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Individuo e mondo nel pensiero dell'antico Egitto: percorsi antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale

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Thesis
Individuo e mondo nel pensiero dell'antico Egitto: percorsi
antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale "pre-greca"
FRASCHINI, Luigi
Abstract
Les objectifs de la thèse sont essentiellement deux : a) en premier lieu, celui d'effectuer une
relecture historique-philosophique de la conception égyptienne de l'être humain, en essayant
de faire ressortir le rôle joué par la sphère corporelle ; b) en deuxième lieu, celui de
s'interroger sur la structure et les implications du système de pensée qui se trouve à l'origine
de cette conception, en cherchant à trouver des parcours conceptuels qui nous permettent de
mieux en saisir, autant que possible, le «statut épistémologique». La conception égyptienne
de l'être humain n'est pas fondée sur le binôme âme-corps, apparu en Grèce vers le V siècle
a. J. Ch. Dans l'Égypte pharaonique, l'homme est conçu comme un ensemble ou une
constellation de composantes en relation entre eux. La résultante de cet ensemble de
rapports est l'individualité humaine. Le monde présente la même structure. Tant l'homme que
le monde, d'après les Égyptiens, sont un réseau de relations qui se réorganise selon la
situation concrète ou le problème donné. En abordant ces thématiques, la thèse propose des
nouvelles [...]
Reference
FRASCHINI, Luigi. Individuo e mondo nel pensiero dell'antico Egitto: percorsi
antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale "pre-greca". Thèse de
doctorat : Univ. Genève, 2013, no. L. 789
URN : urn:nbn:ch:unige-312864
DOI : 10.13097/archive-ouverte/unige:31286
Available at:
http://archive-ouverte.unige.ch/unige:31286
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UNIVERSITÉ DE GENÈVE
FACULTÉ DES LETTRES
DÉPARTEMENT DE PHILOSOPHIE
Thèse de doctorat
Individuo e mondo nel pensiero dell’antico Egitto
Percorsi antropologici ed epistemologici in una tradizione
culturale «pre-greca»
Candidat: Luigi Fraschini
N° matricule: 08-340-184
Directeur de thèse:
Prof Paolo Crivelli
Co-directeur de thèse:
Prof Patrizia Piacentini
Président du jury:
Prof Pascal Engel
1
En souvenir de Curzio Chiesa
2
INDICE
Introduzione
6
Capitolo I
Il mondo abitato dall’uomo egiziano
12
1. Un itinerario concettuale insolito: dall’ontologia greca
a quella della Valle del Nilo
12
2. In principio era il non essere
17
3. La prima volta: l’essere prende «corpo»
20
4. La struttura dell’esistente
28
5. I tre livelli della realtà secondo la speculazione del Nuovo Regno
37
6. Tra essere e non essere: il tempo
41
7. Maat, ritmo e coesione dell’esistente
46
8. Ontologie a confronto: un quadro sintetico
51
Capitolo II
L’individuo come rete di relazioni
58
1. Il dualismo psicofisico e le sorti del corpo
59
2. Un modello antropologico arcaico
62
3. La costellazione Uomo nell’Egitto faraonico
68
4. La fisiologia corporea
78
5. Breve esplorazione del lessico corporeo egiziano
87
Capitolo III
Osiri prototipo dell’essere umano
3
95
1. Il mito di Osiri come modello antropologico
96
2. Le forze cosmiche e la rinascita di Osiri
112
3. La riconfigurazione dell’individuo: dal cadavere alla mummia all’akh
119
Capitolo IV
L’individuo tra anima e corpo
131
1. La concezione greca dell’anima (yuchv) tra il VI e il V secolo a. C. e i
suoi possibili punti di convergenza con l’antropologia egiziana
131
2. Gli sviluppi della nozione di yuchv nella filosofia platonica e aristotelica
139
3. La fisiologia del sw`ma
149
Capitolo V
La fisiologia degli umori
163
1. Il ruolo degli umori nella concezione greca del corpo
163
2. Una fisiologia umorale egiziana?
170
Capitolo VI
Costellazione Uomo e corporeità
186
1. Una visione d’insieme della «costellazione Uomo» egiziana
186
2. Il corpo «attuale»
192
3. La «performatività» del corpo: il canone artistico
196
4. La «performatività» del corpo: il gesto musicale
208
5. «Mappa» della dimensione umana e osservazioni conclusive
212
Capitolo VII
La visione del mondo: modelli egiziani e modelli greci
216
1. Un sistema di pensiero alternativo a quello greco?
216
2. Un «metodo» per conoscere tutto ciò che esiste
224
3. L’impostazione «logica» della matematica egiziana
229
4. Il riflesso ontologico-teologico del sapere matematico
235
5. Un retaggio egiziano nella matematica greca?
239
6. Dalla matematica alla dialettica platonica: alla ricerca
di un modello per la scienza
7. L’«assiomatizzazione» come cesura e svolta nel pensiero occidentale
4
244
249
Capitolo VIII
L’approccio egiziano al mondo tra oralità e scrittura
1. Il sistema della magia come organon conoscitivo-operativo
256
2. La performatività del linguaggio
261
3. Discorso performativo e pensiero analogico
265
4. L’esordio performativo del papiro di Ebers
275
5. Il contesto appropriato: il Verbo della «prima volta»
279
6. Oralità e scrittura: una scrittura che parla
280
7. La logica del corpo articolare tra oralità e scrittura geroglifica
288
8. Il circuito della conoscenza e il «metodo osiriano»
292
Bibliografia
5
255
297
INTRODUZIONE
Le tematiche affrontate nella presente ricerca sono abbastanza inusuali a chi si
occupa di filosofia. Generalmente, infatti, tutte le questioni filosofiche sono collocate
in un arco temporale che ha il suo punto di partenza nel mondo greco. Può apparire,
pertanto, quantomeno singolare e forse un po’ provocatorio porre la domanda circa
l’esistenza e le caratteristiche di una «speculazione filosofica» nelle culture
precedenti a quella greca, culture che, apparentemente, manifestano al più una
componente mitica e religiosa.
Nell’ambito della cultura greca è sorto, infatti, l’approccio alla realtà e all’uomo che
ha determinato la nascita e lo sviluppo della civiltà occidentale. Generalmente, il
modo di pensare che ha prodotto le grandi speculazioni filosofiche e scientifiche
dell’Occidente viene considerato come l’unico possibile, l’unico, cioè, in grado di
generare la «vera» conoscenza.
Non molto distante dalla Grecia, nella Valle del Nilo, è sorta una cultura differente, di
durata plurimillenaria, i cui splendori hanno da sempre affascinato l’uomo
occidentale. Della vastissima documentazione che gli antichi Egiziani ci hanno
tramandato, tuttavia, non un solo testo può essere definito «filosofico» in senso
stretto, secondo i parametri della nostra impostazione culturale di matrice greca. In
proposito, Sergio Donadoni osserva: «Non ci sarebbe […] nessuna difficoltà, in
astratto, a immaginare che domani una scoperta di papiri potesse portarci sotto gli
occhi un testo propriamente filosofico o speculativo in aggiunta ai testi di altro
carattere che l’Egitto ci ha dato. Eppure, anche in questa fiducia nelle sorprese che è
uno dei tratti più appariscenti della nostra psicologia di egittologi, una sorpresa così
io non me la saprei aspettare. Non si tratterebbe di un testo in più; ma tutto un modo
di essere diverso da quel che è la nostra esperienza della civiltà egiziana si
manifesterebbe in questo modo».1
Ciò non significa, chiaramente, che per l’Egiziano non fosse rilevante porsi la
domanda circa l’origine e la natura del cosmo e dell’uomo che lo abita. Una
moltitudine di testimonianze afferma il contrario. Il pensiero egiziano appare,
tuttavia, sfuggente a chi si accosta ad esso e solo parzialmente e approssimativamente
1
S. Donadoni, I modi egiziani del conoscere, in Id., Cultura dell’antico Egitto, Università degli studi di Roma "La
Sapienza", Roma 1986, p. 138.
6
si presta a una sistematizzazione. Si è, quindi, spesso giudicato questo modo di
pensare «illogico» o, utilizzando un eufemismo, «prelogico».
In un saggio apparso nell’immediato dopoguerra, Karl Jaspers, nel tentativo di
individuare le origini del nostro universo intellettuale, introduce il concetto di «età
assiale» (Achsenzeit). Questa nozione indica uno spartiacque storico, il periodo più
antico dove è ancora possibile trovare traccia dei valori e dei criteri di giudizio che
caratterizzano il nostro modo di essere e di pensare: «Lì si trova la più netta linea di
demarcazione della storia. Allora sorse l’uomo come oggi lo conosciamo».2 Jaspers
colloca quest’epoca intorno al 500 a.C. (più o meno trecento anni).
Considerato in relazione a questa soglia temporale, il pensiero egiziano nel suo
complesso non appare più come un universo concettuale ancora allo stato
embrionale, cioè in una fase meno avanzata rispetto al nostro, bensì come il frutto di
un approccio completamente diverso, che potremmo definire «preassiale».3 Partendo
da questa premessa, ci siamo rivolti al mondo egiziano con l’intento di esplorare un
sistema di pensiero alternativo a quello originatosi in Grecia; un pensiero, dunque,
differente rispetto a quello che ha fondato la speculazione occidentale, ma che, a
nostro avviso, può rivelarsi foriero di apporti significativi anche all’attuale sviluppo
della coscienza e della conoscenza umane.
Le pagine che seguono si propongono sostanzialmente due obiettivi. Il primo è quello
di effettuare una rilettura storico-filosofica della concezione egiziana dell’essere
umano, facendo emergere, in particolare, il ruolo svolto dalla sfera corporea secondo
il «pensatore» egiziano. Il secondo è quello di introdurre il problema dell’approccio
alla realtà tipico della cultura egiziana e di tentare di individuare dei percorsi
concettuali che consentano di inquadrarne meglio, per quanto possibile, lo «statuto
epistemologico».
Nella trattazione delle tematiche di cui ci occupiamo, alcuni dei concetti principali
formulati dalla filosofia greca costituiscono un punto di riferimento essenziale.
Questa scelta è maturata dall’esigenza di sviluppare una riflessione critica sui
presupposti del nostro approccio contemporaneo a una cultura profondamente
diversa dalla nostra. Quando indaghiamo un determinato fenomeno, infatti,
applichiamo inevitabilmente una serie di categorie, la cui origine e le cui implicazioni
2
K. Jaspers, Origine e senso della storia, trad. it. di A. Guadagnin, Edizioni di comunità, Milano 1972, p. 20. L’età
assiale di cui parla Jaspers non è riferita unicamente al mondo occidentale, ma riguarda la storia mondiale.
7
non sempre ci sono sufficientemente chiare. Uno studio serio richiede, quindi, che
questi schemi concettuali siano posti in luce. Diversamente, nel caso di un’indagine
storica, il rischio è quello di appiattire e deformare un orizzonte culturale differente,
attraverso modelli che gli sono sostanzialmente estranei.
Sulla base di questa consapevolezza e nel tentativo di essere foriera di intuizioni e
provocazioni produttive, la nostra ricerca procede servendosi, in diverse occasioni, di
un «metodo contrastivo», da un lato per evidenziare meglio la peculiarità del
pensiero egiziano, facendolo interagire con le categorie concettuali che hanno
forgiato il nostro modo di pensare, dall’altro per fare emergere eventuali punti di
contatto o cesure nette con la speculazione greca.
Relativamente ai temi trattati, le nostre fonti egiziane privilegiate sono costituite
dalle principali composizioni della letteratura definita «religiosa», di epoca faraonica
(Testi delle Piramidi, Testi dei Sarcofagi, Libro dei Morti e i cosiddetti Testi
dell’Oltretomba), e da parte della letteratura medica e matematica.4 L’arco temporale
nel quale si collocano queste fonti è molto ampio. In questo lunghissimo periodo, il
mondo egiziano va incontro a trasformazioni anche di vasta portata. Si pensi, per
esempio, ai mutamenti sociali e culturali conseguenti alla caduta dell’Antico Regno e
alla crisi del Primo Periodo Intermedio, tra i quali spicca la cosiddetta
«democratizzazione» dell’aldilà, in virtù della quale ogni essere umano che viva in
modo conforme alla giustizia può aspirare a una vita ultraterrena. Nei testi egiziani,
tuttavia, è possibile riscontrare una continuità, un filo conduttore. Il modo di
concepire l’uomo e il mondo acquisisce, nel corso della storia dell’Egitto faraonico,
nuovi elementi e sfumature, ne perde altri, ma non cambia nella sostanza.5
In alcuni contesti, ci è parso opportuno richiamare alcune nozioni e alcuni dati che, di
per sé, potrebbero apparire un po’ scontati ora al lettore filosofo, ora al lettore
egittologo. La scelta è funzionale a una maggiore completezza e a una migliore
intelligibilità del discorso, muovendoci all’interno di due territori disciplinari
differenti che, generalmente, non sono in comunicazione tra loro.
Il primo capitolo presenta sinteticamente i concetti fondamentali di quella che
potremmo definire l’«ontologia» dell’antico Egitto, cercando di evidenziare il
3
Cfr. le osservazioni di J. Assmann in Id., Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, Verlag C.
H. Beck, München 2001, pp. 24 sgg.
4
Relativamente ai Testi delle Piramidi, ai Testi dei Sarcofagi e al Libro dei Morti, la trad. dei passi che citiamo
segue quella di C. Carrier. Per quanto riguarda, invece, i testi medici seguiamo la trad. di T. Bardinet (cfr.
Bibliografia). Ogni modifica rilevante viene dichiarata in nota.
8
rapporto tra «essere» e «non essere» e la conseguente visione del mondo. Lo scopo di
questo capitolo è soprattutto quello di tracciare una mappa generale del cosmo
egiziano, che fornisca una serie di punti di riferimento, per una migliore
contestualizzazione e gestione degli argomenti trattati nel prosieguo.
I cinque capitoli successivi sviluppano la tematica antropologica. La concezione
dell’uomo propria della civiltà egiziana non è fondata sul binomio anima-corpo.
L’essere umano è concepito come una realtà più complessa, più sfaccettata, come un
insieme o una costellazione di componenti in relazione tra loro. La risultante di
questo insieme di relazioni è l’individualità umana. Questo modo di pensare l’uomo è
presente nel mondo egiziano fin dall’Antico Regno.
Nel proporre un possibile schema di lettura della concezione antropologica egiziana,
introduciamo alcune categorie concettuali, in parte coniate da noi e in parte desunte
da altri studiosi, che ci sembrano dotate della forza euristica adeguata a porre nel
giusto risalto la peculiarità e l’originalità della concezione egiziana rispetto al modo di
concepire l’uomo che ha avuto origine, successivamente, in Grecia.
Chiamiamo
«individuo
articolare»
l’essere
umano
nel
suo
complesso.
Un’articolazione svolge un duplice ruolo: legare due parti e permetterne il
movimento. Il sistema «uomo» mostra, infatti, due caratteristiche essenziali: la
connettività e la motricità. Tra gli elementi costitutivi dell’uomo egiziano, possiamo
distinguere:
a) una serie di componenti sottili, non immediatamente tangibili;
b) il corpo, che, come cercheremo di mettere in evidenza, non costituisce soltanto
una realtà terrena.
Il corpo umano manifesta due aspetti: da un lato riproduce il modello articolare,
caratteristico dell’individuo nel suo complesso, dall’altro svolge la funzione di
involucro. Parliamo, quindi, di «corpo articolare» e di «corpo inviluppo»;
riprendiamo questi due concetti dal saggio di Guillemette Bolens, La logique du
corps articulaire, dedicato allo studio della concezione del corpo nei testi omerici e
nei principali poemi della letteratura europea medievale.6 Si tratta di due categorie
5
6
Cfr. P. Piacentini, Continuità e trasformazione nell’Egitto faraonico, in Ocnus, 2 (1994), pp. 139 sgg.
Abbiamo scelto il termine «inviluppo», per rendere in italiano il concetto di corps-enveloppe. I due vocaboli,
nonostante la somiglianza, non sono propriamente sinonimi. Ci è sembrato, tuttavia, che «inviluppo» denotasse
efficacemente e in modo originale la nozione in questione, in quanto esprime l’idea di un involucro che avvolge e
contiene.
9
che, a nostro avviso, si possono utilizzare produttivamente anche nell’ambito della
cultura egiziana.
Durante la vita terrena prevale il primo aspetto, quello articolare. Con l’avvento della
morte, la rete di rapporti costitutiva dell’essere umano viene meno. Dell’individuo
non resta che una sommatoria di pezzi dis-articolati. In questo contesto, anche il
corpo appare come una semplice giustapposizione di membra disiecta. Esso rimane
principalmente un involucro, un «corpo inviluppo» da sottoporre alle pratiche di
mummificazione. In questo caso, a una «logica articolare» se ne sostituisce un’altra
fondata sul rapporto interno/esterno.
La mummificazione e i riti di passaggio ad essa connessi sono funzionali al ripristino
della rete di relazioni che la morte ha temporaneamente interrotto. Le componenti
dell’individualità, una volta riorganizzate in un nuovo sistema di rapporti,
garantiscono al defunto un’esistenza post mortem. Una volta portate a compimento
tutte le pratiche chirurgiche e liturgiche relative alla mummificazione e alla sepoltura,
il defunto è dotato anche di un nuovo corpo, funzionale alla sua nuova vita nella
dimensione ultraterrena. Si tratta chiaramente di un corpo di fattura diversa rispetto
a quello terreno.
L’immagine del corpo che emerge dalle fonti egiziane è, a nostro avviso, quella di un
veicolo e di un supporto dell’individualità, la cui natura non è legata esclusivamente
alla dimensione terrena. Che l’uomo si trovi sulla terra o nell’aldilà, egli necessita
comunque di un corpo per potersi manifestare e per poter agire. Naturalmente,
questo corpo dovrà essere «consustanziale» alla dimensione in cui l’individuo si
trova. La natura corporea manifesta, dunque, un aspetto che potremmo definire
«trascendentale», intendendo con ciò che si tratta di una condizione di possibilità
dell’esistenza. Indichiamo la sfera corporea concepita in questo modo con
l’espressione «corpo attuale», in quanto esso è ciò che supporta e rende operativa
(pone, cioè, in atto) un’individualità.
Gli ultimi due capitoli si interrogano sul «sistema logico» che sottende il modo
egiziano di concepire l’umano, il divino e l’insieme delle loro manifestazioni. Sia
l’uomo sia il mondo sono pensati e vissuti come una rete di relazioni che si
riconfigura in base alle singole situazioni concrete. Il pensiero, nel suo procedere,
riproduce il medesimo modello. I concetti egiziani non possono essere racchiusi,
pertanto, in definizioni univoche. Essi, pur possedendo una propria identità, sono
«dinamici», «aperti», sono come delle parole che si declinano, assumendo, di volta in
10
volta, il genere, il numero e il caso richiesti. Il percorso che seguiamo, nell’affrontare
queste tematiche, passa attraverso alcuni aspetti caratteristici della matematica e del
linguaggio dell’antico Egitto. Nello specifico, ci soffermiamo sulle nozioni di
«proporzionalità» e «performatività». Nella stretta correlazione tra la lingua egiziana
classica, la scrittura geroglifica e un ordine cosmico che si manifesta come una serie
di rapporti di proporzionalità ritroviamo i principi della logica del corpo articolare.
I percorsi seguiti nello sviluppo complessivo della nostra ricerca non approdano a
schemi «chiusi». Abbiamo cercato, infatti, di evitare di formulare definizioni
univoche dei singoli concetti del pensiero egiziano presi in considerazione (in
particolare di quelli antropologici). Abbiamo provato, invece, a mettere insieme e a
fare interagire tra loro una serie di elementi tratti dalle fonti via via selezionate,
tentando di riprodurre, per certi versi, il procedimento indicato dal mito di Osiri.
Questo mito, presente in modo frammentario nell’antico Egitto fin dalle epoche più
antiche, è un punto di riferimento fondamentale per le concezioni antropologiche
egiziane; il nucleo del racconto narra dello smembramento e della ricomposizione del
corpo del dio. Il nostro lavoro è stato, quindi, quello di reperire e assemblare le parti
necessarie a comporre e articolare una visione d’insieme sufficientemente organica
dell’approccio egiziano all’uomo e al mondo, sempre consapevoli del fatto, tuttavia,
che per gli Egiziani non c’è un unico modo di pensare e rappresentare la realtà.
11
CAPITOLO I
IL MONDO ABITATO DALL’UOMO EGIZIANO
1. Un itinerario concettuale insolito: dall’ontologia greca a quella della
Valle del Nilo
La paternità dell’ontologia occidentale viene unanimemente ascritta a Parmenide di
Elea. Questo filosofo, infatti, ha tematizzato per la prima volta in maniera esplicita la
questione dell’essere, affermando che due sole «vie» sono aperte al pensiero:
«l’una che “è” [e[stin], e che non è possibile che non sia […] l’altra che “non è” [oujk
e[stin], e che è necessario che non sia».7
Il lovgo~ parmenideo, veicolato da immagini mitiche, delinea due orizzonti
incommensurabili e inconciliabili, quello dell’essere e quello del non essere, tra i
quali è imperativo operare una scelta categorica. La scelta dell’Eleate cade a favore
dell’essere. La prima via, dunque, è quella conforme a verità e, delle due, l’unica che
risulta realmente percorribile; il non essere, infatti, non può essere né pensato, né
detto. L’unico oggetto della conoscenza scientifica è l’essere assolutamente immobile
e indifferenziato; il mondo sensibile, invece, teatro del movimento e della molteplicità
è pura apparenza e può essere, pertanto, solo oggetto di opinione.
Il pensiero di Gorgia da Lentini, antitetico a quello di Parmenide, rientra nel
medesimo quadro concettuale univoco, nel quale non si fa alcuna distinzione tra i
diversi significati che possono appartenere a «essere» e a «non essere». Anche in
questo caso è necessario assumere una posizione radicale: Gorgia si pone dalla parte
del non essere.
Per tentare un superamento di questo rigido dualismo Platone dovrà compiere un
atto altrettanto radicale. La definizione di «sofista» come creatore di apparenze, a cui
egli perviene nell’omonimo dialogo, lo costringe, infatti, ad ammettere l’esistenza del
falso, ossia di un discorso che pensa e che dice ciò che non è. Sostenere una simile
tesi, tuttavia, non è affatto impresa semplice: «In che modo si debba parlare per dire
o opinare che il falso è realmente, e senza che questa asserzione comporti una
7
Parmenide, B2, trad. it. di G. Reale, in Id. (a cura di), I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi
originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz,
Bompiani, Milano 2006.
12
contraddizione, è una cosa assolutamente difficile da mostrare».8 E la difficoltà che
Platone espone attraverso le parole dello Straniero di Elea sembra apparentemente
insormontabile:
«Questo discorso ha l’audacia di porre come ipotesi che il non essere sia; in nessun
altro modo, infatti, il falso potrebbe venire ad essere. Ma il grande Parmenide […] a
noi che eravamo ragazzi ha testimoniato questo dal principio alla fine, ripetendo così
ogni volta in prosa e in versi: “Non costringere mai ad essere, egli dice, ciò che non è;
tu anzi da questa via di ricerca trattieni il pensiero”. Questa dunque è la sua
testimonianza».9
L’unica difesa possibile della posizione assunta dallo Straniero richiede il coraggio di
infrangere il divieto parmenideo e di forzare «il non essere ad essere in un certo
senso e l’essere, viceversa, in qualche modo a non essere».10 Platone individua cinque
sommi generi nel mondo delle Idee: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico e il
diverso. Proprio l’ammissione di quest’ultimo genere gli consente di sostenere che, in
qualche modo, anche il non essere è. Lo Straniero osserva, infatti:
«Quando diciamo “il non essere”, a quanto sembra, non diciamo qualcosa di
contrario [ejvnantivon] all’essere, ma soltanto di diverso [e{teron] dall’essere».11
La negazione, dunque, espressa in greco dalle particelle mhv e ouj, non significa
contrarietà, ma indica la «diversità» degli enti di cui si parla. L’essere si presenta
come molteplice e differenziato in quanto partecipa del genere del diverso.
Con il «parricidio» compiuto da Platone la filosofia greca, concedendo uno statuto sia
all’essere che al non essere, pone in relazione quelli che erano apparsi in precedenza
come i termini di una contraddizione irriducibile. Nel solco di questo nuovo
orientamento, la filosofia di Aristotele afferma la multivocità del verbo «essere»:
«Tanti quanti sono i modi in cui si predica altrettanti sono i significati dell’essere».12
A una molteplicità di significati di «essere», individuata in primo luogo nelle
«categorie», corrisponde una polivocità dell’espressione linguistica «non essere»:
«Infatti anche il non essere si dice in molti sensi, poiché in molti sensi si dice
l’essere».13
8
Platone, Sofista, 236 e, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. II, Utet, Torino 1981.
9
Ibid., 237 a-b.
10
Ibid., 241 d.
11
Ibid., 257 b.
12
Aristotele, Metafisica, V, 7, 1017 a, 23-24, trad. it. di C. A. Viano, Utet, Torino 2005. D’ora in poi faremo
riferimento a questa ed.
13
Tra la posizione aristotelica e quella sostenuta nel Sofista c’è, tuttavia, una differenza
rilevante, che viene messa in luce dallo stesso Aristotele: per Platone l’essere è ancora
un termine unitario, capace di diventare molteplice solo mescolandosi al non essere;
per Aristotele, invece, l’essere è originariamente molteplice e il non essere è
subordinato ad esso, è interno alla sua molteplicità. Secondo lo Stagirita, la filosofia
platonica rimarrebbe in qualche modo nel quadro dell’eleatismo. Platone,
ammettendo un non essere «relativo», rende possibile, in effetti, proprio quel
discorso che nega il non essere assoluto.14
Abbiamo creduto opportuno richiamare sinteticamente questi punti chiave
dell’ontologia greca per inquadrare meglio l’oggetto del presente capitolo e per poter
disporre di un indispensabile termine di confronto. Per collocarci nell’orizzonte che ci
proponiamo di esplorare, dobbiamo compiere un salto sia temporale sia concettuale
piuttosto consistente. Il «parricidio» platonico ripropone in termini differenti e in
modo più sistematico una tematica con la quale si erano già misurati, molti secoli
prima della nascita del pensiero greco, gli antichi Egiziani.15 Nell’antico Egitto, infatti,
possiamo trovare traccia di una «ontologia» almeno a partire dalla seconda metà del
terzo millennio a. C., epoca in cui furono redatti i Testi delle Piramidi.16 Fin dai
primordi della «speculazione» egiziana, essere e non essere sussistono l’uno accanto
all’altro e costituiscono i due poli di un rapporto mai interrotto sul quale si fonda
l’esistente. Siamo distanti, quindi, dalle origini greche dell’ontologia non solo
temporalmente.
Su un sarcofago della XXI dinastia, il tema dell’essere e del non essere è
rappresentato in modo insolito ma alquanto efficace in una pittura che raffigura una
lepre, il segno grafico egiziano per un (wn), «essere», posta sul trespolo sul quale
generalmente poggiano le immagini divine e completamente circondata dal serpente
Uroboro (fig. 1). A proposito di questa immagine, scrive Erik Hornung: «Possiamo
soltanto supporre che cosa esprima realmente questa figura: l’essere divino è
circondato da ciò che non esiste, che rappresenta l’orizzonte del mondo, nel quale
continuamente ringiovanisce e nel quale si annullerà alla fine dei tempi. Allo stesso
13
Ibid., XIV, 2, 1089 a, 15-16.
14
Cfr., in particolare, ibid., XIV, 2, 1088 b, 35 – 1089 a, 6.
15
C. Sini definisce il «parricidio» compiuto da Platone «l’atto fondatore dell’intera nostra cultura scientifica».
Cfr. Id., Prefazione a Parmenide, I frammenti, Marcos y Marcos, Milano 1990, p. 3.
16
Questi testi costituiscono la più antica raccolta di formule religiose egiziane. Essi sono stati fatti iscrivere dai
sovrani dell’Antico Regno all’interno delle loro piramidi, a partire da Unis, ultimo re della V dinastia. L’ultimo
sovrano nella cui piramide sono state redatte queste formule è Ibi, appartenente all’VIII dinastia.
14
modo il corpo del serpente rappresenta il luogo in cui si compie la rigenerazione
notturna di ciò che esiste; già l’Amduat riporta questa concezione nell’”anello che
circonda il mondo”, espressione da cui deriverebbe proprio questa immagine più
tarda».17
Fig. 1 (dal sarcofago Cairo CG 6271; disegno di A. Niwinski)18
Per il «filosofo» egiziano tutto l’esistente, comprendente la sfera del divino e quella
dell’umano, è in rapporto costante con il non essere, concepito come non esistente;
quest’ultimo manifesta un duplice aspetto di minaccia e di eterna rigenerazione.
Nella sinteticità e nell’immediatezza di questa immagine possiamo già intravedere i
capisaldi
del
pensiero
ontologico
egiziano:
dualismo,
complementarietà
e
movimento.
Prima di affrontare, nelle loro linee essenziali, i temi complessi dell’ontologia e della
visione del mondo formulate dalla civiltà egiziana, vorremmo, tuttavia, richiamare
brevemente l’attenzione su un aspetto linguistico che ha inevitabilmente delle forti
ripercussioni sulla genesi e sullo sviluppo di un discorso ontologico: l’utilizzo del
verbo «essere».
Nella lingua greca questo verbo può assumere un significato esistenziale, ma può
anche essere usato come copula seguita da un predicato nominale.19 Parmenide e
Gorgia probabilmente sovrappongono queste due funzioni del verbo «essere».
17
E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, trad. it. di A. Amenta, L’Erma di Bretschneider, Roma 2002, p. 44.
Il Libro dell’Amduat menzionato dall’egittologo è il più antico dei testi dell’oltretomba del Nuovo Regno, redatti
nelle tombe della Valle dei Re. I primi esemplari completi di questo libro si trovano nelle tombe di Thutmosi III e
del suo visir User-Amon.
18
L’immagine è tratta da E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 44.
19
Sull’utilizzo del verbo «essere» nella filosofia greca, cfr. L. Brown, The verb “to be” in Greek philosophy: some
remarks, in S. Everson (a cura di), Language, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 212 sgg.
15
Aristotele, invece, osserva che, nel suo uso copulativo, il verbo «essere» è in grado di
fungere da «vicario universale» di tutti i verbi, in quanto, non avendo alcun
significato proprio, veicola quello del predicato con cui viene unito. Da questa
proprietà deriva la multivocità di quello che Aristotele indica come l’essere per sé:
«Poiché delle cose che si predicano alcune indicano l’essenza, altre la qualità, altre la
quantità, altre la relazione, altre l’azione fatta o subita, altre il luogo, altre il tempo,
l’essere ha significati corrispondenti a ciascuna di queste predicazioni: infatti non c’è
nessuna differenza tra dire che l’uomo è in via di guarigione e dire che l’uomo
guarisce, o che l’uomo è camminante o tagliante o che l’uomo cammina o taglia, e così
dicasi anche per gli altri casi».20
La lingua egiziana, al contrario, non presenta questa caratteristica tipica delle lingue
indoeuropee, poiché la sua morfologia e la sua sintassi rispecchiano quelle delle
lingue semitiche. In generale, in egiziano sono possibili due tipi di proposizioni: le
proposizioni a predicato avverbiale e quelle a predicato nominale. Le prime
esprimono una relazione di situazione tra un soggetto e un predicato (per es.: «il
sacerdote è nel tempio»), le seconde enunciano una relazione di identità o
classificano un soggetto, collocandolo nell’insieme denotato dal predicato (per es.: «il
sacerdote è un uomo»). In entrambi i casi, soggetto e predicato sono giustapposti
senza l’utilizzo di una copula. Le proposizioni a predicato verbale rientrano in quelle
del primo gruppo: si tratta cioè di proposizioni il cui predicato avverbiale contiene
una parola che ha il significato di un verbo.21
Vogliamo, inoltre, precisare che le proposizioni a predicato nominale della lingua
egiziana corrispondono a quelle proposizioni che in greco utilizzano il verbo «essere»
per asserzioni atemporali. In egiziano, infatti, le proposizioni a predicato nominale,
esprimendo una relazione (tra un soggetto e un predicato) atemporale e permanente,
non vincolata alle contingenze spaziali e temporali, si prestano a formulare una
definizione o ad affermare un principio.22 Quando, invece, viene utilizzato un verbo
per esprimere la nozione di «essere», esso assume sempre un senso esistenziale. Due
verbi in particolare assolvono a questa funzione nella lingua egiziana:
20
Aristotele, Metafisica, V, 7, 1017 a, 24-30.
21
Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, ed. it. a cura di Ch. Orsenigo, Ananke, Torino 2007,
pp. 43 sgg. Cfr. anche infra, pp. 271 sgg.
22
Cfr. ibid., pp. 295 sg.
16
(wnn) e
(xpr).23
Il primo significa «essere», «esistere», e lo troviamo anche come ausiliare nella
costruzione dei tempi verbali, nelle proposizioni a predicato avverbiale. Il secondo
esprime il medesimo concetto, ma in senso dinamico; xpr indica, infatti, l’azione del
«venire all’esistenza». Il segno geroglifico con il quale si scrive questo verbo è quello
dello scarabeo, che è simbolo di nascita o di «rinascita». Wnn denota, dunque,
l’esistente e xpr la sua trasformazione e il suo rinnovamento.
2. In principio era il non essere
Il mondo per gli Egiziani non è esistito da sempre. All’origine regna il non essere,
inteso come «non esistente». Tutte le narrazioni cosmogoniche concordano nella
descrizione di questo stato che precede la creazione. Questa condizione primordiale è
descritta nei Testi delle Piramidi con queste parole:
«quando il cielo ancora non esisteva [n xprt pt], quando la terra ancora non esisteva [n
xprt tA], quando gli uomini ancora non esistevano [n xprt rmT], quando non erano nati
gli dei [n mst ntrw], quando ancora non esisteva neppure la morte [n xprt mt]».24
Come emerge da questo brano e da altri enunciati sparsi nella letteratura egiziana, la
sfera originaria del «non esistente» si presenta assolutamente uniforme e
indifferenziata. Essa è assolutamente priva di spazialità, sia metrica sia di altro tipo.
Non essendoci dei punti di riferimento, dei «punti cardinali», non c’è la possibilità di
distinguere delle direzioni o delle regioni. Cielo, terra, aldiquà e aldilà costituiscono,
infatti, delle articolazioni che sono proprie soltanto dell’esistente. Un testo di epoca
abbastanza recente afferma, per esempio, che il dio creatore non ha ancora trovato un
punto d’appoggio sul quale stare in piedi.25 Questo caos primordiale è assolutamente
privo anche di temporalità; la nascita e la morte sono eventi ad esso estranei.26 Non
23
Entrambi i termini sono attestati a partire dall’Antico Regno. Cfr. R. Hannig, Ägyptisches Wörterbuch I. Altes
Reich und Erste Zwischenzeit, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2003, pp. 339 sgg e 937 sgg.
24
Pyr, 1466 c-d. Cfr. anche ibid., 1040 a-d.
25
Si tratta del Libro di abbattere Apopi, un testo scritto sul Papiro Bremner-Rhind, di età tolemaica, ma risalente
con buona probabilità al Nuovo Regno. Cfr. R. O. Faulkner, The Papyrus Bremner-Rhind, Édition de la Fondation
reine Élisabeth, Bruxelles 1933, pp. 60 (26, 23) e 70 (28, 24).
26
Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, trad. it. di D. Scaiola, Salerno Editrice, Roma 1992, pp. 154 sgg. Cfr.
anche S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, in La naissance du monde,
Édition du Seuil, Paris 1959, pp. 22 sgg. Secondo l’interpretazione di J.-Fr. Pépin, invece, il Nun non
rappresenterebbe semplicemente una condizione di passività e indifferenziazione, ma sarebbe un «luogo» con
degli abitanti, «coloro che sono nel Nu» (jmyw nww), e con una sua topografia sacra, fatta di porte, strade e
17
essendo ancora nati dei e uomini, inoltre, non si è ancora manifestato un principio di
coscienza. Nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno leggiamo che «non era ancora
venuta all’esistenza una seconda cosa [n xprt 2 jSt snt]».27 Non troviamo, dunque,
ancora traccia di quelli che abbiamo presentato come i capisaldi dell’ontologia
egiziana: dualismo, complementarietà e movimento.
Per descrivere la non esistenza antecedente alla creazione, i Testi delle Piramidi, così
come anche altre fonti successive, utilizzano una particolare forma negativa del
verbo: n xprt=f, che viene tradotta «quando ancora non esisteva». Con questa
costruzione viene negata l’eventualità che ci sia stata un’azione che abbia lasciato un
segno;28 l’azione in questione è l’esistere. Il verbo impiegato in questo caso non è wnn,
bensì xpr, che oltre al significato «statico» di «esistere», ha anche quelli dinamici di
«divenire», «accadere», «sorgere», «prendere forma»;29 ciò esclude la presenza di
qualsiasi processo di trasformazione, ossia esclude la vita.
Il non creato, tuttavia, non è connotato dagli Egizi soltanto in modo apofatico; esso
viene descritto anche come una distesa d’acqua illimitata,
Nun
Keku semau
(nwn),30 o come tenebra originaria
(kkw smAw).31
Questo abisso se da un lato, come abbiamo visto, si configura come inerzia assoluta,
dall’altro rappresenta anche un presupposto indispensabile per la generazione
dell’esistente. Secondo la cosmogonia elaborata a Eliopoli, da questo «brodo
primordiale» emerge una collina; su di essa il dio demiurgo trova il terreno solido sul
caverne. Esso sarebbe, in sintesi, «non la matrice dell’universo», ma «l’universo che sta nascendo e ordinandosi»
(cfr. Id., Quelques aspects de Nouou dans les Textes des Pyramides et les Textes des Sarcophages, in Akten des
vierten internationalen Ägyptologen Kongresses, München 1985, Helmut Buske Verlag, Hamburg 1989, pp. 339
sgg). A nostro avviso, la lettura di Pépin non è esaustiva, coglie, cioè, soltanto un aspetto del Nun, quello che
assume precisamente quando l’universo sta per nascere.
27
CT, III, 383 a. Cfr. anche ibid., II, 396 b. I Testi dei Sarcofagi raccolgono le formule funerarie scritte sulle
pareti e all’interno di sarcofagi lignei appartenenti a privati vissuti durante il Medio Regno.
28
In proposito, cfr. H. Grapow, Die Welt vor der Schöpfung, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und
Altertumskunde, 67 (1931), p. 35 sgg. Lo studioso elenca una serie di fonti di epoche differenti in cui viene
impiegata la costruzione in questione. Cfr. inoltre E. Edel, Altägyptische Grammatik, Pontificium Institutum
Biblicum, Roma 1955-1964, pp. 367 sg; P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., p. 425 e R.
Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, Verlag Philipp Von Zabern, Mainz 2006, p. 638. Secondo
S. Bickel, che si discosta dalla teoria di Grapow, questa forma verbale non sarebbe riferita al non esistente, ma
metterebbe in risalto un momento del processo della creazione; cfr S. Bickel, La cosmogonie égyptienne avant le
Nouvel Empire, Éditions universitaires, Fribourg (Suisse) 1994, p. 31.
29
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 638, sg.
30
Cfr. ibid., p. 421.
31
Cfr. ibid., p. 961.
18
quale dare inizio alla propria opera. Anche gli altri racconti cosmogonici narrano di
un sostegno emerso dalle acque del Nun, rappresentato diversamente come un fiore
di loto, una grande vacca celeste, un’isola di fiamma, in virtù del quale il principio
primo, di natura solare, avrebbe esercitato la sua azione creatrice, ponendo in essere
con la sua luce la dimensione spaziale e con il suo percorso quella temporale.32 Lo
stesso demiurgo Atum, di cui parla la cosmogonia più antica, quella eliopolitana,
sarebbe emerso dall’indifferenziato per autogenerazione.
Possiamo, quindi, affermare che, in un certo senso, il non essere contiene il germe
dell’essere. La teologia di Ermopoli insiste particolarmente su questo aspetto. Questa
dottrina sostiene, infatti, che il Nun ha avuto un ruolo «attivo» nella creazione, dando
vita con un lento lavorio a otto entità e facendo emergere la prima terra ferma.33 In
alcuni passi della letteratura religiosa, inoltre, il Nun viene personificato e appare
come un dio che partecipa alla creazione. Nei Testi dei Sarcofagi, per esempio,
troviamo la seguente dichiarazione:
«Io sono Nu, che faccio per lui più di quanto egli desideri».34
E un’altra formula recita:
«Chi è, il Grande, Colui che è venuto all’esistenza da se stesso? E’ il Nun».35
Secondo Théophile Obenga, il Nun egiziano richiamerebbe il concetto di «ragione
spermatica» di cui parlano gli stoici: «Per gli Stoici, infatti, la sostanza all’inizio è essa
stessa senza qualità: è la materia primordiale che si trasforma in acqua, in seguito,
per il tramite dell’aria. La “ragione spermatica del mondo” resta nel liquido. Essa
rende la materia adatta a ricevere la sua azione per la generazione degli altri
esseri».36
Il non essere non ha una connotazione soltanto negativa nel pensiero egizio. Esso
manifesta indubbiamente un lato ostile e distruttivo, ma si presenta anche come
veicolo di rinnovamento e di rinascita. La rigenerazione scaturisce dalla momentanea
negazione di ciò che esiste. L’immagine conclusiva del Libro delle Porte mostra il
Nun nelle vesti di un dio che solleva la barca solare, consentendo così all’astro la sua
32
In proposito, cfr. S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., pp. 35 sg.
33
Cfr. ibid., pp. 51 sgg.
34
CT, IV, 114 i, B2L.
35
CT, IV, 188 b, B9Ca; 188/9 c, B9Ca e BH1Br.
36
T. Obenga, La philosophie africaine de la période pharaonique, L’Harmattan, Paris 1990, p. 32.
19
rinascita mattutina.37 Il non esistente interagisce con l’esistente, da un lato
minacciandone l’integrità, dall’altro garantendone la continuità. L’ontologia egiziana
postula, dunque, un dualismo che non risulta mai rigido, in cui i due estremi del
rapporto si rivelano complementari.38
3. La prima volta: l’essere prende «corpo»
Con l’espressione «la prima volta», sep tepy
(sp tpy),39
l’uomo egiziano indica che il mondo in cui abita ha avuto un inizio. Un atto
«creativo» ha strutturato e ordinato l’esistente a partire dal caos primordiale. La
prima volta non costituisce, tuttavia, un avvenimento unico; il mondo, essendo
soggetto alla caducità, necessita, infatti, di una periodica rigenerazione, per potersi
ripresentare perfetto come agli inizi. Per tutta l’epoca faraonica manca un resoconto
unico e sistematico sulla creazione, che si possa paragonare alla Genesi biblica. Tutto
ciò che possediamo consiste in una serie di allusioni e affermazioni isolate,
provenienti da fonti e periodi differenti. Soltanto nell’Egitto tolemaico e romano
troviamo delle rappresentazioni cosmogoniche complete e coerenti.
Questa apparente mancanza di coerenza, che è possibile riscontrare in molte
espressioni della cultura faraonica, nasconde in realtà un aspetto dello «spirito»
egiziano che ci sembra fondamentale: la tendenza a rifuggire dall’univocità e dal
dogma. Serge Sauneron e Jean Yoyotte affermano in proposito: «Non c’era niente di
esclusivo nel pensiero egiziano: si era fermamente convinti che una medesima realtà
poteva essere colta e definita attraverso miti molto differenti, attraverso immagini
varie. Nessuna credenza rendeva le altre necessariamente inaccettabili. E’ per questo
che non ci fu, nella letteratura religiosa dell’Egitto, un unico racconto ufficiale della
“Prima Volta” del mondo».40
37
Il Libro delle Porte fa parte dei testi dell’oltretomba del Nuovo Regno. Compare per la prima volta, in una
versione incompleta, nella tomba di Horemheb, ultimo sovrano della XVIII dinastia.
38
In alcune formule dei Testi delle Piramidi, per indicare l’oceano primordiale, viene utilizzata la grafia nen, con
la sua corrispondente femminile nenet. L’aspetto interessante consiste nel determinativo utilizzato nel termine
nenet: un cielo capovolto. Ciò «implica l’idea di un mondo alla rovescia, controparte esatta di un mondo terrestre
con il cielo visibile della dea Nut, un mondo popolato di abitanti sui quali non è data alcuna indicazione, e non è
facile fare supposizioni» (M. Tosi, Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto, vol. I, Ananke, Torino
2004, p. 90).
39
Sull’origine di questa espressione, cfr. S. Bickel, La cosmogonie égyptienne avant le Nouvel Empire, cit., pp. 56
sgg.
40
S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., p. 19.
20
Un giudizio analogo è espresso da Hornung: «Sulla base di tutti questi enunciati e
rappresentazioni si ricostruisce un quadro della creazione estremamente vario e
differenziato, vale a dire che si ritrovano molti miti della creazione che, dalle
angolazioni più diverse, affrontano il problema, fino ad oggi irrisolto, della nascita del
mondo e dell’esistenza. Per l’uomo egiziano era chiaro che non si poteva ricondurre
questo avvenimento ad una formulazione unica e semplice, ma si dovevano ricercare
continuamente nuove strade per esprimere ciò che di per sé è indicibile e creare
nuovi simboli».41
Prendendo in esame le differenti versioni del racconto della «prima volta», elaborate
dai principali centri della speculazione cosmogonica egiziana, si riscontra che il
passaggio dal non essere all’essere viene descritto facendo ricorso a un linguaggio che
attinge ampiamente alla sfera corporea. L’epifania dell’esistente ha luogo attraverso
l’impiego da parte del dio demiurgo di una facoltà o di un elemento «corporei», nello
specifico: l’organo sessuale, il cuore, la lingua o la bocca, gli occhi e il braccio. Nella
narrazione eliopolitana il dio Atum, principio primo che si autopone, innesca il
processo di generazione di tutti gli enti attraverso un atto sessuale compiuto con se
stesso:
«Atum è colui che è venuto all’esistenza e che si è masturbato in Eliopoli! Egli ha
posto nel suo pugno il suo fallo e ne ha provato voluttà! Così sono nati due gemelli,
Shu e Tefnet».42
In questo dio il pensiero egiziano più antico individua il trait d’union, il punto di
equilibrio tra il non essere e l’essere. Il verbo
tem
(tm), del quale il nome Atum è una particolare forma
participiale, può significare, infatti, «non essere», «cessare di», ma anche «essere
completo», «intero», «perfetto».43 Questa divinità rappresenta il «ponte» che
consente il passaggio dall’indifferenziato all’universo differenziato e molteplice; è
«l’Uno che si fa milioni», secondo una definizione che compare nel Nuovo Regno,
dopo l’età di Amarna.
41
E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 35, sg.
42
Pyr, 1248 a-d.
43
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 1003. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek,
Dictionnaire des hiéroglyphes, Actes Sud, Arles 2010, pp. 713 sgg.
21
Atum genera, dunque, la prima coppia di dei: Shu, il dio dell’aria e Tefnet,
considerata generalmente dagli egittologi la dea dell’umidità44. I Testi dei Sarcofagi
descrivono questo primo atto creativo in questo modo:
«quando egli mise al mondo Shu e Tefnet in Eliopoli, quando era Uno e divenne
Tre».45
Con questa frase, che risulta essere la più antica formulazione di una trinità, si
afferma che la pluralità deriva dall’unità. Ciò è confermato anche dalla scrittura
geroglifica, nella quale il segno grafico per esprimere il plurale è costituito da tre
tratti orizzontali o verticali. Secondo una variante del racconto cosmogonico
eliopolitano, l’atto creativo iniziale avviene in virtù di uno sputo del demiurgo.
Rimanendo nell’ambito dei Testi dei Sarcofagi, il defunto, identificatosi con il dio
Shu, afferma:
«Shu che Atum ha creato [qmAw], nel giorno in cui egli è venuto all’esistenza
[xpr(w)∼n=f], è N. Non è in un ventre [Xt] che sono stato foggiato [qd=j], non è in un
uovo che sono stato messo insieme [Ts=j], non è per concezione che sono stato
concepito! Atum mi ha sputato come saliva dalla sua bocca con mia sorella Tefnet;
ella è uscita dopo di me che ero avvolto dal soffio della gola della fenice, nel giorno in
cui Atum è venuto all’esistenza [xpr(w)∼n tm] nei flutti-hehu, nel nu, nelle tenebrekeku e nell’oscurità-tenemu!».46
La creazione prosegue con la generazione di Nut , dea del cielo, e Geb, dio della terra,
da parte della prima coppia Shu e Tefnet. La seconda coppia di dei a sua volta si
unisce e genera Osiri, Iside, Seth e Nefti. Atum insieme a questi otto dei forma la
«grande Enneade» di Eliopoli; essa rappresenta il cosmo ormai completo,
pienamente strutturato. Il numero nove esprime, infatti, una forma rafforzata del
plurale: il tre ripetuto tre volte. Si tratta di una pluralità assoluta; l’Uno si è fatto
«milioni». Tutti gli dei, dunque, insieme al resto del creato, procedono da Atum; già a
44
Sauneron e Yoyotte mostrano delle riserve nei confonti dell’identificazione di Tefnet con l’umidità atmosferica;
cfr. Idd., La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., p. 30. Anche J. Assmann non è d’accordo con
l’interpretazione corrente e ne propone una diversa; cfr. Id., Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, trad. fr. di
N. Baum, Éditions du Rocher, Monaco 2003, p. 48.
45
CT, II, 39 d-e.
46
CT, II, 3 d – 4 d. Nella traduzione dell’espressione TAw Htt bnw («soffio della gola della fenice») non seguiamo la
versione di C. Carrier. Ci allineiamo, invece, a quelle di P. Barguet (Les textes des sarcophages égyptiens du
Moyen Empire, Les Éditions du Cerf, Paris 1986, p. 467) e di E. Bresciani (Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p.
14).
22
partire dai Testi delle Piramidi troviamo in Egitto l’affermazione, per noi inusuale,
che «dio ha creato gli dei».47
Il pantheon egizio può essere concepito come un macrocorpo del quale ogni singola
divinità rappresenta un membro. Di questo avviso è Jan Assmann che osserva:
«Atum è l’insieme degli dei che egli contiene allo stato virtuale di ciò che non è
ancora e che egli fa scaturire da sé allo stato di essere; è un theos pantheos, un dio
che è nello stesso tempo tutti gli dei. Tutti gli dei sono nati dal corpo del dio
primordiale Atum, così che essi, nel loro insieme, possono essere concepiti come un
corpo».48 Una conferma di questa lettura ci proviene dall’antichissimo tema della
«divinizzazione delle membra», in cui ogni parte del corpo del defunto è identificata
con una divinità. La figura della mummia, inoltre, ripropone la forma arcaica con cui
venivano raffigurati gli dei antropomorfi.49
Il corpo umano possiede, quindi, qualcosa di divino, per il fatto che la stessa
dimensione divina si articola in un corpo cosmico. In un passo dei Testi delle
Piramidi, le membra del sovrano defunto sono equiparate a quelle di Atum e il suo
viso a quello di Anubi:
«Il tuo braccio [a] è come quello di Atum, le tue due spalle [rmnwy] sono come quelle
di Atum, il tuo ventre [Xt] è come quello di Atum, la tua schiena [sA] è come quella di
Atum, le tue due natiche [pH(wy)] sono come quelle di Atum, le tue due gambe [rdwy]
sono come quelle di Atum, e il tuo viso [Hr] è come quello di Anubi».50
Nella Litania del Sole del Nuovo Regno, il re defunto invocando gli dei come parti del
suo corpo, afferma:
«Le mie membra [awt] sono dei, io sono completamente un dio, nessun mio membro
[at] è senza dio. Io entro come un dio, ed esco come un dio, gli dei si sono trasformati
nel mio corpo [xpr∼n ntrw m Haw=j]».51
Abbiamo constatato che la nozione di essere, per il pensiero egizio, richiama quella di
esistenza. Ora riscontriamo che la dimensione differenziata dell’esistente manifesta la
struttura di un corpo. Questa «corporeità», che caratterizza sia la sfera divina che
quella umana, secondo Assmann, si configura come «corporazione»: «Se il corpo
47
Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 132, sg.
48
J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 66.
49
Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 95 sgg.
50
Pyr, 135 a-b.
51
Litania del Sole, 214-215. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung, in Das Buch der Anbetung des Re im
Westen (Sonnenlitanei), Éditions de Belles Lettres, Genève 1975-1976. L’edizione riporta anche il testo geroglifico.
23
appare come un mondo divino o un pantheon, il mondo divino può, all’inverso,
apparire come un corpo, ossia come una corporazione. Il corpo del defunto
rappresenta quindi la corporazione del mondo degli dei egiziani: “Egyptian Gods
Incorporated”. In effetti, l’egiziano possiede un termine che esprime una nozione
simile; La parola Xt designa tanto bene il corpo che una corporazione e si applica a
delle collettività divine. Tutte le comparazioni funzionano nei due sensi».52 Il «corpo»
divino e quello umano sarebbero, dunque, da intendersi come una corporazione di
membra cooperanti.
Anche il racconto della «prima volta» messo a punto nei templi di Menfi pone
l’accento sull’aspetto «corporeo» dell’atto creativo; in un inno a Ptah, il dio demiurgo,
recita:
«Salute a te al cospetto degli dei primordiali che hai creato, dopo essere venuto
all’esistenza come corpo divino [Haw nTr], tu che hai modellato tu stesso il tuo corpo
[Haw] […] Tu hai formato la terra, tu hai riunito le tue carni [jwf], tu hai contato le tue
membra [awt] […] Ciò che la tua bocca [rA] ha generato e che le tue mani [awy] hanno
creato, tu l’hai attinto dal Nun. L’opera delle tue mani è come la tua perfezione».53
Secondo la teologia menfita, gli organi principali, in grado di esercitare una funzione
direttiva su tutte le altre membra, sono il cuore e la lingua. Mediante essi, identificati
mitologicamente con Horo e Thot, il demiurgo Ptah pone in essere l’esistente. Nel
Testo di teologia menfita, leggiamo:
«Colui che si è manifestato come il cuore [HAty], sotto l’aspetto di Atum; colui che si è
manifestato come la lingua [ns], sotto l’aspetto di Atum, è Ptah l’antichissimo, che ha
attribuito [la vita a tutti] gli dei e ai loro Ka, con questo cuore [HAty] in cui Horo ha
preso forma come Ptah, e con questa lingua [ns] in cui Thot ha preso forma come
Ptah. Accade che il cuore e la lingua abbiano potere su tutte le altre membra [awt] […]
mentre l’uno (il cuore) pensa […] l’altro (la lingua) ordina tutto ciò che quello
desidera».54
52
J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 67.
53
Inno a Ptah, trad. it di E. Bresciani, in Testi religiosi dell’antico Egitto, Mondadori, Milano 2001, p. 22. L’inno
è contenuto nel Papiro di Berlino 3048, risalente al Nuovo Regno. Per il testo geroglifico, cfr. W. Wolf, L’hymne à
Ptah de Berlin, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde, 64 (1929), pp. 17 sgg.
54
Testo di teologia menfita, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi, Torino
2007, p. 17. Per il testo geroglifico, cfr. H. Junker, Die Götterlehre von Memphis, Akademie der Wissenschaften,
Berlin 1939. Questo documento ci è stato tramandato da una stele risalente al regno di Shabaka (fine VIII sec. a.
C.). Secondo alcuni studiosi, come Sethe e Junker, il testo sarebbe stato redatto durante l’Antico Regno. Schlögl lo
fa risalire, invece, alla XIX dinastia. Junge lo considera, infine, coevo al regno di Shabaka. Per riferimenti più
precisi, cfr., per es., T. Bardinet, Dents et mâchoires dans les représentations religieuses et la pratique médicale
de l’Égypte ancienne, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990, pp. 136 sg.
24
Questo sistema teologico pone il verbo come principio all’origine della realtà. Si
tratta, tuttavia, di un verbo che non può sussistere indipendentemente dalla sua veste
«corporea». La sede della parola creatrice è il cuore, lo strumento che gli permette di
manifestarsi è la lingua. Ptah pronunciando il nome di tutte le cose le chiama
all’esistenza. Il nome, ren
(rn), per gli Egiziani rappresenta, infatti, tutt’altro che
qualcosa di astratto e immateriale. Nominare un ente non significa semplicemente
indicarlo, ma anche concedergli esistenza. Nell’aldilà egiziano, il nome svolge un
ruolo fondamentale, poiché esso, esprimendo l’essenza di un individuo, permette la
sopravvivenza della sua identità personale. Il Libro dei Morti, per esempio, al
capitolo 25, contiene una formula affinché il defunto possa ricordare il proprio nome
nella Duat.
L’intero cosmo, dunque, è concepito nel cuore di Ptah e partorito dalla sua bocca.
Quest’ultima costituisce anche la prima impalcatura del creato, in quanto gli dei
originari, quelli dell’Enneade, sono identificati con i denti (jbHw) e le labbra (spt) del
dio demiurgo. L’importanza del cuore e della bocca, tuttavia, è riconosciuta anche
nella narrazione di Eliopoli, a proposito dell’opera creatrice del dio Atum. Nell’ultimo
passo riportato dei Testi dei Sarcofagi, Shu afferma di essere stato espettorato dalla
bocca di Atum insieme a sua sorella Tefnet. Nel Libro di abbattere Apopi, invece, lo
stesso Atum dice:
«Io posi le fondamenta (del creato) col mio solo cuore [jb]».55
La generazione dell’esistente attraverso la parola, tuttavia, non è legata soltanto al
racconto cosmogonico tramandatoci dal Testo di teologia menfita. Secondo la
speculazione teologica di Tebe, al principio è la parola di Amon che dà vita a tutto ciò
che esiste.56 Il dio si manifesta sotto l’aspetto di un uccello primordiale che emette un
grido:
«Egli starnazzò, essendo il Grande Starnazzatore, nel luogo dov’era, solo: egli
cominciò a parlare in mezzo al silenzio; aprì tutti gli occhi e fece che vedessero, egli
cominciò a gridare, mentre la terra era inerte. Il suo urlo si diffuse, quando non c’era
altri che lui. Mise al mondo ciò che esiste e fece che vivesse, fece che tutti gli uomini
55
Libro di abbattere Apopi, trad. it. di E. Bresciani, in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 16. Per il testo
geroglifico, cfr. R. O. Faulkner, The Papyrus Bremner-Rhind, cit., p. 60 (26, 24).
56
Secondo una variante della narrazione cosmogonica di Eliopoli, anche Atum avrebbe generato l’esistente
mediante il verbo fuoriuscito dal suo cuore-ib. Cfr. infra, pp. 188 sg.
