omofono del vocabolo che denota i vasi, i canali attraverso i quali scorrono i fluidi che animano e mantengono in vita il corpo: met (mt), bende; met (mt), vaso, canale, condotto. A partire dalla XVIII dinastia, inoltre, lo stesso termine che indica i condotti-met, fatto seguire da un determinativo differente, assume il significato di «benda»: met (mt), benda, fascia, quadrato di tela di lino.384 La corrispondenza analogica tra le bende e le stoffe che avvolgono il defunto, da una parte, e la rete dei condotti-met, dall’altra, risalta maggiormente nei papiri che riportano per esteso il rituale dell’imbalsamazione, di molti secoli più recenti rispetto ai Testi delle Piramidi. Come la rete dei canali che si estende in tutto il corpo, la bendatura assicura la coesione delle parti ossee e lo scorrimento delle correnti dinamiche, rappresentate dagli unguenti vari, cominciando a ridare, quindi, al cadavere le caratteristiche del corpo articolare. Dopo l’unzione del dorso, per esempio, il rituale prevede che si recitino queste parole: «Per te vengono (bis) per te vengono le piante che escono dalla terra, il lino originario del campo dei ciperi, i vegetali rigeneranti originari della Campagna del Giubilo, l’emanazione scelta che riveste gli dei nel momento della loro uscita. Essa viene a te sotto forma di un sudario [mnxt] prezioso, essa ti preserva sotto forma di benda [sbn], essa ti innalza sotto forma di panno [siAt], essa consolida [smnx] le tue ossa [qsw] sotto forma di bendaggio [DAyt] immacolato».385 Nel paragrafo relativo al bendaggio delle gambe, del sacerdote che impersona il dio Anubi il testo afferma: 384 Cfr. Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 293. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 395 e Wb, II, p. 168. 385 Rituel de l’embaumement, IV, la trad. segue quella francese di J.-C. Goyon, in Id., Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., p. 48. 123 «Egli rende perfetta [smnx] la tua marcia grazie ai suoi pezzi di stoffa [mnxt]. […] Egli conserverà una forma alle tue ossa [qsw] grazie alle bende [pyr], egli manterrà insieme le tue carni [iwf] grazie alle bende di stoffa [mnxt]!».386 L’analogia che abbiamo proposto emerge forse in modo più accentuato nelle formule del rituale dell’imbalsamazione, per quanto riguarda la funzione degli oli. L’unzione del dorso del defunto termina con queste parole: «O Osiri N! Ricevi questo olio [mrHt], ricevi questo unguento [gsw]! Ricevi l’unzione di vita [anxt] […] Ricevi il [sudore (?)] degli dei, l’umore uscito da Ra, l’espettorazione di Shu, il sudore che emana da Geb, il corpo [Haw] divino proveniente da Osiri, i liquidi rigeneranti [nfrw][…]».387 Dopo il bendaggio della testa, invece, l’officiante deve recitare: «O Osiri N! Per te viene l’olio-ihety [mrHt iHty] Esso apporta alla tua bocca la vita, al tuo occhio la visione nella duat, così come la facoltà di vedere Ra nel cielo! Esso ti dona le tue orecchie per sentire ciò che desideri, come Shu sente ciò che desidera a Heliopoli! Esso ti dona il tuo naso per respirare il profumo di festa, come Geb respira gli effluvi odorosi, piacevoli per le narici!».388 Gli oli, quindi, riattivano e ridonano vitalità a tutte le parti corporee. Essi provengono, inoltre, dagli dei, dalle loro secrezioni ed emanazioni, come i soffi vitali veicolati dai condotti-met. L’azione degli oli sacri cancella ogni residuo di corruzione, consente una migliore aderenza e stabilità delle bende, le une sulle altre, e una maggiore coesione delle membra tra di loro; innesca, infine, un processo di rigenerazione complessiva del corpo. Nella sezione del testo dedicata al bendaggio delle mani e delle dita, dopo l’unzione delle bende, leggiamo infatti: «O Osiri N! Per te viene l’olio [mrHt] prezioso per rigenerare [snfr] il tuo corpo [Haw]! Esso ti renderà prezioso […] Esso terminerà di separare la tua carne dalle tue ossa [Hsq=s Haw=k qsw=k],389 ma farà rimanere saldamente al loro posto le tue bende [pyr] e i tamponi nei luoghi dove essi devono stare. Quanto all’olio rigenerante [mrHt nfrt], esso solidificherà la superficie della tua fasciatura, rigenererà [snfr] il tuo corpo [Haw] ungendolo. I loro oli [mrHwt] avranno un doppio effetto: essi assicureranno la coesione delle tue falangi con le estremità delle tue mani, faranno in modo che la tua 386 Rituel, XI, in ibid., p. 83. 387 Rituel, IV, in ibid., p. 47. 388 Rituel, VII, in ibid., p. 57. 389 In proposito, cfr. ibid., p. 75, nota 3. 124 pelle sia solida, innalzeranno il tuo nome e tu potrai fare ciò che desideri in tutto il paese, poiché tu sarai Thot e i tuoi nemici non ci saranno più».390 Nei testi riportati ricorre il gioco di parole tra il verbo semenekh (smnx) e il sostantivo menekht (mnxt). Il primo è un verbo causativo che tra i suoi significati annovera quelli di «rendere perfetto», «abbellire», «restaurare», «rendere nobile», il secondo termine significa, invece, «tessuto», «stoffa». Con riferimento alla rigenerazione corporea favorita dagli oli troviamo, inoltre, il verbo causativo senefer (snfr) che, letteralmente, significa «rendere bello», «rendere perfetto»; in certi casi, gli unguenti rigeneranti sono, quindi, definiti facendo ricorso all’aggettivo nefer (nfr): «bello», «perfetto». Il procedimento d’imbalsamazione nel suo complesso, che ha inizio con la manipolazione di un cadavere, ossia di un involucro privo di vita o, detto altrimenti, di un contenitore di tanti pezzi slegati, è finalizzato a recuperare l’aspetto articolare, e pertanto vitale, che il sopravvenire della morte ha cancellato. Il risultato finale di questo iter è la «mummia». Mentre in un essere umano vivente il corpo articolare, come abbiamo già rilevato, detiene un primato sul corpo inviluppo, la mummia rappresenta, a nostro avviso, una condizione di equilibrio tra queste due dimensioni dell’esistenza. Se da un lato, infatti, le bende e gli oli ripropongono la rete dei condotti-met e le correnti dinamiche che hanno come centro propulsore il cuore e che tengono unite e danno mobilità alle ossa, dall’altro il defunto è ancora in gestazione, non ha, quindi, riacquistato pienamente la sua autonomia e le sue facoltà motorie. Un aspetto del bendaggio richiama in particolare la nozione d’inviluppo: oltre a essere avvolto nelle bende, il corpo del defunto viene rivestito di un grande sudario; a questo proposito nel rituale dell’imbalsamazione viene menzionato un lenzuolo «perfetto» (nfr), chiamato «pelle di Seth» (msq n[y]w st).391 La mummia, oltre a rappresentare un luogo e una fase di gestazione, costituisce in qualche modo un primo stadio di dignificazione dell’individuo che si sta progressivamente trasformando in un akh.392 Riferendosi a questa particolare condizione, il rituale dell’imbalsamazione si esprime in questi termini: 390 Rituel, X, in ibid., p. 75. 391 Cfr. Rituel, X, in ibid., p. 76. 392 In proposito Assmann afferma: «Questa (la mummia) è ben più del cadavere: la figura del dio Osiri e una sorta di geroglifico che rappresenta l’essere umano completo, “riempito di magia” come dicevano gli Egiziani. Come la magia dello scritto ha il potere di fare apparire e di fissare un senso, la persona del morto è resa visibile e fissata nella forma simbolica o geroglifico che è la mummia» (Id., Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 60). 125 «Tu sei un dio tra gli akhu, tu sei la replica di Osiri, la bella mummia [snn] di Anubi! Tu occupi il tuo posto a buon diritto, essendo Colui che è stato proclamato vittorioso, e il tuo nome durerà nel regno dei morti per sempre e per l’eternità, come quello di Osiri […]».393 Il termine egiziano che denota propriamente la mummia è sah (saH); esso, seguito da determinativi diversi, assume i significati di «rango», «dignità», «essere nobile»:394 sah (saH), mummia; sah o (saH), rango, dignità; sah o (saH), essere nobile. Il defunto nello stato di mummia attende ora che le sue funzioni corporee gli siano restituite una a una, che tutte le sue membra, riaggregate in una nuova costellazione, possano riattivarsi completamente. A questo scopo vengono eseguite delle ulteriori liturgie. In particolare, prima che la mummia nel suo sarcofago sia collocata definitivamente nella cripta, viene effettuato il «rituale di apertura della bocca». Si tratta di una ritualità risalente all’Antico Regno, che originariamente aveva la funzione di animare la statua del sovrano e che in seguito si è fusa con dei riti funerari officiati per trasmettere al defunto le facoltà necessarie per accedere alla vita ultraterrena. Nei Testi delle Piramidi c’è già traccia di questa fusione. 395 Durante lo svolgimento di questo rituale il sacerdote tocca con uno strumento a forma di accetta gli orifizi della testa del defunto, per riattivarne le corrispondenti funzioni. Trattandosi di orifizi, è un’operazione che chiama in causa il corpo inviluppo. Essa concorre, tuttavia, al ripristino dell’aspetto articolare della corporeità. Il defunto, infatti, trovandosi ad essere di nuovo in rapporto con il mondo esterno, 393 Rituel, X, in J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., p. 77. Il termine snn che Goyon traduce «mummia» significa specificamente «statua», «figura», «immagine» (cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 779). 394 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 726. 395 Le prime attestazioni del rituale dell’apertura della bocca eseguito sulle statue risalgono all’epoca di Cheope. Parallelamente viene introdotta una «apertura della bocca» anche nei riti funerari. La fusione tra queste due correnti si è prodotta molto presto. Alla fine dell’Antico Regno e durante il Medio Regno il rituale compare nelle tombe dei privati, sotto forma d’illustrazione o di estratti testuali. Nel Nuovo Regno il testo assume la sua forma definitiva, che rimane invariata fino all’epoca romana. Cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 85 sgg. Per il testo geroglifico, cfr. E. Otto, Das Ägyptische Mundöffnungsritual, Harrassowitz, Wiesbaden 1960. 126 riprendendo anche a respirare, è attraversato ancora dalle correnti vitali che si incanalano nei condotti-met. Relativamente ai vari oggetti e materiali impiegati nel corso della cerimonia, vogliamo rilevare l’importanza che, anche in questo contesto, rivestono le bende, le stoffe e gli oli. Le stoffe, retaggio della vestizione della statua reale nella forma più arcaica del rituale, svolgono un ruolo simbolico e apotropaico; esse rafforzano in qualche modo l’azione svolta dalle bende della mummia. Le unzioni con gli oli sacri e le abbondanti fumigazioni di incenso richiamano, invece, i soffi vitali che rianimano il defunto. In diverse formule del rituale di apertura della bocca, inoltre, si fa riferimento al riassemblamento delle membra. Come in altri testi religiosi, occupano una posizione di primo piano il cranio e le ossa. Dopo l’unzione, il sacerdote pronuncia questa orazione: «O N! Tua madre ti ha messo al mondo oggi, facendo di te un essere che conosce ciò che si ignora! Geb ti pone sano e salvo alla testa del primo collegio della Grande Enneade degli dei […] Egli ti dà la tua testa [tp], riunisce le tue membra poiché Horo ti è propizio! Egli ti dà la tua testa [tp] e riunisce le tue membra! […] Geb […] ricollega per te la tua testa [tp] alle tue ossa [qsw], poiché Geb ti è propizio. Egli ricollega la tua testa [tp] alle tue ossa [qsw], egli ti guida. Horo ti è propizio e ricollega per te la tua testa [tp]!».396 Anche la bocca viene collegata alle ossa, come recitano alcuni passi: «Com’è in buono stato la tua bocca [r(A)], da quando ho riadattato per te la tua bocca alle tue ossa [qsw]».397 Al termine di tutte le pratiche liturgiche officiate contestualmente alla mummificazione e alla sepoltura, il defunto è in possesso di un nuovo corpo che gli consente di continuare a vivere nella dimensione ultraterrena. Si tratta naturalmente di un corpo di fattura diversa rispetto a quello terreno. Di questo aspetto si fa portavoce una tematica che appare nei Testi delle Piramidi e che è ancora presente nella letteratura religiosa durante l’epoca romana. Ci riferiamo a quel motivo che gli egittologi hanno definito «deificazione delle membra»; a ogni parte del corpo, infatti, viene fatta corrispondere una divinità. Una formula dei Testi delle Piramidi descrive il nuovo corpo divinizzato in questo modo: 396 Rituel de l’ouverture de la bouche, scena LV A, la trad. segue quella francese di J.-C. Goyon, in Id., Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 151 sg. Per quanto riguarda il termine tradotto con «membra», le differenti versioni del testo riportano in realtà più varianti: Haw, jwf, awt. 127 «La testa [tp] di questo Meryra è un falco, egli salirà dunque e s’innalzera al cielo. I lati della testa [Drw tp] di questo Pepy sono il cielo stellato del dio, egli salirà dunque e s’innalzerà verso il cielo. […] Il viso [Hr] di questo Pepy è Upuaut, egli salirà dunque e s’innalzerà verso il cielo. I due occhi [jrty] di Meryra sono la Grande che è alla testa dei ba di Heliopoli […] Il naso [fnD] di questo Pepy è Thot […] La bocca [rA] di questo Meryra è il grande canale Khenes […] La lingua [ns] di questo Pepy è il pilota incaricato della barca di Maat […] I denti [jbHw] di questo Pepy sono i ba di Pe (?) […] Le labbra [spty] di questo Pepy sono Shu e Tefnet […] La colonna vertebrale [Ts] di questo Pepy è il Toro selvaggio […] Le due spalle [rmnwy] di questo Pepy sono Seth […] Il cuore [HAty] di questo Meryra è Bastet […] Il ventre [Xt] di questo Meryra è Nout […] La schiena [sA] di questo Pepy è Geb (?) […] Le vertebre [Tsw] (?) di questo Pepy sono la Doppia Enneade».398 Il testo prosegue enumerando una serie di membra fino alle piante dei piedi e agli alluci e affermando subito dopo che «Pepy è il compagno di un dio, il figlio di un dio».399 Ritroviamo formule simili anche nei Testi dei Sarcofagi e nel Libro dei Morti.400 Una prima osservazione è la seguente: in generale i passi che sviluppano il tema della divinizzazione delle membra non si limitano a menzionare gli elementi essenziali del corpo articolare, ma elencano tutte le parti corporee considerate rilevanti, dalla sommità del capo fino alle piante dei piedi. Si tratta, tuttavia, di membra che si riuniscono in un nuovo sistema di rapporti e ritrovano la funzionalità di cui la morte le aveva private. Esse ripropongono, quindi, un modello articolare basato sulla connettività e sulla motricità. In secondo luogo, si rileva una completa mancanza di sistematicità nell’attribuzione delle divinità alle parti del corpo e anche nella scelta e nel numero di queste ultime. La nuova rete di relazioni non risponde, quindi, a uno schema preordinato, essendo essa una realtà dinamica per eccellenza. E’ opportuno precisare che la rigenerazione corporea sulla quale insistono le fonti religiose egiziane e che abbiamo posto in primo piano nella nostra esposizione, rappresenta in realtà una riorganizzazione di tutto l’individuo nel suo complesso. Tutte le componenti dell’individualità, come il ba, il ka, il ren, ecc., si riuniscono in una nuova costellazione che si compendia nel termine akh. Questo vocabolo, infatti, 397 Ouverture de la bouche, scene XXV, XXVI, XXVII, XXXIII, in ibid., pp. 123, 126, 127, 131. Cfr. Pyr, 11 a – 15. 398 Pyr, formula 539. 399 Pyr, 1316 a. 400 Cfr., per es., CT, formula 761; Libro dei Morti, cap. 42. 128 se per un verso richiama la nuova condizione corporea del defunto rinato, una «corporeità» ultraterrena, luminosa, che spesso è indicata nei testi religiosi mediante il termine djet, il corpo per l’eternità, per un altro esso denota, più propriamente, l’intero «individuo articolare» nel suo nuovo stato. L’insieme delle liturgie funerarie si rivolge, quindi, a tutte le componenti dell’individuo, menzionate, peraltro, a più riprese nella letteratura religiosa e liturgica. Una parte rilevante di queste liturgie è costituita dalle «glorificazioni», in egiziano sakhu (sAxw), formule di trasfigurazione. Questo sostantivo è una forma del verbo causativo sakh (sAx), che significa «rendere akh» o «trasformare in akh».401 Alcuni altri vocaboli che derivano dalla radice akh possono contribuire a chiarire meglio il concetto espresso dalla medesima. In particolare i seguenti: akhu (Axw), potere magico, potere divino; akhu (Axw), luce del sole, chiarore; akhet akhakhw o (Axt), orizzonte; (AxAxw), stelle. Il defunto trasfigurato, in quanto ipostasi luminosa della divinità, ha come dimora il cielo settentrionale, dove risiedono le stelle imperiture (jxm-sk), cioè le stelle circumpolari che non tramontano mai. Anche l’individuo che è nello stato di akh, infatti, come Osiri-Orione, è una costellazione celeste, i cui astri sono le varie componenti del suo essere.402 Tra i termini aventi la medesima radice akh che 401 In proposito, cfr. J. Assmann, Verklärung, in Lexikon der Ägyptologie, Harrassowitz, Wiesbaden 1975, vol. V, coll. 998 sgg. 402 Tra gli astri o i gruppi di astri con i quali l’individuo akh condivide la propria esistenza nella regione celeste figurano anche i decani. Si tratta di 36 settori di cielo prossimi all’eclittica, ognuno dei quali ha un’ampiezza di 10 gradi; le fonti più antiche relative ai decani di cui disponiamo sono i coperchi di una serie di sarcofaghi risalenti al Primo Periodo Intermedio. In proposito, nel rituale dell’imbalsamazione leggiamo: «Tu farai ciò che ti aggrada all’interno del cielo, poiché sarai con gli astri, il tuo ba sarà con i trentasei astri, nei quali potrai trasformarti a tuo piacimento» (J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 72 sg.). I decani sono stati selezionati dagli Egiziani, per analogia con la stella Sirio, in base alle loro levate eliache mattutine e al loro periodo 129 abbiamo selezionato, abbiamo voluto inserire anche quello che ha il significato di «orizzonte». La linea dell’orizzonte rappresenta un luogo di passaggio che contiene, pertanto, l’idea di trasformazione. Akhet è una nozione ricca di sfumature; lo stesso termine può indicare anche un tempio o una tomba nell’espressione «la casa dell’eternità» (Axt nt nHH), un luogo, quindi, dove si attua un passaggio o uno scambio tra due dimensioni.403 La riconfigurazione dell’individuo in una nuova rete di relazioni non è, infatti, una condizione statica; essa partecipa dei cicli e dei movimenti celesti ed è in perpetua gestazione nel ventre di Nut.404 d’invisibilità che, per ciascuno di essi, dura settanta giorni all’anno. Quest’ultimo aspetto ci sembra particolarmente interessante, perché potrebbe fornire una spiegazione della durata del processo d’imbalsamazione, durante il quale l’individuo, come un astro decanale, rimarrebbe «invisibile» per settanta giorni, prima di sorgere nuovamente in una forma completamente rinnovata. Sulla questione dei decani cfr.: O. Neugebauer, R. Parker, Egyptian astronomical texts, 3 voll., Brown University Press, Providence, Lund Humphries, London 1960-1969. Cfr. anche C. Leitz, Altägyptische Sternuhren, Peeters, Departement Oriëntalistiek, Leuven 1995. 403 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 12 sg. Cfr. anche Wb, I, p. 17. 404 A proposito di passaggio e trasformazione, due formule dei Testi dei Sarcofagi definiscono gli Akhu «traghettatori del cielo» (mXnt[y]w n[y]w pt) e «traghettatori dell’Occidente» (mXnt[y]w n[y]w jmnt). Essi sarebbero 130 CAPITOLO IV L’INDIVIDUO TRA ANIMA E CORPO Richiamando i principali concetti antropologici e fisiologici propri della civiltà egiziana e tracciando le linee direttrici secondo le quali si dispiega la concezione egiziana dell’essere umano, compendiata nel mito di Osiri, abbiamo cercato di formulare un modello che mettesse in rilievo, oltre alle peculiarità che caratterizzano questa visione, la sua originalità e il suo interesse in rapporto all’immagine dell’uomo foggiata sul binomio anima-corpo. Il modello proposto richiede, tuttavia, un approfondimento ulteriore e una sintesi che lo rendano maggiormente efficace e intelligibile. Alcuni dei quesiti che abbiamo posto in precedenza, infatti, rimangono ancora senza una risposta sufficientemente esaustiva. In particolare, ci riferiamo al ruolo svolto dalla corporeità nell’ambito della costellazione di componenti in cui si articola l’essere umano, al significato della mummia e al rapporto tra la dimensione corporea e gli elementi più sottili dell’individualità. Prima di dare una risposta a questi quesiti, in questo capitolo e in quello seguente, affronteremo alcuni aspetti e alcuni sviluppi della riflessione antropologica e delle concezioni fisiologiche che hanno visto la luce nel mondo greco, in seguito all’affermarsi del binomio anima-corpo. Anche in questo caso, il confronto con la speculazione greca ci consentirà una migliore calibrazione dell’approccio egiziano a queste tematiche, fornendoci dei punti di riferimento ulteriori per impostare ed esporre successivamente, in modo più compiuto, il nostro modello. 1. La concezione greca dell’anima (yuchv) tra il VI e il V secolo a. C. e i suoi possibili punti di convergenza con l’antropologia egiziana Nel periodo presocratico, prima dell’avvento della sofistica, non si trova ancora nel mondo greco una formulazione esplicita della domanda circa l’uomo e la sua natura. In questo contesto, tuttavia, l’uomo comincia a essere pensato in termini di anima (yuchv) e corpo (sw`ma). Nel quadro di una riflessione prevalentemente cosmologica vengono avanzate diverse teorie sull’anima e sui rapporti che essa intrattiene con il preposti, dunque, a condurre i nuovi defunti e a fare in un certo senso da ponte tra due dimensioni. Cfr. CT, V, 170 g; 174 b. 131 corpo. Anassimene, l’ultimo esponente della scuola di Mileto, per il quale il principio di tutte le cose è l’aria, afferma: «Come la nostra anima, che è aria, ci tiene assieme [sugkratei`], così il soffio e l’aria tengono unito [perievcei] il mondo».405 Questo frammento individua nell’anima la realtà che meglio rappresenta il principio primo e sembra riconoscerle, come funzione che le è propria, un’azione coesiva. Essa pervade e mantiene in essere la dimensione umana, nello stesso modo in cui l’aria, intesa in senso generale, come elemento sottile e divino, sostiene e governa il cosmo. L’anima però non si distingue qualitativamente dal corpo, in quanto è costituita dallo stesso principio che è all’origine di tutte le cose. Per Eraclito che pone come ajrchv il fuoco l’anima ha, invece, una natura ignea. Il filosofo di Efeso stabilisce una connessione tra l’anima e il lovgo~, considerato come la legge universale. Il fuoco non è altro, infatti, che un’espressione manifesta di questa legge. L’anima non sembra avere confini; essa è per certi versi un sostrato dell’uomo e del mondo: «I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fino in fondo nel percorrere le sue strade: così profondo è il suo lovgo~».406 Secondo la testimonianza di Aristotele, inoltre, «Eraclito afferma che l’anima è il principio [ajrchv], se è vero che è l’esalazione [ajnaqumivasi~] da cui sono costituite le altre cose. Egli dice inoltre che è massimamente incorporea e in un continuo fluire».407 Il lovgo~, che è anche pensiero e ragione, è ciò che accomuna tutti gli uomini e li integra nel cosmo, anche se non sempre essi vi prestano ascolto. In proposito sono eloquenti i seguenti frammenti: «Bisogna seguire ciò che è uguale per tutti, ossia che è comune. Infatti, ciò che è uguale per tutti coincide con ciò che è comune. Ma anche se il logos è uguale per tutti, la maggior parte degli uomini vive come se avesse un proprio intendimento».408 «Comune a tutti è il pensare [to; fronevein]».409 Anche Anassagora attribuisce all’uomo l’intelligenza (nou`~), che è il principio primo del cosmo, precisando come Eraclito che non tutti gli uomini ne dispongono: 405 Anassimene, B 2, trad. it. di S. Obinu, in I Presocratici, cit. 406 Eraclito, B 45, in ibid. Abbiamo modificato leggermente la trad. di G. Reale sostituendo «ragione» con il termine originale lovgo~. 407 Aristotele, L’anima, I, 2, 405 a, 25-27, trad. it. di G. Movia, Bompiani, Milano 2008. D’ora in poi faremo riferimento a questa ed. 408 Eraclito, B 2, trad. it. di G. Reale, in I Presocratici, cit. 132 «Anassagora non pone l’intelligenza [nou`~] come ragione [frovnhsi~] in tutti gli uomini, e non perché siano sforniti di sostanza intellettiva, ma perché non la usano sempre: l’anima, invece, è contrassegnata da queste due proprietà: quella di muovere e quella di conoscere».410 Il rapporto tra intelligenza e anima, tuttavia, non risulta del tutto chiaro, come rileva Aristotele: «Anassagora […] da un lato sembra affermare la diversità di anima e intelligenza, e dall’altro si serve di entrambi come di un’unica natura, salvo a porre soprattutto l’intelligenza come principio. E certo, egli afferma, essa è il solo tra gli esseri che è semplice, non mescolato e puro. E attribuisce al medesimo principio ambedue le capacità: quella di conoscere e quella di muovere, dicendo che l’intelligenza ha messo in movimento l’universo».411 Gli aspetti della riflessione di Anassagora che riteniamo maggiormente interessanti sono da un lato la compenetrazione di anima e corpo che sembra emergere dalle testimonianze pervenuteci, dall’altro la rilevanza che assume l’elemento corporeo. Il filosofo di Clazomene, infatti, afferma che «grazie alle mani che ha, l’uomo è il più sapiente degli animali».412 L’unità delle differenti nature è, inoltre, anche un principio cosmologico: «Nell’unico Universo non si trovano disgiunte le une cose dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo».413 L’unità dell’anima e del corpo è riconosciuta anche da Democrito. L’anima, che coincide con l’intelligenza ed è fatta di atomi, si diffonde in tutto il corpo e gli dà movimento: «Egli afferma, infatti, che gli atomi di forma sferica, dotati di movimento perché, per loro natura, non possono mai rimanere in quiete, trascinano con sé e muovono l’intero corpo».414 409 Eraclito, B 113, in ibid. 410 Anassagora, A 101 a, trad. it. di S. Obinu, in ibid. Relativamente al contenuto di questo passo, tuttavia, D. Lanza rileva una certa confusione da parte del suo autore, Psello: «La confusione dossografica mi pare evidente: la fonte è il De an. Aristotelico, letto senza distinguere attentamente quanto è attribuito ad Anassagora e quanto è correzione di Aristotele» (Anassagora, Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 174). 411 Aristotele, L’anima, I, 2, 405 a, 14-19. Abbiamo leggermente modificato la traduzione di G. Movia, rendendo il termine nou`~ con «intelligenza» anziché «intelletto». In proposito, cfr. le osservazioni di D. Lanza in Anassagora, Testimonianze e frammenti, cit., pp. 169 sgg. Cfr. anche il frammento B 12, nel quale, come indica Lanza, si può trovare un riscontro dell’identificazione di nou`~ e yuchv. 412 Anassagora, A 102, trad. it. di S. Obinu, in I Presocratici, cit. 413 Anassagora, B 8, in ibid. 414 Aristotele, L’anima, I, 3, 406 b, 20-22. 133 Gli atomi dell’anima, essendo per costituzione più sottili e levigati, tendono a fuoriuscire dal corpo, ma vengono recuperati attraverso la respirazione. Quando quest’ultima si arresta, sopravviene la morte. Nell’impostazione di Democrito, il primato spetta all’anima che, tuttavia, è mortale come il corpo. Nell’ambito della filosofia presofistica l’anima è concepita tendenzialmente come l’espressione più diretta del principio primo (l’ajrchv del mondo) e come una fonte di movimento. Essa, inoltre, svolge generalmente anche un ruolo di primo piano nel processo conoscitivo. Aristotele riassume in questo modo la posizione dei suoi predecessori: «Ora pare che l’essere animato si distingua dall’inanimato specialmente per due proprietà: il movimento [kivnhsi~] e la sensazione [aijsqavnesqai]. Ed in verità anche dei nostri predecessori, riguardo all’anima, si può dire che abbiamo appreso queste due sole caratteristiche».415 Al termine della sua disamina delle teorie psicologiche del passato, Aristotele aggiunge anche una terza proprietà: «Pertanto si può dire che tutti definiscono l’anima in base a tre caratteristiche: il movimento [kivnhsi~], la sensazione [aivjsqhsi~] e l’incorporeità [ajswvmaton], e riconducono ciascuna di esse ai principi».416 La questione delle sorti dell’anima dopo la morte non è, invece, tra i temi privilegiati dalla speculazione dei filosofi presocratici definiti «naturalisti». Su questo argomento essi non si pronunciano. Di orientamento diverso è, invece, la scuola pitagorica che, accogliendo il retaggio della tradizione orfico-dionisiaca, concepisce l’anima come un essere immortale e di origine divina, costretto a rivestirsi più volte di spoglie mortali per emendare le proprie colpe. Anche la filosofia di Empedocle promuove questa visione dell’uomo. L’anima, formata da quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), è una sorta di demone che si reincarna in corpi diversi che gli toccano in sorte sulla 415 Ibid., I, 2, 403 b, 26-28. 416 Ibid., I, 2, 405 b, 10-12. In realtà, nell’ambito delle teorie presofistiche, la terza proprietà dell’anima di cui parla Aristotele, cioè l’incorporeità, può sembrare difficilmente conciliabile con una prospettiva atomistica. Per gli atomisti, infatti, tutto ciò che esiste, compresa l’anima, è fatto di atomi, i quali sono definiti «corpi primi» (prw`t a swvmata; cfr. Leucippo, A 14). L’anima, tuttavia, è composta da atomi molto più sottili, che la fanno assomigliare al fuoco e le permettono di penetrare negli altri corpi. Aristotele riconosce questo aspetto: «Di qui Democrito afferma che l’anima è una specie di fuoco e di calore. Infatti, essendo infinite le figure o atomi, chiama fuoco e anima quelli di forma sferica, che sono paragonabili a quello che è chiamato pulviscolo atmosferico, visibile nei raggi di sole che penetrano dalle finestre. […] Gli atomi, poi, che hanno forma sferica costituiscono l’anima, e ciò perché tali configurazioni sono le più capaci d’insinuarsi dappertutto e di muovere gli altri atomi, essendo esse stesse in movimento, giacché ritengono che l’anima sia ciò che produce negli animali il movimento» (ibid., I, 2, 403 b, 30 – 404 a, 1-9). 134 base delle azioni compiute in precedenza. Empedocle è convinto di condividere anche lui questa condizione: «Perché già una volta io fui fanciullo e fanciulla e arbusto e uccello e pesce muto che guizza fuori dal mare».417 Erodoto attribuisce alla civiltà egiziana l’origine della credenza nella reincarnazione, propria di queste correnti del pensiero greco: «Furono ancora gli Egiziani a formulare per primi la dottrina che l’anima dell’uomo è immortale, e, quando il corpo si dissolve, entra essa in un altro animale che, di volta in volta, viene al mondo. Dopo essere passata per tutti gli animali della terra, del mare e dell’aria, di nuovo l’anima entra nel corpo di un uomo che nasce alla vita: questo giro di trasmigrazione per l’anima si compie, dicono, in tremila anni. Di questa teoria si valsero alcuni fra i filosofi greci, chi prima, chi dopo; come se fosse stata loro propria: io ne conosco i nomi, ma tuttavia non ne parlo».418 E’ nel contesto di queste dottrine che il rapporto tra yuchv e sw`ma comincia ad assumere i contorni di quel dualismo radicale che verrà in seguito decretato nel Fedone, secondo il quale la dimensione corporea per l’uomo è soltanto una prigione, un ostacolo alla piena espressione della vera natura umana, l’anima. Con l’avvento della sofistica la speculazione filosofica viene orientata principalmente verso il problema dell’uomo e della sua natura, tuttavia i sofisti, a quanto risulta dalle testimonainze a nostra disposizione, non costruiscono delle teorie generali sulla natura umana e non parlano dell’anima. Socrate, invece, pone espressamente la domanda circa l’uomo e, prospettando tre possibili risposte, lo identifica, infine, con la sua anima: «Dal momento che l’uomo non è né il corpo né l’insieme [sunamfovteron], resta, credo, o che non sia nulla o, se è qualcosa, che l’uomo non risulti essere altro che anima. […] Hai bisogno che ti sia dimostrato in modo ancora più chiaro che l’anima è l’uomo?».419 417 Empedocle, B 117, trad. it. di I. Ramelli e A. Tonelli, in I Presocratici, cit. 418 Erodoto, Storie II, 123, trad. it. di L. Annibaletto, Mondadori, Milano 2000. Teniamo a precisare che l’egittologia contemporanea, in generale, non ritiene attendibili le testimonianze greche che attribuiscono alla civiltà egiziana una dottrina della trasmigrazione delle anime. Hornung, per es., a proposito della capacità di muoversi liberamente tra cielo e terra che manifesta il ba di un defunto, afferma: «Ciò è qualcosa di molto diverso dalla trasmigrazione delle anime nelle altre religioni, il ba non entra, infatti, in un altro essere vivente […], ma ritorna continuamente al suo corpo originario; è comprensibile, tuttavia, che gli autori antichi sotto l’influsso di tali rappresentazioni abbiano attribuito anche agli Egiziani l’idea di una trasmigrazione delle anime» (E. Hornung, Fisch un Vogel: zur altägyptischen Sicht des Menschen, cit., p. 494). 419 Platone, Alcibiade I, 130 c, trad. it. di F. Aronadio, in Id., Dialoghi spuri, Utet, Torino 2008. 135 Ciò che Socrate intende per «anima» è sostanzialmente la ragione, la cui caratteristica principale è quella di essere in grado di conoscere la virtù, il bene: «Se invece dico che il bene massimo per l’uomo è discorrere ogni giorno della virtù e delle altre questioni su cui mi sentite discutere, esaminando me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta, crederete ancor meno a queste mie parole. Eppure, cittadini, è così come vi dico, anche se non è facile convincervi».420 Per quanto riguarda il destino dell’anima dopo la morte, il Socrate dei dialoghi giovanili di Platone non assume una posizione definita. Avviandosi verso la morte, infatti, egli proferisce, nella ricostruzione platonica, queste parole: «Ma ormai è ora di andarsene, io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso la meta migliore, è oscuro a tutti tranne che alla divinità».421 Rivolgendoci ora alla cultura dell’antico Egitto, il concetto antropologico egiziano che, generalmente, gli studiosi considerano più affine alla nozione di anima formulata dal pensiero greco è quello denotato dal termine ba. Questo vocabolo, tradotto il più delle volte con «anima», denota, in effetti, un aspetto dell’individualità umana che per certi versi richiama le caratteristiche della yuchv greca sopra evidenziate: 1) il ba, rispetto al corpo terreno, ha una natura sottile; 2) esso è, inoltre, un elemento estremamente mobile, in grado di spostarsi liberamente in ogni regione dell’esistente; 3) è anche un principio cosmologico, in quanto riproduce il ciclo diurno del dio sole;422 4) il ba sopravvive alla morte del corpo terreno. Nonostante le indubbie affinità tra le due nozioni, il concetto di ba, come abbiamo rilevato precedentemente, non è, tuttavia, sovrapponibile a quello di yuchv. Anzitutto è necessario considerare il contesto antropologico in cui le due nozioni sono inserite e acquisiscono un significato. La yuchv è il polo di natura più sottile all’interno di un modello antropologico sostanzialmente duale, polo che tende ad assumere il ruolo di centro gravitazionale del sistema. Il ba è una delle molteplici componenenti sottili dell’essere umano, non l’unica. Esso non è, inoltre, il centro del sistema, ruolo che è 420 Platone, Apologia di Socrate, 38 a, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, cit. 421 Ibid., 42 a. 422 Cfr. supra, pp. 73 e 77 sg. 136 attribuito, invece, a un aspetto del cuore, l’ib, e al nome (ren), che rappresentano tra gli elementi costitutivi della natura umana dei primi inter pares. Nel secondo capitolo, abbiamo interpretato il ba come una delle due coordinate fondamentali della mappa della costellazione Uomo. Questa componente non è neanche la sede del pensiero e dell’intelligenza; le facoltà intellettuali e la coscienza in generale risiedono, infatti, nell’ib. Il ba, pur essendo un elemento sottile, è strettamente legato alla sfera corporea e ai suoi umori (rDw), in particolare al sangue e alla semenza. Ogni notte il ba di un individuo defunto si riunisce alla spoglia mortale conservata nella tomba. La yuchv, invece, non mantiene, dopo la morte, un legame con il cadavere; eventualmente si reincarna in un nuovo corpo. Sulla base delle fonti esaminate, infine, abbiamo riconosciuto nel ba anche una forma di coscienza sensoriale (simile al qumov~) oltre che «morale». Un’altra nozione antropologica egiziana che potrebbe essere avvicinata alla yuchv dei Greci è quella di «ombra»: shuyt (Swyt) o khaybet (xAybt).423 Questo elemento dell’individualità, raffigurato nel Nuovo Regno come una sagoma nera, ha in comune con il ba, accanto al quale è nominato nei testi funerari, la mobilità e il legame con il corpo.424 Nei Testi dei Sarcofagi si pone l’accento sulla necessità che l’ombra del defunto riacquisti la sua capacità di movimento, in modo da poter attivare, insieme ad altre componenti, un circuito di forza vivificante tra l’individuo e la sfera divina: «Va, mio ba, mia ombra [Swyt], affinché tu possa vedere Ra all’interno del suo santuario! […] Guardiani dei cuori-ib nel boschetto di papiri, preposti alle porte del cielo superiore [pt Hr(y)t], aprite le strade per il mio ba, il mio akh, la mia ombra, poiché egli porta Maat a Ra!».425 Un’altra formula recita: 423 Il termine xAybt è utilizzato nel Nuovo Regno. 424 L’ombra come sagoma nera viene raffigurata in tre tombe tebane della XIX dinastia a Deir el Medina; nella Valle dei Re, invece, la troviamo soltanto nella tomba di Sethi I. Questa immagine compare, inoltre, in alcuni papiri funerari del Nuovo Regno. 425 CT, VI, 67 e-f; h-k. 137 «O mio ba, mio akh, mia magia [HkAw], mia ombra [Swyt]! Apri dunque le due porte del cielo! Apri dunque le porte del firmamento […] (in modo) che tu possa vedere Ra nelle sue vere forme!»426 Il capitolo 92 del Libro dei Morti esordisce in questo modo: «Formula per aprire la tomba per il ba e per l’ombra [Swyt] di Osiri N». Anche a proposito degli dei, nelle fonti egiziane, si parla di ombra; il sole, per esempio, possiede un’ombra che attraversa la regione della duat. Nonostante questa componente umana e divina condivida con il ba una natura estremamente mobile, essa non raggiunge la sommità del cielo, ma rimane ancorata alla terra e alla sfera corporea.427 Più che la yuchv di cui parlano i filosofi, l’ombra degli Egiziani sembrerebbe richiamare, quindi, la nozione di eijvdwlon che troviamo nei poemi omerici. Snell rileva che l’«allontanarsi dell’anima dall’uomo, Omero lo descrive in pochi tratti; essa esce dalla bocca e viene emessa col respiro (o anche attraverso la ferita) e vola verso l’Ade. Là essa diventa spettro, conduce l’esistenza delle ombre, come “immagine” (eijvdwlon) del defunto».428 L’anima intesa come eijvdwlon,429 infatti, è soltanto il simulacro di chi ha vissuto sulla terra, che ha la consistenza di un’ombra e che, come rivela a Odisseo la madre Anticlea nell’Ade, «si libra come un sogno».430 Come nel caso dell’ombra egiziana, che si muove tra la tomba e la duat, la destinazione finale di questa sorta di figura onirica non è la dimensione celeste, bensì un mondo sotterraneo. L’eijvdwlon, tuttavia, intrattiene con il corpo un rapporto differente. Per poter essere accolto nell’oltretomba e trovare pace, esso deve interrompere il suo legame con la sfera corporea. Ciò avviene non con la morte, ma 426 CT, VI, 71 k-m; 72 d. Cfr. anche, per es., CT, formule 491; 497. 427 Cfr. E. Hornung, Fisch und Vogel: zur altägyptischen Sicht des Menschen, cit., p. 486. Cfr. anche J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 180. 428 B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 29. 429 Secondo J.-P. Vernant, il termine eijvdwlon individua una categoria di fenomeni, nella quale, oltre all’anima intesa come ombra, rientrano anche l’immagine del sogno (ovjneiro~), l’ombra degli oggetti e dei corpi (skiav), l’apparizione soprannaturale (favsma) e il colosso (kolossov~). Si tratterebbe di una vera e propria categoria psicologica, quella del «doppio, che suppone un’organizzazione mentale differente dalla nostra. Un doppio è tutt’altro che un’immagine. Non è un oggetto “naturale”, ma non è neanche un prodotto mentale: né un’imitazione di un oggetto reale, né un’illusione della mente, né una creazione del pensiero. Il doppio è una realtà esterna al soggetto, ma che, nella sua apparenza stessa, si oppone per il suo carattere insolito agli oggetti familiari, allo scenario ordinario della vita» (J.-P. Vernant, La catégorie psychologique du double, in Id., Mythe et pensée chez les Grecs, François Maspero, Paris 1974, p. 70). La nozione egiziana di ombra non copre, in realtà, tutta la gamma di fenomeni indicata da Vernant a proposito dell’eijvdwlon greco. Essa rappresenta, infatti, una delle varie componenti sottili dell’individuo o della divinità e non una categoria di elementi o manifestazioni. L’ombra, inoltre, non si può definire, a nostro avviso, una realtà esterna al soggetto, in quanto essa è parte integrante (durante e dopo la vita terrena) di quella costellazione che abbiamo definito «individuo articolare». 430 Omero, Odissea, XI, 222, trad. it. di F. Ferrari, Utet, Torino 2005. 138 con la sepoltura del corpo. Tra le proprietà dell’eijvdwlon non c’è, quindi, quella di essere un veicolo di forza per il corpo. L’anima del defunto è soltanto una parvenza di vita, sprovvista di una vera e propria coscienza o di particolari funzioni, per la quale non sono neanche previste ricompense o punizioni. L’ombra degli Egiziani può essere, invece, sottoposta a delle punizioni nell’aldilà, come, del resto, anche le altre componenti dell’individualità. Nel Libro dei Morti, tra i quarantadue giudici che compongono il tribunale di Osiri, menzionati al capitolo 125, ce n’è uno «che divora le ombre, originario della Caverna» (am[w] Swywt pr[=w] m qrrt). Particolarmente eloquenti in proposto sono, inoltre, i testi dell’oltretomba del Nuovo Regno, dove si incontrano esseri spaventosi che fanno a pezzi e divorano i defunti che non sono stati riconosciti come «giusti di voce». L’ombra egiziana presenta un’ulteriore caratteristica: se da un lato essa è in grado di trasmettere forza vitale al corpo, dall’altro può anche essere causa di patologie, come attesta la letteratura medica. In questo caso si tratta dell’«ombra di un dio, di un morto o di una morta», che colpisce un essere umano, esercitando su di lui un’azione nefasta.431 2. Gli sviluppi della nozione di yuchv nella filosofia platonica e aristotelica Nel modello antropologico proposto da Platone nel Fedone, yuchv e sw`ma costituiscono due entità di natura differente, in perenne conflitto tra di loro. L’anima, possedendo l’intelligenza, deve governare il corpo e contrastarne gli impulsi. Seguendo questa linea di pensiero, Platone prende le distanze dalla dottrina pitagorica che vedeva nell’anima l’armonia del corpo e si discosta anche da Socrate, che, pur individuando nell’anima l’essenza dell’uomo, non aveva teorizzato un conflitto tra questa e la sfera corporea. Nel Fedone, l’uomo viene identificato in modo categorico con la propria anima. Quest’ultima è presentata come un’entità del tutto autonoma, affine alle Idee e in grado di sussistere separatamente dal corpo. Platone conia, così, la nozione di anima che sarà ripresa in seguito dal cristianesimo e dalla filosofia moderna. La concezione platonica dell’uomo non rimane confinata, tuttavia, entro l’orizzonte tracciato nel Fedone. In alcuni dei dialoghi successivi, infatti, la psicologia del filosofo 431 Nei papiri medici sono note tre attestazioni della nozione di ombra nella sua accezione «nosologica»: Bln 89 e 101; Hearst 214. 139 ateniese va incontro a delle ulteriori elaborazioni, assumendo una forma maggiormente articolata e complessa. Nella Repubblica, la città ideale viene descritta come l’immagine in scala maggiore del singolo individuo. Viene istituita cioè una proporzione tra la struttura della società e quella dell’uomo: alle tre classi sociali in cui si suddivide la città platonica corrispondono tre parti o aspetti dell’anima umana: «E in fin dei conti – dissi – non siamo necessariamente costretti a convenire che in ciascuno di noi vi sono le stesse caratteristiche e costumi che sono nello Stato? Per forza, ché lo Stato è i cittadini stessi. Sarebbe ridicolo, infatti, credere che l’indole focosa, propria di quegli Stati ritenuti violenti, come lo sono i Traci, gli Sciti, e in genere tutti i popoli del nord, o l’amore per la scienza, che si può dire propria del nostro paese, o per la ricchezza, tipico dei Fenici e degli Egizi, non sia un generarsi dall’individuo allo Stato».432 L’uomo, che anche in questo contesto è concepito essenzialmente come la propria anima, manifesta, dunque, un aspetto razionale (logistikovvn), uno irascibile (qumoeidev~) e uno concupiscente (epiqumhtikovn). L’appartenenza di un individuo alla classe dei governanti, dei militari o dei lavoratori è caratterizzata dalla predominanza in lui di uno di questi tre aspetti. Il conflitto che nel Fedone vede contrapposti anima e corpo viene trasferito, nella Repubblica, all’interno dell’anima, la quale, pur essendo tripartita, mostra, in realtà, una struttura sostanzialmente dualistica. L’elemento impetuoso o irascibile, infatti, «per sua natura è ausiliario della razionalità, se non è stato sciupato da una cattiva educazione».433 Il vero fattore di disordine è rappresentato dalla parte appetitiva dell’anima, dal desiderio. Se l’elemento razionale, sostenuto da quello irascibile, riesce ad arginare l’impetuosità dell’anima concupiscente, si produrrà la giustizia sia all’interno dello stato che nel singolo individuo: «Così – io dissi – non attueremo giustizia quando fra le varie parti dell’animo si stabilirà un perfetto e gerarchico rapporto naturale; ingiustizia, invece, quando si porra contro natura tale rapporto gerarchico? […] La virtù, dunque, è, in un certo senso, salute, bellezza, benessere dell’anima; il vizio, invece, malattia, bruttura, debolezza».434 432 Platone, Repubblica, IV, 435 e – 436 a. 433 Ibid., 441 a. 434 Ibid., 444 d-e. 140 La medesima concezione, espressa in termini differenti, la ritroviamo nel Fedro. In questo dialogo l’anima è raffigurata come una biga alata, condotta da un auriga e trainata da due cavalli: «Poniamo che essa (l’anima) sia simile ad una potenza congenita di una pariglia alata e di un auriga. Ora, i cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti buoni e di buona razza, mentre quelli degli altri sono misti. In primo luogo, nel caso nostro, è la guida che conduce la pariglia; in secondo luogo, dei due cavalli ne ha uno eccellente e di razza eccellente, mentre l’altro è l’opposto e di razza opposta. E’ dunque necessariamente difficile e ingrato il compito dell’auriga nel nostro caso».435 L’auriga rappresenta l’anima razionale che tenta di guidare il carro alato verso l’alto, verso il mondo delle Idee. Nel caso di un essere divino questo compito non trova nessun ostacolo alla sua realizzazione, dal momento che gli intenti dei tre elementi che costituiscono l’anima convergono verso lo stesso scopo. Per quanto riguarda, invece, gli altri esseri, l’auriga trova un alleato nel cavallo buono, ossia nell’anima irascibile, e un impedimento in quello cattivo, immagine dell’anima concupiscente. Quando sono gli impulsi del secondo cavallo a prevalere, la biga precipita verso il basso, verso la dimensione terrena: «Quando è perfetta e alata, essa si libra in alto e governa il mondo intero; ma se perde le ali, precipita finchè non arrivi ad afferrarsi a qualcosa di solido, dove stabilisce la sua dimora e assume un corpo terroso, che a causa della potenza dell’anima sembra muoversi da solo. Questa totalità, composta di anima e di corpo, fu chiamata essere vivente ed ebbe l’appellativo di mortale».436 Anche nel Fedro viene riproposto, quindi, il modello di un’anima tripartita che manifesta, tuttavia, una natura essenzialmente dualistica: la ragione, sostenuta dall’emotività positiva, deve esercitare il proprio dominio sulla parte impulsiva e appetitiva, che rappresenta il lato più pericoloso dell’essere umano. In questo contesto, il corpo è l’effetto di una sorta di «incidente di percorso», qualcosa, cioè, che probabilmente sarebbe meglio evitare. Il discorso sull’uomo viene nuovamente affrontato da Platone nel Timeo, dialogo della vecchiaia dedicato a tematiche cosmologiche. Si tratta dell’ultima grande fase di sviluppo della psicologia e dell’antropologia platoniche. Ora, anima e corpo sono entrambi opera di esseri divini, incaricati dal Demiurgo, artefice in prima persona del 435 Platone, Fedro, 246 a-b, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. II, cit. 141 cosmo e delle creature immortali, di fabbricare gli animali mortali. Gli dei immortali imitarono il Demiurgo «ed avendo da lui ricevuto il principio immortale dell’anima, vi tornirono intorno il corpo mortale, e nella sua totalità, a guisa di carro, lo dettero all’anima: non solo, ma in esso fabbricarono un’altra specie di anima, l’anima mortale, che in sé possiede tremende ed irresistibili passioni».437 Per evitare che l’anima mortale potesse contaminare più del dovuto quella immortale, gli artefici del genere umano separarono le due, ponendole in due parti distinte del corpo. Nella testa posero il principio immortale «e costruirono come un’istmo, o limite, fra la testa ed il petto, ponendovi in mezzo il collo, sì che l’una fosse separata dall’altra. E fu nel petto, ed in quello che vien detto torace, che annodarono la specie mortale dell’anima. E poiché di quest’anima una parte era per natura migliore, peggiore l’altra, in due sezioni divisero la cavità del torace […] ed a mo’ di chiusura vi posero in mezzo il diaframma. La parte dell’anima, che partecipa del coraggio e dell’impetuosità e che è desiderosa di vittoria, la collocarono più vicino alla testa, fra il diaframma ed il collo, sì che potesse sottomettersi alla ragione».438 Rispetto agli altri dialoghi in cui viene posto il problema della natura umana, il Timeo attribuisce a ciascuna delle tre parti dell’anima una sede corporea ben precisa, essendo il corpo considerato, in questo caso, come il veicolo dell’anima. Ma soprattutto, in questo dialogo, Platone riconosce come immortale soltanto un aspetto dell’anima umana, quello razionale. Il conflitto tra le parti dell’anima è ormai attenuato; si raccomanda, infatti, di esercitare e nutrire tutti e tre gli aspetti che la compongono, anche se, naturalmente, la parte razionale detiene un primato. L’essenziale è mantenere la giusta proporzione: «Bisogna dunque stare attenti che i movimenti di tutti e tre siano proporzionati gli uni agli altri. E di quell’aspetto dell’anima umana che è in noi il più importante, dobbiamo ritenere che a ciascuno il Dio l’abbia donato come un genio tutelare, esso che, noi diciamo, abita nella sommità del nostro corpo, e che da terra ci solleva, nella sua affinità col cielo: noi siamo piante celesti e non terrene».439 La netta contrapposizione tra anima e corpo istituita nel Fedone si smorza progressivamente nelle fasi più mature del pensiero di Platone. L’impostazione 436 Ibid., 246 c. 437 Platone, Timeo, 69 c-d. 438 Ibid., 69 e – 70 a. 439 Ibid., 90 a. 142 dualistica, tuttavia, rimane e si traduce in una cesura tra la sfera della razionalità e quella dell’irrazionalità. La natura della prima è celeste e immortale, quella della seconda terrena e mortale. L’uomo è ancora essenzialmente la sua anima e l’anima è essenzialmente razionalità. La tripartizione dell’anima operata dalla filosofia platonica, che rappresenta uno stadio più complesso della concezione dell’uomo fondata sul binomio anima-corpo, costituirebbe, secondo un celebre egittologo, il retaggio di tre nozioni antropologiche ricorrenti nella letteratura sapienziale egiziana. E’ la tesi sostenuta da François Daumas, per il quale «non sembra, in ogni caso, troppo ardito concludere che Platone ha conosciuto questa psicologia sapienziale e che questa si è imposta a lui. Perciò, l’ha fondata dialetticamente e le ha dato una struttura logica nella Repubblica».440 Lo studioso osserva che negli insegnamenti sapienziali egiziani che ci sono pervenuti vengono menzionate raramente le diverse componenti dell’individualità umana. In essi non si trova, inoltre, nessuna affermazione esplicita di una «tripartizione dell’anima»; ricorrono, tuttavia, tre termini designanti altrettanti elementi della costellazione Uomo, sui quali abbiamo già avuto occasione di soffermarci. Si tratta dei tre vocaboli ib, haty e shet (Xt). Daumas circoscrive la sfera semantica di queste parole sulla base dell’utilizzo che ne viene fatto in tre testi sapienziali: l’Insegnamento di Ptahhotep (V dinastia), l’Insegnamento di Ani (XVIII dinastia) e l’Insegnamento di Amenemope (epoca Ramesside).441 Il termine shet, che propriamente significa «ventre», assumerebbe in questi testi due ulteriori significati: quello di «interiorità» e quello di «desiderio», «brama». Ciò induce lo studioso a tradurre shet, in alcuni passi (soprattutto dell’Insegnamento di Amenemope), con «anima passionale». La gamma di significati connessi al termine ib risulta, invece, meno estesa e più chiara: esso designa nello stesso tempo la sede dell’intelligenza e della memoria, l’organo cardiaco e l’intelligenza stessa o la ragione. Haty, infine, appare, in certi casi, come sinonimo di ib, nel senso di «intelligenza», ma indica anche il cuore come sede dei sentimenti. Nell’Insegnamento di Amenemope, in particolare, «molto spesso il termine HAty può rendersi con volontà, intesa nel senso di desiderio retto, cuore dotato di passione nobile».442 440 F. Daumas, L’origine égyptienne de la tripartition de l’âme chez Platon, in Mélanges Adolphe Gutbub, Université de Montpellier, Montpellier 1984, p. 50. 441 Cfr. ibid., pp. 46 sgg. 442 Ibid., p. 49. 143 I significati di questi tre vocaboli che interessano maggiormente a Daumas sono quelli che emergono dall’Insegnamento di Amenemope, «poiché Platone ha visitato l’Egitto intorno agli anni 395-392 e questo insegnamento, che dovette leggere ancora Pacomio, nel IV secolo della nostra era, doveva essere molto diffuso al tempo della XXIX dinastia».443 La conclusione è, dunque, la seguente: «Senza dubbio queste parole erano attinte al vocabolario più corrente della lingua egiziana, ma i Saggi, dall’origine, avevano tentato di impiegarli con delle sfumature molto più precise e tecniche che, alla fine del Nuovo Regno, equivalevano alla facoltà intellettuale e razionale per ib, all’ardore che dà una motivazione viva, come quella dell’uomo che va in collera, ma per una giusta causa, ed è il senso di HAty. Quanto al vocabolo Xt, esso ha senz’altro un senso di interiorità attinto al vocabolario corrente, ma evolve nettamente verso un senso peggiorativo e designa l’ambito della passione irrazionale, in grado di falsare il giudizio dell’uomo e di trascinarlo nella via dell’errore. Se volessimo renderlo con un termine filosofico, impiegheremmo il termine concupiscibile».444 In sintesi, la corrispondenza tra concetti platonici e nozioni antropologiche egiziane, proposta da Daumas, può essere così schematizzata: Elementi dell’individualità egiziani Parti dell’anima platonica corrispondenti ib (jb) logistikovvn haty (HAty) qumoeidev~ shet (Xt) epiqumhtikovn Sulla base delle fonti storiche di cui disponiamo, è quantomeno plausibile pensare, a nostro avviso, che Platone sia venuto a contatto con alcuni aspetti della cultura egiziana e che, in qualche modo, possa esserne rimasto influenzato. La tripartizione platonica dell’anima non manifesta, tuttavia, che delle sfumature delle tre nozioni antropologiche egiziane, la cui sfera semantica è, in realtà, più ampia e si declina in funzione del contesto specifico. Nei testi sapienziali l’accento è posto soprattutto sugli aspetti etici dell’agire umano; i concetti antropologici utilizzati si rivestono, di conseguenza, di un significato etico. Ecco che lo scriba parla, allora, di facoltà 443 Ibid. 144 intellettiva in grado di discernere la giusta condotta da tenere nelle varie situazioni; parla di ardore e di passioni da tenere sotto controllo. Nella letteratura religiosa e liturgica, che costituisce la fonte principale dell’antropologia egiziana, non vengono istituite, in realtà, delle differenze di valore tra le varie componenti dell’individualità umana. L’individuo è la risultante dell’interazione di tutti gli elementi della costellazione in cui si articola; tra questi, che godono, per di più, di una certa autonomia, anche il corpo, come vedremo meglio in seguito, svolge un ruolo essenziale. Nel pensiero di Platone, invece, l’elemento razionale, l’unico ad essere essenziale e ad avere autonomia, potrebbe, in linea di massima, fare a meno di tutto il resto. Con la filosofia aristotelica la nozione di yuchv assume un significato completamente diverso rispetto a quello che le era stato attribuito da Platone e dai filosofi precedenti. Per Aristotele, infatti, l’anima non è un composto di elementi (fuoco, aria, acqua, terra), né un demone o un ente autonomo; essa non è, inoltre, un aspetto della natura umana e non si identifica neanche con l’uomo nella sua interezza. Per arrivare a una definizione di «anima», lo Stagirita riprende i tre significati della sostanza formulati nella Metafisica: la materia, la forma e il composto delle due (to; ejk touvtwn). La materia e la forma vengono poi ricondotte a due dei significati principali di «essere»: la potenza e l’atto.445 Successivamente, Aristotele osserva che le sostanze sono soprattutto i corpi e specialmente quelli naturali. Tra questi ultimi alcuni sono dotati di vita e altri no. A partire da queste considerazioni, viene formulata una prima definizione di anima: «Di conseguenza ogni corpo naturale dotato di vita sarà sostanza, e lo sarà precisamente nel senso di sostanza composta. Ma poiché si tratta proprio di un corpo di una determinata specie, e cioè che ha la vita, l’anima non è il corpo, giacché il corpo non è una delle determinazioni di un soggetto, ma piuttosto è esso stesso soggetto e materia. Necessariamente dunque l’anima è sostanza, nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora tale sostanza è atto, e pertanto l’anima è atto del corpo che s’è detto».446 444 Ibid., p. 50. 445 Cfr. Aristotele, L’anima, II, 1, 412 a, 1-14. 446 Ibid., II, 1, 412 a, 15-22. 