25
conoscessero una strada per camminare, sicché vivono i loro cuori quando lo
vedono».57
Anche in questo caso, all’elemento corporeo è attribuito un ruolo di primo piano.
Prima della creazione, il cosmo era potenzialmente contenuto nel corpo di Amon:
«L’Enneade era ancora chiusa nelle tue membra [Haw], […] tutti gli dei erano ancora
riuniti nel tuo corpo [Dt]».58
Secondo un altro inno ad Amon, inoltre, gli uomini e gli dei provengono
rispettivamente dagli occhi e dalla bocca del creatore.59
Accanto alle parti corporee finora menzionate, anche il braccio mostra il suo ruolo
cosmogonico. Qui è chiamata in causa la teologia di Esna. In questo contesto è il
vasaio divino Khnum ad assumere le vesti del demiurgo e a plasmare sul tornio tutti
gli enti, agendo con il suo braccio:
«Ha modellato sul tornio gli dei e gli uomini, ha plasmato gli animali piccoli e grandi,
ha creato gli uccelli così come i pesci, ha creato i maschi riproduttori e ha messo al
mondo le femmine. Ha organizzato il corso del sangue nelle ossa, operando con le sue
braccia nel suo laboratorio».60
Khnum viene esaltato, inoltre, come colui che ha creato il corpo umano e la sua
complessa fisiologia:
«Ha fatto crescere le ciocche di capelli, ha fatto spuntare i peli, ha modellato la pelle
sulle membra; ha costruito il cranio, ha modellato la faccia per dare i propri tratti alla
figura; ha fatto aprire gli occhi, ha aperto l’ingresso delle orecchie, ha collegato il
corpo [Xt] all’atmosfera; ha fatto la bocca per mangiare, ha costruito i denti per
masticare; ha separato la lingua perché si esprima parlando, e le due mascelle perché
potessero aprirsi, la gola per inghiottire, l’esofago per ingoiare, ma anche per
vomitare; la spina dorsale per sostenere».61
57
I Mille canti in onore di Ammone e di Tebe, cap. 90, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico
Egitto, cit., pp. 425 sg.
58
Ibid. Testo originale traslitterato in J. Zandee, De hymnen aan Amon van Papyrus Leiden I 350, Rijksmuseum
van Oudheden de Leiden, Leiden 1947, p. 66.
59
Cfr. Inno ad Amon-Ra, VI, in Papiro di Bulaq 17 (ed. A. Mariette, Les papyrus égyptiens du Musée de Boulaq,
vol. II, A. Franck, Paris 1872, tavv. 11-13). Per una trad., cfr. A. Barucq, F. Daumas, Hymnes et prières de l’Égypte
ancienne, Éditions du Cerf, Paris 1980, p. 197.
60
Inno a Khnum creatore, 250, 6-8, in S. Sauneron, Le temple d’Esna, vol. III, IFAO, Le Caire 1968, pp. 130 sg.
La trad. it. è di E. Bresciani (Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 27). Questo inno fa parte dei testi del tempio
di Latopoli (Esna), databili al II sec. d.C., ma risalenti molto indietro nel tempo relativamente alle concezioni
espresse.
61
Ibid., 250, 9-10, in Le temple d’Esna, vol. III, cit., p. 131 (trad. it. in Testi religiosi dell’antico Egitto, cit., p. 28).
26
Nell’ultima dottrina menzionata, l’aspetto «concreto», «corporeo» della creazione ci
sembra ancora più accentuato. Più in generale, la nostra impressione è che ogni
singola teologia privilegi, in qualche modo, una fase determinata del processo
cosmogonico, narrando l’opera complessiva del demiurgo alla luce di questa. Il che
confermerebbe ulteriormente la complementarietà di queste formulazioni, sostenuta
da Hornung.
I sistemi cosmogonici presi in considerazione finora procedono secondo una falsariga
comune, nella narrazione della «prima volta»:
a) il passaggio dal non esistente all’esistente avviene ad opera di un dio originario
che si è generato da sé;
b) l’atto creativo del dio demiurgo necessita del supporto di uno o più elementi
corporei.
Da questa impostazione si discosta, invece, la dottrina di Ermopoli.62 Essa racconta la
«prima volta» seguendo un modello che potremmo definire «speculare» rispetto a
quello proposto dalle altre cosmogonie, in particolare rispetto a quello eliopolitano.
All’origine viene posta un’Ogdoade, otto divinità elementari, che non fanno parte del
creato, ma del caos stesso.63 Il principio solare che permetterà la comparsa
dell’esistente non si è autogenerato, ma è stato formato dall’Ogdoade che nell’oscurità
ha preparato la sua venuta. Gli otto dei, nati per generazione spontanea nelle acque
illimitate del caos, fanno sorgere dall’elemento liquido una collina primordiale,
rappresentata come un’isola di fiamma. Questo primo luogo permette al sole di
sorgere e dare vita alla creazione. Abbiamo, dunque, un’Enneade al contrario: il
principio solare è preceduto e non seguito da otto divinità; questi dei non sono il
risultato di un processo cosmogonico, ma sono ancora immersi nell’abisso
primordiale. La teologia di Ermopoli, presentandosi come speculare alle altre
dottrine che abbiamo richiamato e, in particolare, a quella di Eliopoli, sembra voler
evidenziare la «potenzialità» del non essere, il suo ruolo di progenitore dell’essere. Si
è voluto con ciò affermare un primato del non essere sull’essere?
62
In proposito, cfr. S. Sauneron, J. Yoyotte, La naissance du monde selon l’Égypte ancienne, cit., pp. 51 sgg.
27
4. La struttura dell’esistente
L’evento della «prima volta» determina il passaggio dal non esistente all’esistente.
Con ciò, tuttavia, il caos primordiale non viene affatto abolito. Accanto al mondo
creato dal dio demiurgo esiste un residuo infinito che non si trasforma mai in essere.
Questo residuo da un lato costituisce il confine ultimo, il limite invalicabile che
circonda l’esistente, dall’altro è presente all’interno della creazione stessa. I libri
dell’oltretomba del Nuovo Regno localizzano l’abisso oscuro delle acque nelle
profondità della duat.64 Chi cade in queste profondità «non è» più, la sua identità
viene dissolta. Il Libro di Nut, invece, pone le acque del Nun nel cielo, oltre il
percorso del sole.65 Nell’abisso abita il principale nemico del dio sole e di tutto
l’esistente: il serpente Apopi, che quotidianamente minaccia la marcia solare e che,
pertanto, deve essere prontamente neutralizzato. La forma del serpente, che «ha per
l’Egiziano una particolare affinità col non esistente», è la stessa con la quale viene
rappresentato il cerchio più esterno del mondo.66 Fenomeni come l’inondazione
prodotta dal Nilo ogni anno o la scomparsa del sole sotto l’orizzonte ogni giorno
riportano il mondo alla condizione primordiale e sono un chiaro segno del fatto che il
non esistente è presente sempre e ovunque. Perfino il sonno rappresenta un giacere
nell’oceano Nun. Il non essere, dunque, penetra l’essere.
Attribuire un atteggiamento nichilista all’uomo egiziano non sarebbe, tuttavia,
corretto; egli vuole rimanere «dalla parte dell’essere». Al capitolo 125 del Libro dei
Morti, che contiene la cosiddetta «confessione negativa» che il defunto deve
pronunciare davanti al tribunale di Osiri, troviamo l’affermazione:
«Io non ho cercato di conoscere coloro che non esistono [n rx=j jwtyw]!».
Nei Testi dei Sarcofagi si dice in modo simile del defunto «trasfigurato» (akh):
63
La nozione di Ogdoade è già presente nei testi di ispirazione eliopolitana (cfr., per es., CT, formula 76) e
compare anche in altre tradizioni, come la menfita e la tebana. In questi contesti, tuttavia, gli otto dei seguono e
non precedono il demiurgo.
64
La duat (dwAt) è una zona della dimensione ultraterrena, la cui localizzazione nell’ambito del cosmo non è
stabilita in modo rigido. Durante l’Antico Regno essa è situata principalmente nella regione celeste, a nord-est,
secondo A. Moret (cfr. Id., La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, in BIFAO,
30 (1931), p. 735, nota 25). Nel Medio Regno, invece, la duat è considerata una regione «inferiore», attraversata
dalla barca di Ra che si reca a visitare Osiri. Nei testi del Nuovo Regno, infine, essa è concepita come una regione
sotterranea opposta al cielo e alla terra. Sulle attestazioni più antiche di questa nozione e sul loro significato, cfr.,
per es., N. Beaux, La douat dans les Textes des Pyramides. Espace et temps de gestation, in BIFAO, 94 (1994), pp.
1 sgg.
65
Il Libro di Nut fa parte dei cosiddetti «libri del cielo». Si tratta di composizioni risalenti al Nuovo Regno,
riportate sui soffitti delle tombe. Questi testi traspongono il viaggio notturno e diurno del sole nel corpo della dea
Nut.
66
Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 159.
28
«il suo abominio è ciò che non esiste, è escluso che egli abbia visto ciò che è
disordinato [jsft]».67
Mantenersi entro i confini dell’ordine cosmico significa rimanere in vita e continuare
a esistere anche dopo la morte. La salvaguardia di questo ordine è il compito del re e
degli dei.
Abbiamo riscontrato che la sfera dell’essere non può prescindere da quella oscura e
minacciosa del non essere. Ma non va dimenticato che quest’ultimo manifesta anche
un aspetto rigenerante e fecondo. Proprio i fenomeni menzionati dell’inondazione del
Nilo e del tramonto del sole sono espressione di questo secondo volto del non
esistente. Tutto ciò che esiste è soggetto a un progressivo deterioramento e necessita,
pertanto, di essere periodicamente rinnovato e rigenerato. Questa possibilità è
garantita dal non esistente che, agendo come una sorta di «solvente universale»68,
permette a ogni ente del creato di essere rielaborato e di manifestarsi nuovamente in
una forma ringiovanita. Potremmo parlare di una creatio continua che si traduce in
una perenne ripetizione della «prima volta». Il non essere, quindi, tenendo in
gestazione l’essere, si rivela funzionale a esso. Questa gestazione, però, non è mai
esente da pericoli, a causa del potenziale distruttivo insito nel non esistente. L’ordine
e la struttura del creato manifestano, dunque, una dinamicità intrinseca. Tutto ciò
che è non conosce la definitività, è sempre in fieri.
Ma come si articola nello specifico la struttura dinamica dell’esistente? Anzitutto
dobbiamo tenere presente che all’interno del kosmos egiziano rientrano sia la sfera
terrena che quella ultraterrena. Uomini e dei condividono lo stesso mondo, anche se
su piani differenti. Questo mondo possiede una temporalità e una spazialità. Il tempo
scaturisce dalle profondità della creazione. Nel Libro dell’Amduat, esso è raffigurato
come un serpente dal quale nascono le ore e al quale ritornano dopo aver compiuto il
loro ciclo (fig. 2).69
67
CT, VI, 136 k.
68
Questa espressione è desunta dal linguaggio della tradizione alchimica occidentale. In proposito, cfr., per es.,
M. Pereira, Arcana sapienza. L’alchimia dalle origini a Jung, Carocci, Roma 2001, pp. 59 sgg.
69
Cfr. Libro dell’Amduat, ora XI, registro I.
29
Fig. 2 (tomba di Thutmosi III)70
L’immagine del serpente è presente anche nel Libro delle Porte, dove accanto a
questa troviamo quella di una doppia corda che scaturisce dalla bocca di una
divinità.71 Le singole ore appaiono, invece, sotto forma di stelle o di donne. Il tempo si
dispiega in un continuo, senza interruzione, per ritornare poi negli abissi dai quali ha
avuto origine; le ore sono generate e poi «divorate».
La dimensione temporale si manifesta in modo differente nel mondo dell’aldiquà e in
quello dell’aldilà. In una prospettiva ultraterrena è possibile abbracciare il tempo
nella sua totalità, lo si può guardare in qualsiasi direzione ed estensione, verso il
passato e verso il futuro. Tuttavia, entrambi gli orizzonti del creato, terreno e
ultraterreno, sono immersi in un tempo che scorre e che non è infinito. Se da una
parte, infatti, la durata della vita sulla terra appare sicuramente trascurabile rispetto
70
L’immagine è tratta dal sito www.thebanmappingproject.com (gennaio 2013).
30
a quella dell’esistenza condotta dai defunti beati (akhu) nell’aldilà, dall’altra anche i
trapassati e gli dei, come gli uomini della terra, non conoscono un’«eternità»
atemporale, senza fine.
Per esprimere gli aspetti della temporalità gli egizi utilizzano termini differenti:72
rer
rek
(rr) indica il tempo in generale;
(rk) è il tempo di qualcuno o qualcosa, per esempio di un dio, di un re,
o di un luogo. Quest’ultimo termine è riferito in genere al passato;
nu
(nw) denota, nello specifico, il momento in cui accade o si
fa qualcosa;
ahau
(aHaw) indica, infine, la durata della vita umana.
Quando si parla dell’«eternità» ultraterrena, i termini in questione sono, invece,
neheh
(nHH) e djet
(Dt). 73
Nei Testi delle Piramidi più antichi, quelli relativi al re Unis, si afferma:
«La durata di vita [aHaw] di Unis è l’eternità-neheh, il suo limite è l’eternità-djet».74
Per riferirsi alla durata della vita degli dei Ra e Osiri, spesso si ricorre all’espressione
«signore di neheh e djet». Si tratta di un’eternità che ha un’estensione temporale
misurata in «milioni di anni».75 E’ una vexata quaestio se questi due termini
debbano essere considerati sinonimi, oppure se denotino due concetti differenti.
Molte sono le soluzioni proposte.76 I Testi dei Sarcofagi, utilizzando delle
proposizioni a predicato nominale, danno le seguenti definizioni:
71
Cfr. Libro delle Porte, ora VI, registro I.
72
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 503, 511, 169, 420.
73
Assmann osserva che nella cultura egiziana non c’è una reale opposizione tra il tempo ultraterreno e quello
terreno, in quanto non viene posta una distinzione netta tra la dimensione divina e il mondo umano. Per questa
ragione, i due termini in questione possono essere tradotti in certi casi con «eternità» e in altri con «tempo». Cfr.
J. Assmann, La notion d’éternité dans l’Égypte ancienne, in V. Pirenne-Delforge, Ö. Tunca (a cura di),
Représentations du temps dans les religions, Droz, Genève 2003, pp. 111 sg.
74
Pyr, 412 a. La formula 274, che contiene il passo citato, è conosciuta come «Inno cannibale».
75
Cfr. E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 59 sgg.
76
Riportiamo alcune delle varie interpretazioni: djet come passato e neheh come futuro (Gardiner); djet come
Aldiquà e neheh come Aldilà (Thausing); neheh come eternità che precede la creazione e djet come eternità che la
segue (Bakir); neheh come ritorno delle medesime cose e djet come tempo che non conosce mutamenti (Otto);
neheh come tempo e djet come spazio (Westendorf); neheh come tempo ciclico e djet come tempo lineare
(Morenz). Hornung afferma, invece: «neheh appartiene […] in maggior misura al giorno e al dio sole Ra, mentre
31
«Quanto a ciò che esiste [jr nt(y)t Ø wn(=w)], è l’eternità-neheh e l’eternità-djet [nHH
pw Hna Dt]».77
«Quanto all’eternità-neheh, è il giorno [jr nHH hrw pw]! Quanto all’eternità-djet, è la
notte [jr Dt grH pw]!».78
Neheh e djet costituiscono la totalità del tempo cosmico; essi si intrecciano
strettamente con la dimensione spaziale dell’esistente, che fa la sua comparsa con la
creazione di Nut e Geb. Cielo e terra configurano, infatti, lo spazio del creato, uno
spazio completamente riempito di tempo. Nel Libro della Vacca Celeste, risalente alla
fine della XVIII dinastia, neheh e djet sono presentati come i sostegni del cielo, sotto
forma di una coppia divina (fig. 3).79
La medesima concezione è attestata anche da fonti più antiche come i Testi dei
Sarcofagi, in cui i due «sostegni» sono equiparati a Shu e Tefnet. In una formula che
si apre con un’invocazione agli otto geni-Heh, creati da Shu, «che circondano il cielo
con le loro braccia»,80 si afferma, infatti, in modo esplicito:
«Shu è l’eternità-neheh e Tefnet l’eternità-djet!».81
Fig. 3 (C. Maystre, Le livre de la vache du ciel dans les tombeaux de la Vallée des Rois, cit., p. 114)
djet in maggior misura alla notte e al signore dei morti Osiri; neheh è un concetto più che altro dinamico, djet più
che altro statico» (Id., Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 66). Sul problema dell’interpretazione dei termini
neheh e djet e sulla questione del tempo in generale, cfr., inoltre, lo studio recente di F. Servajean, Djet et Neheh.
Une histoire du temps égyptien, Université Paul Valéry, Montpellier 2007. Secondo Servajean, neheh indica il
tempo del mondo percettibile, terreno; djed esprime, invece, l’eternità propria della dimensione ultraterrena.
77
CT, IV, 200 d-e.
78
CT, IV, 202/3 a, Sq1C, Sq7C, Sq1Sq, L1NY e BH1Br.
79
Cfr. C. Maystre, Le livre de la vache du ciel dans les tombeaux de la Vallée des Rois, in BIFAO, 40 (1941), pp.
114 sg.
80
CT, II, 27 e. I geni-Heh aiutano il dio Shu a sostenere il cielo.
32
Spazio e tempo formano, dunque, un’unità inscindibile, che si articola in quattro
componenti principali: cielo, terra, neheh, djet. Questa «quadratura», della quale
possiamo ritrovare una lontana eco nell’omonimo concetto teorizzato da Martin
Heidegger
in
età
contemporanea,
costituisce
la
struttura
fondamentale
dell’esistente.82 I quattro si possono intendere, cioè, come le direzioni costitutive
nelle quali il mondo si dispiega, come l’apertura del mondo all’interno del quale gli
enti si manifestano. Questa visione la ritroviamo anche nelle creazioni artistiche
egiziane, dove il contorno di una scena o i bordi di un monumento (per es. una stele)
rappresentano i confini del cosmo. L’inquadramento delle raffigurazioni, infatti, è
spesso composto nella parte superiore dal segno del cielo, in quella inferiore dal
segno della terra e ai lati da due scettri uas, che indicano i due sostegni (fig. 4).
Fig. 4 (P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., p. 220)
Il cosmo egiziano, come abbiamo rilevato, è limitato spazialmente e temporalmente.
Il limite è un elemento connaturato nell’esistente. Per esprimere il concetto di limite,
il pensiero egiziano ricorre generalmente a questi due termini:
tash
(tAS) e djer
(Dr).
Il primo termine denota dei limiti superabili, quelli stabiliti dagli dei e dagli uomini
all’interno del mondo; il secondo, invece, indica i limiti propri della struttura del
creato, non dilatabili e non superabili.83
81
CT, II, 28 d. In diversi passi dei testi religiosi si fa riferimento ai sostegni del cielo; cfr., per es: Pyr, 1143 b e
1385 a; CT, I, 263 f e 264 a; ibid., II, 375 c – 376 a. In alcuni casi, si parla di quattro pilastri; cfr., per es., CT, V, 41
g-h.
82
I Quattro che formano la «quadratura» (Geviert) heideggeriana sono: cielo, terra, i divini e i mortali. Pur non
essendo equivalenti alle nozioni di neheh e djet, i concetti di «divini» e «mortali» richiamano, a nostro avviso, la
temporalità nel suo complesso, ultraterrena e terrena. In proposito, cfr. i due saggi di M. Heidegger, Bauen,
Wohnen, Denken e Das Ding, in Id., Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954; trad. it. Costruire, abitare, pensare
e La cosa, in Id., Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991.
83
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 986 sg; 1085. Cfr. anche E. Hornung,
Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 69.
33
Tash può essere il confine di una proprietà, di un distretto o di uno stato; si tratta,
dunque, di confini che possono essere modificati. Il faraone nel momento in cui
assume il potere, eredita dal suo predecessore il compito di proteggere i confini
dell’Egitto contro qualsiasi tentativo di modificarli. La funzione del re però non è
soltanto quella di custode e reggitore dello stato; egli in quanto «dio in terra» deve
assumere anche il ruolo di «creatore», cercando di superare le opere di coloro che lo
hanno preceduto. Questo impegno si traduce nella costruzione di nuovi edifici o
nell’ampliamento di quelli preesistenti e nell’estensione dei confini dello stato,
attraverso campagne militari. Il tempio egiziano è progettato per venire incontro a
questo compito; esso infatti, a differenza di quello greco, non ha una struttura
compiuta, ma può essere continuamente ampliato. Nell’area sacra di Karnak, per
esempio, si continuò a costruire per più di due millenni.
Questa funzione di «innovatore» esercitata dal faraone risponde a quello che
l’egittologia ha definito il «principio di superamento del preesistente». Esso è
esplicitamente formulato a partire dal Primo Periodo Intermedio. Nel testo
sapienziale conosciuto come L’Insegnamento per Merikara, il faraone Kheti II esorta
suo figlio in questo modo:
«Cerca di superare tuo padre ed i tuoi predecessori: ciò si realizzerà […] per mezzo
della saggezza. Le loro parole sono rimaste in scritti: svolgi(li), leggi(li) e supera il
loro sapere. […] Proteggi i tuoi confini [tAS]. […] Possa io vedere un guerriero che (mi)
sorpassi in ciò, facendo egli più di quello che io ho fatto: avrei vergogna di un erede
meschino. […] una persona agisce anche per il suo predecessore, per desiderio che sia
migliorato ciò che ha fatto da parte di un altro che verrà dopo di lui».84
Qualsiasi sforzo di superare il preesistente incontra però, prima o poi, i limiti estremi
e invalicabili, propri della struttura del mondo, che in egiziano sono denominati djeru
(il senso letterale di djer è «fine», «ultima meta», «confine»). Nei Testi delle
Piramidi, per esempio, il sovrano viene indicato come colui «che risiede nei limiti
dell’orizzonte per l’eternità dell’eternità [jm(y) Drw Axt Dt r nHH]».85
Nei Testi dei Sarcofagi il defunto dichiara, invece:
84
L’Insegnamento per Merikara, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., pp. 92,
94, 97, 99. Per il testo geroglifico, cfr. A. Volten, Zwei altägyptische politische Schriften, Einar Munksgaard,
Copenhagen 1945, pp. 5 sgg.
85
Pyr, 412 c.
34
«Sono andato a riposarmi ai confini dell’orizzonte [r Drw Axt]».86
Un altro aspetto essenziale del cosmo egiziano è costituito dalla simmetria. L’unità
dell’esistente è sempre pensata ed espressa linguisticamente in modo «duale». Il
territorio egiziano è indicato come «le due terre» (tAwy) o, più specificamente, come
«l’Alto (Smaw) e il Basso Egitto (mHw)» o «la Nera (kmt) e La Rossa (dSrt)», il tempo
cosmico come «neheh e djet», ecc. L’unità si manifesta, dunque, nella dualità, in due
metà simmetriche e complementari. Prima della creazione, infatti, quando regnava il
caos, «non c’erano ancora due cose».87 La simmetria caratterizza l’arte egiziana.
Tutte le diverse parti architettoniche di un tempio sono disposte simmetricamente
lungo un asse. Anche nelle iscrizioni e nelle decorazioni ritroviamo questo principio.
A uno sguardo attento, però, questa simmetria rivela una lieve anomalia; le due metà
non sono mai perfettamente identiche.
Oggi non si è più dell’idea che si tratti di casualità o di errori, ma si riconosce
all’artista egiziano una precisa consapevolezza nell’introduzione di anomalie nella
simmetria. Ogni schema rigido, infatti, è contrario allo spirito egiziano e non si
accorda con la concezione di un universo dinamico. La rottura della simmetria
perfetta introduce tra le due polarità dell’intero un movimento che le fa interagire,
dando vita all’insieme. Il cosmo differenziato si fonda sul principio del dualismo.
Ogni ente è la risultante di due elementi complementari in relazione tra loro. La
«quadratura» di cui abbiamo parlato costituisce, invece, l’orizzonte entro cui ogni
fenomeno accade, il luogo epifanico di tutti gli enti. Il mondo così strutturato, per
l’egiziano, si rivela una molteplicità di forze.
Il dio demiurgo può disporre, in particolare, di tre forze che lo aiutano a realizzare la
sua opera: sia, la «visione percipiente», hu, l’«enunciazione creativa» e heka, la
«magia». Tutte e tre sono rappresentate come divinità in forma umana.
Tra queste, heka
(HkA), che in Egitto aveva ottenuto anche un
culto, è la forza che porta a compimento la creazione. L’importanza della magia nella
cultura egizia è attestata già nei Testi delle Piramidi. In essi, la heka è messa in
relazione con il cuore, la sede della volontà e della coscienza. Nel medesimo contesto,
86
CT, IV, 128 d, B2L. I confini ultimi del cosmo sono anche le quattro «frontiere» (Tnww) del cielo; cfr. CT,
formula 1018.
87
Cfr. supra, p. 18.
35
viene detto che il corpo (Xt) degli dei è «pieno di magia».88 Nessuna indagine sulla
civiltà egiziana può evitare di prendere in considerazione questo aspetto.
Il termine «magia» viene letto, generalmente, come sinonimo di superstizione.
Secondo Adolf Erman, «la magia è un impulso (Seitentrieb) selvaggio della religione;
essa si accinge a costringere le forze che governano il destino dell’uomo».89 Tuttavia,
a quanto emerge dai testi egiziani, la heka risulta essere un’energia attiva che pervade
l’esistente. Nella formula dei Testi delle Piramidi che associa la magia al cuore si dice
del re Unis:
«Egli si è appropriato dei cuori [HAtyw] degli dei, egli ha mangiato la Rossa [dSrt], egli
ha ingoiato la Verde [wADt] […] e sarà soddisfatto di vivere dei cuori [HAtyw] e della
loro magia-heka».90
La Rossa e la Verde indicano probabilmente le due corone dell’Egitto.91 In ogni caso,
si tratta di un riferimento alle due terre e, per traslato, alla dualità cosmica. La magia
che ha sede nel cuore appare, a nostro avviso, come una forza che nutre e dà coesione
alla compagine cosmica, così come al corpo di un dio o di un uomo. Questa lettura è
in accordo con alcune delle interpretazioni più recenti del termine heka, secondo le
quali si tratterebbe, infatti, di energia o campi di forze. Sauneron parla della magia
come dell’«energia attiva dell’universo».92 Hornung la definisce «l’energia atomica
degli inizi dell’umanità».93 Questo potere può essere utilizzato sia dagli dei che dagli
uomini, per trasformare il mondo; il suo veicolo principale è la parola, recitata, ma
anche scritta.94
Gli egiziani concepiscono, dunque, la sfera dell’esistente come una dimensione duale,
organizzata secondo un ordine ben preciso e fortemente dinamica. Si tratta, tuttavia,
di un orizzonte limitato, finito. Il mondo creato non conosce l’eternità, intesa come
durata perpetua. E’ lo stesso Atum a stabilire un termine ultimo per la sua creazione.
Nel Libro dei Morti leggiamo il suo annuncio:
88
Cfr. Pyr, 397 b.
89
A. Erman, Ägyptische Religion, Georg Reimer, Berlin 1909, p. 167.
90
Pyr, 409 c – 410 c. Anche questo passo fa parte del cosiddetto «Inno cannibale». Abbiamo preferito tradurre
letteralmente i termini dSrt e wADt, allineandoci alle trad. di A. Piankoff, Le «cœur» dans le textes égyptiens depuis
l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel Empire, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Paris 1930, p. 61 e di S. Donadoni,
Testi religiosi egizi, Garzanti, Milano 1997, p. 33.
91
Cfr. Piankoff e Donadoni, cit.
92
S. Sauneron, Le monde du magicien égyptien, in Le monde du sorcier, Éditions du Seuil, Paris 1966, p.32.
93
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 187 sg.
94
Ci soffermeremo meglio sul ruolo della magia nella cultura egiziana nell’ultimo capitolo. Cfr. infra, pp. 256 sgg.
36
«Ma distruggerò tutto ciò che ho creato e questa terra ridiventerà il Nun, allo stato di
distesa d’acqua come in principio! Io sono colui che resterà con Osiri dopo che avrò
attuato la mia trasformazione in altra cosa, un serpente, che gli uomini non
conoscono o che gli dei non hanno ancora visto!».95
Non possiamo dire con certezza se si tratti di un termine definitivo o, viceversa, del
preludio di un nuovo atto creativo. Ci sembra, però, fuori di dubbio che lo stato
successivo a quello del mondo manifesto non sia pensato come un nulla assoluto.
Atum, il mediatore tra l’essere e il non essere, continua, infatti, a sussistere sotto una
nuova forma e, accanto a lui, è presente anche Osiri, il «re dei viventi»,96 colui che
garantisce a tutto il creato la rinascita a nuova vita.
Se da un lato il non essere «infinito» sembra sovrastare l’essere «finito», dall’altro lo
sguardo dell’uomo egiziano è rivolto costantemente all’esistente. Ogni aspetto della
cultura e della società egiziane si rivela funzionale al rispetto e al mantenimento
dell’ordine cosmico. L’Inno ad Amon-Ra riportato da uno dei papiri di Bulaq
esprime, in modo efficace e con semplicità di linguaggio, entusiasmo e riconoscenza
nei confronti del dio demiurgo per aver posto in essere il creato:
«”Salute a te, – dicono tutti. – Adorazione a te, che ti affatichi per noi! Grazie, mentre
ci crei”. “Salute a te”, dice ogni animale selvatico. “Adorazione a te”, dice ogni paese
straniero, quanto è alto il cielo, ampia la terra, profondo il mare. […] “Esaltiamo la
tua gloria perché ci hai creato, ti adoriamo perché ci hai formati, cantiamo inni a te
perché ti affatichi per noi”. Salute a te creatore di tutto ciò che esiste».97
Un simile atteggiamento non concede al non essere un primato sull’essere.
5. I tre livelli della realtà secondo la speculazione del Nuovo Regno
All’interno della sfera dell’esistente si possono distinguere tre livelli:
la terra abitata dagli uomini, ta
dalla dea Nut,
95
(tA), al di sopra di essa il cielo (pt) impersonato
(nwt) e al di sotto la duat
(dwAt).
Libro dei Morti, cap. 175.
96
Si tratta di uno dei numerosi appellativi di Osiri. In proposito cfr. M. Tosi, Dizionario enciclopedico delle
divinità dell’antico Egitto, vol. I, cit., pp. 92 sgg.
97
Inno ad Amon-Ra, VII, VIII, in Papiro di Bulaq 17, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico
Egitto, cit., p. 409.
37
Delle due regioni ultraterrene che avvolgono la terra parlano sia i Testi delle Piramidi
che i Testi dei Sarcofagi. Descrizioni più ampie e dettagliate le troviamo, però,
soltanto nei testi del Nuovo Regno dipinti sulle pareti e sui soffitti delle tombe reali. Il
principio unificatore e organizzatore dei differenti livelli dell’esistente è il sole nel suo
ciclo giornaliero. Durante il giorno esso porta luce e vita alla dimensione terrena,
mentre durante la notte percorre la dimensione invisibile dell’aldilà, rappresentata
come un mondo sotterraneo o come il corpo di Nut, la dea del cielo. Il sorgere
mattutino del sole corrisponde alla vittoria sulle forze distruttive del non esistente e
alla rinascita di tutto il creato.
I cosiddetti libri dell’oltretomba descrivono il percorso notturno del sole nell’aldilà
sotterraneo, chiamato duat. Questi testi, a differenza di quelli risalenti all’Antico e al
Medio Regno, sono estremamente ricchi di immagini, che non sono delle semplici
vignette accessorie, ma costituiscono un’unità formale con la parte scritta. I più
antichi di questi testi, il Libro dell’Amduat e il Libro delle Porte, sono suddivisi in
dodici sezioni, ciascuna delle quali è ripartita in tre registri. Ogni sezione rappresenta
un’ora notturna del ciclo solare. Nel registro centrale di ciascuna ora è raffigurata la
barca solare; il dio sole Ra appare nella sua forma notturna, a testa di ariete. I libri
più recenti (Libro delle Caverne e Libro della Terra) presentano, invece, alcune
varianti nell’impostazione: la suddivisione è organizzata in modo differente e la barca
è sostituita dal disco solare. Di questo viaggio notturno ci limitiamo a evidenziare
quegli aspetti che, a nostro avviso, contribuiscono meglio a far luce sull’ontologia e
sulla concezione del mondo elaborate dagli Egizi.
L’elemento che risalta maggiormente nei libri dell’oltretomba e che fa da sfondo a
tutti gli altri è ancora una volta il rapporto irrinunciabile tra essere e non essere. Le
acque che attraversano la duat, sulle quali naviga la barca solare, provengono
dall’abisso del Nun e corrispondono sulla terra a quelle del Nilo. Come si è già
riscontrato, il non esistente si riversa nell’esistente. Queste acque dell’aldilà, così
come quelle del fiume che attraversa l’Egitto, manifestano principalmente l’aspetto
rigenerante del non essere. Il lato oscuro e distruttivo delle forze del caos si incarna,
invece, soprattutto nella figura mitica del serpente Apopi, che tenta incessantemente
di arrestare la corsa solare e, quindi, il movimento dell’intero cosmo. Questo tentativo
rimane, tuttavia, vano, grazie all’intervento delle forze favorevoli a Ra, impersonate
da varie divinità, che bloccano l’azione del serpente. Un passo del secondo registro
della settima ora del Libro dell’Amduat recita:
38
«Queste dee puniscono Apopi nella Duat, esse impediscono i progetti dei nemici di
Ra. Così è fatto, esse portano i loro coltelli e puniscono Apopi nella Duat, ogni
giorno».98
Questo intervento deve essere ripetuto quotidianamente, in quanto il serpente Apopi,
che non fa parte dell’esistente, è indistruttibile e può essere fermato soltanto per un
arco temporale limitato.
Nella sesta ora della notte il sole raggiunge il punto più profondo e oscuro della duat.
Si tratta del confine ultimo del creato; qui l’esistente sfiora l’«infinità» del non
esistente. Questo abisso viene chiamato hetemyt (Htmyt), il cui significato è «luogo di
distruzione» o «luogo dello sterminio». In questo luogo vengono puniti i dannati,
ossia coloro che sono stati giudicati dal tribunale dei defunti come nemici dell’ordine
cosmico. Diverse immagini dei libri dell’oltretomba mostrano le punizioni dei
dannati. In esse vediamo braci ardenti, sangue, corpi fatti a pezzi, demoni punitori;
motivi che ricordano le scene dell’inferno dantesco o quelle di alcuni quadri
fiamminghi.
La pena a cui sono sottoposti tutti i prigionieri di questi inferi è la perdita dell’identità
personale, la distruzione del proprio nome, ossia la non esistenza.
Nel Libro
dell’Amduat i dannati vengono definiti «coloro che sono annientati» (Htmyw). Nella
seconda sezione del Libro delle Caverne il dio sole si rivolge ai nemici di Osiri in
questo modo:
«O decapitati, che non hanno una testa, nel Luogo dello sterminio! O caduti, che non
hanno un ba, nel Luogo dello sterminio! O voi, che poggiate sulla testa, incatenati nel
Luogo dello sterminio! O voi, che poggiate sulla testa, sanguinanti, voi con il cuore
strappato nel Luogo dello sterminio! O nemici del signore della duat, Osiri capo degli
occidentali, io vi consegno alla distruzione, io vi condanno alla non esistenza! I
macellatori […] vi massacrano […] Voi siete i nemici, così voi non esistete più e più vi
trasformerete! […] Io vi consegno al Luogo dello sterminio, da cui i vostri bau non
usciranno!».99
Da questo luogo non c’è possibilità di ritorno. Hornung per parlare di questi inferi
utilizza l’espressione «buco nero». Nella scrittura geroglifica, infatti, troviamo un
segno che si potrebbe definire proprio utilizzando l’espressione menzionata. Si tratta
98
Libro dell’Amduat, ora VII, registro II, trad. it. di A. Fornari e M. Tosi, in Nella sede della verità. Deir el
Medina e l’ipogeo di Thutmosi III, Ricci, Milano 1987, p. 73.
39
di un cerchio tutto nero, presente già nei Testi delle Piramidi. Esso compare come
determinativo in parole come «morte», «nemico», «fossa», «buco», o «Inferi».
Questo segno grafico indica «ciò che non è». In qualche occasione, per esprimere il
medesimo concetto, la scrittura egizia ricorre anche allo spazio vuoto.100
Come è tipico dei concetti del pensiero egiziano, tuttavia, il «luogo dello sterminio»
presenta un contenuto polivalente. Nel punto più profondo della duat, infatti, ha
luogo l’evento principale del viaggio notturno del sole: l’unione di Ra e Osiri, come ba
e corpo101. In questo abisso riposa il cadavere del sole, immagine di Osiri. Nel Libro
dell’Amduat, questi viene raffigurato avvolto da un serpente dalle molte teste che lo
protegge e con uno scarabeo sul capo. Lo scarabeo (kheper) è il simbolo per
eccellenza della rigenerazione. Il cadavere del sole contiene, dunque, il germe della
vita. Per poter rinnovarsi e rinascere il sole, e con esso tutto il creato e ogni suo
abitante, deve prima morire e disfarsi. E’ solamente dal disfacimento e dalla
decomposizione che può manifestarsi una nuova esistenza.102
Ra, sfiorando nel corso del suo cammino l’abisso del non essere, si unisce in quanto
ba al suo cadavere, chiamato «carne» (jwf). In questa immagine la speculazione
egiziana sintetizza il concetto di «resurrezione della carne», mettendo in evidenza che
l’esistenza, su qualunque piano della realtà si manifesti, rivela una imprescindibile
componente corporea. A ulteriore conferma di ciò, lo stesso dio sole a testa di ariete
che attraversa la regione della duat ha l’appellativo di «carne». L’unione tra il ba e il
corpo, che si ripete ogni notte, costituisce la condicio sine qua non per la
sopravvivenza ultraterrena di ogni defunto. Nel Libro dei Morti, il defunto invoca che
il suo ba possa tornare a lui e discendere sulla propria mummia.103
Il ciclo giornaliero del sole, che mantiene in vita l’esistente, viene rappresentato dagli
Egizi anche come un viaggio celeste, ambientato all’interno del corpo della dea Nut.
La concezione del sole che nasce e viene, infine, inghiottito da Nut è presente già nei
Testi delle Piramidi;104 essa viene sviluppata successivamente in alcuni testi che
compaiono nel Nuovo Regno. Di questi, il Libro di Nut, descrivendo l’immagine della
99
Libro delle Caverne, sezione II, registro V. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung in Die
Unterweltsbücher der Ägypter, Patmos Verlag, Düsseldorf 2002, p. 338.
100
In un punto del Libro delle Porte, per es., la parola «sterminati» è sostituita da uno spazio vuoto. In proposito
cfr. E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., p. 95.
101
Cfr., per es., Libro dell’Amduat, ora VI.
102
Nella Litania del Sole una delle 75 forme assunte da Ra è chiamata «colui che muore» (xpy).
103
Cfr. Libro dei Morti, cap. 89.
104
Cfr., per es., Pyr, 1417 b.
40
dea, traccia una sorta di topografia celeste. Il viaggio solare è compiuto durante la
notte. Anche il Libro della Notte narra il cammino notturno del sole in un aldilà
celeste che corrisponde, in sostanza, a quello sotterraneo. Ritroviamo, infatti, motivi
come le tenebre e le acque primordiali, l’unione dei ba con i corpi, i defunti beati e
dannati. La volta celeste viene rappresentata con le sembianze di una donna, il cui
corpo incurvato e teso ad arco ricopre la terra; le sue gambe sono poste a oriente e la
sua testa a occidente. E’ la dea Nut, che la sera inghiotte il sole e al mattino lo
partorisce nella forma di uno scarabeo o di un fanciullo.
Nel Libro del Giorno troviamo, invece, una descrizione della corsa diurna del sole nel
corpo di Nut, speculare a quella notturna, ma anch’essa ambientata in una
dimensione ultraterrena.105 Anche qui i temi presenti ricalcano quelli del mondo
sotterraneo. La regione celeste si rivela, pertanto, speculare a quella sotterranea della
duat. In questo contesto, il mondo terreno fa da spartiacque, o meglio, da asse tra due
dimensioni ultraterrene simmetriche, confinanti con le acque del Nun.
6. Tra essere e non essere: il tempo
Per disegnare la mappa dell’esistente in modo forse più efficace, potremmo anche
raffigurarci la terra come un cerchio, concentrico ad un altro più ampio, che
rappresenta l’aldilà nella sua duplice valenza di cielo e duat, il quale a sua volta è
inserito nel «cerchio» illimitato del non esistente. In questa rappresentazione, il
secondo cerchio corrisponde all’Uroboro, il serpente che circonda il mondo. Esso da
un lato separa e protegge il creato dal non esistente, dall’altro mette in
comunicazione le due sfere. Dall’incontro tra caos e cosmos scaturisce il movimento
che anima l’esistente, il cui ritmo è cadenzato dal ciclo giornaliero del sole. Abbiamo
rilevato che per il pensiero egizio il non esistente pervade l’intera creazione. A quanto
emerge dai testi egizi, tuttavia, il luogo originario e privilegiato di questo incontro è la
dimensione ultraterrena, lambita dalle acque e dalle tenebre primordiali.
I libri del Nuovo Regno che descrivono l’aldilà forniscono ulteriori elementi che
possono aiutarci a comprendere meglio la natura dell’interazione tra essere e non
essere. In diversi punti di questi testi si parla del tempo. Abbiamo individuato
precedentemente nei due aspetti della temporalità cosmica, neheh e djet, due
105
Sul percorso solare nel corpo di Nut, cfr. R. Schumann Antelme, S. Rossini, Nout, le cosmos des pharaons,
Éditions du Rocher, Monaco 2007, pp. 197 sgg.
41
componenti di quella «quadratura» che consente e regola la manifestazione degli enti
sui differenti piani dell’esistente. La struttura della dimensione ultraterrena appare,
in ogni caso, principalmente di natura temporale; i settori in cui si articola la duat
sono, infatti, ore solari. Esse emergono dalle profondità della creazione e cadono
successivamente nel precipizio dove l’esistente e il non esistente vengono a contatto
tra di loro. Questo «buco nero» rappresenta, così, anche il recipiente del tempo
trascorso. In proposito, Hornung pone la questione in questi termini: «In questo
luogo tutto il passato diventa presente. Ma le tenebre di questo buco non significano
forse una rigenerazione anche per le ore che sono trascorse e “morte”, una rinascita
rinnovata? Forse che le ore del passato ritornano trasformate e ringiovanite come ore
del futuro, che diventano allora esse stesse il presente?»106
Se rispondiamo affermativamente a questi quesiti, il contatto tra essere e non essere
che avviene nella «zona di confine» e che permette il movimento e il rinnovamento di
tutto l’esistente, a nostro avviso, si configura anzitutto in senso «temporale». Si tratta
di una temporalità non lineare, bensì a spirale, che ritorna cioè su se stessa senza
formare un cerchio chiuso. La rigenerazione del creato non si presenta mai, infatti,
come un «eterno ritorno», ossia come la perpetua ripetizione degli stessi eventi
affermata da Eraclito, dagli Stoici e, molti secoli più tardi, da Friedrich Nietzsche.
Ogni nuovo ciclo appare sempre diverso rispetto a quello precedente.
L’«inversione» temporale che innesca la rinascita è raffigurata dagli Egizi nella
dodicesima sezione del Libro dell’Amduat, corrispondente all’ultima ora della notte,
quella che precede il sorgere del sole. A questo punto del suo viaggio, la barca solare
deve attraversare il corpo di un gigantesco serpente, dalla coda alla bocca. La
direzione rovesciata del rettile allude all’inversione del tempo. Tutto ciò che entra
nella coda come vecchio e logoro esce dalla bocca in forma rinnovata (fig. 5). Così
recita il testo di accompagnamento:
«Essi trainano questo grande dio all’interno della spina dorsale del serpente “Che fa
vivere gli dei”. I privilegiati di Ra sono dietro di lui e davanti a lui e nascono ogni
giorno sulla terra, dopo la nascita di questo grande dio nell’oriente del cielo. Essi
entrano in questa misteriosa immagine del serpente “Che fa vivere gli dei” come
privilegiati. Essi escono come “giovani di Ra” ogni giorno».107
106
42
E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 115, sg.
Fig. 5 (tomba di Amenhotep II)108
Questa inversione temporale che mantiene in vita il kosmos presuppone l’evento
della morte. Ogni ente del creato per potersi perpetuare deve passare attraverso il
proprio disfacimento. Si tratta di un tema centrale della cultura egiziana. Pur nella
sua inevitabile drammaticità, la morte è concepita come un elemento funzionale alla
vita. «Benché tu abbia dormito, tu vuoi risvegliarti! Benché tu sia morto, tu vuoi
vivere!», affermano in modo sintetico i Testi delle Piramidi.109 Neanche gli dei
possono sottrarsi a questa legge ineluttabile. Lo abbiamo riscontrato nel motivo della
morte quotidiana e del ritorno alla vita del dio sole, che caratterizza i libri
dell’oltretomba. Anche il Libro della vacca celeste narra di un dio sole divenuto
ormai vecchio e debole, la cui condizione provoca la ribellione degli uomini malvagi,
minacciando così l’ordine del mondo. Affinché l’ordine possa consolidarsi
nuovamente, il dio sole nomina come suo sostituto il dio Thot.
Ma il «mistero» della morte e della resurrezione degli dei e degli uomini, per l’uomo
egiziano, è incarnato soprattutto nella figura di Osiri, dio dei morti e dell’oltretomba.
Tra i numerosi epiteti di questa divinità troviamo quelli di «signore del tempo di
107
108
Libro dell’Amduat, ora XII, registro II, trad. it. di A. Fornari e M. Tosi, in Nella sede della verità, cit., p. 89.
L’immagine è tratta da K. R. Weeks (a cura di), La Valle dei Re. Le tombe e i templi funerari di Tebe ovest,
White star, Vercelli 2001, p. 144.
109
Pyr, 1975 b.
43
vita», «re dei viventi», «dio dalla durata infinita».110 Secondo il mito che ci è stato
tramandato, Osiri, sovrano giusto e benefico, viene ucciso dal violento fratello Seth,
che successivamente smembra il suo cadavere e ne disperde le parti. La sposa Iside,
tuttavia, con l’aiuto di altre divinità, ricompone il corpo di Osiri e genera con lui un
figlio postumo, Horo, che divenuto adulto riconquista il trono del padre usurpato da
Seth. Osiri rappresenta, quindi, il prototipo di colui che, passando attraverso il
disfacimento e la decomposizione, vince la morte e si trasfigura in un individuo
nuovo. Un passo dei Testi dei Sarcofagi parla del defunto in questi termini:
«Questo N è il germoglio di vita che è uscito da Osiri, che è cresciuto sulle labbra di
Osiri, che fa vivere gli dei, che divinizza [snTr(w)t] gli dei, che trasfigura [sAx(w)t] i
defunti beati [Axw], […] che fa prosperare i viventi e che fortifica le membra [Haw] dei
viventi».111
Il sancta sanctorum in cui dimora Osiri è il punto più profondo della Duat, dove il
non esistente incontra l’esistente. Qui ha luogo l’unione di Ra e Osiri, evento che
rende possibile l’inversione del tempo. Quest’ultima si compie immediatamente
prima del sorgere del sole, durante l’ultima ora della notte. Nel registro inferiore della
dodicesima sezione del Libro dell’Amduat, dove viene raffigurato questo tema,
troviamo ancora l’immagine di Osiri (fig. 5). È, infatti, questo dio la chiave che regola
la marcia temporale e quindi il movimento solare che da vita al cosmo. Le divinità che
attendono la rinascita del sole si rivolgono a Osiri con queste parole:
«Vivi, vivi, tu che risiedi nelle tenebre tue, vivi o grande che sei nelle tenebre tue,
Signore della vita, Signore dell’Occidente, Osiri che è a capo degli Occidentali. Ecco,
vivi, vivi tu che sei a capo della Duat. Il soffio di Ra è per le tue narici, il respiro di
Khepri è davanti a te e tu vivi una vita. Salve, Osiri, Signore della vita».112
Accanto alla figura di Osiri troviamo, tuttavia, anche quella di un archetipo femminile
che, attraverso un processo di gestazione, rigenera l’individuo anziano e debole. Il
tema della morte e dell’inversione temporale è interpretato in questo caso come un
«ritorno a casa» o «un ritorno nel grembo materno». Questo aspetto è stato
approfondito da Assmann, che ha esaminato le iscrizioni dei sarcofagi in cui una
divinità si rivolge al defunto «in quanto bara e in quanto madre». Esistono migliaia di
queste iscrizioni, a partire dall’Antico Regno:
110
Relativamente agli epiteti di Osiri, cfr. supra, p. 37, nota 96.
111
CT, formula 269.
112
Libro dell’Amduat, ora XII, registro III, trad. it. di A. Fornari e M. Tosi, in Nella sede della verità, cit., p. 90.
44
«Re Teti è il mio figlio più anziano, quegli che ha aperto il mio corpo, il mio amato, da
cui ho tratto piacere».
Sul coperchio della bara del faraone Merenptah (XIX dinastia), leggiamo invece:
«Sono tua madre che sugge la tua bellezza, m’ingravido di te all’alba e ti partorisco la
sera come dio Sole. Tu entri in me, io abbraccio la tua immagine, sono la tua bara, per
celare il tuo segreto aspetto».
Un’altra iscrizione sepolcrale recita: «Ti depongo dentro di me, ti partorisco una
seconda volta, sí che tu entri ed esca sotto le stelle imperiture, e sia eletto, vivo e
ringiovanito come il dio Sole giorno dopo giorno».113
Nei sarcofagi del periodo tardo, questa divinità materna viene spesso dipinta
all’interno del coperchio, con le sembianze della dea del cielo Nut. La figura è
disposta nell’atto di distendersi sopra il defunto per accoglierlo in sé e tenerlo in
gestazione.
Assmann parla dell’unione del defunto con la «madre» come di una imitatio Solis. Gli
inni al Sole, nel descrivere il moto circolare dell’astro, ripropongono, infatti, le stesse
immagini e le stesse parole utilizzate nei testi funebri. Nut accoglie in sé il Sole la sera
e lo partorisce all’alba:
«Colui che di notte è portato in grembo ed è partorito all’alba, che al rischiararsi del
cielo è nel suo posto di ieri. Colui che entra nella bocca ed esce dalle cosce, […]
risorgendo senza stancarsi, per irradiare le terre e le isole, corridore che corre
eternamente in cerchio, che non cessa di irradiare giorno dopo giorno».114
Commenta Assmann: «Il Sole esemplifica ciò in cui ognuno vorrebbe imitarlo:
mutare la linea dritta della vita in un tratto circolare, così da poter tornare all’origine,
superare la morte attribuendole la funzione del concepimento e facendola coincidere
con la nascita».115
I concetti strettamente collegati di morte, inversione temporale e rigenerazione sono
sviluppati, dunque, secondo due direzioni: quella del principio «paterno»,
impersonato da Osiri, e quella della «Grande Madre» Nut. Si tratta, tuttavia, di
approcci complementari: il defunto diventa Osiri e in quanto tale è accolto nel
grembo materno di Nut, dove viene rigenerato.116 Sia il singolo individuo che l’intero
113
J. Assmann, La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, trad. it. di U.
Gandini, Einaudi, Torino 2002, p. 18.
114
Ibid., p. 29.
115
Ibid.
116
Cfr. infra, pp. 106 sg.
45
cosmo si uniformano, dunque, al ciclo del Sole, che ogni notte si unisce a Osiri e
viene, poi, nuovamente partorito al mattino.
L’inversione del tempo, che costituisce l’elemento essenziale del movimento cosmico,
risponde, a nostro avviso, a un ideale che potremmo definire di «eterno presente».
Per chiarire meglio questo aspetto, ci soffermiamo ancora, brevemente, sul termine
neheh. Esso esprime la totalità del tempo dell’esistente, nel suo aspetto dinamico,
ciclico.117 Nella sua grafia geroglifica, questo termine è composto dal segno del sole
circondato da due corde doppiamente annodate che formano ciascuna tre anelli:118
Abbiamo rilevato che l’immagine della corda doppia è utilizzata nel Libro delle Porte
per indicare il tempo. I tre anelli potrebbero alludere ai differenti livelli della realtà,
intessuti di tempo. La presenza di due corde rimanderebbe, invece, alla natura duale
e simmetrica del cosmo. Seguendo questa interpretazione, potremmo dire che il
principio solare irradia la sua luce nella totalità spazio-temporale del creato. La luce
solare è sempre e ovunque. Se riteniamo, tuttavia, che neheh esprima un concetto
fondamentalmente dinamico, il tempo, allora, generato dall’incontro tra essere e non
essere, può essere pensato come il tessuto cosmico che tiene in movimento, e quindi
in vita, ciò che esiste, garantendogli un costante rinnovamento. In virtù di questo
meccanismo, il cosmo nel suo complesso e gli individui che si uniformano alla legge
che lo governa si mantengono nel «presente».
7. Maat, ritmo e coesione dell’esistente
Una delle scene più significative ed efficaci che troviamo raffigurate nei templi egizi è
l’«offerta della Maat». Il faraone offre agli dei una piccola immagine di dea
accovacciata, che porta, come suo attributo caratteristico, una piuma di struzzo sulla
testa. La nozione di «Maat», come hanno chiarito le ricerche di alcuni egittologi,
costituisce il trait d’union di tutti i contenuti principali in cui si articola la
117
Cfr. J. Assmann, La notion d’éternité dans l’Égypte ancienne, cit., pp. 116 sgg. Cfr. anche S. Bickel, Temps
liminaires, temps meilleurs? Qualifications de l’origine et de la fin du temps en Égypte ancienne, in V. PirenneDelforge, Ö. Tunca (a cura di), Représentations du temps dans les religions, cit., pp. 44 sg.
118
Questa che riportiamo è una delle varianti grafiche del termine.
46
speculazione egiziana.119 Questo concetto può, quindi, fornirci un’importante chiave
per una comprensione più approfondita della cultura dell’antico Egitto.
Maat
(mAat), oltre a essere il nome di una dea, è un termine della lingua
egiziana che il celebre Wörterbuch der aegyptischen Sprache curato da Erman e
Grapow traduce das Rechte (la giustizia) o die Wahrheit (la verità).120 Nella prima
metà del XX secolo, infatti, l’egittologia interpretava questa nozione più che altro in
senso etico. Successivamente si è affermata una nuova interpretazione che identifica
Maat con l’«ordine cosmico». Curiosamente questa idea è maturata in un contesto
«filosofico» e solo in seguito è stata recepita dagli egittologi.
Negli anni Venti del secolo scorso, Ernst Cassirer parlava già di Maat come
dell’«ordine universale». Nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche
leggiamo, infatti: «Il nome che indica la misura perfettamente esatta e immutabile
(maat) diventa anche qui il nome per designare l’ordine eterno ed immutabile che
regna nella natura come nei costumi. Questo concetto della “misura”, nel suo duplice
significato, è stato perfino indicato quale base dell’intero sistema religioso degli
Egizi».121
Anche Jaspers riprende la nozione di Maat nell’opera Origine e senso della storia. In
questo contesto, Jaspers introduce il concetto di «età assiale» (Achsenzeit) per
indicare l’epoca storica più lontana nel passato nella quale possiamo ancora trovare le
tracce del nostro universo intellettuale. Questo spartiacque culturale, come abbiamo
già rilevato nell’introduzione, si situerebbe intorno al 500 a.C. (più o meno trecento
anni). Con l’età assiale, secondo il filosofo, si genera una tensione tra l’ordine
trascendente e la realtà del mondo. Prima di questa svolta storica, invece, veniva
concepito un unico ordine immanente: l’ordine cosmico, cioè Maat. L’Egitto appare,
dunque, a Jaspers come un mondo opposto al nostro, come il modello di una civiltà
«preassiale».122
Attualmente questo orientamento nei confronti di Maat è accolto anche dagli
egittologi. Nel recente dizionario della lingua egiziana di Rainer Hannig, alla voce
119
In proposito, cfr. J. Assmann, Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, cit. Cfr. anche B.
Menu, Maat. L’ordre juste du monde, Éditions Michalon, Paris 2005.
120
Cfr. Wb, II, pp. 18 sgg.
121
E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. II, Il pensiero mitico, trad. it. di E. Arnaud, La Nuova Italia,
Firenze 1964, p. 164.
122
Sul concetto di «età assiale» cfr. K. Jaspers, Origine e senso della storia, cit., pp. 19 sgg.
47
maat, accanto alle classiche traduzioni Gerechtigkeit e Wahrheit troviamo, infatti, il
termine Weltordnung (ordine universale).123
Maat è una concezione antichissima che risale alle origini della storia egiziana.124
Durante l’Antico Regno la ritroviamo, per esempio, nei Testi delle Piramidi:
«Il cielo è in pace e la terra è in gioia, dopo che essi hanno appreso che Neferkara
offrirà Maat al posto di Isefet».125
In quanto principio normativo di un cosmo duale, Maat è essa stessa duplice:
«Shu ha giudicato Unis con Tefnet, le due Maat hanno ascoltato, Shu era testimone e
le due Maat hanno ordinato di consegnargli i troni di Geb […] che Unis salga verso
Maat, affinché egli possa condurla con lui».126
Maat è espressione di due ordini distinti ma complementari: quello celeste o
ultraterreno e quello terreno. Questa divinità si manifesta, infatti, «in due persone
diverse (interpretate anche come i due occhi di Ra, sole e luna) ma della stessa
essenza, come due sorelle gemelle».127
Nelle fonti dell’Antico Regno, tuttavia, si parla di Maat come di un concetto ben
conosciuto, che non è necessario spiegare. Si tratta cioè di un elemento implicito, che
si sottrae a una tematizzazione completa, in quanto è già visibile in modo evidente
nell’agire del re. Questi, infatti, rappresenta l’istituzionalizzazione e l’incarnazione
della legge cosmica.128 Con la caduta della monarchia dell’Antico Regno questa
evidenza viene meno e la nozione di Maat, divenuta problematica, viene tematizzata.
I testi in cui questa concezione viene maggiormente esplicitata sono quelli conosciuti
sotto il nome di «letteratura sapienziale». Alcuni di questi testi assumono la forma di
un insegnamento impartito da un padre ormai prossimo alla morte al proprio figlio.
Lo scopo degli insegnamenti è quello di illustrare un comportamento conforme alla
Maat. Altri testi, invece, impostati come dei lamenti, descrivono un mondo privo di
Maat, per dimostrare la necessità di quest’ultima.