145 Poco oltre, Aristotele aggiunge che «l’anima è l’atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza».447 L’atto primo è una determinazione primaria di un ente; è il possesso della capacità di fare qualcosa. Ciò che, invece, sarà chiamato dagli Scolastici «atto secondo» costituisce una determinazione derivata; si tratta cioè dell’esercizio effettivo della capacità in questione. Se consideriamo, per esempio, la vista come «forma» dell’occhio, il suo possesso da parte dell’occhio è l’atto primo, presente anche quando la funzione visiva non è operante, come durante il sonno. L’atto secondo è, invece, l’utilizzo hic et nunc della vista. L’anima è, dunque, il principio di vita che possiedono le piante, gli animali e gli uomini. In questa prospettiva, un essere vivente non è formato da anima e corpo, intesi come due elementi distinti della sua natura, ma è un corpo che ha in atto la capacità di vivere. L’anima esiste in funzione del corpo, è qualcosa, cioè, che appartiene alla sfera corporea (sw`mato~ tiv). Ne consegue che un corpo morto non è più un corpo e ciò vale naturalmente anche per i singoli organi: «Anche il cadavere, però, ha lo stesso aspetto esteriore, e tuttavia non è un uomo. Ancora, è impossibile che sia veramente una mano quella fatta di un qualsiasi materiale, ad esempio bronzo o legno, se non per omonimia, come il medico dipinto. Essa non potrà infatti adempiere la propria funzione […] Similmente, nessuna delle parti di un cadavere – dico ad esempio l’occhio, la mano – è più veramente tale».448 E’ interessante osservare che, in virtù di questa concezione, le pratiche anatomiche, per Aristotele, hanno senso solo se finalizzate a tracciare una morfologia del corpo, relativa alla struttura degli organi e non alle funzioni, che attengono al corpo vivente.449 Lo Stagirita distingue una serie di facoltà dell’anima, specificando che «ad alcuni viventi […] appartengono tutte, ad altri alcune, ad altri una sola».450 Le piante possiedono solo la facoltà nutritiva; oltre a questa, gli animali hanno la facoltà 447 Ibid., II, 1, 412 a 29-30. 448 Aristotele, Parti degli animali, I, 640 b, 34-40, trad. it di M. Vegetti, in Id., Opere, vol. V, Laterza, Roma-Bari 1990. 449 Relativamente alla posizione aristotelica sull’anatomia umana, cfr. Storia degli animali, I 16. In questo passo lo Stagirita sostiene che le parti interne dell’uomo non sono note, «sicché occorre condurre l’indagine riferendosi alle parti degli altri animali che presentino natura simile a quelle umane» (trad. it. di M. Vegetti). Secondo G. E. R. Lloyd, queste affermazioni sono un chiaro indizio del fatto che Aristotele non riconosce la possibilità di un’anatomia umana, anche se non esclude quella animale (cfr. G. E. R. Lloyd, Methods and problems in Greek science, Cambridge University Press, Cambridge 1991, p. 170). 450 Aristotele, L’anima, II, 3, 414 a, 29-30. 146 sensitiva e quella appetitiva. Ad alcuni animali appartiene anche la facoltà locomotoria. Ciò che caratterizza l’anima umana è, invece, la capacità di pensare e di parlare. Essa comprende, tuttavia, anche le funzioni che sono proprie dell’anima delle piante e di quella degli animali. Ogni essere vivente possiede, infatti, un’unica anima. Il rapporto tra i tipi di anima è spiegato da Aristotele mediante una similitudine geometrica: «Il caso delle figure è simile a quello dell’anima, giacché sempre nel termine successivo è contenuto in potenza il termine antecedente, e ciò vale sia per le figure come per gli esseri animati. Ad esempio nel quadrilatero è contenuto il triangolo, e nella facoltà sensitiva quella nutritiva. Di conseguenza bisogna cercare caso per caso qual è l’anima di ciascuna specie e cioè della pianta, dell’uomo e del bruto».451 In quanto animale dotato di lovgo~, l’uomo è il più nobile degli animali che popolano la terra. Egli è, inoltre, l’unico tra i viventi ad essere in grado di distinguere il bene dal male e in generale ad avere dei valori, come leggiamo in un passo della Politica: «Il lovgo~ è fatto per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato».452 La concezione aristotelica dell’uomo, se da un lato si fonda anch’essa sul binomio anima-corpo, dall’altro rappresenta un superamento del dualismo caratteristico della riflessione antropologica precedente. Yuchv e sw`ma non sono, infatti, sostanze diverse, ma costituiscono i due aspetti inscindibili di quell’unica sostanza che è l’essere vivente. Nella prospettiva aristotelica, la funzione intellettiva e conoscitiva conserva ancora un primato. Significativo, in proposito, è l’esordio della Metafisica: «Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza».453 In questo caso, però, l’aspetto razionale non è più dotato di quell’autonomia che gli conferiva la filosofia platonica. L’uomo non può, cioè, esercitare la propria intelligenza prescindendo dalle altre funzioni dell’anima e dal corpo. Rimane una vexata quaestio la posizione di Aristotele riguardo alle sorti dell’anima umana dopo la morte. Nel trattato Sull’anima lo Stagirita postula l’esistenza di due 451 Ibid., II, 3, 414 b 28-35. 452 Aristotele, Politica, I, 2, 1253 a, 15-18, in Id., Opere, vol. XI, Laterza, Roma-Bari 1984. Abbiamo modificato leggermente la trad. di R. Laurenti sostituendo «parola» con il termine originale lovgo~. 147 intelletti: uno «passivo» (nou`~ paqhtikov~), che apprende le forme intelligibili contenute potenzialmente nelle percezioni sensibili, e uno «attivo» o «produttivo» (nou`~ poihtikov~), che fa passare all’atto sia l’intelletto passivo che le forme intelligibili in esso contenute. La funzione di questo secondo intelletto è paragonata a quella della luce, che «rende i colori che sono in potenza colori in atto».454 In un passo dell’opera, Aristotele afferma che l’intelletto attivo è separabile dal corpo e, quindi, è immortale, mentre quello passivo non è separabile ed è, pertanto, corruttibile: «E questo intelletto (attivo) è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza, poiché sempre ciò che fa è superiore a ciò che subisce, ed il principio è superiore alla materia. […] e non è che questo intelletto talora pensi e talora non pensi. Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno (ma non ricordiamo, perché questo intelletto è impassibile, mentre l’intelletto passivo è corruttibile), e senza questo non c’è nulla che pensi».455 Non è chiaro, tuttavia, se l’intelletto attivo faccia parte dell’anima intellettiva umana e la renda, di conseguenza, immortale. Su questo punto i commentatori di Aristotele hanno espresso opinioni divergenti. Secondo Enrico Berti, l’anima intellettiva, contenendo potenzialmente anche la funzione sensitiva e quella nutritiva, non può sussistere senza il corpo. «Resta l’intelletto attivo, che per Aristotele è sicuramente immortale, ma che non fa parte dell’anima umana e dunque è un principio sussistente di per sé, universale ed eterno. Qualche interprete lo identifica con l’intelletto divino, cioè col primo motore immobile».456 Tra gli elementi dell’antropologia aristotelica che abbiamo richiamato, quello che ci sembra maggiormente distintivo rispetto alle filosofie precedenti è la rivalutazione della sfera corporea. L’essere umano è concepito essenzialmente come un corpo vivente o «animato». Sotto questo aspetto, il modello di Aristotele è, a nostro avviso, meno distante di quello platonico dalla visione egiziana dell’uomo. L’anima, intesa come principio della vita e del movimento, svolge una funzione per certi versi simile a quella che la fisiologia egiziana attribuisce alle correnti dinamiche di origine divina che scorrono nella rete dei condotti-met. Anche nell’uomo aristotelico, inoltre, 453 Aristotele, Metafisica, I, 1, 980 a, 21. 454 Aristotele, L’anima, III, 5, 430 a, 17-18. 455 Ibid., III, 5, 430 a, 18-25. 456 E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 157. 148 l’organo direttivo è il cuore, come evidenzieremo meglio nel paragrafo seguente. Non mancano, tuttavia, gli elementi di cesura con la tradizione egiziana. Per Aristotele, infatti, l’individuo non è una costellazione di tanti componenti relativamente autonomi in relazione tra loro, bensì un «sinolo», composto da un corpo e da un’anima, in grado di svolgere più funzioni, che lo rende vivo. All’essere umano sembra, inoltre, essere preclusa la possibilità di una vita post mortem. Nell’Etica nicomachea, Aristotele definisce il bene dell’uomo «un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta».457 Le virtù considerate più alte sono quelle «dianoetiche», la saggezza (frovnhsi~) e la sapienza (sofiva); la seconda è superiore alla prima e rapprenta il vero fine dell’uomo, ciò che lo rende sommamente felice. Relativamente alla concezione aristotelica della felicità, tuttavia, c’è un dibattito tra gli studiosi. Le due principali esegesi sono incompatibili tra loro. Una, più intellettualistica, sostiene che, per Aristotele, l’uomo si realizza pienamente soltanto nell’utilizzo della facoltà razionale. Secondo l’altra, invece, più inclusiva, la felicità consiste nell’esercizio di tutte le facoltà caratteristiche dell’uomo. Se l’interpretazione intellettualistica è corretta, c’è un ulteriore elemento di cesura tra l’antropologia aristotelica e quella egiziana. Per l’Egiziano, infatti, la massima felicità non consiste in una vita contemplativa, teoretica, bensì nel vivere secondo la legge cosmica, Maat, e nel realizzarla sulla terra. E l’approccio a questa legge è in primo luogo «pratico», non intellettivo. 3. La fisiologia del sw`ma Sul versante del sw`ma, intorno al V secolo a. C., la riflessione antropologica greca non è meno accesa e ricca di elaborazioni teoriche. Differenti concezioni anatomiche e fisiologiche si contendono il primato: da una parte l’encefalocentrismo e dall’altra l’emocentrismo e il cardiocentrismo.458 Secondo l’impostazione encefalocentrica, il cervello (ejgkevfalo~) è il centro della vita percettiva e intellettuale dell’uomo. All’origine di questa tesi ci sono le indagini di Alcmeone di Crotone che, secondo la testimonianza di Calcidio, per primo avrebbe praticato la dissezione, facendo importanti scoperte sulla struttura anatomica dell’occhio: 457 Aristotele, Etica nicomachea, I, 7, 1098 a, 16-18, trad. it. di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993. 458 In proposito, cfr. P. Manuli, M. Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, Episteme Editrice, Milano 1977. 149 «Hanno scoperto [Alcmeone e altri] che ci sono due stretti condotti, che dalla sede del cervello, in cui è situato il supremo potere direttivo dell’anima, trapassano fino alla cavità degli occhi, in quanto contengono spirito naturale. Queste due vie, che partono da un unico principio e da una medesima radice, dopo essere rimaste congiunte per un certo tratto nella parte più interna della fronte, si separano, in forma di bivio, e giungono alle sedi concave degli occhi, lungo le quali sporgono i tracciati delle sopracciglia; […] Certo, che i condotti visivi partano da un’unica sede, è dimostrato principalmente dal sezionamento».459 Tutti gli organi di senso per Alcmeone fanno capo al cervello e il rapporto dell’uomo con l’ambiente esterno avviene in modo mediato, attraverso dei pori (povroi) che fanno passare le sensazioni. Un danno al cervello comporta, quindi, un deficit nell’attività sensoriale.460 L’essere umano si distingue dagli altri viventi per il fatto che, oltre ad avere sensazioni, è in grado di comprendere (xunievnai).461 Non rientra, tuttavia, nelle possibilità umane il possesso di un sapere immediato e completo, che risulta essere, invece, appannaggio degli dei: «delle cose invisibili, delle mortali, gli dei hanno visione immediata; a noi uomini spetta il congetturare [tekmaivresqai]».462 Per i sostenitori dell’encefalocentrismo, quindi, il sapere umano si forma e si perfeziona progressivamente, attraverso la raccolta di prove e indizi e la conseguente formulazione di «congetture». Impostando in questo modo il problema gnoseologico, la corrente encefalocentrica si contrappone alla visione propria della tradizione aristocratico-sacerdotale, secondo la quale il sapere si configura come una sorta di rivelazione, privilegio di un ristretto numero di persone. Secondo le testimonianze che ci sono pervenute, Alcmeone si limita ad affermare la connessione cervello-sensazione, senza indicare il modo in cui avviene il passaggio dalla sensazione alla conoscenza. Troviamo, invece, traccia di una dottrina gnoseologica più sviluppata e dell’istituzione di un nesso tra il cervello e la conoscenza tra le fila della scuola di Anassagora e nei medici ippocratici. Della 459 Alcmeone, A 10, trad. it. di M. Timpanaro Cardini, in I Presocratici, cit. La scoperta anatomica esposta nel passo citato è quella del nervo ottico. In proposito, cfr. M. Timpanaro Cardini, Originalità di Alcmeone, in Atene e Roma (1938), pp. 233 sgg. Relativamente ad Alcmeone e ai primordi della pratica della dissezione, cfr. anche il più recente G. E. R. Lloyd, Methods and problems in Greek science, cit., pp. 164 sgg. 460 Cfr. Alcmeone, A 5. 461 Cfr. Alcmeone, B 1 a. 462 Alcmeone, B 1, in I Presocratici, cit. 150 rilevanza che questa teoria aveva assunto nell’Atene del V secolo a. C. ne dà testimonianza un passo del Fedone in cui Socrate domanda: «E’ il sangue ciò con cui pensiamo o l’aria o il fuoco? O non è nessuno di questi, ma è il cervello che procura le sensazioni [aijsqhvsei~] dell’udito, della vista e dell’odorato, dalle quali nascerebbero la memoria [mnhvmh] e l’opinione [dovxa]; e dalla memoria e dall’opinone, divenuta stabile, nascerebbe la scienza [ejpisthvmh]?».463 In questo contesto, la scienza viene presentata come il risultato di un processo conoscitivo che ha come punto di partenza la sensazione che si produce nel cervello. La sensazione viene successivamente trasformata in ricordo, il quale una volta elaborato e stabilizzato dà origine alla scienza. Un passo di Plutarco che chiama in causa Anassagora sembra fare riferimento a questo modello gnoseologico:464 «Ma in tutte queste cose siamo da meno degli animali, siamo capaci, però, “di esperienza [ejmpeiriva], di memoria [mnhvmh], di sapere [sofiva] e di arte [tevcnh]”, secondo Anassagora».465 Dalla testimonianza di Plutarco emerge anche l’importanza della tevcnh nel processo di formazione della conoscenza. Abbiamo visto, infatti, che per Anassagora il sapere umano è strettamente legato all’uso delle mani e, dunque, alla possibilità di utilizzare gli strumenti della tevcnh ed esercitare un’attività «demiurgica». Anche nell’ambito della tevcnh medica viene promossa l’immagine di un uomo encefalocentrico. A questo riguardo, tra le opere della scuola di Kos, Male sacro può essere considerato lo scritto maggiormente eloquente. L’argomento trattato da questo testo è l’epilessia, considerata tradizionalmente come una malattia di origine divina, non inquadrabile in schemi razionali, la cui terapia richiedeva, pertanto, un contesto di carattere magico-religioso. L’autore di Male sacro, contrapponendosi alla concezione tradizionale, sostiene che questa patologia ha un’origine naturale, riconducibile, come accade per la maggior parte delle malattie, al cervello. L’impianto 463 Platone, Fedone, 96 b. 464 In proposito, cfr. D. Lanza, L’EGKEFALOS e la dottrina anassagorea della conoscenza, in Maia (1964), pp. 71 sgg. In particolare, a p. 76 lo studioso scrive: «Anassagora non dovette elencare soltanto alcune qualità proprie dell’uomo e non degli animali, ma formulò probabilmente, sul fondamento di accertamenti scientifici, l’ipotesi dell’articolarsi del processo conoscitivo». 465 Anassagora, B 21 b, trad. it. di S. Obinu, in I Presocratici, cit. Lo stesso Anassagora non considera, tuttavia, pienamente affidabili le sensazioni che costituiscono la nostra esperienza: «per la debolezza delle sensazioni non siamo in grado di distinguere il vero» (B 21). Lanza, come diversi altri studiosi, non mette in dubbio l’autenticità dei quattro termini utilizzati nel frammento B 21 b: «Dal passo si ricava che le quattro facoltà dell’intelligenza, connesse biologicamente al cervello, centro anche secondo Anassagora della vita sensibile (cfr. A 108), sono unite secondo una precisa concatenazione dinamica. Il passaggio dalla mnhvmh e dall’ejmpeiriva (= dovxa) (a loro volta fondate sulla percezione sensibile) all’ejpisthvmh (= sofiva, tevcnh) avviene per un confermarsi nel tempo» (Anassagora, Testimonianze e frammenti, cit., p. 250). 151 fisiologico dell’essere umano è, infatti, centrato su quest’organo. Da esso dipendono da un lato la vita psichica e intellettuale dell’individuo, dall’altro i fenomeni fisici e il movimento: «Bisogna che gli uomini sappiano che da null’altro si formano i piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo, se non dal cervello, e così i dolori, le pene, la tristezza e il pianto. E soprattutto grazie ad esso pensiamo e ragioniamo e vediamo ed udiamo».466 «Per queste vie [le vene] ritengo che il cervello svolga l’azione più importante nell’uomo: esso infatti è per noi l’intreprete degli stimoli che provengono dall’aria, quando sia sano: l’attività mentale a sua volta è resa possibile dall’aria. Gli occhi dal canto loro e gli orecchi e la lingua e le mani e i piedi, quanto il cervello ha compreso, questo eseguono […] Il cervello è invero il veicolo alla coscienza; giacché quando l’uomo aspira il respiro, questo dapprima giunge al cervello, e così l’aria è diffusa nel resto del corpo, avendo però lasciato nel cervello la parte più attiva».467 Le vene (flevbe~) che «si dirigono al cervello da ogni parte del corpo»468 sono i canali che permettono la distribuzione dell’aria in tutto l’organismo. Attraverso di esse il cervello può esercitare sul corpo la sua azione direttiva. Male sacro accenna anche a un legame anatomico tra il cuore e il sistema vascolare.469 Nel sistema fisiologico, tuttavia, il cuore svolge un ruolo del tutto passivo; allo stesso modo il diaframma. L’unica reazione che questi due organi sono in grado di opporre agli stimoli esterni è quella di contrarsi: «Alcuni d’altro canto asseriscono anche che pensiamo col cuore, ed è esso a provare dolori e cure; ma non è così, bensì esso ha solo contrazioni come il diaframma».470 Abbiamo visto l’importanza che rivestono nella fisiologia egiziana le correnti vitali o soffi animatori, veicolati dai condotti-met. Con la teoria encefalocentrica ritroviamo un concetto per certi versi analogo a quello egiziano, ma inserito in uno schema fisiologico alquanto diverso. L’aria di cui parla il medico ippocratico autore di Male sacro giunge in primo luogo al cervello, generando l’attività intellettuale, «poi la 466 Male sacro, 17, trad. it. di M. Vegetti, in Opere di Ippocrate, Utet, Torino 1965. 467 Ibid., 19. In proposito scrive Vegetti: «Il cervello assume qui la funzione di cerniera tra “esterno” e “interno”, di saldatura psicofisica tra oggettivo e soggettivo: esso interpreta, cioè organizza e rende significativi i dati dell’esperienza oggettiva, e su questa base orienta la risposta del comportamento, l’intera funzionalità corporea. Attraverso tale veduta, l’idea di un “sistema nervoso centrale” viene assicurata alla storia della medicina. (ibid., pp. 288 sg, nota 26). 468 Ibid., 6. Con il termine flevbe~ sono designate sia le vene che le arterie. 469 Cfr. ibid., 6; 20. 470 Ibid., 20. 152 maggior parte va all’intestino, e il resto si divide fra i polmoni e le vene».471 Attraverso le vene, l’aria si distribuisce nel resto del corpo, assicurando ad esso il «ricambio respiratorio» (au|tai ga;r hJmi`n eijsin ajnapnoai; tou` swvmato~) e, quindi, il movimento.472 Al sangue non è riconosciuto nessun ruolo fondamentale. Diversamente dallo pneu`ma della scuola ippocratica, il soffio (TAw) di cui parlano i testi medici egiziani è un principio di origine divina che, quando entra nell’organismo umano, viene convogliato in primo luogo al cuore, centro propulsore che lo invia a tutte le parti del corpo attraverso la rete dei condotti-met.473 Le correnti dinamiche alimentano, quindi, anzitutto il cuore-ib, sede del pensiero, della memoria e più in generale della coscienza; esso, servendosi poi del suo luogo anatomico privilegiato, il cuore-haty, fa in modo che tutto il corpo sia costantemente animato e vitalizzato dall’«aria». Oltre ai soffi vitali, fanno parte degli elementi essenziali alla vita che transitano nei canali corporei anche i differenti liquidi fisiologici, tra cui il sangue, che ha la facoltà di legare le sostanze provenienti dall’alimentazione, permettendo, così, la rigenerazione del corpo. Nonostante la centralità dell’organo cardiaco e del sangue, anche il cervello, tuttavia, non viene completamente ignorato dal pensiero fisiologico egiziano. La fonte maggiormente eloquente in proposito è la prima sezione del papiro di Smith, costituita da quarantotto osservazioni cliniche relative alla chirurgia delle ossa e a quella generale.474 La serie di osservazioni inizia prendendo in considerazione il cranio, il naso e la mascella. L’aspetto interessante consiste nel fatto che il testo non si limita a una semplice descrizione delle fratture e delle ferite che riguardano le parti anatomiche prese in esame, ma mette in evidenza i rapporti tra una lesione e i sintomi che l’accompagnano. Trattando delle fratture dell’osso temporale, per esempio, l’autore rileva che esse provocano mutismo, sordità o iperacusia.475 Egli si 471 Ibid., 10. 472 Cfr. ibid., 7; 10. Leggiamo al paragrafo 7: «Non può infatti il respiro ristagnare, ma si muove in su e in giù: perché se ristesse in qualche luogo e vi fosse immobilizzato, quella stessa parte del corpo ne sarebbe paralizzata; e ve n’è una prova: quando un uomo stando sdraiato o seduto, comprime i piccoli vasi al punto che il respiro non può attraversare la vena, subito lo prende il torpore». 473 Lo pneu`ma di cui si parla in Male Sacro è una nozione che rivela una certa ambiguità. Da un lato, infatti, questo concetto richiama la dottrina di Diogene di Apollonia, secondo il quale l’aria è l’arch del cosmo, matrice, quindi, anche del pensiero e dell’attività intellettuale dell’uomo, dall’altro esso è inserito in un contesto che vede nel cervello l’organo in cui hanno luogo i processi fisiologici che stanno alla base dell’attività razionale. Di natura completamente differente, cioè prive di qualsiasi connotazione cosmologica, sono, invece, le «arie» di cui si parla in Arie, Acque e Luoghi. 474 Il papiro di Smith è datato intorno al 1550 a. C., come quello di Ebers insieme al quale è stato rinvenuto. Il testo fu pubblicato, con la traduzione, da J. H. Breasted nel 1930. 475 Cfr. Smith, Osservazioni n° 20; 21; 22. 153 accorge che le fratture del cranio hanno un esito fatale quando il malato è incosciente e presenta sintomi quali rigidità del collo, sangue negli occhi e perdita di sangue dalle narici o dalle orecchie. L’osservazione n° 6 del papiro di Smith recita: «Se tu procedi all’esame di un uomo che ha una ferita aperta alla testa, che giunge fino all’osso, quando il cranio è rotto e il midollo del cranio è esposto, tu dovrai esaminare la ferita e constatare che questa frattura che è nel cranio è simile alle concrezioni che si producono nel metallo in fusione […] (E tu dovrai ancora constatare) che egli perde sangue dalle due narici e che è colpito da rigidità alla nuca. […] Tu dirai a questo proposito: un male che non si può curare». Relativamente a questo particolare approccio del medico egiziano, che, per certi versi, anticipa di diversi secoli l’orientamento metodologico e la consapevolezza di cui troviamo testimonianza in alcuni testi medici della scuola ippocratica o in altri di età ellenistica, Paul Ghalioungui afferma: «E’ così che egli scopre che la lesione cerebrale è la sola che conta nei traumi cranici e che mette in relazione le fratture craniche con le complicanze neurologiche».476 Più in generale, l’autore del papiro di Smith percepisce il legame tra il sistema nervoso e i movimenti volontari, prima di una sua chiara formulazione in termini anatomici.477 Egli è consapevole, per esempio, che le fratture della colonna vertebrale comportano sintomi quali la paralisi delle gambe e l’incontinenza.478 Tornando alla fisiologia greca, la concezione emocentrica e quella cardiocentrica, rispetto all’encefalocentrismo, si rivelano notevolmente più affini all’approccio fisiologico egiziano. L’emocentrismo assume l’aspetto di un sistema all’inizio del V secolo a. C., con Empedocle. Secondo questo filosofo, il corpo umano è costituito dagli stessi quattro principi che sono alla base della struttura del cosmo e che formano anche l’anima. Le leggi che governano la generazione, lo sviluppo e la distruzione del corpo sono intrinseche alla natura dei quattro elementi e si manifestano come forze di attrazione e repulsione. Secondo il prevalere delle une o 476 P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, Éditions Robert Laffont, Paris 1983, p. 56. 477 Una precisa formulazione dei rapporti anatomici tra il sistema nervoso centrale e i nervi periferici non compare prima del IV secolo a. C.; essa è dovuta agli anatomisti Erasistrato ed Erofilo, attivi ad Alessandria d’Egitto, ai quali è attribuito il merito di aver effettuato le prime autopsie. 478 Cfr. Smith, Osservazione n° 31. J. R. Harris e P. Ghalioungui pongono l’accento sul retaggio del papiro di Smith nella medicina ippocratica. Nel trattato Sulle articolazioni, infatti, ritroviamo il metodo per ridurre le lussazioni della mandibola e quello per trattare la frattura di una clavicola, descritti nel papiro di Smith (Osservazioni 25; 35). Harris rileva, inoltre, che le lesioni alla testa menzionate dal papiro in questione sono di tre tipi: schiacciamento (sd), spaccatura (pSn), penetrazione (thm); gli scritti ippocratici allo stesso modo indicano tre generi di ferite che corrispondono alla classificazione egiziana: flavsi~, rJh`ma e eJvdra (cfr. P. Ghalioungui, La 154 delle altre, le membra corporee si aggregano o si separano. Le medesime leggi agiscono su tutti i viventi: «Questo è ben visibile nella massa delle membra mortali [brotevwn melevwn ojvgkon]: ora per azione di Amore noi, in quanto membra [gui`a] che formano il corpo [sw`ma], ci riuniamo tutte in uno, al culmine della vita fiorente; ora separate da maligni Contrasti, vagano ognuna divisa dall’altra fino alla sponda estrema della vita. E così per gli arbusti e i pesci che dimorano nelle acque e le fiere che fanno la tana nei monti, gli uccelli alati».479 Il corpo dell’uomo, pensato come una sorta di ricettacolo di sangue, entra in relazione con l’ambiente esterno attraverso dei canali (suvrigge~), che sfociano sulla superficie della pelle. Questa rete di aperture è alla base sia del processo respiratorio sia della formazione della conoscenza attraverso il fenomeno della sensazione. La respirazione di cui parla Empedocle non chiama in causa soltanto le sue vie più evidenti, cioè bocca e narici, ma coinvolge l’intero corpo. L’aria, infatti, viene incanalata da tutti i pori presenti sulla superficie corporea, che costituiscono anche il veicolo delle sensazioni: «Così inspirano, tutti gli esseri animati, ed espirano; a tutti cannucce [suvrigge~] di carne, povere di sangue, si estendono lungo la superficie del corpo, e al loro imbocco fenditure fitte traforano da parte a parte l’estremità dell’epitelio e trattengono il sangue in modo che venga aperta all’aria una via agevole attraverso i condotti. E non appena il sangue tenero si ritrae, l’aria, gorgogliando, si riversa con onda impetuosa, e quando il sangue guizza in alto, l’animale espira nuovamente».480 L’inspirazione e l’espirazione dell’aria sono legate, dunque, al movimento ciclico del sangue che si ritrae e si espande. Questo processo permette a tutto l’organismo di essere irrigato e refrigerato. I pori della pelle sono, però, anche all’origine della conoscenza. Secondo l’impostazione empedoclea, conoscenza e sensazione rappresentano sostanzialmente lo stesso fenomeno. A differenza di quanto sostenuto dalla teoria encefalocentrica, infatti, in questo caso non c’è alcun passaggio da un livello sensoriale a uno razionale; l’atto del conoscere avviene in modo immediato, attraverso le sensazioni e riguarda l’intero organismo. Le «emanazioni» degli enti che médecine des pharaons, cit., pp. 56 sg e J. R. Harris (a cura di), The legacy of Egypt, Clarendon Press, Oxford 1971, pp. 125 sgg). 479 Empedocle, B 20, trad. it. di I. Ramelli e A. Tonelli, in I Presocratici, cit. 480 Empedocle, B 100, in ibid. La teoria della respirazione empedoclea viene ripresa e ampliata da Platone nel Timeo (78 a – 79 e). 155 circondano il soggetto percipiente entrano nei pori della pelle e generano la sensazione. Quest’ultima è prodotta dall’incontro del simile che proviene dall’esterno con il simile presente all’interno del corpo umano:481 «Con la terra vediamo la terra, e l’acqua con l’acqua, con l’etere l’etere divino, e con il fuoco il fuoco distruttore, con l’amore l’amore, e contesa con la contesa funesta».482 In ogni organismo vivente i quattro elementi che lo costituiscono si trovano sempre in uno stato di mescolanza. La mescolanza più perfetta è costituita dal sangue, che è per eccellenza veicolo di vita e di conoscenza.483 Il sangue che circonda il cuore è quello in cui il pensiero è maggiormente copioso: «E in esso più che altrove c’è quello che dagli umani è detto pensiero [novhma]: sangue che circonda il cuore, questo è per gli umani il pensiero».484 Il fenomeno della conoscenza non è, tuttavia, il privilegio di una singola parte o mescolanza dell’organismo; esso è presente in tutte le cose, anche se in misura differente.485 Il sangue è concepito da Empedocle principalmente come una fonte di calore; esso rappresenta l’elemento unificatore del corpo, sul quale si fonda tutta la fisiologia. L’emocentrismo postula, dunque, una corrispondenza tra sangue, calore e vita e concepisce i rapporti tra l’uomo e gli enti del mondo all’interno di un sistema governato da un principio analogico che, di volta in volta, individua l’omogeneità e la somiglianza. Alcuni testi del Corpus Hippocraticum ricorrono a una spiegazione emocentrica di determinate patologie, come il delirio e l’epilessia, che Male sacro, attribuiva, invece, in modo netto al cervello. Secondo l’autore dell’opera sui Venti, ogni alterazione delle facoltà intellettuali e l’epilessia stessa sono una conseguenza di un mutamento subito dal sangue: «Ritengo che in ogni individuo nessuno dei componenti del corpo che concorrono al pensiero [frovnhsi~] sia più importante del sangue. Finché questo componente rimane nel suo stato normale, anche il pensiero vi rimane. Ma quando il sangue subisce delle modificazioni anche il pensiero cambia».486 481 Cfr. Empedocle, A 86. 482 Empedocle, B 109, in ibid. 483 In proposito afferma Teofrasto: «La conoscenza si realizza soprattutto grazie al sangue, dato che in esso si mescolano in misura maggiore gli elementi delle parti» (Empedocle, A 86). 484 Empedocle, B 105, in ibid. 485 Cfr. Empedocle, B 107; B 110. 486 Venti, 14. La trad. segue quella francese di J. Jouanna, in Hippocrate, De vents. De l’art, Les Belles Lettres, Paris 1988. 156 Anche in Regime è possibile rilevare un legame con Empedocle e l’emocentrismo, in particolare dove l’autore affronta il tema dell’intelligenza e delle cause che possono produrre dei mutamenti in essa, conducendo in certi casi anche alla follia.487 Antica medicina si fa, invece, portavoce di una posizione fortemente critica nei confronti dell’impostazione filosofica empedoclea, considerata astratta e ipotetica e, dunque, del tutto infeconda sotto l’aspetto scientifico. Il primato dell’elemento vitale e del calore, considerati come due aspetti dello stesso fenomeno, è un assunto che l’emocentrismo condivide con la concezione cardiocentrica. Il caposaldo del cardiocentrismo è, infatti, la stretta correlazione di cuore, calore e vita. Questo approccio fisiologico, a differenza di quello emocentrico, riconosce all’organismo umano un centro direttivo che viene individuato nel cuore, e ammette la validità del rapporto organo-funzione, considerato come un importante criterio di indagine anche dai sostenitori dell’encefalocentrismo. Nella fisiologia cardiocentrica, infatti, il processo di riscaldamento e refrigerazione vede protagonisti due organi: il cuore e i polmoni. La funzione cardiaca trova il suo complemento in quella polmonare; l’azione combinata di un organo «caldo» e di uno «freddo» realizza quell’equilibrio termico all’interno del corpo che è condizione indispensabile per il mantenimento della vita. Anche nella dottrina di Empedocle viene affermata l’unità dell’organismo, ma a nessun organo o parte corporea è attribuito il ruolo di centro del sistema; al rapporto organo-funzione, inoltre, viene sostituito quello tra «elementi» e funzione. In questo contesto, l’alternanza tra la funzione calorica e quella refrigerante è dovuta al duplice movimento del sangue. Secondo la prospettiva cardiocentrica, il cuore oltre a essere la fonte della vita è anche la sede dell’intelligenza.488 I fondamenti di questa concezione fisiologica, elaborati nel corso del V e del IV secolo a. C., sono riscontrabili nell’opera del Corpus Hippocraticum intitolata Sul cuore e nel Timeo di Platone.489 Promotrice di questa impostazione è, inoltre, la filosofia aristotelica; le opere da cui emerge l’indirizzo cardiocentrico di Aristotele sono in particolare La storia degli animali e Le parti 487 Cfr. Regime, I, 35. 488 In proposito affermano P. Manuli e M. Vegetti: «Individuando una sola radice della vita e del pensiero, il cardiocentrismo manifesta un’esigenza monocentrica ben più forte rispetto all’analoga esigenza encefalocentrica: la supremazia psichica del cervello tendeva infatti a non intaccare l’autonomia delle altre strutture anatomiche, e dunque delle altre funzioni. Diversamente, il cardiocentrismo propende a darsi uno statuto fortemente “monarchico” e non sembra accettare forme di delega» (Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, cit., p. 102). 489 P. Manuli e M. Vegetti rilevano che: «il contenuto cardiocentrico del Timeo sembra del tutto analogo a ciò che l’autore del Peri Kardies mostra di sapere sul cuore, le sue funzioni e i suoi organi sussidiari» (ibid., p. 77). 157 degli animali. Il testo Sul cuore, la cui datazione oscilla tra l’inizio del IV secolo a. C. e l’età ellenistica,490 sviluppa principalmente delle tematiche anatomiche, ma contiene anche degli importanti riferimenti dottrinali relativi a una visione ben precisa del sw`ma e di ciò che lo anima. Il cuore, a forma di piramide, è la fonte della vita perché in esso dimora il «fuoco innato», un principio la cui natura non è semplicemente fisiologica, organica, bensì cosmologica: «Entrambi i ventricoli sono rugosi all’interno e come corrosi, ma più il sinistro del destro: il fuoco innato [to; ejvmfuton pu`r] infatti non è nel ventricolo destro, sì che non fa meraviglia che quello di sinistra sia reso più rugoso, dal momento che è pieno di fuoco non temperato».491 Il ventricolo sinistro è, inoltre, la sede del pensiero e di ogni altra facoltà dell’anima: «Infatti l’intelligenza [gnwvmh] dell’uomo e il principio di tutto il resto dell’anima [ajrch; th`~ ajvllh~ yuch`~] hanno sede per natura nel ventricolo sinistro».492 Il cuore è anche l’origine del sistema venoso che, come una rete fluviale, veicola in tutto l’organismo il calore vitale, necessario supporto di ogni processo fisiologico: «Queste sono le fonti della natura umana e qui, su per il corpo, (hanno origine) i fiumi che lo irrigano. Questi fiumi portano la vita all’uomo, e se si inaridiscono, l’uomo muore».493 Nella biologia di Aristotele la centralità del cuore nell’economia dell’organismo si radicalizza. In questo contesto, l’organo cardiaco assurge a monarca indiscusso del corpo. La sua importanza e la sua nobiltà, nelle Parti degli animali, vengono giustificate così: «dev’esservi infatti un organo in cui, come in un focolare, risieda la vivificante scintilla della natura, ed essa va ben protetta, quasi fosse l’acropoli del corpo».494 Il cuore possiede una propria autonomia, come una sorta di divinità all’interno dell’organismo ed è la fonte dei movimenti corporei: «Il cuore ha anche abbondanza di tendini, e ciò ben a ragione: da esso infatti hanno origine i movimenti, questi si effettuano per contrazione e distensione, e il cuore ha 490 Cfr. il paragrafo IV della Notice di M.-P. Duminil che introduce il PERI KARDIES, in Hippocrate, Plaies, Nature des os, cœur, anatomie, Les Belles Lettres, Paris 1998, pp. 175 sgg. 491 Sul cuore, 6, trad. it. di P. Manuli e M. Vegetti, in Id., Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, cit., p. 110. 492 Ibid., 10. 493 Ibid., 7. 494 Aristotele, Parti degli animali, III, 670 a, 24-26, in Id., Opere, vol. V, cit. 158 dunque bisogno di un tale strumento e di una tale forza. Come si è detto anche prima, il cuore è come un essere vivente all’interno degli animali che lo possiedono».495 La posizione mediana del cuore e la sua struttura dotata di tre ventricoli sono conformi all’ideale aristotelico della medietas. L’organo cardiaco concilia, infatti, le due polarità opposte costituite dalle due parti simmetriche del corpo; il ventricolo centrale concilia gli altri due, posti a destra e a sinistra. Il sangue, prodotto dall’organo cardiaco per cozione degli alimenti ingeriti, fluisce attraverso le vene in tutte le parti del corpo e genera le carni e i tessuti.496 Nel modello antropologico delineato da Platone nel Timeo, invece, oltre a un retaggio emocardiocentrico di tradizione empedoclea, è presente anche una componente encefalocentrica, di derivazione soprattutto alcmeonica, alla quale viene assegnato un ruolo di primo piano. E’ il cervello, infatti, per Platone la vera «acropoli» del corpo, in quanto esso è sede dell’anima razionale. Quest’organo non è più, tuttavia, la fonte di quell’intelligenza tecnica considerata tanto importante da Anassagora e dai medici ippocratici. Le attitudini tecnico-pratiche, infatti, sono collocate da Platone al livello delle viscere. «Quanto al cuore, nodo delle vene e sorgente del sangue […] lo collocarono nel posto di guardia, di modo che, se l’anima irascibile ribolle, avvertita dalla ragione che qualcosa di ingiusto avviene nel corpo […] subito, attraverso tutti gli stretti canali delle vene, tutte le parti sensibili del corpo, capaci di ricevere le ammonizioni e le minacce della ragione, possano ascoltarla e seguirla: ed è così possibile che la parte migliore abbia il comando su tutto».497 Con il cardiocentrismo e l’emocentrismo della tradizione greca, considerati nel loro insieme, ritroviamo in primo piano quegli stessi elementi corporei che, secondo i testi medici egiziani, risultano essere i principali agenti in tutti i processi fisiologici che caratterizzano l’organismo umano: il cuore, i polmoni, il sangue e la rete di canali che si irradia per tutto il corpo. Nel sistema fisiologico egiziano, alla respirazione, come abbiamo già avuto modo di riscontrare, spetta un ruolo essenziale: quello di apportare all’organismo la forza vitale, necessaria al suo sostentamento, che è presente nell’aria. Una seconda funzione della respirazione è quella di refrigerare il corpo. Il cuore-haty è il «motore» che invia alla rete dei condotti-met le correnti dinamiche. Gli stessi condotti sono percorsi, tuttavia, dai liquidi fisiologici e in 495 Ibid., III, 666 b, 14-17. 496 Cfr. Aristotele, Riproduzione degli animali, II, 743 a, 1-20. 497 Platone, Timeo, 70 b-c. 159 particolare dal sangue, elemento vitale per eccellenza, carico del soffio animatore. Si pone, allora, una domanda alla quale è difficile dare una risposta precisa: gli Egiziani conoscevano la circolazione del sangue? La storia della medicina attribuisce la prima descrizione accurata del sistema circolatorio al medico inglese William Harvey, vissuto tra il XVI e il XVII secolo. C’è stato, nondimeno, anche chi ha cercato di dimostrare che alcuni trattati del Corpus Hippocraticum, come La natura delle ossa e Sul cuore, presuppongono da parte del loro autore la conoscenza della circolazione sanguigna, suscitando numerose reazioni tra gli ellenisti e gli storici della medicina.498 Per quanto riguarda l’Egitto antico, possiamo constatare che l’esame del polso da parte del medico viene considerato come una pratica diagnostica di importanza primaria dai papiri medici di Ebers, Berlino e Smith. Il medico che si accinge a curare un paziente deve «fare un bilancio di cose (differenti) con la misura-oipe [jp xt m jpt]. L’atto di esaminare è come (quando) si fa il bilancio di qualcosa per mezzo della misura-oipe o (come quando) si fa il bilancio di qualcosa con le dita […] Egli dice (= il medico): relativamente alla sua ferita, “esaminare” sui (= ponendo le dita sui) condotti-met della testa, su quelli della nuca, delle gambe […] Egli dice: “esaminarla” allo scopo di conoscere ciò che accade in lui (l’uomo)».499 L’esame del polso fa parte dell’insieme delle operazioni diagnostiche necessarie per avere un quadro completo della situazione del paziente. Secondo Breasted, il medico che tastava il polso contava le pulsazioni del cuore.500 Bardinet non segue, invece, questa ipotesi; pur ammettendo che l’esame del polso era praticato dai medici egiziani, egli sostiene che si trattava di una valutazione anzitutto qualitativa che rientrava in un esame più generale, finalizzato a chiarire la natura di un disturbo e a individuare eventualmente degli agenti patogeni.501 Anche Ghalioungui si domanda se gli Egiziani conoscessero la circolazione del sangue e in proposito afferma: «Espressioni come “il cuore parla là dove si sente il polso” o “ci sono in lui (il cuore) dei metu (vasi) che vanno in tutte le membra”, così come tutti i passaggi in cui si dice 498 In proposito, cfr. il paragrafo IV della Notice di M.-P. Duminil che introduce il PERI OSTEWN FUSIOS e il paragrafo III della Notice della medesima autrice che introduce il PERI KARDIES, in Hippocrate, Plaies, Nature des os, cœur, anatomie, cit., pp. 89 sgg e pp. 175 sgg. 499 Smith, Osservazione n° 1. Cfr. anche Eb. 854 a, già citato supra, p. 79. L’oipe (jpt) è una misura di capacità non specifica, utilizzata per misurazioni di vario genere. Esso è un multiplo dell’heqat (HqAt, «staio»), unità di misura del grano e di altri prodotti di consistenza analoga. Un oipe corrisponde a quattro heqat, equivalenti a 19,22 litri. 500 J. H. Breasted, The Edwin Smith Surgical Papyrus, cit., p. 106. 501 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 86 sg. 160 che i metu trasportano gli umori, l’aria, ecc., non possono più essere spiegati senza ammettere una conoscenza almeno parziale dello scorrimento del sangue dal cuore verso i vasi».502 Secondo il pensiero egiziano, in effetti, tutto ciò che non è in movimento e che ristagna ha a che fare con la morte, non con la vita. Il corpo vivente è in primo luogo un corpo articolare, caratterizzato, quindi, da motricità e connettività. Dai papiri medici emerge chiaramente che una torsione o uno strozzamento dei condotti-met, che impedisce il passaggio dei liquidi e dei soffi vitali, induce sempre uno stato patologico.503 L’autore del papiro di Ebers in un passo si esprime in questi termini: «Quanto al fatto che l’ib è privo di liquidi [wSr], ciò è dovuto al sangue che è legato [dmA] nel cuore-haty».504 In questo contesto l’ib subisce un danno perché non è più alimentato dai fluidi e dal sangue che rimane confinato nel cuore-haty. Bardinet fa notare che il verbo usher [wSr], presente nel passo appena citato, è utilizzato in due occasioni nei testi del tempio di Esna per parlare dell’uomo che è privo del suo sangue, a causa di un rapporto non adeguato con la divinità: «Temete Khnum, voi che desiderate vivere, poiché egli è l’ariete grande di potenza, signore del soffio (vitale), alla mercé del quale sono la vita e la morte: chiunque è privato di lui non ha più sangue nelle vene!».505 «Il sangue manca nel corpo [Haw] di colui che lo attacca».506 L’aspetto che ci sembra particolarmente interessante è lo stretto legame che viene istituito tra il soffio vitale e il sangue, quasi si trattasse delle due espressioni di un medesimo elemento. Avendo il soffio di origine divina una natura estremamente dinamica, è difficile pensare al sangue che ne è carico e che contribuisce alla generazione e al mantenimento dei tessuti come a un fluido completamete immobile. Se da un lato, dunque, le fonti egiziane non ci permettono di affermare che gli Egiziani avessero una conoscenza precisa del sistema circolatorio, dall’altro, a nostro avviso, è sensato ritenere che la fisiologia egiziana si figurasse almeno un certo movimento del sangue e degli altri liquidi corporei. 502 P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 66. 503 Cfr., per es., Eb. 855 d; 855 k. 504 Eb. 855 l. 505 Esna, 277, 25. La trad. segue quella francese di S. Sauneron, in Id., Le fêtes religieuses d’Esna aux derniers siècles du paganisme, IFAO, Le Caire 1962, p. 164. 161 Vorremmo concludere il paragrafo con alcune considerazioni epistemologiche relative ai differenti indirizzi di pensiero presi in considerazione. Abbiamo visto che in una prospettiva encefalocentrica il sapere si costruisce progressivamente, con l’aiuto degli strumenti della tevcnh. Esso avanza in modo lineare, nel tentativo di assoggettare all’uomo la natura. Si tratta di un processo attivo, in cui l’uomo è il vero artefice della propria conoscenza e della propria supremazia sulla natura, senza alcun intervento da parte della sfera divina. L’autore di Male sacro tenta di ricondurre l’intelligenza a un principio organicistico interno all’essere umano; egli riconosce nel cervello la sede dei meccanismi fisiologici che generano le facoltà razionali. Il pensiero platonico, che coniuga elementi provenineti dalla tradizione encefalocentrica e da quella emo-cardiocentrica, non attribuisce un primato né all’intelligenza tecnico-pratica né ai processi vitali della natura. L’accento viene posto, in questo caso, sul movimento della dialettica e sulla produzione di schemi noetici; il principio che governa il mondo e compenetra i suoi livelli è, infatti, prettamente razionale. Sul versante emo-cardiocentrico, invece, non c’è contrapposizione tra uomo, natura e divinità. La conoscenza ha una connotazione decisamente più contemplativa che operativa. Il processo conoscitivo si fonda su una sostanziale omogeneità tra uomo e cosmo; chi si accinge a conoscere deve avere sviluppato delle doti ricettive, che gli permettano di cogliere le infinite sfumature del mondo. Per Empedocle il sapere più alto è appannaggio di quei pochi che, in virtù di una sorta di iter iniziatico, hanno acquisito le doti percettive necessarie alla conoscenza. L’intelligenza non è semplicemente una facoltà dell’uomo, ma è più in generale un principio cosmologico. Per Aristotele, la percezione «consiste nell’essere mossi e nel subire un’azione, giacché sembra che sia una specie di alterazione».507 Come i sensi sono ricettivi nei confronti delle forme sensibili, l’intelletto riceve le forme intelligibili.508 Anche in questo contesto, la conoscenza presuppone un’omogeneità tra uomo e natura.509 L’impostazione emo-cardiocentrica è senz’altro comune anche alla cultura egiziana; ci soffermeremo meglio più avanti sull’approccio egiziano alla conoscenza. 506 Esna, 392, 20, in ibid., p. 169. Cfr. anche T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 104. 507 Aristotele, L’anima, II, 5, 416 b, 33-35. Cfr. anche Id., Il sonno e la veglia, 1, 454 a 9-10; I sogni, 2, 459 b 4-5. 508 Si tratta dell’intelletto passivo (nou`~ paqhtikov~). Cfr. supra, p. 148. 509 Cfr. P. Manuli, M. Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, cit., pp. 15 sgg. 162 CAPITOLO V LA FISIOLOGIA DEGLI UMORI Relativamente al mondo egiziano, abbiamo avuto occasione di rilevare l’importanza che riveste il sangue tra i differenti liquidi fisiologici, in quanto agente vitale e rigenerante all’interno dell’organismo umano. Esaminando il mito di Osiri, inoltre, ci siamo soffermati sugli umori e sull’elemento acqueo in relazione con il disfacimento del cadavere del dio e sull’opera di contenimento di questi liquidi messa in atto da Iside e Nefti. La teoria degli umori costituisce uno dei cardini della fisiologia greca, che ha esercitato nel mondo occidentale un’influenza decisiva sulla concezione del corpo e delle sue dinamiche. Diversi studiosi si sono domandati se sia possibile istituire un parallelo tra la teoria umorale greca e le teorie sui fluidi e sugli agenti patogeni che è possibile estrapolare dai testi della medicina egiziana e se quest’ultima abbia, in qualche modo, influito sul pensiero fisiologico greco. In questo capitolo, richiameremo alcuni aspetti della teoria umorale greca e alcuni concetti del pensiero medico egiziano relativi ai liquidi fisiologici, cercando di inscrivere il risultato di questo confronto nello schema di lettura dell’antropologia egiziana che stiamo proponendo. 1. Il ruolo degli umori nella concezione greca del corpo Il tema degli umori e del loro ruolo all’interno dell’organismo umano è presente, in modo non sistematico, in diversi trattati del Corpus Hippocraticum. Nell’ambito della letteratura medica prodotta dalla scuola di Cos, la dottrina si presenta in forma di sistema nel trattato sulla Natura dell’uomo, redatto intorno al 400 a.C. In proposito, Jacques Jouanna si esprime in questi termini: «Essa ai suoi tempi era soltanto una teoria umorale tra altre. Ma conobbe un destino eccezionale».510 Aristotele attribuisce il testo in questione a Polibo, genero di Ippocrate; questa testimonianza è confermata dall’Anonimo di Londra, un dossografo che forse apparteneva alla scuola dello Stagirita. Pur non essendo opera diretta di Ippocrate, 510 J. Jouanna, La théorie des quatre humeurs et des quatre tempéraments dans la tradition latine (Vindicien, Pseudo-Soranos) et une source grecque retrouvée, in Revue des études grecques, 118 (2005), pp. 138 sg. 163 tuttavia, questo trattato, per il tramite della medicina ellenistica e di Galeno, è stato considerato per secoli, come l’espressione più importante e più genuina del pensiero ippocratico. Secondo l’autore della Natura dell’uomo l’organismo umano è costituito e regolato da quattro umori; l’equilibrio o lo squilibrio di questi fluidi determina lo stato di salute o di malattia dell’individuo: «Il corpo dell’uomo ha in sé sangue, flegma, bile gialla e nera; questi costituiscono la natura del suo corpo e per causa loro soffre od è sano. E’ dunque sano soprattutto quando questi componenti si trovino reciprocamente ben temperati per proprietà e quantità, e la mescolanza sia completa. Soffre invece quando uno di essi sia in difetto o in eccesso o si separi nel corpo e non sia temperato con tutti gli altri».511 Ognuno di questi componenti possiede una sua propria natura che lo rende unico e differente dagli altri e aumenta o diminuisce nel corpo umano in relazione al ciclo delle stagioni. Un singolo umore è presente in quantità massima nella stagione che è conforme alla propria natura. Viene individuata, quindi, una corrispondenza tra i quattro umori, le quattro stagioni e le quattro qualità (caldo, freddo, secco, umido). Viene enunciata anche un’ulteriore corrispondenza tra umori ed età della vita, ma soltanto a proposito della bile nera, che è predominante nel periodo di vita compreso tra i venticinque e i quarantadue anni.512 Lo schema che si può ricavare dalla Natura dell’uomo è il seguente: Umore Stagione Qualità sangue primavera caldo-umido bile gialla estate caldo-secco bile nera autunno freddo-secco flegma inverno freddo-umido Periodo di vita 25-42 anni La dottrina degli umori conosce degli sviluppi significativi con Galeno (II sec.),513 il quale, per la prima volta, formula esplicitamente la corrispondenza tra umori ed età 511 Natura dell’uomo, 4, trad. it. di M. Vegetti, in Opere di Ippocrate, cit. 512 Cfr. ibid., 15. 513 Galeno attribuisce a Ippocrate il trattato sulla Natura dell’uomo e fa di questo personaggio una sorta di antesignano della ricerca sulla natura. Il medico di Pergamo era convinto, infatti, che Platone avesse letto questo trattato e che in conseguenza di ciò, nel Fedro, si fosse riferito al metodo ippocratico come al modello più adeguato per esemplificare il procedimento filosofico. Ippocrate diventa, dunque, il maestro di Platone e il vero 164 della vita e mette in relazione le quattro sostanze basilari dell’organismo con gli elementi dell’universo e con i temperamenti in cui si declina l’indole umana, anche se in modo non ancora sistematico.514 Lo stadio più elaborato della teoria risale, tuttavia, alla medicina greca tarda e bizantina. In particolare, una fonte latina che dichiara di essere la copia fedele di uno scritto ippocratico ebbe un’influenza storica decisiva nella ricezione della teoria umorale in età medievale. Si tratta della Lettera di Vindiciano, medico della provincia africana vissuto nel IV secolo, al nipote Pentadio.515 In questo testo e in altre fonti mediche simili di età tardo-antica a ciascuno dei quattro umori viene associata anche una parte del corpo, un luogo di esalazione e in certi casi, un momento particolare della giornata e uno specifico stato del polso.516 Si arriva anche ad affermare che il temperamento di un individuo è determinato dal momento del giorno o della notte in cui avviene il concepimento.517 Tornando al trattato sulla Natura dell’uomo, constatiamo che ogni umore non è di per sé prevalentemente positivo o negativo per la salute del corpo, dal momento che, come emerge dal passo sopra citato, è la kra`si~ dei differenti umori che determina lo stato di benessere dell’intero organismo e sono, invece, la carenza o l’eccesso dell’uno o dell’altro di questi componenti che producono le diverse patologie. All’interno del Corpus Hippocraticum, tuttavia, non può passare inosservata la predominanza, soprattutto nosologica, di due umori: il flegma e la bile tout court. iniziatore della speculazione filosofica sull’uomo e sul mondo. In proposito, cfr. Galeno, De placitis Hippocratis et Platonis e Id., In Hippocratis librum de natura hominis commentarius. 514 Relativamente al rapporto tra umori ed elementi, al sangue non corrisponde un elemento specifico (l’aria negli sviluppi posteriori della teoria); esso è una mescolanza dei quattro elementi. Per quanto riguarda, invece, l’associazione con i temperamenti umani, il flegma per Galeno non ha alcuna incidenza sull’intelligenza e sul carattere. Cfr. Galeno, De placitis Hippocratis et Platonis e Id., In Hippocratis librum de natura hominis commentarius. Cfr. anche J. Jouanna, La posterité du traité hippocratique de la Nature de l’homme: la théorie des quatre humeurs, in C. W. Müller, Ch. Brockmann, C. W. Brunschön (a cura di), Ärzte und ihre Interpreten. Medizinische Fachtexte der Antike als Forschungsgegenstand der Klassischen Philologie, Saur, München, Leipzig 2006, pp. 121 sg. 515 J. Jouanna ha individuato la fonte greca della Lettera di Vindiciano nel trattato Sul polso e sul temperamento umano, attribuito nell’antichità a Ippocrate. In proposito, cfr. Id., Un traité pseudo-hippocratique inédit sur les quatre humeurs (Sur le pouls et sur le tempérament humain), in A. Kolde, A. Lukinovich, A.-L. Rey (a cura di), Koruphaioi andri, mélanges offerts à André Hurst, Librairie Droz, Genève 2005. Cfr. anche Id., La théorie des quatre humeurs et des quatre tempéraments dans la tradition latine (Vindicien, Pseudo-Soranos) et une source grecque retrouvée, cit. 516 Per quanto riguarda la corrispondenza tra umori e organi, la teoria tradizionale espressa nel trattato anonimo Sulla costituzione dell’universo e dell’uomo e nella Lettera di Ippocrate a Tolomeo assegna al sangue il cuore, alla bile gialla il fegato, alla bile nera la milza e al flegma il cervello. Nel trattato Sul polso e sul temperamento umano, al paragrafo 2, vengono stabilite, invece, delle associazioni differenti: «Ciascuno di questi umori agisce in un luogo proprio: il sangue nella parte destra al di sopra del fegato, la bile gialla nella parte sinistra al di sopra della milza, la bile nera nei fianchi al di sopra dei reni, il flegma nel petto al di sopra del polmone» (la trad. segue quella di J. Jouanna, in Id., Un traité pseudo-hippocratique inédit sur les quatre humeurs ..., cit., p. 451). 517 Cfr. il trattato Sulla formazione dell’uomo, 6-9 (J. Jouanna, Un traité inédit attribué à Hippocrate, Sur la formation de l’homme: editio princeps, in Ecdotica e ricezione dei testi medici greci. Atti del V convegno internazionale, Napoli, 1-2 ottobre 2004, D’Auria, Napoli 2006). 165 Prendendo in considerazione i testi del Corpus considerati espressione del pensiero della scuola di Cos, si riscontra che in essi sono indicati come causa degli stati patologici quasi esclusivamente questi due umori, con una preponderanza della bile. Il sangue non assume, generalmente, il ruolo di agente patogeno.518 In Male sacro, leggiamo per esempio: «La corruzione del cervello dipende dal flegma e dalla bile. Si potrà comprendere l’azione dell’uno e dell’altra così: chi è impazzito a causa del flegma resta tranquillo, non grida e non lancia clamori; chi invece a causa della bile, urla, agisce male, è inquieto, compie gesti inopportuni».519 Anche in Arie, Acque, Luoghi emerge la prevalenza della bile e del flegma e la connotazione tendenzialmente patogena della loro natura. Trattando dell’azione dei venti sull’organismo, l’autore afferma che nelle città calde e umide del sud gli abitanti presentano un’eccedenza di flegma; a nord, invece, il clima prevalentemente freddo e secco produce negli abitanti una sovrabbondanza di bile. Entrambe queste condizioni espongono gli individui a una serie di patologie.520 La menzione del flegma e della bile ricorre anche in riferimento all’azione delle acque.521 Sulla base di questi riscontri, Hellmut Flashar commenta: «Vediamo, dunque, che nello scritto De aer. agli umori bile e flegma così come al genere bilioso e a quello flemmatico viene accordata una posizione favorita, anzi basilare, per quanto senza un consolidamento sistematico».522 Un altro studioso, Robert Joly, osserva che perfino nella Natura dell’uomo, «nonostante l’esposizione che ci si trova sui quattro umori e sulla loro rispettiva predominanza in ciascuna delle stagioni, l’autore, in un altro passo, richiama soltanto la bile e il flegma e, molto spesso, non parla che della bile tout court».523 La predominanza della bile e del flegma appare, tuttavia, in modo più evidente, nei trattati del Corpus Hippocraticum di provenienza cnidia. In questo contesto, la rilevanza di questi due umori è stata interpretata dagli studiosi secondo due orientamenti: 518 Cfr. R. Joly, Le système cnidien des humeurs, in La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la médecine. Colloque de Strasbourg (23-27 octobre 1972), Brill, Leiden 1975, pp. 120 sg. 519 Male sacro, 18. 