123
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 335.
124
In proposito, cfr. B. Menu, Maat. L’ordre juste du monde, cit., pp. 15 sgg.
125
Pyr, 1775 a-b. Isefet, menzionata nel passo, è il «disordine», l’esatto opposto di Maat.
126
Pyr, 317 a-c; 319 b.
127
B. Menu, Maat. L’ordre juste du monde, cit., p. 11.
128
Il sovrano è il garante della giustizia terrena; egli «conferma» (smn), pertanto, l’insieme delle norme che
regolano il complesso delle attività sociali. Non si è a conoscenza, tuttavia, dell’esistenza di un codice legislativo
anteriore a quello redatto in età tarda, per iniziativa di Dario I. Precedentemente all’istituzione di questo codice, le
regole del diritto sono distribuite nell’ambito di più fonti, di carattere liturgico, amministrativo e giuridico.
L’insieme di tutti i regolamenti viene denominato hepu (hpw), termine che sembra essere desunto dal linguaggio
dei geometri, che utilizzano una corda-hep per effettuare misurazioni. In proposito, cfr. ibid., pp. 62 sgg.
48
Tra gli insegnamenti, Bernadette Menu segnala, in particolare, le Massime di
Ptahhotep. Secondo l’egittologa, infatti, in questo scritto sarebbe esposta una «teoria
della Maat» che illustrerebbe il comportamento sociale che si confà a un dignitario
chiamato a esercitare delle funzioni importanti.129
Tra i lamenti c’è, invece, un’opera conosciuta come L’oasita eloquente che, secondo
Assmann, costituisce un vero e proprio Trattato su Maat. A un certo punto della
narrazione leggiamo:
«Non c’è ieri [sf] per il pigro! Non c’è amico per chi si è mostrato sordo a Maat! Non
c’è giorno felice per l’avido!».130
Nella pigrizia, nella sordità mentale e nell’avidità Assmann individua i tre elementi
opposti a Maat. La pigrizia si manifesta come mancanza di azione. Il kosmos egiziano
è, invece, dinamico nella sua essenza ed esige che ogni ente si uniformi al suo
movimento. Il compito dell’uomo è quello di contribuire al buon funzionamento
dell’«ingranaggio dell’agire», mantenendo il passato nel presente. Ciò che valeva ieri
deve valere anche oggi. In altri termini, l’azione non deve essere improvvisata, ma
deve mostrare coerenza e continuità relativamente al contesto in cui è inserita.
Questo aspetto viene ribadito dall’oasita in un altro passo del testo:
«Ma è al suo posto di ieri che una buona azione ritorna sempre! E’ come ordinare a se
stessi: “Agisci in favore di colui che agisce, per far sì che egli agisca!” E’ come
ringraziare un dio, per ciò che egli realizza!».131
Agire per colui che agisce significa realizzare Maat. Il pigro dimentica lo «ieri» e così
facendo spezza il legame tra l’azione e le sue conseguenze. Un tale atteggiamento
provoca la disgregazione del mondo sociale. Scrive Assmann: «L’agire solidale
presuppone una memoria sociale, ossia un orizzonte di motivazioni che non si
costituisce sempre di nuovo di giorno in giorno secondo gli interessi del momento,
ma che risale al passato, che include ieri e oggi e che ricollega l’oggi allo ieri. Questo si
chiama l’agire pienamente responsabile nel senso di Maat».132 Come il contrario della
pigrizia è l’agire, il contrario della sordità mentale è l’ascolto o, più in generale il
linguaggio. La parola per l’uomo egiziano è un veicolo di vita e d’integrazione sociale.
129
Cfr. ibid., pp. 25 sgg.
130
L’Oasita eloquente, B2, 109-111; la trad. si basa su quella francese di P. Grandet, in Id. (a cura di), Contes de
l’Égypte ancienne, Khéops, Paris 2005, p. 62. Per il testo geroglifico, cfr. R. B. Parkinson (a cura di), The tale of
the eloquent peasant, Griffith Institute, Ashmolean Museum, Oxford 1991.
131
Ibid., B1, 140-141, in Contes de l’Égypte ancienne, cit., p. 50.
132
49
J. Assmann, Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägypten, cit., p. 62.
Il discorso vivificante e solidale per eccellenza è Maat. Chi è sordo alla parola di Maat
è escluso dalla vita. L’avidità, infine, in quanto mancanza di condivisione e
isolamento egoistico, è un ulteriore fattore di disgregazione sociale. L’importanza
dell’ascolto e della generosità nei confronti degli altri viene posta in risalto anche
dalle Massime di Ptahhotep.
L’ordine universale che regge tutto l’esistente, per l’Egiziano, si deve declinare nella
struttura della società umana e nel comportamento dei singoli individui. In questo
contesto, l’elemento temporale si rivela, a nostro avviso, ancora una volta decisivo.
Se, infatti, il movimento che anima il cosmo si configura anzitutto in senso
temporale, Maat, allora, è il ritmo che scandisce lo scorrere del tempo, mantenendo
lo ieri nell’oggi. Questo aspetto richiama il concetto di «eterno presente» delineato
nel paragrafo precedente e, di conseguenza, il termine neheh. Le parole dell’oasita
sembrano confermare questa lettura:
«Tuttavia Maat è per l’eternità [nHH]! Con colui che la pratica, essa discende nella
necropoli. Egli è sepolto, la terra si è richiusa su di lui, ma non si può cancellare il suo
nome quaggiù: lo si ricorda a proposito del bene, perché è un modello della parola
divina!».133
Il termine tradotto in questo passo con «eternità» è proprio neheh. Rileviamo,
inoltre, che nei Testi dei Sarcofagi alla dea viene attribuito l’appellativo di «signora
dell’eternità-neheh» (nbt nHH).134 Maat dona l’eternità, intesa come «eterno presente»,
a colui che in vita si è uniformato a lei. Il nome del defunto che ha realizzato Maat
«vibra», infatti, con lo stesso ritmo del creato. E il nome per gli egiziani è ciò che
garantisce la sopravvivenza dell’identità personale. L’individuo diventa, così,
specchio dell’ordine cosmico, inserendosi a pieno titolo nella dimensione dell’eterno
presente. Le azioni non in sintonia con Maat non hanno durata; esse possono portare
solo a un risultato temporaneo e perciò sostanzialmente vano:
«Ma, se la menzogna si mette in marcia, si smarrisce; non può attraversare con il
traghetto né andare spedita! Colui che si arricchisce con essa non ha né figli né eredi
sulla terra! Colui che naviga con essa non può toccare terra, né la sua imbarcazione
può ormeggiarsi al proprio porto!».135
133
L’Oasita eloquente, B1, 338-342, in P. Grandet (a cura di), Contes de l’Égypte ancienne, cit., p. 60.
134
Cfr. CT, VII, 175 b.
135
L’Oasita eloquente, B2, 98-103, in P. Grandet (a cura di), Contes de l’Égypte ancienne, cit., pp. 61 sg.
50
Nella «confessione negativa» contenuta nel Libro dei Morti il defunto nega tutte
quelle azioni che si riferiscono non a Maat, ma al suo contrario, Isefet, il
«disordine».136 Allo stesso modo, il compito più alto del faraone e dell’istituzione
statale è quello di rendere il mondo abitabile, realizzando l’ordine armonico di Maat e
allontanando Isefet. Nella tomba tebana di Neferhotep, leggiamo:
«Oh Ra, generatore di Maat, è a lui che la si offre. Poni Maat nel mio cuore [jb],
affinché io la faccia salire al tuo ka, poiché so che tu vivi d’ella e che sei tu che hai
creato il suo corpo [Dt]».137
Maat proviene dal dio demiurgo e a lui ritorna sotto forma di offerta. Questo «cerchio
sacrificale» è il principio di coesione dell’esistente. L’offerta della Maat rappresenta la
risposta umana al principio primo solare e alle sue ipostasi divine. Osserva Hornung:
«Gli dei non hanno bisogno di nessuna offerta materiale, ma della risposta dell’uomo
alla loro esistenza […] La mancanza di risposta e il silenzio sono caratteristiche del
non esistente, mentre a ciò che esiste appartiene il dialogo vivente e ininterrotto tra
dio e l’uomo».138 Il faraone, rappresentante dell’umanità, e gli dei, offrendosi
reciprocamente Maat, condividono lo stesso «cuore» e lo stesso nutrimento e in
questo modo partecipano della stessa temporalità neheh.
8. Ontologie a confronto: un quadro sintetico
Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di fare emergere quelli che ci sembrano i
punti chiave del pensiero ontologico egiziano e di delineare in sintesi la visione del
mondo che ne consegue. Abbiamo individuato nelle nozioni di dualismo,
complementarietà e movimento i punti di riferimento essenziali attorno ai quali si
organizza questa speculazione. Il kosmos egiziano è per sua natura duale e si regge
sulla complementarietà degli opposti. L’esistente, tuttavia, non può sussistere
indipendentemente dal non esistente. La dualità si ripropone, quindi, in modo ancora
più radicale. Dall’interazione tra ciò che è e ciò che non è scaturisce il movimento e la
possibilità per il kosmos di rinnovarsi periodicamente. Secondo la nostra lettura della
«filosofia» egiziana, il movimento che anima l’esistente si configura anzitutto in
136
137
Cfr. Libro dei Morti, cap. 125.
La trad. segue quella tedesca di J. Assmann, in Id., Ma’at, Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten
Ägypten, cit., p. 191. Per il testo geroglifico, cfr. N. de G. Davies, The tomb of Nefer-hotep at Thebes, New York
1932, tav. 37.
138
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 193.
51
senso temporale. Il «ritmo» di questa temporalità è Maat, ordine e principio di
coesione universale.
Abbiamo iniziato la nostra indagine richiamando alcuni elementi essenziali
dell’ontologia greca, allo scopo di inquadrare meglio il problema. Alla luce delle
analisi sviluppate, vorremmo rivolgerci di nuovo al mondo greco, per calibrare
ulteriormente la nostra prospettiva sul pensiero egiziano. Avevamo già sottolineato la
divergenza di fondo tra l’impostazione parmenidea e quella egiziana. Che cosa
emerge, invece, da un confronto schematico tra le posizioni ontologiche di Platone e
Aristotele, ben più articolate e strutturate di quella di Parmenide, e le concezioni
dell’antico Egitto?
Platone si sforza di offrire un’analisi del concetto di «non essere» mediante la quale
esso possa avere diritto di cittadinanza nell’ambito di una riflessione ontologica. Il
filosofo associa il non essere al genere «diverso». L’essere, partecipando di questo
genere, può, così, presentarsi come molteplice. All’interno della sfera dell’essere si
possono distinguere due regioni: il mondo intelligibile e quello sensibile. Queste due
regioni, tuttavia, non costituiscono i termini complementari in cui si manifesta
l’intero. Il mondo sensibile è, infatti, soltanto una copia o un’«imitazione» (mivmhsi~)
del mondo delle idee. Si tratta di una realtà intermedia tra il «vero essere» e il non
essere assoluto. Di questa realtà che partecipa dell’essere e del non essere non può
esserci «scienza» (ejpisthvmh), dal momento che solo «ciò che pienamente è, è
pienamente conoscibile».139 Il diverso valore ontologico degli oggetti che popolano la
sfera dell’essere si riflette, dunque, sul piano conoscitivo:
«Se quindi la conoscenza si riferisce all’essere, e l’ignoranza al non essere, per ciò che
è e non è dovremmo trovare un medio fra l’ignoranza e la scienza, se pure esiste una
simile cosa?»140
La forma di conoscenza che si riferisce alla realtà sensibile è l’«opinione» (dovxa).
Anche in un altro contesto, Platone ribadisce la differenza tra «l’essere [on] che
sempre è e che non ha nascimento» e «quello che sempre si genera e mai non è».141 Il
mondo sensibile conosce generazione e corruzione; le idee sono, al contrario, modelli
eterni, ingenerati e incorruttibili.
139
Platone, Repubblica, 477 a, trad. it. di F. Adorno, in Id., Dialoghi politici, lettere, vol. I, Utet, Torino 1970.
140
Ibid., 477 a-b.
141
Platone, Timeo, 27 d, trad. it. di F. Adorno, in Id., Dialoghi politici, lettere, vol. I, cit.
52
Il tempo che scorre è un attributo del mondo sensibile; esso viene definito nel Timeo
«un’immagine mobile dell’eternità» (kinhtovn tina aijw`no~).142 L’eternità del vero
essere, della dimensione delle idee, si riflette, dunque, nella «durata», ossia nel ritmo
di passato, presente e futuro, scandito dal moto degli astri. Il tempo ha un’origine, ma
probabilmente non una fine, in virtù della sua somiglianza con l’eternità:
«Il tempo, dunque, ebbe origine insieme al cielo, sì che generati insieme, anche
insieme si dissolvano, se mai debbano dissolversi, ed è sul modello dell’eterna natura
che è stato fatto, di modo che, quanto più è possibile, le somigli. E poiché il modello è
per tutta l’eternità, il cielo per tutto il tempo è esisitito, esiste ed esisterà».143
Nella speculazione egiziana il mondo celeste (o quello della duat) è considerato più
perfetto di quello terreno; tuttavia, l’intero esistente è «generato» e soggetto alla
corruzione. Non viene postulata una dimensione nettamente privilegiata. Il dio
demiurgo degli Egizi, infatti, pone in essere tutti gli enti, inserendoli allo stesso modo
nel ciclo vita-morte. Anche gli dei sono generati e «mortali». Soltanto il non essere
non è soggetto alla generazione e alla corruzione, poiché in esso non c’è movimento.
Il dio creatore della teologia eliopolitana, Atum, si autogenera nell’abisso primordiale
del Nun. Egli partecipa dell’essere e del non essere e, secondo quanto afferma il Libro
dei Morti, insieme a Osiri
sopravvivrà alla creazione, sotto diversa forma.144
L’esistente è finito, nello spazio e nel tempo, ma il suo germe si mantiene nel Nun.
Nella filosofia di Aristotele il mondo sensibile assume anch’esso il rango di vero
essere. Per questa ragione, al cosmo viene attribuita quella stessa eternità che
caratterizzava l’Iperuranio platonico. Il mondo aristotelico non ha mai avuto inizio e
non avrà mai fine. Sono eterne le sfere celesti, costituite da etere, e sono eterne le
specie degli esseri viventi che popolano la terra. Il tempo è una proprietà del
movimento, che caratterizza la realtà sensibile. Esso è continuo come il movimento;
nel continuo si distinguono il «prima» e il «poi»; di qui la celebre definizione del
tempo come «il numero del movimento secondo il prima e il poi».145 Come il mondo,
anche il tempo non ha né origine né fine.
Lo Stagirita distingue molti significati di «essere», irriducibili a un unico genere.
Questi significati non denotano, tuttavia, i livelli di una stessa realtà che degrada
142
Ibid., 37 d.
143
Ibid., 38 b-c.
144
Cfr. Libro dei Morti, cap. 175.
145
Cfr. Aristotele, Fisica, IV, 11, 219 a, 10 – b, 8.
53
verso il non essere. Si tratta di aspetti qualitativamente differenti, dei quali l’essere si
predica sempre a pieno titolo. Essi hanno il loro centro unificatore nella categoria di
«sostanza» (oujsiva). Nella metafisica aristotelica, la sostanza gode, quindi, di un
primato ontologico rispetto agli altri significati di «essere»:
«l’essere in senso primario, ciò che non è un essere qualche cosa, ma è un essere in
senso assoluto, è la sostanza».146
Tra le sostanze esistenti, quelle immobili e immateriali, cioè i motori celesti,
detengono a loro volta un primato, poiché sono «atto puro».
Anche nel pensiero egizio, il mondo sensibile è essere a pieno titolo; esso partecipa
dell’esistente tanto quanto il mondo soprasensibile. Per un altro verso, tuttavia, la
prospettiva egiziana è capovolta rispetto a quella aristotelica. Per gli Egizi, infatti, ciò
che è «eterno» in senso assoluto non è l’esistente, bensì l’oceano oscuro del Nun.
Questa condizione primordiale la possiamo intendere come «potenza pura». Non
troviamo, invece, la concezione di una sostanza immobile che è eternamente in atto.
Lo stesso dio demiurgo, in quanto mediatore tra il non esistente e l’esistente,
partecipa necessariamente anche della «potenza».
Torniamo ancora all’ontologia platonica. In essa sono riscontrabili due cesure. Una è
presente all’interno di ciò che è: esiste una dimensione intelligibile che rappresenta il
«vero» essere e ce n’è un’altra sensibile che non è essere in senso pieno. L’altra viene
posta, invece, tra l’essere nella sua totalità e il non essere assoluto.
Nell’ontologia egiziana, il rapporto tra le differenti regioni dell’essere e quello tra
essere e non essere sono più flessibili; si tratta, infatti, di aspetti inscindibili di
un’unica realtà. Il non essere «assoluto», inoltre, è un concetto ambivalente: da un
lato rappresenta l’indifferenziato, ciò che è immobile e privo di qualsiasi attributo,
dall’altro è l’oceano primordiale che contiene in potenza il seme dell’essere. Questa
ambivalenza, come abbiamo visto precedentemente, si riversa nel rapporto tra
esistente e non esistente. Quest’ultimo costituisce, infatti, per tutto ciò che è sia un
elemento distruttivo, «corrosivo», sia una possibilità di rinnovamento e di
rigenerazione.
All’interno dell’esistente, la dimensione invisibile o «divina» e quella terrena sono
complementari. Gli uomini necessitano dell’intervento degli dei, ma la sfera divina, a
sua volta, ha bisogno della risposta degli uomini. E’ il «cerchio sacrificale» di cui
146
54
Aristotele, Metafisica, VII, 1, 1028 a, 30-31.
abbiamo parlato. E’ la legge di Maat che mantiene in vita il creato. Questa legge di
armonia toglie ogni attrito e ogni iato tra le parti dell’esistente. Nel kosmos egiziano
gli dei hanno pari dignità. E’, infatti, una caratteristica della teologia egiziana
l’attribuzione dell’appellativo «dio più grande» agli dei più diversi. Anche dei di
importanza puramente locale possono ricevere questo appellativo. «Nel caso di Atum
– afferma Hornung – sappiamo che presenta caratteristiche speciali come creatore
del mondo e dio originario e che partecipa del non esistente, ma non è in nessun
modo un dio sopra e dietro le altre divinità. “Il più grande” è senz’altro un antico e
importante appellativo di Atum, ma già nell’Antico Regno anche altri dei rivendicano
il diritto di essere “i più grandi”».147 La medesima pari dignità accomuna, per gli
Egizi, anche gli uomini, almeno a partire dal Medio Regno.
Uno dei più celebri studiosi della cultura greca, Werner Jaeger, ha sostenuto che
l’idea di uomo è stata scoperta dai Greci, perché essi hanno scoperto la paideia,
l’educazione dei fanciulli. La paideia consiste essenzialmente nel proporre un
modello universale di uomo che deve essere progressivamente realizzato: «I Greci
[…] rappresentano rispetto ai grandi popoli storici dell’Oriente un “progresso”
radicale, un nuovo “grado” in tutto ciò che concerne la vita dell’uomo nella comunità.
[…] la storia di ciò che possiamo chiamare cultura, nel nostro senso consapevole, non
comincia che coi Greci».148
Le tesi hegeliane forniscono indubbiamente un supporto a questa concezione. Hegel
ha affermato che la differenza tra il mondo greco e quello orientale antico consiste
nella scoperta della libertà. Quest’ultima è ciò che caratterizza l’uomo e lo distingue
dagli altri animali. La scoperta della libertà corrisponde, quindi, alla scoperta
dell’idea di uomo. E’ per questo motivo, secondo Hegel, che la filosofia nasce in
Grecia, poiché c’è filosofia solo dove c’è libertà:
«la più alta e più libera scienza filosofica, come pure la nostra bella e libera arte e il
gusto e l’amore di esse, noi sappiamo che hanno le loro radici nella vita greca, al cui
spirito si sono abbeverate. Se fosse permesso avere una nostalgia, questa si
volgerebbe a siffatto paese e alla sua civiltà».149
147
148
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 167 sg.
W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. I, trad. it. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1936,
p. 3.
149
G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia,
Firenze 1973, p. 168. Hegel riconosce, tuttavia, che in Grecia l’uomo è libero non in quanto uomo, ma in quanto
greco o in quanto cittadino. Questa è la differenza, secondo il filosofo, tra la civiltà greca e quella «cristianogermanica».
55
In Egitto, tuttavia, durante il Medio Regno, ossia almeno un millennio prima della
nascita del mondo culturale greco, viene proclamato quello che potrebbe definirsi
«un programma egiziano di “libertà, uguaglianza, fraternità”».150 In un famoso passo
dei Testi dei Sarcofagi, infatti, il dio demiurgo afferma:
«Io ho compiuto quattro buone azioni all’interno del portico dell’orizzonte. Ho creato
i quattro venti, affinché ogni uomo potesse respirare nel suo tempo. Questa è una
delle azioni. Ho creato la Grande Inondazione, affinché l’umile potesse avere lo stesso
potere del grande. Questa è una delle azioni. Ho creato ogni uomo come il suo
compagno, senza che fosse deciso che essi potessero fare il male [jsft]: sono i loro
cuori [jbw] che hanno infranto ciò che avevo detto! Questa è una delle azioni. Io ho
fatto che i loro cuori [jbw] cessassero di dimenticare l’Occidente, allo scopo di
preparare delle offerte divine agli dei dei nômi. Questa è una delle azioni».151
L’ontologia egiziana postula, dunque, un sostanziale equilibrio tra le parti
dell’esistente. Lo stesso ordine che regola la sfera divina è anche l’unità di misura
dell’agire umano, che rende gli uomini simili tra loro. Maat non è mai l’espressione
degli interessi di un singolo gruppo. Essa si pone al di là dell’ordine sociale, legando
tra loro tutti gli esseri del creato. L’uomo, da parte sua, dispone di un notevole grado
di libertà; egli può scegliere se conformarsi all’ordine cosmico o contravvenire a esso.
Chi non agisce secondo Maat, però, si avvicina all’aspetto negativo e distruttivo del
non esistente. Per quale motivo un uomo sceglie di allontanarsi dall’ordine
armonioso del creato? Si potrebbe rispondere: per «miopia». Secondo i Testi dei
Sarcofagi, infatti, gli uomini nascono dalle lacrime del dio creatore:
«Le lacrime [rmyt] sono ciò che ho prodotto a causa del tumulto contro di me. Gli
uomini [rmT] appartengono alla cecità che è dietro di me».152
Questa enunciazione si fonda sull’assonanza di due parole:
remyt
remet
(rmyt), lacrima, e
(rmT), uomini, umanità.
Nella Litania del sole, una delle forme di manifestazione del dio Ra viene chiamata
150
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 177.
151
CT, VII, 462d-464f.
152
CT, VI, 344 f-g. Cfr. anche ibid., VII, 465 a.
56
remy
(rmy), il piangente.
Poiché gli uomini provengono dagli occhi appannati del demiurgo, essi, per natura,
non vedono chiaramente le cose. Questo deficit visivo, e quindi conoscitivo, può
essere, tuttavia, colmato. Chi non è così miope da allontanarsi definitivamente dalla
legge di Maat ha la possibilità, dopo la morte, di diventare un akh, un «trasfigurato»,
e di condividere, oltre al luogo, anche la visione limpida degli dei.
57
CAPITOLO II
L’INDIVIDUO COME RETE DI RELAZIONI
Nel capitolo precedente abbiamo delineato in sintesi la visione del mondo sviluppata
nel corso della storia dell’Egitto faraonico. Il cosmo è il risultato di una
differenziazione: dalla distesa unitaria e informe delle acque primordiali del Nun
emerge un principio demiurgico, virtualmente contenuto in essa, che opera il
passaggio dal non esistente all’esistente. Abbiamo posto l’accento sul fatto che il
mondo nel suo complesso, divino e umano, manifesta la struttura di un corpo, ossia
di un insieme dinamico di membra cooperanti. Alla luce di quanto rilevato,
rivolgeremo ora la nostra attenzione a una sfera più circoscritta. L’ambito in
questione è quello che potremmo definire «antropologico». Ci occuperemo, dunque,
della concezione egiziana dell’essere umano in generale e della sua dimensione
corporea.
Come evidenzieremo meglio in seguito, il «filosofo» egiziano avverte la necessità di
disporre di una pluralità di linguaggi per veicolare in modo adeguato i contenuti di un
mondo che si manifesta molteplice e dinamico e, pertanto, irriducibile a una
codificazione rigida e schematica. Nel suo divenire, tuttavia, la realtà segue un
ordine; essa, infatti, è la risultante di una rete di relazioni che articola e organizza gli
enti che la compongono, rendendoli complementari e commensurabili tra loro.
L’essere umano, parte integrante del cosmo, ne condivide la stessa natura. Il binomio
«anima – corpo» o, in termini più moderni «mente – corpo», tuttora radicato nella
cultura occidentale, come vedremo, si rivela un modello inadatto a cogliere le
peculiarità della concezione egiziana della natura umana. Questo modello, di origine
greca, ha alimentato un’antropologia tendenzialmente ostile ai valori del corpo,
inteso come una res contrapposta a una dimensione più pura, di ordine mentale o
spirituale. In epoca contemporanea, un tentativo controcorrente di grande rilevanza è
rappresentato, in ambito filosofico, dalla fenomenologia. Essa, proponendosi di
ritornare al «mondo della vita», ha rivalutato le ragioni del corpo e della soggettività
in generale, nel tentativo di superare il dualismo bimillenario e di arrivare a una
visione unitaria del fenomeno uomo nei suoi molteplici risvolti.
58
1. Il dualismo psicofisico e le sorti del corpo
Le indagini filosofiche orientate verso la sfera della soggettività umana e la
dimensione corporea si sono sviluppate per secoli nel solco del dualismo psicofisico
apparso intorno alla metà del I millennio a.C. all’interno delle correnti orfica e
pitagorica e codificato successivamente da Platone.
Secondo i Misteri orfici, l’esistenza umana si snoda attorno a due elementi opposti:
anima e corpo. L’anima è un principio divino (daivmwn) che è costretto a rivestirsi di
un corpo mortale a causa di una colpa originaria e a reincarnarsi in corpi successivi,
fino a quando, seguendo un iter palingenetico, non sarà riuscito ad affrancarsi dal
ciclo delle reincarnazioni. Una concezione analoga emerge anche dai frammenti del
pitagorico Filolao.153
Platone nel Cratilo riassume la concezione orfica in questi termini: «Alcuni lo dicono
[il corpo] sh`ma (tomba) dell’anima, in quanto nella vita presente essa vi è sepolta;
d’altra parte, poiché per mezzo di esso l’anima shmaivnei (significa) ciò che vuole
significare, anche sotto questo aspetto è chiamato correttamente sh`ma (segno). Mi
pare, tuttavia, che gli Orfici soprattutto abbiano posto questo nome, convinti che
l’anima sconti la pena delle colpe per le quali espia ed abbia questo involucro,
immagine di una prigione, affinché swævzhtai (si salvi): esso, dunque, come dice il
nome stesso è sw`ma (custodia) dell’anima, finché essa non abbia scontato i suoi
debiti. E non bisogna neppure mutare una lettera».154
Anche il Gorgia ripropone il gioco di parole tra corpo (sw`ma) e tomba (sh`ma),
accennando anche a una suddivisione dell’anima stessa in parti più o meno «pure».155
In questo contesto, Platone non parla esplicitamente di un autore o di una corrente,
ma è probabile che si riferisca a Filolao o a Empedocle:
«Ho già sentito dire dai sapienti che noi ora siamo morti, che il nostro corpo [sw`ma] è
una tomba [sh`ma] e che questa parte dell’anima, nella quale risiedono i desideri, è
tale da obbedire ad essi e ne è quindi rivoltata in su e in giù. Un uomo raffinato, un
narratore di miti, forse un siciliano o un italico, giocando sulle parole, chiamò questa
parte, per il suo carattere credulo e facile alla persuasione [piqanov~], “botte” [pivqo~],
chiamò “insensati” [ajnovhtoi] i non iniziati [ajmuvhtoi] e rappresentò la parte
153
Cfr. Filolao, B 14-15.
154
Platone, Cratilo, 400 c, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol II, cit.
59
dell’anima degli insensati, nella quale risiedono i desideri, incontinente e incapace di
conservare nulla, come una botte forata, a causa del suo desiderio insaziabile».156
Nel Fedone, invece, il filosofo ateniese sancisce definitivamente la radicale scissione
dell’essere umano in due orizzonti inconciliabili, evidenziando la natura divina e
autonoma dell’uno e quella mortale e subordinata dell’altro: «“Noi stessi non siamo
forse in parte corpo [sw`ma] e in parte anima [yuchv]?” “Nient’altro”».157 Poco oltre il
discorso prosegue: «Quando l’anima e il corpo sono insieme, la natura prescrive
all’uno di servire ed essere dominato, all’altra di comandare e dominare. Anche sotto
questo aspetto, quale dei due ti pare simile al divino e quale al mortale? Non ti pare
che il divino per natura sia tale da comandare e dirigere e il mortale da essere
comandato e servire? […] A quale dei due, dunque, l’anima somiglia?».158 La risposta
è scontata: «E’ chiaro, Socrate, che l’anima somiglia al divino, il corpo al mortale»159.
Questo modello concettuale individua nell’anima o, se vogliamo, nell’io razionale il
fulcro dell’esistenza autentica, ossia di quell’esistenza che, affrancandosi il più
possibile dal mondo sensibile, è in grado di protendersi verso la luminosa regione
della «verità».160
Per poter esprimere pienamente la sua natura, l’anima deve liberarsi dalla «follia del
corpo» (th`~ tou` swvmato~ ajfrosuvnh~),161 attraverso la morte o l’esercizio di morte:
«Finché abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata con questo male, non
raggiungeremo mai pienamente ciò che desideriamo, la verità. […] se intendiamo
conoscere con purezza qualcosa, dobbiamo liberarci da esso e contemplare con
l’anima in se stessa le cose in se stesse. Solo allora, a quanto pare, avremo ciò che
desideriamo e diciamo di amare, l’intelligenza: quando saremo morti, come dimostra
il nostro discorso, non in vita»162.
Il corpo, dunque, concepito nel Fedone come una materia inerte e non come una
dimensione vivente, non rappresenta per l’uomo un’apertura sul mondo. Esso,
155
La questione della suddivisione dell’anima è affrontata da Platone in particolare nella Repubblica, nel Fedro e
nel Timeo.
156
Platone, Gorgia, 493 a-b, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, Utet, Torino 1970.
157
Platone, Fedone, 79 b, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, cit.
158
Ibid., 79 e - 80 a.
159
Ibid., 80 a.
160
La vera essenza dell’uomo è costituita per Platone dalla parte razionale dell’anima, di natura divina. Nel
Timeo, il filosofo afferma che delle tre parti in cui si suddivide l’anima solo quella razionale è immortale (cfr.
Timeo, 69 c – 70 a).
161
Platone, Fedone, 67 a.
162
60
Ibid., 66 b-e.
ridotto a mero oggetto tra gli oggetti, risulta essere soltanto un ostacolo sul sentiero
della conoscenza che percorre l’anima, una zavorra dalla quale il «filosofo» deve
cercare di liberarsi con tutte le sue forze. Infatti, colui che durante la vita aspira al
sapere sarà coronato da successo solo nella misura in cui avrà a che fare il meno
possibile con il corpo e non si lascerà contaminare dalla sua natura.163
La mortificazione del corpo va incontro a una decisiva radicalizzazione con la filosofia
cartesiana e con la nascita del sistema delle scienze moderne. In questo contesto, il
corpo, lungi dall’essere un soggetto che si apre al mondo e lo esplora attraverso i suoi
canali sensibili, è una res extensa. Si tratta, pertanto, di una «cosa astratta», in
quanto il concetto di res extensa è un’astrazione geometrica. La materia di cui tutti i
corpi sono costituiti, infatti, è intesa da Cartesio come la pura estensione oggetto
della geometria, divisibile all’infinito e suscettibile di assumere tutte le figure
immaginabili. L’anima, completamente indipendente dal corpo, è invece pura mens e
costituisce l’unico attributo essenziale della natura umana.
Leggiamo nelle Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima: «Siccome osservo che
nessun’altra cosa appartiene necessariamente alla mia natura o alla mia essenza,
tranne l’essere una cosa pensante, concludo che la mia essenza consiste in ciò solo:
che io sono una cosa pensante o una sostanza la cui essenza e natura è soltanto quella
di pensare»164. Essendo la natura umana puro intelletto, l’uomo e il mondo possono
ricevere un senso solo dalle cogitationes indubitabili dell’ego, unica vera bussola per
orientarsi nel mare dell’esperienza sensoriale che accompagna la nostra vita
quotidiana. Il corpo di cui parla Cartesio, dunque, è un prodotto dell’intelletto e non
un corpo in carne e ossa, senziente e vivente.
Le scienze moderne, derivando il loro modello concettuale da questo schema
dicotomico, non riconoscono al corpo umano altro statuto se non quello dell’oggetto.
Assolutizzando l’oggettività, il sistema delle scienze ha rotto i ponti con la soggettività
e con il mondo della vita, che sono pur sempre il suo luogo di origine. Ciò è quanto
denuncia Husserl nel saggio La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale e, più in generale, l’intero movimento fenomenologico.
Anche la tradizione giudaico-cristiana, che accanto al pensiero greco costituisce
l’altra grande fonte storica della filosofia occidentale, in origine è sostanzialmente
163
164
Cfr. Ibid., 67 a.
R. Descartes, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, vol. II, trad. it. di A. Tilgher,
riv. da F. Adorno, Laterza, Bari 1986, Sesta meditazione, p. 72.
61
estranea al dualismo di anima e corpo. Secondo alcuni studi di filologia biblica, fu la
traduzione
greca
dei
Settanta
che
introdusse nell’antropologia
biblica
la
contrapposizione tra quelle entità che la tradizione greca e quella latina chiamarono
corpo, anima e spirito: «Quando le parole principali più frequenti vengono di regola
tradotte con “cuore”, “anima”, “carne”, e “spirito”, si producono in questo modo
malintesi carichi di conseguenze. Essi risalgono già alla traduzione greca antica dei
LXX, e fecero deviare su una antropologia dicotomica o tricotomica, nella quale il
corpo, l’anima e lo spirito vengono concepiti in contrasto tra loro. Resta da provare
come qui con la lingua greca una filosofia greca abbia stravolto e accantonato
concezioni biblico-semitiche. L’uso linguistico del Vecchio Testamento deve perciò
essere chiarito»165. La successiva speculazione patristica e scolastica si assoggetterà
all’impostazione greca e, in generale, al dualismo di anima e corpo, considerando la
vita una prerogativa esclusiva dell’anima e relegando il corpo nella sfera oscura di ciò
che è corruttibile e mortale.
2. Un modello antropologico arcaico
Prima di rivolgerci all’antropologia egiziana ci soffermeremo ancora sul mondo greco
e, nello specifico, sulla tradizione omerica. Tenteremo di mettere in evidenza un
modello antropologico arcaico, vigente ai primordi della cultura greca e oggi meno in
luce per noi rispetto al binomio anima-corpo. Da questo esame ricaveremo delle
categorie che, a nostro avviso, si riveleranno molto efficaci, per la loro forza euristica,
nell’affrontare la concezione egiziana dell’essere umano.
Nei poemi omerici le locuzioni sw`ma e yuchv sono già presenti, ma con un’accezione
alquanto differente rispetto a quella ad esse attribuita dalla filosofia platonica. Omero
si riferisce alla dimensione corporea con termini diversi a seconda delle circostanze e
dell’aspetto che, di volta in volta, si vuole mettere in risalto. Troviamo, per esempio,
la parola devma~ per designare la figura o la struttura corporea, crwv~ per indicarne la
superficie delimitata dalla pelle, ma in particolare si parla di gui`a e mevlea, ossia di
«membra». Ogni membro o aspetto corporeo non sembra essere concepito come un
oggetto o uno strumento, ma come una possibilità, espressione di un soggetto
vivente.
165
62
H. W. Wolff, Antropologia dell’Antico Testamento, trad. it. di E. Buli, Queriniana, Brescia 1975, p. 15.
Con la parola sw`ma Omero indica principalmente il «cadavere», quello che Husserl
chiama Körper, e non il corpo vivo nel suo complesso.166 Anche il termine yuchv lo
troviamo in riferimento al «cadavere» o all’essere umano che sta per morire, che sta
per emettere l’ultimo «respiro». Scrive Hermann Fränkel: «Non nella vita, bensì
soltanto nella morte (e nella perdita dei sensi) l’uomo omerico si scindeva in corpo e
anima. Egli si sentiva non una dualità spaccata, ma un sé unitario»167. La yuchv è il
«respiro» che è nell’uomo finché questi è in vita e che, tuttavia, non lo identifica.
Come precisa Max Pohlenz, «la psyché non coincide neppure con l’io dell’uomo»168;
coincidenza che, invece, è evidente nella filosofia platonica.
Di quale visione antropologica è latore, dunque, il mondo omerico? Partiamo dalla
dimensione corporea. Bruno Snell ha mostrato l’importanza del movimento e delle
articolazioni nella concezione omerica del corpo umano. La sua posizione trova una
conferma anche nel modo di rappresentare l’uomo proprio dell’arte greca arcaica,
nella quale le figure sono un insieme di «membra con forti muscoli, distinte le une
dalle altre da giunture fortemente accentuate. Certamente […] ha la sua parte anche
l’abbigliamento, ma ancor più importanza ha qui quel particolare modo di vedere le
cose in forma “articolata” che è proprio dei Greci di questa prima era».169 La realtà
corporea vera e propria nel linguaggio omerico è indicata soltanto dai plurali gui`a e
mevlea, dove il primo termine indicherebbe, secondo Snell, «le membra in quanto
vengono mosse dalle articolazioni», il secondo, invece, «le membra in quanto
ricevono forza dai muscoli».170
L’immagine della corporeità dell’uomo omerico che Snell propone è quella di una
pluralità articolata e mobile di membra che non riesce a formare, tuttavia, un
complesso organico e unitario. Quest’ultima circostanza, secondo lo studioso, sarebbe
166
Secondo un’opinione consolidata, il termine sw`ma in Omero sarebbe riferito esclusivamente al cadavere. R.
Renehan, tuttavia, ha rilevato che delle otto occorrenze di questo termine che troviamo nei poemi omerici due
sembrano essere utilizzate con riferimento a esseri viventi. Lo studioso fa notare, inoltre, che in Esiodo, autore
vissuto pressappoco nella stessa epoca di Omero, sw`ma è utilizzato senza ambiguità per connotare un corpo
vivente. La conclusione di Renehan è che «sw`ma significa in Omero ciò che esso significa più tardi – non “corpo
vivente” e non “corpo morto” ma “corpo” puro e semplice, senza connotazioni a priori né di vita né di morte».
L’assenza di esempi inequivocabili in cui il termine in questione sia usato per denotare corpi viventi si
spiegherebbe con il fatto che sw`ma indicherebbe il corpo inteso come «massa». Per riferirsi, invece, alla vitalità e
al movimento delle membra si ricorrebbe a vocaboli ed espressioni differenti. In proposito, cfr. R. Renehan, The
meaning of SWMA in Homer: a study in methodology, in California Studies in Classical Antiquity, 12 (1979), pp.
269 sgg. Sulla nozione di corpo nella Grecia antica cfr. anche B. Holmes, The Symptom and the Subject. The
emergence of the physical body in ancient Greece, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2010.
167
H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, Verlag C. H. Beck, München 1976, p. 84.
168
169
M. Pohlenz, L’uomo greco, trad. it. di B. Proto, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 16.
B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. di V. Degli Alberti, Einaudi, Torino 1951,
p. 29.
63
da addebitare a un deficit del pensiero greco arcaico, che non aveva ancora sviluppato
una coscienza del corpo tale da permettergli di concepirlo come unità compatta.171
L’aspetto che volevamo richiamare è comunque il concetto di «articolazione». Esso
riveste un ruolo di primo piano nell’antropologia omerica ma, come cercheremo in
seguito di mostrare, può rivelarsi anche un’utile e produttiva chiave di lettura della
concezione egiziana della sfera umana. Per meglio delineare i contorni della nozione
di articolazione, utilizzata in un contesto antropologico, e chiarirne lo statuto, ci
richiameremo ora alle ricerche di Guillemette Bolens che, come abbiamo anticipato
nell’introduzione, si è dedicata allo studio della concezione del corpo in Omero e nei
principali poemi della letteratura europea medievale.172
Prendiamo in considerazione il seguente passo dell’Iliade:
«E allora il figlio di Amarinceo, Diore, lo prese nel suo laccio destino di morte. Alla
gamba destra fu percosso da un macigno tutto a punte, vicino alla caviglia: e a
colpirlo era il condottiero dei Traci, Piroo figlio di Imbrasio, venuto da Eno. Tutt’e
due i tendini e le ossa gli sfracellò la pietra smisurata: e lui, Diore, cadde giù riverso
nella polvere tendendo le braccia ai suoi compagni, e già spirava. L’altro, Piroo, dopo
quel primo colpo gli corse sopra, e lo feriva con la lancia all’ombelico: fuori si
rovesciarono a terra tutte le budella, il buio l’avvolse agli occhi».173
La scena descritta è quella dell’uccisione di Diore, alleato degli Achei, da parte
dell’alleato dell’esercito troiano Piroo, durante una battaglia cruenta. A Diore
vengono inferti dall’avversario due colpi, che provocano due ferite di tipo differente.
La prima interessa una zona articolare, quella della caviglia, determinando la rottura
di tendini e ossa (tevnonte kai; ojsteva), la seconda, invece, perfora il ventre causando il
riversamento delle viscere. Diversamente da quanto ci si attenderebbe, il primo colpo
ha già un esito mortale: il guerriero, infatti, esala il suo qumov~ (qumo;n ajpopneivwn), il
che significa che la ferita in questione non lascia scampo.
170
Ibid., p. 27.
171
Secondo Fränkel, invece, l’uomo dei poemi omerici è essenzialmente unitario: «L’uomo omerico non è una
somma di corpo e anima, bensì un intero (Ganzes). Ma in questo intero, di volta in volta, possono manifestarsi
delle parti specifiche, o meglio, degli organi. Tutti i singoli organi sono espressione diretta della persona. Le
braccia sono un organo dell’uomo, non del corpo, allo stesso modo, il thymos (l’organo delle emozioni) è un
organo dell’uomo, non dell’anima. L’uomo intero è vivo ovunque, in modo identico; ogni attività che noi saremmo
portati a chiamare “spirituale” può essere ascritta a ciascuna delle sue membra» (Id., Dichtung und Philosophie
des frühen Griechentums, cit., p. 85).
172
Cfr. G. Bolens, La logique du corps articulaire, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2000.
173
64
Omero, Iliade, IV, 517-526, trad. it. di G. Tonna, Garzanti, Milano 1981.
Le due ferite menzionate nel passo citato rimandano a due distinti modelli di
corporeità. Bolens ha cercato di approfondire questi modelli, mostrando come essi si
fondino su logiche molto diverse. Secondo la studiosa, l’Iliade «veicola un sapere
anatomico che è trasmesso attraverso la descrizione di ogni ferita e la designazione
precisa delle parti lese».174 Da questa rassegna anatomica emerge una concezione del
corpo organizzata in funzione delle articolazioni. Si può parlare dunque di «corpo
articolare» (corps articulaire). In questo contesto, le ossa e i legamenti svolgono il
ruolo principale, tutto il resto è in qualche modo accessorio. Il corpo articolare si
contrappone nettamente al «corpo inviluppo» (corps-enveloppe), la cui peculiarità
essenziale è invece quella di essere un mero contenitore di organi, organizzato in
funzione degli orifizi (occhi, orecchie, narici, bocca, ombelico, ecc.). «Ciò che
determina la logica del corpo articolare è la nozione di giuntura, mentre la logica del
corpo inviluppo si definisce mediante una dialettica tra l’interno e l’esterno. Il corpo
articolare resta in vita fintantoché le ossa rimangono unite e i tendini svolgono il loro
ruolo di legami; il corpo inviluppo resta in vita fintantoché le viscere sono mantenute
all’interno grazie al rivestimento cutaneo».175
Le ferite inferte al corpo articolare lo colpiscono, quindi, sempre nei punti di giuntura
e ai tendini, come già emergeva dal passo dell’Iliade che abbiamo esaminato. Enea,
per esempio, viene colpito all’anca; l’avversario acheo «lo colse nel fianco, là dove la
coscia si lega all’anca, nel punto che chiamano il bacino. Glielo schiacciò, e gli ruppe
inoltre tutt’e due i tendini».176 Solo l’intervento divino di Afrodite evita la morte
dell’eroe. Ettore, invece, è colpito da Achille alla spalla e più precisamente «dove le
clavicole separano il collo dalle spalle, alla gola. Qui si perde subito la vita».177 Lo
stesso Achille in seguito morirà per una lesione a una articolazione, quella della
caviglia. Uccidere, nell’Iliade, significa sostanzialmente «slegare». Il verbo
maggiormente impiegato per narrare l’evento della morte è luvw (sciogliere, slacciare,
separare) ed espressioni tipiche sono «lu`se gui`a» (slegò le membra) e «gouvnatV
ejvlusen» (slegò le ginocchia).
Se, come abbiamo appena rilevato, la caratteristica di una ferita articolare è quella di
dividere due ossa o due zone di contatto, considerate i veri punti vitali di un
174
G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 22.
175
Ibid., p. 9.
176
Omero, Iliade, V, 305-307.
177
Ibid., XXII, 324-325.
65
individuo, la guarigione consiste, invece, in una riunione di ciò che è stato separato.
Ogni azione terapeutica è finalizzata al ripristino ed eventualmente all’incremento
della capacità motoria. Il corpo dell’uomo omerico non è concepito, pertanto, come
un ente singolo e omogeneo, bensì come una rete di relazioni, un sistema di rapporti
tra elementi tenuti insieme da connettivi fisiologici, denominati ijv~, tevnwn o neu`ron. I
legamenti assicurano anche la mobilità del sistema; la caratteristica principale del
corpo articolare è, infatti, la «motricità».
Con la morte la rete di relazioni viene meno, gli elementi costitutivi del sistema si
slegano. Un primo effetto è la perdita delle funzioni motorie; un secondo effetto
parallelo è l’emissione del qumov~. Questo termine, di decifrazione molto complessa,
ha dato luogo a svariate interpretazioni e traduzioni, tra cui quelle di «anima»,
«soffio vitale», «desiderio», «ira». Snell lo mette in relazione con la sfera delle
emozioni. Lo definisce, tuttavia, anche un «organo di movimento», legandolo alle
ossa e alle membra, per il fatto che in Omero compare sette volte la frase «livpe dV
ojvstea qumov~» (il qumov~ abbandona le ossa) e due volte la frase «w\ca de; qumov~ wæjvcetV
ajpo; melevwn» (presto il qumov~ si staccò dalle membra): «Sappiamo che quest’organo
determina anche i movimenti del corpo, ed è quindi naturale dire che esso, nel
momento della morte, abbandona le ossa e le membra coi loro muscoli».178 La
difficoltà insita nell’interpretazione di Snell consiste soprattutto nel fatto che il qumov~,
a differenza di un qualsiasi organo, non è localizzabile e circoscrivibile a una zona del
corpo.
Secondo Caroline Caswell, nella prima epica greca il «qumov~ forma la base della
coscienza e di conseguenza di tutte le esperienze interne e possiede anche certe
precise caratteristiche che sono strettamente affini a quelle della natura dei venti. Il
suo vigore è strettamente connesso con la condizione fisica del corpo e aiuta a
determinare come l’individuo funzioni intellettualmente ed emotivamente». Esso in
ultima analisi è «un vento interiore, portatore di coscienza, energia ed esperienza».179
La lettura che di questo concetto propone Norman Austin lo descrive come una sorta
di coscienza sensoriale distinta dagli organi.180 E’ di questo avviso anche Bolens, la
quale precisa che si tratta di «una relazione a un processo sensoriale». Spiegato più
estesamente, «il thumos è un rapporto dell’io alle proprie sensazioni o, più
178
B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 32.
179
C. Caswell, A study of thumos in early greek epic, E. J. Brill, Leiden 1990, pp. 62 sg.
180
Cfr. N. Austin, Archery at the dark of the moon, University of California Press, Berkeley 1975, p. 108.
66
esattamente, un rapporto delle sensazioni a un io al dativo. Il thumos è una relazione
dell’io a ciò che lo costituisce sotto l’aspetto sensoriale, ragione per cui il thumos non
può essere localizzato fisiologicamente, neanche nel soffio o in un sistema nervoso
centrale».181
Presentando questa breve rassegna di interpretazioni della nozione di qumov~ (la più
ricorrente in Omero tra quelle a connotazione «psicologica»), volevamo evidenziare i
seguenti aspetti:
a) il qumov~ è strettamente legato al corpo vivente, a differenza della yuchv che si
manifesta solo al momento della morte, come respiro esalato;
b) esso ha a che fare con il movimento, un incremento del suo vigore corrisponde a
un aumento della motricità dell’individuo;
c) si tratta sostanzialmente di una forma di coscienza sensoriale, connaturata al
corpo nel suo insieme, non individuabile quindi in un singolo elemento
corporeo.
Sulla base di quanto rilevato a proposito dell’antropologia omerica, a nostro avviso, è
possibile spingersi oltre il concetto di corpo articolare e introdurre quello più
generale di «individuo articolare». Nel contesto esaminato, infatti, la dimensione
corporea non è concepita come un oggetto, separato o separabile da ulteriori livelli
dell’essere umano. In altri termini, l’uomo non è inteso come un ente semplicemente
rivestito di un organismo biologico, bensì come una rete di relazioni coesa e
dinamica, dotata di una coscienza sensoriale che la rende aperta al mondo e ne regola
la motricità. Questa posizione è suffragata inoltre dal fatto che, nell’epica omerica,
non soltanto gli uomini, ma anche gli dei, che abitano una regione più sottile
dell’esistente, condividono questa natura.
Parlando di «individuo articolare», tuttavia, non intendiamo accantonare tout court
(e indebitamente) il concetto di corpo, intendiamo invece inscriverlo in una nozione
più ampia, che gli dia il dovuto risalto ed eviti possibili fraintendimenti con quello
omonimo, veicolato dal binomio anima – corpo. La categoria di individuo articolare e
quelle più specifiche di corpo articolare e corpo inviluppo costituiranno il leit motiv
con il quale affronteremo nei prossimi paragrafi le concezioni antropologiche
egiziane. Il percorso che seguiremo contribuirà a chiarirne meglio lo statuto e la
portata.
181
67
G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 50.
3. La costellazione Uomo nell’Egitto faraonico
Una formula che compare sui sarcofagi antropoidi della Bassa Epoca e che Thomas
G. Allen ha considerato parte del Libro dei Morti recita:
«O tu che accompagni i bau, o tu che decapiti le ombre, o voi dei che siete sopra i
viventi, venite, pregate, accompagnate il ba di N a lui! Possa esso unirsi al suo corpodjet, che il suo cuore-ib si rallegri! Possa il suo ba venire al suo corpo-djet e al suo
cuore-ib. Fate che il suo ba resti nel suo corpo-djet e nel suo cuore-ib, munite il suo
ba del suo corpo-djet e del suo cuore-ib. […] Egli ha il suo cuore-ib come Ra, egli ha il
suo cuore-haty come Khepri. Pure, pure (sono le offerte) per il tuo ka, per il tuo
corpo-djet, per tuo ba, per tua spoglia [XAt], per la tua ombra [Swt], per la tua
mummia [saH], O N!».182
Il contesto è quello della ricostituzione dell’essere umano dopo la morte e, più in
particolare, della riunione di due degli elementi che formano l’individualità, il ba e la
spoglia.183 Il passo riportato è sufficiente a mostrare la complessità dell’antropologia
egiziana rispetto a quella affermatasi in Grecia a partire dal V secolo a. C. Come già
accennato in precedenza, infatti, il pensiero egizio concepisce l’individuo umano
come una molteplicità di componenti, complementari tra loro. Alla dimensione
«corporea» si associa una costellazione di elementi più «sottili», come il ka, il ba, l’ib,
il ren e altri ancora, il cui numero può variare a seconda delle epoche e delle fonti. Sul
reale significato di queste nozioni gli egittologi non si dimostrano ancora d’accordo.
Il luogo privilegiato in cui gli Egiziani sviluppano il loro discorso antropologico è
costituito dalla letteratura funeraria e dalle formule liturgiche. I concetti menzionati
fanno la loro comparsa nell’Antico Regno, nei Testi delle Piramidi, una raccolta di
formule, inni e rituali che dovevano costituire un viatico per il sovrano nel mondo
dell’aldilà e permettergli di ottenere l’immortalità. Si ritrovano in seguito
copiosamente nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno, nel Libro dei Morti e nei libri
dell’oltretomba del Nuovo Regno. Vengono inoltre rappresentati attraverso numerose
pitture e statue, poste a corredo di tombe e templi. Per quanto riguarda invece le
182
Questa formula, da noi riportata non nella sua interezza, è stata classificata da T. G. Allen come capitolo 191
del Libro dei Morti. In proposito, cfr. Id., Additions to the Egyptian Book of the dead, in Journal of Near Eastern
Studies, 11 (1952), pp. 177 sgg. La trad. segue quella inglese di Allen. Secondo J. C. Goyon, invece, la formula
farebbe parte di un rituale osiriaco: le glorificazioni (sAx.w). Cfr. Id., La véritable attribution des soi-disant
chapitres 191 et 192 du Livre des Morts, in Studia Aegyptiaca, 1 (1974), pp. 117 sgg.
183
I due elementi maggiormente in risalto nel passo citato sono il ba e il corpo-djet. Quest’ultimo sostituisce il
cadavere (XAt), generalmente associato al ba.
68
concezioni anatomiche e fisiologiche, le fonti principali sono i papiri medicali che ci
sono pervenuti, in primo luogo il papiro di Ebers.184
Prima di tentare un qualsiasi tipo di lettura del pensiero antropologico egiziano nel
suo complesso è opportuno, tuttavia, focalizzare un aspetto basilare: la sfera corporea
in generale è considerata sede della vita in misura non inferiore a qualsiasi altra
componente
della
personalità
umana.
Non
c’è,
infatti,
nessun
tipo
di
contrapposizione o discriminazione tra i singoli elementi della costellazione Uomo.
La vita è presente a pieno titolo tanto nella totalità del corpo, quanto in ogni sua
parte. Questa immanenza della vita alla dimensione corporea non viene meno
neanche con il sopravvenire della morte. Il decesso, infatti, non costituisce
l’annichilimento della vita ma soltanto una sua sospensione temporanea, funzionale a
un rinnovamento e a una riorganizzazione dei tasselli costituenti il mosaico umano.
La vita ultraterrena richiama quella terrena, perché il mondo dell’aldilà e quello
dell’aldiquà costituiscono due modalità di un’unica esistenza. Questa impostazione di
pensiero ha garantito al popolo egizio un rapporto sostanzialmente sereno con la
sfera corporea e i bisogni ad essa connaturati. Durante il periodo faraonico, infatti,
non c’è traccia di pratiche ascetiche o di automortificazione.
La costellazione Uomo si rivela una realtà dinamica, in cui ogni componente da un
lato gode di una propria autonomia, dall’altro si dimostra funzionale al
mantenimento e all’evoluzione del sistema nella sua globalità. Si tratta cioè di una
rete di relazioni che, attraversando le tre fasi costituite dalla vita terrena, dalla morte
e dalla vita post mortem, è in grado di organizzarsi in accordo con le circostanze ed
evolvere. In questo contesto, la dimensione corporea svolge il ruolo di supporto e
veicolo del sistema.
Prima di entrare maggiormente nel dettaglio relativamente alla natura e al significato
della corporeità di cui stiamo parlando, vogliamo delineare i tratti principali della
sfera umana in generale e del suo «funzionamento». A tal fine prenderemo in
considerazione quelle due componenti che, a nostro avviso, costituiscono le
coordinate fondamentali nella mappa dell’essere umano: il ba e il ka.
184
La maggior parte dei papiri medici di cui disponiamo risale al Nuovo Regno. Tra i papiri ritrovati, quelli che
sembrano essere i più antichi sono stati rinvenuti in una tomba in prossimità del Ramesseum e risalgono alla XII
o alla XI dinastia (Medio Regno). Il papiro di Ebers può considerarsi al momento la principale fonte relativa alla
medicina egiziana. Il manoscritto è datato intorno al 1550 a.C., ma sembra attingere a testi redatti nell’Antico
Regno. In proposito, cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, Fayard, Paris 1995, pp. 13
sgg.
69
Fig. 1 (uccello Ba, tempio di Dendera. Foto di P. Pietrapiana)
70
Il ba, scritto in geroglifico nei seguenti modi:
(bA),
appare generalmente nelle raffigurazioni sotto forma di uccello (ciconia nigra) con
testa umana, a volte anche dotato di braccia. Considerato spesso in modo abbastanza
improprio come «anima», esso costituisce un aspetto della coscienza dell’individuo,
sia durante la vita terrena che dopo la morte, anche se nella quasi totalità delle fonti
si parla del ba del defunto. In uno dei rari testi in cui si fa menzione del ba di un
uomo ancora in vita, Le avventure di Sinuhe, il protagonista del racconto trovandosi
al cospetto del sovrano dell’Egitto, ipostasi della divinità, è sul punto di perdere i
sensi e così riferisce del suo stato:
«Io ero steso sul mio ventre [Xt] e persi la conoscenza davanti a lui, benché questo dio
mi salutasse affabilmente. Ma io ero come un uomo preso nel crepuscolo: il mio ba
mancava, il mio corpo [Haw] vacillava, il mio cuore [HAty] non era più nel mio petto [Xt]
perché potessi distinguere la vita dalla morte».185
Ma la principale testimonianza relativa al ba di un essere umano che abita il mondo
terreno è costituita dal Dialogo del disperato con il suo ba, espressione della crisi
determinatasi a seguito della caduta dell’Antico Regno.186 In questo testo letterario
un uomo deluso e disperato si augura la morte come liberazione dai mali insanabili
del mondo. Il suo ba, che funge in questo caso da alter ego, lo esorta invece alla vita e
appellandolo «mio complemento (nj-sw=j), mio fratello (sn=j)», conclude la parte di
dialogo che è giunta fino a noi con queste parole:
«Desiderami qui, rinvia per te l’Occidente. Quando giungerai all’Occidente dopo che
il tuo corpo [Haw] si sarà unito alla terra, mi poserò quando sarai stanco ed allora
abiteremo insieme».187
Le due fonti citate descrivono il ba da un lato come una sorta di coscienza sensoriale,
come il qumov~, dall’altro come la coscienza personale depositaria dei valori vitali
185
Le avventure di Sinuhe, B 252-256, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 174. Abbiamo modificato
leggermente la trad. di E. Bresciani, sostituendo «anima» con il termine originale ba. Per il testo geroglifico, cfr.