520 Cfr. Arie, Acque, Luoghi, 3; 4. 521 Ibid., 7. 522 H. Flashar, Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, Walter de Gruyter & Co, Berlin 1966, p. 28. 166 1) sotto l’aspetto nosologico: bile e flegma sono all’origine di molte o addirittura di tutte le patologie; 2) sotto l’aspetto fisiologico: i due umori sono gli elementi costitutivi del corpo umano.524 Relativamente all’azione patogena della bile e del flegma, l’autore di Malattie I afferma: «Tutte le malattie provengono, quanto alle cose interne, dalla bile e dal flegma; quanto a quelle esterne, dalle fatiche, dalle ferite, e dal caldo troppo infiammante, dal freddo troppo raggelante, dal secco troppo essicante, dall’umido troppo inumidente». Il prosieguo del paragrafo sembra voler porre maggiormente l’accento sull’aspetto fisiologico dei due umori: «La bile e il flegma si formano con l’essere che si forma, ed esistono sempre nel corpo, più o meno; essi causano, dunque, le malattie per l’intervento tanto degli alimenti e delle bevande, tanto del caldo troppo infiammante e del freddo troppo raggelante».525 In un altro paragrafo di questo trattato, viene ribadito ulteriormente che tutte le malattie interne sono provocate da queste due sostanze. L’autore, infatti, dopo aver enumerato una serie di sintomi, conclude: «Tutte queste affezioni sono dovute, riguardo alle cose interne, alla bile e al flegma, riguardo alle cose esterne, all’aria mescolata con il calore innato e anche alle fatiche e alle ferite».526 Lo stesso concetto è espresso, con insistenza ancora maggiore, nel trattato sulle Affezioni, nel quale si afferma che tutte le malattie degli uomini, senza ulteriori distinzioni, sono prodotte dall’azione singola o combinata dei due umori in questione.527 Altri passi dei medesimi testi, legati alla scuola di Cnido, sembrano, tuttavia, inficiare o perlomeno temperare queste affermazioni categoriche. Al paragrafo 4. di Malattie I si legge che il sangue che «da una piaga o da una vena si 523 R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., p. 121. Cfr. anche W. Müri, Melancholie und schwarze Galle, in H. Flashar (a cura di), Antike Medizin, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, pp. 174 sgg. 524 L’idea che la scuola di Cnido conoscesse soltanto due umori si è affermata con gli studi di C. Fredrich. Cfr. Id., Hippokratische Untersuchungen, Weidmann, Berlin 1899, p. 38. Sulla questione cfr. anche i riferimenti bibliografici indicati in R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., p. 108, nota 2. 525 Malattie I, 2. La trad. segue quella francese di É. Littré, in Oeuvres completes d’Hippocrate, vol. VI, Hakkert, Amsterdam 1979. 526 Ibid., 11. 167 riversa nel ventre superiore, diventa necessariamente pus». Al paragrafo 14., la causa dell’empiema è ricondotta al sangue liberato dalla rottura di una venula. L’autore di Affezioni, al paragrafo 34., afferma che la patologia di cui sta trattando proviene dal flegma o dal sangue e, al 36., equipara l’acqua agli altri umori, nello specifico: flegma, bile tout court e bile nera. Un esame attento di questi aspetti ha fatto abbandonare ad alcuni studiosi la convinzione che la scuola di Cnido fondasse la propria dottrina umorale soltanto sulla bile e sul flegma. Jouanna, analizzando in particolare il trattato Malattie II, testo per il quale è maggiormente sicura la derivazione dalle Sentenze cnidie, l’opera fondamentale della scuola di Cnido, è giunto alle seguenti conclusioni: «L’evoluzione della scuola di Cnido si presenta come segue: una tappa antica, in cui gli Cnidi si preoccupavano anzitutto della semiologia, della prognosi e della terapeutica […]; poi una tappa recente, in cui gli Cnidi aggiungono allo schema primitivo un’eziologia fondata sullo spostamento degli umori (bile, flegma, sangue e bile nera) all’interno del corpo».528 Lo schema umorale proposto da Jouanna non presenta che una leggera differenza con quello che ricaviamo dalla Natura dell’uomo, dove, anziché di bile tout court, si parla di bile gialla. Anche secondo Joly la scuola di Cnido ammette quattro umori. Lo studioso rileva, però, che nei trattati di origine cnidia la bile nera è menzionata molto raramente e che, pertanto, essa va considerata più come una varietà della bile tout court che come un umore specifico.529 I quattro umori sui quali si fonda la teoria umorale dei medici di Cnido sarebbero, dunque: bile, flegma, sangue e acqua. «I primi due sono largamente privilegiati sul piano nosologico; l’acqua, al contrario, è caratterizzata da una grande neutralità nosologica: essa appare, dunque, poco nei trattati di Malattie ed è per questo che si è esitato a riconoscerla come umore specifico».530 La medesima dottrina umorale prospettata da Joly la troviamo esposta a chiare lettere nel trattato Malattie IV, redatto probabilmente nello stesso periodo in cui 527 Cfr. Affezioni, 1; 37. Al paragrafo 1 si specifica che «la bile e il flegma producono le malattie, quando, nel corpo, uno di questi umori subisce un eccesso di secco o di umido, oppure di caldo o di freddo» (la trad. segue quella francese di É. Littré, in Oeuvres completes d’Hippocrate, vol. VI, cit.). 528 J. Jouanna, La structure du traité hippocratique “Maladie II” et l’évolution de l’école de Cnide, in Revue des études grecques, 82 (1969), p. XVI. 529 Cfr. R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., pp. 108 sgg. 530 Ibid., p. 120. 168 appare la Natura dell’uomo.531 Joly, che, come altri studiosi, attribuisce questa fonte a un medico di Cnido, vede in ciò una conferma ulteriore della sua posizione.532 Jouanna sostiene, invece, che questo trattato non risponde ai criteri considerati necessari per l’attribuzione di un testo alla scuola di Cnido e che esso espone quella che era semplicemente una teoria degli umori tra altre, che, a differenza della dottrina sviluppata nella Natura dell’uomo, non ebbe posterità.533 Come nella Natura dell’uomo, anche in Malattie IV il discorso sugli umori è condotto in modo sistematico. Il modello di partenza proposto nel primo paragrafo è il seguente: «L’uomo e la donna hanno nel corpo quattro specie di umore [uJgrov~] dalle quali derivano le malattie, a parte quelle che hanno per causa la violenza. Queste specie sono il flegma, il sangue, la bile e l’acqua; di questi umori, non è né la minima parte né la più debole che va nella semenza e, quando l’essere vivente è formato, ha in lui tante specie di umore sano e morboso quante ne hanno i suoi genitori».534 Anche in questo contesto si afferma che gli umori diventano patogeni quando sono in eccesso o in difetto. L’influenza delle stagioni sull’organismo umano, benché menzionata, non assume, tuttavia, nella dinamica umorale la stessa rilevanza che possiamo riscontrare nella Natura dell’uomo. In Malattie IV non viene formulata, infatti, una corrispondenza precisa tra stagioni e umori. Questi ultimi seguono, invece, un ciclo di tre giorni, durante i quali essi, introdotti nel corpo attraverso i cibi e le bevande, vengono progressivamente sostituiti da altri umori più recenti.535 Nel caso in cui un umore resti più di tre giorni nel corpo o ne subentri un altro in quantità eccessiva, «le vene si riscaldano, si ostruiscono e si manifesta una malattia, più o meno forte, meno forte e più tardiva in inverno, più forte e più precoce in estate».536 Allo stesso modo, la permanenza troppo breve di un umore nell’organismo è causa di 531 Cfr. il paragrafo IV della Notice di R. Joly, in Hippocrate, De la génération, De la nature de l’enfant, Des Maladies IV, Du fœtus de huit mois, Belles Lettres, Paris 1970, pp. 16 sgg. 532 Cfr. R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., pp. 123 sgg. 533 Cfr. J. Jouanna, Le schéma d’exposition des maladies et ses déformations dans les traités dérivés des Sentences Cnidiennes, in in La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la médecine. Colloque de Strasbourg (23-27 octobre 1972), cit., p. 137. Cfr. anche Id., La posterité du traité hippocratique de la Nature de l’homme: la théorie des quatre humeurs, cit., p. 118. 534 Malattie IV, XXXII. La trad. segue quella francese di R. Joly, in Hippocrate, De la génération, De la nature de l’enfant, Des Maladies IV, Du fœtus de huit mois, cit. 535 Cfr. ibid., XLII. 536 Ibid., XLIV. 169 malattia. La buona salute del corpo è, dunque, il prodotto del giusto equilibrio dei quattro umori.537 Un aspetto ulteriore, particolarmente interessante, consiste nel fatto che, a differenza del trattato sulla Natura dell’uomo, Malattie IV assegna a ciascuno degli umori un organo specifico come fonte. Tutti gli umori sono ricondotti, inoltre, a una fonte comune più originaria, rappresentata dal ventre: «Il ventre, quando è pieno, è la fonte di tutti gli umori per il corpo; ma quando è vuoto, attinge dal corpo che si consuma. Ci sono anche quattro altre fonti […] Per il sangue la fonte è il cuore, per il flegma la testa, per l’acqua la milza e per la bile la vescicola biliare».538 Le quattro «fonti» forniscono al corpo gli umori quando sono piene, li attingono ad esso, invece, quando sono vuote. Il ventre fa la stessa cosa. Quando diventano sovrabbondanti, gli umori possono essere espulsi attraverso quattro vie: la bocca, il naso, l’ano e l’uretra.539 Ricapitolando, nel Corpus Hippocraticum gli umori sono presentati come dei fluidi che si spostano all’interno del corpo; essi possono essere introdotti nell’organismo ed evacuati. Il loro equilibrio o potremmo anche dire «regime» è ciò che mantiene lo stato di salute. Gli umori sono generalmente in numero indefinito, con una prevalenza nosologica di flegma e bile. Vengono, tuttavia, riconosciuti esplicitamente quattro umori fondamentali nei due trattati che sviluppano l’argomento in modo sistematico. La teoria umorale elaborata dall’autore della Natura dell’uomo diventa successivamente un punto di riferimento essenziale per la fisiologia e, più in generale, per la medicina di epoca tardo-antica e medievale. 2. Una fisiologia umorale egiziana? Le fonti mediche egiziane che sono state finora rinvenute non ci offrono in nessun caso l’equivalente di una dottrina degli umori in forma esplicita e sistematica. Ghalioungui, domandandosi se la concezione egiziana delle materie morbose abbia influenzato la teoria umorale greca, individua tra le due un punto in comune, «poiché tutte e due ammettono che delle sostanze in circolazione possono essere patogene». 537 Cfr. ibid., XLV. 538 Ibid., XXXIII. L’autore precisa più avanti che, tra le fonti indicate, solo la vescicola biliare è specifica: «nella vescicola biliare arriva, a partire dagli alimenti e dalle bevande soltanto la bile» (ibid., XL). 170 La differenza essenziale consiste, invece, nel fatto che «per i Greci di Cos, gli umori erano dei componenti normali la cui ripartizione determinava la costituzione». Secondo lo studioso, la nozione di «costituzione umorale» è completamente assente in Egitto; mancherebbe, quindi, il concetto di salute intesa come giusta mescolanza di umori differenti e fondamentali. Sulla base di queste constatazioni Ghalioungui conclude che, per gli Egiziani, «wxdw, stt e arwt erano essenzialmente delle sostanze morbose, più imparentate con la bile e il flegma nel senso cnidio di umori peccantes. Tuttavia, i primi scritti del corpus hippocraticum intendevano ancora il flegma e la bile in questo senso. E’ dunque possibile che le teorie egiziane abbiano influenzato la teoria umorale nella sua prima forma».540 L’idea di un rapporto tra gli agenti patogeni menzionati nei testi medici egiziani, soprattutto gli ukhedu (wxdw), e certe concezioni sviluppate dalla scuola di Cnido è l’oggetto di un saggio di R. O. Steuer e J. B. de C. M. Saunders, apparso alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso.541 Secondo gli autori, gli ukhedu sono delle sostanze prodotte dalla decomposizione dei residui intestinali che si diffondono nel corpo, provocando la coagulazione e la distruzione del sangue.542 Similmente, nella medicina cnidia i processi digestivi che non seguono il loro corso normale sono considerati come una fonte di materie patogene (perivttwmata). In particolare, secondo Erodico di Cnido il perivttwma in un secondo tempo si decompone in due fluidi (uJgrovth~) morbosi, uno acido e uno amaro, che Steuer e Saunders, basandosi soprattutto sulla testimonianza del Papyrus Anonymus Londinensis, associano al flegma e alla bile.543 Tralasciando la questione storica di una possibile influenza delle dottrine egiziane sulle teorie umorali greche, ci soffermeremo su quelli che potrebbero essere gli indizi di una fisiologia egiziana degli umori. Dai papiri medici emerge, infatti, la rilevanza, nel funzionamento generale dell’organismo, di alcune sostanze e di alcuni fluidi che, per la loro natura e per la loro azione, potrebbero essere equiparati a tutti gli effetti agli «umori», di cui parla la medicina greca. 539 Cfr. ibid., XXXIX, XLI. 540 P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 76. 541 Cfr. R. O. Steuer, J. B. de C. M. Saunders, Ancient Egyptian and Cnidian Medicine, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1959. 542 Cfr. ibid., pp. 4 sgg. 543 Cfr. ibid., pp. 28 sgg. 171 Diversi studiosi hanno interpretato gli elementi patogeni di cui parla la medicina egiziana come delle sostanze umorali morbose. Abbiamo visto in sintesi la posizione di Ghalioungui. Analoga è la lettura di Steuer e Saunders, secondo i quali gli ukhedu sarebbero una sorta di materia peccans che si trasforma in pus.544 Anche B. Ebbell intende questi agenti morbosi come una «purulenza».545 Il medesimo studioso identifica, inoltre, la sostanza arut (arwt) con la bile e associa il termine setet (stt) al flegma della tradizione greca: «Che cosa può essere dunque arwt? Poiché sembra essere una sostanza patogena, è ovvio supporre che essa forse è imparentata con stt (= flegma […]) e che come questa può essere un analogon di uno o dell’altro dei principali umori che i Greci (e probabilmente anche gli Egizi) consideravano come cause di diverse malattie. E poiché in Eb. 42 si parla di “arwt nera”, si presenta l’idea che arwt possa essere forse una denominazione della bile (colhv) o in modo speciale della bile nera (colhv mevlaina)»546 Più oltre, Ebbell propone delle ulteriori argomentazioni a sostegno dell’identificazione della sostanza setet con il flegma.547 Nel Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, setet è considerata nuovamente come una sorta di flegma; il termine è tradotto, infatti, con «muco» (Schleimstoffe).548 La natura umorale di questi elementi morbosi, tuttavia, non è così pacifica. Secondo gli studi più recenti di Bardinet, infatti, ukhedu e setet, sarebbero degli esseri viventi, dei microorganismi di origine principalmente esterna al corpo e non delle sostanze fluide innate o prodotte esclusivamente da un cattivo funzionamento dell’organismo umano.549 Rivolgeremo, quindi, la nostra attenzione a quelle sostanze corporee la cui natura fluida appare più evidente e che ci sembrano maggiormente responsabili dell’equilibrio complessivo dell’organismo, inteso come giusto bilanciamento dei processi di dissoluzione e rigenerazione. Vedremo che per la fisiologia egiziana un umore non risulta mai positivo o negativo in senso assoluto per la salute corporea; esso può assumere entrambe le connotazioni, anche se, per sua natura, propende per un certo tipo di azione. Il sangue, per esempio, è tendenzialmente positivo e può considerarsi come il principale elemento vitale dell’organismo; in certi casi, tuttavia, 544 Cfr. ibid., pp. 4 sgg. 545 Cfr. B. Ebbell, Alt-ägyptische Bezeichnungen für Krankheiten und Symptome, Jacob Dybwad, Oslo 1938, pp. 16 sgg. 546 Ibid. p. 11. 547 Cfr. ibid. pp. 42 sgg. 548 Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, cit., p. 812. 549 Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 121 sgg. 172 questo stesso fluido può trasformarsi in un agente patogeno. Ciò che connota positivamente o negativamente un umore non è semplicemente la sua quantità, il suo eccesso o il suo difetto, bensì l’azione svolta, che può essere «connettiva» o «corrosiva». Come nella lingua greca, anche in quella egiziana non c’è un unico vocabolo per denotare gli umori e le secrezioni corporee in generale. Un termine ricorrente soprattutto nei testi religiosi è redju (rDw). Attestato a partire dai Testi delle Piramidi, questo sostantivo è riferito spesso ai liquidi generati dal cadavere di Osiri.550 Un altro termine, attestato anch’esso a partire dall’Antico Regno, che ricorre sia nei testi religiosi che in quelli medici è mu (mw), che ha il significato generale di «acqua», ma che può riferirsi anche ad alcuni liquidi corporei come le lacrime, il latte materno, la saliva e la semenza.551 L’unico passo del papiro di Ebers che presenta un’occorrenza del termine rDw impiega anche il termine mw e altri vocaboli per indicare umori e secrezioni differenti. Si tratta di una formula da recitare durante la preparazione di un medicamento per gli occhi. In questo contesto sono invocate alcune secrezioni di origine divina, affinché apportino il loro sostegno nel cacciare gli umori patogeni: «Altro (rimedio) per cacciare l’aumento di sierosità [mw] negli occhi: “Vieni, malachite! Vieni malachite! Vieni, la verde! Vieni secrezione [jnfw] dell’occhio di Horo! Vieni scolo [qAaw] dell’occhio di Atum! Vieni umore [rDw] uscito da Osiri! Vieni a lui (= il malato) e caccia per lui le sierosità [mw], il pus [ryt], il sangue [snf], (le sostanze maligne che causano) la debolezza della vista, (le sostanze maligne che causano) il bidy, (le sostanze maligne che causano) la shepet, (le sostanze maligne che causano) l’oscuramento, come anche l’attività di un dio, di un morto o di una morta, di un ukhedu maschio o femmina e ogni altra sostanza maligna [xt nbt Dwt] che è negli occhi».552 550 Nei papiri medici troviamo soltanto tre ricorrenze di questo vocabolo: cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, cit., p. 558. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 516. 551 Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, cit., p. 358. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 348 sg. 552 Eb. 385. 173 Gli umori coinvolti nella patologia degli occhi che questa formula si propone di curare sono nello specifico la sierosità-mu, il pus-ryt e il sangue (senef). Tra gli agenti patogeni menzionati figura, dunque, anche il principale fattore vitale del corpo umano. Il sangue, come abbiamo rilevato più sopra,553 oltre a essere un veicolo delle correnti vitali che scorrono nella rete dei condotti-met, lega (tjes) gli elementi apportati dall’alimentazione per garantire il mantenimento e il rinnovamento della sostanza corporea. Esso, tuttavia, in certi casi può invertire il suo ruolo ed esercitare un’azione «corrosiva», simile a quella degli ukhedu.554 Un gruppo di ricette del papiro di Ebers è finalizzato alla cura delle parti del corpo affette dal sangue diventato patologico.555 Si tratta di un «sangue che mangia» (unem senef) e che non è più in grado di legare. L’incipit della prima ricetta recita, infatti: «Rimedio per il sangue che mangia [wnm snf] e per calmare/fare tacere [sgrt] le sostanze che corrodono [wSaw]».556 L’azione patogena del sangue genera sostanze morbose e ostruzioni: le ricette in questione parlano di pus-ryt, di un rigonfiamento del collo, di un ristagno di sangue che non può essere legato e di sangue accumulato ai fianchi. L’immagine di un sangue corrosivo la ritroviamo anche in una delle ricette del papiro di Ebers rivolte alla cura delle affezioni dell’entrata dell’ib, che anatomicamente corrisponde allo stomaco: «Altro (rimedio) per cacciare un’ostruzione e il sangue che mangia [wnm snf] all’entrata dell’ib [rA-jb]».557 Come il sangue non svolge sempre un ruolo funzionale alla salute dell’organismo, così anche il pus-ryt (ryt) non sembra avere una connotazione soltanto negativa. Se da un lato, infatti, il pus risulta essere il prodotto della dissoluzione dei tessuti corporei per effetto di agenti patogeni come gli ukhedu, dall’altro esso può anche provenire dalla scomposizione degli alimenti ingeriti, per formare quel nucleo di elementi che il sangue dovrà legare per costituire le differenti parti del corpo. E’ quanto sostiene Bardinet sulla base dell’analisi di alcuni passi della letteratura medica: «la concezione egiziana del pus ha 553 Cfr. supra, pp. 83 sg. 554 Relativamente all’azione patogena che corrode i tessuti corporei, cfr. Eb. 196, in cui la patologia trattata viene paragonata al «morso degli ukhedu». 555 Cfr. Eb. 592 – Eb. 602. In proposito, cfr. anche T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 184 sg. 556 Eb. 592 bis. 174 le sue particolarità. Se il pus può formarsi per distruzione del corpo – idea che non ci pare strana – differenti testi […] mostreranno che per gli Egiziani questo pus-ryt si componeva anche di differenti elementi di origine alimentare. Questi elementi erano destinati a formare le carni e altre parti dell’individuo e si trovavano allo stato libero nei luoghi del corpo dove i condotti-met li avevano portati. Quando il sangue svolgeva male il suo ruolo (legare gli elementi del pus-ryt in carne), la loro presenza diventava fonte di disturbi».558 Un altro fluido corporeo che viene menzionato con una certa frequenza nei papiri medici è la sostanza aaa (aAa).559 Il vocabolo in questione è stato considerato da alcuni studiosi il nome di una malattia. Tale lo considerano, per esempio, G. Scheuthauer, B. Ebbell e F. Jonckheere. Tutti e tre gli studiosi indentificano aaa con l’ematuria parassitaria o bilharziosi560 Anche Lefebvre riprende questa ipotesi.561 Un parere diverso è espresso, invece, dagli autori del Grundriss, per i quali «si tratta meno di una malattia che di una sostanza patogena che è portata nel ventre del paziente dai demoni (spettri o dei malvagi) e che si manifesta là come disturbo corporeo generale».562 In questo contesto, aaa viene tradotto con «semenza» e «sostanza velenosa».563 Una linea analoga è seguita da Ghalioungui, il quale esclude che gli Egiziani avessero scoperto lo schistosoma, il parassita che provoca la bilharziosi.564 Anche secondo Bardinet, infine, si tratta di un fluido corporeo: «Per lo aaa dei testi medici, bisogna mantenere il senso di “secrezione corporea”, di fluido emesso dal corpo dei demoni, di sostanze in fase liquida passibili di essere trasformate nell’organismo in elementi parassiti piuttosto diversi. A causa del 557 Eb. 211. 558 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 137. 559 Nei papiri medici sono state riscontrate complessivamente 50 occorrenze del termine aaa, distribuite nel modo seguente: 28 nel papiro di Ebers, 12 in quello di Berlino, 9 nello Hearst e una nel papiro di Londra. Cfr. P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 77. 560 Cfr. F. Jonckheere, Une maladie égyptienne: l'hématurie parassitaire, Fondation Égyptologique Reine Elisabeth, Bruxelles 1944. Cfr. inoltre il contributo di G. Scheuthauer, in Virchow’s Archiv., 85 (1881), pp. 343 sgg., e B. Ebbell, Die ägyptischen Krankheitsnamen, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 62 (1926), pp. 13 sgg. 561 Cfr. G. Lefebvre, Essai sur la médecine égyptienne de l’époque pharaonique, Presses Universitaires de France, Paris 1956, p. 153. 562 H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, cit., p. 132. 563 Ibid. p. 129. 564 Cfr. P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 78. 175 risultato delle sue trasformazioni, questo aaa non poteva che essere considerato come particolarmente pericoloso».565 Se prendiamo in considerazione i termini della lingua egiziana formati a partire dalla radice aaa, possiamo rilevare che i loro significati esprimono l’idea generale di un liquido da versare, da spandere o da incanalare.566 Il liquido in questione può essere dell’acqua per irrigazione o la semenza maschile. Tra questi termini troviamo anche uno degli epiteti attribuiti al dio Ra dalla Litania del Sole, un rituale del Nuovo Regno che invoca le settantacinque forme in cui si manifesta la divinità solare. Si tratta del nome aaay (aAay), che viene tradotto come «l’itifallico» o «l’eiaculatore».567 Il concetto che sembra, dunque, veicolare la radice aaa è quello di un fluido che ha in sè il germe della vita. Nei papiri medici troviamo aaa seguito dal determinativo del fallo e qualche volta questa sostanza viene menzionata insieme alla semenza maschile (metut).568 I testi attribuiscono questo liquido ai demoni entrati nel corpo umano (indicati come un dio, un morto, una morta); in più occasioni, inoltre, esso viene messo in correlazione con altri agenti patogeni, tra cui gli ukhedu.569 Quanto emerge dalle fonti egiziane e dalle riflessioni degli autori del Grundriss e di Bardinet sembra indicare che aaa non è una malattia, bensì una secrezione che può generare degli elementi morbosi. In proposito, una ricetta del papiro di Ebers contro i vermi è piuttosto eloquente: «Altro rimedio utile tra quelli che si possono preparare per l’interno del corpo [Xt]: giunco: 1; piretro: 1; ciò sarà triturato finemente, cotto nel miele e mangiato dall’uomo che ha dei vermi [Hrrt] all’interno del corpo [Xt]. E’ il liquido-aaa che forma questo (= i vermi) e ciò non morirà (altrettanto bene) con nessun altro rimedio».570 Un altro passo dello stesso papiro individua una riserva di aaa alla sommità del capo: 565 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 124. 566 Cfr.: Wb., I, pp. 166 sg; R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 141; W. A. Ward, The four egyptian homographic roots B 3, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1978, pp. 105 sgg; B. Van de Walle, Une base de statue-guerisseuse avec une nouvelle mention de la desse-scorpion Ta-Bithet, in Near Eastern Studies, 31 (1972), pp. 74 sg. 567 Cfr. Wb., I, p. 167; R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 141. 568 Cfr., per es., Bln 58. 569 Cfr., per es., Eb. 99; 138. 570 Eb. 62. 176 «Quattro condotti-met si dividono al livello della testa e si riversano nella nuca, poi formano una riserva [Htp bA]. Una fonte di aaa è ciò che essi formano esteriormente (alla testa)».571 Si tratta dell’unico caso, nei papiri medici, in cui il termine aaa non è seguito dal determinativo del fallo, bensì da quello del ricciolo di capelli: Ciò ha fatto supporre a William A. Ward che si trattasse del sebo che si diffonde sul cuoio capelluto.572 Bardinet aggiunge che «se si tratta davvero di “sebo”, considerato verosimilmente come una vera semenza, si può pensare che esistesse una teoria particolare che faceva svolgere a questo sebo-aaa un ruolo essenziale nella moltiplicazione dei parassiti che infestano gli uomini».573 Le fonti esaminate ci inducono a ritenere che il liquido-aaa manifesti una natura simile, per certi versi, a quella delle acque del Nilo e quindi, per estensione, a quella delle acque primordiali del Nun. La distesa liquida primordiale e il Nilo, che ne è l’immagine tangibile in terra, infatti, se da un lato contengono il germe di tutto ciò che deve venire all’esistenza, dall’altro hanno anche il potere di cancellare tutto ciò che esiste. Il manifestarsi di queste forze è, dunque, sempre estremamente pericoloso. La secrezione-aaa rivela questa doppia natura. E’ interessante notare che essa è spesso messa in relazione con le patologie del cuore nel suo doppio aspetto di haty-ib, che abbiamo visto essere il centro direttivo di tutto il sistema corporeo. Non si tratta dell’unico agente patogeno che può attaccare l’organo cardiaco, ma è probabilmente quello principale. Nella letteratura medica, oltre ad alcune ricette sparse, possiamo individuare tre gruppi di ricette dedicate alla cura del cuore: nel papiro di Ebers, dalla ricetta 221 alla 241, nel papiro Hearst dalla 79 alla 87 e in quello di Berlino dalla 114 alla 117. Da questi testi emerge chiaramente la rilevanza, se non la predominanza, del liquido-aaa nei disturbi cardiaci. Alcune ricette, in particolare, ci sembrano confermare l’analogia tra aaa e il Nun. In una di queste, il caso preso in esame è quello in cui la sostanza aaa, trovandosi nel cuore-haty, provoca perdita di memoria e «fuga» dell’ib: 571 Eb. 854 d. Sul significato dell’espressione Htp bA, cfr. W. A. Ward, The four egyptian homographic roots B 3, cit., pp. 106 sgg. 572 Cfr. W. A. Ward, cit. 573 T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 125. 177 «Altro (rimedio) per cacciare il liquido-aaa che è nel cuore-haty e per cacciare la perdita di memoria [mht-jb], la fuga dell’ib [war-jb] e i dolori pungenti dell’ib [dmwtjb]».574 La ricetta che segue prescrive un rimedio diverso per i medesimi disturbi.575 In un’altra ricetta che non è contenuta nei tre gruppi indicati, nella quale è chiamato in causa il liquido-aaa, il medicamento proposto deve «cacciare» (dr) ancora una volta la «fuga dell’ib» (war-jb) e la «dimenticanza dell’ib» (mht-jb).576 Le patologie descritte, causate dalla sostanza aaa, producono una sorta di «corrosione», di cancellazione dell’identità personale, un effetto, quindi, affine a quello provocato dall’azione del Nun. Questo particolare effetto del liquido-aaa viene posto in risalto in modo palese in una formula magica del papiro medico di Londra, nella quale esso viene utilizzato come arma contro un «nemico, un morto, una morta».577 La formula invoca l’azione del liquido-aaa di Horo e di Imy-nehedef e prescrive di pronunciare anche «il nome del nemico, il nome del padre, il nome della madre».578 L’umore aaa è in grado, dunque, di cancellare un nome, ossia di eliminare un’individualità dall’esistente. Prenderemo ora in considerazione altre due secrezioni corporee: la semenza maschile e il latte materno. Si tratta in questo caso di due liquidi che non sono condivisi da tutto il genere umano. La loro presenza nell’organismo umano è chiaramente legata all’appartenenza a un sesso. Per gli Egiziani, tuttavia, entrambi contribuiscono in modo significativo alla generazione e allo sviluppo di un nuovo individuo, apportando gli elementi necessari alla formazione di tutte le parti del corpo. Sotto l’aspetto prettamente fisiologico, le fonti dalle quali emerge il ruolo di questi due «umori» sono di epoca tarda. Per quanto riguarda la semenza maschile, in egiziano metut (mtwt) o mu (mw), alcuni testi, redatti sui muri di un certo numero di templi, a partire dall’inizio del V secolo a.C., ne individuano l’origine nelle ossa.579 Abbiamo rilevato precedentemente che, secondo questa dottrina, il dio demiurgo, impersonato nella maggior parte dei casi da Khnum, 574 Eb. 227. 575 Cfr. Eb. 228. 576 Cfr. Bln 58. 577 Cfr. Londra 38. 578 Imy-nehedef (jmy-nhd=f) significa letteralmente «colui che è nella sua debolezza». Si tratta di un appellativo di Osiri. Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 1219. 178 produce e fissa la semenza all’interno delle ossa e successivamente «lega» questa secrezione per consentire lo sviluppo del feto nel ventre materno.580 Dei testi che riportano questa teoria, raccolti da Sauneron, un paio di quelli presenti nel tempio di Edfu affermano, a proposito del re: «Il dio benefico l’erede di Khnum; è lui che assicura la fissazione [jr (T)s] della sua semenza [mw] nelle ossa [qsw] e nel ventre [Xt]»;581 a proposito del dio: «Tu fecondi le donne per mezzo della semenza [mw] proveniente dalle ossa [qsw]».582 Nel tempio di Esna, Khnum è «colui che modellò tutti sul suo tornio, l’ariete copulatore che produsse [jr] la semenza [mw] nell’osso [qs], e legò [(T)s] il germe degli dei e degli uomini».583 Secondo altre fonti, il seme maschile sarebbe l’agente responsabile della formazione delle parti ossee del corpo, mentre dal latte materno, il cui vocabolo egiziano corrispondente è jrecet (jrTt),584 deriverebbero le parti molli. In una delle leggende narrate dal papiro Jumilhac, Ra e l’Enneade ordinano che al dio Horo, colpevole di aver ucciso la propria madre, siano levate tutte le parti corporee di origine materna: «Quanto alle sue carni e alla sua pelle, sua madre le ha create [sxpr] con il suo latte; quanto alle sue ossa, esse esistono grazie alla semenza di suo padre. Così, che si allontanino da lui la sua pelle e le sue carni, le sue ossa restino, invece, in suo possesso».585 579 La testimonianza più antica relativa a questa teoria fisiologica fu incisa in una sala del tempio di Amon a Hibis, nell’oasi di Kharga, durante il regno di Dario I (522-486 a.C.). Questa idea viene successivamente espressa nei testi dei templi di Dendera, Esna, Edfu e File. 580 Cfr. supra, pp. 84 sg. Cfr. inoltre: S. Sauneron, Le germe dans les os, cit.; J. Yoyotte, Les os et la semence masculine. À propos d’une théorie physiologique égyptienne, in BIFAO, 61 (1962); T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 139 sgg. 581 Edfu, III, 114, 7. 582 Edfu, IV, 298, 3-4. 583 Esna, 200, 10. 584 Sul latte materno, cfr. R.-A. Jean, A.-M. Loyrette, La mère, l’enfant et le lait en Égypte ancienne. Traditions médico-religieuses, L’Harmattan, Paris 2010; in particolare, cfr. pp. 99 sgg. 585 La trad. segue quella francese di J. Vandier, in Id., Le Papyrus Jumilhac, Centre national de la recherche scientifique, Paris 1961, p. 124. 179 Successivamente, grazie a un unguento preparato dalla dea Hesat (una forma di Hathor) con il proprio latte, tutti i tessuti asportati dal corpo di Horo vengono rigenerati:586 «Egli fu in buona salute, essendosi le sue carni di nuovo rinsaldate per lui ed essendo stata la sua forma nuovamente messa al mondo. Sua madre, Iside, lo guardò come un giovane figlio, dopo aver rinnovato la sua nascita in questo nômo».587 Per quanto riguarda le parti del corpo generate dal seme maschile, una testimonianza ulteriore ci è trasmessa dal papiro demotico Insinger: «(Il dio) ha fatto l’aria all’interno dell’uovo, benché non ci sia via per penetrarvi; egli ha fatto in modo che tutte le matrici partoriscano a partire dalle semenze che esse ricevono e che i tendini (?) [jny] e le ossa nascano da queste semenze».588 Troviamo traccia di simili dottrine anche in Grecia, a partire dal V secolo a.C. L’autore in questione è Ippone di Samo. Da un passo di Censorino apprendiamo che «Ippone è del parere che la semenza generativa derivi dal midollo: ciò sarebbe provato dal fatto che, se si uccidono gli arieti dopo la loro unione con le pecore, non si riuscirà a trovare in essi nemmeno un poco di midollo, essendo completamente scomparso».589 Per Ippone, inoltre, «le ossa deriverebbero dall’uomo, mentre le carni dalla donna».590 Anche Platone, nel Timeo, pone nel midollo osseo il luogo di origine della semenza maschile. Quest’ultima cola lungo la colonna vertebrale, prima di raggiungere gli organi genitali.591 Jean Yoyotte ha mostrato che da alcuni testi egiziani della Bassa Epoca emerge un legame funzionale tra il fallo e la colonna vertebrale. 592 Nel tempio di Dendera, per esempio, «l’ariete signore di Mendes», che partecipa a una processione di dei locali che portano dei vasi contenenti i frammenti del corpo di 586 In proposito, cfr. R.-A. Jean, A.-M. Loyrette, La mère, l’enfant et le lait en Égypte ancienne. Traditions médico-religieuses, cit., p. 217. 587 J. Vandier, Le Papyrus Jumilhac, cit. 588 Papiro Insinger, 32, 7, in S. Sauneron, Le germe dans les os, cit., p. 23. Relativamente alla traduzione del termine jny, cfr. J. Yoyotte, Les os et la semence masculine. À propos d’une théorie physiologique égyptienne, cit., p. 139, nota 3. 589 Ippone, A 12, trad, it. di I. Ramelli e G. Reale, in I Presocratici, cit. 590 Ippone, A 13, in ibid. 591 Cfr. Platone, Timeo, 73 b – 74 b; 91 a-b. 592 Cfr. J. Yoyotte, Les os et la semence masculine. À propos d’une théorie physiologique égyptienne, cit., pp. 139 sgg. 180 Osiri, dichiara: «Io porto il fallo [mTA] e la spina dorsale [psD] riuniti insieme».593 Secondo lo studioso la paternità scientifica della teoria che vede nelle ossa il luogo di origine della semenza e nella colonna vertebrale il canale di scolo che le permette di arrivare agli organi genitali spetterebbe all’Egitto. Tra gli autori antichi, Plutarco, riprendendo lo stesso mito narrato nel papiro Jumilhac, afferma esplicitamente la provenienza egiziana delle dottrine sul seme maschile e sul latte materno che stiamo esaminando: «Si rischia di fare qualcosa di simile allo smembramento di Horo di cui parla il racconto egiziano; dopo che, per vendicare suo padre, egli uccise sua madre, uno degli dei più antichi giudicò che era necessario lasciare il suo sangue e il suo midollo [muelov~] e togliergli il grasso [pimelhv] e le carni [savrke~], essendosi questi formati nel seno di sua madre, quelli invece essendogli derivati da suo padre attraverso la generazione».594 La semenza e il latte materno svolgono un ruolo fondamentale anche nella formazione del corpo ultraterreno di cui è dotato l’individuo akh. Nei Testi delle Piramidi, il re è definito la «semenza del dio» (mtwt nTr).595 Una formula recita: «Pepy è stato concepito per Ra, egli è nato per Ra! Meryra è la tua semenza [mtwt], o Ra! Diventa efficace (semenza) nel tuo nome di “Horo che è alla testa dei beati [axw], stella che attraversa il Grande Verde [wAD-wr]”!».596 Dalla semenza divina, tuttavia, non derivano soltanto le parti ossee del corpo, ma anche l’ib e, quindi, probabilmente tutte le parti molli che ad esso afferiscono. Un testo del tempio di Hatshepsut, a Deir el-Bahari, narra della concezione divina della regina, ad opera del dio Amon. Questi, dopo avere assunto le sembianze di Tutmosi I, si recò presso la sposa del re che dormiva. Al risveglio della donna, il dio «andò subito da lei, bruciò d’amore [HAd] per lei e il suo ib fu posto in lei».597 Essere la «semenza del dio» significa, dunque, essere l’immagine perfetta o la proiezione del dio. Ciò vale per il sovrano anche quando è sulla terra, ma soprattutto 593 Ibid. p. 140. 594 Plutarco, De libidine et aegritudine, 6. Per quanto riguarda il retaggio paterno, la testimonianza di Plutarco non si rivela sufficientemente precisa. In questo contesto, si parla di sangue e midollo, altrove (De animae procreatione in Timaeo Platonis, 27), di soffio e sangue; non vengono, invece, menzionate le ossa. 595 Cfr. Pyr, 1417 a. 596 Pyr, 1508 a-c. 597 K. Sethe (a cura di), Urkunden der 18. Dynastie, vol. I, J. C. Hinrichs’sche Buchhandlung, Leipzig 1906, IV, 219. Cfr., inoltre, T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 146 sg. 181 quando si trova nel mondo dell’aldilà e, più in generale, vale per ogni defunto che diventa akh. Nel processo di resurrezione del re o del defunto beato, tuttavia, il latte materno, rispetto alla semenza, non costituisce semplicemente un elemento di contorno. Un passo dei Testi delle Piramidi invoca Ra affinché conceda al sovrano defunto tutti gli elementi essenziali alla nuova vita nella dimensione ultraterrena; di questi il primo a essere menzionato è il latte: «Salute a te, o Ra, nella tua bellezza, nella tua perfezione […]. Porta dunque a Teti il latte [jrTt] di Iside, l’inondazione di Nefti, il riversamento del lago, lo straripamento del Grande Verde, la vita, la salute, la forza, la gioia, del pane, della birra, dei vestiti e un pasto, affinché Teti possa vivere!».598 In più occasioni, inoltre, il re è presentato nella condizione di un infante che deve essere allattato.599 L’inizio della vita nell’aldilà equivale, in effetti, a una rinascita. Diverse divinità nutrici assolvono al compito dell’allattamento. Come ha messo in evidenza Jean Leclant, tuttavia, sembra che «le menzioni dell’allattamento nei Testi delle Piramidi oltrepassino spesso la semplice allusione a delle cure inseparabili dalla condizione materna».600 Le nutrici del re defunto, infatti, sono in diversi casi delle divinità preposte alla salvaguardia della regalità, come la Signora di El Kab, nelle sue differenti forme: «Tua madre è la grande Vacca selvatica [smAt wrt] che risiede a El Kab, dal copricapo regale scintillante [HDt afnt], dalle due lunghe piume e dalle due mammelle pendenti. Ella ti allatta [snq] senza svezzarti!».601 Il latte materno che viene offerto al sovrano defunto, dunque, da un lato lo nutre favorendo la sua resurrezione, dall’altro lo conferma nella sua regalità e nella sua «divinità». Ciò fa dichiarare a Leclant che «conviene domandarsi se il latte non sia una bevanda dotata di virtù speciali e perché».602 Relativamente alle virtù del latte postulate dallo studioso, è interessante, a nostro avviso, richiamare una ricetta del papiro medico di Londra per curare le ustioni. Il medicamento prescritto, da applicare sulla parte ustionata, è un impasto di varie 598 Pyr, 706 a – 707 d. 599 Cfr., per es., Pyr, 911 b – 912 b; 734 b-d. 600 J. Leclant, Le rôle du lait et de l’allaitement d’après les Textes des Pyramides, in Journal of Near Eastern Studies, 10 (1951), p. 126. 601 Pyr, 729 a-c. 602 J. Leclant, Le rôle du lait et de l’allaitement d’après les Textes des Pyramides, cit. 182 sostanze mescolato con del «latte di una donna che ha messo al mondo un figlio maschio». Durante la preparazione, il terapeuta deve pronunciare una formula magica che evoca il potere guaritore del latte di Iside, utilizzato dalla dea come rimedio per curare il piccolo Horo colpito da un tizzone ardente, durante la sua assenza. Nella formula Iside si rivolge alla sorella Nefti con queste parole: «Vieni con me, Nefti sorella mia, seguimi! […] Mostrami la strada, che io possa fare ciò che so fare, che io possa spegnere per lui (= Horo) questo (= il fuoco) con il mio latte [jrTt], il liquido guaritore [mw snbw] che è nei miei seni. Esso sarà applicato sulla tua superficie corporea [Haw], in modo che i tuoi condotti-met saranno guariti. Io farò arretrare il fuoco che ti assale».603 Vorremmo riportare un ultimo passo dei Testi delle Piramidi, in cui il latte materno e la semenza paterna vengono menzionati insieme e vengono messi in relazione con il processo di ricostituzione corporea del sovrano defunto: «Io ho purificato la bocca di Teti, affinché egli possa prendere per lui le sue ossa di ferro [qsw=f bjA] e possa distendere le sue membra [awt] imperiture che sono nel ventre [Xt] di sua madre Nut! Ra, offri il tuo braccio a Teti […] E’ con il latte [jrTt] delle due vacche nere, le due nutrici dei ba di Eliopoli, che Teti è allattato! Hepach, una contrazione va verso il corpo [Xt] del cielo carico della semenza [mtwt] divina che è in lui! Guarda Teti! E’ in Teti che la semenza [mtwt] divina si trova!».604 Come gli altri fluidi corporei presi in considerazione (sangue, liquido-aaa e pus-ryt), anche la semenza e il latte possono acquisire una connotazione negativa. Il sememetut può agire, infatti, come un veleno o un agente patogeno. In alcune ricette dei testi medici si parla della semenza di un dio, di un morto o di una morta come causa delle malattie da curare.605 Per quanto riguarda il latte materno, invece, due brevi paragrafi del papiro di Ebers danno delle indicazioni per distinguere dall’odore quello «buono» (nfrt) da quello «cattivo» (bjnt).606 Concludendo, in Egitto non c’è traccia di una dottrina umorale organizzata in modo sistematico, né le fonti indicano un numero definito di umori fondamentali per il funzionamento dell’organismo umano. L’importanza attribuita dagli Egiziani a 603 Londra 46. 604 Pyr, 530 a – 532 b. 605 Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, cit., p. 412. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 396. 606 Cfr. Eb. 788 e 796. 183 determinati fluidi corporei nei processi fisiologici è, tuttavia, innegabile. La selezione di umori che abbiamo proposto si fonda sui seguenti criteri: 1) abbiamo escluso le sostanze corporee che svolgono un’azione esclusivamente patogena, la cui natura umorale, peraltro, non è del tutto evidente; 2) abbiamo, invece, annoverato tra gli umori fondamentali quelli che contribuiscono in modo diretto alla costruzione e al mantenimento del sistema corporeo; 3) sono stati inclusi anche il liquido-aaa, che non ha una connotazione soltanto negativa e che sembra riprodurre, per certi versi, le caratteristiche del Nun all’interno del corpo, e il pus-ryt che, a quanto mostrano gli studi di Bardinet, fornirebbe gli elementi che il sangue deve legare per formare nuovi tessuti. Ne risulta un sistema di quattro umori, di cui uno variabile sulla base dell’appartenenza sessuale, che possiamo così sintetizzare:607 Uomo Donna sangue (snf) sangue pus-ryt (ryt) pus-ryt liquido-aaa (aAa) liquido-aaa semenza (mtwt; mw) latte materno (jrTt) Tra gli umori elencati, il liquido-aaa e il pus-ryt sono i più pericolosi, in quanto manifestano una predisposizione nosologica. Anche gli altri fluidi corporei indicati nella tabella, tuttavia, possono essere causa di malattia. Come abbiamo già rilevato, la fisiologia egiziana, a differenza di quella greca, non individua semplicemente nell’eccesso o nel difetto dei singoli umori ciò che produce una patologia, bensì lo fa dipendere dal tipo di azione da essi svolta, connettiva o corrosiva. Il «regime» consiste nell’equilibrio tra i processi di demolizione e quelli di costruzione che avvengono nel corpo. Trattando del mito di Osiri, abbiamo rilevato che anche gli umori che fuoriescono da un cadavere manifestano una doppia valenza: da un lato essi sono un segno di corruzione, dall’altro conservano ancora un potere vitale.608 607 Ribadiamo che il numero quattro è solo il frutto della nostra selezione, non fondandosi su nessuna indicazione esplicita contenuta nelle fonti egiziane. 608 Cfr. supra, pp. 104 sgg. 184 Dal sistema umorale proposto traspare il dualismo tipico del pensiero egiziano, concepito come complementarietà di due termini opposti. Il corpo del singolo essere umano, uomo o donna, conserva in sé l’apporto di entrambi gli umori prodotti dai due sessi. Le ossa e forse i loro legamenti,609 gli elementi cioè che strutturano il corpo articolare, derivano dalla semenza paterna, mentre le parti molli, afferenti al corpo inviluppo, sono generate in virtù della dissoluzione delle carni materne che dà origine al latte. In questo contesto l’ib può costituire un’eccezione. La semenza di un dio, infatti, è in grado di fornire la sostanza per formare non solo le parti ossee, ma anche l’ib del nascituro. Nel terzo capitolo avevamo individuato nell’ib il trait d’union che lega il corpo articolare e il corpo inviluppo. Si tratta, dunque, di un elemento anatomico che partecipa di due nature. Ciò spiega, a nostro avviso, il fatto che le parti afferenti all’ib possano essere generate sia dalla semenza paterna, quando il nascituro è un dio o un suo equivalente (il faraone), sia dal latte materno. All’interno di un organismo umano pienamente strutturato e sano, il sangue esercita una perenne azione connettiva, legando gli elementi provenienti dalla demolizione dei cibi (pus-ryt), allo scopo di generare nuovi tessuti. La sfera corporea, inoltre, come l’intero cosmo che è lambito dalle acque del Nun, contiene in sé il liquido-aaa, umore pericoloso in grado di trasformarsi in agente patogeno e di corrodere l’identità personale. In quanto agenti connettivi che si spostano attraverso la rete dei condotti-met, gli umori afferiscono al corpo articolare; in quanto secrezioni dello shet che possono riversarsi all’esterno, essi attengono, invece, al corpo inviluppo. Potremmo, dunque, definire gli umori come l’intersezione dinamica tra il corpo articolare e il corpo inviluppo. 609 Cfr. Papiro Insinger 32, 7, citato supra, p. 180. 185 CAPITOLO VI COSTELLAZIONE UOMO E CORPOREITA’ 1. Una visione d’insieme della «costellazione Uomo» egiziana Ci proponiamo ora di ricapitolare sinteticamente i concetti propri della riflessione antropologica egiziana di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti, organizzandoli in un modello maggiormente definito e completo, dal quale possano emergere una visione d’insieme più chiara della natura dell’essere umano e una migliore messa a fuoco del ruolo e dell’orizzonte della dimensione corporea. Nel proporre un possibile schema di lettura della concezione antropologica dell’antico Egitto, abbiamo introdotto alcune categorie concettuali, in parte coniate da noi e in parte desunte da altri contesti, che ci sono sembrate dotate della forza euristica necessaria a porre nel giusto risalto la peculiarità e l’originalità della concezione antropologica egiziana rispetto al modo di concepire l’uomo che ha avuto origine in Grecia, tra il VI e il V secolo a. C. Abbiamo visto che l’individuo è pensato dagli Egiziani come la risultante dell’interazione di una serie di componenti in relazione tra loro. Abbiamo chiamato, quindi, «individuo articolare» l’essere umano nel suo complesso, inteso come rete di relazioni. Un’articolazione svolge una funzione duplice: essa lega due parti e ne permette il movimento. La costellazione Uomo mostra, infatti, due caratteristiche essenziali: la connettività e la motricità. L’individuo articolare si compone di una serie di elementi sottili, il cui numero non è stabilito una volta per tutte, e di un «corpo» che di questi è il supporto e il veicolo. La tomba tebana n° 82 di Amenemhat, scriba vissuto sotto il regno di Thutmosi III (XVIII dinastia), ci offre un elenco di numerose componenti dell’individualità. Sulla parete sud della cappella, un’iscrizione invoca delle offerte «per il suo ka, per la sua stele [abA], per la sua tomba nella necropoli,610 per il suo destino [SAw], per la sua durata di vita [aHa], per la sua nascita [msxnt], per la sua crescita [rnnt], per il suo Khnum». Sulla parete nord leggiamo, invece: 610 Le trad. del passo proposte da A. Gardiner e A. Hermann in questo punto del testo divergono: secondo Gardiner viene invocata la «stele che appartiene a questa tomba che è nella necropoli»; secondo Hermann, invece, la «tomba» costituisce una componente ulteriore dell’essere umano, menzionata di seguito alla stele. Per le indicazioni bibliografiche, cfr. la nota seguente. 186 «per il suo ka, per la sua stele, […] per il suo [ba], per il suo akh, per la sua spoglia [XAt], per la sua ombra [Swt] e per tutte le sue forme di apparizione [xprw=f nbw]».611 Questa iscrizione tombale è unica nel suo genere. In questo contesto, anche la «stele» e la «tomba» sono annoverate tra gli elementi costitutivi dell’individualità umana. Il testo della parete nord presenta una lacuna nel punto in cui venivano menzionati il ba e, probabilmente, il cuore.612 Tracciando la mappa della costellazione umana, ci siamo soffermati in primo luogo su quelle che, a nostro avviso, sono le due «coordinate» fondamentali del sistema: il ka e il ba. Entrambe le componenti, anche se con modalità differenti, sono espressione della forza vitale insita nel cosmo e del potere di generazione. Oltre a costituire due aspetti dell’individualità umana, esse sono, infatti, anche dei principi cosmici. Entrambe, come abbiamo cercato di evidenziare, manifestano capacità dinamiche e connettive. Il ba, elemento mobile per eccellenza, agisce su un piano sincronico, cioè della simultaneità. Esso con il suo movimento tiene insieme le varie parti sia del macrocosmo che del microcosmo, costituito dall’uomo. Il ka «si muove», invece, su un piano diacronico, in quanto principio che determina la continuità generazionale, trasmettendo un’identità nel tempo. Il ba e il ka determinano, quindi, l’orizzonte e il raggio d’azione della natura umana. Il centro individuato dall’intersezione dei due «assi» principali lo abbiamo assegnato al cuore-ib, sede della volontà, della memoria e più in generale della coscienza dell’individuo. Riferendoci all’elemento centrale della costellazione dell’individualità umana, abbiamo menzionato anche il «nome» (ren).613 Per gli Egiziani, il nome in generale non rappresenta un aspetto puramente formale; non si tratta, cioè, di una semplice «etichetta» utilizzata per contrassegnare un determinato ente. Nominare una cosa significa farla esistere. Nel mondo ultraterreno è indispensabile che l’individuo conservi il proprio nome per poter continuare a sussistere. Il nome è, infatti, ciò che conferisce a un essere umano la sua peculiarità o, in altri termini, la sua identità.614 Cancellare il nome di un uomo dal suo monumento funebre significa 611 La trad. segue quella tedesca di A. Hermann, in Id., Die Stelen der thebanischen Felsgraber der 18. Dynastie, Augustin, Glückstadt 1940, p. 152. Cfr. anche A. Gardiner, The tomb of Amenemhet, Egypt Exploration Found, London 1915, p. 99. 612 Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 143 613 Cfr. supra, p. 78. 614 In proposito, cfr. P. Vernus, Name, in Lexikon der Ägyptologie, vol. IV, Harrassowitz, Wiesbaden 1982, coll. 320 sgg. Sui nomi propri egiziani, benché non documenti gli sviluppi recenti della ricerca in questo campo, rimane un classico il lavoro di H. Ranke, Die ägyptischen Personennamen, 3 voll., Augustin, Glückstadt 19351977. 187 precludergli la possibilità di una vita ultraterrena.615 Molti passi della letteratura religiosa egiziana mettono in risalto l’importanza e la natura divina del nome e ribadiscono la necessità da parte del defunto di ricordare il proprio nome nell’aldilà. Una formula dei Testi dei Sarcofagi recita così: «O Thot! O Thot! Il Grande […] Io sono apparso. Eccomi, sono con il mio nome [rn=j]: è un essere divino [nTr] il mio nome; è escluso che io lo dimentichi, questo nome che è mio! O Bat, Iside, non colpite il mio nome con ignominia! E’ un essere divino il mio nome: è escluso che io lo dimentichi, questo nome che è mio! O RaAtum! O Khepri! Sono io che ho creato la festa del “Giorno dell’Anno” e conosco il mio nome: è un essere divino questo mio nome che è in questo mio corpo [Xt]! [Dilaniate] a mio beneficio colui che ha tolto il mio nome e il mio cuore [HAty] dalla mia mano, poiché è escluso che io dimentichi questo mio nome presso il Signore del Giudizio!».616 La formula, oltre a identificare a più riprese il nome personale con una divinità, lo mette in relazione, a un certo punto, con il cuore-haty. Nell’ambito delle fonti religiose egiziane, il legame tra il nome e il cuore emerge in modo esplicito nel Testo di teologia menfita, dove la creazione di tutto ciò che esiste viene descritta come l’effetto dell’azione del verbo pronunciato dal demiurgo Ptah. Secondo questo documento, infatti, i nomi che la lingua (ns), assimilata al dio Thot, articola sono pensati dal cuore (HAty / ib), assimilato ad Horo.617 In proposito, un'altra testimonianza significativa è costituita da un passo dei Testi dei Sarcofagi che richiama il processo di creazione.618 In questo contesto, il dio Atum viene riconosciuto come il demiurgo che genera l’esistente accoppiandosi con se stesso. Il dio Hapy, che recita in prima persona la formula, evidenziando l’importanza del proprio ruolo nell’opera di creazione, si riferisce, tuttavia, anche a un’altra tradizione, secondo la quale il demiurgo di Eliopoli avrebbe generato il cosmo per mezzo del verbo, scaturito dal suo cuore-ib: «La sua parola [rA=f] è ciò che è uscito dal suo proprio ib».619 615 La damnatio memoriae era una pratica piuttosto diffusa in Egitto. Citiamo soltanto questo esempio illustre: sulla parete di un corridoio del tempio funerario di Sethi I ad Abido compare una lista di sovrani che riporta 76 nomi, da Menes a Sethi I. L’elenco, tuttavia, non è completo; mancano, per es., i nomi di Hatshepsut e Akhenaton. 616 CT, formula 411. 617 Cfr. supra, pp. 24 sg. 618 Cfr. CT, formula 321. 619 CT, IV, 147 h. 188 Questo aspetto viene ribadito poco oltre dall’appello delle due divinità Hu e Sia, personificazioni rispettivamente del verbo creatore e della conoscenza: «Vieni, dunque, affinché andiamo e creiamo i nomi [rnw] di questo meandro [qAb pf], conformemente a ciò che è uscito dal suo ib».620 In questa formula si parla di ib, nel Testo di teologia menfita si alternano, invece, i termini ib e haty. Abbiamo visto precedentemente che questi vocaboli esprimono concetti strettamente correlati: l’haty è il luogo dove l’ib si manifesta meglio, è la sede dell’ib (st ib).621 Le fonti confermano, quindi, in modo esplicito la stretta interdipendenza tra il nome (ren), o la parola (ra), e il cuore (haty-ib). I nomi esprimono e attuano ciò che è contenuto nella sfera cardiaca. Si tratta dei due aspetti complementari nei quali si manifesta il centro della costellazione Uomo. Alla nascita, l’infante egiziano riceve uno o due nomi. L’attribuzione del nome è generalmente compito della madre, «che ripete, così, attraverso una creazione verbale, la sua creazione fisica, tant’è vero che il nome è legato consustanzialmente all’essere che designa. Di qui l’espressione rn=f n mwt=f, “il suo nome di sua madre”, e la preminenza della filiazione materna nei testi magici, per colpire la vittima nella sua identità più essenziale».622 Il fatto che spetti alla madre attribuire il nome al nuovo nato può essere messo in relazione, a nostro avviso, con la teoria fisiologica secondo la quale la struttura anatomica dell’ib e le parti corporee ad esso afferenti sono generate dalle secrezioni materne. Entrambi gli elementi, essendo strettamente legati tra loro, condividono la medesima origine, sono cioè il frutto dell’apporto materno. Anche il nome manifesta una natura dinamica; nel corso dell’esistenza esso subisce, infatti, delle modifiche: può essere, per esempio, accorciato, per ragioni pratiche, o sostituito da un soprannome. Oppure, in virtù del comportamento meritevole del suo portatore, può essere arricchito da un epiteto di gloria o sostituito da un nuovo nome (per esempio, basiloforo). A causa di una cattiva condotta, invece, il nome può subire delle modifiche in senso dispregiativo. Il nome personale, essendo espressione dell’essenza di un individuo, si modifica, quindi, in ragione dei cambiamenti che caratterizzano l’esistenza del suo portatore. 620 CT, IV, 147 l. Il termine qAb, che abbiamo tradotto con «meandro», seguendo la lettura di Carrier, indica in questo contesto una dimensione indifferenziata. 621 Cfr. supra, pp. 81 sgg. 189 Le nozioni di ba, ka, ib e ren ci permettono di delineare l’impalcatura fondamentale dell’individuo articolare; si tratta di componenti sottili, ossia non immediatamente tangibili, che per manifestarsi ed essere operative necessitano di un supporto corporeo. Tra la parte più sottile dell’essere umano e la sfera corporea si colloca l’«ombra» (Swyt o xAybt). Abbiamo rilevato, infatti, che questo elemento dell’individualità, pur non essendo di natura fisica e mostrando una certa somiglianza con il ba, rimane ancorato al corpo e alla dimensione terrena.623 L’ombra sembra costituire, quindi, una «regione» intermedia all’interno della costellazione umana. Per quanto riguarda la sfera corporea, essa si dispiega su due versanti, che abbiamo descritto ricorrendo alle categorie di «corpo articolare» e «corpo inviluppo». In questa prospettiva, il corpo risulta essere una rete di relazioni dotata di un involucro che funge da luogo di gestazione. Sul versante articolare, il corpo è un insieme di ossa, tenute insieme dalla rete dei condotti-met, lungo i quali sono convogliate le correnti vitali di origine divina che mantengono coeso e mobile l’individuo. Il centro direttivo del sistema è costituito dal binomio haty-ib. In quanto involucro, invece, il corpo è una matrice che protegge e rielabora le parti che formano tra loro una rete di relazioni. Sul piano cosmico, esso è il ventre della dea Nut, che quotidianamente rigenera il sole e all’interno del quale il corpo di Osiri viene definitivamente riarticolato e rianimato. Rivolgendoci al processo di ricostituzione del corpo osiriano, abbiamo individuato nell’ib il trait d’union tra i due aspetti della corporeità, quello articolare e quello relativo all’involucro.624 L’ib di Osiri viene rigenerato grazie all’intervento della discendenza del dio, grazie all’azione, cioè, dei quattro figli di Horo, ciascuno dei quali ha ricevuto dal padre una parte dell’ib osiriano, che Iside ha, a sua volta, precedentemente trasmesso al figlio a partire dalla semenza prodotta dalla dissoluzione delle parti anatomiche afferenti all’ib dello sposo defunto. Di questi elementi corporei fanno parte anche le viscere contenute nello shet. Se da un lato, dunque, l’ib, come abbiamo mostrato, è il fulcro del corpo articolare, dall’altro partecipa anche del corpo inviluppo. Le ragioni di questa «partecipazione» possono essere sintetizzate meglio così: 622 P. Vernus, Namengebung, in Lexikon der Ägyptologie, vol. IV, cit., coll. 326 sg. 623 Cfr. supra, pp. 137 sgg. 624 Cfr. supra, pp. 111 sg. 190 1) l’ib è generato dalla dissoluzione delle carni e delle parti molli che afferiscono al corpo inviluppo. Nella riproduzione degli esseri umani queste secrezioni sono di origine materna. Nel caso degli dei possono derivare anche dal padre; 2) la struttura anatomica dell’ib comprende anche le viscere dello shet. Per quanto riguarda invece la componente umorale, nel capitolo precedente l’abbiamo definita un’«intersezione dinamica» tra i due versanti della corporeità. Gli umori, infatti, da una parte costituiscono la componente fisiologica dei fluidi che transitano nel circuito dei condotti-met,625 dall’altra sono secrezioni delle viscere dello shet, prodotti eventualmente anche dalla loro decomposizione. La struttura articolare e l’involucro costituiscono due aspetti inscindibili della dimensione corporea. Durante la vita terrena, tuttavia, l’elemento articolare detiene un primato: il corpo vivente è anzitutto un sistema di parti mobili in relazione tra loro. Con il sopravvenire della morte, invece, del corpo non rimane che un involucro, che può essere aperto e trattato chirurgicamente. L’insieme delle pratiche chirurgiche e rituali effettuate sul cadavere (XAt) sono funzionali al ripristino della connettività e della motricità corporee, che l’individuo ha perso al momento del decesso. La morte pone, infatti, l’essere umano nella condizione di una sommatoria di pezzi disarticolati. Ciò è riscontrabile su due livelli: 1) quello delle componenti «sottili» della costellazione Uomo: esse non formano più un sistema di relazioni; 2) quello corporeo: non c’è più un corpo articolare, ma soltanto un involucro che contiene delle parti non articolate. Al termine del processo di mummificazione e delle liturgie che l’accompagnano, tutte le componenti del defunto si trovano riorganizzate in un nuova rete di relazioni; esse formano una nuova costellazione che ha il suo «supporto» in un corpo riarticolato e divinizzato, fatto, cioè, di un’altra sostanza rispetto a quello terreno. L’individuo è diventato un akh, un trasfigurato e continua ad esistere nell’aldilà. In questo nuovo stato è ancora l’aspetto articolare a prevalere. Questa condizione privilgiata è riservata a coloro che sono vissuti in accordo con la legge di Maat. Coloro che, invece, se ne sono discostati vanno incontro alla cosiddetta «seconda morte», ossia alla perdita dell’individualità o, in altri termini, dell’identità personale. 625 Ribadiamo che nei condotti-met, oltre ai liquidi fisiologici, transitano anche le correnti dinamiche provenienti dall’esterno. 191 Si tratta di motivi sui quali le fonti religiose egiziane ritornano costantemente. Relativamente alla questione della perdita della connettività e della motricità delle membra di un defunto e della loro successiva riarticolazione, a nostro avviso, è interessante richiamare alcune pratiche di inumazione che prevedevano lo smembramento del cadavere, risalenti al Predinastico, soprattutto al periodo Naqadiano. Diverse sepolture di quest’epoca fanno pensare, infatti, a un’inumazione in due tempi: una prima in cui probabilmente il cadavere era lasciato seccare, in modo da essere privato dei suoi residui organici, e una seconda in cui le ossa venivano riorganizzate.626 A proposito della disarticolazione e della ricomposizione delle ossa del defunto, Rodolfo Fattovich commenta: «In questo rito il ricongiungimento della testa al corpo doveva essere il momento culminante delle cerimonie funebri; esso infatti permetteva al morto di entrare nell’aldilà, come si può dedurre dalla formula 372 dei Testi delle Piramidi (TP 654 a – 657 e). La mutilazione pertanto costituiva verisimilmente un vero e proprio rito di passaggio dalla condizione di vivo a quella di morto».627 Proseguendo il discorso su questa pratica, tuttavia, lo studioso aggiunge: «Il suo significato ci sfugge completamente. Secondo la Murray essa avrebbe avuto lo scopo di distruggere la “potenza” di certi individui, considerata pericolosa per la comunità; secondo Moret essa andrebbe ricollegata ad una forma arcaica del mito di Osiride».628 Anche noi siamo dell’avviso che questi rituali abbiano a che fare in qualche modo con il mito osiriano. Più in generale, riteniamo che possa trattarsi dell’espressione di una protoforma del modello antropologico che stiamo esponendo. 2. Il corpo «attuale» Alla luce di quanto esaminato, l’immagine del corpo che emerge dalle fonti egiziane è, a nostro avviso, quella di un veicolo e di un supporto dell’individualità, la cui natura non è legata esclusivamente alla dimensione terrena. Che l’essere umano si trovi sulla terra o in una regione ultraterrena, egli necessita comunque di un corpo per potersi 626 Sulle sepolture dell’epoca predinastica cfr., per es.,: B. Midant-Reynes, Aux origines de l’Égypte. Du Néolithique à l'émergence de l'État, Fayard, Paris 2003, pp. 151 sgg. Cfr. anche B. Midant-Reynes et al., ElAdaïma, un site prédynastique de Haute-Égypte, in Égypte, 8 (1998), pp. 6 sgg. 627 R. Fattovich, Le sepolture predinastiche egiziane: un contributo allo studio delle ideologie funerarie della preistoria, in G. Gnoli, J.-P. Vernant (a cura di), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge University Press, Ed. de la Maison des sciences de l'homme, Cambridge, London, Paris 1982, p. 425. 628 Ibid., p. 426. 192 manifestare e per poter interagire con l’ambiente circostante. Questo corpo, nei suoi due aspetti di sistema articolare e involucro, dovrà essere necessariamente «consustanziale» alla dimensione in cui l’individuo si trova, per poter svolgere pienamente la sua funzione di supporto e veicolo. Un corpo ultraterreno sarà, dunque, «sostanzialmente» diverso da uno terreno, ma svolgerà il medesimo ruolo nel contesto della costellazione Uomo. La sfera corporea non è concepita, pertanto, come l’espressione della temporanea permanenza dell’essere umano sulla terra, bensì, in senso più ampio, come il segno tangibile della sua appartenenza all’esistente. La corporeità pensata e vissuta dall’uomo egiziano manifesta una natura che potremmo definire «trascendentale». Questo termine, nell’ambito della speculazione filosofica occidentale, ha assunto accezioni differenti. In questo contesto, lo utilizziamo per significare che il corpo è «condizione di possibilità» dell’esistenza. Designamo la sfera corporea concepita in questo modo con l’espressione «corpo attuale». Questa locuzione vuole indicare, in una prima accezione, ciò che supporta e rende operativa (pone cioè in atto) un’individualità in una determinata regione dell’esistente. Il termine «attuale» rinvia, inoltre, a un hic et nunc, ossia a una spazialità e a una temporalità che, in questo caso, possono essere di natura terrena o ultraterrena. Le componenti sottili dell’individuo sono, quindi, in grado di manifestarsi, agire e produrre effetti tangibili nel luogo del mondo «attualmente» abitato soltanto attraverso il veicolo corporeo. Il corpo attuale è una condizione di possibilità dell’esistenza che si specifica, si «localizza». Un individuo che dispone di un corpo attuale terreno può agire e manifestarsi soltanto sulla terra. Il suo veicolo corporeo, come abbiamo evidenziato, è un ricettacolo di correnti vitali di provenienza ultraterrena, divina. Queste, una volta convogliate nella dimensione terrena, producono in essa degli effetti concreti. Anche nel caso del sacerdote ritualista che interagisce con le forze magiche (HkAw) del cosmo, si tratta dell’azione di un individuo terreno che opera per ottenere dei risultati tangibili sulla terra. A sua volta, il defunto che è vissuto nel rispetto della legge di Maat, per poter continuare la propria esistenza nell’aldilà ed esercitare in esso la propria azione, necessita di un nuovo corpo che sia della stessa natura della dimensione in cui egli sta per entrare. Dai resti del corpo terreno, che la morte ha reso una sommatoria di pezzi disarticolati contenuti in un involucro, inizia il processo di generazione del nuovo corpo attuale. Trattando del mito di Osiri come modello antropologico, ci siamo soffermati su alcuni 193 dei numerosi passi della letteratura religiosa egiziana che sviluppano questa tematica. Al termine del suo iter di rigenerazione, il defunto può recitare parole come queste: «Le mie ossa [qsw] sono state portate, le mie membra [awt] sono state riunite, ciò che mi era stato tolto mi è stato riportato, è stato per me riunito ciò che mi [era stato tolto (?)] […] I miei due occhi sono stati aperti per me, affinché io possa vedere grazie ad essi, da parte di Khenty-en-irty […] Le mie due orecchie sono state aperte per me, affinché possa sentire grazie ad esse, da questo grande falco al quale nessuno parla […] L’amuleto-uadj è al mio collo, affinché il soffio [TAw] non sia separato dal mio naso: che esso non sia separato!».629 Il nuovo corpo attuale, articolato e percorso da correnti vitali, funge da supporto e veicolo dell’individualità nel mondo ultraterreno. La mummia è il luogo di gestazione dal quale esso sorge. Per quanto riguarda il corpo mummificato (saH), abbiamo identificato in esso un primo stadio di dignificazione (saH) del defunto che si sta trasformando in un akh.630 Abbiamo, inoltre, cercato di mettere in evidenza come, a nostro avviso, l’involucro mummiforme contenga in nuce la struttura del corpo articolare. Le bende riproducono la rete dei condotti-met, mentre gli oli rappresentano le correnti dinamiche che scorrono nei canali.631 Quando l’individuo raggiunge lo stato di akh, l’involucro mummiforme metaforicamente si apre, per fare uscire il nuovo essere purificato e rigenerato alla luce del giorno: «Io ho aperto i mattini del giorno [dwAwt hrw], ho aperto le porte delle tombe. Ho salutato Ra che è nel suo giorno. Ho estirpato il male di Osiri che è nella sua notte. […] Or dunque Osiri ha detto riguardo a me: “che gli siano date le sue ossa [qsw], che gli siano portate le sue membra [awt], che sia rimesso insieme il suo corpo [Haw]! […] Le bende [Htr] che erano sulla mia bocca sono state tolte e il bendaggio [annw] che era sul mio corpo [Xt] è stato strappato, di modo che io mangio con la mia bocca e defeco con il mio ano. Questa impurità è uscita dalla mia bocca».632 Terminato il processo di ricostituzione corporea, la funzione della mummia sembra essere ormai esaurita. Tuttavia, essa viene accuratamente conservata per l’«eternità», riposta in un sarcofago il cui nome è «Signore della vita» (nb anx). La letteratura 629 CT, II, 117 b-d; f; h; j-k. 630 Cfr. supra, pp. 125 sg. 631 Cfr. supra, pp. 122 sgg. 632 CT, II, 113 b-e; 113 k – 114 a; 115 b-f. 194 religiosa insiste, inoltre, sul fatto che le componenti dell’individualità mantengono un legame con il corpo mummificato. In particolare, il ba ogni notte scende nella tomba per ricongiungersi alla spoglia mortale. Ciò può far pensare da un lato a una rigenerazione perpetua, che si rinnova ogni giorno, sul modello del ciclo solare, dall’altro alla necessità del mantenimento del corpo terreno per la sopravvivenza dell’individuo, dopo la morte. In realtà, il defunto nello stato di akh dispone ormai di un nuovo corpo attuale, simile a quello degli dei, un corpo cioè che, nella dimensione ultraterrena, gli consente di manifestarsi e interagire con l’ambiente che lo circonda. Il nuovo veicolo corporeo non gli permette più, tuttavia, di essere attivo anche sulla terra. A nostro avviso, la conservazione del corpo mummificato pone, invece, l’individuo akh nelle condizioni di poter essere ancora presente e agire nella dimensione terrena. La mummia rappresenterebbe, pertanto, un surrogato del corpo terreno. Attraverso di essa è possibile mantenere un legame tra il cielo e la terra: coloro che abitano tra le stelle imperiture portano il cielo in terra, contribuendo alla coesione delle diverse regioni dell’esistente. L’opera degli akhu si associa, così, a quella del faraone, il cui compito è quello di legare la terra al cielo, realizzando la Maat all’interno dello stato, organismo essenziale al benessere degli individui che, per funzionare adeguatamente, deve essere l’esatta riproduzione del cosmo. La dimensione della corporeità in quanto supporto richiama, a nostro avviso, anche il concetto di «collina primordiale». Secondo le narrazioni cosmogoniche, infatti, il dio demiurgo, per poter dare inizio alla sua opera, necessita di un sostegno su cui stare. La teologia di Eliopoli lo rappresenta come una collina che emerge dalle acque limacciose del Nun. Altre tradizioni teologiche egiziane ricorrono, invece, alle immagini di un fiore di loto che emerge dagli abissi, di un’isola di fiamma, oppure di una grande vacca che porta la divinità solare tra le corna. Grazie a questo supporto, il demiurgo può sorgere dall’abisso primordiale e manifestarsi dando vita all’esistente. Il corpo, a sua volta, è il supporto e il mezzo di ogni possibile esperienza nell’ambito dell’esistente. Utilizzando un’espressione egiziana, il corpo attuale nella sua bipolarità (sistema articolare e involucro) potrebbe essere definito a pieno titolo set-ankh (st anx), ossia «sede della vita». Esso è il luogo epifanico dell’individualità o, in altri termini, della costellazione Uomo. Soltanto quando è in possesso del proprio corpo un individuo può essere, in senso pieno, un «vivente». 195 Nella concezione corporea egiziana ritroviamo i tre pilastri dell’ontologia: dualismo, complementarietà e movimento. I due versanti della corporeità sono, infatti, complementari tra loro e non separabili. Essi formano, inoltre, un sistema in movimento che, attraversando le tre fasi costituite dalla vita terrena, dalla morte e dalla vita ultraterrena, progressivamente si riconfigura. 3. La «performatività» del corpo: il canone artistico Oltre a essere un sistema in movimento, il corpo attuale è, nello stesso tempo, un sistema che genera movimento. E’ grazie al veicolo corporeo, infatti, che l’individuo ha la possibilità di entrare in relazione con il mondo che abita e produrre in esso degli effetti. Adottando un termine introdotto negli anni Cinquanta del secolo scorso in ambito linguistico-analitico e fatto proprio ormai anche dagli egittologi, potremmo parlare di «performatività» del corpo.633 E’, dunque, nella prassi che per gli Egiziani si può cogliere pienamente la natura della sfera corporea. Per chiarire meglio questo aspetto e per dare maggiore completezza all’immagine egiziana della corporeità che stiamo delineando, ci rivolgeremo alle modalità di riproduzione artistica della figura umana e all’utilizzo della gestualità nella musica. Più precisamente, prenderemo in considerazione il «canone» artistico e, nel paragrafo che segue, il fenomeno della «chironomia». Relativamente alle origini dell’arte egiziana, in un celebre saggio scritto verso la metà del Novecento, Donadoni pone l’accento sul «carattere realistico di questa arte primitiva, che è assai più interessata a “creare” che a “rappresentare”. Una figurazione, sia in disegno che in rilievo, non tende tanto a mostrare, in questa civiltà, cosa sia il mondo figurativo del suo autore, quanto a creare un sostituto del mondo sensibile. E’ in certo modo magia disegnativa». Poco oltre aggiunge: «L’opera figurativa assume qui un’indipendenza e una autonomia non appena è creata […] Non per nulla in egiziano si dice “partorire” e non scolpire una statua».634 Quanto sostenuto da Donadoni a proposito dell’arte della preistoria e della protostoria egiziane, in linea generale, può essere considerato valido per l’arte egiziana nel suo complesso. Diversi studi condotti nella seconda metà del Novecento, 633 Secondo la «teoria degli atti linguistici» elaborata da John Austin, un enunciato è performativo quando non è utilizzato per comunicare qualcosa (in modo vero o falso), ma per compiere un’azione. In proposito, cfr.: J. Austin, Come fare cose con le parole, trad. it. di C. Villata, Marietti, Genova 1987. Cfr. anche infra, p. 262. 196 infatti, hanno messo in evidenza che la funzione principale delle pitture e delle sculture realizzate nell’antico Egitto non era quella di essere contemplate e apprezzate da un punto di vista estetico. Erik Iversen, per esempio, introducendo la questione del canone utilizzato per scolpire o dipingere figure umane afferma: «Poiché una parte sostanziale dell’arte egiziana non fu mai concepita per essere vista da occhi mortali, la manifestazione di qualità decorative ed estetiche non può essere stata il suo principale scopo, che era indubbiamente di natura metafisica e magica. E’ stata, infatti, una convinzione nella realtà magica dell’arte, nel suo presunto potere di perpetuare sul piano di una quarta dimensione, al di là di spazio e tempo, la vita e l’esistenza dei suoi modelli che ha dato impulso all’impareggiabile produzione artistica degli Egiziani […] Le rappresentazioni scultoree erano di conseguenza in primo luogo non degli oggetti di bellezza e di diletto, bensì entità magiche cariche di significato fatale».635 Studiando la pittura egiziana e, più specificamente, quella delle tombe tebane, Roland Tefnin ha espresso considerazioni analoghe. L’atto di ammirare un’immagine e fruirne in senso estetico non costituisce il vero scopo per cui essa è stata creata da un artista. Si tratta di un aspetto secondario. Le immagini hanno in primo luogo la funzione di «far esistere ciò che rappresentano. Questa funzione principale è evidentemente magica o, più precisamente, performativa».636 In virtù della sua natura fondamentalmente «performativa», l’arte egiziana non è «imitativa». Gli artisti egiziani non erano interessati, infatti, a rappresentare gli oggetti come appaiono in uno spazio e in un tempo determinati, da un certo punto di vista. Essi volevano cogliere, invece, «la natura durevole» delle scene raffigurate. Stabilirono, pertanto, «delle convenzioni per codificare le informazioni sul mondo che desideravano esprimere. […] Una convenzione fondamentale era che gli oggetti erano mostrati in ciò che era considerato come la loro forma più caratteristica, indipendente dal tempo e dallo spazio».637 Poiché l’opera d’arte rivela l’essenza, essa ha il medesimo statuto dell’oggetto riprodotto. Un corpo umano scolpito o dipinto ne può sostituire, quindi, uno in carne ed ossa. Il rituale di apertura della bocca, per 634 S. Donadoni, Arte egizia, Einaudi, Torino 1982, p. 27. 635 E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, Aris and Phillips, Warminster 1975, p. 6. 636 R. Tefnin, Comment lire la peinture des tombes thébaines de la XVIII dynastie?, in L’arte nel Vicino Oriente antico. Bellezza, rappresentazione, espressione. Atti del convegno internazionale, Milano, 12 marzo 2005, Edizioni Ares, Milano 2006, pp. 53 sg. 637 G. Robins, Proportion and style in ancient Egyptian art, University of Texas Press, Austin 1994, p. 3. 197 esempio, nella sua fase più antica veniva eseguito sulla statua del defunto.638 Similmente, la statua di un dio rappresenta per quest’ultimo un «corpo terreno», attraverso il quale egli può manifestare la sua potenza e la sua azione sulla terra. Erwin Panofsky sintetizza con chiarezza la differenza tra la figura umana creata da un artista greco e la medesima creata da un artista egiziano: «Per i greci l’effige plastica ricorda un essere che è stato vivo; per gli egiziani è un corpo che attende di essere richiamato in vita. Per i greci l’opera d’arte esiste in una sfera di idealità estetica, per gli egiziani in una sfera di realtà magica. Per gli uni fine dell’artista è l’imitazione (mivmhsi~), per gli altri la ricostruzione».639 La performatività di un corpo riprodotto artisticamente è, tuttavia, la conseguenza di una performatività più originaria, quella intrinseca alla dimensione corporea in generale. Per essere realmente performative, quindi, la statua o l’immagine dipinta di un individuo dovranno rispettare le proporzioni naturali del corpo. A questo scopo, viene introdotto un «canone». Il primo studioso a parlare di un canone egizio fu Richard Lepsius, che scoprì in alcune tombe di Saqqara delle figure ancora inscritte nelle linee guida originali, utilizzate dagli artisti per eseguire la loro opera. 640 L’analisi di queste figure mise in evidenza che l’altezza era misurata dal piede alla linea dei capelli, lungo una linea verticale passante per l’orecchio e la biforcazione delle gambe. Questa linea centrale, che divideva il tronco in due parti uguali all’altezza delle ascelle e il piede in due parti in rapporto di 1 : 2 tra loro, era intersecata da altre linee orizzontali, passanti per il ginocchio, il polso e la natica, il gomito, le ascelle, la nuca e, infine, la linea dei capelli (fig. 1). Lepsius notò che la lunghezza del piede corrispondeva alla distanza tra il gomito e il polso e rappresentava 1/6 dell’altezza della figura, misurata dal piede alla linea dei capelli. Poiché questa lunghezza, equivalente alla «misura 2/3» della metrologia egiziana, era uguale a quella del piede utilizzato nella metrologia greca e romana, lo studioso concluse che doveva esserci una connessione stretta tra il canone e la metrologia egiziani. In seguito, tuttavia, considerando che il piede non costituiva un’unità di misura autonoma nella metrologia egiziana, Lepsius abbandonò questa teoria. 638 Cfr. supra, p. 126. 639 E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1962, p. 68. 640 Lepsius visitò queste tombe durante la sua celebre spedizione in Egitto, compiuta tra il 1842 e il 1845 e patrocinata dal re di Prussia Friedrich Wilhelm IV. Sulla questione del canone, cfr. R. Lepsius, Die Längenmasse der Alten, Hertz, Berlin 1884. 198 Fig. 1 (R. Lepsius, Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien, vol. I, 1849, p. 234) 199 La conclusione fu che l’arte egiziana aveva conosciuto tre sistemi di proporzioni differenti:641 1) dalla III alla XII dinastia, una divisione del corpo mediante un modulo corrispondente a 1/6 dell’altezza canonica (pianta del piede – linea dei capelli); 2) dalla XII dinastia, una griglia che divide l’altezza canonica in 18 quadrati (fig. 2). Lepsius considerò questo secondo sistema un perfezionamento del primo, ottenuto tramite una divisione meccanica del vecchio modulo in tre parti; 3) dalla XXVI dinastia, una griglia di 21 quadrati che copre la distanza tra la pianta del piede e la linea degli occhi (fig. 3). Gli studi sul canone compiuti da Iversen a partire dalla metà del secolo scorso mostrano che, in realtà, la divisione lineare, della quale è stata trovata traccia nelle tombe dell’Antico Regno, non rappresenta un sistema di proporzioni differente da quello delle griglie documentato a partire dal Medio Regno. Si tratta, invece, del medesimo sistema, espresso con un modulo che in un caso corrisponde a 1/6 dell’altezza canonica e nell’altro a 1/18 della medesima. «La divisione lineare, che è basata sul modulo più grande e che, di conseguenza, riflette le proporzioni con un minore grado di accuratezza, non rappresenta, pertanto, uno stadio più vecchio, più primitivo o embrionale dell’evoluzione del canone, ma lo stesso sistema delle griglie, del quale è solamente una semplificazione tecnica riservata a scopi specifici: il proporzionamento di servi e dipendenti, la cui accuratezza proporzionale era considerata di secondaria importanza. Il fatto che nessun esempio di figure inscritte nelle griglie originali ci sia finora pervenuto dall’Antico Regno sarebbe, quindi, puramente accidentale».642 Il canone rappresenta una standardizzazione delle relazioni intercorrenti tra le varie parti anatomiche, il cui scopo è quello di garantire la conformità della figura realizzata dall’artista alle proporzioni naturali del corpo umano. Da un punto di vista fisiologico, infatti, le mutue relazioni tra le parti del corpo, sono relativamente costanti in tutti gli individui e indipendenti dalle dimensioni corporee. Come in altre civiltà antiche, anche in quella egiziana le principali unità di misura della metrologia sono ricavate dalle parti anatomiche e dalle loro suddivisioni. 641 Cfr. E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., p. 28. 200 Fig. 2 (E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., tav. 4) 642 Ibid., p. 29. 201 Fig. 3 (Ibid., tav. 23) 202 L’unità fondamentale del sistema metrologico egiziano è il cubito (mH), che corrisponde alla distanza tra il gomito e la punta del pollice. Un cubito è suddiviso in 6 palmi (Ssp), ognuno dei quali equivale a 4 dita (Dba). La distanza tra il gomito e il polso, suddivisa in 4 palmi è la cosiddetta «misura 2/3», in quanto rappresenta 2/3 del cubito. La lunghezza del braccio dalla spalla al gomito è, invece, il remen (rmn), che misura 5 palmi, mentre la distanza tra i due pollici, misurata con le braccia estese, corrisponde a un fathom, uguale a 4 cubiti. Per la costruzione di edifici pubblici o di culto il «piccolo» cubito era sostituito dal cubito reale, misurato dal gomito alla punta del dito medio (=7 palmi o 28 dita).643 Abbiamo elencato le principali unità di lunghezza. Esistono, tuttavia, ulteriori suddivisioni; di queste, le più rilevanti ai fini del nostro discorso sul canone sono il pollice (1/12 della misura 2/3 oppure 1+1/3 di dito) e il pugno (4 dita + 1 pollice). L’insieme di queste unità di misura è schematizzato con chiarezza nel disegno seguente: Fig. 4 (Ibid., tav. 9) 643 Il rinvenimento di alcune delle aste cubito utilizzate nel culto funerario ha permesso di ricavare i valori numerici delle lunghezze del piccolo cubito e del cubito reale, rispettivamente di 0,450 m e 0,525 m. Si tratta, tuttavia, di valori medi ed è necessario tenere presente che, in relazione al canone, l’aspetto fondamentale è costituito dall’insieme dei rapporti tra le varie unità metrologiche e non dai valori numerici corrispondenti. Un sistema di proporzioni è, infatti, adimensionale e, pertanto, indipendente dal valore numerico attribuito alle misure di lunghezza. Cfr. E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., p. 17. 203 Nel sistema delle linee guida documentato nelle tombe dell’Antico Regno (fig. 1), il modulo utilizzato, il piede (1/6 dell’altezza canonica), corrisponde alla misura 2/3 della metrologia. L’altezza canonica è, invece, equivalente a un fathom. Nel sistema delle griglie (fig. 2), il modulo, cioè il lato di un singolo quadrato, è uguale a 1/3 della misura 2/3, che corrisponde al pugno delle misure di lunghezza. I due sistemi sono sovrapponibili tranne che per un particolare: la linea passante per le ascelle non trova corrispondenza nelle griglie (divide a metà il quindicesimo quadrato; fig. 5). Il canone artistico si fonda, quindi, sulla metrologia che, a sua volta, esprime un sistema di rapporti tra parti anatomiche. Il sistema di proporzioni egiziano, secondo la definizione formulata da Iversen, è «una descrizione antropometrica del corpo umano, basata sulla standardizzazione delle sue proporzioni naturali espresse nella misura egiziana di lunghezza. Come riflessi diretti del sistema, le griglie possono essere definite similmente delle proiezioni geometriche delle proporzioni canoniche, basate sulla identificazione del quadrato modulare con il pugno anatomico e metrologico di 1+1/3 palmi proporzionali».644 Relativamente all’impostazione del canone egiziano, vorremmo evidenziare due aspetti che ci sembrano rilevanti se messi in relazione con la performatività della sfera corporea. In primo luogo, i rapporti espressi dal canone, in accordo con il sistema metrologico, si fondano sulla lunghezza del braccio o, più nello specifico, dell’avambraccio e sulle sue suddivisioni. Questa parte del corpo rimanda immediatamente all’idea del «fare», dell’«operare». Nella lingua egiziana il termine che denota il braccio, a (a), può significare anche «atto», «azione».645 Il canone deve, infatti, esprimere e ricreare nella statua o nell’immagine la natura performativa della corporeità, affinché l’opera dell’artista possa davvero fungere da surrogato di ciò che riproduce. Una seconda osservazione riguarda la disposizione delle linee guida rinvenute nelle tombe dell’Antico Regno, in particolare quando la figura è disegnata in piedi e con un braccio disteso. Le linee orizzontali che la attraversano, tranne le due che determinano l’altezza canonica, passanti per la pianta del piede e la linea dei capelli, 644 Ibid., p. 33. 645 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 134. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 91. 204 segnano tutte dei punti di articolazione (figg. 1 e 5). Sembra, quindi, che la figura sia realizzata avendo come riferimento la sua struttura articolare. A nostro avviso, ciò contribuisce al dinamismo dell’immagine, al suo potere performativo. Il canone utilizzato era il medesimo per le sculture, i rilievi e le pitture. Nel caso della scultura a tutto tondo, la quadrettatura veniva disegnata sulle facce dei blocchi di pietra da scolpire. L’idea di un unico canone nell’arte egiziana era già sostenuta da C. Edgar ai primi del Novecento.646 Si poneva, tuttavia, il problema della traslazione della figura umana da uno spazio tridimensionale a un piano. La peculiarità delle immagini bidimensionali consiste in ciò: esse non sono disegnate dall’artista egiziano come delle entità composite, ma sono scomposte nei loro elementi costitutivi. In proposito, Heinrich Schäfer affermò che non si trattava di semplici regole convenzionali, ma di un particolare approccio pregreco che riproduceva le figure non sulla base della loro apparenza naturale, ma fondandosi su una sorta di «visione» (Schau) indotta da esse.647 Iversen sottolinea l’importanza di un’osservazione empirica di Schäfer circa le relazioni tra le figure tridimensionali e quelle bidimensionali. Si tratta della constatazione che il gruppo scultoreo raffigurante un uomo e una donna lato a lato in posizione frontale rispetto all’osservatore è il modello per la realizzazione di immagini bidimensionali analoghe (come quella di fig. 2), in cui ogni elemento anatomico è riprodotto nella sua forma completa e indipendente dalla prospettiva o dall’aspetto.648 In realtà, Iversen, sulla base dei suoi studi, si spinge oltre le affermazioni di Schäfer, sostenendo che le figure bidimensionali sono riproduzioni dirette dei loro modelli a tre dimensioni. La regola tecnica applicata dagli Egiziani è, quindi, la seguente: «nelle loro proiezioni bidimensionali, le parti che sporgono dal piano tridimensionale devono essere viste di profilo, le parti che, invece, si estendono sul piano, di fronte».649 Ne risultano figure che presentano il viso di profilo, le spalle di fronte, il bacino di tre quarti e le gambe di profilo. Migliaia di immagini documentano questa procedura tecnica. 646 Cfr. C. C. Edgar, Remarks on Egyptian sculptors models, in Recueil de travaux rélatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et assyriennes, 27 (1905), pp. 137 sgg. 647 Cfr. H. Schäfer, Von ägyptischer Kunst, Hinrichs, Leipzig 1930, pp. 307 sg. 648 Cfr. E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., pp. 34 sg. 649 Ibid., p. 35. 205 Fig. 5 (Ibid., tav. 3) 206 Delle linee guida, quella verticale che passa per l’orecchio (linea MM nelle figg.), oltre a dividere il corpo in due metà, funge da asse attorno al quale vengono ruotate le varie parti del corpo nella loro traslazione da uno spazio a tre dimensioni a uno bidimensionale. Questa linea mette in relazione tra loro, o potremmo anche dire «riarticola», le differenti parti anatomiche apparentemente indipendenti e slegate. La riproduzione artistica del corpo umano non è finalizzata a fissare il singolo istante di un movimento nello spazio e a trasmetterne di conseguenza l’idea. Le statue o le pitture egiziane possono apparire, in molti casi, statiche all’osservatore. La loro funzione, a nostro avviso, non è, infatti, quella di «sembrare» in movimento, bensì di «generare» movimento, riproducendo la performatività del corpo attraverso l’uso del canone. Con la XXVI dinastia il cubito viene riformato. Si adotta il cubito reale, ossia la lunghezza dell’avambraccio tra il gomito e la punta del dito medio, e lo si suddivide in 6 grandi palmi. Ciascuno di questi, a sua volta suddiviso in 4 dita, corrisponde a 1+1/6 di «piccolo» palmo. Questo cambiamento nell’ambito della metrologia si riflette immediatamente sul canone che su di essa è fondato. La struttura della griglia viene, quindi, modificata: l’altezza canonica viene misurata dalla pianta del piede alla linea degli occhi e ripartita in 21 quadrati. Il modulo del singolo quadrato rimane ancora il pugno. La conseguenza diretta di questo aggiustamento è la perdita della corrispondenza tra le proporzioni risultanti dal nuovo canone e quelle naturali: «la rigida conformità tra le proporzioni naturali del corpo e le unità metrologiche che era stata rigorosamente osservata nel primo canone fu rotta, dando origine a diversi problemi pratici».650 La soluzione di queste difficoltà viene lasciata ai singoli artisti. Ciò comporta l’introduzione nelle opere prodotte di elementi soggettivi, afferenti alla sfera emotiva e intellettuale dell’artista. Emerge, dunque, un’arte individuale, foriera di una serie di nuove valutazioni estetiche estranee all’arte egiziana dei periodi precedenti. L’opera d’arte comincia ad assumere i caratteri della rappresentazione, perdendo così, almeno in parte, la sua funzione performativa. 650 E. Iversen, The Egyptian origin of the archaic Greek canon, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, 15 (1957), p. 142. 207 4. La «performatività» del corpo: il gesto musicale Una composizione del Nuovo Regno, l’Inno al Nilo, a un certo punto recita: «Si cominciano a cantare le lodi per te con l’arpa, si cantano le lodi per te con la mano».651 Questo passo fa riferimento alla «chironomia», una pratica impiegata nell’ambito della musica, in particolare, di quella vocale. Si tratta, infatti, dell’arte di dirigere un complesso vocale o strumentale attraverso dei segni eseguiti con la mano e con il braccio. La chironomia è presente anche nella Grecia antica ed è conosciuta ancora nel Medioevo occidentale. L’uso dei neumi, tipico della musica medievale, deriva probabilmente dagli antichi segni chironomici.652 Per quanto riguarda la chironomia dell’antico Egitto, le fonti principali sono costituite dalle scene musicali dipinte nelle tombe. Generalmente, l’artista egiziano rappresenta un gruppo di musicisti, ciascuno dei quali ha di fronte il proprio chironomo. Ciò ha indotto gli studiosi a pensare che il gesto chironomico non abbia esclusivamente un significato ritmico; in questo caso, infatti, sarebbe bastato un solo chironomo a dirigere i musicisti. La chironomia avrebbe anche la funzione di indicare degli intervalli melodici o delle note musicali, nel senso ampio di questi termini. E’ quanto sostiene, per esempio, Hans Hickmann, le cui ricerche rappresentano ancora oggi un punto di riferimento essenziale nell’ambito degli studi sulla musica egiziana: «Se il pittore rappresenta, dunque, quattro chironomi e quattro musicisti che riproducono ciascuno a modo suo il medesimo suono, la sua intenzione non era affatto di mostrarci come veniva suonata, alla sua epoca, una nota all’unisono da parte di diversi interpreti, ma di comunicarci il suono che si eseguiva nel momento immaginario o reale in cui l’artista rappresentava tale complesso. Si tratta, dunque, di un messaggio musicale concepito intenzionalmente e formulato attraverso i mezzi 651 M. G. Maspero (a cura di), Hymne au Nil, Imprimerie de l'Institut Français d'Archéologie Orientale, Le Caire 1912, p. 4. La trad. è nostra. 652 In proposito, H. Hickmann afferma: «La scrittura che impiega dei neumi ha conservato, in ogni caso, ancora per lungo tempo, le tracce di un antico impiego di alcuni di questi segni come indicazioni chironomiche. L’analisi dei dati permette evidentemente d’intravedere un’origine comune degli accenti utilizzati nelle Indie e dai grammatici alessandrini. Non è escluso che dobbiamo cercarla nella chironomia degli antichi Egiziani, ma la quasi certezza di questi legami non è mai stata sostenuta da prove solide, poggiando unicamente su deduzioni e confronto di testimonianze. Già gli autori greci volevano far risalire l’origine della chironomia a una pratica musicale in uso nella Valle del Nilo». (H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 83 (1958), p. 97). 208 tecnici dell’epoca, di una sorta di grafia musicale, che lascia prevedere già una vera notazione».653 I gesti chironomici raffigurati nelle pitture, tuttavia, non hanno, a nostro avviso, semplicemente la funzione di comunicare a un ipotetico osservatore un ritmo o una melodia. Essi hanno anche e soprattutto una funzione performativa. Come abbiamo evidenziato nel paragrafo precedente, infatti, lo scopo principale di una riproduzione artistica è quello di dare esistenza agli enti rappresentati. Il ritmo e le note dipinti formano, dunque, una sorta di partitura vivente, cioè un brano musicale costantemente eseguito. La performatività di queste immagini attinge a quella corporea. Sono i gesti delle mani e delle braccia che danno vita alla composizione musicale. Ciò vale, naturalmente e in primo luogo, nel caso di un chironomo in carne ed ossa che, come leggiamo nell’Inno al Nilo, canta «con la mano». Secondo Hickmann, si possono distinguere tre tipi di gesti chironomici: 1) gesti a significato ritmico, che hanno la funzione di segnare il ritmo e la misura (fig. 6). Questi non vanno confusi con altri gesti che segnano la misura mediante il battito della mano sul ginocchio o sulla coscia; Fig. 6 (H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, cit., p. 106) 2) gesti a significato melodico, eseguiti generalmente da chironomi che sono nello stesso tempo anche cantori. Il segno distintivo di un chironomo cantore è una mano posata sull’orecchio (fig. 7); 653 Ibid., p. 99. 209 Fig. 7 (Ibid., p. 107) 3) Segni composti. Si tratta dei gesti eseguiti da musicisti che non sono raffigurati con la mano posata sull’orecchio e che, dunque, in linea di principio, non sono cantori, ma soltanto chironomi. Essi hanno a disposizione due mani per la gestualità musicale, il che fa pensare alla possibilità di eseguire segni ritmici e melodici combinati (fig. 8).654 Fig. 8 (Ibid., p. 111) Fig. 9 (H. Hickmann, La musique polyphonique dans l’Égypte ancienne, cit., p. 241) 654 Cfr. H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, cit., pp. 101 sgg. Cfr. anche Id., La musique polyphonique dans l’Égypte ancienne, in Bulletin de l’Institut d’Égypte, 34 (1951-1952), pp. 240 sgg. 210 L’insieme dei gesti non composti può essere suddiviso in due gruppi, sulla base di due gesti principali che ricorrono spesso nelle scene musicali (fig. 9): 1) la mano libera del chironomo cantore forma un anello con l’indice e il pollice; 2) la medesima mano è aperta e tesa. L’esame delle scene musicali dipinte nelle mastabe di Nenkheftka e di Ti, risalenti alla V dinastia, ha condotto Hickmann alla conclusione che questi due gesti principali rappresentano le due note più importanti del sistema musicale: la fondamentale e la sua quinta. Gli altri gradi della gamma, che riempiono l’intervallo tra queste due note, sono indicati dal chironomo con la variazione dell’angolo tra il braccio e l’avambraccio. Un’ampiezza minore corrisponde probabilmente a una nota più acuta. «L’insieme dei gesti forma una sorta di scala il cui numero di gradi coincide con le gamme musicali conosciute attraverso la misurazione degli strumenti conservati» (fig. 10).655 Fig. 10 (H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, cit., p. 118) Diversi gesti chironomici sono serviti anche da modello per una serie di geroglifici. Nel sistema di scrittura geroglifica troviamo, infatti, dei segni che riproducono le stesse pose delle mani dei musicisti dipinti nelle scene musicali.656 Ci limitamo a due esempi che ci sembrano significativi. I testi letterari egiziani che presentano una struttura metrica sono caratterizzati in genere da un aspetto formale specifico: la puntuazione, ossia un insieme di punti tracciati in rosso o in nero, destinati a separare tra loro i distici o gli stichi. Alla fine di una sezione o stanza (Hwt, lett. 655 H. Hickmann, La musique polyphonique dans l’Égypte ancienne, cit., p. 242. 211 «dimora», «castello»), può comparire il «segno della pausa»: (da leggersi forse grH, «fermarsi», «tacere», «cessare»).657 Nel caso preso in considerazione, il braccio compie l’azione del fermare, del bloccare. Questo geroglifico costituisce, «evidentemente, un richiamo dei segni chironomici melodici e ritmici, 1) secondo la posizione della mano che batte la coscia, con il palmo in basso, o che fa dei segni determinati, o 2) secondo l’inclinazione dell’avambraccio rispetto al braccio».658 Il medesimo geroglifico compare come determinativo anche nel termine che denota il cubito, la misura di lunghezza alla base della metrologia egiziana; in questo contesto esso può essere utilizzato anche come ideogramma: oppure o (mH). Abbiamo visto che tutte le principali misure di lunghezza del sistema metrologico egiziano hanno come origine il braccio umano e i rapporti tra le parti che lo compongono. Le suddivisioni del braccio, elemento corporeo fortemente performativo, sono, inoltre, il fondamento del canone artistico, in virtù del rapporto che lega quest’ultimo alla metrologia. Il canone artistico e il gesto chironomico sono due esempi significativi dell’approccio egiziano al mondo, che non è mai puramente contemplativo o ricettivo, bensì sempre interattivo. Lo strumento indispensabile per interagire con il mondo circostante è il corpo, che abbiamo denominato «attuale». L’opera d’arte che riproduce il corpo umano e i suoi gesti attinge la propria performatività a quella intrinseca alla sfera corporea. In quanto dotate della performatività corporea, l’immagine, la statua o la partitura musicale codificata attraverso una serie di gesti delle mani e delle braccia sono degli enti autonomi e attivi e non semplicemente degli oggetti rappresentativi. 5. «Mappa» della dimensione umana e osservazioni conclusive A conclusione del discorso sulle concezioni antropologiche egiziane, proponiamo uno schema riassuntivo. Cerchiamo, cioè, di tracciare una mappa generale della costellazione Uomo. Prima, vorremmo, tuttavia, chiarire meglio alcuni aspetti della 656 Cfr. H. Hickmann, Le probleme de la notation musicale dans l’Égypte ancienne, in Bulletin de l’Institut d’Égypte, 36 (1953-1954), pp. 504 sgg. 657 Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 156 e 658. 212 tematica sviluppata. Abbiamo sostenuto che la sfera corporea ha una natura duale: essa si manifesta come corpo articolare e corpo inviluppo. Nel suo complesso, la corporeità costituisce il supporto e il mezzo indispensabili all’essere umano per esprimersi e interagire con l’ambiente circostante. Abbiamo chiamato questo supporto e veicolo «corpo attuale». Abbiamo, invece, denominato la costellazione Uomo nel suo complesso «individuo articolare». Il quesito che si pone è, dunque, il seguente: anche l’individuo articolare, inteso come rete di relazioni tra un insieme di elementi, dispone di un proprio involucro? La nostra risposta è affermativa, anche se non parliamo, in questo caso, di un «individuo involucro o inviluppo». Per l’essere umano che vive sulla terra l’involucro o luogo di gestazione è costituito dalla società e dallo stato. A partire dal Nuovo Regno, il faraone, in quanto rappresentante dello stato, viene indicato in egiziano con il termine Per-aa (pr-aA), letteralmente «la grande casa», espressione che, nelle epoche precedenti, era utilizzata soltanto per designare il palazzo reale.659 Lo stato e il suo vertice, il sovrano, rappresentano, infatti, per ogni individuo, un involucro protettivo e il luogo dove è possibile esprimere e realizzare la propria natura, conformemente alla legge di Maat. Un inno dedicato a Sesostri III (XII dinastia) mostra con chiarezza la funzione di protezione e contenimento svolta dal re, garante della società: «Com’è grande il signore della sua città! E’ una diga che trattiene il fiume nei suoi straripamenti. […] E’ una sala fresca dove ognuno può dormire a mezzodì. […] E’ il muro che protegge Goscen. […] E’ l’asilo, dove nessuno può essere inseguito. […] E’ il rifugio che salva il timoroso dal suo nemico».660 Al di fuori dello stato regna il caos, le forze di Isefet, e l’essere umano non è più realmente tale. L’involucro dell’individuo articolare che è passato attraverso la morte, scindendosi nelle sue componenti e rigenerandosi successivamente come akh, è costituito, invece, dal corpo e dal ventre di Nut. Il defunto che si trova nello stato di akh, in quanto immagine di Osiri-Orione, dimora, infatti, tra le costellazioni dell’emisfero settentrionale. Il corpo celeste di Nut è il suo nuovo spazio vitale e determina il suo 658 H. Hickmann, Le probleme de la notation musicale dans l’ Égypte ancienne, cit., pp. 504 sg. 659 Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., p. 147. Cfr. anche A. Amenta, Il Faraone. Uomo, sacerdote, dio, Salerno Editrice, Roma 2006, pp. 63 sgg. 213 raggio d’azione. Nel ventre di Nut, l’individuo akh è tenuto in perpetua gestazione; in virtù di ciò il suo essere rimane incorruttibile. Tornando, invece, alla natura performativa del corpo, trattando del canone artistico e della chironomia, ci siamo soffermati sull’importanza del braccio come strumento operativo. Sarebbe, tuttavia, inesatto attribuire al braccio il primato assoluto della performatività nell’ambito della sfera corporea. Un altro elemento corporeo che, per gli Egiziani, manifesta un alto grado di performatività è l’occhio. L’atto del vedere non è, infatti, puramente contemplativo, bensì è in grado di interagire o, potremmo anche dire, di dialogare con l’oggetto al quale si rivolge. La migliore conferma di ciò la troviamo nel fatto che nell’egiziano geroglifico il segno dell’occhio è utilizzato per esprimere il verbo «fare»: iri (jrj), fare, agire, realizzare, generare.661 L’occhio solare riveste nella mitologia egiziana un ruolo notevole. Fin dalle epoche più antiche esso è considerato un eccellente amuleto, che ha la virtù di apportare salute e benessere. Secondo un racconto mitologico, infatti, Horo recuperò l’occhio perso in uno scontro violento con Seth e lo rimise al suo posto completamente risanato. Il termine udjat (wDAt) che lo denota significa, appunto, «essere vigoroso», «intatto», «sano».662 Nelle narrazioni cosmogoniche, inoltre, anche altre parti corporee manifestano la loro natura prettamente performativa, svolgendo un ruolo di primo piano nella creazione. E’ quanto abbiamo rilevato nel primo capitolo. Nella teologia di Eliopoli l’organo creativo è il fallo di Atum; secondo una variante è, invece, la sua bocca che con lo sputo genera i primi dei. Secondo la dottrina di Menfi, la creazione avviene per mezzo della lingua di Ptah che veicola il verbo pensato dal cuore. Il dio Khnum di Esna si serve, infine, del suo braccio per plasmare il mondo e gli esseri che lo abitano. Dal momento che la sfera corporea è una realtà essenzialmente performativa, il fattore unificante per eccellenza che opera in essa è costituito dalla «prassi». Affrontando la concezione egiziana della corporeità, avevamo individuato nell’organo cardiaco e nella rete dei condotti-met i principali generatori di connettività. L’unità organizzata di tutte le parti corporee alla quale concorrono il cuore e l’insieme dei canali, tuttavia, si palesa e si rende percepibile soltanto nell’interazione tra 660 Inno a Sesostri III, trad. it. di E. Bresciani, in Id., Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 214. 661 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 100 sgg. 662 Cfr. ibid., p. 247. 214 l’individuo e la dimesione che lo circonda. Per «prassi» intendiamo questa interazione e gli effetti che ne conseguono. Essa è resa possibile dal corpo attuale e ne rivela l’unità. Non si tratta, quindi, di un’unità ideale, bensì reale, dinamica e, potremmo dire, «centrifuga», nel senso che si manifesta ed è operante soltanto nell’atto di interagire con il mondo e con i propri simili. Presentiamo ora lo schema riassuntivo della costellazione Uomo: INDIVIDUO ARTICOLARE nello Stato/nel ventre di Nut Componenti sottili principali Ombra corpo terreno/ corpo ultraterreno (Akh)/ mummia (surrogato del corpo terreno) Ba Ib/ Ren Ka Corpo articolare: cuore-haty; condotti-met; ossa 215 Corpo attuale: Umori Corpo inviluppo: viscere della cavità Shet CAPITOLO VII LA VISIONE DEL MONDO: MODELLI EGIZIANI E MODELLI GRECI 1. Un sistema di pensiero alternativo a quello greco? Le analisi relative alla speculazione ontologica e antropologica egiziana, sviluppate nei capitoli precedenti, hanno evidenziato i tratti distintivi di un sistema di pensiero originale, impostato in modo diverso rispetto a quello greco. Generalmente, il pensiero egiziano viene definito «religioso». Si parla, infatti, di «religione egiziana», ma difficilmente di «filosofia egiziana». E’ sicuramente innegabile la rilevanza della componente religiosa e liturgica nei testi egiziani. Il concetto di religione che troviamo in Egitto è, tuttavia, differente rispetto a quello che si è consolidato nella nostra cultura. E non alludiamo semplicemente all’aspetto politeistico. Anzitutto, gli Egizi non pongono all’origine delle loro concezioni «religiose» una rivelazione unica da parte di una divinità. In secondo luogo, essi non costruiscono un sistema dogmatico codificato definitivamente in uno o più testi canonici. L’elemento più peculiare della cultura faraonica è stato sempre quello che Henri Frankfort ha definito multiplicity of approaches.663 Il pensiero egiziano, infatti, non assume contenuti univoci, ma contempla la possibilità di più livelli di lettura della realtà. Esso si configura, quindi, come un sistema aperto, sempre in fieri. L’uomo e il mondo per gli Egizi sono come i templi che essi erigevano, sono sempre «in costruzione». Abbiamo, infatti, già avuto modo di rilevare che in Egitto i templi, pur essendo costruiti sulla base di un ordine e un’articolazione prestabiliti, non escludevano la possibilità di estensioni e modifiche. Ogni sovrano poteva effettuare dei cambiamenti in un tempio, senza tuttavia comprometterne la struttura fondamentale. Sia la sfera divina che quella umana sono concepite come la risultante di una molteplicità di componenti. Secondo questa visione, ogni elemento costitutivo della personalità umana o di quella divina non rappresenta una sostanza né indipendente né contrapposta alle altre, bensì l’epifania di un’unica e medesima realtà. Uomo e dio, 663 Cfr. H. Frankfort, Myth and reality, in The intellectual adventure of ancient man, The University of Chicago Press, Chicago 1946, pp. 3 sgg. Cfr. anche Id., Ancient Egyptian religion, Columbia University Press, New York 1949, pp. 3 sgg. Cfr., inoltre, quanto afferma P. Derchain sulla «religione» egiziana in Le Papyrus Salt 825 (B.M. 10051), rituel pour la conservation de la vie en Égypte, Académie Royale de Belgique, Bruxelles 1965, pp. 3 sgg. 216 inoltre, non sono intesi come due dimensioni separate e incommensurabili, ma come differenti espressioni dello stesso universo. Nella teologia egiziana, il ruolo di essere supremo può essere di volta in volta impersonato da qualunque dio del pantheon, in alcuni casi anche da dei locali, di importanza relativamente minore. L’uomo egiziano, dunque, in una determinata epoca e in relazione a una circostanza ben precisa «sceglie un dio, che per lui in quel momento significa tutto»664. Questo fenomeno, che non è rimasto circoscritto soltanto all’Egitto, è stato indicato dallo storico delle religioni Friedrich Max Müller con il termine «enoteismo». Questi afferma: «Ogni dio è, per la mente del supplicante, buono come tutti gli altri. Esso viene pensato, nello stesso tempo, come vera divinità, suprema ed assoluta, nonostante le necessarie limitazioni che, per la nostra comprensione, una pluralità di dei deve imporre ad ogni singolo dio. Tutto il resto scompare di fronte all’orante e solo colui che può appagare i suoi desideri si trova in piena luce davanti ai suoi occhi».665 I singoli dei, come le componenti della personalità umana, anziché contrapporsi o escludersi a vicenda, si completano, dando luogo a un mondo variegato e nello stesso tempo unitario.666 Gli dei egiziani, inoltre, a differenza di quelli greci, non si presentano a noi come figure chiare e definite. Essi mostrano una natura fluida, variabile, sottraendosi, così, ad ogni determinazione definitiva. All’osservatore moderno un simile pensiero può apparire quantomeno confuso. Hornung osserva in proposito: «Secondo i principi della logica occidentale sarebbe una contraddizione impossibile per il divino apparire al fedele come uno, quasi assoluto, e poi di nuovo come una molteplicità per noi sconcertante».667 Non stupisce, quindi, che in più occasioni il pensiero egizio sia stato giudicato «illogico» o, nel migliore dei casi, «prelogico». Frankfort, tuttavia, mette in guardia chi si accosta alla cultura egiziana dal formulare giudizi troppo sbrigativi: «Noi troviamo, dunque, nella religione egiziana un numero di dottrine che ci colpiscono in quanto contraddittorie; ma è pura presunzione accusare gli antichi di avere le idee confuse a questo riguardo. […] Gli antichi non tentarono di risolvere i problemi fondamentali mettendo a confronto l’uomo con una 664 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 210. 665 F. M. Müller, Lectures on the origin and growth of religion, Longmans, Green, and Co. Williams and Norgate, London 1878, pp. 285 sg. 666 Per una maggiore intelligibilità del discorso, possiamo impostare la seguente proporzione: singola componente umana : costellazione Uomo = singola componente divina : essere divino = singolo dio : pantheon. 667 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 211. 217 teoria singola e coerente; questo è stato il metodo di approccio a partire dall’epoca dei Greci. Il pensiero antico – pensiero mitopoietico, “costruttore di miti” – ammetteva fianco a fianco delle intuizioni certamente limitate, che erano ritenute valide simultaneamente, ciascuna nel suo proprio contesto, ciascuna corrispondendo a un tipo definito di approccio».668 La nostra posizione si associa a quella di quegli studiosi che, come quelli che abbiamo appena citato, vedono nell’impostazione tipica della cultura egizia un sistema logico «diverso» o, detto altrimenti, alternativo a quello tuttora predominante. Anche il pensiero dell’antico Egitto, come la filosofia greca, manifesta l’esigenza di gestire le opposizioni; per l’Egiziano, tuttavia, esse non si elidono mai a vicenda, bensì si integrano, si completano. Un determinato soggetto può avere proprietà «incompatibili». Il cielo, per esempio, rivela diverse nature che coesistono: esso è mucca, baldacchino, acqua, donna, la dea Nut e la dea Hathor. In questo contesto, il principio di non contraddizione, difeso da Aristotele nel IV libro della Metafisica e fatto assurgere ad assioma fondamentale di tutte le scienze, non sembra assumere lo stesso ruolo fondante che ha nel sistema filosofico aristotelico.669 Abbiamo a che fare, invece, con una «logica» polivalente o della «complementarietà».670 Proprietà contrarie, infatti, almeno in alcuni casi, ineriscono contemporaneamente allo stesso soggetto. Aristotele nega la possibilità della compresenza dei contrari (ejnantiva) in una stessa cosa. Nelle Categorie, leggiamo: «In realtà, quando tutti siano in salute, sussisterà la salute, e la malattia invece no; analogamente, quando tutti gli oggetti siano bianchi, sussisterà la bianchezza, ma non la nerezza. Oltre a ciò, se il dire: Socrate è sano, risulta il contrario del dire: Socrate è ammalato, e se d’altro canto non è possibile che queste due determinazioni appartengano simultaneamente al medesimo oggetto, non potrà darsi allora che, sussistendo uno dei due contrari, sussista anche l’altro».671 668 H. Frankfort, Ancient Egyptian religion, cit., pp. 3 sg. 669 La formulazione più nota del principio di non contraddizione è contenuta in Metafisica, IV, 3, 1005 b, 19-20. Essa suona così: «E’ impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto». Nel capitolo successivo, il quarto, lo Stagirita prende le difese di questo principio, sviluppando un’argomentazione complessa e tuttora oggetto di controversia esegetica. Non è questa la sede per esaminarla nel dettaglio. 