A. M. Blackman (a cura di), Middle Egyptian stories, Éditions de la Fondation Égyptologique Reine Élisabeth,
Bruxelles 1932, pp. 1 sgg.
186
Con la caduta della monarchia dell’Antico Regno e la conseguente crisi dei valori che la caratterizzavano,
l’uomo egiziano cerca di ridefinire il suo posto nell’universo. In un contesto in cui lo Stato non rappresenta più un
punto di riferimento rassicurante e una protezione per gli individui, vengono composte alcune opere letterarie che
appaiono tutte contrassegnate da un pessimismo di fondo. Tra le più rilevanti, oltre al Dialogo dell’uomo con il
suo ba, possiamo ricordare l’opera già menzionata conosciuta come L’oasita eloquente, espressione metaforica
dello scontro tra le forze positive e quelle negative che lacera la società dell’epoca.
187
Dialogo del disperato con il suo ba, 150-154, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto,
cit., p. 205. Per il testo geroglifico, cfr. R. O. Faulkner, The man who was tired of life, in The Journal of Egyptian
Archaeology, 42 (1956), pp. 21 sgg.
71
conformi all’ordine cosmico. Dal Dialogo emerge però anche un aspetto ulteriore: la
relazione tra il ba e il cadavere, della quale troviamo spiegazioni esaustive nella
letteratura funeraria.
Prima che un defunto fosse definitivamente inumato, aveva luogo un rituale che
aveva lo scopo di «allontanare il ba dal cadavere» (sHr bA r XA.t). Nei Testi dei
Sarcofagi troviamo parte di questa liturgia:
«Allontanare il ba dal cadavere. Altro libro dell’uscita al giorno. Io sono questo
grande ba di Osiri grazie al quale gli dei hanno ordinato che egli copuli, che vive in
alto durante il giorno, che Osiri ha creato dai suoi umori [rDw] che sono nel suo corpo
[jwf=f], semenza [mtwt] uscita dal suo fallo, […] Io sono il figlio di Osiri, il suo erede
nelle sue funzioni. Io sono il ba nel suo sangue [dSrw=f]».188
Un altro passo recita:
«Mio ba, allontanati dal cadavere [XA.t] che ha ucciso mio padre! Anziano, fai per me
un cammino! Salva il mio ba dalla mano di Coloro che intrappolano […] Non ci si
deve appropriare del mio cadavere né esso deve essere tenuto prigioniero (poiché) mi
appartiene questo cadavere per il quale Atum ha pianto e che Anubi ha sepolto! [Il
mio] ba [appartiene al] mio corpo [D.t]».189
Una volta che è stato separato dal cadavere, il ba acquisisce la capacità di muoversi
liberamente nel mondo ultraterreno:
«Va! Va mio ba, mio akh, mia magia [HkA.w], mia ombra [Swy.t]! Apri dunque i due
battenti della finestra del cielo! Apri dunque la cappella della tomba! Sali e scendi,
(poiché) tu disponi della tua gamba!»190
Altre formule esprimono il medesimo concetto, come la seguente:
«Va! Va, questo ba che è mio, (in modo) che quel dio possa vederti in qualunque
luogo egli sia, nella mia apparenza, nella mia forma e nella mia essenza! Che egli si
alzi! Che si sieda, (poiché) tu sei di fronte a lui! […] Possa tu lasciare gli umori [rDw]
del mio corpo [jwf=f] e di questo sudore della mia testa! Possa tu avere potere sulla
tua gamba in quanto ba vivente».191
L’unità dell’individuo, tuttavia, non deve venire meno. E’ necessario, quindi, che il ba
continui a mantenere una relazione con il cadavere, anche dopo avere ottenuto la sua
188
CT, formula 94. L’origine del ba è messa in relazione con gli umori del corpo di Osiri anche in altri passi; cfr.,
per es., CT, formule 96, 99, 101.
189
CT, VI, 73 c-e; 74 f-i.
190
CT, VI, 71 a-e.
191
CT, II, 108 a-c; 108 g – 109 a.
72
libertà di movimento. Una serie di formule, tra cui quella richiamata all’inizio del
paragrafo, testimonia l’importanza cruciale del ritorno del ba alla sua spoglia: il
defunto invoca la divinità affinché esso «veda il suo corpo e si posi nuovamente sulla
sua mummia».192 Durante il giorno il ba dimora nelle regioni celesti, durante la notte
fa ritorno alla tomba e si unisce alla mummia. In proposito Assmann afferma: «Il ba
trae da questa unione con il cadavere la forza di rinnovamento che gli permette di
risalire verso il cielo per una nuova corsa diurna. In questa rigenerazione ciclica, il ba
e il cadavere operano insieme e dipendono l’uno dall’altro, sono subordinati l’uno
all’altro, indissociabili».193 In questo modo l’individuo ricostituito condivide
l’esistenza del dio sole, che al tramonto scende nel mondo sotterraneo, per poi
risorgere rinnovato il mattino seguente. Ogni notte, infatti, nel luogo più profondo
della duat, Ra si unisce in quanto ba alla spoglia di Osiri, che lì giace.194
Il ba e il cadavere (XA.t) sono espressione, quindi, di due regioni dell’esistente
differenti ma, nello stesso tempo, strettamente legate. «Il cielo appartiene al tuo ba e
la terra al tuo cadavere»; così si rivolgono gli dei misteriosi a Ra, nel testo conclusivo
della terza ora del Libro dell’Amduat.195 Nel Libro delle Porte, parimenti, alla sesta
ora, dodici divinità accolgono il dio Ra con queste parole: «Il tuo ba appartiene al
cielo, sovrano dell’orizzonte, […] il tuo cadavere appartiene alla terra, tu che sei in
cielo! Consegnaci a lui (al cielo), o Ra, tu che (ora) sei separato da esso, o Ra! Tu
respiri quando occupi il tuo cadavere che è nella duat».196 Il movimento ciclico del ba
ha la funzione di mantenere e rinnovare la coesione delle parti, sia sul piano cosmico
che su quello individuale.
In sintesi, le caratteristiche del ba che volevamo evidenziare, consultando la
letteratura funeraria, possono essere schematizzate in questo modo:
a) il ba ha un legame «genetico» con la sfera della corporeità: esso è originato
dagli umori (rDw) del corpo di Osiri, al quale per analogia si richiama il defunto;
b) esso possiede, inoltre, la forza vitale e di conseguenza il potere di generare: è
veicolato dal sangue (dSrw) e dalla semenza (mtw.t);
192
Libro dei Morti, cap. 89.
193
J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 149.
194
Cfr. supra, p. 40.
195
Libro dell’Amduat, ora III, testo conclusivo. Abbiamo modificato leggermente la trad. di A. Fornari e M. Tosi
sostituendo «anima» con il termine originale ba (Nella sede della verità, cit., p. 60).
196
Libro delle Porte, ora VI, registro mediano, scena 38. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung in Die
Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p. 246.
73
c) è per sua natura un elemento assolutamente dinamico: esso può spostarsi,
infatti, in qualsiasi luogo del mondo visibile e di quello invisibile;
d) nonostante la sua dipendenza dal cadavere o più in generale dal corpo, il ba
appartiene in primo luogo alla dimensione celeste. Si tratta, dunque, di una
componente «sottile» dell’essere umano. Abbiamo visto, infatti, che alcuni testi
letterari lo descrivono come una forma di coscienza;
e) in virtù della sua mobilità, è un fattore di integrazione, sia individuale che
cosmica.
L’esame di questa nozione antropologica lascia già intravedere l’immagine
complessiva dell’essere umano, concepito come una rete di relazioni particolare che
ne riproduce un’altra universale, cosmica. In primo piano risaltano quelle che, a
nostro avviso, costituiscono le due caratteristiche essenziali del sistema: connettività
e motricità. Si tratta dei due aspetti principali del «corpo articolare» omerico di cui
parla Bolens, o di quel complesso più ampio che abbiamo chiamato «individuo
articolare». Parliamo di individuo articolare per il fatto che le interazioni e i legami
tra le parti in relazione tra loro non ineriscono a un’unica sfera dell’esistente, nello
specifico quella corporea, ma chiamano in causa i diversi livelli della realtà.
Il quadro delineato è, tuttavia, ancora parziale; proseguiamo il nostro iter
introducendo il secondo tassello fondamentale: il ka
(kA).
L’interpretazione più comune di quest’altro elemento sottile della natura umana vede
in esso la maggiore espressione della forza vitale dell’uomo. Il ka, tuttavia, costituisce
uno dei concetti più controversi nel campo dell’egittologia. E’ stato inteso come un
«doppio», una sorta di alter ego o come il daivmwn dei greci; è stato anche avvicinato
alla nozione orientale di Mana. Thomas Mann lo ha definito «il corpo spirituale delle
cose, che è accanto al corpo»197. Ci sembra, in ogni caso, del tutto plausibile
l’accostamento fatto da molti studiosi tra il ka e la vita. Questa ipotesi fu formulata
per la prima volta da Erman, all’inizio del secolo scorso: «In ogni tempo gli Egizi si
sono figurati la differenza fra esseri vivi e senza vita in modo che nei primi fosse
infusa una forza vitale particolare che chiamano il ka. Ogni uomo riceve questo ka
alla sua nascita, quando Ra lo ordina, e fintantoché l’uomo lo possiede ed è il signore
197
«Der geistige Leib der Dinge, der neben dem Leibe ist». Questa definizione viene formulata da Mann nel
romanzo Joseph in Ägypten.
74
del suo ka e va con il suo ka, per tutto questo tempo egli rimane in vita».198
L’espressione «andare con il proprio ka» (sbj Hna kA=f) risale ai Testi delle Piramidi ed
è utilizzata ancora in epoca tarda per indicare la condizione del defunto che lascia il
mondo terreno:
«Colui che se ne è andato, se ne è andato con il suo ka! Horo se ne è andato con il suo
ka! Seth se ne è andato con il suo ka! Thot se ne è andato con il suo ka! Dunanuy se
ne è andato con il suo ka! Osiri se ne è andato con il suo ka! Khenty-irty se ne è
andato con il suo ka! Tu stesso te ne sei andato con il tuo ka».199
Nei Testi dei Sarcofagi troviamo un’invocazione simile, ma con una variante: non si
tratta in questo caso di andare «con il proprio ka», bensì «al proprio ka» (sbj xr kA=f):
«Possa tu vivere […]! Colui che è andato al suo ka è andato! Horo è andato al suo ka!
Seth è andato al suo ka! Thot è andato al suo ka! Dunauy è andato al suo ka! Osiri è
andato al suo ka, è andato in quanto Khenty-enirty al suo ka! O [N], se tu sei andato,
è perché tu vivevi!».200
L’espressione «andare al proprio ka» indica il ricongiungimento alle proprie radici, ai
propri antenati.201 Varcare la soglia dell’aldilà come defunto beato (akh), infatti,
significa anche ritornare al proprio padre:
«Se sono venuti a te i messaggeri del tuo ka, sono venuti a te i messaggeri di tuo
padre e sono venuti a te i messaggeri di Ra! […] Possa tu essere al fianco del dio […]
Entra nel luogo dove è tuo padre, nel luogo dove è Geb, in modo che egli ti dia ciò che
è sulla fronte di Horo: tu distruggerai grazie a lui, tu diventerai potente grazie a lui e
grazie a lui tu sarai alla testa degli Occidentali».202
Secondo i Testi delle Piramidi, il dio demiurgo Atum dopo aver dato esistenza alla
prima coppia di dei, Shu e Tefnet, trasmette loro il proprio ka, ponendo le braccia
dietro di loro. In virtù di questo gesto, ogni ente del creato porta in sé la natura del
demiurgo e riceve la sua protezione:
«Tu hai espettorato Shu, tu hai sputato Tefnet, come le braccia di un ka, tu hai posto
le tue due braccia dietro di loro, affinché il tuo ka fosse con loro! Atum, poni dunque
le tue due braccia dietro Neferkara, come le braccia di un ka, in modo che il ka di
Neferkara sia con lui, durevole per l’eternità! O Atum, poni la tua protezione su
198
A. Erman, Ägyptische Religion, cit., p. 102.
199
Pyr, 17 a-c.
200
CT, VII, 22 e-i.
201
Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 160.
75
questo Neferkara, su questa piramide che è sua, su questa costruzione di Neferkara!
Possa tu allontanare ogni cosa malvagia che sopravverrà contro di lui per l’eternità,
così come la tua protezione è stata posta su Shu e Tefnet!».203
Trasferire il proprio ka significa infondere la vita:
«A Te appartiene il ka di tutti gli dei! Tu sei andato a prenderli, per foggiarli e per
farli vivere! Che possa vivere Osiri Neferkara! […] Tu hai potere su tutti gli dei e sui
loro ka!».204
La posizione delle braccia del demiurgo, rileva Erman, doveva corrispondere al
significato del ka, dal momento che il geroglifico che denota questo concetto è
formato da due braccia distese.205 Anche Assmann pone l’accento su questo
aspetto.206 Hornung osserva, invece, che queste braccia avvolgono l’essere umano
come un involucro protettivo.207
Il ka, dunque, è trasmesso di padre in figlio, come una sorta di patrimonio genetico,
che assicura la continuità e l’identità di una linea genealogica. L’idea della continuità
è confermata dal capitolo 105 del Libro dei Morti, in cui il defunto rivolge al proprio
ka queste parole: «Salute a te mio ka, mia durata di vita! Eccomi venuto a te». Per
quanto riguarda, invece, il concetto di identità, è interessante ciò che afferma
Donadoni relativamente alla parola ka: «Essa designa qualcosa come la personalità
nel suo complesso […] In qualche modo può servire a capire cosa esso sia il fatto che
in età tarda il termine egiziano classico ka è tradotto con la parola che vuol dire
“nome” (ren)».208
Il termine ka, inoltre, è omofono di quello che significa «toro»
(kA);
quest’ultimo è scritto con due determinativi, uno dei quali raffigura il fallo, simbolo
di forza generatrice. Uno degli appellativi del sovrano fin dall’Antico Regno era
«toro» e a partire dal regno di Thutmosi I (XVIII dinastia) al nome di Horo del
202
Pyr, formula 214, 136 b; 137 c; 139 b-d.
203
Pyr, 1652 c – 1654 d.
204
Pyr, formula 592, 1623 a-c; 1626.
205
A. Erman, Ägyptische Religion, cit., p. 102.
206
Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 83.
207
E. Hornung, Fisch und Vogel: zur altägyptischen Sicht des Menschen, in Eranos, 52 (1983), p. 475.
208
S. Donadoni, La religione egizia: profilo introduttivo, in Civiltà degli Egizi. Le credenze religiose, a cura di A.
M. Donadoni Roveri, Istituto Bancario San Paolo, Torino 1988, p. 18.
76
faraone viene aggiunto l’epiteto «toro possente» (kA nxt).209 Il re, depositario di un ka
trasmessogli dalla sfera divina, poteva, pertanto, garantire la permanenza dinastica o,
più in generale, dell’istituzione monarchica.
Anche il ka, come il ba, oltre a essere una componente dell’essere umano, è un
principio cosmico. Il demiurgo è dotato di milioni di ka e questa proprietà gli
permette di sostenere e ricreare il mondo costantemente. I singoli dei, invece,
possono avere un numero variabile di ka; ciò dipende dal raggio d’azione del loro
potere creativo. La coesione di tutte queste forze vitali è rappresentata dal serpente
primordiale e invulnerabile Nehebu-kau (nHbw-kAw), «colui che tiene insieme i ka»,
attestato già nei Testi delle Piramidi. Il nome di questo serpente è anche un epiteto di
alcune divinità, in particolare di Ra.210 Nei Testi dei Sarcofagi, viene menzionato il
serpente Rerek (rrk), che ha l’appellativo di Hedj-kau (HD-kAw), «colui che distrugge i
ka» e che impersona il principio contrario, che tenta di scindere questo tessuto di
forze.211
Relativamente al ka, gli aspetti che volevamo rilevare sono in breve i seguenti:
a) A differenza del ba, il ka non ha a che fare in modo diretto con la sfera corporea;
b) Esso costituisce un principio di continuità generazionale, che il padre trasmette
al figlio;
c) Il ka esercita un’azione difensiva nei confronti dell’individuo al quale appartiene
e di salvaguardia della sua identità;
d) Esso è inoltre espressione della forza vitale e della capacità di generazione che è
presente sia nel cosmo che nell’uomo. Questo aspetto è presente in una certa
misura anche nel ba.
Il ba e il ka rappresentano, potremmo dire, l’orizzonte e il raggio d’azione della
natura umana, specchio della realtà cosmica. Questi elementi, pur possedendo
ciascuno una propria specificità, non mostrano confini netti, ma per certi versi si
intersecano tra di loro. Sarà, dunque, il contesto a indirizzare e a calibrare, di volta in
volta, la lettura di queste nozioni.
Abbiamo individuato nella connettività e nella motricità le due principali peculiarità
del ba. Questi due aspetti, tuttavia, esercitano la loro azione su un piano che
definiremmo «sincronico». Il ba è quel principio che lega e mette in movimento le
209
Cfr. H. Jacobsohn, Die dogmatische Stellung des Königs in der Theologie der Alten Ägypter, Augustin,
Glückstadt 1939, p.58.
210
Cfr. Pyr, 346 a; cfr. anche Wb II, 291, 14.
77
diverse regioni dell’esistente, a livello macrocosmico e microcosmico; in questo caso,
ci sembra che sia la spazialità a essere posta maggiormente in risalto. Anche il ka
esercita un’azione connettiva. Relativamente a questa componente, in genere, si
sottolinea il fatto che non è dotata di capacità dinamiche. Se il ka può apparire statico
sul piano sincronico, su quello «diacronico» manifesta, tuttavia, un comportamento
differente. Esso rappresenta, infatti, un’identità che viene trasmessa dagli antenati ai
discendenti e che, pertanto, si muove nel tempo, garantendo la continuità tra le
generazioni. In questa direzione può essere letto, per esempio, il seguente passo dei
Testi delle Piramidi:
«O Unis, il braccio del tuo ka è davanti a te! O Unis, il braccio del tuo ka è dietro di
te! O Unis, la gamba del tuo ka è davanti a te! O Unis, la gamba del tuo ka è dietro di
te!».212
Relativamente al ka, a nostro avviso, l’elemento che si trova in primo piano è quello
temporale.
Nell’individuo, come anche nella compagine cosmica, il ba è un fattore di connettività
sincronica, il ka, invece, è un fattore di connettività diacronica. Il centro a partire dal
quale si proiettano queste due «direzioni» fondamentali dell’esistenza umana è
costituito da due elementi ulteriori, dei quali ci occuperemo nel prosieguo: l’ib
(cuore) e il ren (nome).
4. La fisiologia corporea
Affrontando le nozioni di ba e di ka abbiamo cercato di tracciare la mappa della
costellazione Uomo, nei suoi tratti essenziali. La sfera corporea è uno degli elementi
della costellazione, nell’ambito della quale svolge un ruolo di importanza non
inferiore a quello svolto da ciascuna delle altre componenti. Senza entrare nel
dettaglio, più sopra abbiamo definito il corpo «supporto e veicolo del sistema». Ma
come viene concepita in realtà la dimensione corporea nell’Egitto faraonico? Le
categorie di corpo articolare e corpo inviluppo risultano in questo contesto realmente
esplicative? Le fonti alle quali ci rivolgeremo per tentare di dare una risposta a queste
domande sono alcuni passi della letteratura medica nei quali viene descritta la
fisiologia umana. La documentazione di argomento medico attualmente a
211
78
Cfr. CT, formule 378, 381, 382, 885.
disposizione degli studiosi, costituita da un certo numero di papiri, non offre,
tuttavia, dei trattati teorici nel senso moderno del termine. Si tratta invece di testi
essenzialmente tecnici, redatti per fornire al medico un utile sussidio nello
svolgimento della sua pratica quotidiana. Le concezioni mediche non sono quindi
esposte direttamente, ma vanno estrapolate attraverso un’analisi approfondita dei
testi.
Per quanto riguarda la fisiologia umana, i testi più elaborati, che si avvicinano a delle
vere e proprie trattazioni, sono il Trattato del cuore, contenuto nel papiro di Ebers,213
e il Trattato sugli ukhedu, del quale sono note due versioni, una riportata dal papiro
di Ebers e l’altra, più ampia, dal papiro di Berlino 3038.214
All’inizio del Trattato del cuore, dopo una prima frase che introduce l’argomento,
leggiamo:
«Dei condotti-met sono in lui (=l’uomo) e sono per ogni parte del corpo [n at nbt].
Quanto a ciò, ogni medico, ogni prete-uab di Sekhmet, ogni sa (-Serqet), che mette le
mani o le dita sulla testa, sulla nuca, sulle mani, sulla sede del cuore-ib, sulle braccia,
sulle gambe, è in direzione del cuore-haty che effettua il suo esame, perché i suoi
condotti-met (dell’uomo) sono per ogni parte del suo corpo ed è indubbio che esso
(=il cuore-haty) parla davanti ai condotti-met che appartengono a ogni parte del
corpo».215
Le parole chiave contenute in questo passo sono le seguenti:
met
(mt);
haty
(HAty);
ib
(jb).
212
Pyr, 18 a-b.
213
Cfr. Eb. 854 a – 855 z.
214
Cfr. Eb. 856 a – h; Bln 163 a – h.
215
Eb. 854 a.
79
Il termine met è tra quelli che ricorrono più frequentemente nei testi medici.216 Esso
si riferisce in generale a qualsivoglia vaso, condotto o canale del corpo umano. I
condotti-met veicolano tutti gli elementi e le sostanze indispensabili al mantenimento
della vita. In questi canali transitano i liquidi fisiologici, come per esempio il sangue,
ma anche fluidi più sottili, ossia le correnti dinamiche e vitali la cui origine è legata
alla sfera divina. L’importanza del ruolo svolto dai fluidi fisiologici e dal soffio
animatore emerge anche dalla letteratura religiosa; restituire al defunto i suoi liquidi
corporei e il soffio significa, infatti, ridargli la vita. Se da un lato i condotti-met
trasportano tutto ciò che è funzionale alla vita, dall’altro, attraverso di essi passano e
si distribuiscono nel corpo anche le sostanze patogene che sono causa delle malattie.
L’immagine che si profila è quella di un corpo animato da correnti vitali apportatrici
di movimento. La rigidità dei condotti-met, che per gli Egiziani può subentrare a
causa della malattia o della vecchiaia, ostacola la libera circolazione dei fluidi e
smorza, pertanto, la capacità di movimento del corpo. Il cadavere è l’espressione
estrema di questa rigidità, che determina in questo caso un’assoluta assenza di
movimento.
Al termine met è stata attribuita, tuttavia, anche un’altra accezione. In determinati
contesti, infatti, è stato tradotto con «legamento», «tendine», «muscolo». Questa
interpretazione risale a James H. Breasted e allo studio da lui condotto sul papiro
medico Smith.217 L’idea è stata ripresa successivamente da Gustave Lefebvre, secondo
il quale la parola met, oltre a significare «vaso», «condotto», indica anche «i fasci di
tessuto fibroso che noi chiamiamo legamenti, e quelli – contrattili – che formano i
muscoli».218 La medesima lettura del termine in questione è riscontrabile anche in
altre fonti, tra le quali il monumentale Grundriss der Medizin der Alten Ägypter.219
Non tutti gli studiosi sono però propensi a sostenere questa interpretazione.
Nell’ampio saggio introduttivo alla sua traduzione del corpus dei papiri medici
egiziani, Thierry Bardinet afferma che la parola met «non si deve mai, e in nessun
contesto, tradurre con “legamento” o “muscolo”, poiché non sono i condotti-met che,
contraendosi, fanno muovere le parti ossee. Essi ci sono soltanto per far passare le
216
Le fonti più antiche pervenuteci in cui si parla dei condotti-met sono i papiri medici risalenti alla XII o XI
dinastia, rinvenuti presso il Ramesseum, insieme ad altri documenti di argomento differente. Uno dei papiri
medici indica dei rimedi per questi «canali».
217
Cfr. J. H. Breasted, The Edwin Smith Surgical Papyrus, University of Chicago Press, Chicago 1930, p. 110.
218
219
G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, IFAO, Le Caire 1952, p. 8.
Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der
medizinischen Texte, Akademie Verlag, Berlin 1961, pp. 400 sgg.
80
correnti dinamiche, ossia la fonte del movimento. Al contrario, la loro contrazione, la
loro rigidità è patologica e si oppone a questo movimento».220
Per quanto riguarda, invece, i termini haty e ib, essi vengono generalmente tradotti
con «cuore» e questo è in effetti il loro significato generale, anche se, come hanno
evidenziato alcuni studiosi, queste due parole non possono essere considerate
semplicemente dei sinonimi. I due termini si incontrano non soltanto nei papiri
medici, ma ricorrono con frequenza anche nei testi religiosi e letterari. Il primo
ampio studio condotto su queste nozioni è stato quello pubblicato da Alexandre
Piankoff nel 1930, che rappresenta tuttora un punto di riferimento importante.221
Secondo l’interpretazione proposta da Piankoff, haty indicherebbe, nei testi
dell’Antico e del Medio Regno, il «cuore fisico» di un uomo o di un animale, mentre
ib designerebbe una sorta di «centro morale». Nei Testi delle Piramidi, per esempio,
nei passi in cui le parti del corpo sono identificate con delle divinità, viene utilizzato il
termine haty per riferirsi al cuore.222 Tuttavia, l’autore stesso di questa esegesi
riconosce che «nei Testi delle Piramidi si trovano molti casi in cui jb appare là dove
noi penseremmo di trovare HAty».
223
Nel Libro dei Morti, inoltre, haty e ib vengono
spesso utilizzati parallelamente, in modo tale però da non consentire il rilevamento di
una differenza di significato. Piankoff assume, pertanto, la seguente posizione: «Noi
crediamo di poter dire che, nel periodo classico, il termine HAty significa “cuore”, con
una certa preponderanza del senso fisico, mentre jb designa il “cuore” con una
preponderanza del senso morale».224
Tra gli studi più recenti sull’argomento quello di Bardinet ha messo l’accento sulla
stretta correlazione esistente tra haty e ib, rapporto in virtù del quale essi
costituiscono le due parti di un unico complesso. Sulla base di questa constatazione, il
cuore-haty viene definito come la «parte (del corpo) anteriore all’ib».225 Il termine
hat (HAt), da cui deriva haty, significa, infatti, «ciò che sta davanti», «la parte
anteriore». L’ib rappresenta invece un aspetto più interno, esso è la personalità
profonda dell’individuo, che ha nell’haty il suo maggiore veicolo di espressione. Il
cuore-haty realizza quindi la volontà dell’ib; nel passo del papiro di Ebers sopra
220
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 65.
221
Cfr. A. Piankoff, Le «cœur» dans les textes égyptiens depuis l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel Empire,
Geuthner, Paris 1930.
222
Cfr., per es., Pyr, 1310 c; 1547 c.
223
A. Piankoff, Le «cœur» dans les textes égyptiens depuis l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel Empire, cit., p. 11.
224
Ibid., p. 13.
81
citato, esso è denominato «sede dell’ib» (st-jb). L’haty è un centro propulsore che
anatomicamente corrisponde all’organo cardiaco e che trasmette le correnti
dinamiche nei condotti-met. Dal punto di vista anatomico, l’ib corrisponde, invece, a
una realtà più complessa, non circoscrivibile a un organo o a una singola parte del
corpo. «L’ib – rileva Bardinet – è un insieme. Esso comprende la totalità delle parti
corporee situate dietro il cuore-haty, in quella grande cavità del corpo che forma ciò
che gli Egiziani chiamano lo shet e che corrisponderebbe, nella terminologia
moderna, nello stesso tempo al ventre e al torace».226 L’ib si estende inoltre in tutte le
membra attraverso i condotti-met. In alcuni contesti esso viene anche identificato
con un dio. Su un sarcofago della Bassa Epoca, per esempio, leggiamo:
«L’ib di un uomo è il suo dio personale, il mio ib è soddisfatto di ciò che facevo
quando era nel mio corpo (Xt)».227
Questo passo conferma che il soffio animatore che assicura il mantenimento della
vita è espressione del mondo divino.
Come aveva già osservato Piankoff, non è possibile attribuire a questi due termini due
sfere semantiche dai confini ben delimitati e nettamente separate tra di loro. Essi
individuano due elementi indissociabili; ciò che colpisce l’uno ha delle ripercussioni
sull’altro e dalla qualità del loro rapporto dipende lo stato di salute o di malattia di un
individuo. Il rapporto tra haty e ib può essere paragonato al dialogo tra due
interlocutori; leggiamo, infatti, nel papiro di Ebers:
«Quanto al fatto che l’ib è inzuppato [amd], è il cuore-haty che non parla più, o ancora
sono i condotti-met del cuore-haty che restano muti».228
Secondo la concezione fisiologica che è possibile estrapolare dai papiri medici
egiziani, la struttura corporea risulta essere un insieme di ossa alle quali è legata una
rete di condotti-met; sembra, infatti, che il ruolo dei muscoli non fosse
riconosciuto.229 Il centro del sistema è costituito dal binomio haty-ib, che distribuisce
ai condotti-met i soffi che animano il corpo. I papiri medici di Ebers e di Berlino
elencano tutta una serie di condotti, specificando in genere la loro funzione fisiologica
e le patologie di cui possono essere causa. Nel papiro di Berlino all’inizio della
225
Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 69 sgg.
226
Ibid., p. 71.
227
Testo riportato in A. Piankoff, Le «cœur» dans les textes égyptiens depuis l’Ancien jusqu’à la fin du Nouvel
Empire, cit., pp. 92 sg.
228
Eb. 855 e.
229
82
Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 67.
rassegna sono indicati i condotti «motori», quelli cioè che portano il soffio al cuorehaty, punto dal quale parte un gran numero di altri canali che raggiungono ogni
luogo del corpo:
«Il sistema conduttore [sSmt] degli uomini e tutte le malattie che in esso si
sviluppano. La sua testa possiede ventidue dei vasi [mtw] che sono in lui (l’uomo).
Essi portano il soffio fino al suo cuore-haty e sono loro che danno il soffio a ciascun
luogo del corpo».230
I soffi che raggiungono il cuore-haty e che successivamente circolano in tutta la rete
dei condotti-met possono essere di tipo differente e avere punti di accesso diversi al
corpo umano. Il papiro di Ebers introduce l’argomento con queste parole:
«Quanto al soffio che entra nel naso, esso entra nel cuore-haty e nella tracheapolmoni [smA] e sono loro che lo trasmettono a tutto l’interno del corpo [Xt]».231
In questo passo, accanto al cuore-haty sono menzionati anche i polmoni o, più in
generale, si fa riferimento al complesso costituito dalla trachea e dai polmoni. La
radice sema, che con l’aggiunta del determinativo che raffigura un pezzo di carne
forma il termine egiziano che denota questa parte del corpo, significa «unire»,
«riunire», «legare», «collegare»:
sema
(smA), unire, legare;
sema
(smA), polmone, trachea-polmoni.
Forse il ruolo dei polmoni, secondo la fisiologia egiziana, è quello di legare il soffio
animatore che entra dal naso al sangue. A quanto emerge da un altro passo del papiro
di Ebers, i polmoni sarebbero, infatti, una sorta di riserva di sangue; si parla di
«masse sanguigne della trachea-polmoni» (snfw nw smA).232 Il sangue, dal canto suo, è
il principale veicolo delle correnti vitali. Anche in questo caso possiamo rilevare
un’assonanza di termini:
senef
230
Bln 163 b.
231
Eb. 855 a.
232
Eb. 855 k.
83
(snf), sangue;
senef
(snf), far respirare, dare il soffio.
L’azione del sangue è inoltre quella di legare gli elementi forniti dall’alimentazione,
per garantire l’elaborazione della sostanza corporea. Una serie di passi dei papiri
medici mette in evidenza questo aspetto, riferendosi, tuttavia, al sangue che non è più
in grado di esercitare la sua azione legante e che necessita, pertanto, di un intervento
terapeutico. Vediamo qualche esempio:
«Tu dovrai dire a questo proposito: il sangue è un ristagno [sS] che non può essere
legato [Ts]».233
«Altro (rimedio) per cacciare un ristagno [sS] di sangue che esso (= il sangue) non è
in grado di legare [Ts]».234
«Rimedio per cacciare un ristagno [sS] di sangue che non può essere legato [Ts]».235
Il termine utilizzato in questi brevi passi, ma anche in altri contesti, per indicare il
ruolo connettivo del sangue è il verbo
tjes
(Ts), legare, annodare, riunire, mettere insieme.
Questo stesso verbo compare anche in alcuni testi, soprattutto religiosi, del periodo
tardo, che espongono una teoria sulla formazione dello sperma e sulla generazione.
Secondo questa dottrina la semenza maschile trae origine dalle ossa, grazie a un
intervento del dio demiurgo. Questi, in genere nelle vesti del dio Khnum, produce,
crea (jr, qmA) la semenza nelle ossa e in seguito «lega» (Ts) la secrezione ossea per
permettere lo sviluppo dell’embrione. Consideriamo alcuni dei testi raccolti da
Sauneron sull’argomento:236
Nel Tempio di File, Khnum è colui «che crea l’uovo, che fa crescere il pulcino e che
crea la semenza nelle ossa e nel ventre [qmA mw m qsw m Xt]».237
Nel tempio di Edfu il medesimo dio ha l’epiteto di «colui che lega [Ts] la semenza
nell’osso per dare vita al pulcino».238
233
Eb. 198 a.
234
Eb., 593.
235
Hearst, 143.
236
Cfr. S. Sauneron, Le germe dans les os, in BIFAO, 60 (1960), pp. 19 sgg.
237
Testo citato in H. Grapow, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. I, Anatomie und Physiologie,
Akademie Verlag, Berlin 1954, p. 20. Cfr. anche S. Sauneron, Le germe dans les os, cit., p.21.
238
Edfu, V, 185, 1.
84
In entrambi i mammisi di Dendera viene detto ad Amon: «sei tu che fai vivere il
pulcino all’interno del suo uovo e che leghi [Ts] la semenza nelle ossa».239
Nel tempio di Esna, Khnum ancora una volta è il dio «che lega [Ts] la semenza
all’interno delle ossa».240
L’azione di «legare» la semenza è quella che consente la formazione della struttura
ossea dell’individuo che deve venire alla luce. Un passo dei Testi dei Sarcofagi che
concerne il concepimento di Horo conferma l’effetto che questa azione divina
produce in utero. Il testo recita:
«Io sono Iside, la sorella di Osiri, che piange sul padre degli [de]i, Osiri, che ha
giudicato i massacri delle Due Terre! La sua semenza è all’interno del mio ventre
[Xt=j], essa ha legato [Ts~n(=s)] una forma divina in un uovo».241
Bardinet, esaminando uno dei testi di Esna tradotti da Sauneron, osserva che nel
processo di formazione di un nuovo essere vivente anche il sangue svolge un ruolo
determinante: «il sangue è necessario alla crescita ossea (dunque alla crescita tout
court). Il dio ha fatto in modo che il sangue penetrasse nelle ossa. E’ questo sangue
che “legherà” la semenza-osso in ossa, ma questa azione dinamica non si produce che
in ragione della presenza di un soffio di vita, fonte di ogni azione dinamica e che è di
origine divina. E’ il dio Khnum che fa penetrare il sangue e il soffio che l’accompagna
nei luoghi dove la loro azione è necessaria».242
Sulla base degli elementi raccolti e delle considerazioni sviluppate, è possibile
affermare, a nostro avviso, che il corpo vivente concepito dalla fisiologia egiziana si
presenta essenzialmente come un corpo articolare. I suoi tratti distintivi sono, infatti,
la motricità e la connettività. Le correnti dinamiche trasportate dai condotti-met sono
la fonte del movimento. Per quanto riguarda, invece, la connessione tra le parti, la
rete dei condotti svolge una funzione per certi versi simile a quella dei tendini. I
condotti-met, infatti, anche se non si contraggono e la loro identificazione fisiologica
con i tendini risulta essere piuttosto dubbia, esercitano un’azione connettiva: essi,
diffondendo il soffio vitale, legano e mettono in relazione tra loro tutte le parti del
corpo. I condotti tengono insieme le ossa alle quali sono legati e le correnti in essi
veicolate permettono allo scheletro di muoversi. Il legame tra i condotti-met e le ossa
239
Testo citato in F. Daumas, Sur deux chants liturgiques des mammisis de Dendara, in Revue d’Egyptologie, 8
(1951), p. 37. Cfr. anche S. Sauneron, Le germe dans les os, cit., p. 22.
240
Esna, 318, 10.
241
85
CT, II, 211 b – 212 b.
è ulteriormente suffragato dal fatto che nel papiro di Ebers troviamo un rimedio «per
far guarire un osso in ogni luogo del corpo di un uomo» tra le ricette riguardanti i
condotti-met.243 La medesima relazione è istituita in un papiro medico-magico del
Medio Regno, conservato a Torino.244
Anche il cuore, centro del sistema corporeo, nei suoi due aspetti di haty e ib è
generatore di connettività. Abbiamo constatato che il cuore-haty è la sede dei soffi
vitali che irrorano tutto il corpo. Esso è inoltre un centro di relazioni, dal momento
che tutti i condotti-met passano necessariamente per questo luogo anatomico. Tutte
le parti del corpo sono, quindi, in relazione con il cuore-haty. Relativamente alla
funzione connettiva dell’ib, invece, leggiamo nei Testi dei Sarcofagi:
«E’ il mio ib che creerà le mie membra [awt=j], la mia carne [jwf=j] mi obbedirà e mi
costituirà [Ts(w)=f wj; lett.: mi legherà]».245
La «stanchezza» di un cuore che non riesce più a tenere aggregate le membra è
sinonimo di morte. Uno degli epiteti di Osiri, in quanto dio dei morti, è «stanco di
cuore» (wrD jb). Un cuore debole e affaticato provoca, infatti, una diminuzione delle
correnti dinamiche e quindi della vitalità del corpo. Per poter iniziare una nuova
esistenza nell’aldilà, il defunto necessita di un cuore riattivato, che occupi saldamente
il suo posto; egli afferma pertanto:
«Il mio ib non dimentica il suo posto (st=f), esso è fissato sul suo supporto».246
L’Egiziano concepisce, dunque, la vita come movimento e coesione, la morte come
assenza di movimento e separazione. Questa impostazione di pensiero mostra una
prevalenza di quella che possiamo chiamare una «logica articolare». L’essere umano,
in quanto individuo articolare, è una rete di relazioni particolare inserita in un’altra
rete di relazioni di carattere universale o cosmico. Il corpo vivente, elemento
dell’individuo articolare e sua immagine, è intergrato a sua volta nell’ambiente che lo
circonda e intrattiene con esso una serie di scambi. Abbiamo parlato del soffio che
entra dal naso e che viaggia attraverso i condotti-met, dispensando al corpo una forza
vitale. Non si tratta, tuttavia, dell’unico tipo di scambio. Ciò che viene condiviso con
l’ambiente, inoltre, può essere anche di natura patogena e aggredire il cuore-haty o
242
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 148.
243
Eb., 636.
244
Cfr. A. Roccati, Papiro ieratico N. 54003. Estratti magici e rituali del Primo Medio Regno, Edizioni d’Arte
Fratelli Pozzo, Torino 1970, p. 26.
245
CT, I, 171 e – g.
246
86
CT, VI, 176 f.
l’ib. Il papiro di Ebers parla, infatti, di un «soffio di vita» (TAw n anx) e di un «soffio di
morte» (TAw n m[w]t), che entrano nel circuito dei condotti-met seguendo vie
differenti rispetto a quelle costituite dalle due narici:
«Quattro condotti-met sono per le sue due orecchie e (altri) due condotti-met sono
per la sua spalla destra e (altri) due per la sua spalla sinistra. Il soffio di vita entra nel
suo orecchio destro, il soffio di morte nel suo orecchio sinistro. Si dice ancora: esso (il
soffio di vita) entra nella sua spalla destra e il soffio di morte entra nella sua spalla
sinistra».247
Descrivendo la fisiologia del corpo vivente alla luce della nozione di corpo articolare,
abbiamo cercato di dare una risposta alle domande con le quali abbiamo aperto il
paragrafo. Prima di concludere questo capitolo e di proseguire nello sviluppo della
tematica antropologica, tuttavia, alcune precisazioni si rendono necessarie; anzitutto
per quanto riguarda il concetto di corporeità e la terminologia impiegata dagli
Egiziani per parlarne, in secondo luogo relativamente al ruolo del corpo inviluppo
nell’ ambito della concezione generale della corporeità.
5. Breve esplorazione del lessico corporeo egiziano
Per parlare della dimensione corporea ricorrono più termini nella lingua egiziana. I
testi medici, per esempio, non utilizzano un unico vocabolo per indicare il corpo. Nei
testi religiosi si trova spesso la parola
djet
(Dt).
Questo termine è attestato già a partire dai Testi delle Piramidi, dove in una delle
formule leggiamo:
«Il tuo corpo [Dt] è il corpo [Dt] di questo Unis, la tua carne è la carne di questo Unis,
le tue ossa sono le ossa di questo Unis».248
Nel contesto dal quale è tratto questo passo viene messa in risalto la funzione di Osiri,
in quanto principio di resurrezione. Poiché Osiri è tornato in vita (sDb), anche il
sovrano può vincere la morte e ottenere una nuova esistenza nell’aldilà. Djet in
questo caso indica il corpo di una divinità o di un essere divinizzato. Questa stessa
247
87
Eb. 854 f.
accezione è conservata anche nell’espressione «tuo figlio del tuo corpo» (sA=k n Dt=k)
che troviamo, per esempio, nei due passi seguenti:
«Ra-Atum, (come) tuo figlio è venuto a te, Unis è venuto a te! Fallo salire a te,
stringilo tra le tue braccia, (poiché) egli è tuo figlio del tuo corpo [Dt] eternamente
[Dt]».249
«Atum fai dunque salire questo Unis! Avvolgilo nel tuo abbraccio, (poiché) egli è tuo
figlio del tuo corpo [Dt] eternamente [Dt]».250
Ciò che, a nostro avviso, è interessante rilevare in questi passi è l’accostamento del
termine djet con quello della medesima radice che viene tradotto con «eternità» o
«eternamente»:
djet
o
(Dt).
Il corpo djet ha a che fare dunque con l’eterna durata della dimensione celeste nella
quale è accolto il sovrano dopo aver lasciato il mondo terreno. Anche dai Testi dei
Sarcofagi emerge l’importanza che il corpo-djet assume per il defunto:
«Sei tu nel cielo? Sei nella terra? Che tua madre Nut ti apra i due battenti del
firmamento […] Possa tu venire in pace! Possa tu disporre del tuo corpo-djet! Che i
due battenti si scostino! Che si aprano le due porte della tomba!».251
A proposito di djet, Assmann parla di «corpo per l’aldilà» o «corpo di culto», che
diventa
oggetto
delle
pratiche
funerarie:
«Nonostante
le
operazioni
di
imbalsamazione siano compiute sul cadavere, esse si riferiscono ugualmente al corpo
dell’aldilà. Mentre il corpo mummificato, riccamente ornato, riposa, tanto immobile
quanto imperituro, nella camera sepolcrale, il corpo dell’aldilà è libero nei suoi
movimenti. Al morto viene formalmente augurato che le bende della sua mummia
siano disfatte. Tutte le altre dichiarazioni relative alla ricostituzione fisica e alla
restituzione delle membra e degli organi del corpo concernono anche il corpo del
defunto nell’aldilà».252
248
Pyr, 193 a-b.
249
Pyr, 160 a-c.
250
Pyr, 213 a-b.
251
CT, VII, 35 h-i; m-p.
252
J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 182. Cfr. anche ibid. pp. 495 sgg.
88
Quanto affermato da Assmann, a nostro avviso, trova un ulteriore riscontro in un
altro vocabolo che presenta ancora una volta la stessa radice djet e che indica una
istituzione funeraria o un rappresentante della medesima:
djet
o
(Dt).
Nei papiri medici sono impiegati termini differenti per denotare la corporeità. In
qualche rara occasione, tuttavia, compare anche il corpo djet. All’inizio del papiro di
Ebers, per esempio, troviamo un paio di occorrenze di djet, in riferimento, però, alla
divinità. Il contesto è, infatti, quello delle formule magiche che vanno recitate in
occasione dell’intervento terapeutico. In una di queste formule si chiede a Iside di
intervenire in favore dell’orante, assimilato al giovane Horo. In un passo della
formula, Horo, figlio di Osiri, è anche «corpo» di Ra:
«O Ra, parla in favore del tuo rappresentante (lett.: del tuo corpo djet)! O Osiri, parla
in favore di colui che è uscito da te! Allora Ra parlò in favore del suo rappresentante
[mdw ra Hr Dt=f] e Osiri parlò in favore di colui che era uscito da lui». 253
In questo caso djet, che si riferisce in primo luogo a Horo, si estende anche alla figura
dell’orante soltanto in quanto essa è associata per analogia a questa divinità.
Ritroviamo djet anche nel papiro di Berlino, per indicare il corpo della donna, in una
formula che propone una sorta di test di gravidanza.254 Djet indica, in ogni caso, una
corporeità che principalmente ha a che fare con la dimensione dell’aldilà e che è
immagine del divino.
Termini ricorrenti nei testi medici sono invece shet
e hau.
(Xt)
(Haw). Entrambi sono attestati a partire dall’Antico
Regno e possono riferirsi sia a un essere umano che a una divinità.
La parola shet significa propriamente «ventre», «addome» e per estensione «corpo».
Anche shet forma un’espressione pressoché identica a quella menzionata
relativamente al corpo djet: «suo figlio del suo ventre» (sA=f n Xt=f), ossia «suo figlio
253
Eb. 2 (1, 18-19). Cfr. anche la trad. di Grapow: «O Re, rede über deinen Leib (Dt) […] Es redet Re über seinen
Leib (Dt)», in H. von Deines, H. Grapow, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. IV,
Übersetzung der medizinischen Texte, Akademie-Verlag, Berlin 1958, p. 309. Cfr. inoltre Y. Bonnamy, A. Sadek,
Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 757.
254
Bln 197.
89
carnale».255 Il senso veicolato da shet, tuttavia, è quello di un involucro, di un
contenitore, che è anche un luogo di gestazione. Ritroviamo shet, per esempio,
nell’espressione «venire al mondo» (prj m Xt; lett. «uscire dal ventre»).256 Questo
vocabolo denota, inoltre, anche il corpo della madre in quanto matrice o quello di
Nut, dea del cielo.
I Testi delle Piramidi insistono particolarmente sul motivo celeste:
«Nut, diventa dunque benefica (poiché) tu eri (già) potente nel ventre [Xt] di tua
madre Tefnut, quando non eri nata».257
«Ra, feconda il ventre [Xt] di Nut per mezzo di questa semenza del beato che è in
lei».258
«Horo dell’orizzonte, […] quando ti alzi in verità come questa stella nella parte
inferiore del corpo del cielo [Xt pt]».259
Anche nei Testi dei Sarcofagi ricorre shet associato al concetto di matrice o seno
materno:
«O “colui il cui nome è stato creato nel ventre [Xt] di sua madre prima che egli uscisse
sulla terra”».260
Secondo Bardinet, lo shet non è semplicemente una cavità addominale ed
eventualmente toracica, ma è «comparabile a un “sacco”, a un “involucro (enveloppe)
corporeo” con delle “pareti”».261 Shet è dunque un vocabolo che sembra esprimere, in
generale, la nozione di corpo inviluppo.
Per quanto concerne, invece, il termine hau, esso indica, in diversi passi dei papiri
medici, i tessuti molli o la «carne» e questo sembra essere stato il suo significato
originale.262 Esiste, tuttavia, una parola più specifica per indicare le parti molli e non
ossee del corpo, escludendo i soffi e i liquidi che transitano nei condotti-met:
iuf
(jwf), carne.
255
Cfr. Wb, III, pp. 356 sg. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 679.
256
Cfr. ibid.
257
Pyr, 779 a-b.
258
Pyr, 990 a.
259
Pyr, 346 b; 347 a.
260
CT, VI, 301 j.
261
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 71, nota 1.
262
Cfr. G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, cit., p. 4.
90
Hau designa anche la superficie corporea e in questo significato può essere accostato
a shet.263 Va precisato, tuttavia, che hau, a differenza di shet, non ha l’accezione di
ricettacolo materno o matrice. A sostegno di ciò, si può osservare che l’espressione
«uscire dal corpo» (prj m Haw), rispetto a quella formata da shet, è in genere seguita
da un pronome suffisso maschile, trattandosi del corpo di un dio o del re.264 Più in
generale, hau si applica alle diverse parti del corpo e quindi indica il corpo come
insieme di membra.265
Un singolo membro è designato dal termine at
(at). Breasted ha
definito at con l’espressione «any part of the body».266 Lefebvre si spinge oltre,
parlando di «organo qualsiasi del corpo». Secondo Bardinet, invece, non sarebbe
corretto assimilare at al concetto moderno di organo, in quanto il corpo per gli
Egiziani non sarebbe diviso in organi, bensì in luoghi (endroits). Il vocabolo in
questione, dunque, «potrà designare tanto delle parti per noi ben precise che delle
regioni anatomiche. Per l’Egiziano at è un luogo qualsiasi del corpo che ha un nome.
Possedendo un nome, esso ha dunque un’individualità».267
In un certo numero di passi dei papiri medici i due termini at e hau si trovano
correlati, indicando il primo la singola parte corporea e il secondo l’insieme delle
parti o membra. Un passo del papiro di Ebers, per esempio, parla di un «trattamento
per cacciare gli ascessi-benut dal corpo di un uomo [m Haw n s] e da tutte le sue
membra [m awt nbt]».268
Possiamo ritenere che, nella fisiologia egiziana, le singole parti o membra corporee
siano collegate le une alle altre tramite delle zone di contatto o dei luoghi di giuntura.
A questo proposito, infatti, nel papiro di Ebers leggiamo di un medicamento da porre
«dove un membro si congiunge a un altro» (dmjw at r at).269 Il concetto di articolazione
è comunque presente nella medicina egiziana ed è espresso tramite il duale di at (aty)
o il termine composto ra-aty:
(rA-aty).270
263
Bardinet nella sua traduzione dei papiri medici privilegia questo significato di hau.
264
Cfr. G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, cit., p. 5.
265
Cfr. Wb, III, pp. 37 sgg. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 545.
266
J. H. Breasted, The Edwin Smith surgical papyrus, cit., p. 322.
267
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 73.
268
Eb. 551 (72, 10-11); cfr. anche Eb. 863 (106, 2-3).
269
Eb. 711.
270
Cfr. Wb, II, p. 396. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 137.
91
Alcuni trattamenti medici, per esempio, hanno la funzione di «ammorbidire le
articolazioni (rA-aty) in tutte le membra (m at nbt)».271
Lefebvre si domanda perché questo vocabolo sia al duale.272 L’impiego del duale, a
nostro avviso, si spiega con una concezione dell’articolazione come intervallo tra due
membra. Il termine ra (rA) significa «bocca», ma anche «apertura», «porta»,
«entrata». Ra-aty non è, dunque, una parte corporea «piena», ma è la giuntura che
unisce e separa due elementi «pieni». In altri termini, l’articolazione è la «bocca» che
permette a due parti contigue di dialogare. La sua funzione è quella di garantire la
continuità tra le membra là dove esse terminano e di fare in modo che ogni parte sia
in relazione con tutte le altre. Le giunture svolgono un ruolo complementare a quello
dei condotti-met: l’articolazione ra-aty costituisce in sostanza un «intervallo» tra due
«interlocutori», i condotti-met, invece, esercitano, come abbiamo già rilevato, una
funzione connettiva simile a quella dei tendini. Sia le articolazioni ra-aty che i
condotti-met, per poter svolgere adeguatamente il loro ruolo fisiologico, devono
rimanere «morbidi», poiché un loro irrigidimento corrisponde a una diminuzione
della capacità di movimento e dell’intensità delle correnti vitali. Anche il papiro di
Ebers stabilisce una relazione tra ra-aty e met, in quanto i trattamenti prescritti per
rendere morbide le giunture si trovano nel gruppo delle ricette che hanno lo scopo di
curare l’irrigidimento dei condotti-met.273
Esiste, tuttavia, un altro termine che può assumere anche il significato di
«tendine»:274
rudj
(rwD). Attestato già nei Testi delle Piramidi, esso
significa propriamente «corda», «legame», «corda d’arco». Questi significati
veicolano nello stesso tempo l’idea di vincolo e quella di flessibilità, le due
caratteristiche proprie del tendine. Nei testi medici, però, questo vocabolo non
assume il significato specifico di tendine.275
271
Eb. 654; H. 123.
272
Cfr. G. Lefebvre, Tableau des parties du corps humain mentionnées par les Égyptiens, cit., p. 8.
273
Eb. 627 – 696.
274
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 492. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek,
Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 363.
275
Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der
medizinischen Texte, Akademie Verlag, Berlin 1961, pp. 526 sg. In questa fonte, il significato attribuito a rwD
nell’ambito dei testi medici è fest sein.
92
Un ultimo termine relativo alla corporeità sul quale vorremmo soffermaci
brevemente è quello impiegato per indicare il corpo morto:
shat
(XAt), cadavere, spoglia. 276
Si tratta del cadavere ancora corruttibile, che deve quindi essere sottoposto alle
pratiche di mummificazione. Esso è rappresentato ideograficamente da un pesce
morto. Il ruolo e l’importanza di questo elemento vengono messi in rilievo da gran
parte della letteratura religiosa, a partire dai Testi delle Piramidi, dove si dichiara che
«lo stato di trasfigurato [Ax] è per il cielo e il cadavere [XAt] è per la terra».277
Negli stessi testi, tuttavia, si invocano anche le divinità, affinché impediscano la
putrefazione del corpo morto.278
Una formula dei Testi dei Sarcofagi ha lo scopo di evitare «che un cadavere [XAt]
scompaia nella terra»:
«E’ escluso che il mio cadavere [XAt] si decomponga nella terra! Voglio essere
incolume […] E’ escluso che io scompaia […] quando la decomposizione del mio
corpo [Haw] [uscirà (?)]».279
Questo sintetico esame del lessico corporeo ci mostra una dimensione dell’essere
umano complessa e variegata, che in nessun caso può considerarsi accessoria o
comunque meno rilevante rispetto all’insieme delle altre componenti della natura
umana. Il corpo è un’immagine del mondo divino e dell’eternità-djet, è inoltre un
insieme di membra articolate e in relazione tra loro, ma è anche un involucro o un
luogo di gestazione. La funzione del corpo inviluppo, che abbiamo individuato in
particolare nel corpo shet, a nostro avviso, non è soltanto quella di contenere delle
viscere o di nutrire un nuovo essere in formazione, ma consiste anche nel tenere in
gestazione l’individuo, per permettergli di rinnovarsi. Tutto ciò che esiste, infatti, va
incontro, per sua natura, a un inesorabile e progressivo deterioramento e necessita di
essere periodicamente rielaborato per continuare a sussistere. Secondo questa
concezione, la morte è funzionale al rinnovamento della vita. Durante la vita terrena,
il corpo inviluppo è complementare al corpo articolare che è l’attore principale. Con
la morte, l’involucro assume un ruolo di primo piano, in quanto il corpo morto,
276
Cfr. Wb, III, p. 359. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 680.
277
Pyr, 474 a.
278
Cfr. Pyr, 1257 d.
279
CT, VII, 23 a-b; e-f.
93
mediante il procedimento di mummificazione e i rituali ad esso connessi, diventa il
luogo dove le membra disiecta del defunto sono riunite in un nuovo corpo animato e
articolato. Assmann evidenzia che shet oltre a designare la corporeità indica anche un
insieme o una «corporazione» di dei, ossia un pantheon, concetto che richiama quello
di una unità articolata:280 il «corpo mummificato è trasfigurato in un pantheon. In
linguaggio informatico, si potrebbe dire che esso è “formattato” per essere
“convertito”, membro per membro, in un elemento del mondo divino».281
280
Cfr. supra, pp. 23 sg. Cfr. anche Wb, III, pp. 356 sg e R. Hannig, Grosses Handwörterbuch ÄgyptischDeutsch, cit., p. 679.
281
J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 66.
94
CAPITOLO III
OSIRI PROTOTIPO DELL’ESSERE UMANO
Abbiamo descritto l’essere umano concepito nell’Egitto faraonico come un individuo
articolare. All’interno della costellazione delle componenti in cui si articola la natura
umana, l’elemento corporeo ripropone il medesimo modello. La corporeità manifesta,
tuttavia, anche un aspetto ulteriore, complementare a quello articolare, che abbiamo
delineato utilizzando la categoria di corpo inviluppo. Benché entrambi gli aspetti
contribuiscano a strutturare la dimensione corporea, in un corpo vivente il modello
articolare detiene un primato. Il corpo, infatti, è in primo luogo la risultante
dell’insieme dei rapporti tra le membra che lo costituiscono, dal momento che
motricità e connettività sono il denominatore comune di ciò che è vivente.
Con l’avvento della morte, la rete di rapporti costitutiva dell’essere umano viene
meno. Dell’individuo non resta che una sommatoria di pezzi dis-articolati. In questo
contesto, anche il corpo appare come una semplice giustapposizione di membra
disiecta. Esso rimane principalmente un «inviluppo» da sottoporre alle pratiche di
mummificazione.
La mummificazione e i riti di passaggio ad essa connessi sono funzionali al ripristino
della rete di relazioni che la morte ha temporaneamente interrotto. Le componenti
dell’individualità, una volta riorganizzate in un nuovo sistema di rapporti,
garantiscono al defunto un’esistenza post mortem. L’individuo che riesce a realizzare
questa condizione è un akh, ossia un «trasfigurato», un vivente della stessa
«sostanza» degli dei.
La parabola umana è compendiata in uno dei miti più caratteristici della tradizione
egiziana, quello di Osiri. Prototipo di colui che, passando attraverso il disfacimento
del proprio corpo, ha vinto la morte e si è trasfigurato in un individuo nuovo, Osiri è il
simbolo della ciclicità intrinseca alla natura dell’esistente, che per sussistere necessita
di un periodico rinnovamento. Nell’inevitabile alternarsi di vita e morte, tuttavia, il
primato spetta alla vita; questo dio rappresenta, infatti, la possibilità per l’uomo di
raggiungere l’immortalità.