670 Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 213 sgg. 671 Aristotele, Categorie, 11, 14 a, 8-13, in Id., Organon, trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1955. Aristotele sviluppa una teoria delle opposizioni (ajntikeivmena) nel capitolo 10 delle Categorie. L’analisi condotta dallo Stagirita esordice in questo modo: «Un oggetto si dice opporsi ad un altro in quattro modi: una prima forma di opposizione è quella dei termini relativi, una seconda è dei contrari, una terza sussiste tra privazione e possesso, 218 Il pensiero platonico ammette, invece, la compresenza dei contrari, ma soltanto nel mondo sensibile, concepito come una dimensione che partecipa dell’essere e del non essere. Nel libro V della Repubblica, la qualità distintiva del filosofo viene individuata nella sua capacità di cogliere l’idea che sta a monte di una molteplicità di oggetti. Per esempio, il filosofo è in grado di cogliere il bello in sé, non limitandosi, quindi, alla semplice considerazione delle cose belle. A colui che non crede nell’esistenza di «una idea di bellezza sempre identica a se stessa», Platone si rivolge in questi termini: «Ottimo uomo […] delle molte cose belle ve n’è forse qualcuna che non possa apparire anche brutta? E delle giuste, ingiusta? E delle sante, empia? […] E così, le quantità doppie non possono apparire tanto come metà quanto come doppie? […] Così le cose grandi e le piccole, le leggere e le pesanti, forse che c’è più ragione a chiamarle così piuttosto che col nome contrario?»672 In generale, la filosofia platonica è più vicina al pensiero egiziano di quella aristotelica. In più occasioni, Platone parla dell’Egitto con ammirazione, descrivendolo come un paese depositario di un’antica tradizione, che rappresenta un modello anche per i Greci. Nel Timeo, per esempio, Crizia narra il viaggio che Solone avrebbe compiuto in Egitto. Secondo il racconto, un anziano sacerdote di Sais si rivolse al celebre ateniese con queste parole: «“Solone, Solone, sempre fanciulli siete voialtri greci, mai vecchio è un greco”. E Solone udito questo: “Cosa vuoi dire?”. E allora il sacerdote: “Tutti giovani siete di spirito! Ché in voi nessuna opinione antica, prova di vecchia tradizione, avete, né sapienza alcuna bianca di tempo”».673 Nelle Leggi, a proposito della legislazione relativa all’educazione e dell’opportunità che la formazione dei giovani sia affidata all’estro dei poeti, alla domanda di Clinia «E allora, come dici che vien regolata in Egitto tale materia?» l’Ateniese risponde: «Meravigliosamente, anche al solo sentirne parlare. Dai più lontani tempi, sembra, fu da essi riconosciuto quel principio razionale che noi sosteniamo ora, e cioè che negli una quarta tra affermazione e negazione. Ecco un’esemplificazione sommaria, per ciascuna di tali opposizioni: i termini relativi si oppongono come il doppio alla metà; i contrari si oppongono come il male al bene; la privazione si oppone al possesso come la cecità alla vista; l’affermazione si oppone alla negazione come sta seduto – non sta seduto» (11 b, 17-23; abbiamo modificato la trad. di Colli, rendendo ajntikei`sqai con «opporsi» anziché «contrapporsi»). Una dottrina analoga viene esposta nei libri V e X della Metafisica. 672 Platone, Repubblica, V, 479 a-b. Il tema della presenza della bruttezza nelle molteplici cose belle è affrontato da Platone anche in uno dei dialoghi della cosiddetta «fase socratica», l’Ippia maggiore. Anche in questo contesto, viene postulata la coesistenza dei contrari nel mondo sensibile (cfr., in particolare, 289 a-d). Nel dialogo, tuttavia, non si perviene a una reale soluzione del problema, in quanto la dottrina delle idee non è ancora stata sufficientemente elaborata da Platone. 219 Stati i giovani debbono abitualmente occuparsi delle belle movenze e dei bei canti. Definiti quindi quali sono e come debbono essere, ne esposero i modelli nei templi, né fu permesso che i pittori, o tutti coloro che in qualche modo rappresentano figure o altre cose del genere, le trasformassero o ne immaginassero di nuove, ad eccezione di quelle patrie; ed anche oggi tutto questo è loro proibito, sia per le arti figurative come per ogni altro tipo d’arte».674 Tornando alla struttura del pensiero egiziano, Hornung, cercando di coglierne la peculiarità, pone l’accento sulle difficoltà di approccio che essa comporta: «Fintantoché la base intellettuale di una logica polivalente rimane incerta, possiamo indicare solo prospettive, ma nessuna soluzione valida. Se la base non è stabilita, allora il pensiero egiziano e il pensiero “pre-greco” in genere, rimarranno esposti in avvenire all’arbitrio o alla confusione. Se essa è trovata, allora possiamo comprendere l’uno e i molti come affermazioni complementari, i cui veri valori non si escludono nel sistema di una logica polivalente, ma contribuiscono insieme a tutta la verità».675 La questione relativa alla struttura del pensiero egiziano presenta, tuttavia, un aspetto ulteriore, decisamente complesso da gestire. Un sistema di pensiero si traduce in un linguaggio e in una scrittura. Questi ultimi orientano l’approccio nei confronti della realtà. Senza avere la pretesa di voler enucleare un problema tanto dibattuto, ci limitiamo a sottolineare la particolarità della scrittura geroglifica egiziana, nella quale il singolo segno può essere contemporaneamente figura e lettera. L’aspetto figurativo e, per così dire, «simbolico» dei geroglifici fu considerato dal mondo occidentale, fino alla nascita della moderna egittologia, l’essenza di questo sistema di scrittura. Per i neoplatonici di età tardo-antica la scrittura geroglifica era quella che maggiormente si avvicinava alla forma di conoscenza che un dio o un’intelligenza superiore potevano avere della natura e dell’universo. Nelle Enneadi, Plotino afferma che «i saggi di Egitto […] quando volevano rivelare la loro sapienza, non si servivano dei segni delle lettere, che designano parole e proposizioni ma non corrispondono alla pronuncia e al significato delle cose dette, ma disegnavano figure <geroglifici>, ciascuna delle quali significava una singola cosa, e ne decoravano i templi per mostrare che il procedimento discorsivo non appartiene al mondo di lassù, 673 Platone, Timeo, 22 b. Agli occhi di Platone, l’Egitto appare come la cornice ideale in cui narrare le imprese gloriose di un’Atene mitica contro le mire espansionistiche del popolo di Atlantide. Cfr. Timeo, 23 c – 25 d. 674 Platone, Leggi, II, 656 d-e, trad. it. di F. Adorno, in Id., Dialoghi politici, lettere, vol. II, Utet, Torino 1970. 675 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 214. 220 in quanto ciascun individuo è anche una scienza e ciascuna figura è sapienza, soggetto e sintesi, e non un pensiero discorsivo né un progetto»676. Molti secoli più tardi, questo stesso brano, tradotto e commentato da Marsilio Ficino, i testi attribuiti alla figura mitica di Ermete Trismegisto e gli Hieroglyphica di Orapollo, giunti a Firenze nel 1422, hanno improntato tutta la speculazione rinascimentale intorno alla scrittura egiziana. Il sistema geroglifico, secondo Ficino, riproduce il pensiero divino, poiché oltrepassando i limiti del procedere discorsivo, offre una visione immediata e completa delle cose. Tutta la tradizione ermetica vede nella lingua egiziana uno strumento dotato di potere magico, di forza creatrice e ad essa contrappone la lingua greca, puramente intellettuale e astratta. Gli studiosi del Rinascimento trovavano la conferma definitiva di questa concezione proprio nell’opera di Orapollo. Questi interpretava, infatti, la scrittura egiziana in senso puramente simbolico. I capitoli degli Hieroglyphica seguono generalmente uno schema ternario: viene prima indicato il significato di un geroglifico, successivamente l’immagine che lo veicola e, infine, la relazione simbolica tra i due aspetti, argomentata attraverso ragionamenti «filosofici» simili a quelli che si trovano nei bestiari medievali.677 Con la decifrazione della grafia egiziana ad opera di Champollion, evento che ha inaugurato la moderna egittologia, si è iniziato a vedere nel geroglifico quasi esclusivamente un segno che indica una o più lettere. Sulla base di questo nuovo approccio, diversi studiosi hanno interpretato la scrittura iconica egiziana come una versione meno pratica e avanzata di una scrittura alfabetica. Attualmente, gli egittologi raggruppano i geroglifici in due grandi classi: a) i segni con valore fonetico; b) quelli che hanno esclusivamente un valore semantico. I segni che appartengono alla prima classe si dividono, a loro volta, in due gruppi: 1) ideogrammi: esprimono una parola, ossia significano ciò che rappresentano; per esempio, per esprimere il termine «braccio», si disegna un braccio stilizzato: 2) fonogrammi: specificano uno o più suoni; sono segni che vengono usati per il loro valore fonetico, indipendentemente da ciò che rappresentano. 676 Plotino, Enneadi, V, 8, 6, trad. it. di G. Faggin, Bompiani, Milano 2000. 677 Cfr. E. Iversen, The Myth of Egypt and its Hieroglyphs in European Tradition, Gad, Copenhagen 1961, p. 48. 221 I segni semantici, detti «determinativi» e posti alla fine delle parole, permettono, invece, di distinguere «visivamente» due termini scritti nello stesso modo ma di significato differente. Numerosi geroglifici assumono, tuttavia, secondo il contesto in cui sono inseriti, le funzioni di ideogramma, di fonogramma o di determinativo.678 A differenza delle lingue che, come quella greca, si scrivono utilizzando dei segni «alfabetici», la lingua egiziana forma con la scrittura geroglifica un’unità compatta. «Ne consegue – sostiene Alessandro Roccati – che […] questa scrittura può scrivere solo una lingua unica e che la rappresentazione di questa lingua è così intimamente legata alla scrittura predisposta, che questa si presenta come una proiezione visiva di essa».679 In virtù di questa peculiarità della lingua egiziana, l’aspetto «visivo» svolge nell’economia del pensiero degli abitanti della Valle del Nilo un ruolo di importanza non inferiore a quello svolto dall’aspetto «discorsivo». Il confine tra scrittura e immagine non è mai netto e definito. Ad alcuni segni grafici, raffiguranti oggetti vari, viene aggiunto un paio di gambe umane; troviamo allora un vaso, un chiavistello o un contenitore di acqua sopra delle gambe. Si tratta, in genere, di verbi di movimento, in cui il segno delle gambe ha una funzione semantica. Alcuni oggetti vengono, invece, personificati apponendo loro una testa umana. Altri segni si trasformano, all’occasione, in creature con braccia e gambe, in grado di muoversi e di agire. Ogni geroglifico presenta, inoltre, una cromia peculiare, almeno in origine. La varietà cromatica della realtà si riflette così nella policromia dei geroglifici. A quanto sembra, dunque, l’approccio allo spirito dell’antico Egitto non può limitarsi esclusivamente all’impiego dello strumento «filologico»: «Per poter decifrare le frasi egiziane si rivela sempre più urgente anche la comprensione della lingua delle immagini. […] La scrittura egiziana si compone di tutta una serie di segni il cui significato non si esaurisce in un semplice valore fonetico, ampiamente utilizzati anche al di fuori della scrittura come simboli carichi di significato, o ancor più concretamente come amuleti efficaci. […] Si tende ad attribuire ad un segno grafico un unico significato, una lettura fissa, mentre un simbolo è per sua natura ambiguo e polivalente».680 Le parole e i concetti egiziani in contesti differenti si rivestono di sfumature nuove, sono, cioè, polivalenti. Un cosmo «simbolico» o polivalente, come quello egiziano, si 678 Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 13 sgg. 679 A. Roccati, Introduzione allo studio dell’egiziano, Salerno Editrice, Roma 2008, p. 17. 680 E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 27 sgg. 222 fonda sulla complementarietà degli opposti. Eraclito afferma che «la via in su e la via in giù sono una sola e medesima via».681 Con Parmenide, invece, il mondo non è più polivalente e gli opposti non dialogano più tra loro. La divaricazione dei «sentieri» (kevleuqoi), quello del Giorno e quello della Notte, esige una scelta. Si delinea così un diverso modo di pensare.682 Aristotele giudica in modo negativo l’ambiguità linguistica. Quest’ultima genera un sillogismo e una confutazione che «sembrano tali, ma non lo sono».683 Coloro che traggono vantaggio da ciò sono i sofisti che, secondo lo Stagirita, fingono di essere saggi per ricavarne un guadagno. In Platone riscontriamo, invece, un atteggiamento più flessibile. In un passo del Teeteto, infatti, Socrate afferma: «Maneggiare disinvoltamente nomi ed espressioni senza sottoporli a esame accurato per lo più non è ignobile, anzi è piuttosto il contrario di questo ad essere indegno di un uomo libero».684 Subito dopo, tuttavia, il filosofo aggiunge che in certi casi è richiesta una maggiore precisione, come nella questione che sta trattando con i suoi interlocutori: «ma talvolta è necessario [il contrario della disinvoltura], per esempio anche ora è necessario riprendere la risposta che hai dato là dove non è corretta».685 Il quadro presentato rivela l’ampiezza e la complessità del problema relativo alla struttura e alle implicazioni del sistema «logico» egiziano e al suo rapporto con la speculazione greca. Il nostro obiettivo è quello di individuare, all’interno di un tema tanto vasto e impegnativo, dei possibili itinerari concettuali, che ci consentano di chiarire meglio lo «statuto» del pensiero egiziano e di individuare degli eventuali punti di contatto o delle cesure nette con la filosofia greca. Il percorso che seguiremo nel prosieguo del capitolo si concentrerà principalmente sull’impostazione e sulle tendenze della matematica egiziana e su alcuni aspetti della matematica e della dialettica greche e avrà come approdo il modello di scienza codificato nelle opere di Aristotele e di Euclide. La riflessione matematica rappresenta, a nostro avviso, un terreno indubbiamente favorevole sul quale operare un confronto tra il modo di 681 Eraclito, B 60, trad. it. di G. Reale, in I Presocratici, cit. 682 Menzionando Eraclito e Parmenide, ci limitiamo a tracciare un parallelo formale, suggerito dalle considerazioni di alcuni studiosi. Piankoff, per es., rileva una certa affinità tra la speculazione egiziana e il pensiero di Eraclito. Riferendosi alle concezioni teologiche, l’egittologo afferma: «Non è una mistica, ma una fisica […] una fisica, tuttavia, che ricorda stranamente le idee di Eraclito di Efeso» (La création du disque solaire, Imprimerie de l'Institut d'Archéologie Orientale, Le Caire 1953, p. 1). 683 Cfr. Aristotele, Confutazioni sofistiche, 1, 165 a, 18-19. 684 Platone, Teeteto, 184 c, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol II, cit. 223 pensare egiziano e il modo di pensare greco, in quanto ci consente di disporre di dati maggiormente intelligibili. Dalla matematica, inoltre, emergono in modo particolarmente chiaro i meccanismi del pensiero di una civiltà. 2. Un «metodo» per conoscere tutto ciò che esiste Un notevole limite per gli studiosi della matematica egiziana consiste nell’esiguità delle fonti pervenuteci. A differenza di quanto è avvenuto nella regione mesopotamica, in Egitto sono giunti fino a noi soltanto pochi documenti di argomento matematico. Questa lacuna rende difficile valutare l’effettiva portata delle conoscenze egiziane in ambito matematico ed espone al rischio di formulare dei giudizi mal documentati. I testi reperiti sono scritti soprattutto su papiro; possediamo anche alcuni ostraca e un eccezionale rotolo di cuoio. Le due fonti principali sono costituite dal papiro di Rhind e dal papiro di Mosca, risalenti al Medio Regno. Gli altri documenti non aggiungono nulla di essenziale a quanto possiamo ricavare da questi due papiri. Tutti questi testi si presentano nella forma di manuali di matematica per studenti. L’elemento che maggiormente induce gli studiosi a questa ipotesi è l’impostazione dei testi stessi. Essi si concentrano sul metodo corretto di risoluzione dei problemi, ma non espongono una teoria razionale o delle leggi matematiche che chiariscano le procedure applicate. Ogni eventuale teoria con le sue implicazioni filosofiche ed epistemologiche deve, quindi, essere dedotta indirettamente dall’utilizzo pratico che ne viene fatto. Dei testi matematici che ci sono pervenuti solo il papiro di Rhind ha conservato un titolo. Si tratta dell’unica dichiarazione esplicita relativa al concetto egizio di matematica. Essa recita: «tp Hsb n hAt m xt rx ntt nbt snk […] StAt nbt». «procedimento corretto per scendere nelle cose, conoscere tutto ciò che esiste, [ogni] mistero […] ogni segreto».686 685 Ibid. 686 La trad. è nostra. Proponiamo alcune delle trad. di questo titolo: «Rules for enquiring into nature, and for knowing all that exists, (every) mystery, […] every secret» (T. E. Peet, 1923); «Les règles pour faire des recherches sur la nature, pour connaître tout ce qui existe, chaque mystère et chaque secret» (A. Rey, 1942); «Règles pour étudier la nature, et pour comprendre tout ce qui existe, chaque mystère, chaque secret!» (J. Vercoutter, 1957); «Méthode correcte d’investigation dans la nature, pour connaître tout ce qui existe, chaque mystère, tous les secrets» (T. Obenga, 1990); «Exemple de calcul afin de sonder les choses et connaître tout ce qui est obscur … ainsi que tous les secrets» (S. Couchoud, 1993); «Metodo corretto di entrare nella natura, conoscere tutto ciò che esiste, ogni mistero, ogni segreto» (A. Cartocci, 2007). 224 Nel tentativo di dimostrare che l’uomo egiziano era capace di un certo grado di sistematicità e di astrazione nel pensare, Obenga dirige la sua attenzione sul termine tp-Hsb che traduce con l’espressione «metodo corretto» (méthode correcte). Questo termine manifesterebbe, nel pensiero egizio, un’esigenza teorica di primaria importanza in ogni attività scientifica: «Il metodo è essenzialmente un’operazione logica che mira a raggiungere un risultato determinato, segnalando certi errori da evitare. Si tratta, in fondo, di ragionare correttamente e di evitare l’errore. […] Dall’antico Egitto […] il problema filosofico decisivo, trattandosi di matematica in particolare e di scienze in generale, il problema centrale, dunque, è stato sempre quello di conoscere le operazioni logiche attraverso le quali la mente umana passa per raggiungere la verità, evitando l’errore: è ciò che gli Egiziani chiamavano tep-heseb, “regole”, “metodo corretto” per studiare la natura in tutti i suoi recessi in maniera esatta».687 Precedentemente anche Thomas Eric Peet, curatore di una celebre edizione del papiro di Rhind, traducendo il termine tp-Hsb con «esattezza» (accuracy), aveva ritenuto che l’espressione potesse essere intesa come «metodo corretto per» (correct method for).688 Secondo il Wörterbuch der aegyptischen Sprache, il verbo Hsb significa «contare» (rechnen, berechnen) e il termine composto tp Hsb assume il significato di «calcolo esatto», «esattezza» (richtige Berechnung, Richtigkeit).689 Il dizionario di Hannig, infine, conferma questa interpretazione.690 Per lo scriba egizio, dunque, l’esattezza e il procedere rigoroso sono le caratteristiche fondamentali della matematica. I termini che, nel titolo in questione, seguono l’espressione tep-heseb mettono in evidenza, invece, l’oggetto e il raggio d’azione di questo strumento. Attraverso la matematica lo spirito umano può «scendere nelle cose» (n hAt m xt) e «conoscere tutto ciò che esiste» (rx ntt nbt). L’orizzonte che questo «metodo» dischiude è, dunque, la natura nel suo complesso, ossia tutta quanta la realtà, nei suoi aspetti manifesti e in quelli nascosti. Come abbiamo rilevato nel primo capitolo, secondo la cultura egiziana, gli dei condividono con gli uomini lo stesso mondo. La dimensione divina, 687 T. Obenga, La philosophie africaine de la période pharaonique, cit., p. 361. 688 T. E. Peet, The Rhind Mathematical Papyrus British Museum 10057 and 10058, Hodder & Stoughton, London 1923, p. 33. 689 Cfr. Wb, III, pp. 166 sg. 690 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 603. 225 pertanto, non costituendo una regione trascendente rispetto al resto della creazione, può essere fatta rientrare a pieno titolo nel campo d’indagine della matematica, anche se nel papiro di Rhind e negli altri testi di argomento matematico non si parla mai esplicitamente di divinità. A favore di questa tesi ci sono anche altri indizi. In pressoché tutte le civiltà antiche alcuni numeri o determinati rapporti matematici sono considerati «divini». Per ordinare le divinità e i loro attributi, gli Egiziani seguono generalmente degli schemi numerici. I numeri che risaltano maggiormente sono il due, il tre, il quattro, il sette e il nove.691 L’ordinamento più semplice è costituito dalla coppia di dei: per esempio, Horo e Seth o Iside e Nephtys. Se viene aggiunto un figlio alla coppia divina si ottiene la triade, che rappresenta la forma ordinativa più diffusa tra gli dei egiziani. Una triade molto importante è, per esempio, quella di Menfi, composta da Ptah, Sekhmet e Nefertum. Anche il numero quattro ricorre spesso nella teologia egiziana; basti pensare ai quattro figli di Horo o ai quattro sostegni del cielo. La rilevanza del numero sette, numero magico per eccellenza, è attestata in pressoché tutte le culture antiche. Già nei Testi delle Piramidi il sette e i suoi multipli sono menzionati come numeri sacri.692 Nel Nuovo Regno, il dio Ra è dotato di sette ba e quattordici ka. L’enneade è, invece, lo schema che rappresenta la creazione ormai completa e strutturata. Vogliamo infine rammentare che i sottomultipli dell’heqat (HqAt), un’unità di misura per i volumi, sono in relazione con le parti dell’occhio di Horo, uno dei simboli principali della religione egiziana. E’ possibile, dunque, sostenere che, per gli Egiziani, la matematica, in quanto conoscenza della realtà naturale, è anche conoscenza della divinità. In proposito, è interessante il parallelo che si può rilevare tra il titolo del papiro di Rhind e quello dell’Onomasticon di Amenope, un testo risalente all’epoca ramesside (XX dinastia).693 L’Onomasticon è costituito da una lista di nomi ripartiti per categorie, che ha lo scopo di organizzare il sapere. Anche in questo contesto si afferma che quanto viene insegnato permette di conoscere «tutto ciò che esiste». In questo caso, tuttavia, il titolo specifica meglio l’oggetto dell’indagine: 691 Sull’importanza del numero nella teologia e nella magia egiziane cfr., per es., J.-C. Goyon, Nombre et univers: réflexions sur quelques données numériques de l’arsenal magique de l’Égypte pharaonique, in A. Roccati, A. Siliotti (a cura di), La magia in Egitto ai tempi dei faraoni. Atti del convegno internazionale di studi, Milano 2931 ottobre 1985, Rassegna Internazionale di Cinematografia Archeologica Arte e Natura Libri, Verona 1987, pp. 57 sgg. 692 Cfr. Pyr, 511 a-c. 226 «Ciò che Ptah ha creato, ciò che Thot ha trascritto, il cielo con i suoi disegni [Ssrw], la terra e ciò che è in essa, ciò che le montagne hanno vomitato [qa], ciò che è bagnato dall’inondazione, ogni cosa sulla quale Ra ha brillato, tutto ciò che è cresciuto sul dorso della terra».694 Tra le parole elencate nel testo, inoltre, compaiono i nomi «dio» (nTr), «dea» (nTrt), akh (Ax).695 Viene, quindi, stabilita palesemente una relazione tra conoscenza, natura e divinità: «Appare dunque chiaro che, come il conoscere la natura per mezzo delle parole che descrivono il reale permette di conoscere anche la creazione degli dei, così la stessa conoscenza può essere raggiunta per mezzo dello studio dei numeri».696 Prima di entrare nel merito dell’impostazione caratteristica della matematica egiziana, vorremmo soffermarci ancora sulla struttura formale dei due principali testi matematici pervenutici e sul ruolo che per gli Egizi riveste il sapere matematico nel processo conoscitivo. I due testi in questione presentano un contenuto piuttosto scarno ed entrambi hanno l’aspetto di un’antologia di esercizi, accompagnati dalle loro soluzioni. Nel caso del papiro di Rhind, gli esercizi sono preceduti dalle tavole necessarie per i calcoli. Alla luce di questi documenti la matematica egiziana rischia di apparire una disciplina abbastanza «primitiva». Questa è stata, in effetti, l’opinione di diversi studiosi, tra cui Otto Neugebauer, che scrisse: «il fatto che la matematica egizia si sia mantenuta ad un livello relativamente primitivo ci permette di studiare una fase di sviluppo che non ci è più accessibile in una forma così semplice tranne che nei documenti egizi».697 Tuttavia, secondo Maurice Caveing, un esame approfondito di questi testi mostra che non tutto è stato consegnato allo scritto, bensì solo l’essenziale. Negli esercizi, infatti, non tutti i conti sono stati trascritti, ma è presente solo ciò che serve a evidenziare i passaggi. Questo aspetto ha fatto supporre a Caveing che in Egitto il calcolo mentale fosse particolarmente sviluppato: «Calcolo mentale o calcoli ausiliari non messi per iscritto suggeriscono che la parte scritta è costituita da risultati organizzati allo scopo di comunicare un insegnamento che contiene soltanto l’essenziale e che riporta 693 Cfr. A. Cartocci, La matematica degli Egizi. I papiri matematici del Medio Regno, Firenze University Press, Firenze 2007, pp. 80 sg. 694 The Onomasticon of Amenope, in M. Clagett, Ancient Egyptian Science, vol. I, American Philosophical Society, Philadelphia 1989, p. 247. La traduzione del passo segue quella inglese di A. Gardiner. 695 Cfr. ibid., p. 248. 696 A. Cartocci, La matematica degli Egizi. I papiri matematici del Medio Regno, cit., p. 81. 697 O. Neugebauer, Le scienze esatte nell’Antichità, trad. it. di A. Carugo, Feltrinelli, Milano 1974, p. 95. 227 solamente dei numeri accuratamente scelti con quest’intenzione».698 Questi testi matematici non sarebbero soltanto una raccolta di problemi, ma un insieme di modelli procedurali che trasmetterebbero l’insegnamento attraverso l’esempio. Ciò spiegherebbe la scelta in molti casi arbitraria dei valori numerici e il fatto che numerosi problemi cominciano con la formula «esempio di» (tp n). Gli 87 problemi del papiro di Rhind, inoltre, sono raggruppati secondo le tipologie di calcolo necessarie a risolverli. Caveing illustra in questo modo i passi che l’utilizzatore del testo deve seguire: a) riconoscere la tipologia del problema; b) effettuare la sostituzione dei dati numerici; c) applicare la procedura mostrata dall’esempio; d) effettuare i calcoli ausiliari, sia per iscritto che mentalmente. Il testo spiega anche come verificare i conti attraverso una «prova», consistente nell’introdurre il risultato ottenuto nell’espressione numerica dell’enunciato per riottenere i dati di partenza: «questo torna a effettuare una sintesi dopo aver cercato per analisi».699 Tutti questi aspetti fanno pensare, dunque, a un certo grado di sistematicità e astrazione nella matematica egiziana. Alcuni studiosi si sono spinti oltre. Secondo O. Gillain, la verifica finale che conclude i singoli problemi esprime un’esigenza dello «spirito razionale»; essa non avrebbe senso, infatti, in un contesto puramente «empirico». La funzione della prova eseguita dallo scriba al termine del calcolo sarebbe analoga a quella del moderno C.V.D., la formula conclusiva di una dimostrazione matematica: «Egli non si affida, dunque, all’intuizione empirica, ma aspira a qualcosa d’altro. E questo qualcosa d’altro è la soddisfazione logica».700 In effetti, attraverso la prova lo scriba non si limita a fare un controllo, egli mostra in primo luogo che il risultato ottenuto risponde alla domanda iniziale.701 Anche Obenga, relativamente alle procedure della matematica egiziana, esprime delle 698 M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, Presses universitaires de Lille, Lille 1994, p. 381. 699 Ibid., p. 383. 700 O. Gillain, La science égyptienne, Édition de la Fondation Égyptologique Reine Élisabeth, Bruxelles 1927, p. 306. 701 Il tipo di domanda individua la procedura matematica da impiegare nella risoluzione del problema. In proposito, Caveing osserva: «Ciò che riceve un nome nella classificazione non è la procedura risolutoria, né il metodo che la ispira, ma il tipo di domanda posta: qual è il “complemento”? Qual è la quantità incognita? Quali sono le parti?». Lo studioso aggiunge poco oltre: «Ci si può dunque domandare se tutto ciò non oltrepassi il livello di una tecnica, la cui sistematizzazione è, però, sufficientemente sviluppata perché l’astrazione vi si profili» (Id., Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., p. 384). 228 considerazioni analoghe: «Così, in tutta obiettività, lo scriba manifesta uno spirito logico, scientifico che non si accontenta soltanto di affermare, ma che vuole provare, dimostrare tecnicamente, attraverso il calcolo, ciò che afferma».702 Merita menzionare, tuttavia, l’invito alla prudenza di Caveing, il quale, pur riconoscendo al sapere matematico egiziano una certa sistematicità e una certa capacità di astrazione, esclude che si possa parlare di «scienza razionale», in senso moderno.703 La matematica egiziana, dunque, non è una disciplina puramente empirica e legata soltanto alle contingenze quotidiane né è una scienza astratta, che ha per scopo esclusivamente una conoscenza teorica. Essa è concepita come una scienza «pratica», finalizzata allo studio della natura e dei suoi fenomeni. Si tratta di uno strumento funzionale a una «fisica», intesa come misura di quantità e grandezze del mondo sensibile,704 ma, nello stesso tempo, anche di una disciplina legata inscindibilmente a problematiche di ordine filosofico e teologico. Infatti, come rileva Sauneron, «questa scienza fu costruita progressivamente da uomini che vivevano in un mondo fondamentalmente orientato verso i problemi religiosi – la teologia – e l’esercizio del culto: essa è dunque d’intenzione pratica – ma pratica nell’ambito di un sistema spirituale fissato».705 Il numero è, quindi, la chiave per accedere ai segreti dell’intero creato e le procedure matematiche sono l’espressione dell’ordine e delle leggi dell’universo. 3. L’impostazione «logica» della matematica egiziana Il concetto di numero sviluppato dalla civiltà egiziana emerge dal particolare sistema di notazione adottato. Questo sistema è presente già all’inizio dell’epoca dinastica, in forma strutturata e completa. Esso utilizza sette segni, ognuno dei quali può essere ripetuto al più nove volte. Questi segni rappresentano le prime sette potenze di 10, da 100 a 106. Schematicamente, il sistema di notazione degli interi naturali si presenta così:706 702 T. Obenga, La philosophie africaine de la période pharaonique, cit., p. 375. 703 Cfr. M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., pp. 384 sgg. 704 Cfr. ibid., pp. 388 sg. 705 S. Sauneron, Les prêtres de l’ancienne Égypte, Éditions du Seuil, Paris 1998, p. 134. 229 Ordine di grandezza Potenza Segno unità 100 | decine 101 centinaia 102 migliaia 103 decine di migliaia 104 centinaia di migliaia 105 milioni 106 Nella grafia di un numero intero i simboli delle cifre di ordine superiore precedono quelli delle cifre di ordine inferiore. I simboli dello stesso ordine possono essere scritti in sequenza orizzontale o assemblati in linee sovrapposte. Come risulta subito evidente, questo tipo di notazione, a differenza di quella utilizzata da noi attualmente, non è posizionale, ossia l’ordine di grandezza di una cifra non è determinato dalla sua posizione nella sequenza numerica. Il sistema non prevede, quindi, la possibilità di contare all’infinito. Esso è applicabile soltanto agli interi naturali (con l’esclusione dello zero) inferiori a 107. Abbiamo già rilevato che la nozione di infinito, secondo l’ontologia egizia, è estranea alla sfera dell’essere. La dimensione dell’esistente è, infatti, limitata sia spazialmente che temporalmente. L’infinito appartiene, invece, al non esistente, all’oceano primordiale del Nun. Possiamo ipotizzare che questo valga anche per lo zero. Il sistema ha una struttura decadica, ossia sono utilizzati soltanto i termini della progressione geometrica di ragione 10. Non ci sono simboli per indicare i numeri 5, 50, 500, ecc., come nella notazione attica o in quella latina. Ciò implica la ripetizione di uno stesso simbolo fino a nove volte. In questo aspetto, non ci sembra troppo azzardato intravedere un riflesso del concetto filosofico-teologico di enneade, che esprime l’idea di un processo giunto al suo termine. La struttura decadica della notazione numerica egizia testimonierebbe, secondo Caveing, un’«astrazione» in 706 I segni raffigurano nell’ordine un trattino verticale, una pastoia per bestiame, una corda arrotolata, un fiore di loto, un dito, un girino di rana e un dio che alza le braccia al cielo. 230 grado di slegare il numero tanto dalle procedure di calcolo eseguite sulle dita della mano quanto dalla praticità nella scrittura. In questa astrazione sarebbe contenuta, inoltre, «la nozione di “base” di un sistema di numerazione».707 Un’altra caratteristica del sistema è una notevole polisemia della nozione di unità. Quest’ultima è dovuta al fatto che non si fa distinzione tra un numero e l’insieme di elementi di cui esso è il «cardinale».708 Se il numero è concepito come un insieme di unità, queste unità saranno nello stesso tempo «identiche» e «distinte»; identiche perché ciascuna è in effetti un’unità, distinte perché bisogna poterle contare. Si possono individuare tre significati principali dell’unità: a) essa indica anzitutto il numero 1, opponendosi al concetto di «pluralità»; b) la stessa nozione denota, inoltre, ognuno dei segni identici che compongono la grafia di un numero compreso tra 1 e 9. In questo senso essa è «l’elemento costitutivo» dei numeri; c) poiché i segni che indicano le potenze di 10 si comportano come il numero 1 (ciascuno è ripetuto graficamente fino a nove volte), l’unità denota anche una collezione di oggetti o una totalità.709 I concetti di unità e pluralità appaiono, dunque, relativizzati: «Dopo essere stata l’opposto della pluralità, l’unità si è rivelata essere anche l’elemento della pluralità e, infine, un attributo di questa stessa pluralità».710 La relatività della nozione di unità condiziona notevolmente anche il calcolo delle frazioni. Lo scriba egizio, infatti, utilizza esclusivamente frazioni unitarie, considerando ciascuna di esse come l’n-esima parte di un’unità relativa, composta da un’insieme di unità assolute. Le frazioni non unitarie vengono sempre scomposte in somme di frazioni unitarie. Un’eccezione a questa regola è rappresentata dalla frazione 2/3, che possiede una propria particolare notazione; questa frazione è forse la più usata della matematica egiziana.711 Per scrivere le frazioni, lo scriba poneva sopra al numero corrispondente al denominatore l’ideogramma della bocca 707 (r). M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., p. 245. 708 Nell’opera Die Grundlagen der Arithmetik (1884), G. Frege pone l’accento sulla confusione tra il concetto di cardinale e quello di numero intero naturale. 709 Cfr. M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., pp. 245 sgg. 710 Ibid., p. 247. 711 In realtà anche la frazione ¾ possiede una propria notazione; si tratta, tuttavia, di un segno impiegato raramente. Esiste poi un segno speciale per indicare ½ e dei segni ieratici per le frazioni 1/3 e ¼. Secondo Neugebauer si tratterebbe di frazioni «naturali», considerate concetti di base come i numeri interi; cfr. O. Neugebauer, Le scienze esatte nell’Antichità, cit., pp. 96 sgg. 231 In questo contesto, Kurt Sethe attribuisce al geroglifico della bocca il significato di «parte» e rileva che il nome del numero scritto sotto questo geroglifico è sempre al genitivo. La grafia di una frazione significherebbe, quindi, «la parte di» un determinato numero n.712 Quest’ultimo rappresenta un’unità relativa, costituita da un insieme di unità uguali a 1 (unità assolute), delle quali se ne considera soltanto una. Questa notazione, secondo Caveing, è funzionale a esprimere una divisione «impossibile», quella di un numero più piccolo per un numero più grande. Ciò significa che il rapporto tra questo quoziente «impossibile» e l’unità 1 è uguale a quello tra l’unità 1 e il denominatore della frazione. Utilizzando la nostra notazione, la proporzione che ne risulta è la seguente: 1/n : 1 = 1 : n; «L’espressione del risultato non implica, dunque, in nessun modo che si divida l’unità 1 in n unità più piccole, ma che si rapporti l’unità assoluta 1 a un’unità relativa n volte più grande».713 Un ultimo aspetto importante del sistema di notazione numerica egizio che vorremmo evidenziare consiste nella sua «additività». Essa è dovuta alla giustapposizione spaziale dei simboli numerici che costituisce, in sostanza, l’equivalente di un’addizione. Ne segue che un numero qualsiasi appare anche come il risultato di una somma di elementi. Chiariti gli aspetti di base della matematica egizia, relativi alla peculiarità della notazione e ai concetti di numero e di unità, vorremmo ora soffermarci su quelle che sono state individuate come le «grandi tendenze» del sapere matematico della Valle del Nilo.714 Dall’esame dei papiri matematici emerge un particolare interesse da parte degli Egizi per le progressioni. Diversi problemi ci mostrano, infatti, esempi di progressioni aritmetiche e geometriche. Lo stesso sistema di notazione, come abbiamo potuto constatare, si fonda sulla progressione geometrica 10k. L’insieme delle frazioni, al quale abbiamo brevemente accennato, forma, invece, la seguente progressione: 1, 1/2, 1/3, 1/4, …, 1/n, …, conosciuta nella nostra matematica come serie armonica.715 Tra le progressioni prese in considerazione dalla matematica egiziana, la progressione geometrica 2k è sicuramente la più importante. Su di essa si fondano 712 Cfr. K. Sethe, Von Zahlen und Zahlworten bei den alten Ägyptern und was für andere Völker und Sprachen daraus zu lernen ist, Trubner, Strassburg 1916, p. 85 sg. 713 M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., p. 269. 714 Cfr. Ibid., pp. 361 sgg. 715 Essa è chiamata in questo modo perché gli armonici prodotti da un corpo vibrante hanno rapporti di frequenza con il suono fondamentale che possono essere espressi con gli elementi della serie. 232 quello che Caveing chiama il «teorema fondamentale dell’aritmetica egiziana» e il metodo di calcolo della moltiplicazione.716 Il teorema in questione afferma che qualunque numero naturale può essere scomposto nella somma di potenze di due, prese al più una sola volta. L’unità e la duplicazione continua generano, dunque, la serie dei numeri naturali. La progressione 2k è l’unica a contenere tutti i termini necessari per ottenere un qualsiasi elemento dell’insieme dei numeri naturali. Chiaramente una simile formulazione non è presente in nessuno dei testi matematici egiziani di cui disponiamo. Tuttavia, da questi stessi testi emerge che questo principio era sicuramente ben noto al matematico dell’antico Egitto. Per eseguire una moltiplicazione lo scriba procede utilizzando la duplicazione. Il metodo si fonda, infatti, sulla scomposizione di uno dei due fattori da moltiplicare in una somma di potenze di due e sulla duplicazione dell’altro, effettuata tante volte quanti sono i termini ottenuti con la scomposizione. Se lo scriba dovesse, per esempio, moltiplicare 9 per 7, procederebbe nel modo indicato dalle due colonne centrali della tabella seguente: Progressione 2k 1° fattore 20 \1 7 20 ⋅ 7 21 2 14 21 ⋅ 7 22 4 28 22 ⋅ 7 23 \8 56 23 ⋅ 7 9 63 (20 + 23) ⋅ 7 20 + 23 2° fattore Progressione 2k ⋅ 7 Come risulta dalla tabella, il primo fattore, il numero 9, è stato scomposto in una somma di potenze di due, segnate con un tratto obliquo (nella seconda colonna): 1 + 8, ossia 20 + 23. L’altro fattore (7), invece, è stato duplicato tre volte (14, 28, 56), in modo da ottenere (nella terza colonna) i termini corrispondenti all’1 e all’8. La somma di questi due termini è il risultato della moltiplicazione: 7 + 56 = 63. 716 Cfr. M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., pp. 253 sgg. 233 Il procedimento funziona perché le due liste di numeri, redatte dallo scriba, sono proporzionali tra loro. In relazione al nostro esempio, la proporzione che vige è la seguente: 1 : 7 = 2 : 14 = 4 : 28 = 8 : 56. Più in generale, vale questo rapporto: 1 : n = 2 : 2n = 22 : 22n = … = 2k : 2kn Il concetto di proporzionalità rappresenta un’altra delle «grandi tendenze» della matematica egiziana. Esso informa tutto il sistema logico-matematico. La proporzionalità, infatti, non viene utilizzata soltanto per calcolare le moltiplicazioni e le divisioni, ma anche per risolvere problemi algebrici e geometrici: «Ciò che sembra in ogni caso possibile è affermare […] che la proporzionalità è la chiave del calcolo egiziano, senza la quale nessuna regola particolare può essere compresa, e che essa è anche il metodo di risoluzione dei problemi».717 In tutti i casi in cui viene impiegato il principio di proporzionalità, si procede istituendo un rapporto tra una determinata quantità e l’unità, che può essere assoluta (come nel calcolo della moltiplicazione) o relativa. In questo modo, il problema viene risolto trovando una soluzione proporzionale a quella richiesta. Una delle applicazioni più ricorrenti della proporzionalità consiste nel cosiddetto metodo della «falsa posizione». Per chiarire meglio il ruolo giocato dal concetto di proporzionalità nella matematica e nella «logica» egiziane, daremo un esempio di questo metodo. Il problema 26 del papiro di Rhind chiede di trovare «aHaw ¼=f Hr=f xpr=f m 15 wAH», ossia quella quantità che aggiunta al suo quarto è uguale a 15.718 Si tratta di risolvere un’equazione di primo grado, anche se non si fa uso di notazione simbolica e l’incognita è chiamata «quantità», «cifra» (aHaw). Scrivendo l’equazione in termini moderni, otteniamo: x + ¼ x = 15 Per la risoluzione, lo scriba parte formulando l’ipotesi più semplice, ossia x = 4. Si tratta di una «falsa posizione». Se indichiamo con y la quantità cercata aggiunta al 717 Ibid., p. 373. 718 Cfr. S. Couchoud, Mathématiques égyptiennes. Recherches sur les connaissances mathématiques de l’Égypte pharaonique, Éditions Le Léopard d’Or, Paris 1993, pp. 115 sg. 234 suo quarto, il suo nuovo valore, in seguito alla sostituzione di x con 4, risulterà essere 5. L’operazione è la seguente: (1 + ¼) ⋅ 4 = 5 Indicando poi con x1 e y1 i «falsi» valori di x e y, abbiamo x1 = 4 e y1 = 5. A questo punto, per trovare la soluzione richiesta dal problema, y viene diviso per y1 e moltiplicato per x1: 15/5 · 4 = 12. Il risultato cercato è, quindi, 12. Come è immediatamente evidente, i valori presi in considerazione formano una proporzione: 12 : 4 = 15 : 5, oppure x : x1 = y : y1 In generale, quindi, se il problema si presenta nella forma di un’equazione di primo grado del tipo x + x/n = y, ovvero (1 + 1/n) x = y si procede scegliendo come «falsa» soluzione x1 = n. Al secondo membro dell’equazione si otterrà allora il valore y1 = (1 + 1/n) n. Moltiplicando poi entrambi i membri per y/y1 (il fattore di proporzionalità) si giunge alla relazione y = (1 + 1/n) n y/y1, dove la quantità n y/y1 è la soluzione del problema. In sintesi, quindi, il procedimento consiste nel trovare una falsa soluzione che, moltiplicata per un fattore di proporzionalità, consente di calcolare la soluzione «vera». 4. Il riflesso ontologico-teologico del sapere matematico Abbiamo detto precedentemente che l’ordine matematico, per il pensiero egizio, non ha un ruolo puramente formale, ma è il riflesso dell’ordine della natura o del cosmo. La matematica, conformandosi ai principi naturali, è in grado di fungere da strumento di conoscenza dell’intera realtà. Ogni concetto matematico ha, quindi, una portata ontologica o teologica. Il concetto di unità, non scevro di una certa ambiguità, rispecchia il modo di essere della divinità. Tutti gli dei partecipano dell’«unica» sfera divina, ma ogni dio è anche «unico» nel suo genere e non ha eguali accanto a sé. In certi casi un singolo dio è addirittura l’«unico», o «il più grande», senza, tuttavia, negare l’esistenza o l’importanza degli altri dei. Afferma Hornung: «L’assoluta unicità di dio si trova, per l’Egiziano, solo al di là della creazione, nella momentanea transizione dal non esistente all’esistente. Nella sua opera creatrice il primo e 235 inizialmente unico dio si dissolve nella pienezza differenziata nella quale ogni figura divina è unica e incomparabile, nonostante i molti tratti che ha in comune con le altre».719 Soltanto durante il breve periodo in cui ha regnato Akhenaton (XIV sec. a. C.), un unico dio, Aton, non ha tollerato accanto a sé nessun’altra divinità. Elementi peculiari della matematica egiziana, come il rapporto tra unità e molteplicità insito nel concetto di numero, la progressione geometrica 2k e la proporzionalità sono riscontrabili nella cosmogonia eliopolitana.720 Il processo di creazione innescato da Atum rispecchia, per certi versi, il processo della moltiplicazione. Quest’ultimo, come abbiamo constatato, riassume in sé le «grandi tendenze» della matematica egiziana e si fonda sulla duplicazione. In effetti, il numero due svolge sul piano ontologico-teologico una funzione che potremmo definire «demiurgica». Nel primo capitolo abbiamo evidenziato come nei Testi dei Sarcofagi la condizione di non esistenza antecedente all’atto di creazione viene descritta affermando che «non c’erano ancora due cose».721 Il numero due rappresenta la prima differenziazione che inaugura l’esistente. La funzione creatrice della progressione 2k, a nostro avviso, appare in modo ancora più evidente che nella teologia di Eliopoli in un’iscrizione presente sul sarcofago di un sacerdote di Amon vissuto durante la XXII dinastia, rinvenuto da Gaston Maspero e conservato al museo del Cairo. In questo contesto, il defunto, Petamon, nelle vesti del dio demiurgo recita: «jnk wa xpr(w) m 2, jnk 2 xpr(w) m 4, jnk 4 xpr(w) m 8, ink wa m-sA=f». «Io sono Uno che diventa Due. Io sono Due che diventa Quattro. Io sono Quattro che diventa Otto e sono Uno dopo di ciò».722 Maspero individua in questa sequenza l’enneade, «concepita come formata dall’ogdoade più uno».723 Anche Siegfried Morenz e Herman Kees mettono in relazione la sequenza numerica presente sul sarcofago con l’enneade di Eliopoli. 719 E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 165, sg. 720 Cfr. A. Cartocci, La matematica degli Egizi. I papiri matematici del Medio Regno, cit., pp. 109 sgg. 721 CT, II, 396 b; III, 383 a. 722 Cfr. G. Maspero, Notes, in Recueil de travaux relatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et assyriennes, 23 (1901), p. 196. Si tratta del sarcofago JdE 29666, citato anche in H. Kees, Der Götterglaube im alten Aegypten, Hinrichs, Leipzig 1941, p. 171, in S. Morenz, Aegyptische Religion, W. Kohlhammer Verlag, Stuttgart 1960, p. 153 e in E. Hornung, L’Égypte, la philosophie avant les Grecs, in Les études philosophiques, avril-septembre 1987, p. 115. Cfr. anche M. Tosi, Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto, Vol. II, Ananke, Torino 2006, p. 430. 723 G. Maspero, Notes, cit., p. 197. 236 Kees parla di questi numeri come di «derivazioni [Ableitungen] dall’unità secondo uno schema matematicamente dimostrabile: 1 > 2 > 4 > 8».724 La creazione seguirebbe, quindi, questo schema. Vogliamo far notare che il passo in questione è costituito da una serie di proposizioni a predicato nominale; esso esprime, dunque, un principio sempre valido, svincolato dalle contingenze spazio-temporali. Secondo l’insegnamento di Ermopoli, invece, all’inizio viene posta un’ogdoade, formata da quattro dei e quattro dee, raggruppati in coppie; «Qui è posta come fondamento di tutto il divenire non l’unità teorica come a Eliopoli, bensì la molteplicità che si osserva nella natura […] Il concetto di unità è qui ordinato secondo la modalità dell’associazione di dei».725 Perché il pensiero egiziano avrebbe riconosciuto proprio nella progressione geometrica 2k la legge che governa il processo della creazione? Una possibile risposta la possiamo ricavare dal «teorema fondamentale dell’aritmetica egiziana». La progressione geometrica di ragione 2, infatti, è l’unica in grado di generare tutti gli interi naturali; essa, pertanto, in virtù di una corrispondenza tra ordine matematico e ordine naturale, genera anche tutti gli enti del creato. L’importanza del dualismo come principio fondante della realtà emerge, in modo particolarmente evidente, dalla bidimensionalità caratteristica della pittura egiziana. Il medesimo aspetto emerge anche dalla metrica. Numerosi testi letterari e inni religiosi egiziani si presentano, infatti, come una successione di «distici», ossia di coppie di due versi o stichi, ognuno dei quali ha un numero fisso di unità accentuali.726 Un altro aspetto fondamentale dell’ordine cosmico è stato espresso dagli Egizi attraverso il principio di proporzionalità. L’arte e l’architettura egiziane testimoniano l’importanza che è stata attribuita a questa legge matematica. Questo principio sancisce, in sostanza, una commensurabilità tra le varie parti dell’esistente; dunque anche tra la sfera divina e quella umana. Gli enti che popolano il mondo si «richiamano» a vicenda nello stesso modo in cui si relazionano tra loro le quantità alle quali si applica il principio della falsa posizione. Per quanto riguarda, invece, il non esistente, non è possibile individuare nessun ordine. 724 H. Kees, Der Götterglaube im alten Aegypten, cit., p. 161. 725 Ibid., p. 167. 726 La struttura metrica più caratteristica della poesia egizia è il «distico eptametrico», in cui il primo verso è costituito da quattro unità accentuali e il secondo da tre. In proposito, cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 655 sgg. 237 L’uomo, in quanto parte integrante del creato, rientra nella legge della proporzionalità. Per la rappresentazione dell’essere umano, nella pittura o nella scultura, l’artista egiziano utilizzava, infatti, un canone. Come abbiamo già rilevato, sulla superficie da dipingere veniva disegnato un reticolo a quadrati regolari che serviva a definire la collocazione e le dimensioni di ciascuna parte. Nel caso di un’opera scultorea, invece, la quadrettatura veniva disegnata sulle varie facce dei blocchi di pietra. Iversen ha operato un confronto tra il canone egizio e quello utilizzato in Grecia e ha suggerito un’influenza del primo sull’arte greca.727 Prima di proseguire nella nostra indagine rivolgendoci nuovamente al mondo greco, vorremmo evidenziare ancora un aspetto. Tra le unità di misura egiziane, la heqat (staio), utilizzata generalmente per misurare le granaglie, è suddivisa in sottomultipli, dal valore quantitativo compreso tra (½)1 e (½)6. Questi sottomultipli corrispondono alle parti in cui fu diviso l’occhio di Horo. Secondo la mitologia, infatti, durante una lotta tra Seth e Horo, l’occhio del dio falco fu colpito dall’avversario e smembrato in sei parti. Successivamente, Thot ricompose l’occhio, ridandogli la sua integrità. Questo simbolo sacro della tradizione egiziana, denominato udjat, (wDAt) rappresenta, quindi, tutto ciò che è integro e in buona salute. La somma dei valori corrispondenti alle differenti parti dell’occhio, tuttavia, dà come risultato 63/64 e non l’unità. La serie (½)k, per k → +∞, tende, infatti, all’unità senza mai raggiungerla. Ci troviamo in una situazione simile a quella descritta da uno dei celebri paradossi di Zenone di Elea, quello della dicotomia. Qual è il rapporto tra l’infinito e l’unità? L’infinito, come abbiamo potuto riscontrare, non è contemplato né dalla matematica, né dalla teologia egiziane. Esso non appartiene all’esistente, bensì all’abisso del Nun. Una risposta plausibile è che l’unità o l’intero non sono concepiti semplicemente come una somma di componenti, ma come una dimensione di ordine superiore. Se, quindi, l’immagine del mosaico cosmico non è il risultato di un’addizione di tasselli, possiamo provare a intendere l’unità o l’intero in senso dinamico, facendo coincidere il cosmo nella sua interezza con la globalità del processo del suo divenire. Per generare il movimento ordinato che anima e rinnova il cosmo è necessaria l’interazione tra la dimensione finita 727 Cfr. E. Iversen, The Egyptian origin of the archaic Greek canon, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Kairo 15 (1957), pp. 134 sgg. 238 dell’esistente e l’infinità del non esistente. E’ in virtù di questo movimento che le parti del creato entrano in relazione tra di loro e costituiscono l’«unità». In ciò sta il potere magico del dio Thot. 5. Un retaggio egiziano nella matematica greca? Tracce dell’impostazione e dei procedimenti propri della matematica egiziana sono riscontrabili nell’aritmetica greca. Anzitutto è possibile rilevare una somiglianza tra il sistema di notazione numerica egiziano e quelli in uso nel mondo greco. I simboli numerici del periodo miceneo corrispondono, come quelli dell’antico Egitto, alle potenze di 10 e sono ripetibili al più nove volte. In seguito al crollo della civiltà micenea, la scrittura viene reintrodotta su base alfabetica. Il sistema di notazione è conservato con due differenze: a) ad esclusione dell’unità, rappresentata con un tratto verticale come in Egitto, le potenze di 10 sono scritte utilizzando le iniziali maiuscole dei nomi corrispondenti; b) viene introdotta un’abbreviazione per indicare le potenze di 10 moltiplicate per 5. I segni della prima serie possono essere, pertanto, ripetuti al più quattro volte.728 Il sistema rimane comunque decadico e con una capacità limitata di rappresentare gli interi naturali. Esso comporta, inoltre, come quello egiziano, un’ambiguità della nozione di unità. Anche in questo caso, come evidenzia Caveing, l’unità può essere intesa in tre modi: a) come il numero 1, che si oppone al concetto di pluralità; b) come l’elemento di un insieme, quello dei segni identici che costituiscono il simbolo di un intero; c) come una delle potenze di 10. «L’unità è così a turno l’opposto della pluralità, l’elemento di una pluralità e, infine, un attributo di una pluralità, la totalità che questa costituisce».729 A differenza della matematica egiziana, tuttavia, quella greca esplicita questa situazione. Negli Elementi di Euclide leggiamo: 728 Cfr. M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, Presses universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Asq 1997, pp. 191 sgg. 729 Ibid., p. 194. 239 «Unità è ciò secondo cui ciascuno degli enti è detto uno. E numero è una molteplicità composta di unità».730 Concepire il numero come una pluralità di unità significa non distinguerlo dall’insieme di cui è il cardinale. Questa mancata distinzione genera un’ulteriore sovrapposizione concettuale: quella tra l’aggiunta di nuovi elementi a un insieme o collezione e l’operazione dell’addizione. In questo modo, contare e addizionare risultano essere la stessa cosa. Caveing commenta: «Il sistema, come quello degli Egiziani, è spontaneamente additivo. Esso implica, nello stesso tempo, la “definizione” del numero come pluralità di unità e l’idea che i numeri risultano dall’addizione dell’unità a sé stessa, ossia la confusione tra la definizione del numero e la genesi della serie naturale degli interi».731 La matematica greca presenta, inoltre, tracce del procedimento di duplicazione e del suo inverso, quello di «dimidiazione», che in Egitto era impiegato per eseguire le divisioni. Nella metrologia utilizzata in Attica, per esempio, è possibile ritrovare i termini della progressione (½)k, corrispondenti in Egitto alle frazioni dell’occhio di Horo.732 Nella Metafisica di Aristotele si incontrano alcuni passi dove si parla della genesi dei numeri come di un processo di duplicazione. Nel libro V, per esemplificare il fatto che è possibile indicare una cosa non soltanto attraverso la sua definizione, ma anche per mezzo della definizione di un’altra, Aristotele afferma: «si può dire che otto è doppio usando la definizione di due».733 Nel libro XIII, invece, nel quale viene discussa la teoria platonica della generazione dei numeri, leggiamo: «il numero deriva dall’uno e dalla diade indefinita».734 Più avanti il testo prosegue: «Ma essi [i platonici] dicono che dal primo due e dalla diade indefinita dovrebbe nascere il quattro».735 E poco oltre: «Ma necessariamente neppure il quattro può derivare da due due a caso: infatti dicono che la diade indefinita, avendo accolto la diade definita, ha prodotto due due, perché la diade indefinita aveva il potere di raddoppiare la diade ricevuta».736 730 Euclide, Elementi, VII, Def. I e II, in Id., Tutte le opere, trad. it. di F. Acerbi, Bompiani, Milano 2007. 731 M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, cit., p. 197. 732 Cfr. Ibid., pp. 198 sgg. 733 Aristotele, Metafisica, V, 29, 1025 a, 1. 734 Ibid., XIII, 7, 1081 a, 14-15. 735 Ibid., XIII, 7, 1081 b, 20-22. 736 Ibid., XIII, 7, 1082 a, 11-14. 240 Secondo le dottrine platoniche riportate da Aristotele, l’uno agendo sulla diade indefinita genera il due. Nella genesi del quattro, quindi, è necessario distinguere due diadi, ossia una «prima diade» che è moltiplicata e una seconda che moltiplica. Quest’ultima costituisce l’operatore di duplicazione che viene applicato alla serie inaugurata dalla prima diade e che viene chiamato diade indefinita. I verbi utilizzati da Aristotele lasciano intendere che, nella generazione, la diade indefinita assume il ruolo di principio femminile. Lo Stagirita aggiunge inoltre: «Ma non deve sfuggire neppure questo: alcuni due saranno anteriori e altri posteriori, e lo stesso accadrà anche per gli altri numeri. Supponiamo che i due che si trovano nel quattro siano simultanei; ma essi sono anteriori rispetto ai due che si trovano nell’otto e li hanno generati, perché come il due ha generato questi due, questi hanno generato i quattro che si trovano nell’otto in sé».737 La prima diade genera, dunque, dalla diade duplicativa o indefinita le due diadi che costituiscono il quattro, in questo modo: II × 2 = (I × 2) + (I × 2) = II + II. Ciascuna delle due unità della prima diade ha generato, attraverso l’operatore di duplicazione, una nuova diade. Lo stesso procedimento è alla base della genesi dell’otto. Ciascuno dei due che si trovano nel quattro viene duplicato per ottenere la coppia di quattro che dà origine all’otto: II II × 2 = (II × 2) + (II × 2) = II II + II II.738 Rimane poco chiaro, invece, il modo in cui sono generati i numeri dispari.739 Quello che ci interessa rilevare in questo contesto, tuttavia, è la presenza della progressione geometrica 2k, sulla quale si fonda il «teorema fondamentale» dell’aritmetica egiziana e che, secondo i teologi della Valle del Nilo, spiega il processo di generazione di tutti gli enti del creato. Le dottrine relative all’uno e alla diade indefinita di cui parlano Platone e Aristotele costituiscono un retaggio della scuola pitagorica. Secondo i Pitagorici, la duplicazione e la dimidiazione, accanto all’addizione, svolgono un ruolo fondamentale nella genesi dei numeri.740 737 Ibid., XIII, 7, 1082 a, 26-31. 738 Cfr. M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, cit., pp. 204 sg. 739 Cfr. il commento di C. A. Viano, in Aristotele, Metafisica, cit., nota 1, p. 557. 740 Cfr. L. Brunschvicg, Les étapes de la philosophie mathématique, A. Blanchard, Paris 1981, pp. 4 sg. 241 Ulteriori affinità tra la matematica egiziana e quella greca emergono anche dall’esame delle nozioni di «misura» e di «parte». Euclide afferma: «Un numero è parte di un numero, il minore del maggiore, quando misuri completamente il maggiore».741 Secondo Caveing, questa definizione si basa sulle modalità dell’operazione della divisione.742 L’operazione consiste, infatti, nel trovare quante volte il divisore è contenuto nel dividendo. Il divisore svolge, quindi, la funzione di «unità di misura» del dividendo. Nella Metafisica di Aristotele troviamo diverse formulazioni della concezione dell’uno come «unità di misura». Nel libro X, per esempio, leggiamo: «Nel campo dei numeri l’uno e i molti si oppongono come la misura a ciò che è misurato».743 E poco oltre: «il numero è una molteplicità misurata dall’uno».744 Nel libro XIV si afferma, invece: «Che l’uno indichi una misura è evidente. E in ogni genere c’è qualche cosa diversa che fa da soggetto all’uno, per esempio, nell’armonia il diesis, nella grandezza il dito o il piede o qualcos’altro di questo genere, nel ritmo il piede o la sillaba; analogamente anche nel peso c’è una qualche unità di misura definita. […] L’uno infatti significa misura di una molteplicità, il numero significa molteplicità misurata e molteplicità di misure».745 In virtù di questa concezione dell’uno, Euclide può affermare che «qualora un’unità misuri un certo numero, e un altro numero misuri un certo altro numero le stesse volte, anche alternando l’unità misurerà il terzo numero e il secondo il quarto le stesse volte».746 In linguaggio formale, questa proposizione può essere espressa nel modo seguente: 1 : α = β : γ ⇒ 1 : β = α : γ. Concepire il divisore come unità di misura del dividendo e l’uno come unità di misura tra i numeri, ci riporta, dunque, al principio di proporzionalità. E’ ciò che riscontriamo nella divisione eseguita dallo scriba egiziano. Vediamone schematicamente un esempio, scegliendo per semplicità una divisione che non dia 741 Euclide, Elementi, VII, Def. III, in Id., Tutte le opere, cit. 742 Cfr. M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, cit., pp. 211 sgg. 743 Aristotele, Metafisica, X, 6, 1056 b, 32-33. 744 Ibid., X, 6, 1057 a, 3-4. 745 Ibid., XIV, 1, 1087 b, 33-37 – 1088 a, 4-6. 746 Euclide, Elementi, VII, Prop. 15, in Id., Tutte le opere, cit. 242 resto. Si voglia dividere 154 per 22. Si dovrà procedere duplicando il divisore fino a riottenere il dividendo per addizione dei dividendi parziali: 1 22 / 2 44 / 4 88 / =7 = 154 Nella colonna di destra il divisore 22 misura tante volte il dividendo 154 quante nella colonna di sinistra l’unità misura 7, ossia vale la seguente proporzione: 22 : 154 = 1 : 7. L’importanza delle proporzioni e delle progressioni emerge in modo particolarmente evidente nel Timeo di Platone; in questo contesto, esse diventano gli strumenti indispensabili al demiurgo per creare il corpo e l’anima del mondo. In proposito, afferma Timeo: «Ma poiché non è possibile che due termini da soli formino una buona composizione senza un terzo termine, bisogna che in mezzo vi sia un legame che li congiunga entrambi. Ora, di tutti i legami il più perfetto è quello che, per quanto è possibile, costituisca in unità sé ed i termini che lega: ed è la proporzione [ajnalogiva] che realizza ciò nel modo più perfetto».747 In questo rapido esame di alcune delle concezioni proprie della matematica greca ritroviamo, quindi, quelle che sono state definite le «grandi tendenze» della matematica egiziana; nello specifico, la polisemia dell’unità, il procedimento di duplicazione e il principio di proporzionalità. 747 Platone, Timeo, 31 b-c. Nella formazione del corpo del mondo i due elementi di partenza sono il fuoco e la terra. Dal momento che l’universo non è semplicemente una superficie, bensì un solido, un unico medio non è sufficiente, ce ne vogliono due. Il demiurgo «ponendo acqua e aria tra fuoco e terra ed in rapporto proporzionale per quanto era possibile, sì che come il fuoco stava all’aria, anche l’aria stesse all’acqua, e come l’aria all’acqua l’acqua alla terra, collegò e costituì il cielo, visibile e tangibile» (32 b-c). Nel dividere poi l’anima del mondo, risultante da una mescolanza di tre generi, essere, identico e diverso, il demiurgo ricorre alla successione 1, 2, 3, 4, 9, 8, 27. Quest’ultima deriva da due progressioni geometriche che partono dall’unità e che hanno rispettivamente ragione 2 e ragione 3: 1, 2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27 (cfr. Timeo, 35 a – 36 b). Per un esame approfondito di questi aspetti matematici, cfr. F. M. Cornford, Plato’s Cosmology. The Timaeus of Plato translated with a running commentary, Routledge & Kegan Paul, London 1937, pp. 43 sgg e 66 sgg. Cfr. anche le note di F. Fronterotta in Platone, Timeo, trad. it. di F. Fronterotta, Bur, Milano 2006, pp. 190 sg e 200 sgg. 243 6. Dalla matematica alla dialettica platonica: alla ricerca di un modello per la scienza Dopo aver mostrato la presenza di affinità anche profonde tra la matematica egiziana e quella greca, il passo successivo è quello di misurarne gli effetti a livello speculativo. Ciò ci consentirà di approfondire meglio il confronto tra l’approccio egiziano e quello greco, individuando eventuali convergenze o elementi di cesura. Il punto di partenza della nostra indagine sarà il Fedone di Platone. In questo dialogo Socrate introduce la celebre metafora della «seconda navigazione», che indica il passaggio da un’esplorazione della realtà condotta attraverso i sensi ad un’esplorazione condotta attraverso i lovgoi. Socrate ne parla in questi termini: «Così pensai anch’io e temetti di diventare completamente cieco nell’anima, osservando le cose con gli occhi e tentando di coglierle con ciascuno dei sensi. Mi parve che dovessi rifugiarmi nei lovgoi ed indagare in essi la verità degli enti»748. Ma che cosa si intende con l’espressione «rifugiarsi nei lovgoi»? Il discorso di Socrate lo precisa poco oltre: «Comunque, mi avviai per questa strada e, ponendo come ipotesi in ciascun caso il lovgo~ che giudico più forte, pongo come vere le cose che mi sembrano essere in accordo con esso, sia riguardo alla causa sia riguardo a tutte le altre cose, mentre quelle che non mi sembrano in accordo, le pongo come non vere».749 In questo passo viene descritto il «metodo ipotetico». Formulare un’ipotesi significa assumere una proposizione come vera. Il lovgo~ che nel Fedone viene assunto come ipotesi è l’esistenza delle idee. E’ necessario, tuttavia, che l’ipotesi sia giustificata, ossia che si possa renderne ragione in occasione di un’eventuale contestazione. Socrate prosegue, infatti, affermando: «Tu […] attenendoti alla solidità dell’ipotesi, risponderesti così. E se qualcuno si appigliasse alla stessa ipotesi, gli diresti addio e non gli risponderesti finché non avessi esaminato se i risultati di essa sono in accordo o disaccordo tra loro. E quando tu dovessi dare ragione di essa, lo faresti allo stesso modo, stabilendo un’altra ipotesi, 748 Platone, Fedone, 99 e. In questo passo e in quello che segue, abbiamo modificato leggermente la trad. di G. Cambiano sostituendo «ragione» con il termine originale lovgo~, per evitare una trad. inevitabilmente controversa. Non entriamo nel merito di tale questione tanto dibattuta; ciò non rientra, infatti, negli obiettivi della nostra ricerca. Nel prosieguo del nostro discorso, comunque, ci atteniamo, tendenzialmente, alla linea interpretativa di G. Cambiano. 244 quella che apparisse la migliore tra le ipotesi superiori, fino a giungere a qualcosa di sufficiente».750 In questo contesto, il metodo ipotetico è la procedura propria della dialettica che, secondo Platone, costituisce la scienza per eccellenza, ossia la filosofia. Le operazioni in cui consiste questa procedura metodologica sono due: 1) dedurre dall’ipotesi assunta le conseguenze che ne derivano, per verificare se conducono a una contraddizione; 2) ricondurre l’ipotesi a un’altra ipotesi più universale che sia in grado di giustificarla e procedere in questo modo fino a quando non si sia giunti ad un principio che non richiede ulteriori giustificazioni, cioè un principio «anipotetico». L’aspetto che ci interessa evidenziare è il seguente: il dialettico per risolvere un problema A lo riconduce a un problema B. In proposito, Giuseppe Cambiano afferma: «Platone intende reperire un ordine tra le proposizioni ed è ciò che egli intende con l’espressione “rendere conto”. Tale ordine è costruito a partire da una proposizione problematica A (per esempio l’immortalità dell’anima). Per rendere conto di A si rintraccia una proposizione B (per esempio l’esistenza delle idee). Il criterio di reperimento di B è l’esistenza di un rapporto di concordanza tra A e B, nel senso che se si ammette B come vero, si assume anche A come vero».751 In generale, un problema A è riconducibile a un problema B soltanto se tra essi c’è una commensurabilità. Si tratta dello stesso procedimento tipico della matematica egiziana, recepito in seguito dalla matematica greca. Nel Menone Platone afferma esplicitamente che il metodo ipotetico di cui parla è quello utilizzato dai geometri.752 Si tratta di uno strumento che consente di stabilire le «condizioni di risolubilità di un problema».753 Nel Menone il problema sul quale si indaga è se la virtù sia insegnabile o meno: «Poiché non sappiamo né che cos’è né qual è, esaminiamo per via di ipotesi se è insegnabile o no. Diciamo così: se tra gli enti pertinenti all’anima la virtù è di una certa qualità, sarà insegnabile o no? In primo luogo, se è simile o dissimile dalla 749 Ibid., 100 a. 750 Ibid., 101 c-d. 751 G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, in Rivista di filosofia, 58 (1967), p. 140. 752 Cfr. Platone, Menone, 86 e. 245 scienza, può essere insegnata o no, o, come dicevamo poco fa, essere ricordata (sia indifferente per noi usare un termine o l’altro). Ma è insegnabile? Non è chiaro a tutti che ad un uomo non si insegna altro che la scienza?».754 Come risulta chiaramente da questo passo, il problema in questione viene ridotto ad un altro problema: se la virtù sia scienza. Siamo di fronte al corno di un alternativa, il quale costituisce un ulteriore problema, la cui soluzione richiede un’altra ipotesi: «Non diciamo che la virtù è un bene? Non manteniamo questa ipotesi, che essa è un bene?»755 Anche questa ipotesi è il corno di un alternativa e così via. La ricerca, quindi, è resa possibile dall’esistenza di connessioni tra le parti della realtà. Un aspetto essenziale del metodo sviluppato da Platone consiste in ciò: l’ordine e la concatenazione delle proposizioni non sono stabiliti a priori, in maniera definitiva e universalmente applicabile, ma sono strettamente dipendenti dal problema specifico che si richiede di risolvere. Questo particolare approccio è tipico della geometria greca, perlomeno fino alla metà del V secolo a.C. Secondo le testimonianze di cui disponiamo, infatti, la geometria greca, in questa fase della sua storia, non costituisce ancora un edificio sistematico. Essa ruota intorno ai singoli problemi da risolvere e le nozioni di teorema e di dimostrazione le sono estranee, non essendo organizzata come un «sistema assiomatico». Un esempio emblematico di questa impostazione è costituito dalla soluzione del problema della quadratura delle lunule proposta da Ippocrate di Chio (V sec. a.C.). Senza entrare nel dettaglio del procedimento sviluppato da Ippocrate, ci limitiamo a evidenziarne i momenti principali. In primo luogo, viene stabilita una proposizionechiave A che costituisce l’ajrchv della costruzione. Successivamente, A viene dimostrata facendo ricorso a una proposizione B, anch’essa dimostrata. Infine, vengono distinti e risolti quattro casi del problema, utilizzando la proposizione A. Ippocrate segue, dunque, un certo ordine, che non coincide, tuttavia, con quello euclideo. I principi sulla base dei quali si arriva alla soluzione, non sono, infatti, un insieme di assiomi costituenti le fondamenta della geometria. «Ciò significa – scrive Cambiano – che non esiste un sistema univoco immutabile di rapporti tra le proposizioni. L’insieme dei principi è determinato dalle condizioni del problema 753 Cfr. G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., pp. 134 sgg. 754 Platone, Menone, 87 b-c, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, cit. 246 specifico che si intende risolvere, non in funzione di tutta la geometria».756 Il modello di metodo che Platone presenta nel Menone e nel Fedone è, quindi, identico, sotto l’aspetto formale, a quello utilizzato da Ippocrate di Chio. Si tratta, come abbiamo potuto constatare, di un metodo «analitico-riduttivo», non deduttivo. A partire dalla Repubblica, invece, la dialettica non è più identificata con il metodo ipotetico impiegato dai geometri. Di fronte alla geometria Platone assume un atteggiamento decisamente critico: «coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e di altre questioni del genere, suppongono il pari e il dispari, le figure, tre specie d’angoli ed altre cose simili, a seconda dell’oggetto della propria ricerca, e, ammesse per conosciute queste cose, le erigono ad ipotesi e ritengono di non doverne dare più ragione né a sé né agli altri, come se fossero principi assiomatici per tutti, e, partendo da questi, passano a trattare tutto il resto deducendo così di conseguenza in conseguenza quella conclusione in virtù della quale avevano preso le mosse».757 La ragione principale del rifiuto da parte di Platone del parallelismo precedentemente istituito tra la ricerca matematica e quella filosofica va individuata nell’uso «scorretto» che la geometria fa delle ipotesi. Essa e le altre discipline tecnicoscientifiche che le sono affini producono una conoscenza dell’essere che «somiglia a un sogno», perché «si servono di ipotesi che non discutono affatto, non sapendone rendere ragione».758 Ammettendo, infatti, la cronologia tradizionale dei dialoghi, nel periodo che intercorre tra la stesura del Fedone e quella della Repubblica la geometria greca attraversa una fase di progressiva assiomatizzazione, che raggiungerà il suo apice nell’opera di Euclide. Le ipotesi si trasformano in assiomi non dimostrati e indiscutibili. Ma una geometria siffatta per Platone non è una scienza, ma soltanto una «convenzione» (oJmologiva).759 La dialettica platonica viene presentata nella Repubblica come un’attività che «tenendo le ipotesi non in conto di principi, ma appunto per quello che sono, supposizioni, che son come gradini e pezze d’appoggio per elevarsi fino al principio del tutto, a ciò che è di là dalle ipotesi, ed una volta raggiunto quel principio, ed a quello tenendosi ferma ed a ciò che da esso deriva, discenda fino alla conclusione 755 Ibid., 87 d. 756 G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., p. 130. 757 Platone, Repubblica, VI, 510 c-d. 758 Ibid., VII, 533 c. 247 ultima, indipendentemente da ogni dato sensibile, ma soltanto trascorrendo di idea in idea, per concludersi in un’idea».760 In questo passo viene ribadito, in modo ancora più esplicito che nel Fedone, il doppio processo, ascensivo e discensivo, proprio della dialettica. Quest’ultima, pur presentandosi in una forma più strutturata rispetto al metodo ipotetico del Menone, rifiuta di trasformarsi in un sistema assiomatico, già costruito prima che si presenti il singolo problema da risolvere.761 Nei dialoghi successivi la posizione di Platone nei confronti della geometria non muta. Emerge, invece, un’ulteriore divergenza tra la dialettica e la geometria assiomatizzata.762 Il procedimento discensivo della dialettica, infatti, non si configura come una catena lineare avente la sua origine in un insieme di assiomi, ma come un metodo di divisione dicotomica. A ogni passo del procedimento dialettico si genera una coppia di alternative che richiede di operare una scelta in base a criteri non contenuti direttamente nel sistema. Cambiano sintetizza così le caratteristiche del metodo impiegato dal dialettico: «Il metodo dicotomico implica: 1) l’assenza di principi primi, stabiliti una volta per tutti e non sottoponibili a loro volta ad un procedimento di investigazione dialettica; 2) la selezione tra due alternative ad ogni passo della divisione in vista del concetto che si vuole precisare, cioè del problema da risolvere».763 Tra il modello di scienza delineato da Platone, sostanzialmente in accordo con le procedure della geometria greca precedente all’assiomatizzazione, e l’approccio «logico-epistemologico» della matematica o, più in generale, della «scienza» egiziana non c’è, dunque, una cesura, ma sono riscontrabili, al contrario, alcuni significativi punti di convergenza. Nella filosofia platonica, l’idea è l’unità di un molteplice; ciò significa che «tra le componenti del molteplice esistono relazioni di compatibilità che le rendono un’unità e variazioni che le rendono molteplici».764 La stessa ambivalenza, come si è riscontrato, è presente nel concetto di unità della matematica e della 759 Cfr. G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., pp. 141 sgg. 760 Platone, Repubblica, VI, 511 b-c. 761 In proposito, Cambiano osserva: «L’andamento ascensivo della dialettica è vicino alla geometria descritta prima della Repubblica, il cui punto di forza era il metodo analitico-riduttivo, che aveva appunto un carattere ascensivo di apertura e problematizzazione, non di sistema chiuso. La geometria, che Platone critica nella Repubblica, è invece un sistema chiuso, fortemente assiomatizzato, al quale manca una adeguata e non dogmatica ricerca sui fondamenti» (Id., Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., p. 143). 762 I dialoghi a cui facciamo riferimento sono nello specifico il Parmenide, il Sofista e il Politico. 763 G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., p. 147. 248 teologia egiziane. Il metodo dialettico, inoltre, recepisce il principio della proporzionalità e quello della duplicazione. Il procedimento dicotomico ha lo scopo di definire un oggetto attraverso la sua connessione con altri oggetti. Si pensi, per esempio, alla divisione effettuata da Platone nel Sofista per definire il pescatore con la lenza. L’indagine deve, quindi, riuscire a fare emergere, a proposito di un ente, la rete di relazioni che lo unisce ad altri enti o che lo separa da essi. Ogni passo del procedimento implica una duplicazione e la scelta tra due alternative. Il metodo impiegato nello studio della realtà, infine, tanto nel pensiero egiziano quanto in quello platonico, non è considerato come uno strumento autonomo rispetto all’oggetto al quale viene applicato. Il modello della scienza deve essere, infatti, conforme all’ordine che vige nel cosmo. Con ciò, il nostro obiettivo non vuole essere quello di arrivare ad affermare un’identità di contenuti tra il pensiero egiziano, la matematica greca precedente alla metà del V secolo e la filosofia platonica, ma quello di evidenziarne la compatibilità e le affinità metodologiche. Si tratta, infatti, di orizzonti che, a nostro avviso, manifestano tra di loro una «commensurabilità». 7. L’«assiomatizzazione» come cesura e svolta nel pensiero occidentale. Con l’organizzazione della scienza come «sistema assiomatico» si produce una cesura netta tra l’impostazione logico-epistemologica propria del mondo egiziano e la filosofia greca. Questo evento culturale costituisce una svolta che avrà effetti decisivi sugli sviluppi successivi del pensiero occidentale. Secondo il modello proposto da Aristotele, ogni scienza si articola in due parti: una prima anapodittica, concernente i principi primi indimostrabili, e una seconda apodittica, relativa alle proposizioni dimostrabili a partire dai principi. Le proposizioni della scienza sono ordinate, quindi, in modo univoco e secondo rigidi rapporti di antecedenza e conseguenza. Nei Secondi Analitici, Aristotele delinea chiaramente il suo modello: «Ora però chiamiamo sapere il conoscere mediante dimostrazione. Per dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico, e scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo. Se il sapere è dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la scienza dimostrativa 764 G. Cambiano, Introduzione a Platone, Dialoghi filosofici, vol. I, cit., p. 26. 249 si costituisca sulla parte di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa».765 Ogni singola scienza possiede dei principi propri che ne circoscrivono l’ambito di ricerca. Le scienze sono, tuttavia, anche legate tra loro da un filo costituito da una serie di principi comuni, che Aristotele chiama «assiomi» (ajxiwvmata). Tra questi, l’assioma fondamentale è senza dubbio il principio di non contraddizione. La caratteristica peculiare di questi principi è la loro necessità. Questo stesso modello di scienza è riscontrabile negli Elementi di Euclide, anche se in questo contesto non viene privilegiato il sillogismo come strumento di dimostrazione. Anche Euclide, infatti, distingue nella geometria una parte anapodittica e una apodittica, istituendo un rigido rapporto di consequenzialità tra principi e proposizioni. La geometria contenuta negli Elementi si presenta, dunque, come un sistema assiomatico organizzato deduttivamente. Euclide ha riorganizzato e compendiato nella sua opera una geometria che già all’epoca di Aristotele era ormai assiomatizzata e assestata sul piano deduttivo. Con la svolta assiomatica della geometria il baricentro della ricerca non è più rappresentato dalla nozione di problema, bensì da quella di «teorema». Questo nuovo orientamento determina una notevole accentuazione della portata «contemplativa» della scienza geometrica. Ogni passo dell’iter dimostrativo ora viene deciso soltanto in base a criteri interni al sistema e senza dover operare una scelta tra due alternative. L’intero procedimento si sviluppa secondo un’unica catena deduttiva, a partire da un insieme di asserzioni che sono considerate evidenti di per sé e che non richiedono, quindi, una giustificazione. Il modello di scienza che emerge dalle opere di Aristotele ed Euclide, a nostro avviso, costituisce, nell’ambito del pensiero greco, un nuovo orizzonte non più rapportabile a quello precedente. L’approccio logico-epistemologico, retaggio del mondo egiziano, che non astrae dalla situazione «concreta», ossia che privilegia la nozione di problema, e che cerca di individuare la rete di relazioni di proporzionalità che collega tutti gli enti, è ora definitivamente superato. Prima di concludere il capitolo, vorremmo fare ancora qualche considerazione e qualche precisazione. Relativamente al metodo della ricerca scientifica teorizzato da Aristotele, ci sembra particolarmente significativo quanto afferma Jonathan Barnes in un suo saggio sulla teoria aristotelica della dimostrazione: «Il metodo che 765 Aristotele, Secondi Analitici, I, 2, 71 b 18-23, in Id., Organon, trad. it. di G. Colli, cit. 250 Aristotele segue nei suoi trattati scientifici e filosofici e il metodo che egli prevede per l’attività scientifica e filosofica nei Secondi Analitici non sembrano coincidere».766 La teoria della scienza, secondo Barnes, non avrebbe lo scopo di guidare la ricerca, ma avrebbe una funzione eminentemente didattica. Essa servirebbe, cioè, a dare ordine e sistematicità a conoscenze già acquisite; questa teoria, infatti, «non descrive come fanno gli scienziati, o come dovrebbero fare, ad acquisire conoscenze: essa offre un modello formale di come gli insegnanti dovrebbero presentare e diffondere la conoscenza».767 Seguendo questa interpretazione, si deduce che i criteri che guidano e orientano la ricerca scientifica «concreta» non sono codificati da Aristotele in modo definitivo in un sistema chiuso. L’impianto dimostrativo ha, dunque, la funzione di rendere leggibili e trasmissibili i dati forniti dalla ricerca, eliminando ogni ambiguità. Le fondamenta di questa costruzione sono i principi comuni, gli ajxiwvmata e in primo luogo il principio di non contraddizione, considerato da Aristotele il «più sicuro di tutti […] quello intorno al quale è impossibile essere nel falso».768 Strettamente connesso a questo «assioma», c’è un secondo principio che svolge un ruolo fondante nell’ambito del sistema: quello del terzo escluso. Gli Egiziani non hanno mai tematizzato questi principi. Ciò non implica, tuttavia, che il loro pensiero non ne tenesse assolutamente conto o che vi si opponesse nettamente. Più verosimilmente, il «filosofo» egiziano non ha mai sentito l’esigenza di sviluppare una riflessione epistemologica sullo statuto di questi principi, né quella di ordinare la conoscenza in un sistema chiuso. Cercheremo di evidenziare ora quelle che, secondo noi, sono le ragioni di questa scelta della cultura egiziana. Abbiamo affermato in precedenza che nel pensiero egiziano le opposizioni non si escludono a vicenda, ma costituiscono polarità complementari tra loro che in qualche modo «coesistono». Secondo la formulazione aristotelica del principio di non contraddizione, «è impossibile che la stessa cosa 766 J. Barnes, Aristotle’s theory of demonstration, in J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji (a cura di), Articles on Aristotle, vol. I, Duckworth, London 1975, p. 65. 767 Ibid., p. 77. In seguito ad alcune critiche (ci riferiamo, nello specifico, a quelle mosse da W. Kullmann, Wissenschaft und Methode: Interpretationen zur aristotelischen Theorie der Naturwissenschaft, W. De Gruyter, Berlin 1974 e da M. F. Burnyeat, Aristotle on Understanding Knowledge, in E. Berti (a cura di), Aristotle on Science. The “Posterior Analytics”, Antenore, Padova 1981), Barnes ha revisionato la sua interpretazione secondo la quale i Secondi Analitici sarebbero soltanto un trattato di didattica. Lo studioso ha, tuttavia, ribadito che il testo aristotelico costituisce un’indicazione di come i risultati della ricerca devono essere organizzati per risultare intelligibili (cfr. J. Barnes, Introduction a Aristotle’s Posterior Analytics, Clarendon Press, Oxford 1993, particolarmente, pp. xviii sgg). 768 Aristotele, Metafisica, IV, 3, 1005 b, 11-12. 251 insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto».769 Questa enunciazione, come precisa Berti, non esclude «l’esistenza di rapporti di opposizione fra termini diversi, ma […] soltanto la coesistenza contemporanea e sotto il medesimo riguardo di predicati opposti nel medesimo soggetto».770 Se pensiamo, però, alle concezioni teologiche egiziane, il divino sembra apparire uno e molti nello stesso tempo. L’uno è il sostrato dei molti; attraverso la molteplicità esso può manifestarsi e rinnovarsi costantemente, realizzando così la propria natura. La stessa falsariga è riscontrabile nella concezione della dimensione umana: l’essere umano è la risultante di una costellazione di componenti e, nello stesso tempo, è anche ciascuno di questi componenti. Ogni uomo, per esempio, ha un ba, ma è anche un ba. Che cosa differenzia, dunque, questo approccio dal modello di scienza proposto da Aristotele? Come abbiamo avuto modo di ribadire, gli Egiziani hanno una concezione dinamica della realtà. Il movimento è ciò che anima e rinnova periodicamente l’universo, permettendogli così di sussistere. La conoscenza deve configurarsi nello stesso modo, deve cioè rispecchiare la natura del suo oggetto. Essa non potrà, pertanto, essere «fissata» in un edificio concettuale chiuso, ossia non potrà tradursi in un sistema assiomatico. Ogni fase e ogni risultato del processo conoscitivo non rappresenta, infatti, un’acquisizione definitiva e autonoma, ma un’«entità» che si muove e diviene, inserita in una rete di relazioni di proporzionalità. In questo contesto, l’ordine universale impersonato da Maat svolge il ruolo di principio anipotetico, quel principio che Platone identificava con l’idea di Bene. La legge di Maat, fondamento e punto di riferimento ultimo di tutti i rapporti di proporzionalità tra gli enti del creato, manifesta un rigore matematico. Essa, tuttavia, costituisce un ordine dinamico, vivente e, pertanto, non codificabile in una definizione astratta. La cultura egiziana non ha mai fornito una definizione vera e propria di Maat, ma ha sempre espresso la convinzione che essa fosse conoscibile e insegnabile attraverso la sua realizzazione. Con ciò abbiamo però enunciato soltanto un risvolto della questione. Un ulteriore aspetto altrettanto rilevante è costituito, a nostro avviso, dal fatto che il pensiero egiziano non privilegia il discorso predicativo come sua unica e peculiare forma espressiva. La componente iconografica e visiva, per esempio, svolge in esso un ruolo 769 Ibid., IV, 3, 1005 b, 19-20. 252 che non è semplicemente di corredo. La scienza di Aristotele si identifica, invece, con il discorso che la esprime, ossia con una catena lineare di proposizioni. Relativamente al contenuto del primo libro dei Secondi analitici, Barnes afferma: «La tesi essenziale del Libro A è semplice e sorprendente: le scienze sono esposte correttamente in sistemi formali assiomatizzati. Ciò che Euclide fece più tardi, con esitazione, per la geometria, Aristotele volle che fosse fatto per ogni branca della conoscenza umana. Le scienze devono essere assiomatizzate: ciò significa che l’ambito di verità che ciascuna definisce deve essere presentato come una sequenza di teoremi dedotti da alcuni postulati o assiomi di base».771 Il principio di non contraddizione è una legge del pensiero discorsivo e predicativo. In tale ambito, come si legge nella Metafisica, «è impossibile che esso venga violato, se appena colui che intende contestarlo dice qualche cosa; se non dice nulla, è ridicolo cercare di impiantare un ragionamento con uno che non ragiona su nulla, perché non ha la ragione. Costui infatti è simile a una pianta proprio in quanto tiene quell’atteggiamento».772 Ma ciò di cui parla Aristotele sarebbe stato considerato dal «filosofo» egiziano soltanto uno tra i vari linguaggi possibili, non l’unico appropriato per veicolare la conoscenza. A proposito della cultura dell’antico Egitto, all’inizio del capitolo abbiamo parlato di «molteplicità degli approcci». Quest’ultima si traduce in una molteplicità di linguaggi: accanto al linguaggio discorsivo, troviamo quello dell’immagine, quello architettonico, quello del suono, ecc. Nessuno di questi può essere assolutizzato, perché tutto ciò che è assoluto per l’Egiziano contrasta con l’esistente. Si pone allora il problema della relazione e dell’accordo tra questi linguaggi e del nesso sussistente tra ciascuno di essi e la realtà di cui parla. Relativamente alla «logica» egiziana, Hornung parla di «complementarietà». Il «principio di complementarietà» è stato introdotto da Niels Bohr nella fisica per descrivere il comportamento ambiguo dell’energia nei quanti, per poter spiegare il duplice aspetto corpuscolare e ondulatorio dei fenomeni che avvengono nel microcosmo della meccanica quantistica.773 Questo principio esclude, in sostanza, la possibilità che un singolo 770 E. Berti, Nuovi studi aristotelici, vol. I, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 130 sg. 771 J. Barnes, Introduction a Aristotle’s Posterior Analytics, cit., pp. xii sg. 772 Aristotele, Metafisica, IV, 4, 1006 a, 12-15. 773 In proposito cfr. N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, trad. it. di P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino 1961. 253 linguaggio possa diventare il supporto e il veicolo naturale della razionalità. Trattando del problema della realtà nella meccanica quantistica, Silvano Tagliagambe osserva: «Tra i linguaggi che contribuiscono a definire e a esprimere l’ambito concettuale di una teoria complessa non può […] essere stabilita alcuna gerarchia valida in linea di principio. Al più, ci possono essere motivi di carattere storico, o di organizzazione sistematica, tali da indurre […] a riconoscere una priorità nell’esposizione o, al massimo, nella conoscenza, ma in nessun caso questa priorità può essere trasformata in una relazione fondante in grado di legittimare la riduzione degli altri linguaggi a quello “di base”».774 La mancanza di un linguaggio «di base» rende impossibile una descrizione univoca dell’oggetto. Bohr precisa, infatti: «noi dobbiamo, in generale, essere preparati ad accettare il fatto che una spiegazione completa di una stessa questione possa richiedere diversi punti di vista che non ammettono una descrizione unitaria».775 Soltanto la combinazione di differenti linguaggi consente di tessere una rete semantica in grado di descrivere i fenomeni in modo esauriente; «l’unitarietà della rete viene […] garantita da un’intensa attività analogica di parziale traduzione da un linguaggio all’altro».776 Secondo Hornung, i nuovi orizzonti concettuali aperti dalla fisica contemporanea potrebbero contribuire in modo rilevante ad una più adeguata comprensione delle strutture logiche che sottendono il pensiero egiziano e, più in generale, il pensiero «pre-greco». 774 S. Tagliagambe, L’epistemologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 255. 775 N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 357. 776 S. Tagliagambe, L’epistemologia contemporanea, cit., p. 257. 254 CAPITOLO VIII L’APPROCCIO EGIZIANO AL MONDO TRA ORALITA’ E SCRITTURA La concezione egiziana dell’uomo e del mondo come reti articolate di relazioni tra enti in rapporto dinamico tra loro è il risultato dell’attività di un pensiero «analogico», di un pensiero, cioè, che coglie il singolo ente attraverso l’insieme dei rimandi che lo collega a una serie di altri enti del cosmo. La commensurabilità che vige tra le varie regioni dell’esistente e tra gli enti che le popolano, esprimibile anche matematicamente tramite delle proporzioni, è dunque la condizione necessaria all’intelligibilità del mondo. Il non esistente, il Nun, privo di qualsiasi punto di riferimento e di qualsiasi determinazione, è del tutto inintelligibile. Il termine ultimo di tutti i rimandi possibili, fondamento del cosmo e dell’uomo, è costituto dalla legge suprema di Maat, che rappresenta, come abbiamo rilevato nel capitolo precedente, una sorta di «principio anipotetico». Per l’uomo egiziano, l’aspetto conoscitivo e quello operativo non sono mai del tutto scissi tra loro. L’atto conoscitivo non è mai, cioè, puramente contemplativo, come cercheremo di evidenziare meglio; al contrario, esso deve contribuire alla coesione e all’ordine del mondo. In questo contesto, il pensiero che si organizza secondo la modalità discorsiva e predicativa non è inteso come lo strumento privilegiato per rapportarsi alla realtà. Nei paragrafi che seguono ci soffermeremo sul ruolo della parola e del linguaggio in generale nel rapporto dell’uomo egiziano con i suoi simili e con il mondo. Il nostro percorso avrà come punto di partenza le caratteristiche della magia. In essa si manifestano, infatti, la struttura e il funzionamento del cosmo egiziano e del pensiero analogico che ne è il riflesso. La parola «magica» ha una natura «performativa». Ci occuperemo, quindi, del nesso tra performatività e pensiero analogico. In proposito, prenderemo in considerazione le formule di trasformazione del Libro dei Morti, basandoci sull’analisi condotta da Frédéric Servajean e, successivamente, proporremo una nostra analisi delle formule di apertura del papiro di Ebers. Dall’esame di questi testi emergeranno il ruolo e l’importanza delle proposizioni a predicato nominale in un pensiero che procede «analogicamente». Ci rivolgeremo, infine, al rapporto tra oralità e scrittura. Il sistema geroglifico, strettamente legato alla lingua di cui è veicolo, riproduce la rete di relazioni cosmica. 255 Nell’interdipendenza tra lingua egiziana, grafia geroglifica e ordine cosmico ritroviamo la logica del corpo articolare alla base delle concezioni antropologiche dell’antico Egitto. La conoscenza umana consiste nell’articolare e nell’attivare una serie di elementi o di parti, come quelle del corpo di Osiri. Questo procedimento potrebbe, quindi, chiamarsi «metodo osiriano». 1. Il sistema della magia come organon conoscitivo-operativo Il cosmo egiziano si presenta come una molteplicità di forze in divenire, che può assumere configurazioni differenti. In determinate circostanze, alcune di queste forze possono diventare una minaccia alla sopravvivenza dell’uomo, dello stato o addirittura del cosmo stesso. Da un lato, ciò fa parte della natura dell’esistente, dall’altro, tuttavia, si rende necessario un intervento costante da parte dell’uomo per la conservazione della vita. Si tratta di un intervento che possiamo definire «magico». L’Egitto faraonico è intriso di magia; essa viene praticata sia all’interno che all’esterno dei templi. Ad essa ricorrono tanto gli abitanti del mondo terreno quanto quelli dell’aldilà.777 Relativamente alla magia egiziana, Sauneron rileva che si tratta di un ambito «dove la sola “legge” riconosciuta è quella dei ritorni analogici».778 Lo studioso osserva, inoltre, che questa magia è una sorta di «scienza».779 Per comprendere e valutare meglio queste affermazioni, dobbiamo considerare più da vicino il ruolo svolto dalla magia nel mondo egiziano e le sue principali modalità operative. Nel primo capitolo, abbiamo rimarcato che la forza magica, heka, è un elemento fondamentale dell’universo egiziano. La magia è, tuttavia, anche una «tecnica» che prevede delle operazioni concrete. Come ha messo in evidenza Thomas Schneider, questa pratica non può essere ritenuta semplicemente uno «specifico settore del mondo e dell’agire umano», accanto agli altri, quelli relativi all’amministrazione dello stato, al culto, alla medicina, ecc. Una simile posizione da parte di chi si accosta a queste tematiche deriva generalmente da un giudizio a priori negativo sulla magia; in questa prospettiva, si avrebbe a che fare con un 777 L’operatore di magia dell’antico Egitto richiama, per certi versi, la figura del mago come servitore della natura teorizzata da alcuni pensatori del Rinascimento, come Giordano Bruno. In proposito, si pensi anche al personaggio di Prospero, protagonista della Tempesta di Shakespeare. 778 S. Sauneron, Le monde du magicien égyptien, cit., p. 29. 779 Cfr. ibid. 256 sottoprodotto dello spirito egiziano. La magia che troviamo nella Valle del Nilo è, invece, «una costante fondamentale dell’immagine del mondo egiziana, senza la quale quest’ultima non può essere compresa».780 Secondo Schneider, la magia in Egitto costituisce un sistema generale finalizzato alla stabilizzazione dell’ordine esistente, che trova applicazione in tutti i settori del mondo. Questo sistema funziona sulla base di meccanismi «razionali» e il risultato che produce è la reintegrazione di «settori del mondo caotici, attraverso analogie, nella struttura normativa dell’ordine dotato di senso».781 Si può distinguere una magia «preventiva» da una «reattiva». Nel settore della politica, per esempio, per la salvaguardia dello stato e per il benessere della società, verrà applicata una magia preventiva; nel caso si tratti di politica estera, gli strumenti specifici impiegati a supporto dell’azione magica saranno la diplomazia, l’esercito e le fortificazioni, nell’ambito della politica interna, invece, si farà ricorso a risorse quali l’educazione e l’etica. Se si dovrà fronteggiare una malattia, invece, l’intervento magico sarà di tipo reattivo; in questo caso lo strumento ausiliario specifico sarà la medicina.782 Esiste, inoltre, una magia di carattere più generale, in grado di agire sulla natura o sul cosmo intero; essa ha come veicolo principale le pratiche cultuali officiate all’interno dei templi. La magia rappresenta, dunque, una categoria «di ordine superiore» (übergeordnete), in grado di estendersi al cosmo intero e di comprendere ogni settore dell’agire e del conoscere umani. Essa è universale e «funziona», perché riproduce il dinamismo cosmico e l’ordine che lo governa. Se tale è la natura della magia egiziana, allora, a nostro avviso, abbiamo a che fare non tanto con una forma di «scienza» quanto con una sorta di organon, ossia con una propedeutica generale a ogni singolo ambito conoscitivo. Il termine ojvrganon, «strumento», è stato utilizzato fin dall’antichità per designare, nel contesto della filosofia aristotelica, il corpus degli scritti logici. Aristotele non spiega, in realtà, quale sia il suo concetto di logica, né assegna ad essa un posto preciso nell’ambito dello schema in cui suddivide e sistema le scienze. Alessandro di Afrodisia, uno dei principali commentatori aristotelici, definisce la logica o 780 Cfr. T. Schneider, Die Waffe der Analogie. Altägyptische Magie als System, in K. Gloy, M. Bachmann (a cura di), Das Analogiedenken. Vorstösse in ein neues Gebiet der Rationalitätstheorie, Karl Alber, Freiburg, München 2000, p. 47. 781 Ibid., p. 37. 782 Cfr. ibid., p. 39. 257 «sillogistica», «il prodotto della filosofia» e afferma che, in ragione di ciò, «alcuni pensano che essa sia anche una parte della filosofia. Altri, tuttavia, dicono che non è una parte, ma uno strumento [ojvrganon] della filosofia».783 Secondo il commentatore, la logica è stata concepita all’origine proprio come uno strumento: «i primi pensatori che svilupparono lo studio della logica a misura della sua utilità ebbero ragione a chiamarla uno strumento e non una parte».784 I «pensatori» ai quali si fa riferimento sono Aristotele e i suoi discepoli. La concezione della logica espressa da Alessandro ha avuto una notevole influenza storica, tanto da determinare un titolo collettivo per gli scritti logici aristotelici. A nostro avviso, ojvrganon indica bene la funzione della logica, che fornisce l’equipaggiamento concettuale preliminare, necessario per poter affrontare le diverse discipline che trovano posto nel sistema. Lo strumento logico consente di ordinare dati e riflessioni, conferendo loro una forma coerente e intelligibile, permette, cioè, di muoversi e operare nei differenti territori delle varie scienze. Quali sono i meccanismi interni dell’organon «magico» egiziano? Che cosa produce la sua applicazione? Le caratteristiche essenziali di questo strumento operativo possono essere così sintetizzate: 2) il ricorso all’analogia. Gli enti che popolano il cosmo, infatti, sono legati tra loro da una rete di rimandi in virtù della quale ognuno di essi manifesta la propria identità e il proprio ruolo; 3) l’utilizzo della parola. In proposito, Sauneron rileva: «tutta la magia egiziana non è che una questione di parole; i riti materiali e la messa in scena intervengono soltanto in modo secondario, tutto si riduce, in fin dei conti, a conoscere le formule onnipotenti – o a sapere dove trovarle».785 Per rispondere in modo più efficace ai quesiti che abbiamo posto, esaminiamo l’applicazione di questo modello in un contesto specifico. Prendiamo in considerazione l’ambito della medicina. Le formule magiche riportate dai papiri medici, in realtà, non sono molte in rapporto al numero complessivo delle ricette presenti. Come ha mostrato Wolfhart Westendorf, tuttavia, le principali raccolte di ricette mediche prevedono che i vari tipi di intervento terapeutico siano supportati da 783 Alessandro di Afrodisia, Sui Primi analitici di Aristotele, 1, 8-9, la trad. segue quella inglese di J. Barnes (Alexander of Aphrodisias On Aristotle Prior Analytics 1.1-7, Duckworth, London 1991). 784 Ibid., 3, 3-4. 785 S. Sauneron, Le monde du magicien égyptien, cit., p. 32. 258 formule di accompagnamento corrispondenti, fissate per iscritto soltanto in un punto del testo.786 Il prologo del papiro di Ebers, per esempio, è costituito da tre formule che, secondo Bardinet, devono essere recitate dal medico per la sua protezione personale, in occasione del contatto con il paziente.787 Il Grundriss afferma, invece, che le formule sono destinate al malato, anche se possono essere lette dal medico in sua vece.788 Questo particolare, ai fini del nostro discorso, non è comunque rilevante. Il nostro obiettivo è, infatti, quello di cogliere, per quanto possibile, la «logica» interna del medesimo modello applicato in contesti differenti. La seconda delle formule menzionate inizia con queste parole:789 «Horo fu liberato da Iside dalle cose malvage fatte contro di lui da suo fratello Seth, quando egli (=Seth) uccise suo padre Osiri».790 L’autore della formula individua in primo luogo un avvenimento di riferimento, che si svolge al di fuori dello spazio e del tempo ordinari e che vede come protagonisti delle divinità, ossia dei principi cosmici. L’avvenimento in questione è tratto dalla leggenda osiriana e l’azione si svolge dopo la morte di Osiri. Il testo prosegue: «O Iside, grande nel potere magico [wrt HkAw], possa tu liberarmi, possa tu slegarmi da qualsiasi cosa cattiva, malvagia e rossa, causata dall’attività di un dio o di una dea, causata da un morto o una morta o da un oppositore, maschio o femmina, che venisse a opporsi in me, nello stesso modo in cui [mj] tu liberasti e slegasti tuo figlio Horo e dal momento che [Hr-ntt] sono entrato (anch’io) nel fuoco e sono scampato all’acqua. (Allora) non cadrò nella trappola di questo giorno».791 In questo passo vengono istituite delle analogie tra la situazione contingente, quella del medico che deve liberare il paziente dalla causa della malattia, ma che deve anche proteggere se stesso, e un evento simile di portata cosmica che si è già concluso positivamente, o meglio, che termina con esito positivo ogni volta che si ripete, al di là dello spazio e del tempo terreni. Questo «meccanismo» dà efficacia alla formula e 786 Cfr. W. Westendorf, Handbuch der altägyptischen Medizin, vol. I, Brill, Leiden, Boston, Köln 1999, pp. 529 sgg. Cfr. anche T. Schneider, Die Waffe der Analogie. Altägyptische Magie als System, cit., p. 77. 787 Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 39 sgg. 788 Cfr. H. Grapow, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. II, Von den medidizinischen Texten, Akademie Verlag, Berlin 1955, p. 26. 789 Abbiamo già citato un breve passaggio di questa formula nel secondo capitolo; cfr. supra, p. 89. 790 Eb. 2 (1, 12-13). 791 Eb. 2 (1, 13-17). 259 ciò in virtù della rete di relazioni che collega tutti gli enti del cosmo. Si tratta di un procedimento che richiama il metodo della falsa posizione impiegato nella matematica egiziana. Si deve individuare la proporzione che consente di pervenire alla soluzione corretta. Nel caso della formula che stiamo esaminando, la proporzione viene impostata in questo modo: Horo : orante (medico/malato) = Seth : agente patogeno (o azioni malvage compiute da Seth : malattie) = Iside : azione terapeutica/protezione. L’ultima parte del testo recita: «Ho detto quando ero giovane e piccolo: “O Ra, parla in favore del tuo rappresentante (lett.: del tuo corpo djet)! O Osiri, parla in favore di colui che è uscito da te!” Allora Ra parlò in favore del suo rappresentante [Dt=f] e Osiri parlò in favore di colui che era uscito da lui, poiché (prima) tu mi avevi salvato da qualsiasi cosa cattiva, malvagia e rossa, a causa dell’attività di un dio o di una dea, a causa di un morto o di una morta».792 Il meccanismo dell’analogia permette all’orante di parlare a nome del dio al quale si è rapportato. Non si tratta di un’assimilazione di colui che recita a una divinità. Chi parla in prima persona, medico o paziente, mantiene la propria identità e, tuttavia, assume le principali caratteristiche del dio, partecipa cioè della sua natura. Nell’ultimo passo della formula vengono chiamate in causa altre due divinità, Ra e Osiri, allo scopo di estendere la rete di analogie e potenziare, quindi, l’azione terapeutica o profilattica. In termini più formali: Horo : orante = Ra e Osiri : azione terapeutica/protezione. Il medico o il paziente che recitano la formula partecipano della natura di Horo grazie a una commensurabilità che viene riconosciuta e attivata. Viene, cioè, in primo luogo riconosciuta l’esistenza di una serie di analogie. Queste ultime svolgono, come osserva Schneider, una «funzione tecnica. Esse istituiscono delle relazioni tra il settore in pericolo e l’ordine costitutivo del mondo».793 Le analogie vengono, successivamente, «attivate» attraverso la parola. 792 Eb. 2 (1, 17 – 2, 1). 260 2. La performatività del linguaggio Nel XVI trattato del Corpus Hermeticum, Asclepio, discepolo di Ermete Trismegisto, discorrendo con il re Ammone sulle peculiarità della lingua egiziana e sullo stravolgimento (diastrofhv) del contenuto di un testo che può comportare una traduzione dall’egiziano al greco, a un certo punto afferma: «Espresso invece nella lingua originale, il discorso mantiene chiaro il senso delle parole, poiché la qualità sonora e l’intonazione delle parole egizie ha in sé l’efficacia [th;n ejnevrgeian] di ciò che viene detto».794 Riferendosi poi al linguaggio greco, il discepolo di Ermete commenta: «I Greci […] fanno discorsi vuoti, adatti a produrre dimostrazioni [ajpodeivxewn ejnerghtikouv~], e questa è la loro filosofia: un rumore di parole [lovgwn yovfo~]. Noi invece non ci serviamo di parole, ma di suoni ricchi di azione [fwnai`~ mestai`~ tw`n ejvrgwn]».795 I testi attribuiti a Ermete Trismegisto, considerati nel Rinascimento di origine antichissima, sono oggi fatti risalire ai primi secoli della nostra era. E’, tuttavia, confermata l’origine autenticamente egiziana di una parte delle dottrine da essi riportate. I passi del discorso di Asclepio che abbiamo richiamato mettono in luce un aspetto essenziale della concezione egiziana del linguaggio. In essi vengono delineati e distinti due versanti lungo i quali può dispiegarsi l’esperienza linguistica: da una parte la dimensione comunicativa del linguaggio, dall’altra il suo potere di operare, di intervenire nell’ordine del mondo. Il limite ascritto alla filosofia greca e alla lingua nella quale è espressa è quello di non essere in grado di spingersi oltre la prospettiva della comunicazione e dell’argomentazione. La caratteristica essenziale della lingua egiziana viene individuata, invece, nel suo «potere creativo». Relativamente all’egiziano, possiamo affermare che esso è caratterizzato da entrambi gli orizzonti messi in evidenza dal Corpus Hermeticum e che l’aspetto «performativo» svolge un ruolo tutt’altro che secondario. Negli ultimi decenni, le ricerche di un certo numero di egittologi hanno apportato dei notevoli contributi alla comprensione del significato e dell’importanza del fenomeno della performatività nella lingua egiziana. 793 T. Schneider, Die Waffe der Analogie. Altägyptische Magie als System, cit., p. 40. 794 Corpus Hermeticum, XVI, 2, trad. it. di V. Schiavone, Bur, Milano 2009. Abbiamo modificato leggermente la trad. di Schiavone, rendendo ejnevrgeia con «efficacia» anziché «energia». 261 Le ricerche sulla performatività del linguaggio nascono dalle riflessioni linguistiche sviluppate dai filosofi appartenenenti alla corrente analitica, anche se la particolarità degli enunciati performativi era già stata rilevata da alcuni linguisti. Un punto di riferimento fondamentale nell’ambito di questi studi è costituito dalle dodici conferenze tenute da John Austin nel 1955 ad Harvard.796 Il tema trattato dallo studioso concerne l’asserzione in generale, ma una particolare attenzione è rivolta a quegli enunciati che non hanno lo scopo di descrivere uno stato di cose o di esporre dei fatti, bensì servono a compiere un’azione. Austin riassume le caratteristiche di questi enunciati in questi termini: 1) «non “descrivono” o “riportano” o constatano assolutamente niente, non sono “veri o falsi”; e 2) l’atto di enunciare la frase costituisce l’esecuzione, o è parte dell’esecuzione, di una azione che peraltro non verrebbe normalmente descritta come, o come “soltanto” dire qualcosa».797 Tali asserzioni sono chiamate «performative» (performatives), in opposizione a quelle «constative» (constatives), la cui funzione è quella di descrivere delle situazioni.798 Tra gli esempi formulati da Austin troviamo frasi di questo tipo: «“Battezzo questa nave Queen Elizabeth”– pronunciato quando si rompe la bottiglia contro la prua». «“Lascio il mio orologio in eredità a mio fratello” – quando ricorre in un testamento».799 Come risulta da questi esempi, una frase performativa, per avere efficacia, deve essere pronunciata in «circostanze appropriate». Deve, cioè, vigere una procedura convenzionale, accettata e rispettata da tutti i partecipanti, che preveda l’atto di pronunciare certe parole o l’esecuzione di determinate azioni da parte di certe persone. Se manca un elemento del contesto previsto dalla procedura l’enunciato non è «falso», bensì «infelice» (unhappy), termine che vuole evidenziare che c’è qualcosa di scorretto, qualcosa che funziona male.800 795 Ibid. 796 Le conferenze sono state pubblicate postume, nel 1962, con il titolo How to do Things with Words. 797 J. Austin, Come fare cose con le parole, cit., p. 9. 798 Il termine «performativo» deriva dal verbo inglese to perform. 799 Ibid., p. 10 800 Cfr. ibid., p. 12 e pp. 15 sgg. 262 In ambito egittologico, l’idea che alcune frasi della lingua egiziana possano avere una valenza performativa era già stata avanzata nel 1924. Battiscombe Gunn aveva sostenuto, infatti, che le legende che accompagnavano le raffigurazioni parietali dei templi, costruite con il compiuto sDm∼n=f, esprimevano l’azione rappresentata nella scena, la quale si realizzava nel momento dell’enunciazione.801 Mancava ancora, tuttavia, una teoria linguistica adeguata che gli permettesse di dare sufficiente fondamento alla sua ipotesi. Le grammatiche di Gardiner e Lefebvre, apparse rispettivamente nel 1927 e nel 1940, ripresero l’idea di Gunn: «La funzione primaria della forma sDm∼n=f, quindi, era probabilmente quella di presentare l’azione verbale come un evento, come qualcosa che accade o succede a qualcuno, senza riguardo per la posizione temporale».802 «In via d’eccezione, nelle formule di carattere arcaico che accompagnano delle scene rituali, sDm∼n=f si impiega, senza riferimento al passato, per descrivere un’azione che si compie nel momento stesso in cui la si enuncia. L’agente è un dio o un sacerdote».803 Questa interpretazione non fu accolta, all’epoca, da tutti gli egittologi. Alcuni di essi non condividevano, infatti, l’idea di tradurre una forma verbale al compiuto con un presente.804 A partire dagli anni Ottanta, nuovi studi egittologici, potendosi avvalere delle nuove teorie formulate in ambito linguistico, hanno messo in evidenza con più efficacia la funzione performativa di certi enunciati della lingua egiziana. In proposito, Vernus, prendendo in esame le scene presenti nella cappella bianca di Sesostri I a Karnak, in cui un dio offre un simbolo (anx, Dd o wAs) al re pronunciando una frase al compiuto, osserva: «Il dio non parla di altro atto se non di quello di affermare d∼n=j n=k. Quando la rappresentazione sembra riprodurre il senso dell’espressione, si tratta di una ridondanza secondaria. Così, tali utilizzi di sDm∼n=f devono essere chiamati performativi».805 801 Cfr. B. Gunn, Studies in Egyptian syntax, Geuthner, Paris 1924, pp. 69 sgg. 802 A. Gardiner, Egyptian Grammar, Griffith Institute Ashmolean Museum, Oxford 1988, § 411, p. 328. 803 G. Lefebvre, Grammaire de l’Égyptien Classique, Imprimerie de l’Insitut Français d’Archéologie Orientale, Le Caire 1940, § 279, p. 139. 804 Cfr., per es., A. De Buck, Grammaire élémentaire du moyen égyptien, traduite par B. van de Walle et J. Vergate, Brill, Leiden 1952, § 133 e E. Edel, Altägyptische Grammatik, cit., § 539. 805 P. Vernus, “Ritual” sDm.n.f and some values of the “accompli” in the Bible and in the Koran, in S. Israelit-Groll (a cura di), Pharaonic Egypt. The Bible and Christianity, The Magnes Press, The Hebrew University, Jérusalem 1985, p. 309. 263 Secondo Vernus, dunque, l’enunciato d∼n=j n=k, pronunciato dal dio, non è una semplice didascalia del dipinto al quale è associato. Esso, da un punto di vista puramente grammaticale, andrebbe tradotto «io ti ho dato»; la forma verbale impiegata, infatti, esprime un’azione che è già stata compiuta. Se teniamo conto del valore performativo della frase, però, nella traduzione dovremo utilizzare il presente. L’impiego del compiuto vuole evidenziare che, nel momento in cui un atto viene nominato, esso, di fatto, è già realizzato. Vernus fa notare che anche in lingue semitiche come l’ebraico e l’arabo ritroviamo un utilizzo analogo del compiuto, per formulare delle proposizioni a valore performativo.806 Fondandosi sulle osservazioni di Vernus, Françoise Labrique mostra che certi enunciati pronunciati da un dio o dal re nelle scene di offerta che si trovano sulle pareti del tempio di Edfu vanno interpretati in senso performativo. Ancora una volta l’accento viene posto sulla forma sDm∼n=f, impiegata in un contesto rituale.807 Caratteristica fondamentale della performatività è quella di dipendere dal contesto, dalla situazione: «la performatività […] non è né morfologica né semantica, ma pragmatica, situazionale».808 Non si possono, dunque, stabilire delle leggi grammaticali per questo fenomeno, ribadisce Philippe Derchain, «ma ogni volta che una situazione d’enunciazione sembra richiederlo, bisogna pensare che l’Egiziano sentisse il carattere performativo della sentenza».809 Essendo essenzialmente «pragmatico», il linguaggio performativo è indice di un pensiero che, a sua volta, si organizza in funzione di una situazione specifica. Si tratta dello stesso approccio caratteristico della matematica egiziana, che abbiamo presentato nel capitolo precedente, in cui l’ordine del procedimento dipende dal problema da risolvere. La frase «questa è un’offerta», per esempio, enunciata rispettando determinate condizioni (un sacerdote che la proferisce, in un tempio, davanti a delle vettovaglie, ecc.), trasforma l’oggetto considerato in un’offerta reale al dio, e ciò indipendentemente dal fatto che esso sia qualcosa di materiale o una figura dipinta. Assumendo questa prospettiva, quindi, le scene raffigurate nei templi non appaiono 806 Cfr. ibid., pp. 311 sg. 807 Cfr. F. Labrique, Le sDm.n.f “rituel” à Edfu: le sens est roi, in Göttinger Miszellen, 106 (1988), pp. 53 sgg. 808 Ph. Derchain, À propos de performativité. Pensers anciens et articles récents, in Göttinger Miszellen, 110 (1989), p. 15. 