L’epiteto di maa-khru
95
(mAa-xrw), giusto di voce,
che il tribunale di Ra aveva riconosciuto a Osiri era attribuito a tutti i defunti che
avevano vissuto conformemente a Maat, alla legge universale, e ogni defunto era
un’immagine di Osiri.
1. Il mito di Osiri come modello antropologico
In questo paragrafo vorremmo mettere in risalto gli aspetti fondamentali del mito di
Osiri, seguendo una linea espositiva e interpretativa funzionale alla lettura della
concezione egiziana dell’essere umano che stiamo proponendo.
Anzitutto ci sembra necessaria qualche precisazione preliminare a proposito delle
fonti e dell’evoluzione storica di questo mito, che si snodano in un arco temporale che
supera i 2500 anni. La versione più completa del mito di Osiri di cui disponiamo è
costituita senza dubbio dal De Iside et Osiride di Plutarco. Si tratta di una
testimonianza molto tarda (Plutarco vive tra il 50 e il 120 d.C circa) e per di più
indiretta, proveniente da un autore greco. Tutti gli elementi essenziali del mito,
tuttavia, sono presenti nella cultura egiziana già a partire dall’Antico Regno, anche se
non sono organizzati in un racconto lineare e coerente. Le attestazioni più antiche
della storia del dio Osiri sono contenute nelle formule dei Testi delle Piramidi, il cui
retaggio sfocia nei Testi dei Sarcofagi del Medio Regno e nel successivo Libro dei
Morti.282 Una fonte più recente, la stele di Amenmes, risalente alla prima metà della
XVIII dinastia, ci ha tramandato un celebre inno a Osiri, che enumera nomi,
manifestazioni e forme del dio e riprende i motivi essenziali del suo mito.283
Affrontando il tema della «passione» del dio, le cappelle osiriane del tempio di
Dendera, di epoca tolemaica, con le loro raffigurazioni offrono un’ulteriore
importante testimonianza.284 Sono molti, inoltre, i documenti che si riferiscono in
qualche modo a questo mito, presentandone uno o più aspetti.285
282
Per quanto riguarda le fonti più antiche del mito di Osiri, cfr. N. Guilhou, Les deux morts d’Osiris d’après les
Textes des Pyramides, in Égypte, 10 (1998), pp. 19 sgg.
283
Stele Louvre C 286. In proposito, cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à
Osiris du Louvre, cit., pp. 725 sgg.
284
Cfr. S. Cauville, Dendara, les chapelles osiriennes, 3 voll., IFAO, Le Caire 1997.
285
Vorremmo ricordare almeno il Racconto della disputa tra Horo e Seth, contenuto nel Papiro Chester Beatty I,
risalente alla XX dinastia, e probabile adattamento di un racconto già noto durante il Medio Regno (cfr. A. H.
Gardiner, The Library of A. Chester Beatty, London 1931); il Papiro Jumilhac, un trattato di geografia mitologica
che spiega le differenti leggende relative al XVII nomo dell’Alto Egitto, raccolte in epoca tolemaica (cfr. J. Vandier,
Le Papyrus Jumilhac, Paris 1961); il Papiro Salt 825, contenente il rituale della Casa della Vita (per ankh),
redatto, secondo la datazione di P. Derchain, durante la XXX dinastia (cfr. P. Derchain, Le Papyrus Salt 825,
rituel pour la conservation de la vie, Bruxelles 1965. Cfr. anche: F. R. Herbin, Les premières pages du Papyrus
Salt 825, in BIFAO, 88 (1988), pp. 95 sgg.).
96
Fig. 1 (Osiri sul trono, davanti a lui il faraone Seti I; tempio di Seti I, Abido. Foto di P.
Pietrapiana)
97
La storia di Osiri ripercorre le tre fasi principali che secondo gli Egiziani
caratterizzano l’esistenza umana: la vita sulla terra, la morte con la conseguente
scissione dell’individuo in una somma di parti slegate e infine la reintegrazione di
queste parti in una nuova unità, che offre la possibilità di una vita post mortem.
Prima di diventare signore dell’Occidente, ossia sovrano del mondo dell’aldilà,
secondo il mito, Osiri governava l’Egitto. Relativamente alla sua esperienza sulla
terra, le fonti più antiche non sono particolarmente eloquenti. Del regno terrestre di
Osiri troviamo, per esempio, qualche cenno nei Testi dei Sarcofagi, dove si afferma
che egli ha governato l’Egitto e gli abitanti della terra e che ha fatto cessare il
«massacro» (Sat) nelle Due Terre.286 Il massacro in questione probabilmente si
riferisce alla situazione di disordine precedente all’intronizzazione di Osiri.287 Il suo
regno è presentato, infatti, come un periodo di civiltà e di benessere per l’Egitto.
Nella stele di Amenmes, che a questo proposito è più prodiga di informazioni, uno
degli appellativi di Osiri è «colui che ha stabilito Maat sulle due rive». Egli, erede di
Geb, «ha posto questa terra nella sua mano; le sue acque, i suoi venti, la sua
vegetazione, tutto il suo bestiame […] e le Due Terre ne sono soddisfatte. Salendo sul
trono di suo padre, come Ra quando spunta all’orizzonte e pone la luce al di sopra
delle tenebre, egli ha rischiarato l’ombra per mezzo delle sue due piume, egli ha
inondato le Due Terre come Aton all’inizio del mattino».288
Le fonti greche ripropongono l’immagine di un regno civilizzatore. Plutarco riporta
che «Osiri inaugurò il suo regno liberando immediatamente gli Egiziani dal loro
tenore di vita povero e ferino. Così, mostrò loro i frutti dell’agricoltura, stabilì leggi e
insegnò a onorare gli dei. In seguito percorse tutta quanta la terra egiziana,
civilizzandola senza avere affatto bisogno di armi».289 Il resoconto di Plutarco relativo
all’esperienza terrena di Osiri concorda nella sostanza con quello redatto almeno un
secolo prima da Diodoro Siculo.290
Il passaggio dal disordine all’ordine descritto dalle fonti equivale alla creazione del
cosmo. La salita al trono di Osiri corrisponde, dunque, alla ripetizione della «prima
286
287
Cfr. CT, I, 189 f-g; CT, II, 211 c.
Una delle varianti del nome di Horo della titolatura regale di Osiri, presente a più riprese nel tempio di
Dendera è «colui che ha fatto cessare il massacro nelle Due Terre». Cfr. B. Mathieu, Quand Osiris régnait sur
terre …, in Égypte, 10 (1998), p. 9.
288
Stele Louvre C 286, righe 9; 11-13. Cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à
Osiris du Louvre, cit., pp. 737 sg.
289
Plutarco, De Iside et Osiride, 13, 356 A-B, in Id., Iside e Osiride e Dialoghi Delfici, trad. it. di V. Cilento,
Bompiani, Milano 2008. D’ora in poi faremo riferimento a questa ed.
98
volta», l’evento che dà inizio all’esistente in seno al non esistente. Egli è il prototipo
dell’individuo che realizza Maat sulla terra, condizione indispensabile per lo sviluppo
e il mantenimento della vita. In virtù della conformità del suo agire all’ordine
cosmico, Osiri è detto Unnefer (wn-nfr), cioè l’essere perfetto.291
Per il pensiero egiziano, tuttavia, la vita è nella sua essenza un movimento perenne.
Tutti gli enti, per poter continuare a sussistere, necessitano di una periodica
trasformazione. Ogni ordine naturale non può, pertanto, rimanere statico, ma deve
potersi riconfigurare. Questo aspetto costituisce il tema affrontato dal nucleo centrale
del mito, quello relativo alla morte e alla resurrezione di Osiri.
Il racconto di Plutarco parla di una morte in due tempi; la narrazione procede
secondo lo schema seguente:
1) Prima morte: Osiri è rinchiuso dal fratello Seth in una cassa e gettato nelle
acque del Nilo.
2) Iside, sorella e sposa del dio, si reca fino a Biblo alla ricerca del corpo di Osiri,
trova l’urna e la depone in un luogo appartato.
3) Seconda morte: Il corpo di Osiri è trafugato da Seth, fatto a pezzi e disperso su
tutto il territorio dell’Egitto.292
4) Iside riesce a recuperare tutte le parti del cadavere dello sposo, tranne il fallo,
che viene sostituito da un membro modellato appositamente dalla dea.293
5) In virtù di un’unione postuma tra Iside e Osiri, nasce Harpocrate (Horo
bambino).
La falsariga indicata nello schema, che costituisce l’ossatura del resoconto di
Plutarco, attorno alla quale si inseriscono diversi aneddoti che non trovano riscontro
nelle fonti egiziane, è presente già a partire dai Testi delle Piramidi, anche se ci è
trasmessa in frammenti sparsi.
290
291
Cfr. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, I, 17.
Si tratta dell’epiteto ufficiale di Osiri a partire dal Medio Regno. Cfr. British Museum, 580 e la stele di
Ikhernofret, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung Berlin, 1204. Nella versione della titolatura del dio,
presente nel tempio di Dendera, Unnefer è il nome introdotto dall’appellativo «figlio di Ra» (sA ra), dunque il
nome di nascita. Cfr. J. Yoyotte, Une notice biographique du roi Osiris, in BIFAO, 77 (1977), pp. 145 sgg.
292
Relativamente al numero di pezzi in cui è diviso il corpo di Osiri, ci sono più tradizioni. Nel resoconto di
Plutarco, le parti sono quattordici e sono messe in relazione con la metà del ciclo lunare. Anche il papiro Jumilhac
menziona lo stesso numero di parti; secondo Diodoro Siculo, invece, i pezzi sarebbero ventisei. La geografia sacra
illustrata nel tempio di Edfu, infine, elenca quarantadue pezzi del corpo di Osiri, tanti cioè quanti erano i nômi in
cui era suddiviso l’Egitto nella Bassa Epoca.
293
L’aneddoto relativo alla perdita e alla sostituzione da parte di Iside del fallo di Osiri non trova riscontro nelle
fonti egiziane. In proposito cfr. il commento di C. Froidefond in Plutarque, Œuvres morales, Tome V, 2° partie,
Isis et Osiris, Les Belles Lettres, Paris 1988, p. 270, nota 2. Le mummie di Sethi I e Ramses II, tuttavia, potrebbero
richiamare, in modo indiretto, questo aneddoto del mito osiriano. In entrambi i casi, infatti, durante il processo di
mummificazione, il fallo è stato asportato, bendato e poi riposto in una statuetta cava rappresentante Osiri.
99
Nadine Guilhou ha individuato all’interno del corpus dei Testi delle Piramidi due
gruppi di formule che narrano la «doppia morte» di Osiri.294 Per quanto riguarda la
prima tappa della morte del dio, un passo sembra menzionare la cassa in cui Osiri
sarebbe stato imprigionato:
«Nel tuo nome di “Colui che è nella tenda divina, Colui che è nelle bende”, rinchiuso
[dbn=w], poiché tu sei nel sarcofago, tu sei nel sacco di pelle».295
I testi del primo gruppo citati da Guilhou, in ogni caso, mettono in risalto soprattutto
il gesto di Seth e le sue conseguenze: Osiri è fatto cadere, è abbattuto e giace su un
fianco. L’uccisione di Osiri viene messa in rapporto con il luogo della scoperta del
suo corpo. Ecco alcuni di questi passi:
«Questo Grande è caduto sul suo fianco, colui che è in Nedit è stato abbattuto [nd=w]
quanto a lui!».296
«L’ho trovato! L’ho trovato! – ha detto Iside. L’ho trovato! – ha detto Nefti, dopo che
ebbero visto Osiri sul suo fianco sulle rive [di Nedit]».297
«E’ venuta Iside, è venuta Nefti, una da Ovest, una da Est, una come uccello-hat, una
come nibbio; esse hanno trovato Osiri, (dopo che) l’ha gettato [ndj] a terra suo fratello
Seth a Nedit».298
I documenti del secondo gruppo si riferiscono, invece, allo smembramento del dio e
alla ricerca e alla raccolta delle parti del suo corpo:
«E’ tua sorella primogenita che ha raccolto [sAqwt] le tue carni [jwf=k], che ha piegato
le tue mani, che ti ha cercato e trovato, che ti ha scoperto sul tuo fianco sulla riva di
Nedit, affinché cessassero le lamentazioni nei Due Consigli!».299
«Oh! Oh! Riassemblati [Ts Tw], questo Teti! Prendi dunque la tua testa [tp]! Riunisci le
tue ossa [qsw]! Raggruppa dunque le tue membra [awt]! Togli la terra dalla tua carne
[jwf]!».300
«Sono io, tuo figlio! Sono Horo! Egli è venuto verso di te per poterti purificare, per
poterti rimettere in buono stato, per poterti fare vivere per poter raccogliere per te le
tue ossa [qsw], per poter raccogliere per te i tuoi tessuti molli (?) [nbwt=k] e per poter
294
Cfr. N. Guilhou, Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, cit., pp. 21 sgg.
295
Pyr, 184 a-b.
296
Pyr, 819 a
297
Pyr, 2144 a-b. Nella trad., inserendo «Nedit», seguiamo la lettura di N. Guilhou (cfr. Id., Les deux morts
d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, cit., p. 21).
298
Pyr, 1255 c – 1256 b.
299
Pyr, 1008 b – 1009 a.
300
Pyr, 654 a-d.
100
raccogliere per te le tue parti tagliate [dmAwt=k], poiché questo Pepy è in verità Horo
che protegge suo padre! E’ per te che egli ha colpito colui che ti ha colpito!».301
Secondo alcuni passi dei Testi delle Piramidi sono Iside e Nefti coloro che recuperano
i resti di Osiri dispersi per l’Egitto, conformemente alla testimonianza di Plutarco.
Altre volte, invece, come nell’ultimo passo riportato, è Horo a effettuare la raccolta
delle parti disperse del padre defunto. Lo stesso Horo è colui che vendica Osiri,
contribuendo in questo modo, oltre che alla sua ricomposizione corporea, anche alla
sua reintegrazione nella comunità degli dei. Le formule che presentano Horo in
questa seconda veste attingono alla sfera del sacrificio, un animale sacrificale è
assimilato a Seth, come nel passo seguente:302
«In piedi, affinché tu possa vedere ciò che ha fatto per te tuo figlio! Risvegliati,
affinché tu possa comprendere ciò che ha fatto per te Horo! Egli ha colpito per te
colui che ti ha colpito come (si colpisce) un bue; egli ha ucciso per te colui che ti ha
ucciso come (si uccide) un toro selvaggio; egli ha legato per te colui che ti ha legato e
l’ha posto sotto il controllo di tua sorella, la Grande che è in Qedem».303
L’elemento più interessante, funzionale al nostro discorso, che emerge da questi due
gruppi di testi non è tanto la scansione temporale che individua due fasi distinte della
morte di Osiri che si susseguono, quanto il fatto che la morte di cui si parla sembra
chiamare in causa in modo piuttosto evidente un corpo articolare. Le «due morti» di
Osiri corrispondono, infatti, al venire meno dei due requisiti essenziali alla vita del
corpo articolare: il movimento e la coesione delle parti. Possiamo, dunque,
sintetizzare la «doppia morte» di Osiri in questo modo:
1) Osiri è abbattuto e giace immobile a terra: il corpo perde la motricità;
2) il dio viene smembrato e i suoi resti dispersi: il corpo perde la connettività.
La ricerca e la raccolta dei pezzi del cadavere di Osiri sono funzionali alla creazione di
un nuovo corpo articolare.
Relativamente alla morte del dio, tuttavia, è necessario prendere in considerazione
un altro aspetto, di rilevanza non inferiore. Ci riferiamo al ruolo svolto dagli umori e
dalle viscere del corpo di Osiri e più in generale al rapporto tra il dio e l’acqua.
301
Pyr, 1683 b – 1685 a.
302
In proposito, scrive N. Guilhou: «C’è ogni volta un gioco di parole, difficile da rendere nella traduzione, tra il
verbo e il nome dell’animale. Il sacrificio appare chiaramente come un atto di riparazione: a ogni gesto compiuto
un tempo da Seth corrisponde un gesto di Horo. Così il male non è soltanto annientato, ma è trasformato in atto
positivo […]. La messa a morte dell’animale sacrificale fa parte dei riti funerari effettuati in occasione delle
esequie, dopo la ricostituzione del corpo» (Id., Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides, cit., pp.
22 sg).
101
Secondo il racconto di Plutarco, la cassa contenente Osiri viene gettata da Seth nel
Nilo. Le fonti egizie in più occasioni fanno riferimento al corpo del dio alla deriva
sulle acque. Questi documenti hanno fatto pensare all’annegamento come vera causa
della prima morte di Osiri. Un riesame di questi testi, tuttavia, sembra escludere
questa interpretazione.304 La tesi dell’annegamento si fonda sostanzialmente sul
significato attribuito al verbo mehi (mHj). Pascal Vernus è dell’avviso che questo
verbo, nei passi in questione, non possa essere tradotto con «annegare»; l’accezione
corretta sarebbe, invece, «immergersi», «essere immerso», «andare alla deriva».305
La deriva del corpo di Osiri è un effetto del suo disfacimento in atto. Il processo di
putrefazione si è innescato e il cadavere comincia a rilasciare delle sostanze liquide.
Iside e Nefti hanno il compito di arginare la dispersione degli umori del loro fratello
Osiri e di impedire la dissoluzione completa del suo cadavere. I Testi delle Piramidi si
esprimono in questi termini:
«Che esse (Iside e Nefti) impediscano che tu ti decomponga [rpw=k] secondo questo
tuo nome di Anubi! Che esse impediscano che la tua putrefazione [HwAAt] si versi [sAb]
a terra secondo questo tuo nome di Sciacallo [sAb] dell’Alto Egitto! Che esse
impediscano che l’odore del tuo cadavere [SAt] diventi cattivo secondo questo tuo
nome di Horo di Shat [Hr-SAt]! Che esse impediscano che si putrefaccia [HwAw] Horo
l’Orientale! …».306
Il medesimo concetto è esposto nei Testi dei Sarcofagi in modo pressoché identico:
«Iside è venuta, è venuta Nefti, l’una da Occidente, l’altra da Oriente, l’una come
nibbio, l’altra come uccello-hat, per impedire che tu ti decomponga [rpw=k] secondo
questo tuo nome di Anubi, per impedire che la tua putrefazione [HwAAt] si versi [sAb] a
terra secondo questo tuo nome di Sciacallo [sAb] dell’Alto Egitto, per impedire che
diventi cattivo l’odore del tuo cadavere [XAt] a terra secondo questo tuo nome di Horo
della palude [Hr-XAty], per impedire che si putrefaccia [HwAw] Horo l’Orientale …».307
Questa componente del mito è riscontrabile anche nel periodo tardo della storia
egiziana. Una formula che appare con frequenza sui monumenti funerari di epoca
saita recita, infatti:
303
Pyr, 1976 a – 1977 d. Cfr. anche Pyr, 1007 c; 1544 a – 1545 d.
304
Per una rassegna e un’analisi di questi documenti, cfr.: P. Vernus, Le Mythe d’un mythe: la prétendue noyade
d’Osiris. – De la dérive d’un corps à la dérive du sens, in Studi di egittologia e di antichità puniche, 9 (1991), pp.
19 sgg.
305
Cfr. ibid., pp. 24 sgg.
306
Pyr, 1257 a – 1258 a.
102
«Se tua sorella Iside è venuta a te […] è per proteggerti, affinché tu non vada alla
deriva [mHj]».308
Vorremmo far notare alcuni giochi di parole che ricorrono nei due passi appena citati,
estratti dai Testi delle Piramidi e dai Testi dei Sarcofagi. L’utilizzo della
paronomasia, frequente nei testi egiziani, in questo caso pone in primo piano
l’aspetto umorale e acqueo del corpo di Osiri.309 In entrambe le fonti sono impiegati
due termini con la stessa fonetica per indicare il verbo «colare», «gocciolare» e lo
sciacallo, che in questo contesto rappresenta una caratteristica della natura di Osiri:
sab
(sAb), colare, gocciolare;
sab
(sAb), sciacallo, cane selvaggio.
Nel primo passo troviamo, inoltre, il termine shat, in riferimento al cadavere e a
un’altra connotazione di Osiri, espressa dall’appellativo «Horo di Shat»:
shat
(SAt). Nella grafia del termine è presente il segno
unilittero che rappresenta un lago o uno stagno:
Her-shat
(S);
(Hr-SAt), Horo di Shat.
Nel passo tratto dai Testi dei Sarcofagi, invece, vengono abbinati i due termini
seguenti:
shat
Hr-shaty
(XAt), cadavere, salma;
(Hr-XAty), Horo della palude.310
Anche questa volta viene messo in risalto l’elemento liquido, umorale del cadavere di
Osiri. L’aspetto «umorale» del corpo del dio e il ruolo svolto da esso nell’ambito del
mito consente, a nostro avviso, di considerare la morte di Osiri doppia anche in un
307
CT, I, 303 d – 304 e.
308
Cfr. P. Vernus, Le Mythe d’un mythe: la prétendue noyade d’Osiris. – De la dérive d’un corps à la dérive du
sens, cit., pp. 22 sgg.
309
Relativamente alla paronomasia, cfr. infra, pp. 290 sgg.
310
Shaty è un nome di relazione (o nisbe) formato a partire dal sostantivo shat (XAt), che significa «palude»,
«laguna». Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 680.
103
senso differente e, tuttavia, complementare rispetto a quello proposto poco sopra. Le
fonti prese ora in considerazione descrivono, infatti, la morte di un corpo inviluppo,
ossia di un involucro che si decompone e che rilascia il suo contenuto. In base a
questa lettura, la morte del dio risulta doppia perché chiama in causa entrambi gli
orizzonti della dimensione corporea: quello articolare e quello relativo al corpo
inviluppo.
L’azione di Iside e Nefti, volta a contenere la dispersione degli umori e a canalizzarne
il flusso, prelude alla ricostituzione del corpo del dio. Secondo i Testi dei Sarcofagi, le
due dee costruiscono una diga attorno al corpo del fratello defunto, cosa che fa
pensare a una sorta di sarcofago, quindi a un luogo di gestazione:
«Guarda, dunque: ti ho trovato sul tuo fianco, Grande Inerte. “Sorella mia”, ha detto
Iside a Nefti, “costui è (nostro) fratello! Vieni, affinché solleviamo la sua testa! Vieni,
affinché raccogliamo le sue ossa [qsw]! Vieni, affinché controlliamo le sue membra
[awt]! Vieni, in modo da fare una diga [Dnjt] attorno a lui! Che l’Inerte non sia debole
grazie a noi!” Cola [sAb], umore [rDw] uscito da questo Beato [Ax]! Riempi dunque i
canali! Forma i nomi dei fiumi! Osiri, vivi dunque …».311
Gli umori che fuoriescono dal corpo di Osiri presentano una doppia valenza: da un
lato essi sono un segno di morte, di una progressiva dissoluzione dell’individualità,
dall’altro, una volta incanalati e governati, sono portatori del potere vitale insito nel
dio, in grado di irrorare e fecondare le regioni dell’esistente. La componente umorale
è assimilabile, dunque, alle acque primordiali del Nun o a quelle dell’inondazione che
periodicamente bagnano e rinnovano la terra della Valle del Nilo. Nel capitolo
precedente abbiamo già avuto modo di rilevare l’importanza degli umori di Osiri,
nella misura in cui essi danno origine al ba, elemento dinamico per eccellenza e
fattore di integrazione dell’individualità umana.
Degli Egiziani Plutarco scrive che «non solo il Nilo, sì anche ogni forma di umidore,
essi la chiamano, senz’altro, emanazione di Osiri; e nei loro riti sacri, costantemente,
apre il corteo, a onore del dio, un’idria colma».312 In effetti, gli Egiziani consideravano
l’acqua come la secrezione del corpo di Osiri, soprattutto quando essa veniva offerta
al defunto sotto forma di libagione. Quest’ultima costituiva la parte essenziale del
311
CT, I, 306 c – 307 f.
312
Plutarco, De Iside et Osiride, 36, 365 B.
104
rituale funerario.313 L’acqua rappresentava, infatti, il fluido vitale in grado di
rianimare l’ib del defunto e di rinnovare integralmente il suo essere.314
L’opera di contenimento degli umori di Osiri, intrapresa da Iside e Nefti, è il primo
atto della ricostituzione del suo corpo, dopo la doppia morte subita. Il processo di
rigenerazione parte dall’elemento liquido, così come l’esistente, la «prima volta»,
scaturisce per opera di un demiurgo dalle acque indifferenziate del Nun. All’interno
della distesa liquida in espansione, costituita dagli umori del dio, le due dee
circoscrivono un «luogo».315 La costruzione della diga individua, infatti, un limite, un
«confine» all’interno dell’indifferenziato: l’espressione utilizzata nei Testi dei
Sarcofagi mette in evidenza questo aspetto: Dnjt m Dr=f (lett.: una diga come suo
confine).316
In questa fase dell’iter di Osiri, la presenza di un inviluppo, di un contenitore è la
premessa necessaria per creare una nuova rete di relazioni a partire dalla sommatoria
di parti corporee disarticolate. Nei passi che abbiamo preso in considerazione poco
sopra Osiri è associato allo sciacallo, immagine del dio Anubi, che nella tradizione
egiziana ricopre il ruolo di guida dei defunti e imbalsamatore. Uno degli epiteti
attribuiti a questo dio è
Imy-ut
(jmy-wt), che può essere tradotto come «colui
che è nelle bende» o «colui che è nell’involucro». Il termine ut (wt), infatti,
variandone il determinativo, può assumere i significati di «benda della mummia»,
«inviluppo»,
«imbalsamatore»,
«sarcofago».
Il
verbo
omonimo
significa
«avvolgere», «inviluppare», «bendare».317 Nel contesto esaminato, Anubi è messo in
relazione con gli umori che fuoriescono dal corpo di Osiri in decomposizione.
L’azione di questo dio va ad aggiungersi a quella di Iside e Nefti, diretta ad arrestare il
processo di decomposizione della salma del loro fratello. Anubi in quanto agente
della
mummificazione
da
un
lato
impedisce
che
gli
umori
intacchino
313
In proposito, Assmann afferma: «Quando aveva la forma di un rituale completo, il culto funerario poteva
comprendere una quantità di azioni e di presentazioni differenti, tra le quali un gran numero di riti con l’acqua.
Esso poteva essere, però, anche accorciato o addirittura semplificato all’estremo e ridursi a una libagione d’acqua.
Tutto era contenuto in nuce nella libagione» ( Id., Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., pp. 514 sg).
314
Cfr., per es., Pyr, formule 32 e 33.
315
La circoscrizione di un luogo da parte delle due dee richiama l’immagine della collina primordiale di cui
parlano le cosmogonie egiziane, ossia della prima terra ferma emersa dall’oceano primordiale, a partire dalla
quale il dio demiurgo dà luogo alla manifestazione cosmica.
316
CT, I, 307 a.
317
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 238 sg.
105
irrimediabilmente il cadavere, dall’altro crea l’involucro che permette la gestazione di
un nuovo essere.318 Un passo dei Testi delle Piramidi, istituendo un’analogia tra il re
Pepy I, Osiri e Anubi, presenta l’immagine di un corpo asciutto, secco, privo di umori
e, pertanto, non più soggetto alla decomposizione:
«Che Iside si sieda, con le sue due braccia su di lei! Nefti ha afferrato l’estremità dei
loro due seni per loro fratello Pepy, raggomitolato sul suo corpo [Xt], (come) Osiri nel
suo pericolo, (come) Anubi capo della stretta [xnty Amm]. Tu non hai decomposizione
[jmk], questo Pepy! Tu non hai traspirazione [fdt], questo Pepy! Tu non hai umori
[rDw], questo Pepy! Tu non hai polvere, questo Pepy!».319
Una formula dei Testi dei Sarcofagi, invece, si sofferma sull’opera del dio sciacallo in
questi termini:
«Che Anubi renda gradevole il tuo odore davanti al tuo posto nella tenda divina! Che
egli ti dia l’incenso [per ogni stagione] […] Anubi si ricorderà di te in Busiri, il tuo ba
si rallegrerà in Abido, il tuo cadavere [XAt] che è sull’altopiano desertico si rallegrerà.
[L’imbalsamatore] si rallegrerà in qualunque luogo egli si trovi! Possa tu essere
messo in conto e preservato sotto la forma di questa mummia [saH] che è davanti a
me! Che l’ib di Anubi sia soddisfatto dell’abilità delle sue due mani!».320
Nella ricostituzione del corpo di Osiri interviene anche un’altra divinità: Nut, dea del
cielo e madre del dio. L’intervento di Nut conferma ulteriormente il ruolo di primo
piano dell’involucro o inviluppo nella parte del mito che stiamo esaminando. Se da un
lato, come abbiamo rilevato, l’azione congiunta di Iside, Nefti e Horo permette il
recupero e la riunione dei pezzi del cadavere di Osiri, impedendone la completa
dissoluzione, dall’altro, per una effettiva riarticolazione e rianimazione del corpo, si
rende necessario un elemento ulteriore: il sarcofago. Anubi presiede alla
mummificazione del corpo defunto, Nut è il sarcofago che contiene la mummia;
grazie ad esso la gestazione può essere portata a termine con esito positivo:
«Tu sei stato dato a tua madre Nut nel suo nome di “Sarcofago” [qrswt], ella ti ha
messo insieme [inq~n=s] nel suo nome di “Bara” [qrsw]! Tu sei condotto in alto da lei
nel suo nome di “Tomba” [ja]!».321
318
Per quanto riguarda il rapporto tra Anubi, la mummificazione, gli umori e le viscere, cfr.: J.-C. Goyon,
Momification et recomposition du corps divin: Anubis et les canopes, in Funerary Symbols and religion, Essays
dedicated to Professor M.S.H.G. Heerma van Voss, J. H. Kok, Kampen 1988, pp. 34 sgg.
319
Pyr, 1281 b – 1283 b.
320
CT, I, 195 g – 196 b; 197 h – 198 f.
321
Pyr, 616 d-f.
106
L’importanza del ruolo svolto da una Dea Madre nel processo di rinascita del defunto
è testimoniato dalle iscrizioni e dalle raffigurazioni di numerosissimi sarcofagi, a
partire dall’Antico Regno. Si tratta di quell’immagine della morte che Assmann ha
definito «ritorno nel grembo materno».322
La Grande Madre Nut, avvolgendo il corpo del figlio Osiri, assembla nuovamente le
sue ossa in una struttura articolata e, pertanto, animata:
«Tua madre è venuta affinché tu non languisca, Nut, affinché tu non languisca, Colei
che avvolge [Xnm] il Grande, affinché tu non languisca e Colei che protegge lo
Spaventato, affinché tu non languisca! Ella ti proteggerà e impedirà che tu languisca,
ella ti darà la tua testa [tp=k], riunirà [jab] per te le tue ossa [qsw], raggrupperà [dmD]
le tue membra [awt] e ti porterà [jnt] il tuo ib nel tuo corpo [Xt]».323
Su un sarcofago del Medio Regno leggiamo, invece:
«Questo Osiri N, tua madre è venuta a te. Guarda, Nut è venuta, per poter riunire
[wjab(w)=s] le tue ossa [qsw], per poter riattaccare [Ts(w)=s] i tuoi tendini [rwDw], per
poter consolidare [smn(w)=s] le tue membra [awt], per poter impedire la tua
decomposizione e per poter prendere la tua mano, affinché tu possa vivere nel tuo
nome di Vita, vivente in eterno!».324
Le membra disiecta del corpo di Osiri si riorganizzano, dunque, in una nuova rete di
relazioni, ossia in un nuovo corpo articolare, la cui struttura essenziale, come
abbiamo rilevato, è costituita dalle ossa, animate dai condotti-met. Nell’ultimo passo
dei Testi delle Piramidi che abbiamo riportato vengono menzionate le ossa e il cuoreib, ossia il centro dell’individuo che realizza la sua volontà attraverso il cuore-haty, la
sede privilegiata dell’ib che trasmette le correnti vitali nei condotti. La fisiologia
esposta nei papiri medici, come abbiamo riscontrato, sembra attribuire al cuore-ib
l’insieme dei condotti-met, attraverso i quali esso raggiunge ogni parte del corpo.
Nella formula tratta dai Testi dei Sarcofagi, invece, non viene menzionato l’ib, si
insiste ancora, tuttavia, sulla riarticolazione delle ossa e, più in generale, delle
membra, chiamando in causa anche i tendini.
Un’altra formula dei Testi dei Sarcofagi pone l’accento sulla necessità di riattivare il
circuito dei soffi vitali all’interno del corpo del defunto assimilato a Osiri :
322
Cfr. supra, pp. 44 sg.
323
Pyr, 827 b – 828 c.
324
CT, formula 850.
107
«Osiri N giusto di voce, Iside viene a te per permettere che l’aria [TAw] arrivi, poiché
ella desidera che essa entri nelle tre cavità che sono nella tua testa, affinché tu possa
vivere e che tu possa parlare davanti a lei, Osiri N giusto di voce!».325
L’importanza dell’aria e della respirazione nel processo di resurrezione di Osiri viene
rimarcata anche dalla stele di Amenmes:
«E’ lei che fa (per Osiri) dell’ombra con le sue piume, che crea [xprt] l’aria [TAw] con le
sue ali, che fa (dei riti) di giubilo [hnw] e fa approdare [mnjt] suo fratello».326
Iside, accostandosi al fratello defunto sotto forma di uccello, con lo sbattere delle ali
genera una corrente dinamica, apportatrice di nuova vita nelle membra del dio.
Abbiamo messo in evidenza l’importanza degli umori e dell’involucro nel processo di
ricomposizione del corpo articolare divino. Cercheremo ora di fare un passo ulteriore
per comprendere meglio il rapporto tra l’aspetto articolare e la dimensione costituita
dal corpo inviluppo e dalla sua componente umorale. Gli umori che fuoriescono dal
cadavere di Osiri provengono dalla dissoluzione delle viscere contenute nella cavità
denominata shet (Xt). Gli studi condotti da Bardinet sui papiri medici portano a
ritenere che il contenuto dello shet sia considerato dalla fisiologia egiziana parte
integrante della struttura anatomica dell’ib.327 I testi religiosi sottolineano a più
riprese la necessità di ricollocare il cuore-ib del defunto all’interno del corpo-shet.
L’ultimo passo dei Testi delle Piramidi sopra riportato mostra che anche l’intervento
di Nut è funzionale a questo scopo. Un altro passo dei medesimi testi sviluppa in
modo significativo questo aspetto:
«Io ti ho portato il tuo ib e l’ho posto per te nel tuo corpo-shet, come Horo aveva
portato [jnt] l’ib di sua madre Iside e come Iside aveva portato [jnt] l’ib di suo figlio
Horo!».328
Ritroviamo lo stesso concetto espresso anche nei Testi dei Sarcofagi:
«Io ti ho portato [jn~n] il tuo ib nel tuo corpo-shet, come Horo portò [jnt] un ib a sua
madre e come Iside portò [jnt] un ib a suo figlio Horo!».329
Questi passi fanno riferimento a un reciproco scambio di ib tra Iside e Horo. Secondo
il mito Iside genera con lo sposo defunto un Horo infante (l’Harpocrate di cui parla
325
CT, formula 777.
326
Stele Louvre C 286, riga 15. Cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du
Louvre, cit., pp. 741 sgg.
327
Cfr. supra, p. 82.
328
Pyr, 1640 a-c.
329
CT, I, 80 l-o.
108
Plutarco).330 Bardinet sostiene che la semenza grazie alla quale Iside concepisce Horo
è il risultato della dissoluzione delle parti corporee afferenti all’ib di Osiri.331
Trasmettendo ciò che resta dell’ib del suo sposo al figlio, Iside permette la
rigenerazione dell’ib di Osiri in Horo. E’ necessario, quindi, che Horo a sua volta
ritrasmetta l’ib a suo padre. Ciò avviene, secondo lo studioso, attraverso l’azione dei
quattro figli che Iside genera con Horo: Hapi, Duamutef, Imseti e Qebehsenuf.
Queste divinità nel Nuovo Regno furono associate ai quattro vasi canopi che
dovevano custodire le viscere del defunto estratte dalla cavità shet.332 La rimozione
degli organi interni dal cadavere è una pratica che risale all’Antico Regno e che
diventa usuale nel Medio Regno, epoca a partire dalla quale vengono impiegati
quattro contenitori differenti per conservare le interiora. A ciascuno dei suoi quattro
figli Horo trasmette una parte dell’ib di suo padre; le formule citate affermano,
infatti, che egli «portò un ib a sua madre». La progenie di Horo restituisce, quindi, a
Osiri il suo cuore-ib rinnovato, nuovamente in grado di tenere insieme il complesso
delle parti corporee del dio e di irrorarlo attraverso i condotti-met. L’interpretazione
di Bardinet, a nostro avviso, trova indubbiamente delle buone fondamenta su cui
poggiare nelle fonti religiose egizie, che fanno entrare a pieno titolo i quattro figli di
Horo nel processo di resurrezione di Osiri. In più occasioni i Testi delle Piramidi
mettono in rilievo il ruolo di queste quattro divinità:
«Tutti i tuoi nipoti (lett.: i figli dei tuoi figli) ti hanno riassemblato [Ts], Hapi,
Duamutef, Imseti e Qebehsenuf, dei quali tu hai creato in totalità i nomi».333
«Che si alzino questi quattro re per Pepy: Hapi, Duamutef, Imseti e Qebehsenuf, la
discendenza di Horo di Latopoli! Che essi leghino una scala di corda [qAs] per Pepy!
Che erigano una scala [mAqt] per questo Pepy! Che facciano salire Pepy accanto a
330
Cfr. Pyr, 632 a-d; 1635 b – 1636 b. Cfr. anche Stele Louvre C 286, riga 16 (A. Moret, La légende d’Osiris à
l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., pp. 743 sg). Cfr. inoltre Plutarco, De Iside et Osiride,
19. Nelle fonti non è immediatamente chiaro il rapporto tra l’Horo infante e l’Horo che raccoglie i pezzi del
cadavere di suo padre. In proposito, cfr. N. Guilhou, Les deux morts d’Osiris d’après les Textes des Pyramides,
cit., p. 24.
331
Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 74 sgg.
332
Generalmente si attribuisce ad Hapi, rappresentato con la testa di un babbuino, la conservazione dei polmoni,
a Duamutef, a testa di sciacallo, quella della milza o dello stomaco, a Imseti, a testa umana, quella del fegato e,
infine a Qebehsenuf, a testa di falco, la salvaguardia degli intestini. Relativamente a queste corrispondenze,
tuttavia, non sempre c’è accordo tra i dati archeologici e quelli testuali. I quattro figli di Horo proteggevano, più
precisamente, i coperchi dei vasi canopi; i quattro vasi erano custoditi, invece, da altrettante divinità femminili.
Hapi era associato a Nefti, Duamutef era in coppia con Neith, Imseti con Iside e Qebehsenuf insieme a Serket.
Gardiner ha raccolto un certo numero di testi che attribuiscono le diverse viscere ai ciascuno dei quattro figli di
Horo; cfr. A. H. Gardiner, Ancient Egyptian Onomastica, vol. II, Oxford University Press, Oxford 1947, pp. 245*
sgg.
333
Pyr, 1983 a-c.
109
Khepri, affinché questo Pepy venga all’esistenza sul lato orientale del cielo! […] le
corde che sono in essa (la scala) sono consolidate [srwD=w] con i tendini [rwDw] di
Gasuti, il toro del cielo…».334
In un altro passo si invocano i quattro figli di Horo affinché proteggano Osiri fino a
quando egli non sarà riportato in vita (sDb) e colpiscano Seth.335 Le quattro divinità
sono anche associate ai quattro arti che permettono al defunto risorto a nuova vita di
muoversi nella dimensione dell’aldilà:
«Sono le tue due braccia, Hapi e Duamutef, che tu solleciti affinché tu possa salire
verso il cielo [pt] ogni volta che sali! Sono le tue due gambe, Imseti e Qebehsenuf, che
tu solleciti affinché tu possa discendere verso il cielo inferiore [nnt], ogni volta che tu
discendi!».336
Dalle formule riportate emerge che l’azione dei quattro figli di Horo consiste nel
ridare coesione e movimento al corpo di Osiri. E’ espresso, infatti, il concetto di
«legare», «assemblare» (Ts). Le corde della scala che conduce alla dimensione celeste
sono paragonate a dei tendini (rwDw). Seth, la forza che contrasta la coesione delle
parti viene neutralizzata. Il re defunto, equiparato a Osiri, dispone, infine, di membra
che gli consentono di muoversi liberamente.
I Testi dei Sarcofagi riconoscono alle quattro divinità il medesimo ruolo. Troviamo,
infatti, quattro formule dedicate a ciascuna di esse, nelle quali Horo invoca il loro
intervento a favore della rigenerazione del defunto, immagine del padre Osiri.337 In
particolare, nella formula relativa a Imseti leggiamo:
«Figlio mio, vieni! Dirigiti verso mio padre, questo Osiri N, nel tuo nome di Imseti!
Vieni, dunque, affinché tu possa rimettere insieme [sAq] mio padre, questo Osiri
N!».338
Un compito simile viene chiesto anche ad Hapi e a Duamutef, dal momento che nelle
formule corrispondenti è utilizzato il verbo iab (jab), che oltre a significare
«raggiungere», «riunirsi» a qualcuno, denota anche l’atto di «riunire» le membra di
334
Pyr, 2078 a – 2080 c.
335
Cfr. Pyr, 1333 a – 1334 a.
336
Pyr, 149 a-b.
337
Cfr. CT, formule 520 – 523.
338
CT, VI, 109 i – 110 a.
110
un defunto o di Osiri stesso.339 Il testo più esplicito, tuttavia, è quello relativo a
Qebehsenuf:
«Vieni, rinfresca dunque mio padre! Dirigiti verso di lui nel tuo nome di Qebehsenuf
[…] Riuniscilo [jab], dunque! Rimettilo insieme [dmD], dunque! Legalo [Ts] dunque
alle sue ossa [qsw]…».340
Anche nel Libro dei Morti, che raccoglie l’eredità dei testi menzionati, sono presenti
delle formule analoghe, dedicate ai quattro figli di Horo. Nel passo relativo a
Qebehsenuf, tuttavia, troviamo un’aggiunta importante; si fa riferimento all’azione
apportatrice dell’ib nel corpo-shet di Osiri:
«Io sono Qebehsenuf! Sono venuto per poter essere la tua protezione, N! Io ho
rimesso insieme [dmD] per te le tue ossa [qsw] e ho riunito [sAq] per te le tue membra
[awt], ti ho portato il tuo ib, voglio metterlo per te al suo posto nel tuo corpo-shet».341
Le fonti esaminate confermano che l’opera svolta dalla discendenza di Osiri è
funzionale alla rigenerazione e alla ricollocazione dell’ib del dio. Precedentemente
alla generazione e al successivo intervento di Horo e dei suoi quattro figli, Osiri si
trova nello stato indicato in più contesti dall’espressione «stanco di cuore» (wrD jb).
In questa condizione, il binomio haty-ib non è più in grado di tenere insieme le
membra e di trasmettere loro il movimento. Nell’involucro costituito dal corpo della
dea Nut avviene la riarticolazione delle membra di Osiri; la ricostituzione dell’ib,
tuttavia, ha luogo a partire dalla componente umorale, alla quale appartiene anche la
semenza grazie alla quale Iside concepisce Horo.342 Gli umori sono in relazione con
le viscere contenute nella cavità shet e, quindi, con la sfera del corpo inviluppo. Tutto
ciò ci porta a concludere che l’ib è il trait d’union che collega tra loro il corpo
articolare e il corpo inviluppo. Esso, infatti, da un lato costituisce il centro coesivo e
animatore del corpo articolare al quale fa capo tutta la rete dei condotti-met,
dall’altro comprende le viscere contenute nell’involucro shet. Durante la vita prevale
il primo aspetto, durante la fase di passaggio costituita dalla morte prevale, invece, il
secondo. Si tratta, dunque, di due dimensioni che si intersecano e che, in base alle
circostanze riorientano la loro relazione, senza mai generare, tuttavia, una cesura tra
339
Cfr. CT, formule 521; 522. Relativamente al verbo menzionato, cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch
Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 28 sg. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 32.
340
CT, VI, 114 g – 115 a; 115 d-e.
341
Libro dei Morti, cap. 151 A.
342
Nella formula 525 dei Testi dei Sarcofagi vengono menzionati l’uno di seguito all’altro l’intervento di Nut e
quello dei quattro figli di Horo.
111
di loro. Tutto ciò che attiene alla natura dell’involucro è funzionale alla rigenerazione
e alla riarticolazione di una individualità. Corpo articolare e corpo inviluppo
costituiscono, dunque, due versanti dell’essere umano imprescindibili e non
separabili, che alternativamente detengono un primato l’uno sull’altro.
2. Le forze cosmiche e la rinascita di Osiri
Il mito di Osiri mette in scena diversi personaggi; uno di essi, il dio Seth, rappresenta
il principio della dissociazione, dell’isolamento, che si manifesta come azione violenta
che recide dei legami e interrompe un movimento. Tutti gli altri attori che a turno
recitano la loro parte sulla scena del mito operano, invece, in senso opposto. Il loro
compito è quello di ricostituire il corpo del defunto Osiri e di reintegrare il dio
nell’ordine cosmico. Le divinità che cooperano all’attuazione di questa rinascita sono
molte; di queste ci siamo limitati a menzionare le principali. Per maggiore chiarezza,
possiamo sintetizzare così il loro ruolo:
1) Iside e Nefti recuperano le membra disiecta di Osiri, ne arrestano la
decomposizione, arginando la dispersione degli umori, e ricompongono il corpo
del dio;
2) Anubi neutralizza definitivamente l’azione corrosiva degli umori, realizzando un
primo involucro: la mummia;
3) Il ventre di Nut costituisce un secondo involucro: il sarcofago, nel quale le
membra ricomposte di Osiri vengono riarticolate e l’ib, cioè il centro di coesione
e movimento del sistema, viene ricollocato al suo posto (l’atto del ricollocare l’ib
nel corpo del defunto è, in realtà, attribuito a più divinità dalle fonti);
4) L’ib di Osiri viene ricostituito a partire dalla dissoluzione delle viscere contenute
nel corpo-shet e restituito al dio. Gli artefici di questa operazione sono Iside,
Horo e i suoi quattro figli;
5) Horo agisce su due livelli: da un lato, secondo le fonti, partecipa alla
ricomposizione del corpo del padre, dall’altro, affrontando Seth, restituisce a
Osiri la sua dignità e il suo ruolo nell’ambito della comunità degli dei. Il secondo
livello è relativo, dunque, alla reintegrazione cosmica di Osiri.
La rinascita di Osiri coincide con una riorganizzazione e un rinnovamento di tutto
l’esistente. L’ordine di Maat è ristabilito ovunque. La stele di Amenmes evidenzia in
modo eloquente questo stato di benessere generale:
112
«Il figlio di Iside ha vendicato suo padre e il suo nome diventa illustre e perfetto. La
forza è messa al suo posto; l’abbondanza si stabilisce grazie alle leggi di questo. Le vie
sono libere; i cammini sono aperti. Come sono rese felici le Due Terre! Il male
svanisce; l’accusatore si allontana. La terra è in pace sotto il suo signore. La giustizia
[mAat] è ben stabilita per il suo signore; si voltano le spalle all’ingiustizia. Che il tuo
cuore [jb] sia felice, Essere Perfetto [wn-nfr]!».343
I personaggi protagonisti del mito sono, inoltre, legati tra loro da rapporti di
parentela; essi impersonano, infatti, principi e aspetti differenti di uno stesso cosmo,
tutti indispensabili per la sua conservazione. Lo stesso Seth, riconosciuto colpevole e
condannato dal tribunale degli dei, non viene annientato una volta per tutte. La sua
eliminazione definitiva comporterebbe, infatti, la cancellazione della sfera
dell’esistente. L’abbattimento di Seth assume, dunque, la forma simbolica del
sacrificio di un animale.344 Allo stesso modo, nei libri dell’oltretomba del Nuovo
Regno il serpente Apopi, che ogni notte si oppone a Ra per arrestarne la marcia, è
costantemente neutralizzato dalle divinità alleate del dio sole, ma non è mai sconfitto
per sempre. Nel pensiero egiziano, come abbiamo già rilevato, la vita e l’ordine che la
regge detengono un primato sul non esistente.345 Essi contengono in se, tuttavia,
anche la loro negazione che, se da un lato rappresenta un’effettiva possibilità di
annientamento, dall’altro costituisce anche un elemento funzionale al loro
rinnovamento e alla loro sussistenza. In proposito, Plutarco si esprime in questi
termini: «È un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo
risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non sono, però, equilibrate
esattamente, perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia,
ammissibile che la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran
parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell’anima dell’universo, in
un duello perenne con la potenza del bene».346
La «giustificazione» di Osiri e la conseguente condanna di Seth da parte del tribunale
divino rappresentano l’ultimo atto della ricostituzione corporea e della reintegrazione
343
Stele Louvre C 286, righe 22-24. Cfr. A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à
Osiris du Louvre, cit., p. 747.
344
Cfr. supra, p. 101.
345
Cfr. supra, pp. 28 sgg.
346
Plutarco, De Iside et Osiride, 49, 371 A.
113
cosmica del dio.347 La rete di relazioni che la morte aveva interrotto è stata
ripristinata; le membra corporee e, più in generale, le componenti dell’individualità
formano nuovamente un complesso articolare. Non si tratta, tuttavia, dell’esatta
ripetizione della condizione esistenziale antecedente alla morte. Osiri si trova ora
nello stato di akh
(Ax), ossia di «trasfigurato».
Numerosi passi della letteratura religiosa descrivono più o meno estesamente il
nuovo modo di essere di Osiri o del defunto assimilato al dio. Leggiamo, per esempio,
in una formula dei Testi dei Sarcofagi:
«Questo Osiri N, la tua perfezione [nfr] è per te, il tuo ka è la tua protezione, il tuo ba
è dentro di te, le tue due gambe sono al tuo posto [st=k]. Tu sei rinnovato [mA=tj]. Tu
sei ringiovanito [rnp=tj] in questo tuo nome di “Acqua Nuova” e ricomposto [Ts=tj] in
questo bel giorno in cui tu sei apparso».348
Si tratta di un’esistenza che si colloca su un piano diverso rispetto a quella che
precede l’evento della morte; potremmo definirla un’ottava superiore. I Testi delle
Piramidi la situano nella regione celeste, identificando Osiri rigenerato con la
costellazione di Orione:
«“Ciò sarà bello, in effetti, da guardare”, ha detto Iside; “Ciò sarà soddisfacente, in
effetti, da osservare”, ha detto Nefti a mio padre, questo Osiri Pepy, affinché egli
possa, in effetti, salire al cielo tra le stelle, tra le Imperiture».349
«Che tu possa vivere come vivono coloro che sono in cielo! Che tu possa venire
all’esistenza [xpr] più di quanto non vengano all’esistenza coloro che sono sulla terra!
Ricomponiti [Ts tw] grazie alla tua forza, ogni volta che sali al cielo! Che il cielo ti
metta al mondo come Orione [sAH], affinché tu possa disporre del tuo corpo [Dt]!».350
Osiri redivivo o il defunto che lo impersona dispone ora di un corpo-djet per
l’eternità. Le parti che lo compongono sono costituite da «materie» differenti rispetto
a quelle che formano un corpo terreno:
347
Relativamente a questa parte del mito cfr., per es., Pyr, 173 a; 957 a – 959 d. Cfr. anche: Stele Louvre C 286,
righe 16-25 (A. Moret, La légende d’Osiris à l’époque thébaine d’après l’hymne à Osiris du Louvre, cit., pp. 744
sgg.); Ostracon Senmut 149, in Égypte, 10 (1998), p. 4; Plutarco, De Iside et Osiride, 19.
348
CT, formula 840.
349
Pyr, 939 a – 940 a.
350
Pyr, 2115 b – 2116 b.
114
«Le ossa [qsw] di questo Meryra sono di ferro [bjAyw], le membra [awt] di questo
Meryra sono le stelle imperiture».351
Un’altra formula simile recita invece:
«Ricomponiti [Ts tw] sulle tue ossa [qsw] di ferro [bjAyw], sulle tue membra [awt] di oro
[nbywt] e su questa carne [Ha] che è tua, che appartiene al dio: essa non può marcire,
non può scomparire, non può decomporsi!».352
Il termine bia
(bjA)
significa
in
generale
«minerale»,
«metallo». La stessa fonetica e talvolta anche la stessa grafia le ritroviamo, però,
anche in un altro termine il cui significato è «cielo», «firmamento».353 Risulta,
quindi, piuttosto naturale l’accostamento tra le ossa fatte di metallo-bia e le membra
equiparate alle stelle circumpolari.
Il metallo, in particolare l’oro, e le pietre preziose, secondo la letteratura egiziana,
costituiscono la «materia» di cui è fatto il corpo degli dei e, di conseguenza, anche
quello dei defunti che, assurgendo allo stato di akh, partecipano della condizione
divina. Nel Racconto del naufrago, per esempio, quando appare al protagonista
dell’avventura l’essere divino signore dell’isola del Ka sotto forma di serpente, «il suo
corpo [Haw=f] era ricoperto d’oro [nbw], le sue due sopracciglia erano di vero
lapislazzuli [xsbd]».354 Similmente nei Racconti del papiro Westcar ciascuno dei tre
figli di Ra partoriti da Redgedet, moglie di un sacerdote del dio, viene descritto con
queste parole: «le membra [awt] incrostate d’oro [nbw] e un’acconciatura di vero
lapislazzuli [xsbd]».355 Oggetti di oreficeria erano inoltre parte integrante delle
mummie dei sovrani e dei personaggi di alto rango, a testimonianza del loro nuovo
modo di essere assunto dopo la vita terrena. Per le persone meno abbienti,
generalmente, la pittura dorata rimpiazzava il metallo prezioso. Nel Rituale
dell’imbalsamazione a un certo punto l’officiante deve recitare:
«O Osiri N! Tu hai appena ricevuto i tuoi ditali d’oro e le tue dita sono d’oro [nbw]
puro, le tue unghie di electrum [qtm]! L’emanazione di Ra giunge fino a te, essa che è,
351
Pyr, 2051 c-d.
352
Pyr, 621 c.
353
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 262.
354
Il racconto del naufrago, 64-65, trad. it. di E. Bresciani, in Id. (a cura di), Letteratura e poesia dell’antico
Egitto, cit., p. 179. Per il testo geroglifico, cfr. A. M. Blackman (a cura di), Middle Egyptian stories, cit., pp. 41 sgg.
355
I racconti del papiro Westcar, 10, 10-11; 18; 25-26; trad. it. di E. Bresciani, in Id. (a cura di), Letteratura e
poesia dell’antico Egitto, cit., p. 190. Per il testo geroglifico, cfr. A. M. Blackman, W. V. Davies, The story of king
Kheops and the magicians, J.V. Books, Reading 1988.
115
in verità, il corpo [Haw] divino di Osiri! […] tu sei rigenerato dall’oro, tu sei rinvigorito
dall’electrum! […] Osiri N! Per te viene l’oro che proviene dalla montagna, la buona
protezione degli dei nelle loro sedi! Esso illuminerà il tuo viso nella duat, tu respirerai
grazie all’oro, tu uscirai grazie all’electrum».356
Vorremmo concludere il nostro esame del mito di Osiri richiamando l’interpretazione
del Libro delle Caverne formulata da Barguet.357 Secondo lo studioso, infatti, questa
composizione funeraria del Nuovo Regno, comparsa per la prima volta nell’Osireion
di Abido, riprenderebbe e rielaborerebbe tutti gli elementi di questo mito. L’aspetto
della lettura di Barguet che ci sembra particolarmente interessante e funzionale alla
nostra impostazione della tematica antropologica è quello di individuare nella
ricostituzione e nella rigenerazione del corpo divino di Osiri il vero leitmotiv del
Libro delle Caverne. L’insieme del testo, suddiviso in sei sezioni, è disposto secondo
un asse rappresentato dal serpente Neha-her (nHA-Hr), eretto sulla coda tra la terza e
la quarta sezione. Questo asse separa due regioni dell’aldilà, della duat. Nella prima
regione, sostiene Barguet, ha luogo la ricerca e la riunione delle membra separate del
dio; nella seconda regione avviene invece la rinascita di Osiri: «Dopo aver visitato ciò
che si potrebbe chiamare la duat della morte o del vecchio corpo morto, dove tutto è
statico, il sole entra di nuovo nelle “tenebre iniziali” che sono questa volta la duat del
corpo nuovo, della resurrezione, dove tutto è dinamico, essendo i personaggi in
azione».358 Ritroviamo in pratica gli stessi elementi e le stesse dinamiche che
abbiamo descritto impiegando le nozioni di corpo articolare e corpo inviluppo. Nella
prima parte del libro, comprendente le prime tre sezioni, vengono rappresentate le
membra disiecta del dio; nello specifico:
1) la testa. Osiri sdraiato nel suo sarcofago è chiamato tpy qrrt=f e i due serpenti
che lo circondano hanno l’appellativo di tpw qrrwt=sn, espressioni che Barguet
traduce rispettivamente «colui che è la testa della sua caverna» e «coloro che
sono le teste delle loro caverne»;
2) le sette vertebre cervicali, rappresentate da sette dei a testa di siluro;
356
Le rituel de l’embaumement, in J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, Les Éditions du Cerf,
Paris 2004, p. 51.
357
Cfr. P. Barguet, Le Livre des Cavernes et la reconstitution du corps divin, in Id., Aspects de la pensée
religieuse de l’Égypte ancienne, La maison de vie, Fuveau 2001, pp. 47 sgg. Articolo apparso precedentemente in
Revue d’Égyptologie, 28 (1976). Per un’edizione completa del Libro delle Caverne (testo e trad. francese), cfr. A.
Piankoff, Le Livre des Quererts, Imprimerie de l’Istitut Français d’Archeologie Orientale, Le Caire 1946. Per una
trad. più recente, cfr. E. Hornung (a cura di), Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., pp. 309 sgg.
358
P. Barguet, Le Livre des Cavernes et la reconstitution du corps divin, cit., p. 55.
116
3) le spalle o più precisamente le clavicole. La scena mostra, in due tumuli, due
figure mummiformi sdraiate a testa di ariete;
4) il cuore e le vertebre dorsali. Attorno al naos-kAr che racchiude Osiri in piedi si
trovano tredici sarcofagi ovali contenenti delle divinità anch’esse in piedi;359
5) Quattro delle vertebre lombari. L’immagine mostra quattro figure mummiformi
in piedi;360
6) L’addome e il bacino. Osiri posto sotto la divinità Aker è chiamato «questa
grande immagine che è sotto il suo ventre [Xr Xt=f]».