264 più semplicemente come delle descrizioni di avvenimenti, ma come degli atti veri e propri che si perpetuano. Rispetto alle rappresentazioni egiziane, quelle prodotte dall’arte occidentale hanno, invece, come scopo principale quello di comunicare delle informazioni o indurre delle emozioni nell’osservatore. «Si comprende così – commenta Derchain relativamente al concetto di performatività – la portata enorme dell’introduzione di questa nozione nell’interpretazione egittologica. Essa implica che ci si sforzi di cogliere la situazione extra-testuale nel suo insieme, senza più limitarsi a studiare le iscrizioni secondo dei punti di vista puramente grammaticali, manifestamente insufficienti per afferrare la complessità del fenomeno “tavola d’offerta”».810 3. Discorso performativo e pensiero analogico Per chiarire meglio il ruolo della performatività del linguaggio nella cultura egiziana e il suo nesso con il meccanismo dell’analogia di cui abbiamo parlato nel primo paragrafo, ci appoggeremo ora all’analisi delle formule di trasformazione contenute nel Libro dei Morti, condotta da Servajean in un suo recente saggio.811 Si tratta di una serie di formule funerarie grazie alle quali il defunto può assumere differenti aspetti.812 Il locutore è il defunto stesso che parla in prima persona; l’atto del recitare coincide con un’azione che produce degli effetti concreti, nel caso specifico la trasformazione in un animale, in un fiore di loto o in un essere divino. «Pronunciando il testo di queste formule – dicendo io – il defunto constata e/o attiva una rete complessa di analogie. Gli elementi che la compongono appartengono ai miti o alla teologia di una o più divinità. Esse intrattengono tra di loro, o con il defunto, delle relazioni particolari […] che si possono qualificare come analogiche e/o “simpatiche”. Per quanto riguarda l’analogia, si tratta soprattutto di un’analogia di 809 Ibid., p. 18, nota 8. 810 Ibid., p. 14. Nonostante qualche contestazione (cfr., per es., D. Kurth, Zum “sDm.n.f” in Tempeltexten des griechisch-römischen Zeit, in Göttinger Miszellen, 108 (1989), pp. 31 sgg), la nozione di performatività è ormai stata accolta nel campo dell’egittologia. Ritroviamo questo concetto, per es., negli studi di A. J. Baumann (cfr. Id., The suffix conjugation of early Egyptian as evidenced in the Underworld Books, vol. I, UMI, Ann Arbor 1998, p. 289), nella grammatica di M. Malaise e J. Winand (cfr. Id., Grammaire raisonnée de l’égyptien classique, C.I.P.L., Liège 1999, §§ 389 e 563) e nelle ricerche di F. Servajean (cfr. Id., Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, IFAO, Le Caire 2008). 811 Cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit. 812 Le formule in questione costituiscono il contenuto di dodici capitoli del Libro dei Morti (76-88). Esse richiamano le formule di trasformazione che troviamo nei Testi dei Sarcofagi, circa una sessantina; il locutore di queste ultime, tuttavia, è il ritualista che si riferisce al defunto in terza persona. 265 situazione – in generale con una divinità o un essere divino (pianta, animale, concetto, ecc.) – in relazione con la “legge dei ritorni analogici” di S. Sauneron. Per quanto riguarda la simpatia, si tratta di una dottrina attestata dall’epoca greca ma che sembra di origine egiziana».813 Delle formule analizzate da Servajean prenderemo in considerazione un passo di quella che costituisce il capitolo 80 del Libro dei Morti, cercando di mettere in evidenza gli elementi funzionali al nostro discorso. Dopodichè, nel paragrafo seguente, ci rivolgeremo nuovamente al prologo del papiro di Ebers e, sulla base degli aspetti emersi dall’esame del primo testo, proporremo un’analisi della formula di apertura. Il capitolo 80 del Libro dei Morti si intitola: «Fare una trasformazione in un dio e fare in modo che le tenebre si rischiarino» (jrt xprw m nTr rdt sSp kkw).814 Il passo che ci interessa si ricollega al racconto mitologico del combattimento tra Horo e Seth che abbiamo brevemente richiamato nel capitolo precedente. Durante la lotta Seth colpisce un occhio del rivale e lo lacera in sei parti. Secondo il mito, in virtù dell’intervento magico di Thot l’occhio di Horo recupera in seguito la sua integrità. Nel passo in questione, viene ripercorso il processo della sua ricostituzione in sei tappe. La suddivisione del testo è la seguente:815 1) Jnk sxAy=f. Io sono il suo ricordo. 2) Jw jT∼n=j Hw m njwt=j, gm∼n=j sw jm=s. Io afferro Hu nella mia città, avendolo trovato in essa. 3) Jw jn∼n=j kkw m wsrw=j. Io rischiaro le tenebre grazie al mio potere. 4) Jw Sd∼n=j jrt m jwty(t)=s, n jj 15-n(y)t- Io salvo l’occhio per mezzo di ciò che non Hb. ha, non essendo ancora venuto il quindicesimo giorno di festa. 5) Jw wDa∼n=j stS (j)m(y) prw Hrw Hr jAw Io giudico Seth che è nelle dimore Hna=f superiori riguardo al Vegliardo che è con 813 F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., p. 5. Relativamente alla nozione di «simpatia», cfr. ibid., nota 24. 814 La trad. è nostra. 815 Cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., p. 42. L’analisi del testo è condotta sulla versione A. Per una visione sinottica delle differenti versioni della formula 80, cfr. ibid., pp. 111 sgg. 266 lui. 6) Jw apr∼n=j DHwty m Hwt-jaH, n jj 15-n(y)t- Io equipaggio Thot nel castello della Hb, jT∼n=j wrrt. luna, non essendo ancora venuto il quindicesimo giorno di festa, dopo aver preso la corona bianca. La prima frase è una proposizione a predicato nominale introdotta dal pronome indipendente jnk. Seguono delle proposizioni a predicato avverbiale con lessema verbale, alcune delle quali sono introdotte dall’indicatore di enunciazione jw. La presenza di quest’ultimo segna l’inizio di una ulteriore tappa del processo. Secondo Servajean, infatti, la presenza, o l’assenza, di jw permette di distinguere due tipi della forma verbale sDm∼n=f: uno con valore performativo (introdotto da jw), l’altro con valore constativo.816 L’occhio di Horo è mitologicamente associato alla luna.817 Le sei tappe necessarie a ricostituire l’organo possono essere messe in relazione con il periodo di luna crescente. Nel passo riportato, in due occasioni si fa riferimento al «quindicesimo giorno di festa», che coincide con la pienezza del disco lunare. 818 La frase iniziale istituisce una analogia tra il locutore e la luna che, con buona probabilità, è nel suo periodo di invisibilità (novilunio). Il defunto che recita la formula afferma: «Io sono il suo ricordo»; si tratta del ricordo o riflesso del sole, si sta parlando cioè della luna, anche se sole e luna, in realtà, non sono menzionati esplicitamente.819 L’analogia può essere espressa formalmente in questo modo: defunto : luna = Ra : sole.820 Le tappe successive sono realizzate attraverso una serie di enunciati introdotti da jw; in essi il compiuto sDm∼n=f ha valore performativo e può essere tradotto, dunque, 816 Cfr. ibid., p. 44. 817 Riguardo alle concezioni mitologiche egiziane relative alla luna, Derchain scrive: «Il simbolo mitologico più frequente è tuttavia l’”occhio di Horo”, Horo che è in questo caso il dio del cielo. Ma in questo caso, la luna diventa femminile, dal momento che “occhio” è femminile in egiziano. E poiché è normale che il dio del cielo abbia due occhi, si spiegherà che essa è l’occhio sinistro, mentre il sole è l’occhio destro» (Id., Mythes et dieux lunaires en Égypte, in La lune, mytes et rites, Éditions du Seuil, Paris 1962, pp. 20 sg). 818 Nelle fonti egiziane il riempimento dell’occhio di Horo avviene seguendo un ciclo di sei giorni, che richiama il numero delle parti in cui l’organo è stato diviso, oppure un ciclo di quattordici/quindici giorni, corrispondenti alla durata del periodo di luna crescente. In proposito, cfr. Ph. Derchain, Mythes et dieux lunaires en Égypte, cit., pp. 25 sgg). 819 Cfr. P. Barguet (a cura di), Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, Les Éditions du Cerf, Paris 1967, p. 118, nota 2. 267 come un presente. Con il primo di questi enunciati (seconda tappa), il defunto acquisisce Hu, ossia il potere della parola, del verbo creatore. Segue un compiuto con valore constativo (gm∼n=j), che indica il motivo per cui il defunto ha ottenuto questo potere: lo ha trovato nella sua città. Grazie al potere di Hu, il locutore della formula è in grado di produrre luce nelle tenebre (terza tappa). Con un ulteriore enunciato performativo (quarta tappa) l’occhio viene salvato (Sdj), viene cioè ricostituito mediante «ciò che non ha» (jwty(t)=s).821 Il progressivo riempimento dell’occhio si compie durante il periodo di luna crescente, prima del plenilunio (il quindicesimo giorno di festa), informazione che viene fornita impiegando una forma negativa del compiuto a valore constativo (n jj 15-n(y)t-Hb).822 La tappa seguente (la quinta) richiama il mito di Osiri e la sua uccisione per mano di Seth. Il Vegliardo di cui si parla designa probabilmente Osiri, ma anche la luna.823 Il defunto giudica Seth e lo separa da Osiri-luna; il verbo utilizzato, wDa, può significare, infatti, sia «giudicare» sia «separare». L’azione si svolge su un piano cosmico; attraverso questo giudizio o separazione, ogni elemento viene rimesso al proprio posto e il potere oscurante esercitato da Seth sulla luna viene neutralizzato. Con l’ultimo enunciato performativo (sesta tappa) il defunto «equipaggia» (apr) il dio Thot nel «castello della luna» (Hwt-jaH).824 Thot è una divinità lunare ed è l’artefice della ricostituzione dell’occhio di Horo. Il defunto porta così a compimento il processo che ridona all’occhio la propria integrità. L’iter coincide con il periodo di luna crescente che termina con la luna piena. Il passo si conclude con una frase al compiuto a valore constativo con la quale il locutore afferma di aver preso la corona bianca (wrrt), che rappresenta l’occhio di Horo riempito, cioè la luna piena.825 820 Cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., p. 43. Secondo lo studioso, è possibile impostare la rete di rapporti anche in questo modo: defunto : Ra = luna : sole; cfr. ibid. 821 Cfr. ibid., p. 44, nota 58. 822 Secondo alcuni studiosi questa frase e quella precedente, in cui compare l’espressione jwty(t)=s, costituirebbero un’allusione a un’eclisse. Cfr. Ph. Derchain, Mythes et dieux lunaires en Égypte, cit., p. 31 e P. Barguet (a cura di), Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, cit., p. 118, nota 5. 823 Dell’associazione di Osiri alla luna si trova traccia già nei Testi delle Piramidi. Cfr. Ph. Derchain, Mythes et dieux lunaires en Égypte, cit., pp. 44 sgg. 824 Il termine apr(w)t, lett. «colui che è equipaggiato», indica l’occhio della luna; cfr. Wb, I, p. 181. Alcuni santuari dedicati alla luna sono denominati «castello della luna»; cfr. Ph. Derchain, Mythes et dieux lunaires en Égypte, cit., p. 47 e F.-R. Herbin, Un hymne à la lune croissante, in BIFAO, 82 (1982), p. 237, nota 1. 825 Cfr. P. Barguet (a cura di), Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, cit., p. 118, nota 6. Relativamente alla frase circostanziale n jj 15-n(y)t-Hb («non essendo ancora venuto il quindicesimo giorno di festa»), presente nella versione A del testo scelta da Servajean e posizionata subito dopo l’ultimo enunciato a valore performativo, lo studioso osserva: «Lo scriba sembra essersi sbagliato, poiché ha dimenticato che la luna piena è ormai sopraggiunta, cosa che i copisti delle altre versioni hanno perfettamente compreso» (cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., p. 46). 268 Riferendosi al passo analizzato, Servajean commenta: «Si vede bene come, con l’aiuto di enunciati performativi e di metafore di grande complessità, fondate su legami “simpatici”, il defunto stimoli la luna – con la quale si trova in situazione di analogia – nel corso della prima metà del suo ciclo, dalla neomenia fino agli ultimi istanti della notte di luna piena. E’ qui che risiede probabilmente l’idea stessa di trasformazione (xprw): il defunto agisce, con l’aiuto di enunciati performativi, a guisa di un dio-luna, che restituisce i pezzi mancanti al satellite».826 Per comprendere più a fondo il meccanismo che rende efficaci le frasi performative, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al ruolo svolto dall’enunciato iniziale. La proposizione a predicato nominale che apre il passo, come abbiamo riscontrato, istituisce un’analogia tra il defunto che pronuncia la formula e la luna. Questa prima analogia, in realtà, negli enunciati che seguono, si articola in una rete di rimandi ulteriori. Gli elementi che partecipano al «gioco» analogico, infatti, sono molti; quelli che compaiono espressamente nelle poche righe che compongono il testo sono: il locutore (indicato nella prima frase mediante il pronome indipendente jnk e successivamente con il pronome suffisso =j), la luna, il dio Hu, luce e tenebre, l’occhio di Horo, il quindicesimo giorno di festa, il dio Seth, il dio Thot e la corona bianca. Altri elementi possono essere sottintesi, per esempio il sole, di cui la luna è il riflesso e il dio Osiri, che probabilmente si cela dietro la figura del Vegliardo. Tutti questi enti sono commensurabili tra loro e possono combinarsi secondo rapporti differenti. Vediamo qualche possibile combinazione: defunto/Hu/Thot : luce = Seth : tenebre; defunto : luna = Thot : occhio di Horo; quindicesimo giorno di festa : luna piena = corona bianca : occhio di Horo ricostituito. La prima proposizione del passo costituisce, tuttavia, il fondamento sul quale poggia il discorso performativo che segue. Secondo la teoria elaborata da Servajean, gli enunciati performativi, per essere efficaci, esigono che il locutore si trovi in una situazione di analogia con una divinità;827 questa analogia è espressa dalla lingua egiziana attraverso proposizioni a predicato nominale, in particolare quelle che 826 F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., p. 48. 827 La divinità in questione è generalmente Ra, la cui parola è creatrice. Cfr. ibid., p. 49. 269 presentano la forma «pronome indipendente + nome». Questo tipo di proposizioni costituisce, dunque, il «fondamento analogico della performatività».828 Una frase nominale, in generale, implica un predicato nominale senza verbo o copula. Non si tratta semplicemente di un fenomeno linguistico limitato a una famiglia o ad alcune famiglie di lingue; esso è stato riscontrato in moltissimi ceppi linguistici, tra cui, per esempio, l’indoeuropeo e il semitico. Questo tipo di costruzione è, invece, estranea alle lingue europee occidentali parlate attualmente. Nella famiglia delle lingue indoeuropee, la frase nominale è un «enunciato assertivo finito», sintatticamente simile ad ogni altro.829 Ciò che la distingue dagli altri enunciati, osserva Émile Benveniste, dipende dal fatto che «nella classe nominale, l’elemento assertivo, essendo nominale, non è suscettibile delle determinazioni proprie della forma verbale: modalità temporali, personali, e così via. L’asserzione avrà la caratteristica di essere atemporale, impersonale, non modale, in breve di poggiare su un termine ridotto al suo esclusivo contenuto semantico».830 A differenza di una frase verbale, inoltre, una frase nominale non può istituire un rapporto tra il tempo dell’evento e quello del discorso sull’evento e non partecipa della soggettività del locutore: «La frase nominale in indoeuropeo asserisce che al soggetto dell’enunciato appartiene una certa “qualità” (nel senso più generale), ma al di fuori di ogni determinazione temporale o d’altro genere e al di fuori di ogni rapporto con il parlante».831 Non si tratta, quindi, semplicemente di una frase priva di verbo; l’asserzione nominale è in sé completa ed ha una natura differente. Nella lingua greca l’enunciato verbale e quello nominale coesistono. Relativamente all’uso che viene fatto di questi due tipi di asserzione, Benveniste, analizzando un’opera poetica come le Pitiche di Pindaro, rileva che la frase nominale «1. è sempre legata al discorso diretto; 2. è sempre usata per asserzioni di carattere generale, ovvero sentenziose».832 Lo scopo di un enunciato nominale è quello di convincere esponendo una «verità generale» nel contesto di un dialogo. La frase verbale si presta, invece, alla narrazione di un fatto, alla descrizione di una situazione. 828 Cfr. ibid., pp. 49 sgg. 829 Secondo la definizione di É. Benveniste, «un enunciato assertivo finito possiede almeno due caratteri formali indipendenti: 1. è compreso tra due pause; 2. ha un’intonazione specifica “finale”, opposta in tutti gli idiomi ad altre intonazioni altrettanto specifiche (sospensiva, interrogativa, esclamativa, e così via)» (Id., Problemi di linguistica generale, trad. it. di M. V. Giuliani, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 182). 830 Ibid., p. 187. 831 Ibid. 832 Ibid., p. 191. 270 Conclusioni analoghe si traggono anche dall’esame degli Erga di Esiodo. E’, pertanto, naturale che in un’opera di prosa narrativa come le Storie di Erodoto, il cui scopo è quello di informare su una serie di fatti accaduti, prevalga la frase con ejsti. Anche nei poemi omerici la frase nominale compare soltanto nei discorsi, per esprimere qualcosa di generale che ha un valore permanente. La frase con ejsti descrive, invece, situazioni occasionali.833 Nella letteratura greca, però, secondo Charles Guiraud, le verità generali sono espresse, in alcuni casi, ricorrendo al verbo «essere»: «Salvo qualche caso contrario, queste frasi verbali si spiegano abbastanza bene: il verbo particolarizza e attualizza l’enunciato. Le verità generali con ejsti/eijsi, invece di costituire delle verità immutabili, essenziali, si deducono dall’esame di un caso particolare, appaiono come la conseguenza di uno sviluppo anteriore. D’altra parte, attualizzare una verità generale, è insistere sulla realtà di ciò che essa afferma, è dire “si, davvero” o “no, davvero”».834 Viene posta, dunque, una distinzione tra le frasi rigorosamente atemporali e indipendenti dal contesto e quelle che esprimono delle verità generali facendo uso del verbo essere. Queste ultime realizzerebbero un principio generale, collegandosi a una situazione particolare.835 In egiziano, la frase a predicato nominale serve a identificare un soggetto con un predicato o a classificare un soggetto come elemento dell’insieme espresso dal predicato. Il tipo di rapporto che viene istituito tra soggetto e predicato non è contingente, non è, cioè, subordinato a vincoli spazio-temporali. I linguisti, in campo egittologico, tendono a insistere sulla funzione di classificazione di questo tipo di enunciato. In proposito, Vernus parla di «predicazione di classe»: «essa assicura l’identificazione di un soggetto a un identificante presentato come una sostanza, dunque appartenente a una classe o a una categoria (costituendola eventualmente soltanto per lui)». L’espressione «predicazione di classe», secondo lo studioso, riflette il «semantismo fondamentale» di questo fenomeno linguistico.836 Una posizione analoga è assunta anche da Antonio Loprieno: «Nelle frasi nominali bipartite o tripartite con “jnk/ntk-Pred” interlocutivo o “Pred-pw delocutivo […], il predicato 833 Cfr. ibid., pp. 192 sgg. 834 C. Guiraud, La phrase nominale en grec, d’Homère à Euripide, C. Klincksieck, Paris 1962, pp. 60 sg. Sulla questione delle verità generali, cfr. ibid., pp. 33 sgg. 835 Per degli esempi di questo fenomeno linguistico, cfr. ibid., pp. 49 sgg. 836 P. Vernus, Observations sur la prédication de classe (“Nominal predicate”), in Lingua Aegyptia, 4 (1994), p. 325. 271 nominale classifica il soggetto, cioè definisce una o più delle sue proprietà semantiche».837 Limitandoci ai casi che ci interessano, diciamo che una proposizione a predicato nominale, in egiziano, può assumere la forma «predicato + pw + (eventualmente) esplicitazione del soggetto», oppure «pronome indipendente + predicato».838 Alcuni egittologi, come Grandet e Mathieu, propongono di considerare sempre il predicato (che può essere un nome, un sintagma nominale o un pronome) come il primo elemento di questo tipo di proposizioni, riservando l’ordine «soggetto + predicato» all’enunciato a predicato avverbiale, che esprime una relazione di situazione. Quando la proposizione nominale assume la forma «pronome indipendente + predicato», il pronome viene considerato una «tematizzazione» del soggetto (che in questo tipo di frase è il pronome dimostrativo astratto Ø), ossia una sua esplicitazione anticipata.839 Elenchiamo ed esemplifichiamo i casi menzionati, seguendo l’impostazione di Grandet e Mathieu, in questa tabella: Esempio Traduzione s pw, sS Lo scriba è un uomo (lett.: Predicato + soggetto (il pronome (è) un uomo, Struttura questo, scriba). s Ø, sS lo dimostrativo pw) + esplicitazione del soggetto. Lo scriba è un uomo (lett.: (è) Predicato + soggetto (il pronome un uomo, (ciò), lo scriba). dimostrativo astratto Ø) + esplicitazione del soggetto. wsjr pw È Osiri (lett.: questo). jnk, ra-tm(w) Ø (è) Osiri, Predicato + soggetto (il pronome dimostrativo pw). Io sono Ra-Atum (lett.: io, (è) Tematizzazione + predicato + Ra-Atum, (ciò)). soggetto (il pronome dimostrativo astratto Ø). 837 A. Loprieno, Ancient egyptian, a linguistic introduction, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp. 105 sg. Sulla medesima questione, cfr. anche É. Doret, Phrase nominale, identité et substitution dans les Textes des Sarcophages, in Revue d’Égyptologie, 40 (1989), p. 50. 838 In proposito, cfr., per es., M. Malaise, J. Winand, Grammaire raisonnée de l’égyptien classique, cit., §§ 454 sgg. 839 Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 295 sg. 272 La proposizione a predicato nominale, esprimendo un’identificazione o una classificazione non contingente, si oppone a un altro tipo di frase non verbale: la proposizione a predicato avverbiale con m di «stato» o di «equivalenza». Consideriamo, per esempio, i due enunciati seguenti: Enunciato Struttura jnk, wsjr Ø Tematizzazione + predicato + soggetto (il pronome dimostrativo astratto Ø). jw=j m wsjr Indicatore di enunciazione + soggetto (il pronome suffisso =j) + predicato (m di stato + nome). Entrambi gli enunciati possono essere tradotti «Io sono Osiri». Nel caso del secondo enunciato, tuttavia, si tratta di una «predicazione occasionale», soggetta a limiti spazio-temporali. La prima asserzione è, invece, svincolata da ogni situazione contingente. E’ per questo motivo che le proposizioni a predicato nominale non iniziano mai con l’indicatore di enunciazione jw. Quest’ultimo, infatti, esprime un punto di riferimento che «circoscrive» la validità di una proposizione. Vernus precisa che jw ha due caratteristiche: la prima è quella di presentare ciò che segue come un fatto oggettivo, «la seconda è che questa validazione si giudica rispetto a un elemento di riferimento […] Anticamente, questo elemento di riferimento era il momento dell’enunciazione […] In medio egiziano, c’è un ampliamento. Se l’elemento di riferimento può essere il momento dell’enunciazione, esso può anche essere definito dal testo stesso».840 Come fa notare Servajean, le proposizioni non verbali costruite sul modello jw=j m X, dove X è il nome di una divinità qualunque, «non compaiono praticamente mai nelle formule di trasformazione».841 Se così non fosse le «verità» enunciate sarebbero relative a un hic et nunc. Pronunciando, invece, una frase del tipo jnk X Ø, il defunto si colloca al di fuori di un contesto spazio-temporale; egli istituisce una corrispondenza analogica tra se stesso e una divinità. In virtù di questa analogia, il 840 P. Vernus, Les parties du discours en moyen égyptien. Autopsie d’une théorie, Société d’Égyptologie, Genève 1997, pp. 26 sg. 841 F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., p. 50. 273 locutore della formula partecipa della natura della divinità scelta, conservando la propria identità. Riferendosi alle proposizioni che presentano la forma jnk + nome di divinità, Vernus afferma: «E’ escluso che un privato sia identificato con una divinità in quanto tale. Il nome proprio […] si riferisce dunque al dio considerato come una classe o una categoria. E’ del resto probabile che, anche nel caso del faraone, il nome proprio della divinità, piuttosto che essere un puro appellativo, rinvii alla classe che essa costituisce per le sue caratteristiche d’insieme».842 Lo studioso propone, pertanto, di tradurre la frase jnk Hapy nb jhwt, presa come esempio, «Io sono un Api signore delle vacche», dove l’articolo indeterminativo vuole mettere in evidenza che non si tratta di una assimilazione o identificazione.843 Anche Assmann sottolinea questo aspetto, benché in un contesto differente da quello dell’analisi linguistica in cui si muove Vernus. Trattando delle «immagini egiziane della morte», l’egittologo parla di imitatio Osiridis e imitatio solis;844 il defunto, durante il suo cammino di rigenerazione, non si confonde con Osiri o con il sole, bensì rimane se stesso, pur essendo in relazione analogica con queste divinità. Tornando alle formule di trasformazione del Libro dei Morti, le proposizioni a predicato nominale stabiliscono una rete di analogie che mette il defunto nelle condizioni di operare, facendogli acquisire le principali caratteristiche della divinità di riferimento. Su queste frasi, che generalmente assumono la forma «jnk + nome», si fondano gli enunciati performativi che le seguono o le precedono.845 Secondo Servajean, tra la proposizione nominale e il discorso che segue o precede c’è un legame di causalità.846 E’ interessante notare che Benveniste fa la medesima osservazione a proposito dei poemi omerici: «Non si fa mai notare abbastanza che la frase nominale omerica compare di sovente in relazione causale, sottolineata da gavr, con il contesto. L’enunciazione così formulata, proprio a causa del carattere 842 P. Vernus, Observations sur la prédication de classe (“Nominal predicate”), cit., p. 327. 843 Cfr. ibid. 844 Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., pp. 263 sgg. Cfr. anche Id., La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, cit. p. 28. 845 Le frasi nominali con pw e l’esplicitazione del soggetto, secondo l’analisi di Servajean, partecipano anch’esse al fondamento analogico della performatività, precisandone alcuni aspetti particolari. L’analogia tra il defunto e una divinità, per quanto vi è di generale, è enunciata attraverso proposizioni del tipo «jnk + nome»; per quanto vi è di particolare, invece, mediante proposizioni della forma «nome + pw + nome» o «nome + nome» (cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., pp. 62 sgg). 846 Questo legame può essere evidenziato meglio in una traduzione mediante congiunzioni come «poiché» o «infatti», se la frase nominale segue quelle verbali. 274 permanente del contenuto, può benissimo servire da riferimento, da giustificazione, quando si vuole creare una convinzione».847 Servajean si domanda se l’alternanza tra frasi nominali e non nominali sia la costruzione discorsiva che meglio di altre esprime le peculiarità del pensiero analogico. Il defunto, mediante l’uso di proposizioni a predicato nominale, mette in evidenza «una serie di analogie, poste come delle verità generali, tra il suo divenire in corso e quello di alcuni esseri divini che, periodicamente, si ritrovano nella sua stessa situazione».848 Successivamente per agire performativamente o per enunciare le conseguenze delle analogie poste, egli ricorre a delle proposizioni a predicato avverbiale con lessema verbale. «Di conseguenza, solo l’enunciazione delle proposizioni a predicato nominale autorizza quella delle altre, poiché esse costituiscono lo zoccolo, il fondamento analogico, sul quale riposa ogni enunciazione verbale ulteriore, di cui garantiscono la riuscita».849 4. L’esordio performativo del papiro di Ebers Quanto emerge dall’analisi delle formule di trasformazione del Libro dei Morti sviluppata da Servajean rappresenta, a nostro avviso, un contributo rilevante alla comprensione del fenomeno della performatività e, più in generale, dei meccanismi del pensiero analogico. Tutto ciò che concerne il mondo egiziano è, tuttavia, refrattario a schemi fissi, pur rispettando sempre un certo ordine. Relativamente al discorso performativo, è possibile individuare gli aspetti linguistici che lo caratterizzano maggiormente; essi non saranno, però, riscontrabili tutti insieme, sempre e nello stesso modo, nei molteplici esempi di utilizzo della performatività del linguaggio che le fonti egiziane ci offrono.850 In rapporto a una circostanza particolare il discorso si organizza in modo differente, anche se l’impostazione di fondo rimane simile. Sulla base dei nuovi elementi presentati nei paragrafi precedenti, riprendiamo in considerazione il prologo del papiro di Ebers e, nello specifico, la prima delle tre 847 É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, cit., p.193. 848 F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., pp. 57 sg. 849 Ibid., p. 58. 850 Lo stesso Austin nega l’esistenza di un criterio certo, universalmente valido, per riconoscere un enunciato performativo. Cfr. J. Austin, Saggi filosofici, trad. it. di P. Leonardi, Guerini e Associati, Milano 1990, pp. 228 sgg. 275 formule magiche che aprono la raccolta.851 Proponiamo la seguente suddivisione del testo: 1) pr∼n=j m jwnw Hna wrw n(y)w Hwt-aAt, nbw Io sono uscito da Eliopoli insieme ai mkt HqAw nHH; nHmn pr∼n=j m sAw Hna mwt Grandi del Grande Tempio, i signori dei nTrw. rd∼n=sn n=j mkwt=sn. mezzi di protezione, sovrani dell’eternità; nello stesso modo, sono uscito da Sais con la madre degli dei. Essi mi hanno dato i loro mezzi di protezione. 2) jw Tsw n=j jr(ww)∼n nb r-Dr, r dr st-a nTr, Io possiedo le parole fatte dal Signore nTrt, mt, mtt, Hmwt-rA, nty m tp=j pn, m nHbt=j universale, per cacciare l’attività di un dio, jptn, m qaHw=j jpn, m jwf=j pn, m awt=j iptn, di una dea, di un morto, di una morta, e r sswn srxy, Hry saqyw Xnn m jwf=j pn, bjbj(w) così di seguito, che si manifesta in questa m awt=j jptn, m aq(w)t m jwf=j pn, m tp=j pn, mia testa, in questo mio collo, in queste m qaHw=j jpn, m Haw=j, m awt=j jptn. mie spalle, in questa mia carne, in queste mie parti corporee, e per punire il Calunniatore, il capo di coloro che fanno entrare il disordine in questa mia carne, che corrodono queste mie parti corporee, come qualcosa che penetra in questa mia carne, in questa mia testa, in queste mie spalle, in queste mie membra, in queste mie parti corporee. 3) n(y)-wj ra. Io appartengo a Ra. 4) Dd∼n=f: Egli ha detto/dice: 5) jnk nD(w) sw m-a xftyw=f. «Io sono colui che lo protegge dai suoi nemici. 6) sSmw=f pw, DHwty; Thot è la sua guida; 7) jw=f d=f mdw dfr, jr=f dmDwt, d=f Ax n egli fa in modo che lo scritto parli, fa le rxw-xt n swnww jm(y)w xtw=f r wHa. compilazioni medicali, dà il potere ai sapienti e ai medici che sono nel suo seguito di liberare (i malati). 851 La formula è pressoché identica a quella contenuta in Hearst, 78. 276 8) mrrw nTr, sanx=f sw. Colui che è amato dal dio, egli lo tiene in vita».852 9) jnk pw, mrrw nTr, Io sono colui che è amato dal dio, 10) sanx=f wj. egli mi tiene in vita. La prima tappa costituisce una sorta di antefatto che giustifica quanto segue. Il locutore dichiara di avere stretto un rapporto con le divinità di Eliopoli e con la dea di Sais, Neith; in virtù di questo rapporto egli ha ottenuto degli strumenti indispensabili (i mezzi di protezione) per poter operare in una situazione specifica: quella di una malattia da combattere. Nel passo troviamo una serie di verbi al compiuto, nella forma sDm∼n=f; i verbi non sono, tuttavia, introdotti dall’indicatore di enunciazione jw. Quest’ultimo introduce, invece, il passo seguente (secondo punto). La prima frase è una proposizione a predicato avverbiale senza lessema verbale che esprime un’attribuzione. Grazie a ciò che è accaduto prima, l’orante è in possesso delle parole performative hic et nunc, ossia nel luogo e nel momento in cui si trova a dover prevenire o fronteggiare l’attacco di una moltitudine di agenti patogeni. Segue una proposizione a predicato nominale (terzo punto), che esprime, ancora una volta, una relazione di attribuzione, presentata però come verità generale.853 Colui che pronuncia la formula dichiara di appartenere a Ra, ossia di partecipare della sua natura. Questa frase, a nostro avviso, costituisce il fondamento analogico di quanto precede e di quanto segue. Volendo dare una veste formale a questa analogia, possiamo impostare la proporzione così: locutore (medico/paziente) : Ra = formula : parola divina. E’ la relazione tra il locutore e Ra che rende efficace la formula e che permette al primo di fare proprie le parole del dio. Subito dopo la prima frase nominale segue, infatti, un verbo al compiuto (quarto punto) che introduce un discorso diretto. Sono le parole pronunciate da Ra che, per l’analogia istituita, diventano anche le parole del locutore. Per questo motivo, a nostro avviso, questa forma compiuta può essere tradotta anche con un presente: l’orante, essendo come Ra, dice al presente ciò che il dio ha detto in una situazione analoga. Si tratta di un dire performativo. 852 Nella trad. di questa frase seguiamo l’interpretazione di T. Bardinet, che concorda con quella di B. Ebbell (The Papyrus Ebers. The greatest Egyptian medical document, Levin & Munksgaard, Copenhagen 1937, p. 29). Il Grundriss propone una lettura diversa (cfr. H. von Deines, H. Grapow, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. IV, Übersetzung der medizinischen Texte, cit., p. 308). 277 Il discorso di Ra contiene due frasi a predicato nominale che articolano l’analogia posta al terzo punto. La prima (quinto punto), del tipo «jnk + nome», ribadisce il potere protettivo del dio che si trasmette al locutore, presentandolo come una verità generale. La seconda (sesto punto), del tipo «nome + pw + nome», fornisce una precisazione ulteriore: il potere di Ra si trasmette attraverso un intermediario, il dio Thot, indicato come guida. Le proposizioni a predicato avverbiale che seguono (settimo punto), introdotte da jw, enunciano le conseguenze di questa azione di intermediazione. Thot è l’autore dei testi medici; egli fa in modo che «lo scritto parli» (mdw dfr), e non solo in senso «comunicativo». Il discorso diretto si conclude con l’affermazione che chi è amato dal dio, conserva la propria vita e la propria salute (ottavo punto). Le ultime due frasi della formula, che si riallacciano alla conclusione del discorso di Ra, sono una proposizione a predicato nominale, di nuovo del tipo «jnk + nome» (nono punto), e una verbale (decimo punto) che esprime la conseguenza diretta della prima. Il locutore, per dare maggiore forza a tutto ciò che precede, afferma di essere amato dal dio; egli ribadisce, cioè, in altri termini, la sua appartenenza a Ra. Ciò gli garantisce vita e salute. In questo testo ritroviamo l’alternanza tra proposizioni nominali e non nominali di cui parla Servajean. In una di queste, in particolare, abbiamo individuato il fondamento analogico del discorso (terzo punto). Non riscontriamo, invece, un impiego dell’indicatore di enunciazione jw per distinguere tipi differenti di sDm∼n=f, performativi e constativi. Rileviamo, inoltre, un altro aspetto interessante: delle tre formule magiche che costituiscono il prologo del papiro di Ebers, la prima è l’unica a presentare delle proposizioni a predicato nominale. E’, tuttavia, fuor di dubbio la valenza performativa delle altre due, nelle quali si istituiscono reti di analogie allo scopo di ottenere effetti preventivi o terapeutici concreti. La questione, a nostro avviso, si può risolvere in questo modo: le tre formule sono strettamente legate tra loro e le frasi a predicato nominale che compaiono nella prima costituiscono un fondamento anche per le corrispondenze analogiche poste nelle altre due. Queste ultime risulteranno, dunque, veramente efficaci solo se saranno precedute dalla recitazione della prima. 853 Riguardo a questo tipo di costruzione, cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 314 sgg. 278 5. Il contesto appropriato: il Verbo della «prima volta» Un discorso performativo, per essere realmente «atto», deve essere inserito nel contesto giusto. Austin parla di «circostanze appropriate» e di «procedura convenzionale». Si tratta di elementi indispensabili per trasformare un certo tipo di enunciato in un’azione; in mancanza di essi o a causa di un loro uso scorretto, l’enunciato risulta «infelice».854 Anche Benveniste pone l’accento su questo aspetto essenziale: «In ogni caso un enunciato performativo non ha realtà se non quando sia autenticato come atto. Al di fuori delle circostanze che lo rendono performativo, un enunciato del genere non è più niente».855 La costruzione discorsiva egiziana che abbiamo delineato non è in grado, quindi, di dare efficacia performativa a un testo, indipendentemente da una sua adeguata contestualizzazione. Tra le circostanze che contribuiscono alla performatività di una formula, possiamo menzionare l’autorità riconosciuta del locutore (un sacerdote, un medico, ecc.) e il luogo e il momento in cui le parole sono proferite (per es., in un tempio, durante una particolare celebrazione). Possiamo altresì richiamare l’importanza del supporto sul quale, eventualmente, il testo viene scritto (un papiro, una parete, ecc.) e degli inchiostri o colori utilizzati. Tutti questi elementi, tuttavia, per quanto rilevanti, non sono ancora in grado di garantire la piena efficacia a un discorso performativo. Ciò che rende effettivamente performativo un enunciato o un discorso egiziano è in primo luogo il suo legame diretto con il Verbo creatore pronunciato la «prima volta», quando il dio demiurgo ha posto in essere il cosmo. In questo caso, quindi, la performatività non riposa su un insieme di «convenzioni sociali», ma sulle virtù della Parola per eccellenza. La «prima volta» costituisce, dunque, il contesto appropriato. Riguardo alla lingua «letteraria egiziana», quella utilizzata per redigere i testi religiosi e funerari, quelli più specificamente magici, e tutti gli scritti «ufficiali», Vernus rileva: «Il pensiero egiziano, come altri pensieri antichi, dà alla Prima Volta, al momento della creazione e all’ordinamento del mondo, lo statuto di un modello al quale riferirsi costantemente».856 854 Cfr. supra, p. 262. 855 É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, cit., p. 326. Abbiamo leggermente modificato la trad. di M. V. Giuliani, rendendo il termine performatif con «performativo» (anziché «esecutivo»). 856 P. Vernus, Langue litteraire et diglossie, in A. Loprieno (a cura di), Ancient Egyptian literature. History and forms, Brill, Leiden 1996, p. 556. 279 I documenti ufficiali nell’antico Egitto non hanno esclusivamente la funzione di comunicare o propagandare delle idee; essi hanno uno scopo ulteriore: quello di produrre un effetto concreto: «non si tratta solamente di esporre una visione individuale o collettiva del mondo, ma anche di farla avvenire performativamente, mediante il testo e l’immagine, e di perpetuarla erigendola al rango di elemento della creazione, in una parola, di sacralizzarla. Ora, per avere le migliori possibilità di ottenere questo risultato, la forma deve essere curata. Per dire efficacemente, bisogna dire bene, perfezionando (smnx) ciò che è detto, tanto più che narrare il mondo è semplicemente pensarlo facendo apparire attraverso le parole e le frasi che lo descrivono l’infinita rete di analogie e di affinità che unisce tra loro ciascuno dei suoi componenti».857 I canoni stilistici osservati nella redazione di questo genere di documenti non rispondono, quindi, a esigenze puramente estetiche, ma mirano a riprodurre le caratteristiche della lingua della «prima volta», la lingua performativa per eccellenza. 6. Oralità e scrittura: una scrittura che «parla» Nell’affrontare la questione della performatività dell’egiziano ci siamo concentrati, finora, soltanto su aspetti linguistici, senza soffermarci sul ruolo della scrittura. Il legame tra la lingua egiziana e la scrittura geroglifica è, tuttavia, molto stretto e ci induce a rivolgere ora la nostra attenzione al rapporto tra i geroglifici e la lingua che veicolano. Cercheremo, in particolare, di mettere in rilievo i tratti essenziali che distinguono la grafia geroglifica da scritture «alfabetiche», come quella greca. Relativamente al rapporto tra oralità e scrittura in generale, è emblematico quanto afferma Platone nella parte conclusiva del Fedro. In questo contesto, il filosofo richiama la figura del dio egiziano Thot che, secondo la tradizione, ha donato agli uomini le arti e le scienze, nonché la scrittura. Riguardo a quest’ultima, il Thot platonico, davanti al re Thamus, al quale mostra le sue invenzioni, si esprime in questi termini: «Questo insegnamento, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché è stato inventato quale rimedio per la memoria e la sapienza».858 Il sovrano ribatte, tuttavia, puntualizzando che 857 Ibid., pp. 557 sg. 280 1) non si tratta di un rimedio per la memoria, ma per «richiamare alla memoria» (uJpomnhvsew~ favrmakon). I segni della scrittura sono, infatti, qualcosa di esterno, di estraneo all’individuo; 2) questo strumento non procura ai propri discepoli la verità, bensì l’apparenza, dal momento che i discorsi scritti riportano molte informazioni senza insegnamento. Rispetto al discorso parlato, la parola scritta ha il limite, secondo Platone, di essere assolutamente priva di movimento e, potremmo dire, di vita. E’, cioè, incapace di agire e reagire, nel contesto di una situazione concreta. Il discorso scritto non è, dunque, in grado di difendersi e necessita del soccorso del suo autore: «Questo, infatti, Fedro, ha di terribile la scrittura, e davvero simile alla pittura. Effettivamente i prodotti della pittura stanno davanti come esseri viventi, ma se fai loro qualche domanda, tacciono solennemente. Lo stesso fanno anche i discorsi scritti […] Una volta che sia stato scritto, ogni discorso circola dappertutto tanto in mano di quelli che se n’intendono quanto di quelli per i quali non è affatto adatto e non sa a chi deve parlare e a chi no. E maltrattato e ingiustamente vilipeso, ha sempre bisogno del soccorso del padre, perché da sé non è capace né di difendersi né di portarsi aiuto».859 Sulla base di queste premesse, la scrittura non può essere considerata altro che un «gioco» (paidiav), mediante il quale l’autore dello scritto accumula per sé una moltitudine di ricordi, «qualora giunga la dimentica vecchiaia».860 L’oralità è, invece, superiore alla parola scritta, nella misura in cui essa produce un discorso che, «accompagnato da scienza, è scritto nell’anima di chi apprende ed è capace di difendere se stesso e sa con chi deve parlare e con chi tacere».861 Chi ricorre all’oralità ha la possibilità di cogliere la natura dell’anima e di ordinare il discorso in modo conseguente, «rivolgendo discorsi variopinti e di ogni gamma di toni a un’anima variopinta e semplici invece ad un’anima semplice».862 Il discorso proferito oralmente si declina, quindi, in riferimento a una situazione specifica. Esso è portatore di un seme che, piantato nell’anima di chi ascolta, genererà altri discorsi. 858 Platone, Fedro, 274 e. 859 Ibid., 275 d-e. 860 Ibid., 276 d. 861 Ibid., 276 a. 862 Ibid., 277 c. 281 Chi non ha da dire nient’altro all’infuori di ciò che scrive non è un «filosofo», bensì un poeta o uno scrittore di discorsi o di leggi.863 Secondo Platone, la cesura tra oralità e scrittura è profonda. Il filosofo dichiara la superiorità della prima sulla seconda. Tuttavia, presentando la sua posizione per iscritto, egli è sicuramente consapevole del fatto che la scrittura apre un nuovo orizzonte al pensiero, ossia ristruttura il modo di pensare, in senso non soltanto limitativo. Le ricerche di Eric Havelock hanno mostrato che gli inizi della filosofia greca sono da mettere in relazione con la diffusione della scrittura in Grecia nel corso del V secolo a. C. e con la conseguente rivoluzione del modo di pensare.864 Al nuovo orizzonte culturale dischiuso dalla parola scritta Platone non è del tutto ostile, nonostante la netta presa di posizione a favore del discorso orale che riscontriamo nel Fedro. La filosofia platonica, infatti, pur conservando certe caratteristiche tipiche dell’oralità come, per esempio, la forma dialogica, può articolarsi in maniera complessa e manifestare una certa autonomia proprio perché viene scritta. Il pensiero «analitico», del resto, ha la possibilità di svilupparsi soltanto in una cultura che abbia ormai interiorizzato la scrittura. Secondo Havelock, la critica che Platone indirizza contro la poesia e i poeti nella Repubblica rappresenta un rigetto dell’impostazione intellettuale propria della cultura orale: «Dobbiamo renderci conto che opere geniali, composte nell’ambito della tradizione semi-orale, per quanto siano motivo di squisito godimento per i lettori moderni dell’antica letteratura greca, costituivano o rappresentavano una mentalità globale che non è la nostra e non era quella di Platone; e che, proprio come la stessa poesia, finché dominò incontrastata, costituiva il principale ostacolo alla creazione di una prosa efficace, così esisteva una mentalità che chiameremo opportunamente “poetica” o “omerica” o “orale”, che rappresentava il principale ostacolo al razionalismo scientifico, all’uso dell’analisi, alla classificazione dell’esperienza e al suo riordinamento in sequenze di causa ed effetto. Ecco perché la mentalità poetica è per Platone il nemico numero uno».865 Il largo uso della scrittura ha generato un atteggiamento mentale diairetico, separatore e ha contribuito al progressivo distacco del pensiero dalle situazioni 863 Cfr. ibid., 278 d-e. 864 Cfr. E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 1973. 865 Ibid., p. 45. 282 concrete. In proposito, possiamo considerare la logica aristotelica una delle maggiori realizzazioni prodotte da questo nuovo approccio. Diversamente dal pensiero analitico connesso alla scrittura, la cultura orale, caratterizzata dal «suono», non è separatrice, bensì aggregante; essa ricorre a massime, proverbi, frasi fatte, che fungono da moduli mnemonici per il pronto recupero di un pensiero o di un’informazione. La parola orale, anche se non viene espressa in versi, tenderà, inoltre, ad essere ritmica. Il pensiero è, dunque, fortemente condizionato dai sistemi mnemonici, i quali ne determinano lo sviluppo e la sintassi. L’oralità è, in secondo luogo, sempre «contestualizzata», cioè strettamente legata alle situzioni concrete, proprio per il fatto che non pensa in termini di categorie astratte, come quelle della geometria o della logica formale. In proposito, richiamandosi alle ricerche svolte da Aleksandr Luria all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso su illetterati e persone a bassa alfabetizzazione, in alcune aree remote dell’Uzbekistan e della Kirghizia, Walter Ong osserva: «Chi ha interiorizzato la scrittura, non solo scrive, ma parla anche in modo diverso, organizza cioè persino la propria espressione orale in ragionamenti e forme verbali che non conoscerebbe se non sapesse scrivere. Poiché il pensiero basato sull’oralità non segue questi schemi, gli alfabetizzati ne ritengono ingenua l’organizzazione; tale pensiero può invece essere molto sofisticato e capace di un tipo di riflessione tutto suo».866 Menzioniamo ancora un aspetto: mentre il discorso orale è un evento sonoro, dinamico e irreversibile, la parola scritta è in rapporto con la vista, la quale è in grado di registrare il movimento, ma si sofferma più agevolmente su un oggetto fermo. Anche le idee platoniche sono in relazione con la facoltà visiva; i termini ijdeva ed ei\do~ derivano, infatti, entrambi da una radice che esprime il concetto di «vedere»:867 «Le idee platoniche sono silenti, immobili, prive di calore, non interattive ma isolate, non inserite nel mondo vitale umano ma al di sopra e al di là di esso».868 Gli aspetti che abbiamo richiamato, relativamente al linguaggio scritto e al suo rapporto con l’oralità, sono inerenti alle scritture alfabetiche. Lo stesso Platone, nel Fedro, quando formula la sua critica ai discorsi scritti, ha in mente probabilmente una scrittura soltanto alfabetica, anche se fa riferimento al dio Thot e alla scrittura di 866 W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, trad. it. di A. Calanchi, Il Mulino, Bologna 1986, p. 88. 867 Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1999, pp. 316 sg e 455. 868 W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, cit., pp. 121 sg. 283 sua invenzione. Il sistema geroglifico è, infatti, uno strumento che può essere impiegato come supporto per l’oralità e che conserva, dunque, alcune delle caratteristiche proprie di quest’ultima. Assmann ha distinto due differenti funzioni della scrittura egiziana; essa può funzionare come un’estensione della memoria oppure come appoggio della voce: 1) «La scrittura come memoria artificiale è destinata a equipaggiare il morto con un repertorio di testi di cui avrà bisogno nell’altro mondo. […] E’ l’origine della letteratura funeraria – la scrittura come ricettacolo (artificiale) di un sapere magico. 2) La scrittura come voce artificiale, dall’altro lato, è destinata a stabilizzare e rendere permanente la recitazione liturgica al di là della sua esecuzione reale. La scrittura serve ancora a realizzare una recitazione permanente».869 E’ necessario precisare che nell’antico Egitto sono esistiti più sistemi grafici. Il geroglifico era la scrittura utilizzata per i testi incisi o dipinti sui monumenti; di essa è raro trovare traccia in altri ambiti. I testi manoscritti su papiro, su ostraca o su altro supporto erano, invece, redatti in «ieratico», una forma corsiva del geroglifico. I due sistemi sono coevi e presenti durante tutto il periodo faraonico. In età tarda, tra l’VIII e il VII secolo a. C., dallo ieratico si sviluppò un ulteriore sistema grafico, il «demotico». Si tratta di una scrittura legata a quella che è considerata la quarta fase della lingua egiziana; il demotico, durante l’epoca saita, divenne la grafia utilizzata per la stesura dei documenti amministrativi e quotidiani. Il geroglifico si differenzia dallo ieratico e dal demotico per la sua iconicità. Ciò che, invece, accomuna i tre sistemi grafici è il fatto di non essere scritture alfabetiche. Soltanto il copto, ultima fase della lingua egiziana, attestato a partire dal II-III secolo d. C., viene scritto ricorrendo a dei segni alfabetici (desunti per la maggior parte dall’alfabeto greco). I testi medici e matematici che abbiamo menzionato in precedenza sono redatti su papiro, in ieratico. Essi possono essere considerati degli aide-mémoire, ossia dei compendi di nozioni pensati rispettivamente per i medici e per gli studenti. Si tratta di scritti molto sintetici, che non forniscono una visione completa e articolata delle discipline di cui trattano. Per quanto riguarda i papiri medici, le formule magiche in essi contenute sono concepite per essere recitate ad alta voce. La loro recitazione le rende efficaci. In questo caso, la scrittura non è un’estensione della voce umana, 869 J. Assmann, Images et rites de la mort dans l'Égypte ancienne. L'apport des liturgies funéraires, Cybele, Paris 2000, p. 32. 284 bensì uno strumento per richiamare alla memoria ed eventualmente perfezionare un sapere specifico, con il quale il lettore ha già una certa familiarità. Lo stesso può dirsi delle redazioni su papiro del Libro dei Morti, che costituiscono un equipaggiamento magico per il defunto.870 Se consideriamo, invece, le grandi composizioni religiose dell’Egitto faraonico, Testi delle Piramidi, Testi dei Sarcofagi e Libri dell’Oltretomba, che troviamo in contesti funerari, il ruolo della scrittura è, in primo luogo, quello di sostituire la voce. Questi testi, infatti, non sono stati redatti per essere letti o recitati da qualcuno; essi costituiscono una sorta di recitazione permanente a carattere performativo. Nelle piramidi dell’Antico Regno in cui sono presenti dei testi sulle pareti, un discorso «orale» perpetuo circonda il sovrano defunto, producendo degli effetti. Le colonne dei Testi delle Piramidi iniziano con la formula Dd mdw, ossia «parole da recitare». Il tema principale di queste recitazioni è l’ascesa al cielo del re. In un contesto rituale mutato rispetto a quello dell’Antico Regno, i Testi dei Sarcofagi, iscritti sulle pareti delle bare dei funzionari del Medio Regno, assolvono a una funzione analoga. Assmann mette in relazione questi testi con le «veglie orarie» che accompagnano il processo di imbalsamazione: «Si iscrivono le recitazioni delle veglie orarie sulle pareti dei sarcofagi per “eternizzare” la situazione finale dell’imbalsamazione».871 Anche in questa circostanza la scrittura, sostituendo la voce, ha innanzitutto un ruolo di tipo performativo. Nel caso dei Libri dell’Oltretomba presenti sulle pareti delle tombe della Valle dei Re, il testo scritto è arricchito da una componente iconografica di pari rilevanza. Le immagini si integrano in maniera complementare con i testi, intensificandone l’efficacia performativa.872 Queste composizioni, infatti, come rileva Vernus, «mirano a ricreare nella tomba il periplo del sole durante la notte, detto diversamente, ad attualizzare, a beneficio del defunto, il reale ideologico».873 Pur ipotizzando che le grandi composizioni religiose possano essere state concepite dagli Egiziani anche allo scopo di tramandare ad una lontana posterità un corpus di 870 Cfr. ibid., p. 36. 871 Ibid. 872 Sui rapporti tra i testi e le rappresentazioni nel mondo egiziano, cfr. P. Vernus, Des relations entre textes et représentations dans l’Égypte Pharaonique, in D. Dentel (a cura di), Écritures II, Centre de semiotique textuelle, Université de Paris X, Nanterre 1987, pp. 45 sgg. Cfr. anche P. Piacentini, Per l’eternità dell’eternità: geroglifici e sacralizzazione, in Sartori, A. (a cura di), Parole per sempre? L’interpretazione delle epigrafie, le interpretazioni dell’epigrafia. Atti del 1° incontro di Dipartimento sull’epigrafia (28 ottobre 2002), Milano 2003, pp. 19 sg. 873 P. Vernus, Des relations entre textes et représentations dans l’Égypte Pharaonique, cit., p. 59. 285 conoscenze teologiche, cosmologiche e magiche, la loro funzione principale resta, tuttavia, quella di agire, di produrre degli effetti concreti e non semplicemente quella di comunicare delle informazioni. Una volta che un luogo di sepoltura era stato chiuso, infatti, nessuno avrebbe più dovuto entrare «per l’eternità»; soltanto il defunto, ricongiungendosi come ba alla mummia, avrebbe potuto guardare e «leggere» i testi. Per la realizzazione dei «libri» monumentali, la scrittura che viene utilizzata è quella geroglifica che, formando un tutt’uno omogeneo con le parole da essa veicolate, diventa una voce che parla «per l’eternità». Il geroglifico «sembra essere la sola scrittura pittografica che non ha ceduto alla tendenza universale all’astrazione e alla semplificazione ma che ha mantenuto, fino alla fine, per più di tre millenni, il suo realismo iconico e la sua complessità artistica».874 La scrittura geroglifica non costituisce, tuttavia, un sistema chiuso e statico; essa è potenzialmente aperta ad accogliere dei segni nuovi, per raffigurare i nuovi oggetti o esseri animati che entrano a far parte del mondo egiziano. L’uso del cavallo come animale da tiro, per esempio, si diffonde in Egitto sotto il dominio degli Hyksos, durante il Secondo Periodo Intermedio; nelle epoche precedenti, pertanto, non troviamo segni che rappresentano questo animale. Perché i segni geroglifici sono in grado di compiere delle azioni? Riteniamo che il potere performativo attribuito dagli Egiziani alla loro scrittura monumentale sia legato alla sua iconicità. Per l’Egiziano, infatti, esiste uno stretto legame tra i geroglifici e gli enti che popolano il cosmo; ogni ente è già un geroglifico. In altri termini, l’immagine di un ente non è un surrogato o una semplice copia, bensì partecipa della medesima natura di quell’ente. All’inizio del De interpretatione, Aristotele formula una teoria ben diversa: «Ordunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. […] suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti».875 Secondo lo Stagirita, dunque, le parole articolate con la voce sono surrogati del pensiero e le parole scritte, a loro volta, sostituiscono il discorso orale. 874 J. Assmann, Images et rites de la mort dans l'Égypte ancienne. L'apport des liturgies funéraires, cit., p. 113. 875 Aristotele, De interpretatione, 1, 16 a, 1-7. in Id., Organon, trad. it. di G. Colli, cit. 286 Nella filosofia platonica, viene ribadito in più contesti che l’immagine non condivide lo stesso statuto con l’ente al quale è associata. Più in generale, l’immagine non è «essere» a pieno titolo. Nel momento in cui uno scriba traccia dei geroglifici, invece, egli sta richiamando «concretamente» gli esseri corrispondenti. Questo aspetto caratterizza il sistema geroglifico fin dalle sue origini. Tra le primissime attestazioni di questa grafia (fine del IV millennio a. C.), troviamo una serie di etichette utilizzate per indicare dei prodotti. La funzione più ovvia che potrebbe essere attribuita a queste etichette è quella di rispondere a delle esigenze amministrative di classificazione. Vernus fa notare, tuttavia, che «le etichette mirano non soltanto a identificare il prodotto, ma anche a mostrare che esso si inserisce in un contesto rituale o cerimoniale e che ne veicola virtualmente gli effetti e, più ancora, (mirano) a captarne l’essenza attraverso l’iscrizione stessa che lo identifica, grazie alle virtù “performative” specifiche della scrittura geroglifica».876 Un documento molto posteriore, l’Onomasticon di Amenope, riferendosi all’insieme di tutte le parole ripartite per categorie, afferma: «Ciò che Ptah ha creato, ciò che Thot ha trascritto».877 Viene ribadita, dunque, in modo esplicito, l’equivalenza tra gli enti che popolano il cosmo e i geroglifici. Una possibile obiezione che si potrebbe sollevare, relativamente alla performatività della scrittura egiziana, è la seguente: il discorso parlato, essendo suono, è sempre in movimento, anche se per un tempo limitato; la parola scritta, invece, anche se ha una «durata» incomparabilmente più lunga, è ferma, immobile e, quindi, dovrebbe essere incapace di azione. Il problema si risolve, a nostro avviso, in questo modo: il discorso scritto, a differenza di quello orale, è legato alla facoltà visiva; ora, per gli Egiziani, l’organo della vista, l’occhio, è connesso all’idea del «fare». Il verbo jrj (fare), in geroglifico, è, infatti, un occhio e anche la sua radice è la stessa del sostantivo che denota l’organo: iri (jrj), fare; iret (jrt), occhio. La visione non è mai, dunque, una pura contemplazione; essa rappresenta, invece, una partecipazione attiva al mondo. 