Le parti anatomiche messe in risalto da questa ricostruzione sono, in sostanza, le ossa
di uno scheletro privo di arti e il cuore. Abbiamo a che fare, dunque, con le
componenti essenziali di un corpo articolare: il sistema osseo e il suo centro
propulsore che, diffondendo attraverso la rete dei condotti-met le correnti vitali,
genera coesione e movimento. L’assenza delle ossa degli arti, a nostro avviso, si
spiega probabilmente con il fatto che in questa fase della sua ricostituzione il corpo di
Osiri è ancora una sommatoria di parti slegate e prive di movimento.
Nella rassegna presentata c’è anche un riferimento alla cavità addominale (Xt). Si
tratta di un luogo di gestazione, «il grembo che contiene gli elementi del nuovo corpo,
che il serpente NHA-Hr “raccoglie” (sAq) nelle sue spire».361 Anche nel contesto del
Libro delle Caverne, infatti, viene posto in rilievo il ruolo del corpo inviluppo e
quanto ad esso attiene, in primo luogo le viscere e gli umori generati dalla loro
decomposizione. Nella prima sezione del libro, alla fine del secondo registro, un dio e
una dea portano al di sopra della loro testa le secrezioni del corpo di Osiri.362 Al
termine del quarto registro, invece, è raffigurata una divinità a testa di coccodrillo; il
testo ad essa relativo recita: «O Incolume [aDy] dalle forme misteriose che sei nella
caverna di Osiri, tu sei l’immagine del capo della duat, dal quale tu sei nato! Egli ti ha
preposto alla sua caverna, tu sei il suo cadavere in decomposizione [XAt HwA]».363 Il
359
Precisa Barguet: «Si sa che la parola kAr designa il naos di un dio, il suo tabernacolo, e rappresenta così il luogo
più inaccessibile di un tempio; per questo essa è venuta a designare anche l’abitacolo del cuore, per es., in una
frase della Saggezza di Amenemope, I, 9: “fare che il suo cuore discenda nel suo naos- kAr “; e nella quarta
divisione del Libro delle Caverne (I reg., II scena), Osiri sembra designato semplicemente dall’epiteto: “questo
grande cuore della duat”». Ibid., p. 52.
360
Invece di dodici vertebre dorsali e cinque lombari, ne sarebbero rappresentate tredici dorsali e quattro
lombari. Relativamente alle vertebre lombari, tuttavia, Barguet non trova elementi sufficienti per giustificare la
sua lettura. Cfr. ibid., p. 53.
361
Ibid., p. 54.
362
Cfr. ibid., pp. 48 sg.
363
Libro delle Caverne, sezione I, registro IV. La trad. segue quella tedesca di E. Hornung in Die
Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p. 319.
117
motivo centrale della seconda sezione, posto al centro del registro mediano, è la
«cassa di Osiri», contenente la putrecenza del dio. Quattro divinità hanno il compito
di custodire i «segreti» (sStA) del dio, le sue parti decomposte (snT): «O questi quattro
dei che giubilano per me quando io entro nel mio regno, io vi glorifico quando voi vi
chinate sul vostro mistero, su questo cadavere [snT] del capo della duat».364 Alla
decomposizione di Osiri si fa riferimento anche altrove nel testo, in particolare, nella
parte introduttiva della sesta sezione.365
Non ci soffermeremo nuovamente sul ruolo della componente umorale nel processo
di rigenerazione di Osiri e sul suo rapporto con l’aspetto articolare della corporeità,
questioni a cui abbiamo cercato di dare una risposta nel paragrafo precedente.
Sottolineiamo, tuttavia, che il Libro delle Caverne mette in scena le forze cosmiche di
cui si parla nelle varie fonti del mito di Osiri, quelle forze che presiedono al
mantenimento e al rinnovamento della rete di relazioni che costituisce l’esistente,
tanto a livello macrocosmico, quanto a livello del singolo individuo.
Nella seconda metà del libro, relativa alla seconda regione della duat, ha luogo la
formazione del nuovo individuo. Nello specifico, nella quarta sezione il corpo di Osiri
viene ricomposto (Ts) da Iside e Nefti e fornito del necessario da Horo e Anubi (DbA).
Nella quinta sezione vengono raffigurati una dea chiamata «la Misteriosa» (StAyt) e
«Occidente» (imnt), che Hornung indentifica con Nut,366 e un Osiri itifallico
sormontato dal suo ba, posti l’uno di fronte all’altra. Le scene raffigurate tra le due
divinità «esprimono i momenti intermedi tra la concezione e la nascita; abbiamo
dunque come un “trattato di embriologia”».367 L’unione tra la dea «la Misteriosa» e
Osiri itifallico consente la generazione del nuovo essere o, detto in altri termini, la
riarticolazione delle membra precedentemente riunite (quarta sezione). La nascita
effettiva del nuovo individuo è il tema principale dei motivi rappresentati nella sesta
sezione.368 Le membra di Osiri (o del defunto che ne è l’immagine) sono finalmente
riunite e percorse nuovamente dai soffi vitali: «Tu stai respirando [srq], le tue
364
Libro delle Caverne, sezione II, registro III (Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p. 333).
365
Cfr. Ibid., sezione VI, parte introduttiva, nona e decima litania (Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., pp.
396 sg).
366
Cfr. E. Hornung, Les textes de l’au-delà dans l’Égypte ancienne, trad. fr. di N. Baum, Éditions du Rocher,
Monaco 2007, p. 118.
367
P. Barguet, Le Livre des Cavernes et la reconstitution du corps divin, cit., p. 58.
368
Scrive Barguet a conclusione del suo saggio: «Sembra davvero, dunque, che l’insieme del Libro esponga in
primo luogo, in qualche modo, la ricerca delle membra del dio, poi la sua ricostituzione e la creazione del nuovo
essere, grazie alla dea, a partire dal corpo morto. Avremmo così tutti gli elementi della leggenda osiriana, secondo
118
membra [awt] sono rinnovate. O alzati, Colui il cui nome è nascosto, e respira, (poiché
anche) Osiri respira e le sue membra sono rivitalizzate!».369
Relativamente al Libro delle Caverne un aspetto ulteriore ci sembra degno di nota:
nel registro inferiore di ciascuna delle sei sezioni vengono rappresentati i nemici di
Osiri e i castighi ad essi inflitti. Alcuni dei condannati sono legati, altri decapitati o
fatti a pezzi. A tutti questi personaggi mancano, dunque, quelle che abbiamo indicato
come le due condizioni essenziali alla sussistenza di un corpo articolare: la motricità e
la connettività. Si tratta di coloro che, terminata la loro vita terrena, non sono stati
riconosciuti «giusti di voce». Essi sono morti e rimangono tali: le componenti del loro
essere non sono più in grado di riunirsi in un nuova rete di relazioni, garante della
continuità di un’identità.
3. La riconfigurazione dell’individuo: dal cadavere alla mummia e all’akh
In quanto immagine di Osiri, ogni essere umano che termina il suo cammino terreno
in armonia con la legge di Maat è chiamato a riunire le componenti costitutive della
sua individualità in una nuova costellazione. Tutte le pratiche funerarie introdotte
dagli Egiziani sono funzionali a questo fine. Con l’avvento della morte gli elementi in
relazione tra loro in cui si articola la natura umana si slegano dando luogo a una mera
sommatoria di parti separate. Il corpo rigido, immobile e non più percorso dalle
correnti vitali è ora soltanto un involucro, un inviluppo. Dal trattamento di questo
involucro ha inizio il percorso di rigenerazione del defunto che lo condurrà a
rinascere come akh, come nuovo Osiri.
L’iter dell’imbalsamazione che si protrae idealmente per settanta giorni comincia
all’insegna della purificazione.370 Dopo un lavaggio preliminare nella «tenda della
purificazione» (ibw), il cadavere (XAt), trasferito nella uabet (wabt), ossia nel «luogo
della purificazione», viene sottoposto all’ablazione del cervello e all’eviscerazione.371
la quale Iside avrebbe concepito Horo dal suo sposo morto. Questo testo è proprio al suo posto nell’Osireion di
Abido, dove apparve per la prima volta». Ibid., pp. 63 sg.
369
Libro delle Caverne, sezione VI, parte introduttiva, nona litania (Die Unterweltsbücher der Ägypter, cit., p.
396).
370
Tra le principali fonti documentarie sul procedimento di imbalsamazione di cui disponiamo possiamo
menzionare il Papiro Bulaq n. 3 e il Papiro n. 5158 del Louvre, entrambi risalenti al I sec. Disponiamo poi delle
fonti greche, in particolare Erodoto (Storie, II) e Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, I, V). Le prime
attestazioni di questa pratica risalgono, tuttavia, all’inizio dell’età dinastica.
371
L’uso di estrarre gli organi interni risale all’Antico Regno. In quest’epoca, tuttavia, l’eviscerazione era riservata
al re, ai membri della sua famiglia e a qualche nobile autorizzato dal sovano stesso. Per gli altri l’imbalsamazione
consisteva nella fasciatura del corpo in numerosi strati di bende ricoperti poi da uno strato di gesso che veniva
119
Quest’ultima viene effettuata praticando un’incisione sul fianco sinistro ed estraendo
a mano le viscere della cavità addominale e di quella toracica. Il cuore, centro
direttivo del corpo vivente, viene lasciato, invece, nella sua sede.372 A questo punto il
corpo viene nuovamente lavato all’esterno e all’interno, allo scopo di eliminare ogni
residuo della rimozione delle interiora. Nelle rappresentazioni del rituale
dell’imbalsamazione di cui disponiamo questa fase è rappresentata da un bagno
purificatore. Il cadavere è sottoposto a un’aspersione d’acqua in un bacino chiamato
«lago», «stagno»:
(S).
L’immagine del lago ci rimanda alla deriva del corpo di Osiri di cui abbiamo parlato
in precedenza, ossia alle sostanze liquide, umorali rilasciate dal cadavere del dio per
effetto della decomposizione in atto, processo che è necessario arrestare per
consentire la rigenerazione corporea. L’elemento acqueo si manifesta, infatti, nella
sua ambivalenza: da un lato come apportatore di nuova vita, dall’altro come costante
minaccia di annientamento. Questo aspetto viene messo in rilievo in più occasioni
dalla letteratura funeraria; i Testi delle Piramidi mettono in guardia il sovrano con
queste parole:
«O Unis, possa tu stare attento al lago [sA(w)=k S]! – Formula da recitare quattro
volte».373
«Che il grande picchetto dell’ormeggio ti tolga un ostacolo come Osiri nel suo
intervento! Nuu, Nuu, stai attento al grande lago [sA Tw S wr]!».374
«O questo Pepy, naviga e raggiungi, ma stai attento al grande lago [sA Tw S wr]!».375
A questo avvertimento fanno eco anche i Testi dei Sarcofagi:
«O questo N, che il guardiano del grande lago ti protegga [sA(w) Tw iry S wr]! Quanto
alla morte, possa tu sfuggirle! Possa tu evitare il cammino verso di lei».376
«Osiri N! Stai attento al grande lago [sA Tw r S wr]! […] Scendi sulla tavola della barca
nella quale Ra naviga verso l’orizzonte, padre mio, questo Osiri N! Scendi dunque
modellato ad immagine del defunto. Il viso in genere veniva dipinto. Durante il Medio Regno l’estrazione degli
organi diventa una pratica usuale. Per quanto riguarda, invece, l’ablazione del cervello, essa diventa un’operazione
abituale a partire dal Nuovo Regno, essendo in precedenza praticata solo saltuariamente.
372
Se capitava che il cuore venisse estratto insieme ai polmoni, esso veniva ricollocato all’interno del torace, in
certi casi avvolto in bende di lino. Anche la vescica veniva generalmente lasciata al proprio posto e a volte i reni.
373
Pyr, 136 a.
374
Pyr, 872 b-d.
375
Pyr, 885.
376
CT, I, 284 e-h.
120
nella prua di questa barca di Ra! Possa tu discendervi come Ra! Possa tu sedervi
come Ra!».377
La navigazione, a quanto emerge dai testi, rappresenta una fase necessaria dell’iter di
rigenerazione; il defunto, tuttavia, come Osiri, corre costantemente il pericolo di una
deriva, ossia del disfacimento del suo corpo. A questo proposito Assmann afferma:
«Il grande lago attraverso il quale il viaggiatore deve passare nasconde il pericolo di
fare naufragio, dal quale bisogna scampare. Il “lago” è un’allusione al rituale
dell’imbalsamazione, definito come “traversata del lago” […] Il defunto deve in primo
luogo superare la tappa della purificazione che rappresenta la metafora del lago, fase
nel corso della quale il suo cadavere è svuotato e ripulito da tutte le sostanze
putride».378
Terminata la fase della purificazione, il cadavere deve essere disidratato ed essiccato;
a questo scopo, esso viene posto sotto degli strati di natron secco in grani per circa
una quarantina di giorni.379 Dopo questa operazione il corpo è ormai ridotto allo stato
di uno scheletro le cui ossa sono tenute insieme da una pelle rigida e incartapecorita.
Nelle fasi finora descritte, il procedimento d’imbalsamazione, operando sul corpo
inviluppo, ne elimina gli umori che generano corruzione e lo riduce agli elementi
essenziali a partire dai quali è possibile riorganizzare il corpo articolare e la rete di
relazioni che lo caratterizza. Le parti corporee che l’imbalsamatore ha selezionato
sono, infatti:
1) le ossa, ricoperte di pelle secca;
2) il cuore;
3) le viscere estratte dalla cavità shet, che fanno parte della struttura anatomica
dell’ib e che, appositamente trattate, sono conservate nei vasi canopi.
Sono gli stessi elementi che abbiamo evidenziato a proposito della ricostituzione e
riarticolazione del corpo di Osiri, di cui parlano i testi religiosi. Abbiamo, quindi, la
struttura portante costituita dalle ossa e il centro motore e di coesione rappresentato
dal complesso haty-ib, al quale appartiene anche la rete di condotti-met.
377
CT, VII, 41 f-g, n-q.
378
J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 191.
379
Il natron (Hsmn) è un sale che si trova in natura ed è composto principalmente da carbonato e bicarbonato di
sodio. Il prodotto depurato veniva chiamato nTry, ossia «divino», da cui il termine arabo natron. Esso è tuttora
reperibile prevalentemente nella zona dello Uadi Natrum, a nord-ovest del Cairo. Si è a lungo dibattuto fra gli
studiosi se il cadavere fosse immerso in una soluzione liquida di natron, oppure ricoperto da natron secco.
Attualmente si propende per il secondo sistema. In proposto cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne
Égypte, cit., p. 33, nota 5.
121
Le fasi successive del processo d’imbalsamazione sono finalizzate alla riarticolazione
del corpo del defunto. Le operazioni principali che vengono effettuate a questo scopo
sono il trattamento del corpo con sostanze varie, le unzioni con gli oli sacri, il
bendaggio e i rituali ad essi connessi. Viene eseguita una prima unzione del cadavere
per ridare una certa elasticità alla pelle che ha l’aspetto del cuoio. Si procede poi a
versare della resina e delle altre sostanze all’interno della cavità addominale, prima di
chiudere l’incisione praticata per estrarre le viscere, ed eventualmente all’interno del
cranio, attraverso le narici, se è stata effettuata l’ablazione del cervello.
Contestualmente a ciò si introducono anche delle imbottiture per far riacquistare al
corpo una certa forma. Il defunto riceve in seguito una serie di unzioni con degli oli
rituali e, infine, ha inizio il bendaggio, accompagnato da altre unzioni, per assicurare
una migliore coesione delle stoffe disposte in più strati.
Relativamente a queste operazioni, la lettura che il rituale dell’imbalsamazione che ci
è pervenuto suggerisce è la seguente: le centinaia di metri di bende che avvolgono il
defunto riproducono la rete dei condotti-met; gli oli sono invece le correnti vitali che
animano il corpo. Le resine e le altre sostanze fluide impiegate nel trattamento del
cadavere rappresentano gli umori non corruttibili che arrestano il processo di
decomposizione. Il rituale dell’imbalsamazione ci è tramandato da fonti molto tarde,
che affondano, tuttavia, le loro radici in epoche più antiche. Il testo di cui
disponiamo, infatti, sulla base di un’analisi linguistica, viene fatto risalire al Nuovo
Regno.380 Questo rituale è riscontrabile, inoltre, allo stato embrionale già nei Testi
delle Piramidi, a partire dal regno di Pepy I, sotto forma di allusioni al trattamento
riservato al re defunto, immagine di Osiri.381 In un passo dei testi che si trovano nella
piramide di questo sovrano, per esempio, si fa riferimento alle bende in questo modo:
«Questo Pepy è questa benda di stoffa rossa [sSd n(y) Tmst] uscita da Ikhet la
Grande!».382
Un altro passo dei medesimi testi recita:
«Se Pepy è venuto presso di te, suo padre, se egli è venuto presso Geb, è perché ha
raggiunto coloro che sono sottomessi [Xr(yw)] alle vostre bende [mt=Tn], o dei!».383
380
I testi a nostra disposizione sono contenuti nel Papiro Bulaq n. 3 e nel Papiro n. 5158 del Louvre (citati supra,
p. 119, nota 370). Cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 17 sgg. Per il testo geroglifico,
cfr. S. Sauneron, Le rituel de l’embaumement, Imprimerie Nationale, Le Caire 1952.
381
Cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 22 sg., nota 5.
382
Pyr, 1147 a.
383
Pyr, 1367 a-b.
122
L’aspetto interessante di quest’ultima formula consiste nel termine impiegato per
indicare il bendaggio, omofono del vocabolo che denota i vasi, i canali attraverso i
quali scorrono i fluidi che animano e mantengono in vita il corpo:
met
(mt), bende;
met
(mt), vaso, canale, condotto.
A partire dalla XVIII dinastia, inoltre, lo stesso termine che indica i condotti-met,
fatto seguire da un determinativo differente, assume il significato di «benda»:
met
(mt), benda, fascia, quadrato di tela di lino.384
La corrispondenza analogica tra le bende e le stoffe che avvolgono il defunto, da una
parte, e la rete dei condotti-met, dall’altra, risalta maggiormente nei papiri che
riportano per esteso il rituale dell’imbalsamazione, di molti secoli più recenti rispetto
ai Testi delle Piramidi. Come la rete dei canali che si estende in tutto il corpo, la
bendatura assicura la coesione delle parti ossee e lo scorrimento delle correnti
dinamiche, rappresentate dagli unguenti vari, cominciando a ridare, quindi, al
cadavere le caratteristiche del corpo articolare. Dopo l’unzione del dorso, per
esempio, il rituale prevede che si recitino queste parole:
«Per te vengono (bis) per te vengono le piante che escono dalla terra, il lino originario
del campo dei ciperi, i vegetali rigeneranti originari della Campagna del Giubilo,
l’emanazione scelta che riveste gli dei nel momento della loro uscita. Essa viene a te
sotto forma di un sudario [mnxt] prezioso, essa ti preserva sotto forma di benda [sbn],
essa ti innalza sotto forma di panno [siAt], essa consolida [smnx] le tue ossa [qsw] sotto
forma di bendaggio [DAyt] immacolato».385
Nel paragrafo relativo al bendaggio delle gambe, del sacerdote che impersona il dio
Anubi il testo afferma:
384
Cfr. Y. Bonnamy, A. Sadek, Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 293. Cfr. anche R. Hannig, Grosses
Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 395 e Wb, II, p. 168.
385
Rituel de l’embaumement, IV, la trad. segue quella francese di J.-C. Goyon, in Id., Rituels funéraires de
l’ancienne Égypte, cit., p. 48.
123
«Egli rende perfetta [smnx] la tua marcia grazie ai suoi pezzi di stoffa [mnxt]. […] Egli
conserverà una forma alle tue ossa [qsw] grazie alle bende [pyr], egli manterrà
insieme le tue carni [iwf] grazie alle bende di stoffa [mnxt]!».386
L’analogia che abbiamo proposto emerge forse in modo più accentuato nelle formule
del rituale dell’imbalsamazione, per quanto riguarda la funzione degli oli. L’unzione
del dorso del defunto termina con queste parole:
«O Osiri N! Ricevi questo olio [mrHt], ricevi questo unguento [gsw]! Ricevi l’unzione
di vita [anxt] […] Ricevi il [sudore (?)] degli dei, l’umore uscito da Ra, l’espettorazione
di Shu, il sudore che emana da Geb, il corpo [Haw] divino proveniente da Osiri, i
liquidi rigeneranti [nfrw][…]».387
Dopo il bendaggio della testa, invece, l’officiante deve recitare:
«O Osiri N! Per te viene l’olio-ihety [mrHt iHty] Esso apporta alla tua bocca la vita, al
tuo occhio la visione nella duat, così come la facoltà di vedere Ra nel cielo! Esso ti
dona le tue orecchie per sentire ciò che desideri, come Shu sente ciò che desidera a
Heliopoli! Esso ti dona il tuo naso per respirare il profumo di festa, come Geb respira
gli effluvi odorosi, piacevoli per le narici!».388
Gli oli, quindi, riattivano e ridonano vitalità a tutte le parti corporee. Essi
provengono, inoltre, dagli dei, dalle loro secrezioni ed emanazioni, come i soffi vitali
veicolati dai condotti-met. L’azione degli oli sacri cancella ogni residuo di corruzione,
consente una migliore aderenza e stabilità delle bende, le une sulle altre, e una
maggiore coesione delle membra tra di loro; innesca, infine, un processo di
rigenerazione complessiva del corpo. Nella sezione del testo dedicata al bendaggio
delle mani e delle dita, dopo l’unzione delle bende, leggiamo infatti:
«O Osiri N! Per te viene l’olio [mrHt] prezioso per rigenerare [snfr] il tuo corpo [Haw]!
Esso ti renderà prezioso […] Esso terminerà di separare la tua carne dalle tue ossa
[Hsq=s Haw=k qsw=k],389 ma farà rimanere saldamente al loro posto le tue bende [pyr]
e i tamponi nei luoghi dove essi devono stare. Quanto all’olio rigenerante [mrHt nfrt],
esso solidificherà la superficie della tua fasciatura, rigenererà [snfr] il tuo corpo [Haw]
ungendolo. I loro oli [mrHwt] avranno un doppio effetto: essi assicureranno la
coesione delle tue falangi con le estremità delle tue mani, faranno in modo che la tua
386
Rituel, XI, in ibid., p. 83.
387
Rituel, IV, in ibid., p. 47.
388
Rituel, VII, in ibid., p. 57.
389
In proposito, cfr. ibid., p. 75, nota 3.
124
pelle sia solida, innalzeranno il tuo nome e tu potrai fare ciò che desideri in tutto il
paese, poiché tu sarai Thot e i tuoi nemici non ci saranno più».390
Nei testi riportati ricorre il gioco di parole tra il verbo semenekh (smnx) e il sostantivo
menekht (mnxt). Il primo è un verbo causativo che tra i suoi significati annovera quelli
di «rendere perfetto», «abbellire», «restaurare», «rendere nobile», il secondo
termine significa, invece, «tessuto», «stoffa». Con riferimento alla rigenerazione
corporea favorita dagli oli troviamo, inoltre, il verbo causativo senefer (snfr) che,
letteralmente, significa «rendere bello», «rendere perfetto»; in certi casi, gli unguenti
rigeneranti sono, quindi, definiti facendo ricorso all’aggettivo nefer (nfr): «bello»,
«perfetto».
Il procedimento d’imbalsamazione nel suo complesso, che ha inizio con la
manipolazione di un cadavere, ossia di un involucro privo di vita o, detto altrimenti,
di un contenitore di tanti pezzi slegati, è finalizzato a recuperare l’aspetto articolare, e
pertanto vitale, che il sopravvenire della morte ha cancellato. Il risultato finale di
questo iter è la «mummia». Mentre in un essere umano vivente il corpo articolare,
come abbiamo già rilevato, detiene un primato sul corpo inviluppo, la mummia
rappresenta, a nostro avviso, una condizione di equilibrio tra queste due dimensioni
dell’esistenza. Se da un lato, infatti, le bende e gli oli ripropongono la rete dei
condotti-met e le correnti dinamiche che hanno come centro propulsore il cuore e che
tengono unite e danno mobilità alle ossa, dall’altro il defunto è ancora in gestazione,
non ha, quindi, riacquistato pienamente la sua autonomia e le sue facoltà motorie. Un
aspetto del bendaggio richiama in particolare la nozione d’inviluppo: oltre a essere
avvolto nelle bende, il corpo del defunto viene rivestito di un grande sudario; a questo
proposito nel rituale dell’imbalsamazione viene menzionato un lenzuolo «perfetto»
(nfr), chiamato «pelle di Seth» (msq n[y]w st).391
La mummia, oltre a rappresentare un luogo e una fase di gestazione, costituisce in
qualche modo un primo stadio di dignificazione dell’individuo che si sta
progressivamente trasformando in un akh.392 Riferendosi a questa particolare
condizione, il rituale dell’imbalsamazione si esprime in questi termini:
390
Rituel, X, in ibid., p. 75.
391
Cfr. Rituel, X, in ibid., p. 76.
392
In proposito Assmann afferma: «Questa (la mummia) è ben più del cadavere: la figura del dio Osiri e una
sorta di geroglifico che rappresenta l’essere umano completo, “riempito di magia” come dicevano gli Egiziani.
Come la magia dello scritto ha il potere di fare apparire e di fissare un senso, la persona del morto è resa visibile e
fissata nella forma simbolica o geroglifico che è la mummia» (Id., Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p.
60).
125
«Tu sei un dio tra gli akhu, tu sei la replica di Osiri, la bella mummia [snn] di Anubi!
Tu occupi il tuo posto a buon diritto, essendo Colui che è stato proclamato vittorioso,
e il tuo nome durerà nel regno dei morti per sempre e per l’eternità, come quello di
Osiri […]».393
Il termine egiziano che denota propriamente la mummia è sah (saH); esso, seguito da
determinativi diversi, assume i significati di «rango», «dignità», «essere nobile»:394
sah
(saH), mummia;
sah
o
(saH), rango, dignità;
sah
o
(saH), essere nobile.
Il defunto nello stato di mummia attende ora che le sue funzioni corporee gli siano
restituite una a una, che tutte le sue membra, riaggregate in una nuova costellazione,
possano riattivarsi completamente. A questo scopo vengono eseguite delle ulteriori
liturgie. In particolare, prima che la mummia nel suo sarcofago sia collocata
definitivamente nella cripta, viene effettuato il «rituale di apertura della bocca». Si
tratta di una ritualità risalente all’Antico Regno, che originariamente aveva la
funzione di animare la statua del sovrano e che in seguito si è fusa con dei riti
funerari officiati per trasmettere al defunto le facoltà necessarie per accedere alla vita
ultraterrena. Nei Testi delle Piramidi c’è già traccia di questa fusione. 395
Durante lo svolgimento di questo rituale il sacerdote tocca con uno strumento a
forma di accetta gli orifizi della testa del defunto, per riattivarne le corrispondenti
funzioni. Trattandosi di orifizi, è un’operazione che chiama in causa il corpo
inviluppo. Essa concorre, tuttavia, al ripristino dell’aspetto articolare della corporeità.
Il defunto, infatti, trovandosi ad essere di nuovo in rapporto con il mondo esterno,
393
Rituel, X, in J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., p. 77. Il termine snn che Goyon traduce
«mummia» significa specificamente «statua», «figura», «immagine» (cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch
Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 779).
394
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 726.
395
Le prime attestazioni del rituale dell’apertura della bocca eseguito sulle statue risalgono all’epoca di Cheope.
Parallelamente viene introdotta una «apertura della bocca» anche nei riti funerari. La fusione tra queste due
correnti si è prodotta molto presto. Alla fine dell’Antico Regno e durante il Medio Regno il rituale compare nelle
tombe dei privati, sotto forma d’illustrazione o di estratti testuali. Nel Nuovo Regno il testo assume la sua forma
definitiva, che rimane invariata fino all’epoca romana. Cfr. J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte,
cit., pp. 85 sgg. Per il testo geroglifico, cfr. E. Otto, Das Ägyptische Mundöffnungsritual, Harrassowitz,
Wiesbaden 1960.
126
riprendendo anche a respirare, è attraversato ancora dalle correnti vitali che si
incanalano nei condotti-met. Relativamente ai vari oggetti e materiali impiegati nel
corso della cerimonia, vogliamo rilevare l’importanza che, anche in questo contesto,
rivestono le bende, le stoffe e gli oli. Le stoffe, retaggio della vestizione della statua
reale nella forma più arcaica del rituale, svolgono un ruolo simbolico e apotropaico;
esse rafforzano in qualche modo l’azione svolta dalle bende della mummia. Le
unzioni con gli oli sacri e le abbondanti fumigazioni di incenso richiamano, invece, i
soffi vitali che rianimano il defunto.
In diverse formule del rituale di apertura della bocca, inoltre, si fa riferimento al
riassemblamento delle membra. Come in altri testi religiosi, occupano una posizione
di primo piano il cranio e le ossa. Dopo l’unzione, il sacerdote pronuncia questa
orazione:
«O N! Tua madre ti ha messo al mondo oggi, facendo di te un essere che conosce ciò
che si ignora! Geb ti pone sano e salvo alla testa del primo collegio della Grande
Enneade degli dei […] Egli ti dà la tua testa [tp], riunisce le tue membra poiché Horo
ti è propizio! Egli ti dà la tua testa [tp] e riunisce le tue membra! […] Geb […] ricollega
per te la tua testa [tp] alle tue ossa [qsw], poiché Geb ti è propizio. Egli ricollega la tua
testa [tp] alle tue ossa [qsw], egli ti guida. Horo ti è propizio e ricollega per te la tua
testa [tp]!».396
Anche la bocca viene collegata alle ossa, come recitano alcuni passi:
«Com’è in buono stato la tua bocca [r(A)], da quando ho riadattato per te la tua bocca
alle tue ossa [qsw]».397
Al
termine
di
tutte
le
pratiche
liturgiche
officiate
contestualmente
alla
mummificazione e alla sepoltura, il defunto è in possesso di un nuovo corpo che gli
consente di continuare a vivere nella dimensione ultraterrena. Si tratta naturalmente
di un corpo di fattura diversa rispetto a quello terreno. Di questo aspetto si fa
portavoce una tematica che appare nei Testi delle Piramidi e che è ancora presente
nella letteratura religiosa durante l’epoca romana. Ci riferiamo a quel motivo che gli
egittologi hanno definito «deificazione delle membra»; a ogni parte del corpo, infatti,
viene fatta corrispondere una divinità. Una formula dei Testi delle Piramidi descrive
il nuovo corpo divinizzato in questo modo:
396
Rituel de l’ouverture de la bouche, scena LV A, la trad. segue quella francese di J.-C. Goyon, in Id., Rituels
funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 151 sg. Per quanto riguarda il termine tradotto con «membra», le
differenti versioni del testo riportano in realtà più varianti: Haw, jwf, awt.
127
«La testa [tp] di questo Meryra è un falco, egli salirà dunque e s’innalzera al cielo. I
lati della testa [Drw tp] di questo Pepy sono il cielo stellato del dio, egli salirà dunque e
s’innalzerà verso il cielo. […] Il viso [Hr] di questo Pepy è Upuaut, egli salirà dunque e
s’innalzerà verso il cielo. I due occhi [jrty] di Meryra sono la Grande che è alla testa
dei ba di Heliopoli […] Il naso [fnD] di questo Pepy è Thot […] La bocca [rA] di questo
Meryra è il grande canale Khenes […] La lingua [ns] di questo Pepy è il pilota
incaricato della barca di Maat […] I denti [jbHw] di questo Pepy sono i ba di Pe (?) […]
Le labbra [spty] di questo Pepy sono Shu e Tefnet […] La colonna vertebrale [Ts] di
questo Pepy è il Toro selvaggio […] Le due spalle [rmnwy] di questo Pepy sono Seth
[…] Il cuore [HAty] di questo Meryra è Bastet […] Il ventre [Xt] di questo Meryra è Nout
[…] La schiena [sA] di questo Pepy è Geb (?) […] Le vertebre [Tsw] (?) di questo Pepy
sono la Doppia Enneade».398
Il testo prosegue enumerando una serie di membra fino alle piante dei piedi e agli
alluci e affermando subito dopo che «Pepy è il compagno di un dio, il figlio di un
dio».399 Ritroviamo formule simili anche nei Testi dei Sarcofagi e nel Libro dei
Morti.400 Una prima osservazione è la seguente: in generale i passi che sviluppano il
tema della divinizzazione delle membra non si limitano a menzionare gli elementi
essenziali del corpo articolare, ma elencano tutte le parti corporee considerate
rilevanti, dalla sommità del capo fino alle piante dei piedi. Si tratta, tuttavia, di
membra che si riuniscono in un nuovo sistema di rapporti e ritrovano la funzionalità
di cui la morte le aveva private. Esse ripropongono, quindi, un modello articolare
basato sulla connettività e sulla motricità. In secondo luogo, si rileva una completa
mancanza di sistematicità nell’attribuzione delle divinità alle parti del corpo e anche
nella scelta e nel numero di queste ultime. La nuova rete di relazioni non risponde,
quindi, a uno schema preordinato, essendo essa una realtà dinamica per eccellenza.
E’ opportuno precisare che la rigenerazione corporea sulla quale insistono le fonti
religiose egiziane e che abbiamo posto in primo piano nella nostra esposizione,
rappresenta in realtà una riorganizzazione di tutto l’individuo nel suo complesso.
Tutte le componenti dell’individualità, come il ba, il ka, il ren, ecc., si riuniscono in
una nuova costellazione che si compendia nel termine akh. Questo vocabolo, infatti,
397
Ouverture de la bouche, scene XXV, XXVI, XXVII, XXXIII, in ibid., pp. 123, 126, 127, 131. Cfr. Pyr, 11 a – 15.
398
Pyr, formula 539.
399
Pyr, 1316 a.
400
Cfr., per es., CT, formula 761; Libro dei Morti, cap. 42.
128
se per un verso richiama la nuova condizione corporea del defunto rinato, una
«corporeità» ultraterrena, luminosa, che spesso è indicata nei testi religiosi mediante
il termine djet, il corpo per l’eternità, per un altro esso denota, più propriamente,
l’intero «individuo articolare» nel suo nuovo stato. L’insieme delle liturgie funerarie
si rivolge, quindi, a tutte le componenti dell’individuo, menzionate, peraltro, a più
riprese nella letteratura religiosa e liturgica. Una parte rilevante di queste liturgie è
costituita dalle «glorificazioni», in egiziano
sakhu
(sAxw), formule di trasfigurazione.
Questo sostantivo è una forma del verbo causativo sakh
(sAx),
che significa «rendere akh» o «trasformare in akh».401
Alcuni altri vocaboli che derivano dalla radice akh possono contribuire a chiarire
meglio il concetto espresso dalla medesima. In particolare i seguenti:
akhu
(Axw), potere magico, potere divino;
akhu
(Axw), luce del sole, chiarore;
akhet
akhakhw
o
(Axt), orizzonte;
(AxAxw), stelle.
Il defunto trasfigurato, in quanto ipostasi luminosa della divinità, ha come dimora il
cielo settentrionale, dove risiedono le stelle imperiture (jxm-sk), cioè le stelle
circumpolari che non tramontano mai. Anche l’individuo che è nello stato di akh,
infatti, come Osiri-Orione, è una costellazione celeste, i cui astri sono le varie
componenti del suo essere.402 Tra i termini aventi la medesima radice akh che
401
In proposito, cfr. J. Assmann, Verklärung, in Lexikon der Ägyptologie, Harrassowitz, Wiesbaden 1975, vol. V,
coll. 998 sgg.
402
Tra gli astri o i gruppi di astri con i quali l’individuo akh condivide la propria esistenza nella regione celeste
figurano anche i decani. Si tratta di 36 settori di cielo prossimi all’eclittica, ognuno dei quali ha un’ampiezza di 10
gradi; le fonti più antiche relative ai decani di cui disponiamo sono i coperchi di una serie di sarcofaghi risalenti al
Primo Periodo Intermedio. In proposito, nel rituale dell’imbalsamazione leggiamo: «Tu farai ciò che ti aggrada
all’interno del cielo, poiché sarai con gli astri, il tuo ba sarà con i trentasei astri, nei quali potrai trasformarti a tuo
piacimento» (J.-C. Goyon, Rituels funéraires de l’ancienne Égypte, cit., pp. 72 sg.). I decani sono stati selezionati
dagli Egiziani, per analogia con la stella Sirio, in base alle loro levate eliache mattutine e al loro periodo
129
abbiamo selezionato, abbiamo voluto inserire anche quello che ha il significato di
«orizzonte». La linea dell’orizzonte rappresenta un luogo di passaggio che contiene,
pertanto, l’idea di trasformazione. Akhet è una nozione ricca di sfumature; lo stesso
termine può indicare anche un tempio o una tomba nell’espressione «la casa
dell’eternità» (Axt nt nHH), un luogo, quindi, dove si attua un passaggio o uno scambio
tra due dimensioni.403 La riconfigurazione dell’individuo in una nuova rete di
relazioni non è, infatti, una condizione statica; essa partecipa dei cicli e dei
movimenti celesti ed è in perpetua gestazione nel ventre di Nut.404
d’invisibilità che, per ciascuno di essi, dura settanta giorni all’anno. Quest’ultimo aspetto ci sembra
particolarmente interessante, perché potrebbe fornire una spiegazione della durata del processo
d’imbalsamazione, durante il quale l’individuo, come un astro decanale, rimarrebbe «invisibile» per settanta
giorni, prima di sorgere nuovamente in una forma completamente rinnovata. Sulla questione dei decani cfr.: O.
Neugebauer, R. Parker, Egyptian astronomical texts, 3 voll., Brown University Press, Providence, Lund
Humphries, London 1960-1969. Cfr. anche C. Leitz, Altägyptische Sternuhren, Peeters, Departement
Oriëntalistiek, Leuven 1995.
403
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 12 sg. Cfr. anche Wb, I, p. 17.
404
A proposito di passaggio e trasformazione, due formule dei Testi dei Sarcofagi definiscono gli Akhu
«traghettatori del cielo» (mXnt[y]w n[y]w pt) e «traghettatori dell’Occidente» (mXnt[y]w n[y]w jmnt). Essi sarebbero
130
CAPITOLO IV
L’INDIVIDUO TRA ANIMA E CORPO
Richiamando i principali concetti antropologici e fisiologici propri della civiltà
egiziana e tracciando le linee direttrici secondo le quali si dispiega la concezione
egiziana dell’essere umano, compendiata nel mito di Osiri, abbiamo cercato di
formulare un modello che mettesse in rilievo, oltre alle peculiarità che caratterizzano
questa visione, la sua originalità e il suo interesse in rapporto all’immagine dell’uomo
foggiata sul binomio anima-corpo. Il modello proposto richiede, tuttavia, un
approfondimento ulteriore e una sintesi che lo rendano maggiormente efficace e
intelligibile. Alcuni dei quesiti che abbiamo posto in precedenza, infatti, rimangono
ancora senza una risposta sufficientemente esaustiva. In particolare, ci riferiamo al
ruolo svolto dalla corporeità nell’ambito della costellazione di componenti in cui si
articola l’essere umano, al significato della mummia e al rapporto tra la dimensione
corporea e gli elementi più sottili dell’individualità.
Prima di dare una risposta a questi quesiti, in questo capitolo e in quello seguente,
affronteremo alcuni aspetti e alcuni sviluppi della riflessione antropologica e delle
concezioni fisiologiche che hanno visto la luce nel mondo greco, in seguito
all’affermarsi del binomio anima-corpo. Anche in questo caso, il confronto con la
speculazione greca ci consentirà una migliore calibrazione dell’approccio egiziano a
queste tematiche, fornendoci dei punti di riferimento ulteriori per impostare ed
esporre successivamente, in modo più compiuto, il nostro modello.
1. La concezione greca dell’anima (yuchv) tra il VI e il V secolo a. C. e i suoi
possibili punti di convergenza con l’antropologia egiziana
Nel periodo presocratico, prima dell’avvento della sofistica, non si trova ancora nel
mondo greco una formulazione esplicita della domanda circa l’uomo e la sua natura.
In questo contesto, tuttavia, l’uomo comincia a essere pensato in termini di anima
(yuchv) e corpo (sw`ma). Nel quadro di una riflessione prevalentemente cosmologica
vengono avanzate diverse teorie sull’anima e sui rapporti che essa intrattiene con il
preposti, dunque, a condurre i nuovi defunti e a fare in un certo senso da ponte tra due dimensioni. Cfr. CT, V, 170
g; 174 b.
131
corpo. Anassimene, l’ultimo esponente della scuola di Mileto, per il quale il principio
di tutte le cose è l’aria, afferma:
«Come la nostra anima, che è aria, ci tiene assieme [sugkratei`], così il soffio e l’aria
tengono unito [perievcei] il mondo».405
Questo frammento individua nell’anima la realtà che meglio rappresenta il principio
primo e sembra riconoscerle, come funzione che le è propria, un’azione coesiva. Essa
pervade e mantiene in essere la dimensione umana, nello stesso modo in cui l’aria,
intesa in senso generale, come elemento sottile e divino, sostiene e governa il cosmo.
L’anima però non si distingue qualitativamente dal corpo, in quanto è costituita dallo
stesso principio che è all’origine di tutte le cose. Per Eraclito che pone come ajrchv il
fuoco l’anima ha, invece, una natura ignea. Il filosofo di Efeso stabilisce una
connessione tra l’anima e il lovgo~, considerato come la legge universale. Il fuoco non
è altro, infatti, che un’espressione manifesta di questa legge. L’anima non sembra
avere confini; essa è per certi versi un sostrato dell’uomo e del mondo:
«I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fino in
fondo nel percorrere le sue strade: così profondo è il suo lovgo~».406
Secondo la testimonianza di Aristotele, inoltre, «Eraclito afferma che l’anima è il
principio [ajrchv], se è vero che è l’esalazione [ajnaqumivasi~] da cui sono costituite le
altre cose. Egli dice inoltre che è massimamente incorporea e in un continuo
fluire».407
Il lovgo~, che è anche pensiero e ragione, è ciò che accomuna tutti gli uomini e li
integra nel cosmo, anche se non sempre essi vi prestano ascolto. In proposito sono
eloquenti i seguenti frammenti:
«Bisogna seguire ciò che è uguale per tutti, ossia che è comune. Infatti, ciò che è
uguale per tutti coincide con ciò che è comune. Ma anche se il logos è uguale per tutti,
la maggior parte degli uomini vive come se avesse un proprio intendimento».408
«Comune a tutti è il pensare [to; fronevein]».409
Anche Anassagora attribuisce all’uomo l’intelligenza (nou`~), che è il principio primo
del cosmo, precisando come Eraclito che non tutti gli uomini ne dispongono:
405
Anassimene, B 2, trad. it. di S. Obinu, in I Presocratici, cit.
406
Eraclito, B 45, in ibid. Abbiamo modificato leggermente la trad. di G. Reale sostituendo «ragione» con il
termine originale lovgo~.
407
Aristotele, L’anima, I, 2, 405 a, 25-27, trad. it. di G. Movia, Bompiani, Milano 2008. D’ora in poi faremo
riferimento a questa ed.
408
Eraclito, B 2, trad. it. di G. Reale, in I Presocratici, cit.
132
«Anassagora non pone l’intelligenza [nou`~] come ragione [frovnhsi~] in tutti gli
uomini, e non perché siano sforniti di sostanza intellettiva, ma perché non la usano
sempre: l’anima, invece, è contrassegnata da queste due proprietà: quella di muovere
e quella di conoscere».410
Il rapporto tra intelligenza e anima, tuttavia, non risulta del tutto chiaro, come rileva
Aristotele:
«Anassagora […] da un lato sembra affermare la diversità di anima e intelligenza, e
dall’altro si serve di entrambi come di un’unica natura, salvo a porre soprattutto
l’intelligenza come principio. E certo, egli afferma, essa è il solo tra gli esseri che è
semplice, non mescolato e puro. E attribuisce al medesimo principio ambedue le
capacità: quella di conoscere e quella di muovere, dicendo che l’intelligenza ha messo
in movimento l’universo».411
Gli aspetti della riflessione di Anassagora che riteniamo maggiormente interessanti
sono da un lato la compenetrazione di anima e corpo che sembra emergere dalle
testimonianze pervenuteci, dall’altro la rilevanza che assume l’elemento corporeo. Il
filosofo di Clazomene, infatti, afferma che «grazie alle mani che ha, l’uomo è il più
sapiente degli animali».412 L’unità delle differenti nature è, inoltre, anche un
principio cosmologico:
«Nell’unico Universo non si trovano disgiunte le une cose dalle altre, e non risultano
tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo».413
L’unità dell’anima e del corpo è riconosciuta anche da Democrito. L’anima, che
coincide con l’intelligenza ed è fatta di atomi, si diffonde in tutto il corpo e gli dà
movimento:
«Egli afferma, infatti, che gli atomi di forma sferica, dotati di movimento perché, per
loro natura, non possono mai rimanere in quiete, trascinano con sé e muovono
l’intero corpo».414
409
Eraclito, B 113, in ibid.
410
Anassagora, A 101 a, trad. it. di S. Obinu, in ibid. Relativamente al contenuto di questo passo, tuttavia, D.
Lanza rileva una certa confusione da parte del suo autore, Psello: «La confusione dossografica mi pare evidente: la
fonte è il De an. Aristotelico, letto senza distinguere attentamente quanto è attribuito ad Anassagora e quanto è
correzione di Aristotele» (Anassagora, Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 174).
411
Aristotele, L’anima, I, 2, 405 a, 14-19. Abbiamo leggermente modificato la traduzione di G. Movia, rendendo il
termine nou`~ con «intelligenza» anziché «intelletto». In proposito, cfr. le osservazioni di D. Lanza in Anassagora,
Testimonianze e frammenti, cit., pp. 169 sgg. Cfr. anche il frammento B 12, nel quale, come indica Lanza, si può
trovare un riscontro dell’identificazione di nou`~ e yuchv.
412
Anassagora, A 102, trad. it. di S. Obinu, in I Presocratici, cit.
413
Anassagora, B 8, in ibid.
414
Aristotele, L’anima, I, 3, 406 b, 20-22.
133
Gli atomi dell’anima, essendo per costituzione più sottili e levigati, tendono a
fuoriuscire dal corpo, ma vengono recuperati attraverso la respirazione. Quando
quest’ultima si arresta, sopravviene la morte. Nell’impostazione di Democrito, il
primato spetta all’anima che, tuttavia, è mortale come il corpo.
Nell’ambito della filosofia presofistica l’anima è concepita tendenzialmente come
l’espressione più diretta del principio primo (l’ajrchv del mondo) e come una fonte di
movimento. Essa, inoltre, svolge generalmente anche un ruolo di primo piano nel
processo conoscitivo. Aristotele riassume in questo modo la posizione dei suoi
predecessori:
«Ora pare che l’essere animato si distingua dall’inanimato specialmente per due
proprietà: il movimento [kivnhsi~] e la sensazione [aijsqavnesqai]. Ed in verità anche
dei nostri predecessori, riguardo all’anima, si può dire che abbiamo appreso queste
due sole caratteristiche».415
Al termine della sua disamina delle teorie psicologiche del passato, Aristotele
aggiunge anche una terza proprietà:
«Pertanto si può dire che tutti definiscono l’anima in base a tre caratteristiche: il
movimento [kivnhsi~], la sensazione [aivjsqhsi~] e l’incorporeità [ajswvmaton], e
riconducono ciascuna di esse ai principi».416
La questione delle sorti dell’anima dopo la morte non è, invece, tra i temi privilegiati
dalla speculazione dei filosofi presocratici definiti «naturalisti». Su questo argomento
essi non si pronunciano. Di orientamento diverso è, invece, la scuola pitagorica che,
accogliendo il retaggio della tradizione orfico-dionisiaca, concepisce l’anima come un
essere immortale e di origine divina, costretto a rivestirsi più volte di spoglie mortali
per emendare le proprie colpe. Anche la filosofia di Empedocle promuove questa
visione dell’uomo. L’anima, formata da quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), è
una sorta di demone che si reincarna in corpi diversi che gli toccano in sorte sulla
415
Ibid., I, 2, 403 b, 26-28.
416
Ibid., I, 2, 405 b, 10-12. In realtà, nell’ambito delle teorie presofistiche, la terza proprietà dell’anima di cui
parla Aristotele, cioè l’incorporeità, può sembrare difficilmente conciliabile con una prospettiva atomistica. Per gli
atomisti, infatti, tutto ciò che esiste, compresa l’anima, è fatto di atomi, i quali sono definiti «corpi primi» (prw`t a
swvmata; cfr. Leucippo, A 14). L’anima, tuttavia, è composta da atomi molto più sottili, che la fanno assomigliare al
fuoco e le permettono di penetrare negli altri corpi. Aristotele riconosce questo aspetto: «Di qui Democrito
afferma che l’anima è una specie di fuoco e di calore. Infatti, essendo infinite le figure o atomi, chiama fuoco e
anima quelli di forma sferica, che sono paragonabili a quello che è chiamato pulviscolo atmosferico, visibile nei
raggi di sole che penetrano dalle finestre. […] Gli atomi, poi, che hanno forma sferica costituiscono l’anima, e ciò
perché tali configurazioni sono le più capaci d’insinuarsi dappertutto e di muovere gli altri atomi, essendo esse
stesse in movimento, giacché ritengono che l’anima sia ciò che produce negli animali il movimento» (ibid., I, 2,
403 b, 30 – 404 a, 1-9).
134
base delle azioni compiute in precedenza. Empedocle è convinto di condividere anche
lui questa condizione:
«Perché già una volta io fui fanciullo e fanciulla e arbusto e uccello e pesce muto che
guizza fuori dal mare».417
Erodoto attribuisce alla civiltà egiziana l’origine della credenza nella reincarnazione,
propria di queste correnti del pensiero greco:
«Furono ancora gli Egiziani a formulare per primi la dottrina che l’anima dell’uomo è
immortale, e, quando il corpo si dissolve, entra essa in un altro animale che, di volta
in volta, viene al mondo. Dopo essere passata per tutti gli animali della terra, del
mare e dell’aria, di nuovo l’anima entra nel corpo di un uomo che nasce alla vita:
questo giro di trasmigrazione per l’anima si compie, dicono, in tremila anni. Di
questa teoria si valsero alcuni fra i filosofi greci, chi prima, chi dopo; come se fosse
stata loro propria: io ne conosco i nomi, ma tuttavia non ne parlo».418
E’ nel contesto di queste dottrine che il rapporto tra yuchv e sw`ma comincia ad
assumere i contorni di quel dualismo radicale che verrà in seguito decretato nel
Fedone, secondo il quale la dimensione corporea per l’uomo è soltanto una prigione,
un ostacolo alla piena espressione della vera natura umana, l’anima.
Con l’avvento della sofistica la speculazione filosofica viene orientata principalmente
verso il problema dell’uomo e della sua natura, tuttavia i sofisti, a quanto risulta dalle
testimonainze a nostra disposizione, non costruiscono delle teorie generali sulla
natura umana e non parlano dell’anima. Socrate, invece, pone espressamente la
domanda circa l’uomo e, prospettando tre possibili risposte, lo identifica, infine, con
la sua anima:
«Dal momento che l’uomo non è né il corpo né l’insieme [sunamfovteron], resta,
credo, o che non sia nulla o, se è qualcosa, che l’uomo non risulti essere altro che
anima. […] Hai bisogno che ti sia dimostrato in modo ancora più chiaro che l’anima è
l’uomo?».419
417
Empedocle, B 117, trad. it. di I. Ramelli e A. Tonelli, in I Presocratici, cit.
418
Erodoto, Storie II, 123, trad. it. di L. Annibaletto, Mondadori, Milano 2000. Teniamo a precisare che
l’egittologia contemporanea, in generale, non ritiene attendibili le testimonianze greche che attribuiscono alla
civiltà egiziana una dottrina della trasmigrazione delle anime. Hornung, per es., a proposito della capacità di
muoversi liberamente tra cielo e terra che manifesta il ba di un defunto, afferma: «Ciò è qualcosa di molto diverso
dalla trasmigrazione delle anime nelle altre religioni, il ba non entra, infatti, in un altro essere vivente […], ma
ritorna continuamente al suo corpo originario; è comprensibile, tuttavia, che gli autori antichi sotto l’influsso di
tali rappresentazioni abbiano attribuito anche agli Egiziani l’idea di una trasmigrazione delle anime» (E.
Hornung, Fisch un Vogel: zur altägyptischen Sicht des Menschen, cit., p. 494).
419
Platone, Alcibiade I, 130 c, trad. it. di F. Aronadio, in Id., Dialoghi spuri, Utet, Torino 2008.
135
Ciò che Socrate intende per «anima» è sostanzialmente la ragione, la cui
caratteristica principale è quella di essere in grado di conoscere la virtù, il bene:
«Se invece dico che il bene massimo per l’uomo è discorrere ogni giorno della virtù e
delle altre questioni su cui mi sentite discutere, esaminando me stesso e gli altri, e
che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta, crederete ancor meno a
queste mie parole. Eppure, cittadini, è così come vi dico, anche se non è facile
convincervi».420
Per quanto riguarda il destino dell’anima dopo la morte, il Socrate dei dialoghi
giovanili di Platone non assume una posizione definita. Avviandosi verso la morte,
infatti, egli proferisce, nella ricostruzione platonica, queste parole:
«Ma ormai è ora di andarsene, io a morire, voi a vivere: chi di noi vada verso la meta
migliore, è oscuro a tutti tranne che alla divinità».421
Rivolgendoci ora alla cultura dell’antico Egitto, il concetto antropologico egiziano
che, generalmente, gli studiosi considerano più affine alla nozione di anima
formulata dal pensiero greco è quello denotato dal termine ba. Questo vocabolo,
tradotto il più delle volte con «anima», denota, in effetti, un aspetto dell’individualità
umana che per certi versi richiama le caratteristiche della yuchv greca sopra
evidenziate:
1) il ba, rispetto al corpo terreno, ha una natura sottile;
2) esso è, inoltre, un elemento estremamente mobile, in grado di spostarsi
liberamente in ogni regione dell’esistente;
3) è anche un principio cosmologico, in quanto riproduce il ciclo diurno del dio
sole;422
4) il ba sopravvive alla morte del corpo terreno.
Nonostante le indubbie affinità tra le due nozioni, il concetto di ba, come abbiamo
rilevato precedentemente, non è, tuttavia, sovrapponibile a quello di yuchv. Anzitutto
è necessario considerare il contesto antropologico in cui le due nozioni sono inserite e
acquisiscono un significato. La yuchv è il polo di natura più sottile all’interno di un
modello antropologico sostanzialmente duale, polo che tende ad assumere il ruolo di
centro gravitazionale del sistema. Il ba è una delle molteplici componenenti sottili
dell’essere umano, non l’unica. Esso non è, inoltre, il centro del sistema, ruolo che è
420
Platone, Apologia di Socrate, 38 a, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, cit.
421
Ibid., 42 a.
422
Cfr. supra, pp. 73 e 77 sg.
136
attribuito, invece, a un aspetto del cuore, l’ib, e al nome (ren), che rappresentano tra
gli elementi costitutivi della natura umana dei primi inter pares. Nel secondo
capitolo, abbiamo interpretato il ba come una delle due coordinate fondamentali
della mappa della costellazione Uomo. Questa componente non è neanche la sede del
pensiero e dell’intelligenza; le facoltà intellettuali e la coscienza in generale risiedono,
infatti, nell’ib. Il ba, pur essendo un elemento sottile, è strettamente legato alla sfera
corporea e ai suoi umori (rDw), in particolare al sangue e alla semenza. Ogni notte il
ba di un individuo defunto si riunisce alla spoglia mortale conservata nella tomba. La
yuchv, invece, non mantiene, dopo la morte, un legame con il cadavere;
eventualmente si reincarna in un nuovo corpo. Sulla base delle fonti esaminate,
infine, abbiamo riconosciuto nel ba anche una forma di coscienza sensoriale (simile
al qumov~) oltre che «morale».
Un’altra nozione antropologica egiziana che potrebbe essere avvicinata alla yuchv dei
Greci è quella di «ombra»:
shuyt
(Swyt) o khaybet
(xAybt).423
Questo elemento dell’individualità, raffigurato nel Nuovo Regno come una sagoma
nera, ha in comune con il ba, accanto al quale è nominato nei testi funerari, la
mobilità e il legame con il corpo.424 Nei Testi dei Sarcofagi si pone l’accento sulla
necessità che l’ombra del defunto riacquisti la sua capacità di movimento, in modo da
poter attivare, insieme ad altre componenti, un circuito di forza vivificante tra
l’individuo e la sfera divina:
«Va, mio ba, mia ombra [Swyt], affinché tu possa vedere Ra all’interno del suo
santuario! […] Guardiani dei cuori-ib nel boschetto di papiri, preposti alle porte del
cielo superiore [pt Hr(y)t], aprite le strade per il mio ba, il mio akh, la mia ombra,
poiché egli porta Maat a Ra!».425
Un’altra formula recita:
423
Il termine xAybt è utilizzato nel Nuovo Regno.
424
L’ombra come sagoma nera viene raffigurata in tre tombe tebane della XIX dinastia a Deir el Medina; nella
Valle dei Re, invece, la troviamo soltanto nella tomba di Sethi I. Questa immagine compare, inoltre, in alcuni
papiri funerari del Nuovo Regno.
425
CT, VI, 67 e-f; h-k.
137
«O mio ba, mio akh, mia magia [HkAw], mia ombra [Swyt]! Apri dunque le due porte
del cielo! Apri dunque le porte del firmamento […] (in modo) che tu possa vedere Ra
nelle sue vere forme!»426
Il capitolo 92 del Libro dei Morti esordisce in questo modo: «Formula per aprire la
tomba per il ba e per l’ombra [Swyt] di Osiri N».
Anche a proposito degli dei, nelle fonti egiziane, si parla di ombra; il sole, per
esempio, possiede un’ombra che attraversa la regione della duat. Nonostante questa
componente umana e divina condivida con il ba una natura estremamente mobile,
essa non raggiunge la sommità del cielo, ma rimane ancorata alla terra e alla sfera
corporea.427
Più che la yuchv di cui parlano i filosofi, l’ombra degli Egiziani sembrerebbe
richiamare, quindi, la nozione di eijvdwlon che troviamo nei poemi omerici. Snell rileva
che l’«allontanarsi dell’anima dall’uomo, Omero lo descrive in pochi tratti; essa esce
dalla bocca e viene emessa col respiro (o anche attraverso la ferita) e vola verso l’Ade.