876 P. Vernus, Les premières attestations de l’écriture hiéroglyphique, in Aegyptus, 81 (2001), p. 31. 287 7. La logica del corpo articolare tra oralità e scrittura geroglifica Gli aspetti evidenziati mostrano che la scrittura geroglifica è strettamente legata alla dimensione dell’oralità; essa è principalmente un’estensione della voce umana. Le scritture alfabetiche costituiscono, invece, essenzialmente un supporto per la memoria. A questo punto, ci sembra interessante richiamare la tesi di Bolens che individua nell’avvento della scrittura in generale la causa che ha prodotto la scomparsa della «logica del corpo articolare».878 Secondo la studiosa, le culture occidentali, dopo aver interiorizzato la scrittura, hanno «metaforizzato e simbolizzato» il corpo umano a tal punto da non essere più in grado di coglierne la mobilità intrinseca. In una cultura dello scritto, la motricità corporea viene ridotta al semplice meccanismo fisiologico o a una serie di gesti convenzionali stabiliti sulla base di un codice estetico, politico, religioso, atletico, ecc. Il corpo non è più concepito, quindi, come «evento», come luogo di mobilità di parti organizzate in un sistema di giunture e separazioni, bensì come oggetto di osservazione. La differenza tra la «logica dell’oralità» e quella della scrittura emerge chiaramente dall’esempio che fa Bolens: «il cuore, organo vitale, può essere descritto attraverso la sua forma, può essere disegnato o rappresentato da un simbolo. Ma esso può essere anche descritto da un movimento di pulsazione della mano, che si apre e si richiude alternativamente e regolarmente».879 Il secondo modo di descrivere l’oggetto in questione, proprio di una logica dell’oralità, non si interessa della sua forma, ma si concentra sul movimento di cui è capace. Esso implica, dunque, la presenza di un corpo vivente, di una bocca che parla, in primo luogo, ma anche di un insieme di espressioni e gesti corporei. Relativamente all’importanza della corporeità in una cultura orale anche Ong si esprime in modo analogo: «Il mondo orale […] non esiste mai in un contesto puramente verbale, come invece accade per la parola scritta. L’espressione orale è sempre la modificazione di uno stato complessivo, esistenziale, che impegna tutto il corpo. L’attività corporea non è né un elemento peregrino, né un espediente artificioso nella comunicazione orale, ma ne è una componente naturale e addirittura 877 Cfr. supra, p. 227. 878 G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 221. 879 Ibid., p. 218. 288 inevitabile. Nell’espressione orale, specialmente se pubblica, l’immobilità assoluta è già di per sé un gesto significativo».880 Nell’Iliade, come fa notare Bolens, il verbo (ejpi)/(ajpo)-gravfein, che in seguito significherà anche «scrivere», «iscrivere», ricorre in contesti in cui si descrivono ferite provocate da colpi inferti durante un combattimento. Lo si utilizza con i significati di «incidere», graffiare», «scorticare».881 Esso denota, quindi un’azione contraria alla vita. In Omero c’è un unico riferimento alla parola scritta; in quel contesto, essa viene presentata come uno strumento di morte. La circostanza è la seguente: Antea, moglie del re Preto, accusa ingiustamente presso il marito l’eroe Bellerofonte di aver voluto sedurla. Per vendicare l’offesa, il re vuole uccidere Bellerofonte; egli non può, tuttavia, farlo direttamente, in quanto l’eroe è suo ospite. Lo invia allora presso suo suocero con una tavoletta sulla quale è scritta la sua condanna: «Lo inviava in Licia e gli affidò dei segni funesti [shvmata lugrav]: aveva inciso molti segni di morte [qumofqovra] in una tavoletta ripiegata e gli ordinava di mostrarla a suo suocero, con la mira che perisse».882 I segni mortiferi di cui parla Omero sono le lettere dell’alfabeto; si tratta di segni fissi, rigidi, che ben si prestano a trasmettere un messaggio di morte. In determinate circostanze, anche i geroglifici possono rappresentare un pericolo, tanto che in ambito funerario alcuni segni indicanti esseri viventi vengono deliberatamente lasciati mutili, affinché non rechino danno al defunto o non gli sottraggano delle offerte.883 I segni della scrittura geroglifica, tuttavia, al contrario di quelli alfabetici menzionati nell’Iliade, sono ricchi di vita, sono, cioè, degli enti in grado di «muoversi» e di compiere delle azioni da soli, indipendentemente dal concorso di un essere umano o di un dio. Alcuni geroglifici sono utilizzati, inoltre, per le loro virtù, anche al di fuori della scrittura; essi possono essere, per esempio, degli efficaci amuleti (si pensi, in proposito, all’occhio wDAt, ai segni anx e Dd, ecc.). Ne consegue, a nostro avviso, che la tesi di Bolens è valida soltanto se le scritture prese in considerazione sono quelle alfabetiche o, più in generale, aniconiche. Nel caso dei 880 W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, cit., p. 100. 881 Cfr. G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 219. 882 Omero, Iliade, VI, 168-170. Abbiamo modificato leggermente la trad. di G. Tonna, rendendo l’espressione shvmata lugrav con «segni funesti» (anziché «scritto funesto»). 883 Cfr. P. Lacau, Suppressions et modifications de signes dans les textes funéraires, in Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 51 (1913), pp. 1 sgg. 289 segni geroglifici, infatti, come abbiamo cercato di evidenziare, non si genera una reale cesura tra oralità e scrittura. La «logica del corpo articolare» rimane, quindi, confermata, poiché il sistema geroglifico riproduce il cosmo egiziano, che si configura come una rete di enti in relazione tra loro e non come il semplice contenitore di una sommatoria di elementi separati e immobili. L’essere umano e la sua dimensione corporea manifestano la medesima struttura costitutiva del cosmo. Le analisi condotte nei capitoli precedenti hanno mostrato che le nozioni di «corpo articolare» e «corpo inviluppo» si rivelano degli strumenti concettuali produttivi, dotati di una notevole forza euristica, anche nell’ambito delle concezioni antropologiche egiziane. Applicate in questo contesto, tuttavia, esse non denotano due approcci alla corporeità che si escludono a vicenda, bensì individuano due aspetti essenziali e complementari di quell’«ente» che abbiamo denominato «individuo articolare». Il corpo vivente è, in primo luogo, un sistema di elementi caratterizzato da connettività e motricità, che ha capacità performative,884 in secondo luogo un involucro che contiene e protegge degli organi. Analogamente, il sistema geroglifico, nel quale si coniugano oralità e scrittura, manifesta primariamente un aspetto «articolare» e attivo; esso genera, cioè, reti di relazioni, in grado di produrre degli effetti concreti. Secondariamente, il medesimo sistema grafico funge da involucro per preservare un contenuto da comunicare. In virtù della coesistenza della dimensione orale e di quella della scrittura nel segno geroglifico, la lingua egiziana e la grafia geroglifica formano un complesso unitario e organico che, riproducendo l’ordine e la struttura essenziale del mondo e dell’uomo, è in grado di parlare adeguatamente di questi soggetti e di intervenire attivamente nel loro divenire. La stretta correlazione tra lingua, scrittura e ordine cosmico emerge chiaramente, per esempio, dall’utilizzo da parte degli Egiziani della «paronomasia», ossia dei giochi di parole. Nelle culture occidentali, questo fenomeno linguistico istituisce una dialettica tra suono e significato: i significati delle sequenze fonetiche identiche o simili sono in corrispondenza tra loro. Il gioco di parole viene considerato, generalmente, una figura letteraria, avente, per lo più, finalità estetiche. In Egitto, tuttavia, come ha evidenziato Loprieno, la situazione è differente. Anzitutto viene coinvolta una terza sfera oltre a quelle del suono e del significato, la sfera del grafema. Si crea, quindi, 884 Cfr. supra, pp. 196 sgg. 290 una convergenza tra suono, messaggio e segno geroglifico.885 La paronomasia non costituisce, inoltre, un semplice artificio estetico, bensì un vero e proprio procedimento epistemologico. In proposito, Loprieno afferma: «se nella cultura occidentale la paronomasia è un fenomeno eminentemente estetico, cioè autoreferenziale, nella cultura egiziana il gioco di parole rientra altrettanto bene nella sfera epistemologica, ossia referenziale. La paronomasia egiziana informa analogicamente sulla realtà. […] questa realtà non è veicolata unicamente dalle due articolazioni del linguaggio, ossia l’articolazione semantica e quella fonologica, ma anche dall’articolazione grafica. La concezione dell’etimologia sulla quale si fonda questo procedimento analogico potrebbe essere definita non come nomen est omen, ma piuttosto come littera est nomen est omen».886 Attraverso i giochi di parole gli Egiziani stabiliscono delle associazioni etimologiche, dei legami semantici che esprimono la contiguità di enti apparentemente separati e lontani tra loro. Non si tratta, infatti, di una figura retorica, ma di un metodo per classificare gli elementi che popolano il cosmo e per costruire, così, una sorta di «enciclopedia». Un impiego frequente e particolarmente significativo della paronomasia lo troviamo nell’ambito dei nomi propri, a partire dai Testi delle Piramidi. Nella fonetica e nella grafia del nome proprio, oltre alla sua origine etimologica, vengono individuate tutte le associazioni che definiscono la sua «sfera enciclopedica».887 Viene messa, cioè, in luce la rete di relazioni che costituisce l’orizzonte dell’individuo in questione, quell’insieme di rapporti che lo integra nel cosmo, conferendogli un posto e un ruolo specifici. Questo procedimento emerge, oltre che nei testi religiosi, anche in opere narrative come, per esempio, Le avventure di Sinuhe. Il nome Sinuhe (sA-nht) significa «figlio del sicomoro», l’albero sacro alla dea Hathor. Il protagonista del racconto riveste presso la corte la carica di «servitore dell’harem regale e della principessa» (bAk n(y) jpAt nswt (j)r(y)t-pat). La sfera denotata dal nome sA-nht comprende i seguenti termini in rapporto tra loro: il personaggio Sinhue, il sicomoro, la dea Hathor, le concubine dell’harem, la principessa ereditaria Neferu. Sinhue è, quindi, per sua natura, in relazione con un elemento femminile, che può manifestarsi come albero, dea, concubina reale o principessa. 885 Cfr. A. Loprieno, La pensée et l’écriture. Pour une analyse sémiotique de la culture égyptienne, Cybele, Paris 2001, p. 131. 886 Ibid., pp. 140 sg. 291 La paronomasia egiziana, in qualsiasi contesto venga utilizzata, «combina segni, suoni e significati per interpretare l’universo».888 Si tratta di un universo «vivo», dinamico, che non può essere fissato in schemi rigidi. Di conseguenza, nella cultura dell’antico Egitto non vengono istituite distinzioni nette tra ambiti differenti: tra la dimensione linguistica e quella grafica, tra testi religiosi, scientifici e letterari, tra la sfera epistemologica e quella estetica o artistica. 8. Il circuito della conoscenza e il «metodo osiriano» Poiché l’uomo e il cosmo egiziani sono sempre in movimento, in azione e assumono configurazioni differenti in relazione alle singole situazioni concrete (per esempio, alle medesime divinità non corrispondono sempre gli stessi attributi, alle parti del corpo non sono associate sempre le stesse divinità, ecc.), anche il processo conoscitivo segue la medesima impostazione, non riducendosi mai a un’esperienza puramente contemplativa o ricettiva. La conoscenza implica un’azione, un intervento nell’ordine del mondo. Il termine egiziano classico che denota l’atto conoscitivo e la conoscenza è il seguente: rekh (rx). Utilizzato come verbo, rekh si trova in genere nella forma compiuta; l’Egiziano, cioè, non dice, «io conosco», «io so», ma «io ho conociuto», «io ho saputo» (jw=j rx=kw). Secondo Donadoni, il «sapere» espresso da questo verbo è statico, «in confronto dell’attivo e assimilatore “sapere” della cultura tarda».889 Il termine di paragone al quale fa riferimento lo studioso è il verbo am (am), utilizzato in epoca più recente per denotare l’atto del conoscere e che originariamente significava «ingoiare». A nostro avviso, tuttavia, la forma compiuta che caratterizza l’utilizzo del verbo rekh è un’indicazione dell’aspetto performativo della conoscenza. Lo stesso Donadoni, del resto, fa notare che, quando è entrato nell’uso il secondo verbo, rekh «ha assunto il valore di “saper fare”, fino all’esito copto che vuol dire “potere”».890 887 Cfr. Ibid., pp. 142 sgg. 888 Ibid., p. 157. 889 S. Donadoni, I modi egiziani del conoscere, cit., p. 139. 890 Ibid. 292 Una «teoria della conoscenza» formulata in modo esplicito è contenuta nel Testo di teologia menfita, dove leggiamo: «Gli occhi vedono, le orecchie odono, il naso respira: essi informano il cuore [jb]: è lui che permette ogni conoscenza [arqyt], ed è la lingua [ns] che ripete ciò che il cuore [HAty] ha pensato. Così nacquero tutti gli dei e fu completata l’Enneade. Ogni parola del dio si manifestò secondo ciò che il cuore [HAty] aveva pensato e che la lingua aveva ordinato. […] Così è stato creato ogni lavoro ed ogni arte, l’attività delle mani, il camminare dei piedi, il moto di tutte le membra, secondo il comando pensato dal cuore [jb] ed espresso dalla lingua, e che viene compiuto in ogni cosa».891 Secondo quanto afferma il passo, immagini, suoni e odori, attraverso gli organi di senso, vengono convogliati al cuore, dove sono elaborati; il risultato di questa elaborazione è indicato con il termine arqyt (arqyt).892 La radice arq (arq) da un lato contiene l’idea di un processo che è stato completato, dall’altro esprime l’intelligenza, la capacità di comprendere. Troviamo, infatti, un verbo arq che significa «terminare», «completare» e un altro verbo omonimo che viene tradotto con «essere intelligente», «capire», «conoscere».893 All’interno del cuore viene riorganizzato e riconfigurato il mondo che ci circonda. L’arqyt viene successivamente veicolata dalla lingua, che la traduce in parola performativa. Un primo rilievo è questo: l’elaborazione della conoscenza necessita il contatto diretto con il mondo esterno; la speculazione fondata esclusivamente su elementi interni o innati non coglie, quindi, l’essenza del cosmo. Ciò potrebbe far pensare a una sorta di empirismo. E’, tuttavia, necessario approfondire ulteriormente la questione. Il processo conoscitivo che permette all’uomo di conoscere il mondo e di intervenire in esso riproduce il meccanismo fisiologico che apporta vita e sostentamento al corpo umano. Come abbiamo riscontrato precedentemente, infatti, per gli Egiziani, ciò che entra dall’esterno nel corpo, dirigendosi verso il cuore, non è costituito soltanto da una serie di percezioni o elementi «sensibili». Al cuore vengono convogliate soprattutto le correnti dinamiche di origine «divina», quindi «soprasensibile», che rappresentano una linfa vitale per il corpo umano. Queste 891 Testo di teologia menfita, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 18. 892 Il Wörterbuch (I, p. 212) e Hannig (Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 163) traducono arqyt con Entschluss, cioè «decisione», «risoluzione». 293 correnti vengono poi ridistribuite dall’organo cardiaco, attraverso i condotti-met, ad ogni parte corporea. Analogamente, la conoscenza è il risultato finale dell’elaborazione di una serie di stimoli esterni di varia natura; dal cuore essa viene veicolata all’esterno grazie all’intermediazione della lingua che la rende «parola». In secondo luogo, osserviamo che la parola produce un «movimento» nell’ambiente circostante; similmente, l’azione dei soffi vitali è quella di animare, di mettere in movimento le membra corporee. Nella genesi della conoscenza ritroviamo i meccanismi che determinano il funzionamento del «corpo articolare». In entrambi i contesti l’elemento centrale è rappresentato dal cuore, dal binomio ib-haty, che in un caso indirizza ciò che risulta dall’elaborazione delle correnti dinamiche verso il mondo esterno, nell’altro verso quello interno. La sfera cardiaca funge, dunque, da trait d’union non soltanto tra il corpo articolare e il corpo inviluppo, come abbiamo mostrato, ma anche tra il macrocosmo in generale e il microcosmo umano nel suo complesso. Il corpo articolare è una rete di relazioni; allo stesso modo la conoscenza riproduce la rete di rapporti che costituisce il mondo. Poiché la conoscenza condivide la natura del mondo che esprime, essa non ha un ruolo semplicemente descrittivo, ma è in grado di intervenire in modo significativo nell’ordine cosmico. L’azione esercitata dal cuore e dalla lingua e il potere che essi hanno su tutte le altre membra sono comuni a tutti gli esseri viventi, dal momento che «l’uno (= il cuore) è in ogni corpo, e l’altro (= la lingua) è in ogni bocca, di tutti gli dei, di tutti gli uomini, di tutti gli animali, di tutti i rettili, di tutto ciò che vive».894 Secondo il Testo di teologia menfita, quindi, dei, uomini e animali sembrano condividere una natura e un approccio al mondo simili, anche se, chiaramente, la loro conoscenza del mondo e le loro capacità operative risultano qualitativamente differenti. Due concetti importanti che nella cultura egiziana sono associati al processo conoscitivo sono quelli espressi dai termini sia (siA) e hu (Hw). Il primo termine, che ricorre come verbo e come sostantivo, indica l’atto del conoscere o del riconoscere qualcosa; esso denota altresì la «percezione». Il secondo 893 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 163. 294 è un sostantivo che significa «ordine», «comando», ma che indica anche il potere creatore del verbo proferito dal dio demiurgo.895 Un contesto significativo in cui ricorrono entrambi i termini è rappresentato dalla formula 321 dei Testi dei Sarcofagi, già menzionata, che riporta una variante della teologia di Eliopoli secondo la quale il demiurgo Atum avrebbe posto in essere il mondo mediante la sua parola. Sia e Hu compaiono nelle vesti di due divinità. Secondo la lettura di questa formula proposta da Bardinet, questi due dei rappresenterebbero i due estremi di un cammino obbligato, di un circuito (pXrt) che la parola deve seguire prima di essere emessa dalla bocca.896 Colui che presiede questa via è il dio Hapy. Anche in questo caso, come nel Testo di teologia menfita, il percorso ha inizio nel cuore (jb) e termina nella bocca. Il luogo anatomico del dio Sia è il cuore; egli governa l’intelligenza e la conoscenza, che proprio nell’organo cardiaco hanno la loro sede. Il dio Hu risiede, invece, nella bocca e interviene nell’articolazione finale del verbo. Quest’ultimo da un lato traduce il contenuto del pensiero che dimora nel cuore, dall’altro ha in sé un potere di azione. La valenza performativa della parola è massima nel demiurgo, inferiore negli altri dei e negli uomini. Riproducendo l’andamento del mondo, il pensiero egiziano non si cristallizza mai in concetti chiusi. Ogni concetto, pur conservando una propria identità, si riconfigura in base ai contesti e alle circostanze del momento. Questo aspetto si manifesta anche nell’ambito dell’etica. Il furto, per esempio, può assumere una connotazione differente, a seconda che venga compiuto da qualcuno che ha di che vivere o da qualcuno che non possiede nulla. L’oasita derubato dei propri beni, protagonista del celebre racconto, chiedendo giustizia al soprintendente Rensi, afferma: «Se il furto è tollerabile da parte chi non possiede nulla, la cattiva azione di chi non è privo di niente è un furto da criminale».897 Benché in perpetuo divenire e non rappresentabile in modo univoco, tuttavia, il sistema del mondo, così come la «costellazione» umana, manifesta una coerenza interna. Si tratta, infatti, di una rete di relazioni e di analogie che si ristruttura, si trasforma (xpr), mantenendo inalterati i rapporti proporzionali. La configurazione di 894 Testo di teologia menfita, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 17. 895 Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 546 e 719. 896 Cfr. T. Bardinet, Dents et mâchoires dans les représentations religieuses et la pratique médicale de l’Égypte ancienne, cit., pp. 140 sgg. 897 L’Oasita eloquente, B1, 153-154, la trad. segue quella francese di P. Grandet, in Id. (a cura di), Contes de l’Égypte ancienne, cit., p. 51. In proposito, cfr. anche S. Donadoni, I modi egiziani del conoscere, cit., pp. 144 sg. 295 elementi è «locale», l’ordine espresso dai rapporti tra gli elementi è universale, è la legge di Maat. La «scienza», come orizzonte operativo e di pensiero, frutto di un approccio conoscitivo alla realtà, è, nello stesso tempo, espressione e attivazione del sistema del mondo. A nostro avviso, il mito di Osiri, che costituisce un modello per le concezioni antropologiche egiziane, si rivela esplicativo e chiarificatore dello «spirito» egiziano anche su un piano più propriamente epistemologico. Relativamente all’approccio al mondo dell’uomo egiziano, potremmo parlare di «metodo osiriano». Per certi versi, infatti, la realtà si presenta all’uomo come il corpo di Osiri: una serie di frammenti sparsi da recuperare e riassemblare. Ciò che determina l’esito finale di questo riassemblamento è la situazione attuale, concreta. Non a caso, del mito di Osiri non troviamo traccia di un resoconto unitario e completo nelle fonti dell’Egitto faraonico. Il mito è raccontato in maniera frammentaria; esso va ricostruito cercando e mettendo insieme i vari pezzi e distinguendone le varianti. Allo stesso modo, la «scienza» è il risultato della ricerca, della composizione e dell’articolazione di un insieme di pezzi sparsi. Essa non è «dogmatica», in quanto non è concepibile una versione univoca dei fatti. Ad ogni atto conoscitivo corrisponde una riorganizzazione di elementi, più o meno significativa, nella rete di rapporti costitutiva del mondo; si tratta, cioè, di un intervento nell’ordine cosmico. 296 BIBLIOGRAFIA • Aa Vv, The intellectual adventure of ancient man. An essay on speculative thought in the ancient Near Est (1946); trad. it. di E. Zolla, La filosofia prima dei Greci. Concezioni del mondo in Mesopotamia, nell’antico Egitto e presso gli Ebrei, Einaudi, Torino 1963. • Allen, T. G., Additions to the Egyptian Book of the dead, in Journal of Near Eastern Studies, 11 (1952), pp. 177 sgg. • Amenta, A., Il Faraone. Uomo, sacerdote, dio, Salerno Editrice, Roma 2006. • Anassagora, Testimonianze e frammenti, trad. it. di D. Lanza, La Nuova Italia, Firenze 1966. • Aristotele, Organon, trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1955. • Aristotele, Politica, trad. it. di R. Laurenti, in Id., Opere, vol. XI, Laterza, Roma-Bari 1984. • Aristotele, Parti degli animali, trad. it di M. Vegetti, in Id., Opere, vol. V, Laterza, Roma-Bari 1990. • Aristotele, Ricerche sugli animali [Historia animalium], trad. it. di M. Vegetti, in Id., Opere biologiche, Utet, Torino 1971. • Aristotele, Etica nicomachea, trad. it. di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993. • Aristotele, Metafisica, trad. it. di C. A. Viano, Utet, Torino 2005. • Aristotele, L’anima, trad. it. di G. Movia, Bompiani, Milano 2008. • Assmann, J., Verklärung, in Lexikon der Ägyptologie, vol. V, Harrassowitz, Wiesbaden 1975, coll. 998 sgg. • Assmann, J., Images et rites de la mort dans l'Égypte ancienne. L'apport des liturgies funéraires, Cybele, Paris 2000. • Assmann, J., Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, Verlag C. H. Beck, München 2001. 297 • Assmann, J., Der Tod als Thema der Kulturtheorie. Todesbilder und Todesriten im alten Ägypten (2000); trad. it. di U. Gandini, La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, Einaudi, Torino 2002. • Assmann, J., Tod, Jenseits und Identität. Perspektiven einer kulturwissenschaftlichen Thanatologie, Alber, Freiburg 2002. • Assmann, J., Tod und Jenseits im alten Ägypten (2001); trad. fr. di N. Baum, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, Éditions du Rocher, Monaco 2003. • Assmann, J., La notion d’éternité dans l’Égypte ancienne, in V. PirenneDelforge, Ö. Tunca (a cura di), Représentations du temps dans les religions, Droz, Genève 2003. • Austin, J., How to do Things with Words (1962); trad. it. di C. Villata, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987. • Austin, J., Philosophical Papers (1961), trad. it. di P. Leonardi, Saggi filosofici, Guerini e Associati, Milano 1990. • Austin, N., Archery at the dark of the moon, University of California Press, Berkeley 1975. • Bardinet, T., Dents et mâchoires dans les représentations religieuses et la pratique médicale de l’Égypte ancienne, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990. • Bardinet, T., Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, Fayard, Paris 1995. • Barguet, P. (a cura di), Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, Les Éditions du Cerf, Paris 1967. • Barguet, P. (a cura di), Les textes des sarcophages égyptiens du Moyen Empire, Les Éditions Du Cerf, Paris 1986. • Barguet, P., Aspects de la pensée religieuse de l’Égypte ancienne, La Maison de Vie, Fuveau 2001. • Barnes, J., Aristotle’s theory of demonstration, in J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji (a cura di), Articles on Aristotle, vol. I, Duckworth, London 1975. 298 • Barnes, J. (a cura di), Alexander of Aphrodisias On Aristotle Prior Analytics 1.1-7, Duckworth, London 1991. • Barnes, J., Introduction a Aristotle’s Posterior Analytics, Clarendon Press, Oxford 1993. • Barucq, A., Daumas, F., Hymnes et prières de l’Égypte ancienne, Les Éditions du Cerf, Paris 1980. • Baumann, A. J., The suffix conjugation of early Egyptian as evidenced in the Underworld Books, vol. I, UMI, Ann Arbor 1998. • Beaux, N., La douat dans les Textes des Pyramides. Espace et temps de gestation, in BIFAO, 94 (1994), pp. 1 sgg. • Benveniste, É., Problèmes de linguistique genérale (1966), trad. it. di M. V. Giuliani, Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 2010. • Berti, E., Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, Palermo 1987. • Berti, E., Nuovi studi aristotelici, vol. I, Morcelliana, Brescia 2004. • Berti, E., In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2008. • Bickel, S., La cosmogonie égyptienne avant le Nouvel Empire, Éditions universitaires, Fribourg (Suisse) 1994. • Bickel, S., Temps liminaires, temps meilleurs? Qualifications de l’origine et de la fin du temps en Égypte ancienne, in V. Pirenne-Delforge, Ö. Tunca (a cura di), Représentations du temps dans les religions, Droz, Genève 2003. • Blackman, A. M. (a cura di), Middle Egyptian stories, Éditions de la Fondation Égyptologique Reine Élisabeth, Bruxelles 1932. • Blackman, A. M., Davies, W. V., The story of king Kheops and the magicians, J.V. Books, Reading 1988. • Bohr, N., Teoria dell’atomo e conoscenza umana, raccolta di saggi trad. in it. da P. Gulmanelli, Boringhieri, Torino 1961. • Bolens, G., La logique du corps articulaire, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2000. 299 • Bolens, G., Continuité et transformation des logiques corporelles, in History and Philosophy of the life sciences, 25 (2003), pp. 471 sgg. • Bolens, G., La momification dans la littérature médiévale: l’embaumement d’Hector chez Benoît de Sainte-Maure, Guido delle Colonne et John Lydgate, in Micrologus. Natura, scienze e società medievali, 13 (2005), pp. 213 sgg. • Bonnamy, Y., Sadek, A., Dictionnaire des hiéroglyphes, Actes Sud, Arles 2010. • Bongioanni, A., Tosi, M., Spiritualità dell’antico Egitto. I concetti di Akh, Ba e Ka, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 2002. • Breasted, J. H., The Edwin Smith Surgical Papyrus, 2 voll., University of Chicago Press, Chicago 1930. • Bresciani, E. (a cura di), Testi religiosi dell’antico Egitto, Mondadori, Milano 2001. • Bresciani, E. (a cura di), Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi, Torino 2007. • Brown, L., The verb “to be” in Greek philosophy: some remarks, in S. Everson (a cura di), Language, Cambridge University Press, Cambridge 1994. • Brunschvicg, L., Les étapes de la philosophie mathématique, A. Blanchard, Paris 1981. • Burnyeat, M. F., Aristotle on Understanding Knowledge, in E. Berti (a cura di), Aristotle on Science. The “Posterior Analytics”, Antenore, Padova 1981. • Cambiano, G., Dialettica, medicina, retorica nel Fedro platonico, in Rivista di Filosofia, 57 (1966), pp. 284 sgg. • Cambiano, G., Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, in Rivista di filosofia, 58 (1967), pp. 115 sgg. • Carrier, C. (a cura di), Textes des Sarcophages du Moyen Empire égyptien, 3 voll., Éditions du Rocher, Monaco 2004. • Carrier, C. (a cura di), Le Livre des Morts de l’Égypte ancienne, Cybele, Paris 2009. • Carrier, C. (a cura di), Textes des Pyramides de l’Égypte ancienne, 6 voll., Cybele, Paris 2009-2010. 300 • Cartocci, A., La matematica degli Egizi, Firenze University Press, Firenze 2007. • Cassirer, E., Philosophie der symbolischen Formen, II, Das mytische Denken (1923); trad. it. di E. Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, vol. II, Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze 1964. • Caswell, C., A study of thumos in early greek epic, E. J. Brill, Leiden 1990. • Cauville, S., Dendara, les chapelles osiriennes, 3 voll., IFAO, Le Caire 1997. • Caveing, M., Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, Presses universitaires de Lille, Lille 1994. • Caveing, M., La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, Presses universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Asq 1997. • Chantraine, P., Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1999. • Chiesa, C., Sémiosis – signes – symboles. Introduction aux théories du signe linguistique de Platon et d'Aristote, P. Lang, Berne 1991. • Chiesa, C., La réfutation socratique et la méthode hypothétique, in A. Longo (a cura di) Argument from hypothesis in ancient philosophy, Bibliopolis, Napoli 2011. • Clagett, M., Ancient Egyptian Science, vol. I, American Philosophical Society, Philadelphia 1989. • Colli, G., La sapienza greca, 3 voll., Adelphi, Milano 1990-1993. • Cornford, F. M., Plato’s Cosmology. The Timaeus of Plato translated with a running commentary, Routledge & Kegan Paul, London 1937. • Corpus Hermeticum, trad. it. di V. Schiavone, Bur, Milano 2009. • Couchoud, S., Mathématiques égyptiennes. Recherches sur les connaissances mathématiques de l’Égypte pharaonique, Editions Le Leopard d'Or, Paris 1993. • Crivelli, P., Aristotle on syllogisms from a hypothesis, in A. Longo (a cura di) Argument from hypothesis in ancient philosophy, Bibliopolis, Napoli 2011. 301 • Daumas, F., Sur deux chants liturgiques des mammisis de Dendara, in Revue d’Egyptologie, 8 (1951), pp. 31 sgg. • Daumas, F., L’origine égyptienne de la tripartition de l’âme chez Platon, in Mélanges Adolphe Gutbub, Université de Montpellier, Montpellier 1984. • Davies, N. de G., The tomb of Nefer-hotep at Thebes, New York 1932. • De Buck, A., The Egyptian Coffin Texts, 7 voll., The University of Chicago Press, Chicago 1935-1961. • De Buck, A., Grammaire élémentaire du moyen égyptien, traduite par B. van de Walle et J. Vergate, Brill, Leiden 1952. • Derchain, Ph., Mythes et dieux lunaires en Égypte, in La lune, mytes et rites, Éditions du Seuil, Paris 1962. • Derchain, Ph. (a cura di), Le Papyrus Salt 825 (B.M. 10051), rituel pour la conservation de la vie en Égypte, Académie Royale de Belgique, Bruxelles 1965. • Derchain, Ph., Sur le nom de Chou et sa fonction, in Revue d’Égyptologie, 27 (1975), pp. 110 sgg. • Derchain, Ph., À propos de performativité. Pensers anciens et articles récents, in Göttinger Miszellen, 110 (1989), pp. 13 sgg. • Descartes, R., Meditationes de prima philosophia (1641), trad. it. di A. Tilgher, riv. da F. Adorno, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, vol. II, Laterza, Roma-Bari 1986. • Donadoni, S., La letteratura egizia, Sansoni, Firenze 1967. • Donadoni, S., Arte egizia, Einaudi, Torino 1982. • Donadoni, S., I modi egiziani del conoscere, in Id., Cultura dell’antico Egitto, Università degli studi di Roma "La Sapienza", Roma 1986. • Donadoni, S. (a cura di), Testi religiosi egizi, Garzanti, Milano 1997. • Donadoni, S., La religione egizia: profilo introduttivo, in Civiltà degli Egizi. Le credenze religiose, Istituto Bancario San Paolo, Torino 1988. • 302 Donadoni, S. (a cura di), L’uomo egiziano, Laterza, Roma-Bari 1997. • Doret, É., Phrase nominale, identité et substitution dans les Textes des Sarcophages, in Revue d’Égyptologie, 40 (1989), pp. 49 sgg. • Duminil, M.-P., Le sang, les vaisseaux, le cœur dans la Collection hippocratique. Anatomie et physiologie, Les Belles Lettres, Paris 1983. • Ebbell, B., Die ägyptischen Krankheitsnamen, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 62 (1926), pp. 13 sgg. • Ebbell, B., The Papyrus Ebers. The greatest Egyptian medical document, Levin & Munksgaard, Copenhagen 1937. • Ebbell, B., Alt-ägyptische Bezeichnungen für Krankheiten und Symptome, Jacob Dybwad, Oslo 1938. • Edel, E., Altägyptische Grammatik, Pontificium Institutum Biblicum, Roma 1955-1964. • Edgar, C. C., Remarks on Egyptian sculptors models, in Recueil de travaux rélatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et assyriennes, 27 (1905), pp. 137 sgg. • Erman, A., Ägyptische Religion, Georg Reimer, Berlin 1909. • Erman, A., Grapow, H. (a cura di), Wörterbuch der aegyptischen Sprache, 7 voll., Akademie Verlag, Berlin 1955. • Erodoto, Storie, trad. it. di L. Annibaletto, Mondadori, Milano 2000. • Euclide, Elementi, trad. it. di F. Acerbi, in Id., Tutte le opere, Bompiani, Milano 2007. • Fallot, J., La pensée de l’Égypte antique (1992); trad. it. di B. Chitussi, Il pensiero dell’Egitto antico, Bollati Boringhieri, Torino 2009. • Fattovich, R., Le sepolture predinastiche egiziane: un contributo allo studio delle ideologie funerarie della preistoria, in G. Gnoli, J.-P. Vernant (a cura di), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge University Press, Ed. de la Maison des sciences de l'homme, Cambridge, London, Paris 1982. • Faulkner, R. O. (a cura di), The Papyrus Bremner-Rhind, Édition de la Fondation Reine Élisabeth, Bruxelles 1933. 303 • Faulkner, R. O. (a cura di), The ancient Egyptian pyramid texts, The Clarendon Press, Oxford 1969. • Faulkner, R. O. (a cura di), The ancient Egyptian coffin texts, Aris & Phillips, Warminster 2004. • Flashar, H., Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, Walter de Gruyter & Co, Berlin 1966. • Fornari, A., Tosi, M., Nella sede della verità. Deir el Medina e l’ipogeo di Thutmosi III, Ricci, Milano 1987. • Franci, M., Astronomia egizia. Introduzione alle conoscenze astronomiche dell’antico Egitto, Edarc, Bagno a Ripoli 2010. • Fränkel, H., Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, Verlag C. H. Beck, München 1976. • Frankfort, H., Myth and reality, in The intellectual adventure of ancient man, The University of Chicago Press, Chicago 1946. • Frankfort, H., Ancient Egyptian religion, Columbia University Press, New York 1949. • Fredrich, C., Hippokratische Untersuchungen, Weidmann, Berlin 1899. • Galimberti, U., Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2006. • Gardiner, A., The tomb of Amenemhet, Egypt Exploration Found, London 1915. • Gardiner, A., The Library of A. Chester Beatty, Oxford University Press, London 1931. • Gardiner, A., Ancient Egyptian Onomastica, vol. II, Oxford University Press, Oxford 1947. • Gardiner, A., Egyptian Grammar, Griffith Institute Ashmolean Museum, Oxford 1988. • Ghalioungui, P., La notion de maladie dans les textes égyptiens et ses rapports avec la théorie humorale, in BIFAO, 66 (1968), pp. 37 sgg. 304 • Ghalioungui, P., La médecine des pharaons, Éditions Robert Laffont, Paris 1983. • Giacardi, L., Roero, S. C., La matematica delle civiltà arcaiche. Egitto, Mesopotamia e Grecia, Stampatori, Torino 1979. • Gillain, O., La science égyptienne, Édition de la Fondation Égyptologique Reine Élisabeth, Bruxelles 1927. • Gillings, R. J., Mathematics in the time of the pharaohs, Mass, Cambridge 1972. • Goyon, J.-C., La véritable attribution des soi-disant chapitres 191 et 192 du Livre des Morts, in Studia Aegyptiaca, 1 (1974), pp. 117 sgg. • Goyon, J.-C., Nombre et univers: réflexions sur quelques données numériques de l’arsenal magique de l’Égypte pharaonique, in A. Roccati, A. Siliotti (a cura di), La magia in Egitto ai tempi dei faraoni. Atti del convegno internazionale di studi, Milano 29-31 ottobre 1985, Rassegna Internazionale di Cinematografia Archeologica Arte e Natura Libri, Verona 1987. • Goyon, J.-C., Momification et recomposition du corps divin: Anubis et les canopes, in H. Kamstra, H. Milde, K. Wagtendonk (a cura di), Funerary Symbols and religion. Essays dedicated to Professor M.S.H.G. Heerma van Voss, J. H. Kok, Kampen 1988. • Goyon, J.-C., Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, Les Éditions du Cerf, Paris 2004. • Grandet, P. (a cura di), Contes de l’Égypte ancienne, Khéops, Paris 2005. • Grandet, P., Mathieu, B., Cours d’égyptien hiéroglyphique (2003); trad. it. di M. Lari e Ch. Orsenigo, Corso di egiziano geroglifico, Ananke, Torino 2007. • Grapow, H., Die Welt vor der Schöpfung, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 67 (1931), pp. 34 sgg. • Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, 9 voll., Akademie Verlag, Berlin 1954-1973. • Guilhou, N., Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, in Égypte, 10 (1998), pp. 19 sgg. 305 • Guiraud, C., La phrase nominale en grec, d’Homère à Euripide, C. Klincksieck, Paris 1962. • Gunn, B., Studies in Egyptian syntax, Geuthner, Paris 1924. • Hannig, R., Grosses Handwörterbuch, Deutsch – Ägyptisch, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2000. • Hannig, R., Ägyptisches Wörterbuch I. Altes Reich und Erste Zwischenzeit, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2003. • Hannig, R., Ägyptisches Wörterbuch II. Mittleres Reich und Zweite Zwischenzeit, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2006. • Hannig, R., Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch – Deutsch, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2006. • Harris, J. R. (a cura di), The legacy of Egypt, Clarendon Press, Oxford 1971. • Havelock, E. A., Preface to Plato (1963), trad. it. di M. Carpitella, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari 1973. • Heidegger, M., Vorträge und Aufsätze (1954); trad. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991. • Hegel, G.W.F., Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, I (1833); trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1973. • Herbin, F.-R., Un hymne à la lune croissante, in BIFAO, 82 (1982), pp. 237 sgg. • Herbin, F.-R., Les premières pages du Papyrus Salt 825, in BIFAO, 88 (1988), pp. 95 sgg. • Hermann, A., Die Stelen der thebanischen Felsgraber der 18. Dynastie, Augustin, Glückstadt 1940. • Hickmann, H., La musique polyphonique dans l’Égypte ancienne, in Bulletin de l’Institut d’Égypte, 34 (1951-1952), pp. 229 sgg. • Hickmann, H., Le probleme de la notation musicale dans l’ Égypte ancienne, in Bulletin de l’Institut d’Égypte, 36 (1953-1954), pp. 489 sgg. 306 • Hickmann, H., La chironomie dans l’Égypte pharaonique, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 83 (1958), pp. 96 sgg. • Hippocrate, De la génération, De la nature de l’enfant, Des Maladies IV, Du fœtus de huit mois, trad. fr. di R. Joly, Belles Lettres, Paris 1970. • Hippocrate, De vents. De l’art, trad. fr. di J. Jouanna, Les Belles Lettres, Paris 1988. • Hippocrate, Plaies, Nature des os, cœur, anatomie, trad. fr. di M.-P. Duminil, Les Belles Lettres, Paris 1998. • Holmes, B., The Symptom and the Subject. The emergence of the physical body in ancient Greece, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2010. • Hornung, E. (a cura di), Das Buch der Anbetung des Re im Westen (Sonnenlitanei), Éditions de Belles Lettres, Genève 1975-1976. • Hornung, E., Vom Sinn der Mumifizierung, in Die Welt des Orients, 14 (1983), pp. 167 sgg. • Hornung, E., Fisch und Vogel: zur altägyptischen Sicht des Menschen, in Eranos, 52 (1983), pp. 455 sgg. • Hornung, E., L’Égypte, la philosophie avant les grecs, in Les études philosophiques, avril-septembre (1987), pp. 113 sgg. • Hornung, E., Der Eine und die Vielen. Ägyptische Gottervorstellungen (1990); trad. it. di D. Scaiola, Gli dei dell’antico Egitto, Salerno Editrice, Roma 1992. • Hornung, E., Altägyptische Jenseitsbücher. Ein Einführender Überblick (1997); trad. fr. di N. Baum, Les textes de l’au-delà dans l’Égypte ancienne, Éditions du Rocher, Monaco 2007. • Hornung, E., Geist der Pharaonenzeit (1989); trad. it. di A. Amenta, Spiritualità nell’antico Egitto, L’Erma di Bretschneider, Roma 2002. • Hornung, E. (a cura di), Die Unterweltsbücher der Ägypter, Patmos, Düsseldorf 2002. • Hornung, E. (a cura di), Das Totenbuch der Ägypter, Patmos, Düsseldorf 2004. 307 • Hornung, E., Das Tal der Könige (2002); trad. it. di U. Gandini, La valle dei Re, Einaudi, Torino 2004. • Hornung, E., Die Nachtfahrt der Sonne. Eine altägyptische Beschreibung des Jenseits, Patmos, Düsseldorf 2005. • Iversen, E., The Egyptian origin of the archaic Greek canon, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Kairo 15 (1957), pp. 134 sgg. • Iversen, E., The Myth of Egypt and its Hieroglyphs in European Tradition, Gad, Copenhagen 1961. • Iversen, E., Canon and proportion in Egyptian art, Aris and Phillips, Warminster 1975. • Jaeger, W., Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, I (1934); trad. it. di L. Emery, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1936. • Jacobsohn, H., Die dogmatische Stellung des Königs in der Theologie der Alten Ägypter, Augustin, Glückstadt 1939. • Jaspers, K., Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (1949); trad. it. di A. Guadagnin, Origine e senso della storia, Edizioni di comunità, Milano 1982. • Jean, R.-A., Loyrette, A.-M., La mère, l’enfant et le lait en Égypte ancienne. Traditions médico-religieuses, L’Harmattan, Paris 2010. • Joly, R., Le système cnidien des humeurs, in La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la médecine. Colloque de Strasbourg (23-27 octobre 1972), Brill, Leiden 1975. • Jonckheere, F., Une maladie égyptienne: l'hématurie parassitaire, Fondation Égyptologique Reine Élisabeth, Bruxelles 1944. • Jonckheere, F., La conception égyptienne du squelette, in Centaurus, 5 (1957), pp. 323 sgg. • Jouanna, J., La structure du traité hippocratique “Maladie II” et l’évolution de l’école de Cnide, in Revue des études grecques, 82 (1969), pp. XII sgg. • Jouanna, J., Hippocrate. Pour une archéologie del’école de Cnide, Les Belles lettres, Paris 1974. 308 • Jouanna, J., Le schéma d’exposition des maladies et ses déformations dans les traités dérivés des Sentences Cnidiennes, in La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la médecine. Colloque de Strasbourg (23-27 octobre 1972), Brill, Leiden 1975. • Jouanna, J., La théorie des quatre humeurs et des quatre tempéraments dans la tradition latine (Vindicien, Pseudo-Soranos) et une source grecque retrouvée, in Revue des études grecques, 118 (2005), pp. 138 sgg. • Jouanna, J., Un traité pseudo-hippocratique inédit sur les quatre humeurs (Sur le pouls et sur le tempérament humain), in A. Kolde, A. Lukinovich, A.-L. Rey (a cura di), Koruphaioi andri, mélanges offerts à André Hurst, Librairie Droz, Genève 2005. • Jouanna, J., La posterité du traité hippocratique de la Nature de l’homme: la théorie des quatre humeurs, in C. W. Müller, Ch. Brockmann, C. W. Brunschön (a cura di), Ärzte und ihre Interpreten. Medizinische Fachtexte der Antike als Forschungsgegenstand der Klassischen Philologie, Saur, München, Leipzig 2006. • Jouanna, J., Un traité inédit attribué à Hippocrate, Sur la formation de l’homme: editio princeps, in Ecdotica e ricezione dei testi medici greci. Atti del V convegno internazionale, Napoli, 1-2 ottobre 2004, D’Auria, Napoli 2006. • Junker, H., Die sechs Teile des Horusauges und der «sechste Tag», in Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 48 (1911), pp. 101 sgg. • Junker, H., Die Götterlehre von Memphis, Akademie der Wissenschaften, Berlin 1939. • Kees, H., Der Götterglaube im alten Aegypten, Hinrichs, Leipzig 1941. • Kullmann, W., Wissenschaft und Methode: Interpretationen zur aristotelischen Theorie der Naturwissenschaft, W. De Gruyter, Berlin 1974. • Kurth, D., Zum “sDm.n.f” in Tempeltexten des griechisch-römischen Zeit, in Göttinger Miszellen, 108 (1989), pp. 31 sgg. • Labrique, F., Le sDm.n.f “rituel” à Edfu: le sens est roi, in Göttinger Miszellen, 106 (1988), pp. 53 sgg. 309 • Lacau, P., Suppressions et modifications de signes dans les textes funéraires, in Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 51 (1913), pp. 1 sgg. • Lacau, P., Les noms des parties du corps en Égyptien et en Semitique, Klincksieck, Paris 1970. • Lanza, D., L’EGKEFALOS e la dottrina anassagorea della conoscenza, in Maia (1964), pp. 71 sgg. • Leclant, J., Le rôle du lait et de l’allaitement d’après les Textes des Pyramides, in Journal of Near Eastern Studies, 10 (1951), pp. 123 sgg. • Lefebvre, G., Grammaire de l’Égyptien Classique, Imprimerie de l’Insitut Français d’Archéologie Orientale, Le Caire 1940. • Lefebvre, G., Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, IFAO, Le Caire 1952. • Lefebvre, G., Essai sur la médecine égyptienne de l’époque pharaonique, Presses Universitaires de France, Paris 1956. • Leitz, C., Altägyptische Sternuhren, Peeters, Departement Oriëntalistiek, Leuven 1995. • Lepsius, R., Die Längenmasse der Alten, Hertz, Berlin 1884. • Lepsius, R., Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien, vol. I, Biblio Verlag, Osnabrück 1970 (ristampa dell’edizione 1849). • Littré, É. (a cura di), Oeuvres completes d’Hippocrate, 9 voll., Hakkert, Amsterdam 1973-1982. • Lloyd, G. E. R., Methods and problems in Greek science, Cambridge University Press, Cambridge 1991. • Loprieno, A., Ancient egyptian, a linguistic introduction, Cambridge University Press, Cambridge 1995. • Loprieno, A., La pensée et l’écriture. Pour une analyse sémiotique de la culture égyptienne, Cybele, Paris 2001. • 310 Lurson, B., Rouèche, A., Le livre de la vache du ciel, Geuthner, Paris 2004. • Malaise M., Winand J., Grammaire raisonnée de l’égyptien classique, C.I.P.L., Liège 1999. • Manuli, P., Vegetti, M., Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, Episteme Editrice, Milano 1977. • Mariette, A., Les papyrus égyptiens du Musée de Boulaq, vol. II, A. Franck, Paris 1872. • Maspero, G., Notes, in Recueil de travaux relatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et assyriennes, 23 (1901), pp. 196 sg. • Maspero, G., Sur la toute-puissance de la parole, in Recueil de travaux relatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et assyriennes, 24 (1902), pp. 168 sgg. • Maspero, G. (a cura di), Hymne au Nil, Imprimerie de l'Institut Français d'Archéologie Orientale, Le Caire 1912. • Mathieu, B. (a cura di), Ostracon Senmut 149, in Égypte, 10 (1998), p. 4. • Mathieu, B., Quand Osiris régnait sur terre …, in Égypte, 10 (1998), pp. 5 sgg. • Maystre, C., Piankoff, A., Le livre des portes, Imprimerie de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, Le Caire 1939-1962. • Maystre, C., Le livre de la vache du ciel dans les tombeaux de la Vallée des Rois, in BIFAO, 40 (1941), pp. 53 sgg. • Menu, B., Maat. L’ordre juste du monde, Éditions Michalon, Paris 2005. • Midant-Reynes B., et al., El-Adaïma, un site prédynastique de Haute-Égypte, in Égypte, 8 (1998), pp. 6 sgg. • Midant-Reynes, B., Aux origines de l’Égypte. Du Néolithique a l'émergence de l'Etat, Fayard, Paris 2003. • Möller, G., Die Zeichen für die Bruchteile des Hohlmasses und das Uzatauge, in Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 48 (1911), pp. 99 sgg. • 311 Morenz, S., Aegyptische Religion, W. Kohlhammer Verlag, Stuttgart 1960. • Moret, A., La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, in BIFAO, 30 (1931), pp. 725 sgg. • Morra, L., Bazzanella, C. (a cura di), Philosophers and Hieroglyphs, Rosenberg & Sellier, Torino 2003. • Müller, F. M., Lectures on the origin and growth of religion, Longmans, Green, and Co. Williams and Norgate, London 1878. • Müri, W., Melancholie und schwarze Galle, in H. Flashar (a cura di), Antike Medizin, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971. • Neugebauer, O., Parker, R., Egyptian astronomical texts, 3 voll., Brown University Press, Providence, Lund Humphries, London 1960-1969. • Neugebauer, O., The exact sciences in antiquity (1951); trad. it. di A. Carugo, Le scienze esatte nell’Antichità, Feltrinelli, Milano 1974. • Obenga, T., La philosophie africaine de la période pharaonique, L’Harmattan, Paris 1990. • Omero, Iliade, trad. it. di G. Tonna, Garzanti, Milano 1981. • Omero, Odissea, trad. it. di F. Ferrari, Utet, Torino 2005. • Ong, W. J., Orality and literacy. The technologizing of the word (1982), trad. it. di A. Calanchi, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986. • Otto, E., Das Ägyptische Mundöffnungsritual, Harrassowitz, Wiesbaden 1960. • Panofsky, E., Meaning in the visual arts (1955), trad. it. di R. Federici, Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962. • Parkinson, R. B. (a cura di), The tale of the eloquent peasant, Griffith Institute, Ashmolean Museum, Oxford 1991. • Parmenide, I frammenti, trad. it. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano 1990. • Peet, T. E., The Rhind Mathematical Papyrus British Museum 10057 and 10058, Hodder & Stoughton, London 1923. 312 • Pépin, J.-Fr., Quelques aspects de Nouou dans les Textes des Pyramides et les Textes des Sarcophages, in Akten des vierten internationalen Ägyptologen Kongresses, München 1985, Helmut Buske Verlag, Hamburg 1989. • Pereira, M., Arcana sapienza. L’alchimia dalle origini a Jung, Carocci, Roma 2001. • Piacentini, P., Continuità e trasformazione nell’Egitto faraonico, in Ocnus, 2 (1994), pp. 139 sgg. • Piacentini, P., Orsenigo, Ch., Gli Egizi. La civiltà della memoria, Silvana Editoriale, Milano 2001. • Piacentini, P., Per l’eternità dell’eternità: geroglifici e sacralizzazione, in A. Sartori (a cura di), Parole per sempre? L’interpretazione delle epigrafie, le interpretazioni dell’epigrafia. Atti del 1° incontro di Dipartimento sull’epigrafia (28 ottobre 2002), Milano 2003. • Piankoff, A., Le cœur dans le textes égyptiens depuis l’ancien jusqu’à la fin du nouvel Empire, Geuthner, Paris 1930. • Piankoff, A., Le livre du jour et de la nuit, Imprimerie de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, Le Caire 1942. • Piankoff, A., Le livre des quererts, Imprimerie de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, Le Caire 1946. • Piankoff, A., La création du disque solaire, Imprimerie de l'Institut d'Archéologie Orientale, Le Caire 1953. • Platone, Dialoghi filosofici, trad. it. di G. Cambiano, 2 voll., Utet, Torino 19701981. • Platone, Dialoghi politici, lettere, trad. it. di F. Adorno, 2 voll., Utet, Torino 1970. • Platone, Timeo, trad. it. di F. Fronterotta, Bur, Milano 2006. • Platone, Dialoghi spuri, trad. it. di F. Aronadio, Utet, Torino 2008. • Plotino, Enneadi, trad. it. di G. Faggin, Bompiani, Milano 2000. • Plutarco, Iside e Osiride e Dialoghi Delfici, trad. it. di V. Cilento, Bompiani, Milano 2008. 313 • Pohlenz, M., Der hellenische Mensch (1947); trad. it. di B. Proto, L’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1967. • Ranke, H., Die ägyptischen Personennamen, 3 voll., Augustin, Glückstadt 1935-1977. • Reale, G. (a cura di), I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2006. • Renehan, R., The meaning of SWMA in Homer: a study in methodology, in California Studies in Classical Antiquity, 12 (1979), pp. 269 sgg. • Robins, G., Proportion and style in ancient Egyptian art, University of Texas Press, Austin 1994. • Roccati, A., Papiro ieratico N. 54003. Estratti magici e rituali del Primo Medio Regno, Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Torino 1970. • Roccati, A., Introduzione allo studio dell’egiziano, Salerno Editrice, Roma 2008. • Sassi, M. M., La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, Torino 1988. • Sauneron, S., Le rituel de l’embaumement, Imprimerie Nationale, Le Caire 1952. • Sauneron, S., Yoyotte, J., La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, in La naissance du monde, Édition du Seuil, Paris 1959. • Sauneron, S., Le germe dans les os, in BIFAO, 60 (1960), pp. 19 sgg. • Sauneron, S., Le fêtes religieuses d’Esna aux derniers siècles du paganisme, IFAO, Le Caire 1962. • Sauneron, S., Le monde du magicien égyptien, in Le monde du sorcier, Éditions du Seuil, Paris 1966. Sauneron, S., Le temple d’Esna, vol. III, IFAO, Le Caire 1968. • Sauneron, S., Les prêtres de l’ancienne Égypte, Éditions du Seuil, Paris 1998. • Schäfer, H., Von ägyptischer Kunst, Hinrichs, Leipzig 1930. 314 • • Schneider, T., Die Waffe der Analogie. Altägyptische Magie als System, in K. Gloy, M. Bachmann (a cura di), Das Analogiedenken. Vorstösse in ein neues Gebiet der Rationalitätstheorie, Karl Alber, Freiburg, München 2000. • Schuler, F. (a cura di), Le Livre de l’Amdouat, José Corti, Paris 2005. • Schumann Antelme, R., Rossini, S., Nout, le cosmos des pharaons, Éditions du Rocher, Monaco 2007. • Servajean, F., Le lotus émergeant et le quatre fils d’Horus. Analyse d’une métaphore physiologique, in Encyclopédie religieuse de l’univers végétal de l’Égypte ancienne, vol. II, Université Paul Valery, Montpellier 2001. • Servajean, F., Djet et Neheh. Une histoire du temps égyptien, Université Paul Valéry, Montpellier 2007. • Servajean, F., Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, IFAO, Le Caire 2008. • Sethe, K. (a cura di), Urkunden der 18. Dynastie, vol. I, J. C. Hinrichs’sche Buchhandlung, Leipzig 1906. • Sethe, K., Von Zahlen und Zahlworten bei den alten Ägyptern und was für andere Völker und Sprachen daraus zu lernen ist, Trubner, Strassburg 1916. • Sethe, K. (a cura di), Die altaegyptischen Pyramidentexte, 4 voll., Olms, Hildesheim 1960. • Snell, B., Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen (1946), trad. it. di V. Degli Alberti, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1951. • Steuer, R. O., Saunders, J. B. de C. M., Ancient Egyptian and Cnidian Medicine, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1959. • Struve, W. W., Mathematischer Papyrus des Staatlichen Museums der Schönen Künste in Moskau, Springer, Berlin 1930. • Tagliagambe, S., L’epistemologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1991. • Tefnin, R., Éléments pour une sémiologie de l’image égyptienne, in Cronique d’Égypte, 66 (1991), pp. 60 sgg. 315 • Tefnin, R., Comment lire la peinture des tombes thébaines de la XVIII dynastie?, in L’arte nel Vicino Oriente antico. Bellezza, rappresentazione, espressione. Atti del convegno internazionale, Milano, 12 marzo 2005, Edizioni Ares, Milano 2006. • Timpanaro Cardini, M., Originalità di Alcmeone, in Atene e Roma (1938), pp. 233 sgg. • Tosi, M., Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto, 2 voll., Ananke, Torino 2004-2006. • Van de Walle, B., Une base de statue-guerisseuse avec une nouvelle mention de la desse-scorpion Ta-Bithet, in Near Eastern Studies, 31 (1972), pp. 67 sgg. • Vandier, J. (a cura di), Le Papyrus Jumilhac, Centre national de la recherche scientifique, Paris 1961. • Vegetti, M. (a cura di), Opere di Ippocrate, Utet, Torino 1965 • Vernant, J.-P., La catégorie psychologique du double, in Id., Mythe et pensée chez les Grecs, François Maspero, Paris 1974. • Vernus, P., Name, in Lexikon der Ägyptologie, vol. IV, Harrassowitz, Wiesbaden 1982, coll. 320 sgg. • Vernus, P., Namengebung, in Lexikon der Ägyptologie, vol. IV, Harrassowitz, Wiesbaden 1982, coll. 326 sg. • Vernus, P., Une théorie étiologique de la médecine égyptienne: les souffles vecteurs de maladie, in Revue d’Égyptologie, 34 (1982-1983), pp. 121 sgg. • Vernus, P., “Ritual” sDm.n.f and some values of the “accompli” in the Bible and in the Koran, in S. Israelit-Groll (a cura di), Pharaonic Egypt. The Bible and Christianity, The Magnes Press, The Hebrew University, Jérusalem 1985. • Vernus, P., Des relations entre textes et représentations dans l’Égypte Pharaonique, in D. Dentel (a cura di), Écritures II, Centre de semiotique textuelle, Université de Paris X, Nanterre 1987. • Vernus, P., Les lieux de l’écrit dans l’Égypte ancienne, in Littératures, le grand atlas des littératures, Encyclopaedia Universalis France, Paris 1990. 316 • Vernus, P., Les “decrets” royaux (wD-nsw): l’énoncé d’auctoritas comme genre, in S. Schoske (a cura di), Akten des vierten internationalen Ägyptologen Kongresses, München 1985, vol. IV, Helmut Buske Verlag, Hamburg 1991. • Vernus, P., Le Mythe d’un mythe: la prétendue noyade d’Osiris. – De la dérive d’un corps à la dérive du sens, in Studi di egittologia e di antichità puniche, 9 (1991), pp. 19 sgg. • Vernus, P., Observations sur la prédication de classe (“Nominal predicate”), in Lingua Aegyptia, 4 (1994), pp. 325 sgg. • Vernus, P., Essai sur la conscience de l’histoire dans l’Égypte pharaonique, Librairie Honoré Champion, Paris 1995. • Vernus, P., Langue litteraire et diglossie, in A. Loprieno (a cura di), Ancient Egyptian literature. History and forms, Brill, Leiden 1996. • Vernus, P., Les parties du discours en moyen égyptien. Autopsie d’une théorie, Société d’Égyptologie, Genève 1997. • Vernus, P., Les premières attestations de l’écriture hiéroglyphique, in Aegyptus, 81 (2001), pp. 13 sgg. • Volten, A., Zwei altägyptische politische Schriften, Einar Munksgaard, Copenhagen 1945. • Ward, W. A., The four egyptian homographic roots B 3, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1978. • Weeks, K. R. (a cura di), La Valle dei Re. Le tombe e i templi funerari di Tebe ovest, White star, Vercelli 2001. • Westendorf, W., Handbuch der altägyptischen Medizin, 2 voll., Brill, Leiden, Boston, Köln 1999. • Wolf, W., L’hymne à Ptah de Berlin, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 64 (1929), pp. 17 sgg. • Wolff, H. W., Anthropologie des Alten Testaments (1973), trad. it. di E. Buli, Antropologia dell’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1975. • Yoyotte, J., Les os et la semence masculine. À propos d’une théorie physiologique égyptienne, in BIFAO, 61 (1962), pp. 139 sgg. 317 • Yoyotte, J., Une notice biographique du roi Osiris, in BIFAO, 77 (1977), pp. 145 sgg. • Zandee, J., De hymnen aan Amon van Papyrus Leiden I 350, Rijksmuseum van Oudheden de Leiden, Leiden 1947. 318