Là essa diventa spettro, conduce l’esistenza delle ombre, come “immagine” (eijvdwlon)
del defunto».428 L’anima intesa come eijvdwlon,429 infatti, è soltanto il simulacro di chi
ha vissuto sulla terra, che ha la consistenza di un’ombra e che, come rivela a Odisseo
la madre Anticlea nell’Ade, «si libra come un sogno».430
Come nel caso dell’ombra egiziana, che si muove tra la tomba e la duat, la
destinazione finale di questa sorta di figura onirica non è la dimensione celeste, bensì
un mondo sotterraneo. L’eijvdwlon, tuttavia, intrattiene con il corpo un rapporto
differente. Per poter essere accolto nell’oltretomba e trovare pace, esso deve
interrompere il suo legame con la sfera corporea. Ciò avviene non con la morte, ma
426
CT, VI, 71 k-m; 72 d. Cfr. anche, per es., CT, formule 491; 497.
427
Cfr. E. Hornung, Fisch und Vogel: zur altägyptischen Sicht des Menschen, cit., p. 486. Cfr. anche J. Assmann,
Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 180.
428
B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 29.
429
Secondo J.-P. Vernant, il termine eijvdwlon individua una categoria di fenomeni, nella quale, oltre all’anima
intesa come ombra, rientrano anche l’immagine del sogno (ovjneiro~), l’ombra degli oggetti e dei corpi (skiav),
l’apparizione soprannaturale (favsma) e il colosso (kolossov~). Si tratterebbe di una vera e propria categoria
psicologica, quella del «doppio, che suppone un’organizzazione mentale differente dalla nostra. Un doppio è
tutt’altro che un’immagine. Non è un oggetto “naturale”, ma non è neanche un prodotto mentale: né un’imitazione
di un oggetto reale, né un’illusione della mente, né una creazione del pensiero. Il doppio è una realtà esterna al
soggetto, ma che, nella sua apparenza stessa, si oppone per il suo carattere insolito agli oggetti familiari, allo
scenario ordinario della vita» (J.-P. Vernant, La catégorie psychologique du double, in Id., Mythe et pensée chez
les Grecs, François Maspero, Paris 1974, p. 70). La nozione egiziana di ombra non copre, in realtà, tutta la gamma
di fenomeni indicata da Vernant a proposito dell’eijvdwlon greco. Essa rappresenta, infatti, una delle varie
componenti sottili dell’individuo o della divinità e non una categoria di elementi o manifestazioni. L’ombra,
inoltre, non si può definire, a nostro avviso, una realtà esterna al soggetto, in quanto essa è parte integrante
(durante e dopo la vita terrena) di quella costellazione che abbiamo definito «individuo articolare».
430
Omero, Odissea, XI, 222, trad. it. di F. Ferrari, Utet, Torino 2005.
138
con la sepoltura del corpo. Tra le proprietà dell’eijvdwlon non c’è, quindi, quella di
essere un veicolo di forza per il corpo. L’anima del defunto è soltanto una parvenza di
vita, sprovvista di una vera e propria coscienza o di particolari funzioni, per la quale
non sono neanche previste ricompense o punizioni. L’ombra degli Egiziani può
essere, invece, sottoposta a delle punizioni nell’aldilà, come, del resto, anche le altre
componenti dell’individualità. Nel Libro dei Morti, tra i quarantadue giudici che
compongono il tribunale di Osiri, menzionati al capitolo 125, ce n’è uno «che divora
le ombre, originario della Caverna» (am[w] Swywt pr[=w] m qrrt). Particolarmente
eloquenti in proposto sono, inoltre, i testi dell’oltretomba del Nuovo Regno, dove si
incontrano esseri spaventosi che fanno a pezzi e divorano i defunti che non sono stati
riconosciti come «giusti di voce».
L’ombra egiziana presenta un’ulteriore caratteristica: se da un lato essa è in grado di
trasmettere forza vitale al corpo, dall’altro può anche essere causa di patologie, come
attesta la letteratura medica. In questo caso si tratta dell’«ombra di un dio, di un
morto o di una morta», che colpisce un essere umano, esercitando su di lui un’azione
nefasta.431
2. Gli sviluppi della nozione di yuchv nella filosofia platonica e aristotelica
Nel modello antropologico proposto da Platone nel Fedone, yuchv e sw`ma
costituiscono due entità di natura differente, in perenne conflitto tra di loro. L’anima,
possedendo l’intelligenza, deve governare il corpo e contrastarne gli impulsi.
Seguendo questa linea di pensiero, Platone prende le distanze dalla dottrina
pitagorica che vedeva nell’anima l’armonia del corpo e si discosta anche da Socrate,
che, pur individuando nell’anima l’essenza dell’uomo, non aveva teorizzato un
conflitto tra questa e la sfera corporea. Nel Fedone, l’uomo viene identificato in modo
categorico con la propria anima. Quest’ultima è presentata come un’entità del tutto
autonoma, affine alle Idee e in grado di sussistere separatamente dal corpo. Platone
conia, così, la nozione di anima che sarà ripresa in seguito dal cristianesimo e dalla
filosofia moderna.
La concezione platonica dell’uomo non rimane confinata, tuttavia, entro l’orizzonte
tracciato nel Fedone. In alcuni dei dialoghi successivi, infatti, la psicologia del filosofo
431
Nei papiri medici sono note tre attestazioni della nozione di ombra nella sua accezione «nosologica»: Bln 89 e
101; Hearst 214.
139
ateniese va incontro a delle ulteriori elaborazioni, assumendo una forma
maggiormente articolata e complessa. Nella Repubblica, la città ideale viene descritta
come l’immagine in scala maggiore del singolo individuo. Viene istituita cioè una
proporzione tra la struttura della società e quella dell’uomo: alle tre classi sociali in
cui si suddivide la città platonica corrispondono tre parti o aspetti dell’anima umana:
«E in fin dei conti – dissi – non siamo necessariamente costretti a convenire che in
ciascuno di noi vi sono le stesse caratteristiche e costumi che sono nello Stato? Per
forza, ché lo Stato è i cittadini stessi. Sarebbe ridicolo, infatti, credere che l’indole
focosa, propria di quegli Stati ritenuti violenti, come lo sono i Traci, gli Sciti, e in
genere tutti i popoli del nord, o l’amore per la scienza, che si può dire propria del
nostro paese, o per la ricchezza, tipico dei Fenici e degli Egizi, non sia un generarsi
dall’individuo allo Stato».432
L’uomo, che anche in questo contesto è concepito essenzialmente come la propria
anima, manifesta, dunque, un aspetto razionale (logistikovvn), uno irascibile
(qumoeidev~) e uno concupiscente (epiqumhtikovn). L’appartenenza di un individuo alla
classe dei governanti, dei militari o dei lavoratori è caratterizzata dalla predominanza
in lui di uno di questi tre aspetti.
Il conflitto che nel Fedone vede contrapposti anima e corpo viene trasferito, nella
Repubblica, all’interno dell’anima, la quale, pur essendo tripartita, mostra, in realtà,
una struttura sostanzialmente dualistica. L’elemento impetuoso o irascibile, infatti,
«per sua natura è ausiliario della razionalità, se non è stato sciupato da una cattiva
educazione».433 Il vero fattore di disordine è rappresentato dalla parte appetitiva
dell’anima, dal desiderio. Se l’elemento razionale, sostenuto da quello irascibile,
riesce ad arginare l’impetuosità dell’anima concupiscente, si produrrà la giustizia sia
all’interno dello stato che nel singolo individuo:
«Così – io dissi – non attueremo giustizia quando fra le varie parti dell’animo si
stabilirà un perfetto e gerarchico rapporto naturale; ingiustizia, invece, quando si
porra contro natura tale rapporto gerarchico? […] La virtù, dunque, è, in un certo
senso, salute, bellezza, benessere dell’anima; il vizio, invece, malattia, bruttura,
debolezza».434
432
Platone, Repubblica, IV, 435 e – 436 a.
433
Ibid., 441 a.
434
Ibid., 444 d-e.
140
La medesima concezione, espressa in termini differenti, la ritroviamo nel Fedro. In
questo dialogo l’anima è raffigurata come una biga alata, condotta da un auriga e
trainata da due cavalli:
«Poniamo che essa (l’anima) sia simile ad una potenza congenita di una pariglia alata
e di un auriga. Ora, i cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti buoni e di buona razza,
mentre quelli degli altri sono misti. In primo luogo, nel caso nostro, è la guida che
conduce la pariglia; in secondo luogo, dei due cavalli ne ha uno eccellente e di razza
eccellente, mentre l’altro è l’opposto e di razza opposta. E’ dunque necessariamente
difficile e ingrato il compito dell’auriga nel nostro caso».435
L’auriga rappresenta l’anima razionale che tenta di guidare il carro alato verso l’alto,
verso il mondo delle Idee. Nel caso di un essere divino questo compito non trova
nessun ostacolo alla sua realizzazione, dal momento che gli intenti dei tre elementi
che costituiscono l’anima convergono verso lo stesso scopo. Per quanto riguarda,
invece, gli altri esseri, l’auriga trova un alleato nel cavallo buono, ossia nell’anima
irascibile, e un impedimento in quello cattivo, immagine dell’anima concupiscente.
Quando sono gli impulsi del secondo cavallo a prevalere, la biga precipita verso il
basso, verso la dimensione terrena:
«Quando è perfetta e alata, essa si libra in alto e governa il mondo intero; ma se perde
le ali, precipita finchè non arrivi ad afferrarsi a qualcosa di solido, dove stabilisce la
sua dimora e assume un corpo terroso, che a causa della potenza dell’anima sembra
muoversi da solo. Questa totalità, composta di anima e di corpo, fu chiamata essere
vivente ed ebbe l’appellativo di mortale».436
Anche nel Fedro viene riproposto, quindi, il modello di un’anima tripartita che
manifesta, tuttavia, una natura essenzialmente dualistica: la ragione, sostenuta
dall’emotività positiva, deve esercitare il proprio dominio sulla parte impulsiva e
appetitiva, che rappresenta il lato più pericoloso dell’essere umano. In questo
contesto, il corpo è l’effetto di una sorta di «incidente di percorso», qualcosa, cioè,
che probabilmente sarebbe meglio evitare.
Il discorso sull’uomo viene nuovamente affrontato da Platone nel Timeo, dialogo
della vecchiaia dedicato a tematiche cosmologiche. Si tratta dell’ultima grande fase di
sviluppo della psicologia e dell’antropologia platoniche. Ora, anima e corpo sono
entrambi opera di esseri divini, incaricati dal Demiurgo, artefice in prima persona del
435
Platone, Fedro, 246 a-b, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. II, cit.
141
cosmo e delle creature immortali, di fabbricare gli animali mortali. Gli dei immortali
imitarono il Demiurgo «ed avendo da lui ricevuto il principio immortale dell’anima,
vi tornirono intorno il corpo mortale, e nella sua totalità, a guisa di carro, lo dettero
all’anima: non solo, ma in esso fabbricarono un’altra specie di anima, l’anima
mortale, che in sé possiede tremende ed irresistibili passioni».437
Per evitare che l’anima mortale potesse contaminare più del dovuto quella immortale,
gli artefici del genere umano separarono le due, ponendole in due parti distinte del
corpo. Nella testa posero il principio immortale «e costruirono come un’istmo, o
limite, fra la testa ed il petto, ponendovi in mezzo il collo, sì che l’una fosse separata
dall’altra. E fu nel petto, ed in quello che vien detto torace, che annodarono la specie
mortale dell’anima. E poiché di quest’anima una parte era per natura migliore,
peggiore l’altra, in due sezioni divisero la cavità del torace […] ed a mo’ di chiusura vi
posero in mezzo il diaframma. La parte dell’anima, che partecipa del coraggio e
dell’impetuosità e che è desiderosa di vittoria, la collocarono più vicino alla testa, fra
il diaframma ed il collo, sì che potesse sottomettersi alla ragione».438
Rispetto agli altri dialoghi in cui viene posto il problema della natura umana, il Timeo
attribuisce a ciascuna delle tre parti dell’anima una sede corporea ben precisa,
essendo il corpo considerato, in questo caso, come il veicolo dell’anima. Ma
soprattutto, in questo dialogo, Platone riconosce come immortale soltanto un aspetto
dell’anima umana, quello razionale. Il conflitto tra le parti dell’anima è ormai
attenuato; si raccomanda, infatti, di esercitare e nutrire tutti e tre gli aspetti che la
compongono, anche se, naturalmente, la parte razionale detiene un primato.
L’essenziale è mantenere la giusta proporzione:
«Bisogna dunque stare attenti che i movimenti di tutti e tre siano proporzionati gli
uni agli altri. E di quell’aspetto dell’anima umana che è in noi il più importante,
dobbiamo ritenere che a ciascuno il Dio l’abbia donato come un genio tutelare, esso
che, noi diciamo, abita nella sommità del nostro corpo, e che da terra ci solleva, nella
sua affinità col cielo: noi siamo piante celesti e non terrene».439
La netta contrapposizione tra anima e corpo istituita nel Fedone si smorza
progressivamente nelle fasi più mature del pensiero di Platone. L’impostazione
436
Ibid., 246 c.
437
Platone, Timeo, 69 c-d.
438
Ibid., 69 e – 70 a.
439
Ibid., 90 a.
142
dualistica, tuttavia, rimane e si traduce in una cesura tra la sfera della razionalità e
quella dell’irrazionalità. La natura della prima è celeste e immortale, quella della
seconda terrena e mortale. L’uomo è ancora essenzialmente la sua anima e l’anima è
essenzialmente razionalità.
La tripartizione dell’anima operata dalla filosofia platonica, che rappresenta uno
stadio più complesso della concezione dell’uomo fondata sul binomio anima-corpo,
costituirebbe, secondo un celebre egittologo, il retaggio di tre nozioni antropologiche
ricorrenti nella letteratura sapienziale egiziana. E’ la tesi sostenuta da François
Daumas, per il quale «non sembra, in ogni caso, troppo ardito concludere che Platone
ha conosciuto questa psicologia sapienziale e che questa si è imposta a lui. Perciò, l’ha
fondata dialetticamente e le ha dato una struttura logica nella Repubblica».440
Lo studioso osserva che negli insegnamenti sapienziali egiziani che ci sono pervenuti
vengono menzionate raramente le diverse componenti dell’individualità umana. In
essi non si trova, inoltre, nessuna affermazione esplicita di una «tripartizione
dell’anima»; ricorrono, tuttavia, tre termini designanti altrettanti elementi della
costellazione Uomo, sui quali abbiamo già avuto occasione di soffermarci. Si tratta
dei tre vocaboli ib, haty e shet (Xt). Daumas circoscrive la sfera semantica di queste
parole sulla base dell’utilizzo che ne viene fatto in tre testi sapienziali:
l’Insegnamento di Ptahhotep (V dinastia), l’Insegnamento di Ani (XVIII dinastia) e
l’Insegnamento di Amenemope (epoca Ramesside).441 Il termine shet, che
propriamente significa «ventre», assumerebbe in questi testi due ulteriori significati:
quello di «interiorità» e quello di «desiderio», «brama». Ciò induce lo studioso a
tradurre shet, in alcuni passi (soprattutto dell’Insegnamento di Amenemope), con
«anima passionale». La gamma di significati connessi al termine ib risulta, invece,
meno estesa e più chiara: esso designa nello stesso tempo la sede dell’intelligenza e
della memoria, l’organo cardiaco e l’intelligenza stessa o la ragione. Haty, infine,
appare, in certi casi, come sinonimo di ib, nel senso di «intelligenza», ma indica
anche il cuore come sede dei sentimenti. Nell’Insegnamento di Amenemope, in
particolare, «molto spesso il termine HAty può rendersi con volontà, intesa nel senso
di desiderio retto, cuore dotato di passione nobile».442
440
F. Daumas, L’origine égyptienne de la tripartition de l’âme chez Platon, in Mélanges Adolphe Gutbub,
Université de Montpellier, Montpellier 1984, p. 50.
441
Cfr. ibid., pp. 46 sgg.
442
Ibid., p. 49.
143
I significati di questi tre vocaboli che interessano maggiormente a Daumas sono
quelli che emergono dall’Insegnamento di Amenemope, «poiché Platone ha visitato
l’Egitto intorno agli anni 395-392 e questo insegnamento, che dovette leggere ancora
Pacomio, nel IV secolo della nostra era, doveva essere molto diffuso al tempo della
XXIX dinastia».443
La conclusione è, dunque, la seguente: «Senza dubbio queste parole erano attinte al
vocabolario più corrente della lingua egiziana, ma i Saggi, dall’origine, avevano
tentato di impiegarli con delle sfumature molto più precise e tecniche che, alla fine
del Nuovo Regno, equivalevano alla facoltà intellettuale e razionale per ib, all’ardore
che dà una motivazione viva, come quella dell’uomo che va in collera, ma per una
giusta causa, ed è il senso di HAty. Quanto al vocabolo Xt, esso ha senz’altro un senso di
interiorità attinto al vocabolario corrente, ma evolve nettamente verso un senso
peggiorativo e designa l’ambito della passione irrazionale, in grado di falsare il
giudizio dell’uomo e di trascinarlo nella via dell’errore. Se volessimo renderlo con un
termine filosofico, impiegheremmo il termine concupiscibile».444
In sintesi, la corrispondenza tra concetti platonici e nozioni antropologiche egiziane,
proposta da Daumas, può essere così schematizzata:
Elementi dell’individualità egiziani
Parti dell’anima platonica
corrispondenti
ib (jb)
logistikovvn
haty (HAty)
qumoeidev~
shet (Xt)
epiqumhtikovn
Sulla base delle fonti storiche di cui disponiamo, è quantomeno plausibile pensare, a
nostro avviso, che Platone sia venuto a contatto con alcuni aspetti della cultura
egiziana e che, in qualche modo, possa esserne rimasto influenzato. La tripartizione
platonica dell’anima non manifesta, tuttavia, che delle sfumature delle tre nozioni
antropologiche egiziane, la cui sfera semantica è, in realtà, più ampia e si declina in
funzione del contesto specifico. Nei testi sapienziali l’accento è posto soprattutto sugli
aspetti etici dell’agire umano; i concetti antropologici utilizzati si rivestono, di
conseguenza, di un significato etico. Ecco che lo scriba parla, allora, di facoltà
443
Ibid.
144
intellettiva in grado di discernere la giusta condotta da tenere nelle varie situazioni;
parla di ardore e di passioni da tenere sotto controllo.
Nella letteratura religiosa e liturgica, che costituisce la fonte principale
dell’antropologia egiziana, non vengono istituite, in realtà, delle differenze di valore
tra le varie componenti dell’individualità umana. L’individuo è la risultante
dell’interazione di tutti gli elementi della costellazione in cui si articola; tra questi,
che godono, per di più, di una certa autonomia, anche il corpo, come vedremo meglio
in seguito, svolge un ruolo essenziale. Nel pensiero di Platone, invece, l’elemento
razionale, l’unico ad essere essenziale e ad avere autonomia, potrebbe, in linea di
massima, fare a meno di tutto il resto.
Con la filosofia aristotelica la nozione di yuchv assume un significato completamente
diverso rispetto a quello che le era stato attribuito da Platone e dai filosofi precedenti.
Per Aristotele, infatti, l’anima non è un composto di elementi (fuoco, aria, acqua,
terra), né un demone o un ente autonomo; essa non è, inoltre, un aspetto della natura
umana e non si identifica neanche con l’uomo nella sua interezza. Per arrivare a una
definizione di «anima», lo Stagirita riprende i tre significati della sostanza formulati
nella Metafisica: la materia, la forma e il composto delle due (to; ejk touvtwn). La
materia e la forma vengono poi ricondotte a due dei significati principali di «essere»:
la potenza e l’atto.445 Successivamente, Aristotele osserva che le sostanze sono
soprattutto i corpi e specialmente quelli naturali. Tra questi ultimi alcuni sono dotati
di vita e altri no. A partire da queste considerazioni, viene formulata una prima
definizione di anima:
«Di conseguenza ogni corpo naturale dotato di vita sarà sostanza, e lo sarà
precisamente nel senso di sostanza composta. Ma poiché si tratta proprio di un corpo
di una determinata specie, e cioè che ha la vita, l’anima non è il corpo, giacché il
corpo non è una delle determinazioni di un soggetto, ma piuttosto è esso stesso
soggetto e materia. Necessariamente dunque l’anima è sostanza, nel senso che è
forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. Ora tale sostanza è atto, e
pertanto l’anima è atto del corpo che s’è detto».446
444
Ibid., p. 50.
445
Cfr. Aristotele, L’anima, II, 1, 412 a, 1-14.
446
Ibid., II, 1, 412 a, 15-22.
145
Poco oltre, Aristotele aggiunge che «l’anima è l’atto primo di un corpo naturale che
ha la vita in potenza».447
L’atto primo è una determinazione primaria di un ente; è il possesso della capacità di
fare qualcosa. Ciò che, invece, sarà chiamato dagli Scolastici «atto secondo»
costituisce una determinazione derivata; si tratta cioè dell’esercizio effettivo della
capacità in questione. Se consideriamo, per esempio, la vista come «forma»
dell’occhio, il suo possesso da parte dell’occhio è l’atto primo, presente anche quando
la funzione visiva non è operante, come durante il sonno. L’atto secondo è, invece,
l’utilizzo hic et nunc della vista.
L’anima è, dunque, il principio di vita che possiedono le piante, gli animali e gli
uomini. In questa prospettiva, un essere vivente non è formato da anima e corpo,
intesi come due elementi distinti della sua natura, ma è un corpo che ha in atto la
capacità di vivere. L’anima esiste in funzione del corpo, è qualcosa, cioè, che
appartiene alla sfera corporea (sw`mato~ tiv). Ne consegue che un corpo morto non è
più un corpo e ciò vale naturalmente anche per i singoli organi:
«Anche il cadavere, però, ha lo stesso aspetto esteriore, e tuttavia non è un uomo.
Ancora, è impossibile che sia veramente una mano quella fatta di un qualsiasi
materiale, ad esempio bronzo o legno, se non per omonimia, come il medico dipinto.
Essa non potrà infatti adempiere la propria funzione […] Similmente, nessuna delle
parti di un cadavere – dico ad esempio l’occhio, la mano – è più veramente tale».448
E’ interessante osservare che, in virtù di questa concezione, le pratiche anatomiche,
per Aristotele, hanno senso solo se finalizzate a tracciare una morfologia del corpo,
relativa alla struttura degli organi e non alle funzioni, che attengono al corpo
vivente.449
Lo Stagirita distingue una serie di facoltà dell’anima, specificando che «ad alcuni
viventi […] appartengono tutte, ad altri alcune, ad altri una sola».450 Le piante
possiedono solo la facoltà nutritiva; oltre a questa, gli animali hanno la facoltà
447
Ibid., II, 1, 412 a 29-30.
448
Aristotele, Parti degli animali, I, 640 b, 34-40, trad. it di M. Vegetti, in Id., Opere, vol. V, Laterza, Roma-Bari
1990.
449
Relativamente alla posizione aristotelica sull’anatomia umana, cfr. Storia degli animali, I 16. In questo passo
lo Stagirita sostiene che le parti interne dell’uomo non sono note, «sicché occorre condurre l’indagine riferendosi
alle parti degli altri animali che presentino natura simile a quelle umane» (trad. it. di M. Vegetti). Secondo G. E. R.
Lloyd, queste affermazioni sono un chiaro indizio del fatto che Aristotele non riconosce la possibilità di
un’anatomia umana, anche se non esclude quella animale (cfr. G. E. R. Lloyd, Methods and problems in Greek
science, Cambridge University Press, Cambridge 1991, p. 170).
450
Aristotele, L’anima, II, 3, 414 a, 29-30.
146
sensitiva e quella appetitiva. Ad alcuni animali appartiene anche la facoltà
locomotoria. Ciò che caratterizza l’anima umana è, invece, la capacità di pensare e di
parlare. Essa comprende, tuttavia, anche le funzioni che sono proprie dell’anima delle
piante e di quella degli animali. Ogni essere vivente possiede, infatti, un’unica anima.
Il rapporto tra i tipi di anima è spiegato da Aristotele mediante una similitudine
geometrica:
«Il caso delle figure è simile a quello dell’anima, giacché sempre nel termine
successivo è contenuto in potenza il termine antecedente, e ciò vale sia per le figure
come per gli esseri animati. Ad esempio nel quadrilatero è contenuto il triangolo, e
nella facoltà sensitiva quella nutritiva. Di conseguenza bisogna cercare caso per caso
qual è l’anima di ciascuna specie e cioè della pianta, dell’uomo e del bruto».451
In quanto animale dotato di lovgo~, l’uomo è il più nobile degli animali che popolano
la terra. Egli è, inoltre, l’unico tra i viventi ad essere in grado di distinguere il bene dal
male e in generale ad avere dei valori, come leggiamo in un passo della Politica:
«Il lovgo~ è fatto per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di
conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli
altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e
lo stato».452
La concezione aristotelica dell’uomo, se da un lato si fonda anch’essa sul binomio
anima-corpo, dall’altro rappresenta un superamento del dualismo caratteristico della
riflessione antropologica precedente. Yuchv e sw`ma non sono, infatti, sostanze diverse,
ma costituiscono i due aspetti inscindibili di quell’unica sostanza che è l’essere
vivente. Nella prospettiva aristotelica, la funzione intellettiva e conoscitiva conserva
ancora un primato. Significativo, in proposito, è l’esordio della Metafisica: «Tutti gli
uomini aspirano per natura alla conoscenza».453 In questo caso, però, l’aspetto
razionale non è più dotato di quell’autonomia che gli conferiva la filosofia platonica.
L’uomo non può, cioè, esercitare la propria intelligenza prescindendo dalle altre
funzioni dell’anima e dal corpo.
Rimane una vexata quaestio la posizione di Aristotele riguardo alle sorti dell’anima
umana dopo la morte. Nel trattato Sull’anima lo Stagirita postula l’esistenza di due
451
Ibid., II, 3, 414 b 28-35.
452
Aristotele, Politica, I, 2, 1253 a, 15-18, in Id., Opere, vol. XI, Laterza, Roma-Bari 1984. Abbiamo modificato
leggermente la trad. di R. Laurenti sostituendo «parola» con il termine originale lovgo~.
147
intelletti: uno «passivo» (nou`~ paqhtikov~), che apprende le forme intelligibili
contenute potenzialmente nelle percezioni sensibili, e uno «attivo» o «produttivo»
(nou`~ poihtikov~), che fa passare all’atto sia l’intelletto passivo che le forme
intelligibili in esso contenute. La funzione di questo secondo intelletto è paragonata a
quella della luce, che «rende i colori che sono in potenza colori in atto».454 In un
passo dell’opera, Aristotele afferma che l’intelletto attivo è separabile dal corpo e,
quindi, è immortale, mentre quello passivo non è separabile ed è, pertanto,
corruttibile:
«E questo intelletto (attivo) è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto
per essenza, poiché sempre ciò che fa è superiore a ciò che subisce, ed il principio è
superiore alla materia. […] e non è che questo intelletto talora pensi e talora non
pensi. Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è
immortale ed eterno (ma non ricordiamo, perché questo intelletto è impassibile,
mentre l’intelletto passivo è corruttibile), e senza questo non c’è nulla che pensi».455
Non è chiaro, tuttavia, se l’intelletto attivo faccia parte dell’anima intellettiva umana e
la renda, di conseguenza, immortale. Su questo punto i commentatori di Aristotele
hanno espresso opinioni divergenti. Secondo Enrico Berti, l’anima intellettiva,
contenendo potenzialmente anche la funzione sensitiva e quella nutritiva, non può
sussistere senza il corpo. «Resta l’intelletto attivo, che per Aristotele è sicuramente
immortale, ma che non fa parte dell’anima umana e dunque è un principio
sussistente di per sé, universale ed eterno. Qualche interprete lo identifica con
l’intelletto divino, cioè col primo motore immobile».456
Tra gli elementi dell’antropologia aristotelica che abbiamo richiamato, quello che ci
sembra maggiormente distintivo rispetto alle filosofie precedenti è la rivalutazione
della sfera corporea. L’essere umano è concepito essenzialmente come un corpo
vivente o «animato». Sotto questo aspetto, il modello di Aristotele è, a nostro avviso,
meno distante di quello platonico dalla visione egiziana dell’uomo. L’anima, intesa
come principio della vita e del movimento, svolge una funzione per certi versi simile a
quella che la fisiologia egiziana attribuisce alle correnti dinamiche di origine divina
che scorrono nella rete dei condotti-met. Anche nell’uomo aristotelico, inoltre,
453
Aristotele, Metafisica, I, 1, 980 a, 21.
454
Aristotele, L’anima, III, 5, 430 a, 17-18.
455
Ibid., III, 5, 430 a, 18-25.
456
E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2008,
p. 157.
148
l’organo direttivo è il cuore, come evidenzieremo meglio nel paragrafo seguente. Non
mancano, tuttavia, gli elementi di cesura con la tradizione egiziana. Per Aristotele,
infatti, l’individuo non è una costellazione di tanti componenti relativamente
autonomi in relazione tra loro, bensì un «sinolo», composto da un corpo e da
un’anima, in grado di svolgere più funzioni, che lo rende vivo. All’essere umano
sembra, inoltre, essere preclusa la possibilità di una vita post mortem.
Nell’Etica nicomachea, Aristotele definisce il bene dell’uomo «un’attività dell’anima
secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più
perfetta».457 Le virtù considerate più alte sono quelle «dianoetiche», la saggezza
(frovnhsi~) e la sapienza (sofiva); la seconda è superiore alla prima e rapprenta il vero
fine dell’uomo, ciò che lo rende sommamente felice. Relativamente alla concezione
aristotelica della felicità, tuttavia, c’è un dibattito tra gli studiosi. Le due principali
esegesi sono incompatibili tra loro. Una, più intellettualistica, sostiene che, per
Aristotele, l’uomo si realizza pienamente soltanto nell’utilizzo della facoltà razionale.
Secondo l’altra, invece, più inclusiva, la felicità consiste nell’esercizio di tutte le
facoltà caratteristiche dell’uomo. Se l’interpretazione intellettualistica è corretta, c’è
un ulteriore elemento di cesura tra l’antropologia aristotelica e quella egiziana. Per
l’Egiziano, infatti, la massima felicità non consiste in una vita contemplativa,
teoretica, bensì nel vivere secondo la legge cosmica, Maat, e nel realizzarla sulla terra.
E l’approccio a questa legge è in primo luogo «pratico», non intellettivo.
3. La fisiologia del sw`ma
Sul versante del sw`ma, intorno al V secolo a. C., la riflessione antropologica greca non
è meno accesa e ricca di elaborazioni teoriche. Differenti concezioni anatomiche e
fisiologiche si contendono il primato: da una parte l’encefalocentrismo e dall’altra
l’emocentrismo e il cardiocentrismo.458 Secondo l’impostazione encefalocentrica, il
cervello (ejgkevfalo~) è il centro della vita percettiva e intellettuale dell’uomo.
All’origine di questa tesi ci sono le indagini di Alcmeone di Crotone che, secondo la
testimonianza di Calcidio, per primo avrebbe praticato la dissezione, facendo
importanti scoperte sulla struttura anatomica dell’occhio:
457
Aristotele, Etica nicomachea, I, 7, 1098 a, 16-18, trad. it. di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993.
458
In proposito, cfr. P. Manuli, M. Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico,
Episteme Editrice, Milano 1977.
149
«Hanno scoperto [Alcmeone e altri] che ci sono due stretti condotti, che dalla sede
del cervello, in cui è situato il supremo potere direttivo dell’anima, trapassano fino
alla cavità degli occhi, in quanto contengono spirito naturale. Queste due vie, che
partono da un unico principio e da una medesima radice, dopo essere rimaste
congiunte per un certo tratto nella parte più interna della fronte, si separano, in
forma di bivio, e giungono alle sedi concave degli occhi, lungo le quali sporgono i
tracciati delle sopracciglia; […] Certo, che i condotti visivi partano da un’unica sede, è
dimostrato principalmente dal sezionamento».459
Tutti gli organi di senso per Alcmeone fanno capo al cervello e il rapporto dell’uomo
con l’ambiente esterno avviene in modo mediato, attraverso dei pori (povroi) che
fanno passare le sensazioni. Un danno al cervello comporta, quindi, un deficit
nell’attività sensoriale.460 L’essere umano si distingue dagli altri viventi per il fatto
che, oltre ad avere sensazioni, è in grado di comprendere (xunievnai).461 Non rientra,
tuttavia, nelle possibilità umane il possesso di un sapere immediato e completo, che
risulta essere, invece, appannaggio degli dei:
«delle cose invisibili, delle mortali, gli dei hanno visione immediata; a noi uomini
spetta il congetturare [tekmaivresqai]».462
Per i sostenitori dell’encefalocentrismo, quindi, il sapere umano si forma e si
perfeziona progressivamente, attraverso la raccolta di prove e indizi e la conseguente
formulazione di «congetture». Impostando in questo modo il problema gnoseologico,
la corrente encefalocentrica si contrappone alla visione propria della tradizione
aristocratico-sacerdotale, secondo la quale il sapere si configura come una sorta di
rivelazione, privilegio di un ristretto numero di persone.
Secondo le testimonianze che ci sono pervenute, Alcmeone si limita ad affermare la
connessione cervello-sensazione, senza indicare il modo in cui avviene il passaggio
dalla sensazione alla conoscenza. Troviamo, invece, traccia di una dottrina
gnoseologica più sviluppata e dell’istituzione di un nesso tra il cervello e la
conoscenza tra le fila della scuola di Anassagora e nei medici ippocratici. Della
459
Alcmeone, A 10, trad. it. di M. Timpanaro Cardini, in I Presocratici, cit. La scoperta anatomica esposta nel
passo citato è quella del nervo ottico. In proposito, cfr. M. Timpanaro Cardini, Originalità di Alcmeone, in Atene e
Roma (1938), pp. 233 sgg. Relativamente ad Alcmeone e ai primordi della pratica della dissezione, cfr. anche il
più recente G. E. R. Lloyd, Methods and problems in Greek science, cit., pp. 164 sgg.
460
Cfr. Alcmeone, A 5.
461
Cfr. Alcmeone, B 1 a.
462
Alcmeone, B 1, in I Presocratici, cit.
150
rilevanza che questa teoria aveva assunto nell’Atene del V secolo a. C. ne dà
testimonianza un passo del Fedone in cui Socrate domanda:
«E’ il sangue ciò con cui pensiamo o l’aria o il fuoco? O non è nessuno di questi, ma è
il cervello che procura le sensazioni [aijsqhvsei~] dell’udito, della vista e dell’odorato,
dalle quali nascerebbero la memoria [mnhvmh] e l’opinione [dovxa]; e dalla memoria e
dall’opinone, divenuta stabile, nascerebbe la scienza [ejpisthvmh]?».463
In questo contesto, la scienza viene presentata come il risultato di un processo
conoscitivo che ha come punto di partenza la sensazione che si produce nel cervello.
La sensazione viene successivamente trasformata in ricordo, il quale una volta
elaborato e stabilizzato dà origine alla scienza. Un passo di Plutarco che chiama in
causa Anassagora sembra fare riferimento a questo modello gnoseologico:464
«Ma in tutte queste cose siamo da meno degli animali, siamo capaci, però, “di
esperienza [ejmpeiriva], di memoria [mnhvmh], di sapere [sofiva] e di arte [tevcnh]”,
secondo Anassagora».465
Dalla testimonianza di Plutarco emerge anche l’importanza della tevcnh nel processo
di formazione della conoscenza. Abbiamo visto, infatti, che per Anassagora il sapere
umano è strettamente legato all’uso delle mani e, dunque, alla possibilità di utilizzare
gli strumenti della tevcnh ed esercitare un’attività «demiurgica».
Anche nell’ambito della tevcnh medica viene promossa l’immagine di un uomo
encefalocentrico. A questo riguardo, tra le opere della scuola di Kos, Male sacro può
essere considerato lo scritto maggiormente eloquente. L’argomento trattato da questo
testo è l’epilessia, considerata tradizionalmente come una malattia di origine divina,
non inquadrabile in schemi razionali, la cui terapia richiedeva, pertanto, un contesto
di carattere magico-religioso. L’autore di Male sacro, contrapponendosi alla
concezione tradizionale, sostiene che questa patologia ha un’origine naturale,
riconducibile, come accade per la maggior parte delle malattie, al cervello. L’impianto
463
Platone, Fedone, 96 b.
464
In proposito, cfr. D. Lanza, L’EGKEFALOS e la dottrina anassagorea della conoscenza, in Maia (1964), pp.
71 sgg. In particolare, a p. 76 lo studioso scrive: «Anassagora non dovette elencare soltanto alcune qualità proprie
dell’uomo e non degli animali, ma formulò probabilmente, sul fondamento di accertamenti scientifici, l’ipotesi
dell’articolarsi del processo conoscitivo».
465
Anassagora, B 21 b, trad. it. di S. Obinu, in I Presocratici, cit. Lo stesso Anassagora non considera, tuttavia,
pienamente affidabili le sensazioni che costituiscono la nostra esperienza: «per la debolezza delle sensazioni non
siamo in grado di distinguere il vero» (B 21). Lanza, come diversi altri studiosi, non mette in dubbio l’autenticità
dei quattro termini utilizzati nel frammento B 21 b: «Dal passo si ricava che le quattro facoltà dell’intelligenza,
connesse biologicamente al cervello, centro anche secondo Anassagora della vita sensibile (cfr. A 108), sono unite
secondo una precisa concatenazione dinamica. Il passaggio dalla mnhvmh e dall’ejmpeiriva (= dovxa) (a loro volta
fondate sulla percezione sensibile) all’ejpisthvmh (= sofiva, tevcnh) avviene per un confermarsi nel tempo»
(Anassagora, Testimonianze e frammenti, cit., p. 250).
151
fisiologico dell’essere umano è, infatti, centrato su quest’organo. Da esso dipendono
da un lato la vita psichica e intellettuale dell’individuo, dall’altro i fenomeni fisici e il
movimento:
«Bisogna che gli uomini sappiano che da null’altro si formano i piaceri e la serenità e
il riso e lo scherzo, se non dal cervello, e così i dolori, le pene, la tristezza e il pianto. E
soprattutto grazie ad esso pensiamo e ragioniamo e vediamo ed udiamo».466
«Per queste vie [le vene] ritengo che il cervello svolga l’azione più importante
nell’uomo: esso infatti è per noi l’intreprete degli stimoli che provengono dall’aria,
quando sia sano: l’attività mentale a sua volta è resa possibile dall’aria. Gli occhi dal
canto loro e gli orecchi e la lingua e le mani e i piedi, quanto il cervello ha compreso,
questo eseguono […] Il cervello è invero il veicolo alla coscienza; giacché quando
l’uomo aspira il respiro, questo dapprima giunge al cervello, e così l’aria è diffusa nel
resto del corpo, avendo però lasciato nel cervello la parte più attiva».467
Le vene (flevbe~) che «si dirigono al cervello da ogni parte del corpo»468 sono i canali
che permettono la distribuzione dell’aria in tutto l’organismo. Attraverso di esse il
cervello può esercitare sul corpo la sua azione direttiva. Male sacro accenna anche a
un legame anatomico tra il cuore e il sistema vascolare.469 Nel sistema fisiologico,
tuttavia, il cuore svolge un ruolo del tutto passivo; allo stesso modo il diaframma.
L’unica reazione che questi due organi sono in grado di opporre agli stimoli esterni è
quella di contrarsi:
«Alcuni d’altro canto asseriscono anche che pensiamo col cuore, ed è esso a provare
dolori e cure; ma non è così, bensì esso ha solo contrazioni come il diaframma».470
Abbiamo visto l’importanza che rivestono nella fisiologia egiziana le correnti vitali o
soffi animatori, veicolati dai condotti-met. Con la teoria encefalocentrica ritroviamo
un concetto per certi versi analogo a quello egiziano, ma inserito in uno schema
fisiologico alquanto diverso. L’aria di cui parla il medico ippocratico autore di Male
sacro giunge in primo luogo al cervello, generando l’attività intellettuale, «poi la
466
Male sacro, 17, trad. it. di M. Vegetti, in Opere di Ippocrate, Utet, Torino 1965.
467
Ibid., 19. In proposito scrive Vegetti: «Il cervello assume qui la funzione di cerniera tra “esterno” e “interno”,
di saldatura psicofisica tra oggettivo e soggettivo: esso interpreta, cioè organizza e rende significativi i dati
dell’esperienza oggettiva, e su questa base orienta la risposta del comportamento, l’intera funzionalità corporea.
Attraverso tale veduta, l’idea di un “sistema nervoso centrale” viene assicurata alla storia della medicina. (ibid.,
pp. 288 sg, nota 26).
468
Ibid., 6. Con il termine flevbe~ sono designate sia le vene che le arterie.
469
Cfr. ibid., 6; 20.
470
Ibid., 20.
152
maggior parte va all’intestino, e il resto si divide fra i polmoni e le vene».471
Attraverso le vene, l’aria si distribuisce nel resto del corpo, assicurando ad esso il
«ricambio respiratorio» (au|tai ga;r hJmi`n eijsin ajnapnoai; tou` swvmato~) e, quindi, il
movimento.472 Al sangue non è riconosciuto nessun ruolo fondamentale.
Diversamente dallo pneu`ma della scuola ippocratica, il soffio (TAw) di cui parlano i testi
medici egiziani è un principio di origine divina che, quando entra nell’organismo
umano, viene convogliato in primo luogo al cuore, centro propulsore che lo invia a
tutte le parti del corpo attraverso la rete dei condotti-met.473 Le correnti dinamiche
alimentano, quindi, anzitutto il cuore-ib, sede del pensiero, della memoria e più in
generale della coscienza; esso, servendosi poi del suo luogo anatomico privilegiato, il
cuore-haty, fa in modo che tutto il corpo sia costantemente animato e vitalizzato
dall’«aria». Oltre ai soffi vitali, fanno parte degli elementi essenziali alla vita che
transitano nei canali corporei anche i differenti liquidi fisiologici, tra cui il sangue,
che ha la facoltà di legare le sostanze provenienti dall’alimentazione, permettendo,
così, la rigenerazione del corpo.
Nonostante la centralità dell’organo cardiaco e del sangue, anche il cervello, tuttavia,
non viene completamente ignorato dal pensiero fisiologico egiziano. La fonte
maggiormente eloquente in proposito è la prima sezione del papiro di Smith,
costituita da quarantotto osservazioni cliniche relative alla chirurgia delle ossa e a
quella generale.474 La serie di osservazioni inizia prendendo in considerazione il
cranio, il naso e la mascella. L’aspetto interessante consiste nel fatto che il testo non
si limita a una semplice descrizione delle fratture e delle ferite che riguardano le parti
anatomiche prese in esame, ma mette in evidenza i rapporti tra una lesione e i
sintomi che l’accompagnano. Trattando delle fratture dell’osso temporale, per
esempio, l’autore rileva che esse provocano mutismo, sordità o iperacusia.475 Egli si
471
Ibid., 10.
472
Cfr. ibid., 7; 10. Leggiamo al paragrafo 7: «Non può infatti il respiro ristagnare, ma si muove in su e in giù:
perché se ristesse in qualche luogo e vi fosse immobilizzato, quella stessa parte del corpo ne sarebbe paralizzata; e
ve n’è una prova: quando un uomo stando sdraiato o seduto, comprime i piccoli vasi al punto che il respiro non
può attraversare la vena, subito lo prende il torpore».
473
Lo pneu`ma di cui si parla in Male Sacro è una nozione che rivela una certa ambiguità. Da un lato, infatti,
questo concetto richiama la dottrina di Diogene di Apollonia, secondo il quale l’aria è l’arch del cosmo, matrice,
quindi, anche del pensiero e dell’attività intellettuale dell’uomo, dall’altro esso è inserito in un contesto che vede
nel cervello l’organo in cui hanno luogo i processi fisiologici che stanno alla base dell’attività razionale. Di natura
completamente differente, cioè prive di qualsiasi connotazione cosmologica, sono, invece, le «arie» di cui si parla
in Arie, Acque e Luoghi.
474
Il papiro di Smith è datato intorno al 1550 a. C., come quello di Ebers insieme al quale è stato rinvenuto. Il
testo fu pubblicato, con la traduzione, da J. H. Breasted nel 1930.
475
Cfr. Smith, Osservazioni n° 20; 21; 22.
153
accorge che le fratture del cranio hanno un esito fatale quando il malato è incosciente
e presenta sintomi quali rigidità del collo, sangue negli occhi e perdita di sangue dalle
narici o dalle orecchie. L’osservazione n° 6 del papiro di Smith recita:
«Se tu procedi all’esame di un uomo che ha una ferita aperta alla testa, che giunge
fino all’osso, quando il cranio è rotto e il midollo del cranio è esposto, tu dovrai
esaminare la ferita e constatare che questa frattura che è nel cranio è simile alle
concrezioni che si producono nel metallo in fusione […] (E tu dovrai ancora
constatare) che egli perde sangue dalle due narici e che è colpito da rigidità alla nuca.
[…] Tu dirai a questo proposito: un male che non si può curare».
Relativamente a questo particolare approccio del medico egiziano, che, per certi versi,
anticipa di diversi secoli l’orientamento metodologico e la consapevolezza di cui
troviamo testimonianza in alcuni testi medici della scuola ippocratica o in altri di età
ellenistica, Paul Ghalioungui afferma: «E’ così che egli scopre che la lesione cerebrale
è la sola che conta nei traumi cranici e che mette in relazione le fratture craniche con
le complicanze neurologiche».476 Più in generale, l’autore del papiro di Smith
percepisce il legame tra il sistema nervoso e i movimenti volontari, prima di una sua
chiara formulazione in termini anatomici.477 Egli è consapevole, per esempio, che le
fratture della colonna vertebrale comportano sintomi quali la paralisi delle gambe e
l’incontinenza.478
Tornando alla fisiologia greca, la concezione emocentrica e quella cardiocentrica,
rispetto all’encefalocentrismo, si rivelano notevolmente più affini all’approccio
fisiologico egiziano. L’emocentrismo assume l’aspetto di un sistema all’inizio del V
secolo a. C., con Empedocle. Secondo questo filosofo, il corpo umano è costituito
dagli stessi quattro principi che sono alla base della struttura del cosmo e che
formano anche l’anima. Le leggi che governano la generazione, lo sviluppo e la
distruzione del corpo sono intrinseche alla natura dei quattro elementi e si
manifestano come forze di attrazione e repulsione. Secondo il prevalere delle une o
476
P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, Éditions Robert Laffont, Paris 1983, p. 56.
477
Una precisa formulazione dei rapporti anatomici tra il sistema nervoso centrale e i nervi periferici non
compare prima del IV secolo a. C.; essa è dovuta agli anatomisti Erasistrato ed Erofilo, attivi ad Alessandria
d’Egitto, ai quali è attribuito il merito di aver effettuato le prime autopsie.
478
Cfr. Smith, Osservazione n° 31. J. R. Harris e P. Ghalioungui pongono l’accento sul retaggio del papiro di
Smith nella medicina ippocratica. Nel trattato Sulle articolazioni, infatti, ritroviamo il metodo per ridurre le
lussazioni della mandibola e quello per trattare la frattura di una clavicola, descritti nel papiro di Smith
(Osservazioni 25; 35). Harris rileva, inoltre, che le lesioni alla testa menzionate dal papiro in questione sono di tre
tipi: schiacciamento (sd), spaccatura (pSn), penetrazione (thm); gli scritti ippocratici allo stesso modo indicano tre
generi di ferite che corrispondono alla classificazione egiziana: flavsi~, rJh`ma e eJvdra (cfr. P. Ghalioungui, La
154
delle altre, le membra corporee si aggregano o si separano. Le medesime leggi
agiscono su tutti i viventi:
«Questo è ben visibile nella massa delle membra mortali [brotevwn melevwn ojvgkon]:
ora per azione di Amore noi, in quanto membra [gui`a] che formano il corpo [sw`ma],
ci riuniamo tutte in uno, al culmine della vita fiorente; ora separate da maligni
Contrasti, vagano ognuna divisa dall’altra fino alla sponda estrema della vita. E così
per gli arbusti e i pesci che dimorano nelle acque e le fiere che fanno la tana nei
monti, gli uccelli alati».479
Il corpo dell’uomo, pensato come una sorta di ricettacolo di sangue, entra in relazione
con l’ambiente esterno attraverso dei canali (suvrigge~), che sfociano sulla superficie
della pelle. Questa rete di aperture è alla base sia del processo respiratorio sia della
formazione della conoscenza attraverso il fenomeno della sensazione. La respirazione
di cui parla Empedocle non chiama in causa soltanto le sue vie più evidenti, cioè
bocca e narici, ma coinvolge l’intero corpo. L’aria, infatti, viene incanalata da tutti i
pori presenti sulla superficie corporea, che costituiscono anche il veicolo delle
sensazioni:
«Così inspirano, tutti gli esseri animati, ed espirano; a tutti cannucce [suvrigge~] di
carne, povere di sangue, si estendono lungo la superficie del corpo, e al loro imbocco
fenditure fitte traforano da parte a parte l’estremità dell’epitelio e trattengono il
sangue in modo che venga aperta all’aria una via agevole attraverso i condotti. E non
appena il sangue tenero si ritrae, l’aria, gorgogliando, si riversa con onda impetuosa,
e quando il sangue guizza in alto, l’animale espira nuovamente».480
L’inspirazione e l’espirazione dell’aria sono legate, dunque, al movimento ciclico del
sangue che si ritrae e si espande. Questo processo permette a tutto l’organismo di
essere irrigato e refrigerato. I pori della pelle sono, però, anche all’origine della
conoscenza.
Secondo
l’impostazione
empedoclea,
conoscenza
e
sensazione
rappresentano sostanzialmente lo stesso fenomeno. A differenza di quanto sostenuto
dalla teoria encefalocentrica, infatti, in questo caso non c’è alcun passaggio da un
livello sensoriale a uno razionale; l’atto del conoscere avviene in modo immediato,
attraverso le sensazioni e riguarda l’intero organismo. Le «emanazioni» degli enti che
médecine des pharaons, cit., pp. 56 sg e J. R. Harris (a cura di), The legacy of Egypt, Clarendon Press, Oxford
1971, pp. 125 sgg).
479
Empedocle, B 20, trad. it. di I. Ramelli e A. Tonelli, in I Presocratici, cit.
480
Empedocle, B 100, in ibid. La teoria della respirazione empedoclea viene ripresa e ampliata da Platone nel
Timeo (78 a – 79 e).
155
circondano il soggetto percipiente entrano nei pori della pelle e generano la
sensazione. Quest’ultima è prodotta dall’incontro del simile che proviene dall’esterno
con il simile presente all’interno del corpo umano:481
«Con la terra vediamo la terra, e l’acqua con l’acqua, con l’etere l’etere divino, e con il
fuoco il fuoco distruttore, con l’amore l’amore, e contesa con la contesa funesta».482
In ogni organismo vivente i quattro elementi che lo costituiscono si trovano sempre
in uno stato di mescolanza. La mescolanza più perfetta è costituita dal sangue, che è
per eccellenza veicolo di vita e di conoscenza.483 Il sangue che circonda il cuore è
quello in cui il pensiero è maggiormente copioso:
«E in esso più che altrove c’è quello che dagli umani è detto pensiero [novhma]: sangue
che circonda il cuore, questo è per gli umani il pensiero».484
Il fenomeno della conoscenza non è, tuttavia, il privilegio di una singola parte o
mescolanza dell’organismo; esso è presente in tutte le cose, anche se in misura
differente.485 Il sangue è concepito da Empedocle principalmente come una fonte di
calore; esso rappresenta l’elemento unificatore del corpo, sul quale si fonda tutta la
fisiologia. L’emocentrismo postula, dunque, una corrispondenza tra sangue, calore e
vita e concepisce i rapporti tra l’uomo e gli enti del mondo all’interno di un sistema
governato da un principio analogico che, di volta in volta, individua l’omogeneità e la
somiglianza. Alcuni testi del Corpus Hippocraticum ricorrono a una spiegazione
emocentrica di determinate patologie, come il delirio e l’epilessia, che Male sacro,
attribuiva, invece, in modo netto al cervello. Secondo l’autore dell’opera sui Venti,
ogni alterazione delle facoltà intellettuali e l’epilessia stessa sono una conseguenza di
un mutamento subito dal sangue:
«Ritengo che in ogni individuo nessuno dei componenti del corpo che concorrono al
pensiero [frovnhsi~] sia più importante del sangue. Finché questo componente
rimane nel suo stato normale, anche il pensiero vi rimane. Ma quando il sangue
subisce delle modificazioni anche il pensiero cambia».486
481
Cfr. Empedocle, A 86.
482
Empedocle, B 109, in ibid.
483
In proposito afferma Teofrasto: «La conoscenza si realizza soprattutto grazie al sangue, dato che in esso si
mescolano in misura maggiore gli elementi delle parti» (Empedocle, A 86).
484
Empedocle, B 105, in ibid.
485
Cfr. Empedocle, B 107; B 110.
486
Venti, 14. La trad. segue quella francese di J. Jouanna, in Hippocrate, De vents. De l’art, Les Belles Lettres,
Paris 1988.
156
Anche in Regime è possibile rilevare un legame con Empedocle e l’emocentrismo, in
particolare dove l’autore affronta il tema dell’intelligenza e delle cause che possono
produrre dei mutamenti in essa, conducendo in certi casi anche alla follia.487
Antica medicina si fa, invece, portavoce di una posizione fortemente critica nei
confronti dell’impostazione filosofica empedoclea, considerata astratta e ipotetica e,
dunque, del tutto infeconda sotto l’aspetto scientifico.
Il primato dell’elemento vitale e del calore, considerati come due aspetti dello stesso
fenomeno, è un assunto che l’emocentrismo condivide con la concezione
cardiocentrica. Il caposaldo del cardiocentrismo è, infatti, la stretta correlazione di
cuore, calore e vita. Questo approccio fisiologico, a differenza di quello emocentrico,
riconosce all’organismo umano un centro direttivo che viene individuato nel cuore, e
ammette la validità del rapporto organo-funzione, considerato come un importante
criterio di indagine anche dai sostenitori dell’encefalocentrismo. Nella fisiologia
cardiocentrica, infatti, il processo di riscaldamento e refrigerazione vede protagonisti
due organi: il cuore e i polmoni. La funzione cardiaca trova il suo complemento in
quella polmonare; l’azione combinata di un organo «caldo» e di uno «freddo»
realizza quell’equilibrio termico all’interno del corpo che è condizione indispensabile
per il mantenimento della vita. Anche nella dottrina di Empedocle viene affermata
l’unità dell’organismo, ma a nessun organo o parte corporea è attribuito il ruolo di
centro del sistema; al rapporto organo-funzione, inoltre, viene sostituito quello tra
«elementi» e funzione. In questo contesto, l’alternanza tra la funzione calorica e
quella refrigerante è dovuta al duplice movimento del sangue.
Secondo la prospettiva cardiocentrica, il cuore oltre a essere la fonte della vita è anche
la sede dell’intelligenza.488 I fondamenti di questa concezione fisiologica, elaborati nel
corso del V e del IV secolo a. C., sono riscontrabili nell’opera del Corpus
Hippocraticum intitolata Sul cuore e nel Timeo di Platone.489 Promotrice di questa
impostazione è, inoltre, la filosofia aristotelica; le opere da cui emerge l’indirizzo
cardiocentrico di Aristotele sono in particolare La storia degli animali e Le parti
487
Cfr. Regime, I, 35.
488
In proposito affermano P. Manuli e M. Vegetti: «Individuando una sola radice della vita e del pensiero, il
cardiocentrismo manifesta un’esigenza monocentrica ben più forte rispetto all’analoga esigenza encefalocentrica:
la supremazia psichica del cervello tendeva infatti a non intaccare l’autonomia delle altre strutture anatomiche, e
dunque delle altre funzioni. Diversamente, il cardiocentrismo propende a darsi uno statuto fortemente
“monarchico” e non sembra accettare forme di delega» (Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel
pensiero antico, cit., p. 102).
489
P. Manuli e M. Vegetti rilevano che: «il contenuto cardiocentrico del Timeo sembra del tutto analogo a ciò che
l’autore del Peri Kardies mostra di sapere sul cuore, le sue funzioni e i suoi organi sussidiari» (ibid., p. 77).
157
degli animali. Il testo Sul cuore, la cui datazione oscilla tra l’inizio del IV secolo a. C.
e l’età ellenistica,490 sviluppa principalmente delle tematiche anatomiche, ma
contiene anche degli importanti riferimenti dottrinali relativi a una visione ben
precisa del sw`ma e di ciò che lo anima. Il cuore, a forma di piramide, è la fonte della
vita perché in esso dimora il «fuoco innato», un principio la cui natura non è
semplicemente fisiologica, organica, bensì cosmologica:
«Entrambi i ventricoli sono rugosi all’interno e come corrosi, ma più il sinistro del
destro: il fuoco innato [to; ejvmfuton pu`r] infatti non è nel ventricolo destro, sì che non
fa meraviglia che quello di sinistra sia reso più rugoso, dal momento che è pieno di
fuoco non temperato».491
Il ventricolo sinistro è, inoltre, la sede del pensiero e di ogni altra facoltà dell’anima:
«Infatti l’intelligenza [gnwvmh] dell’uomo e il principio di tutto il resto dell’anima
[ajrch; th`~ ajvllh~ yuch`~] hanno sede per natura nel ventricolo sinistro».492
Il cuore è anche l’origine del sistema venoso che, come una rete fluviale, veicola in
tutto l’organismo il calore vitale, necessario supporto di ogni processo fisiologico:
«Queste sono le fonti della natura umana e qui, su per il corpo, (hanno origine) i
fiumi che lo irrigano. Questi fiumi portano la vita all’uomo, e se si inaridiscono,
l’uomo muore».493
Nella biologia di Aristotele la centralità del cuore nell’economia dell’organismo si
radicalizza. In questo contesto, l’organo cardiaco assurge a monarca indiscusso del
corpo. La sua importanza e la sua nobiltà, nelle Parti degli animali, vengono
giustificate così:
«dev’esservi infatti un organo in cui, come in un focolare, risieda la vivificante
scintilla della natura, ed essa va ben protetta, quasi fosse l’acropoli del corpo».494
Il cuore possiede una propria autonomia, come una sorta di divinità all’interno
dell’organismo ed è la fonte dei movimenti corporei:
«Il cuore ha anche abbondanza di tendini, e ciò ben a ragione: da esso infatti hanno
origine i movimenti, questi si effettuano per contrazione e distensione, e il cuore ha
490
Cfr. il paragrafo IV della Notice di M.-P. Duminil che introduce il PERI KARDIES, in Hippocrate, Plaies,
Nature des os, cœur, anatomie, Les Belles Lettres, Paris 1998, pp. 175 sgg.
491
Sul cuore, 6, trad. it. di P. Manuli e M. Vegetti, in Id., Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel
pensiero antico, cit., p. 110.
492
Ibid., 10.
493
Ibid., 7.
494
Aristotele, Parti degli animali, III, 670 a, 24-26, in Id., Opere, vol. V, cit.
158
dunque bisogno di un tale strumento e di una tale forza. Come si è detto anche prima,
il cuore è come un essere vivente all’interno degli animali che lo possiedono».495
La posizione mediana del cuore e la sua struttura dotata di tre ventricoli sono
conformi all’ideale aristotelico della medietas. L’organo cardiaco concilia, infatti, le
due polarità opposte costituite dalle due parti simmetriche del corpo; il ventricolo
centrale concilia gli altri due, posti a destra e a sinistra.
Il sangue, prodotto dall’organo cardiaco per cozione degli alimenti ingeriti, fluisce
attraverso le vene in tutte le parti del corpo e genera le carni e i tessuti.496
Nel modello antropologico delineato da Platone nel Timeo, invece, oltre a un retaggio
emocardiocentrico di tradizione empedoclea, è presente anche una componente
encefalocentrica, di derivazione soprattutto alcmeonica, alla quale viene assegnato un
ruolo di primo piano. E’ il cervello, infatti, per Platone la vera «acropoli» del corpo, in
quanto esso è sede dell’anima razionale. Quest’organo non è più, tuttavia, la fonte di
quell’intelligenza tecnica considerata tanto importante da Anassagora e dai medici
ippocratici. Le attitudini tecnico-pratiche, infatti, sono collocate da Platone al livello
delle viscere. «Quanto al cuore, nodo delle vene e sorgente del sangue […] lo
collocarono nel posto di guardia, di modo che, se l’anima irascibile ribolle, avvertita
dalla ragione che qualcosa di ingiusto avviene nel corpo […] subito, attraverso tutti gli
stretti canali delle vene, tutte le parti sensibili del corpo, capaci di ricevere le
ammonizioni e le minacce della ragione, possano ascoltarla e seguirla: ed è così
possibile che la parte migliore abbia il comando su tutto».497
Con il cardiocentrismo e l’emocentrismo della tradizione greca, considerati nel loro
insieme, ritroviamo in primo piano quegli stessi elementi corporei che, secondo i testi
medici egiziani, risultano essere i principali agenti in tutti i processi fisiologici che
caratterizzano l’organismo umano: il cuore, i polmoni, il sangue e la rete di canali che
si irradia per tutto il corpo. Nel sistema fisiologico egiziano, alla respirazione, come
abbiamo già avuto modo di riscontrare, spetta un ruolo essenziale: quello di
apportare all’organismo la forza vitale, necessaria al suo sostentamento, che è
presente nell’aria. Una seconda funzione della respirazione è quella di refrigerare il
corpo. Il cuore-haty è il «motore» che invia alla rete dei condotti-met le correnti
dinamiche. Gli stessi condotti sono percorsi, tuttavia, dai liquidi fisiologici e in
495
Ibid., III, 666 b, 14-17.
496
Cfr. Aristotele, Riproduzione degli animali, II, 743 a, 1-20.
497
Platone, Timeo, 70 b-c.
159
particolare dal sangue, elemento vitale per eccellenza, carico del soffio animatore. Si
pone, allora, una domanda alla quale è difficile dare una risposta precisa: gli Egiziani
conoscevano la circolazione del sangue? La storia della medicina attribuisce la prima
descrizione accurata del sistema circolatorio al medico inglese William Harvey,
vissuto tra il XVI e il XVII secolo. C’è stato, nondimeno, anche chi ha cercato di
dimostrare che alcuni trattati del Corpus Hippocraticum, come La natura delle ossa
e Sul cuore, presuppongono da parte del loro autore la conoscenza della circolazione
sanguigna, suscitando numerose reazioni tra gli ellenisti e gli storici della
medicina.498
Per quanto riguarda l’Egitto antico, possiamo constatare che l’esame del polso da
parte del medico viene considerato come una pratica diagnostica di importanza
primaria dai papiri medici di Ebers, Berlino e Smith. Il medico che si accinge a curare
un paziente deve «fare un bilancio di cose (differenti) con la misura-oipe [jp xt m jpt].
L’atto di esaminare è come (quando) si fa il bilancio di qualcosa per mezzo della
misura-oipe o (come quando) si fa il bilancio di qualcosa con le dita […] Egli dice (= il
medico): relativamente alla sua ferita, “esaminare” sui (= ponendo le dita sui)
condotti-met della testa, su quelli della nuca, delle gambe […] Egli dice: “esaminarla”
allo scopo di conoscere ciò che accade in lui (l’uomo)».499
L’esame del polso fa parte dell’insieme delle operazioni diagnostiche necessarie per
avere un quadro completo della situazione del paziente. Secondo Breasted, il medico
che tastava il polso contava le pulsazioni del cuore.500 Bardinet non segue, invece,
questa ipotesi; pur ammettendo che l’esame del polso era praticato dai medici
egiziani, egli sostiene che si trattava di una valutazione anzitutto qualitativa che
rientrava in un esame più generale, finalizzato a chiarire la natura di un disturbo e a
individuare eventualmente degli agenti patogeni.501 Anche Ghalioungui si domanda
se gli Egiziani conoscessero la circolazione del sangue e in proposito afferma:
«Espressioni come “il cuore parla là dove si sente il polso” o “ci sono in lui (il cuore)
dei metu (vasi) che vanno in tutte le membra”, così come tutti i passaggi in cui si dice
498
In proposito, cfr. il paragrafo IV della Notice di M.-P. Duminil che introduce il PERI OSTEWN FUSIOS e il
paragrafo III della Notice della medesima autrice che introduce il PERI KARDIES, in Hippocrate, Plaies, Nature
des os, cœur, anatomie, cit., pp. 89 sgg e pp. 175 sgg.
499
Smith, Osservazione n° 1. Cfr. anche Eb. 854 a, già citato supra, p. 79. L’oipe (jpt) è una misura di capacità non
specifica, utilizzata per misurazioni di vario genere. Esso è un multiplo dell’heqat (HqAt, «staio»), unità di misura
del grano e di altri prodotti di consistenza analoga. Un oipe corrisponde a quattro heqat, equivalenti a 19,22 litri.
500
J. H. Breasted, The Edwin Smith Surgical Papyrus, cit., p. 106.
501
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 86 sg.
160
che i metu trasportano gli umori, l’aria, ecc., non possono più essere spiegati senza
ammettere una conoscenza almeno parziale dello scorrimento del sangue dal cuore
verso i vasi».502
Secondo il pensiero egiziano, in effetti, tutto ciò che non è in movimento e che
ristagna ha a che fare con la morte, non con la vita. Il corpo vivente è in primo luogo
un corpo articolare, caratterizzato, quindi, da motricità e connettività. Dai papiri
medici emerge chiaramente che una torsione o uno strozzamento dei condotti-met,
che impedisce il passaggio dei liquidi e dei soffi vitali, induce sempre uno stato
patologico.503 L’autore del papiro di Ebers in un passo si esprime in questi termini:
«Quanto al fatto che l’ib è privo di liquidi [wSr], ciò è dovuto al sangue che è legato
[dmA] nel cuore-haty».504
In questo contesto l’ib subisce un danno perché non è più alimentato dai fluidi e dal
sangue che rimane confinato nel cuore-haty. Bardinet fa notare che il verbo usher
[wSr], presente nel passo appena citato, è utilizzato in due occasioni nei testi del
tempio di Esna per parlare dell’uomo che è privo del suo sangue, a causa di un
rapporto non adeguato con la divinità:
«Temete Khnum, voi che desiderate vivere, poiché egli è l’ariete grande di potenza,
signore del soffio (vitale), alla mercé del quale sono la vita e la morte: chiunque è
privato di lui non ha più sangue nelle vene!».505
«Il sangue manca nel corpo [Haw] di colui che lo attacca».506
L’aspetto che ci sembra particolarmente interessante è lo stretto legame che viene
istituito tra il soffio vitale e il sangue, quasi si trattasse delle due espressioni di un
medesimo elemento. Avendo il soffio di origine divina una natura estremamente
dinamica, è difficile pensare al sangue che ne è carico e che contribuisce alla
generazione e al mantenimento dei tessuti come a un fluido completamete immobile.
Se da un lato, dunque, le fonti egiziane non ci permettono di affermare che gli
Egiziani avessero una conoscenza precisa del sistema circolatorio, dall’altro, a nostro
avviso, è sensato ritenere che la fisiologia egiziana si figurasse almeno un certo
movimento del sangue e degli altri liquidi corporei.
502
P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 66.
503
Cfr., per es., Eb. 855 d; 855 k.
504
Eb. 855 l.
505
Esna, 277, 25. La trad. segue quella francese di S. Sauneron, in Id., Le fêtes religieuses d’Esna aux derniers
siècles du paganisme, IFAO, Le Caire 1962, p. 164.
161
Vorremmo concludere il paragrafo con alcune considerazioni epistemologiche
relative ai differenti indirizzi di pensiero presi in considerazione. Abbiamo visto che
in una prospettiva encefalocentrica il sapere si costruisce progressivamente, con
l’aiuto degli strumenti della tevcnh. Esso avanza in modo lineare, nel tentativo di
assoggettare all’uomo la natura. Si tratta di un processo attivo, in cui l’uomo è il vero
artefice della propria conoscenza e della propria supremazia sulla natura, senza alcun
intervento da parte della sfera divina. L’autore di Male sacro tenta di ricondurre
l’intelligenza a un principio organicistico interno all’essere umano; egli riconosce nel
cervello la sede dei meccanismi fisiologici che generano le facoltà razionali.
Il
pensiero
platonico,
che
coniuga
elementi
provenineti
dalla
tradizione
encefalocentrica e da quella emo-cardiocentrica, non attribuisce un primato né
all’intelligenza tecnico-pratica né ai processi vitali della natura. L’accento viene posto,
in questo caso, sul movimento della dialettica e sulla produzione di schemi noetici; il
principio che governa il mondo e compenetra i suoi livelli è, infatti, prettamente
razionale.
Sul versante emo-cardiocentrico, invece, non c’è contrapposizione tra uomo, natura e
divinità. La conoscenza ha una connotazione decisamente più contemplativa che
operativa. Il processo conoscitivo si fonda su una sostanziale omogeneità tra uomo e
cosmo; chi si accinge a conoscere deve avere sviluppato delle doti ricettive, che gli
permettano di cogliere le infinite sfumature del mondo. Per Empedocle il sapere più
alto è appannaggio di quei pochi che, in virtù di una sorta di iter iniziatico, hanno
acquisito le doti percettive necessarie alla conoscenza. L’intelligenza non è
semplicemente una facoltà dell’uomo, ma è più in generale un principio cosmologico.
Per Aristotele, la percezione «consiste nell’essere mossi e nel subire un’azione,
giacché sembra che sia una specie di alterazione».507 Come i sensi sono ricettivi nei
confronti delle forme sensibili, l’intelletto riceve le forme intelligibili.508 Anche in
questo contesto, la conoscenza presuppone un’omogeneità tra uomo e natura.509
L’impostazione emo-cardiocentrica è senz’altro comune anche alla cultura egiziana;
ci soffermeremo meglio più avanti sull’approccio egiziano alla conoscenza.
506
Esna, 392, 20, in ibid., p. 169. Cfr. anche T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p.
104.
507
Aristotele, L’anima, II, 5, 416 b, 33-35. Cfr. anche Id., Il sonno e la veglia, 1, 454 a 9-10; I sogni, 2, 459 b 4-5.
508
Si tratta dell’intelletto passivo (nou`~ paqhtikov~). Cfr. supra, p. 148.
509
Cfr. P. Manuli, M. Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico, cit., pp. 15
sgg.
162
CAPITOLO V
LA FISIOLOGIA DEGLI UMORI
Relativamente al mondo egiziano, abbiamo avuto occasione di rilevare l’importanza
che riveste il sangue tra i differenti liquidi fisiologici, in quanto agente vitale e
rigenerante all’interno dell’organismo umano. Esaminando il mito di Osiri, inoltre, ci
siamo soffermati sugli umori e sull’elemento acqueo in relazione con il disfacimento
del cadavere del dio e sull’opera di contenimento di questi liquidi messa in atto da
Iside e Nefti.
La teoria degli umori costituisce uno dei cardini della fisiologia greca, che ha
esercitato nel mondo occidentale un’influenza decisiva sulla concezione del corpo e
delle sue dinamiche. Diversi studiosi si sono domandati se sia possibile istituire un
parallelo tra la teoria umorale greca e le teorie sui fluidi e sugli agenti patogeni che è
possibile estrapolare dai testi della medicina egiziana e se quest’ultima abbia, in
qualche modo, influito sul pensiero fisiologico greco. In questo capitolo,
richiameremo alcuni aspetti della teoria umorale greca e alcuni concetti del pensiero
medico egiziano relativi ai liquidi fisiologici, cercando di inscrivere il risultato di
questo confronto nello schema di lettura dell’antropologia egiziana che stiamo
proponendo.
1. Il ruolo degli umori nella concezione greca del corpo
Il tema degli umori e del loro ruolo all’interno dell’organismo umano è presente, in
modo non sistematico, in diversi trattati del Corpus Hippocraticum. Nell’ambito
della letteratura medica prodotta dalla scuola di Cos, la dottrina si presenta in forma
di sistema nel trattato sulla Natura dell’uomo, redatto intorno al 400 a.C. In
proposito, Jacques Jouanna si esprime in questi termini: «Essa ai suoi tempi era
soltanto una teoria umorale tra altre. Ma conobbe un destino eccezionale».510
Aristotele attribuisce il testo in questione a Polibo, genero di Ippocrate; questa
testimonianza è confermata dall’Anonimo di Londra, un dossografo che forse
apparteneva alla scuola dello Stagirita. Pur non essendo opera diretta di Ippocrate,
510
J. Jouanna, La théorie des quatre humeurs et des quatre tempéraments dans la tradition latine (Vindicien,
Pseudo-Soranos) et une source grecque retrouvée, in Revue des études grecques, 118 (2005), pp. 138 sg.
163
tuttavia, questo trattato, per il tramite della medicina ellenistica e di Galeno, è stato
considerato per secoli, come l’espressione più importante e più genuina del pensiero
ippocratico.
Secondo l’autore della Natura dell’uomo l’organismo umano è costituito e regolato da
quattro umori; l’equilibrio o lo squilibrio di questi fluidi determina lo stato di salute o
di malattia dell’individuo:
«Il corpo dell’uomo ha in sé sangue, flegma, bile gialla e nera; questi costituiscono la
natura del suo corpo e per causa loro soffre od è sano. E’ dunque sano soprattutto
quando questi componenti si trovino reciprocamente ben temperati per proprietà e
quantità, e la mescolanza sia completa. Soffre invece quando uno di essi sia in difetto
o in eccesso o si separi nel corpo e non sia temperato con tutti gli altri».511
Ognuno di questi componenti possiede una sua propria natura che lo rende unico e
differente dagli altri e aumenta o diminuisce nel corpo umano in relazione al ciclo
delle stagioni. Un singolo umore è presente in quantità massima nella stagione che è
conforme alla propria natura. Viene individuata, quindi, una corrispondenza tra i
quattro umori, le quattro stagioni e le quattro qualità (caldo, freddo, secco, umido).
Viene enunciata anche un’ulteriore corrispondenza tra umori ed età della vita, ma
soltanto a proposito della bile nera, che è predominante nel periodo di vita compreso
tra i venticinque e i quarantadue anni.512 Lo schema che si può ricavare dalla Natura
dell’uomo è il seguente:
Umore
Stagione
Qualità
sangue
primavera
caldo-umido
bile gialla
estate
caldo-secco
bile nera
autunno
freddo-secco
flegma
inverno
freddo-umido
Periodo di vita
25-42 anni
La dottrina degli umori conosce degli sviluppi significativi con Galeno (II sec.),513 il
quale, per la prima volta, formula esplicitamente la corrispondenza tra umori ed età
511
Natura dell’uomo, 4, trad. it. di M. Vegetti, in Opere di Ippocrate, cit.
512
Cfr. ibid., 15.
513
Galeno attribuisce a Ippocrate il trattato sulla Natura dell’uomo e fa di questo personaggio una sorta di
antesignano della ricerca sulla natura. Il medico di Pergamo era convinto, infatti, che Platone avesse letto questo
trattato e che in conseguenza di ciò, nel Fedro, si fosse riferito al metodo ippocratico come al modello più
adeguato per esemplificare il procedimento filosofico. Ippocrate diventa, dunque, il maestro di Platone e il vero
164
della vita e mette in relazione le quattro sostanze basilari dell’organismo con gli
elementi dell’universo e con i temperamenti in cui si declina l’indole umana, anche se
in modo non ancora sistematico.514 Lo stadio più elaborato della teoria risale,
tuttavia, alla medicina greca tarda e bizantina. In particolare, una fonte latina che
dichiara di essere la copia fedele di uno scritto ippocratico ebbe un’influenza storica
decisiva nella ricezione della teoria umorale in età medievale. Si tratta della Lettera di
Vindiciano, medico della provincia africana vissuto nel IV secolo, al nipote
Pentadio.515 In questo testo e in altre fonti mediche simili di età tardo-antica a
ciascuno dei quattro umori viene associata anche una parte del corpo, un luogo di
esalazione e in certi casi, un momento particolare della giornata e uno specifico stato
del polso.516 Si arriva anche ad affermare che il temperamento di un individuo è
determinato dal momento del giorno o della notte in cui avviene il concepimento.517
Tornando al trattato sulla Natura dell’uomo, constatiamo che ogni umore non è di
per sé prevalentemente positivo o negativo per la salute del corpo, dal momento che,
come emerge dal passo sopra citato, è la kra`si~ dei differenti umori che determina lo
stato di benessere dell’intero organismo e sono, invece, la carenza o l’eccesso dell’uno
o dell’altro di questi componenti che producono le diverse patologie.
All’interno del Corpus Hippocraticum, tuttavia, non può passare inosservata la
predominanza, soprattutto nosologica, di due umori: il flegma e la bile tout court.
iniziatore della speculazione filosofica sull’uomo e sul mondo. In proposito, cfr. Galeno, De placitis Hippocratis et
Platonis e Id., In Hippocratis librum de natura hominis commentarius.
514
Relativamente al rapporto tra umori ed elementi, al sangue non corrisponde un elemento specifico (l’aria negli
sviluppi posteriori della teoria); esso è una mescolanza dei quattro elementi. Per quanto riguarda, invece,
l’associazione con i temperamenti umani, il flegma per Galeno non ha alcuna incidenza sull’intelligenza e sul
carattere. Cfr. Galeno, De placitis Hippocratis et Platonis e Id., In Hippocratis librum de natura hominis
commentarius. Cfr. anche J. Jouanna, La posterité du traité hippocratique de la Nature de l’homme: la théorie
des quatre humeurs, in C. W. Müller, Ch. Brockmann, C. W. Brunschön (a cura di), Ärzte und ihre Interpreten.
Medizinische Fachtexte der Antike als Forschungsgegenstand der Klassischen Philologie, Saur, München, Leipzig
2006, pp. 121 sg.
515
J. Jouanna ha individuato la fonte greca della Lettera di Vindiciano nel trattato Sul polso e sul temperamento
umano, attribuito nell’antichità a Ippocrate. In proposito, cfr. Id., Un traité pseudo-hippocratique inédit sur les
quatre humeurs (Sur le pouls et sur le tempérament humain), in A. Kolde, A. Lukinovich, A.-L. Rey (a cura di),
Koruphaioi andri, mélanges offerts à André Hurst, Librairie Droz, Genève 2005. Cfr. anche Id., La théorie des
quatre humeurs et des quatre tempéraments dans la tradition latine (Vindicien, Pseudo-Soranos) et une source
grecque retrouvée, cit.
516
Per quanto riguarda la corrispondenza tra umori e organi, la teoria tradizionale espressa nel trattato anonimo
Sulla costituzione dell’universo e dell’uomo e nella Lettera di Ippocrate a Tolomeo assegna al sangue il cuore, alla
bile gialla il fegato, alla bile nera la milza e al flegma il cervello. Nel trattato Sul polso e sul temperamento umano,
al paragrafo 2, vengono stabilite, invece, delle associazioni differenti: «Ciascuno di questi umori agisce in un luogo
proprio: il sangue nella parte destra al di sopra del fegato, la bile gialla nella parte sinistra al di sopra della milza,
la bile nera nei fianchi al di sopra dei reni, il flegma nel petto al di sopra del polmone» (la trad. segue quella di J.
Jouanna, in Id., Un traité pseudo-hippocratique inédit sur les quatre humeurs ..., cit., p. 451).
517
Cfr. il trattato Sulla formazione dell’uomo, 6-9 (J. Jouanna, Un traité inédit attribué à Hippocrate, Sur la
formation de l’homme: editio princeps, in Ecdotica e ricezione dei testi medici greci. Atti del V convegno
internazionale, Napoli, 1-2 ottobre 2004, D’Auria, Napoli 2006).
165
Prendendo in considerazione i testi del Corpus considerati espressione del pensiero
della scuola di Cos, si riscontra che in essi sono indicati come causa degli stati
patologici quasi esclusivamente questi due umori, con una preponderanza della bile.
Il sangue non assume, generalmente, il ruolo di agente patogeno.518 In Male sacro,
leggiamo per esempio:
«La corruzione del cervello dipende dal flegma e dalla bile. Si potrà comprendere
l’azione dell’uno e dell’altra così: chi è impazzito a causa del flegma resta tranquillo,
non grida e non lancia clamori; chi invece a causa della bile, urla, agisce male, è
inquieto, compie gesti inopportuni».519
Anche in Arie, Acque, Luoghi emerge la prevalenza della bile e del flegma e la
connotazione tendenzialmente patogena della loro natura. Trattando dell’azione dei
venti sull’organismo, l’autore afferma che nelle città calde e umide del sud gli abitanti
presentano un’eccedenza di flegma; a nord, invece, il clima prevalentemente freddo e
secco produce negli abitanti una sovrabbondanza di bile. Entrambe queste condizioni
espongono gli individui a una serie di patologie.520 La menzione del flegma e della
bile ricorre anche in riferimento all’azione delle acque.521 Sulla base di questi
riscontri, Hellmut Flashar commenta: «Vediamo, dunque, che nello scritto De aer.
agli umori bile e flegma così come al genere bilioso e a quello flemmatico viene
accordata una posizione favorita, anzi basilare, per quanto senza un consolidamento
sistematico».522
Un altro studioso, Robert Joly, osserva che perfino nella Natura dell’uomo,
«nonostante l’esposizione che ci si trova sui quattro umori e sulla loro rispettiva
predominanza in ciascuna delle stagioni, l’autore, in un altro passo, richiama soltanto
la bile e il flegma e, molto spesso, non parla che della bile tout court».523
La predominanza della bile e del flegma appare, tuttavia, in modo più evidente, nei
trattati del Corpus Hippocraticum di provenienza cnidia. In questo contesto, la
rilevanza di questi due umori è stata interpretata dagli studiosi secondo due
orientamenti:
518
Cfr. R. Joly, Le système cnidien des humeurs, in La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la
médecine. Colloque de Strasbourg (23-27 octobre 1972), Brill, Leiden 1975, pp. 120 sg.
519
Male sacro, 18.
520
Cfr. Arie, Acque, Luoghi, 3; 4.
521
Ibid., 7.
522
H. Flashar, Melancholie und Melancholiker in den medizinischen Theorien der Antike, Walter de Gruyter &
Co, Berlin 1966, p. 28.
166
1) sotto l’aspetto nosologico: bile e flegma sono all’origine di molte o addirittura di
tutte le patologie;
2) sotto l’aspetto fisiologico: i due umori sono gli elementi costitutivi del corpo
umano.524
Relativamente all’azione patogena della bile e del flegma, l’autore di Malattie I
afferma:
«Tutte le malattie provengono, quanto alle cose interne, dalla bile e dal flegma;
quanto a quelle esterne, dalle fatiche, dalle ferite, e dal caldo troppo infiammante, dal
freddo troppo raggelante, dal secco troppo essicante, dall’umido troppo inumidente».
Il prosieguo del paragrafo sembra voler porre maggiormente l’accento sull’aspetto
fisiologico dei due umori:
«La bile e il flegma si formano con l’essere che si forma, ed esistono sempre nel
corpo, più o meno; essi causano, dunque, le malattie per l’intervento tanto degli
alimenti e delle bevande, tanto del caldo troppo infiammante e del freddo troppo
raggelante».525
In un altro paragrafo di questo trattato, viene ribadito ulteriormente che tutte le
malattie interne sono provocate da queste due sostanze. L’autore, infatti, dopo aver
enumerato una serie di sintomi, conclude:
«Tutte queste affezioni sono dovute, riguardo alle cose interne, alla bile e al flegma,
riguardo alle cose esterne, all’aria mescolata con il calore innato e anche alle fatiche e
alle ferite».526
Lo stesso concetto è espresso, con insistenza ancora maggiore, nel trattato sulle
Affezioni, nel quale si afferma che tutte le malattie degli uomini, senza ulteriori
distinzioni, sono prodotte dall’azione singola o combinata dei due umori in
questione.527 Altri passi dei medesimi testi, legati alla scuola di Cnido, sembrano,
tuttavia, inficiare o perlomeno temperare queste affermazioni categoriche. Al
paragrafo 4. di Malattie I si legge che il sangue che «da una piaga o da una vena si
523
R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., p. 121. Cfr. anche W. Müri, Melancholie und schwarze Galle, in
H. Flashar (a cura di), Antike Medizin, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, pp. 174 sgg.
524
L’idea che la scuola di Cnido conoscesse soltanto due umori si è affermata con gli studi di C. Fredrich. Cfr. Id.,
Hippokratische Untersuchungen, Weidmann, Berlin 1899, p. 38. Sulla questione cfr. anche i riferimenti
bibliografici indicati in R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., p. 108, nota 2.
525
Malattie I, 2. La trad. segue quella francese di É. Littré, in Oeuvres completes d’Hippocrate, vol. VI, Hakkert,
Amsterdam 1979.
526
Ibid., 11.
167
riversa nel ventre superiore, diventa necessariamente pus». Al paragrafo 14., la causa
dell’empiema è ricondotta al sangue liberato dalla rottura di una venula. L’autore di
Affezioni, al paragrafo 34., afferma che la patologia di cui sta trattando proviene dal
flegma o dal sangue e, al 36., equipara l’acqua agli altri umori, nello specifico: flegma,
bile tout court e bile nera.
Un esame attento di questi aspetti ha fatto abbandonare ad alcuni studiosi la
convinzione che la scuola di Cnido fondasse la propria dottrina umorale soltanto sulla
bile e sul flegma. Jouanna, analizzando in particolare il trattato Malattie II, testo per
il quale è maggiormente sicura la derivazione dalle Sentenze cnidie, l’opera
fondamentale della scuola di Cnido, è giunto alle seguenti conclusioni:
«L’evoluzione della scuola di Cnido si presenta come segue: una tappa antica, in cui
gli Cnidi si preoccupavano anzitutto della semiologia, della prognosi e della
terapeutica […]; poi una tappa recente, in cui gli Cnidi aggiungono allo schema
primitivo un’eziologia fondata sullo spostamento degli umori (bile, flegma, sangue e
bile nera) all’interno del corpo».528
Lo schema umorale proposto da Jouanna non presenta che una leggera differenza
con quello che ricaviamo dalla Natura dell’uomo, dove, anziché di bile tout court, si
parla di bile gialla. Anche secondo Joly la scuola di Cnido ammette quattro umori. Lo
studioso rileva, però, che nei trattati di origine cnidia la bile nera è menzionata molto
raramente e che, pertanto, essa va considerata più come una varietà della bile tout
court che come un umore specifico.529 I quattro umori sui quali si fonda la teoria
umorale dei medici di Cnido sarebbero, dunque: bile, flegma, sangue e acqua. «I
primi due sono largamente privilegiati sul piano nosologico; l’acqua, al contrario, è
caratterizzata da una grande neutralità nosologica: essa appare, dunque, poco nei
trattati di Malattie ed è per questo che si è esitato a riconoscerla come umore
specifico».530
La medesima dottrina umorale prospettata da Joly la troviamo esposta a chiare
lettere nel trattato Malattie IV, redatto probabilmente nello stesso periodo in cui
527
Cfr. Affezioni, 1; 37. Al paragrafo 1 si specifica che «la bile e il flegma producono le malattie, quando, nel
corpo, uno di questi umori subisce un eccesso di secco o di umido, oppure di caldo o di freddo» (la trad. segue
quella francese di É. Littré, in Oeuvres completes d’Hippocrate, vol. VI, cit.).
528
J. Jouanna, La structure du traité hippocratique “Maladie II” et l’évolution de l’école de Cnide, in Revue des
études grecques, 82 (1969), p. XVI.
529
Cfr. R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., pp. 108 sgg.
530
Ibid., p. 120.
168
appare la Natura dell’uomo.531 Joly, che, come altri studiosi, attribuisce questa fonte
a un medico di Cnido, vede in ciò una conferma ulteriore della sua posizione.532
Jouanna sostiene, invece, che questo trattato non risponde ai criteri considerati
necessari per l’attribuzione di un testo alla scuola di Cnido e che esso espone quella
che era semplicemente una teoria degli umori tra altre, che, a differenza della
dottrina sviluppata nella Natura dell’uomo, non ebbe posterità.533
Come nella Natura dell’uomo, anche in Malattie IV il discorso sugli umori è condotto
in modo sistematico. Il modello di partenza proposto nel primo paragrafo è il
seguente:
«L’uomo e la donna hanno nel corpo quattro specie di umore [uJgrov~] dalle quali
derivano le malattie, a parte quelle che hanno per causa la violenza. Queste specie
sono il flegma, il sangue, la bile e l’acqua; di questi umori, non è né la minima parte
né la più debole che va nella semenza e, quando l’essere vivente è formato, ha in lui
tante specie di umore sano e morboso quante ne hanno i suoi genitori».534
Anche in questo contesto si afferma che gli umori diventano patogeni quando sono in
eccesso o in difetto. L’influenza delle stagioni sull’organismo umano, benché
menzionata, non assume, tuttavia, nella dinamica umorale la stessa rilevanza che
possiamo riscontrare nella Natura dell’uomo. In Malattie IV non viene formulata,
infatti, una corrispondenza precisa tra stagioni e umori. Questi ultimi seguono,
invece, un ciclo di tre giorni, durante i quali essi, introdotti nel corpo attraverso i cibi
e le bevande, vengono progressivamente sostituiti da altri umori più recenti.535 Nel
caso in cui un umore resti più di tre giorni nel corpo o ne subentri un altro in quantità
eccessiva, «le vene si riscaldano, si ostruiscono e si manifesta una malattia, più o
meno forte, meno forte e più tardiva in inverno, più forte e più precoce in estate».536
Allo stesso modo, la permanenza troppo breve di un umore nell’organismo è causa di
531
Cfr. il paragrafo IV della Notice di R. Joly, in Hippocrate, De la génération, De la nature de l’enfant, Des
Maladies IV, Du fœtus de huit mois, Belles Lettres, Paris 1970, pp. 16 sgg.
532
Cfr. R. Joly, Le système cnidien des humeurs, cit., pp. 123 sgg.
533
Cfr. J. Jouanna, Le schéma d’exposition des maladies et ses déformations dans les traités dérivés des
Sentences Cnidiennes, in in La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la médecine. Colloque de
Strasbourg (23-27 octobre 1972), cit., p. 137. Cfr. anche Id., La posterité du traité hippocratique de la Nature de
l’homme: la théorie des quatre humeurs, cit., p. 118.
534
Malattie IV, XXXII. La trad. segue quella francese di R. Joly, in Hippocrate, De la génération, De la nature de
l’enfant, Des Maladies IV, Du fœtus de huit mois, cit.
535
Cfr. ibid., XLII.
536
Ibid., XLIV.
169
malattia. La buona salute del corpo è, dunque, il prodotto del giusto equilibrio dei
quattro umori.537
Un aspetto ulteriore, particolarmente interessante, consiste nel fatto che, a differenza
del trattato sulla Natura dell’uomo, Malattie IV assegna a ciascuno degli umori un
organo specifico come fonte. Tutti gli umori sono ricondotti, inoltre, a una fonte
comune più originaria, rappresentata dal ventre:
«Il ventre, quando è pieno, è la fonte di tutti gli umori per il corpo; ma quando è
vuoto, attinge dal corpo che si consuma. Ci sono anche quattro altre fonti […] Per il
sangue la fonte è il cuore, per il flegma la testa, per l’acqua la milza e per la bile la
vescicola biliare».538
Le quattro «fonti» forniscono al corpo gli umori quando sono piene, li attingono ad
esso, invece, quando sono vuote. Il ventre fa la stessa cosa. Quando diventano
sovrabbondanti, gli umori possono essere espulsi attraverso quattro vie: la bocca, il
naso, l’ano e l’uretra.539
Ricapitolando, nel Corpus Hippocraticum gli umori sono presentati come dei fluidi
che si spostano all’interno del corpo; essi possono essere introdotti nell’organismo ed
evacuati. Il loro equilibrio o potremmo anche dire «regime» è ciò che mantiene lo
stato di salute. Gli umori sono generalmente in numero indefinito, con una
prevalenza nosologica di flegma e bile. Vengono, tuttavia, riconosciuti esplicitamente
quattro umori fondamentali nei due trattati che sviluppano l’argomento in modo
sistematico. La teoria umorale elaborata dall’autore della Natura dell’uomo diventa
successivamente un punto di riferimento essenziale per la fisiologia e, più in generale,
per la medicina di epoca tardo-antica e medievale.
2. Una fisiologia umorale egiziana?
Le fonti mediche egiziane che sono state finora rinvenute non ci offrono in nessun
caso l’equivalente di una dottrina degli umori in forma esplicita e sistematica.
Ghalioungui, domandandosi se la concezione egiziana delle materie morbose abbia
influenzato la teoria umorale greca, individua tra le due un punto in comune, «poiché
tutte e due ammettono che delle sostanze in circolazione possono essere patogene».
537
Cfr. ibid., XLV.
538
Ibid., XXXIII. L’autore precisa più avanti che, tra le fonti indicate, solo la vescicola biliare è specifica: «nella
vescicola biliare arriva, a partire dagli alimenti e dalle bevande soltanto la bile» (ibid., XL).
170
La differenza essenziale consiste, invece, nel fatto che «per i Greci di Cos, gli umori
erano dei componenti normali la cui ripartizione determinava la costituzione».
Secondo lo studioso, la nozione di «costituzione umorale» è completamente assente
in Egitto; mancherebbe, quindi, il concetto di salute intesa come giusta mescolanza di
umori differenti e fondamentali. Sulla base di queste constatazioni Ghalioungui
conclude che, per gli Egiziani, «wxdw, stt e arwt erano essenzialmente delle sostanze
morbose, più imparentate con la bile e il flegma nel senso cnidio di umori peccantes.
Tuttavia, i primi scritti del corpus hippocraticum intendevano ancora il flegma e la
bile in questo senso. E’ dunque possibile che le teorie egiziane abbiano influenzato la
teoria umorale nella sua prima forma».540
L’idea di un rapporto tra gli agenti patogeni menzionati nei testi medici egiziani,
soprattutto gli ukhedu (wxdw), e certe concezioni sviluppate dalla scuola di Cnido è
l’oggetto di un saggio di R. O. Steuer e J. B. de C. M. Saunders, apparso alla fine degli
anni Cinquanta del secolo scorso.541 Secondo gli autori, gli ukhedu sono delle
sostanze prodotte dalla decomposizione dei residui intestinali che si diffondono nel
corpo, provocando la coagulazione e la distruzione del sangue.542 Similmente, nella
medicina cnidia i processi digestivi che non seguono il loro corso normale sono
considerati come una fonte di materie patogene (perivttwmata). In particolare,
secondo Erodico di Cnido il perivttwma in un secondo tempo si decompone in due
fluidi (uJgrovth~) morbosi, uno acido e uno amaro, che Steuer e Saunders, basandosi
soprattutto sulla testimonianza del Papyrus Anonymus Londinensis, associano al
flegma e alla bile.543
Tralasciando la questione storica di una possibile influenza delle dottrine egiziane
sulle teorie umorali greche, ci soffermeremo su quelli che potrebbero essere gli indizi
di una fisiologia egiziana degli umori. Dai papiri medici emerge, infatti, la rilevanza,
nel funzionamento generale dell’organismo, di alcune sostanze e di alcuni fluidi che,
per la loro natura e per la loro azione, potrebbero essere equiparati a tutti gli effetti
agli «umori», di cui parla la medicina greca.
539
Cfr. ibid., XXXIX, XLI.
540
P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 76.
541
Cfr. R. O. Steuer, J. B. de C. M. Saunders, Ancient Egyptian and Cnidian Medicine, University of California
Press, Berkeley and Los Angeles 1959.
542
Cfr. ibid., pp. 4 sgg.
543
Cfr. ibid., pp. 28 sgg.
171
Diversi studiosi hanno interpretato gli elementi patogeni di cui parla la medicina
egiziana come delle sostanze umorali morbose. Abbiamo visto in sintesi la posizione
di Ghalioungui. Analoga è la lettura di Steuer e Saunders, secondo i quali gli ukhedu
sarebbero una sorta di materia peccans che si trasforma in pus.544 Anche B. Ebbell
intende questi agenti morbosi come una «purulenza».545 Il medesimo studioso
identifica, inoltre, la sostanza arut (arwt) con la bile e associa il termine setet (stt) al
flegma della tradizione greca: «Che cosa può essere dunque arwt? Poiché sembra
essere una sostanza patogena, è ovvio supporre che essa forse è imparentata con stt (=
flegma […]) e che come questa può essere un analogon di uno o dell’altro dei
principali umori che i Greci (e probabilmente anche gli Egizi) consideravano come
cause di diverse malattie. E poiché in Eb. 42 si parla di “arwt nera”, si presenta l’idea
che arwt possa essere forse una denominazione della bile (colhv) o in modo speciale
della bile nera (colhv mevlaina)»546 Più oltre, Ebbell propone delle ulteriori
argomentazioni a sostegno dell’identificazione della sostanza setet con il flegma.547
Nel Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, setet è considerata nuovamente come
una sorta di flegma; il termine è tradotto, infatti, con «muco» (Schleimstoffe).548
La natura umorale di questi elementi morbosi, tuttavia, non è così pacifica. Secondo
gli studi più recenti di Bardinet, infatti, ukhedu e setet, sarebbero degli esseri viventi,
dei microorganismi di origine principalmente esterna al corpo e non delle sostanze
fluide innate o prodotte esclusivamente da un cattivo funzionamento dell’organismo
umano.549 Rivolgeremo, quindi, la nostra attenzione a quelle sostanze corporee la cui
natura fluida appare più evidente e che ci sembrano maggiormente responsabili
dell’equilibrio complessivo dell’organismo, inteso come giusto bilanciamento dei
processi di dissoluzione e rigenerazione. Vedremo che per la fisiologia egiziana un
umore non risulta mai positivo o negativo in senso assoluto per la salute corporea;
esso può assumere entrambe le connotazioni, anche se, per sua natura, propende per
un certo tipo di azione. Il sangue, per esempio, è tendenzialmente positivo e può
considerarsi come il principale elemento vitale dell’organismo; in certi casi, tuttavia,
544
Cfr. ibid., pp. 4 sgg.
545
Cfr. B. Ebbell, Alt-ägyptische Bezeichnungen für Krankheiten und Symptome, Jacob Dybwad, Oslo 1938, pp.
16 sgg.
546
Ibid. p. 11.
547
Cfr. ibid. pp. 42 sgg.
548
Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der
medizinischen Texte, cit., p. 812.
549
Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 121 sgg.
172
questo stesso fluido può trasformarsi in un agente patogeno. Ciò che connota
positivamente o negativamente un umore non è semplicemente la sua quantità, il suo
eccesso o il suo difetto, bensì l’azione svolta, che può essere «connettiva» o
«corrosiva».
Come nella lingua greca, anche in quella egiziana non c’è un unico vocabolo per
denotare gli umori e le secrezioni corporee in generale. Un termine ricorrente
soprattutto nei testi religiosi è redju
(rDw).
Attestato a partire dai Testi delle Piramidi, questo sostantivo è riferito spesso ai
liquidi generati dal cadavere di Osiri.550 Un altro termine, attestato anch’esso a
partire dall’Antico Regno, che ricorre sia nei testi religiosi che in quelli medici è
mu
(mw), che ha il significato generale di «acqua», ma
che può riferirsi anche ad alcuni liquidi corporei come le lacrime, il latte materno, la
saliva e la semenza.551
L’unico passo del papiro di Ebers che presenta un’occorrenza del termine rDw
impiega anche il termine mw e altri vocaboli per indicare umori e secrezioni
differenti. Si tratta di una formula da recitare durante la preparazione di un
medicamento per gli occhi. In questo contesto sono invocate alcune secrezioni di
origine divina, affinché apportino il loro sostegno nel cacciare gli umori patogeni:
«Altro (rimedio) per cacciare l’aumento di sierosità [mw] negli occhi: “Vieni,
malachite! Vieni malachite! Vieni, la verde! Vieni secrezione [jnfw] dell’occhio di
Horo! Vieni scolo [qAaw] dell’occhio di Atum! Vieni umore [rDw] uscito da Osiri! Vieni
a lui (= il malato) e caccia per lui le sierosità [mw], il pus [ryt], il sangue [snf], (le
sostanze maligne che causano) la debolezza della vista, (le sostanze maligne che
causano) il bidy, (le sostanze maligne che causano) la shepet, (le sostanze maligne
che causano) l’oscuramento, come anche l’attività di un dio, di un morto o di una
morta, di un ukhedu maschio o femmina e ogni altra sostanza maligna [xt nbt Dwt] che
è negli occhi».552
550
Nei papiri medici troviamo soltanto tre ricorrenze di questo vocabolo: cfr. H. von Deines, W. Westendorf,
Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der medizinischen Texte, cit., p. 558. Cfr. anche
R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 516.
551
Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der
medizinischen Texte, cit., p. 358. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp.
348 sg.
552
Eb. 385.
173
Gli umori coinvolti nella patologia degli occhi che questa formula si propone di curare
sono nello specifico la sierosità-mu, il pus-ryt e il sangue (senef). Tra gli agenti
patogeni menzionati figura, dunque, anche il principale fattore vitale del corpo
umano. Il sangue, come abbiamo rilevato più sopra,553 oltre a essere un veicolo delle
correnti vitali che scorrono nella rete dei condotti-met, lega (tjes) gli elementi
apportati dall’alimentazione per garantire il mantenimento e il rinnovamento della
sostanza corporea. Esso, tuttavia, in certi casi può invertire il suo ruolo ed esercitare
un’azione «corrosiva», simile a quella degli ukhedu.554 Un gruppo di ricette del papiro
di Ebers è finalizzato alla cura delle parti del corpo affette dal sangue diventato
patologico.555 Si tratta di un «sangue che mangia» (unem senef) e che non è più in
grado di legare. L’incipit della prima ricetta recita, infatti:
«Rimedio per il sangue che mangia [wnm snf] e per calmare/fare tacere [sgrt] le
sostanze che corrodono [wSaw]».556
L’azione patogena del sangue genera sostanze morbose e ostruzioni: le ricette in
questione parlano di pus-ryt, di un rigonfiamento del collo, di un ristagno di sangue
che non può essere legato e di sangue accumulato ai fianchi. L’immagine di un sangue
corrosivo la ritroviamo anche in una delle ricette del papiro di Ebers rivolte alla cura
delle affezioni dell’entrata dell’ib, che anatomicamente corrisponde allo stomaco:
«Altro (rimedio) per cacciare un’ostruzione e il sangue che mangia [wnm snf]
all’entrata dell’ib [rA-jb]».557
Come il sangue non svolge sempre un ruolo funzionale alla salute dell’organismo, così
anche il pus-ryt
(ryt)
non sembra avere una connotazione soltanto negativa. Se da un lato, infatti, il pus
risulta essere il prodotto della dissoluzione dei tessuti corporei per effetto di agenti
patogeni come gli ukhedu, dall’altro esso può anche provenire dalla scomposizione
degli alimenti ingeriti, per formare quel nucleo di elementi che il sangue dovrà legare
per costituire le differenti parti del corpo. E’ quanto sostiene Bardinet sulla base
dell’analisi di alcuni passi della letteratura medica: «la concezione egiziana del pus ha
553
Cfr. supra, pp. 83 sg.
554
Relativamente all’azione patogena che corrode i tessuti corporei, cfr. Eb. 196, in cui la patologia trattata viene
paragonata al «morso degli ukhedu».
555
Cfr. Eb. 592 – Eb. 602. In proposito, cfr. anche T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique,
cit., pp. 184 sg.
556
Eb. 592 bis.
174
le sue particolarità. Se il pus può formarsi per distruzione del corpo – idea che non ci
pare strana – differenti testi […] mostreranno che per gli Egiziani questo pus-ryt si
componeva anche di differenti elementi di origine alimentare. Questi elementi erano
destinati a formare le carni e altre parti dell’individuo e si trovavano allo stato libero
nei luoghi del corpo dove i condotti-met li avevano portati. Quando il sangue svolgeva
male il suo ruolo (legare gli elementi del pus-ryt in carne), la loro presenza diventava
fonte di disturbi».558
Un altro fluido corporeo che viene menzionato con una certa frequenza nei papiri
medici è la sostanza aaa
(aAa).559
Il vocabolo in questione è stato considerato da alcuni studiosi il nome di una
malattia. Tale lo considerano, per esempio, G. Scheuthauer, B. Ebbell e F.
Jonckheere. Tutti e tre gli studiosi indentificano aaa con l’ematuria parassitaria o
bilharziosi560 Anche Lefebvre riprende questa ipotesi.561
Un parere diverso è espresso, invece, dagli autori del Grundriss, per i quali «si tratta
meno di una malattia che di una sostanza patogena che è portata nel ventre del
paziente dai demoni (spettri o dei malvagi) e che si manifesta là come disturbo
corporeo generale».562 In questo contesto, aaa viene tradotto con «semenza» e
«sostanza velenosa».563 Una linea analoga è seguita da Ghalioungui, il quale esclude
che gli Egiziani avessero scoperto lo schistosoma, il parassita che provoca la
bilharziosi.564 Anche secondo Bardinet, infine, si tratta di un fluido corporeo: «Per lo
aaa dei testi medici, bisogna mantenere il senso di “secrezione corporea”, di fluido
emesso dal corpo dei demoni, di sostanze in fase liquida passibili di essere
trasformate nell’organismo in elementi parassiti piuttosto diversi. A causa del
557
Eb. 211.
558
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 137.
559
Nei papiri medici sono state riscontrate complessivamente 50 occorrenze del termine aaa, distribuite nel
modo seguente: 28 nel papiro di Ebers, 12 in quello di Berlino, 9 nello Hearst e una nel papiro di Londra. Cfr. P.
Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 77.
560
Cfr. F. Jonckheere, Une maladie égyptienne: l'hématurie parassitaire, Fondation Égyptologique Reine
Elisabeth, Bruxelles 1944. Cfr. inoltre il contributo di G. Scheuthauer, in Virchow’s Archiv., 85 (1881), pp. 343
sgg., e B. Ebbell, Die ägyptischen Krankheitsnamen, in Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde,
62 (1926), pp. 13 sgg.
561
Cfr. G. Lefebvre, Essai sur la médecine égyptienne de l’époque pharaonique, Presses Universitaires de France,
Paris 1956, p. 153.
562
H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der
medizinischen Texte, cit., p. 132.
563
Ibid. p. 129.
564
Cfr. P. Ghalioungui, La médecine des pharaons, cit., p. 78.
175
risultato delle sue trasformazioni, questo aaa non poteva che essere considerato
come particolarmente pericoloso».565
Se prendiamo in considerazione i termini della lingua egiziana formati a partire dalla
radice aaa, possiamo rilevare che i loro significati esprimono l’idea generale di un
liquido da versare, da spandere o da incanalare.566 Il liquido in questione può essere
dell’acqua per irrigazione o la semenza maschile. Tra questi termini troviamo anche
uno degli epiteti attribuiti al dio Ra dalla Litania del Sole, un rituale del Nuovo Regno
che invoca le settantacinque forme in cui si manifesta la divinità solare. Si tratta del
nome aaay (aAay), che viene tradotto come «l’itifallico» o «l’eiaculatore».567 Il
concetto che sembra, dunque, veicolare la radice aaa è quello di un fluido che ha in sè
il germe della vita. Nei papiri medici troviamo aaa seguito dal determinativo del fallo
e qualche volta questa sostanza viene menzionata insieme alla semenza maschile
(metut).568 I testi attribuiscono questo liquido ai demoni entrati nel corpo umano
(indicati come un dio, un morto, una morta); in più occasioni, inoltre, esso viene
messo in correlazione con altri agenti patogeni, tra cui gli ukhedu.569 Quanto emerge
dalle fonti egiziane e dalle riflessioni degli autori del Grundriss e di Bardinet sembra
indicare che aaa non è una malattia, bensì una secrezione che può generare degli
elementi morbosi. In proposito, una ricetta del papiro di Ebers contro i vermi è
piuttosto eloquente:
«Altro rimedio utile tra quelli che si possono preparare per l’interno del corpo [Xt]:
giunco: 1; piretro: 1; ciò sarà triturato finemente, cotto nel miele e mangiato
dall’uomo che ha dei vermi [Hrrt] all’interno del corpo [Xt]. E’ il liquido-aaa che forma
questo (= i vermi) e ciò non morirà (altrettanto bene) con nessun altro rimedio».570
Un altro passo dello stesso papiro individua una riserva di aaa alla sommità del capo:
565
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 124.
566
Cfr.: Wb., I, pp. 166 sg; R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 141; W. A. Ward, The
four egyptian homographic roots B 3, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1978, pp. 105 sgg; B. Van de Walle, Une
base de statue-guerisseuse avec une nouvelle mention de la desse-scorpion Ta-Bithet, in Near Eastern Studies,
31 (1972), pp. 74 sg.
567
Cfr. Wb., I, p. 167; R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 141.
568
Cfr., per es., Bln 58.
569
Cfr., per es., Eb. 99; 138.
570
Eb. 62.
176
«Quattro condotti-met si dividono al livello della testa e si riversano nella nuca, poi
formano una riserva [Htp bA]. Una fonte di aaa è ciò che essi formano esteriormente
(alla testa)».571
Si tratta dell’unico caso, nei papiri medici, in cui il termine aaa non è seguito dal
determinativo del fallo, bensì da quello del ricciolo di capelli:
Ciò ha fatto supporre a William A. Ward che si trattasse del sebo che si diffonde sul
cuoio capelluto.572 Bardinet aggiunge che «se si tratta davvero di “sebo”, considerato
verosimilmente come una vera semenza, si può pensare che esistesse una teoria
particolare che faceva svolgere a questo sebo-aaa un ruolo essenziale nella
moltiplicazione dei parassiti che infestano gli uomini».573
Le fonti esaminate ci inducono a ritenere che il liquido-aaa manifesti una natura
simile, per certi versi, a quella delle acque del Nilo e quindi, per estensione, a quella
delle acque primordiali del Nun. La distesa liquida primordiale e il Nilo, che ne è
l’immagine tangibile in terra, infatti, se da un lato contengono il germe di tutto ciò
che deve venire all’esistenza, dall’altro hanno anche il potere di cancellare tutto ciò
che esiste. Il manifestarsi di queste forze è, dunque, sempre estremamente
pericoloso. La secrezione-aaa rivela questa doppia natura. E’ interessante notare che
essa è spesso messa in relazione con le patologie del cuore nel suo doppio aspetto di
haty-ib, che abbiamo visto essere il centro direttivo di tutto il sistema corporeo. Non
si tratta dell’unico agente patogeno che può attaccare l’organo cardiaco, ma è
probabilmente quello principale. Nella letteratura medica, oltre ad alcune ricette
sparse, possiamo individuare tre gruppi di ricette dedicate alla cura del cuore: nel
papiro di Ebers, dalla ricetta 221 alla 241, nel papiro Hearst dalla 79 alla 87 e in
quello di Berlino dalla 114 alla 117. Da questi testi emerge chiaramente la rilevanza, se
non la predominanza, del liquido-aaa nei disturbi cardiaci. Alcune ricette, in
particolare, ci sembrano confermare l’analogia tra aaa e il Nun. In una di queste, il
caso preso in esame è quello in cui la sostanza aaa, trovandosi nel cuore-haty,
provoca perdita di memoria e «fuga» dell’ib:
571
Eb. 854 d. Sul significato dell’espressione Htp bA, cfr. W. A. Ward, The four egyptian homographic roots B 3,
cit., pp. 106 sgg.
572
Cfr. W. A. Ward, cit.
573
T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., p. 125.
177
«Altro (rimedio) per cacciare il liquido-aaa che è nel cuore-haty e per cacciare la
perdita di memoria [mht-jb], la fuga dell’ib [war-jb] e i dolori pungenti dell’ib [dmwtjb]».574
La ricetta che segue prescrive un rimedio diverso per i medesimi disturbi.575 In
un’altra ricetta che non è contenuta nei tre gruppi indicati, nella quale è chiamato in
causa il liquido-aaa, il medicamento proposto deve «cacciare» (dr) ancora una volta
la «fuga dell’ib» (war-jb) e la «dimenticanza dell’ib» (mht-jb).576 Le patologie descritte,
causate dalla sostanza aaa, producono una sorta di «corrosione», di cancellazione
dell’identità personale, un effetto, quindi, affine a quello provocato dall’azione del
Nun. Questo particolare effetto del liquido-aaa viene posto in risalto in modo palese
in una formula magica del papiro medico di Londra, nella quale esso viene utilizzato
come arma contro un «nemico, un morto, una morta».577 La formula invoca l’azione
del liquido-aaa di Horo e di Imy-nehedef e prescrive di pronunciare anche «il nome
del nemico, il nome del padre, il nome della madre».578 L’umore aaa è in grado,
dunque, di cancellare un nome, ossia di eliminare un’individualità dall’esistente.
Prenderemo ora in considerazione altre due secrezioni corporee: la semenza maschile
e il latte materno. Si tratta in questo caso di due liquidi che non sono condivisi da
tutto il genere umano. La loro presenza nell’organismo umano è chiaramente legata
all’appartenenza a un sesso. Per gli Egiziani, tuttavia, entrambi contribuiscono in
modo significativo alla generazione e allo sviluppo di un nuovo individuo, apportando
gli elementi necessari alla formazione di tutte le parti del corpo. Sotto l’aspetto
prettamente fisiologico, le fonti dalle quali emerge il ruolo di questi due «umori»
sono di epoca tarda. Per quanto riguarda la semenza maschile, in egiziano
metut
(mtwt) o mu
(mw), alcuni testi,
redatti sui muri di un certo numero di templi, a partire dall’inizio del V secolo a.C., ne
individuano l’origine nelle ossa.579 Abbiamo rilevato precedentemente che, secondo
questa dottrina, il dio demiurgo, impersonato nella maggior parte dei casi da Khnum,
574
Eb. 227.
575
Cfr. Eb. 228.
576
Cfr. Bln 58.
577
Cfr. Londra 38.
578
Imy-nehedef (jmy-nhd=f) significa letteralmente «colui che è nella sua debolezza». Si tratta di un appellativo di
Osiri. Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 1219.
178
produce e fissa la semenza all’interno delle ossa e successivamente «lega» questa
secrezione per consentire lo sviluppo del feto nel ventre materno.580 Dei testi che
riportano questa teoria, raccolti da Sauneron, un paio di quelli presenti nel tempio di
Edfu affermano,
a proposito del re: «Il dio benefico l’erede di Khnum; è lui che assicura la fissazione
[jr (T)s] della sua semenza [mw] nelle ossa [qsw] e nel ventre [Xt]»;581
a proposito del dio: «Tu fecondi le donne per mezzo della semenza [mw] proveniente
dalle ossa [qsw]».582
Nel tempio di Esna, Khnum è «colui che modellò tutti sul suo tornio, l’ariete
copulatore che produsse [jr] la semenza [mw] nell’osso [qs], e legò [(T)s] il germe degli
dei e degli uomini».583
Secondo altre fonti, il seme maschile sarebbe l’agente responsabile della formazione
delle parti ossee del corpo, mentre dal latte materno, il cui vocabolo egiziano
corrispondente è jrecet
(jrTt),584
deriverebbero le parti molli. In una delle leggende narrate dal papiro Jumilhac, Ra e
l’Enneade ordinano che al dio Horo, colpevole di aver ucciso la propria madre, siano
levate tutte le parti corporee di origine materna:
«Quanto alle sue carni e alla sua pelle, sua madre le ha create [sxpr] con il suo latte;
quanto alle sue ossa, esse esistono grazie alla semenza di suo padre. Così, che si
allontanino da lui la sua pelle e le sue carni, le sue ossa restino, invece, in suo
possesso».585
579
La testimonianza più antica relativa a questa teoria fisiologica fu incisa in una sala del tempio di Amon a
Hibis, nell’oasi di Kharga, durante il regno di Dario I (522-486 a.C.). Questa idea viene successivamente espressa
nei testi dei templi di Dendera, Esna, Edfu e File.
580
Cfr. supra, pp. 84 sg. Cfr. inoltre: S. Sauneron, Le germe dans les os, cit.; J. Yoyotte, Les os et la semence
masculine. À propos d’une théorie physiologique égyptienne, in BIFAO, 61 (1962); T. Bardinet, Les papyrus
médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 139 sgg.
581
Edfu, III, 114, 7.
582
Edfu, IV, 298, 3-4.
583
Esna, 200, 10.
584
Sul latte materno, cfr. R.-A. Jean, A.-M. Loyrette, La mère, l’enfant et le lait en Égypte ancienne. Traditions
médico-religieuses, L’Harmattan, Paris 2010; in particolare, cfr. pp. 99 sgg.
585
La trad. segue quella francese di J. Vandier, in Id., Le Papyrus Jumilhac, Centre national de la recherche
scientifique, Paris 1961, p. 124.
179
Successivamente, grazie a un unguento preparato dalla dea Hesat (una forma di
Hathor) con il proprio latte, tutti i tessuti asportati dal corpo di Horo vengono
rigenerati:586
«Egli fu in buona salute, essendosi le sue carni di nuovo rinsaldate per lui ed essendo
stata la sua forma nuovamente messa al mondo. Sua madre, Iside, lo guardò come un
giovane figlio, dopo aver rinnovato la sua nascita in questo nômo».587
Per quanto riguarda le parti del corpo generate dal seme maschile, una testimonianza
ulteriore ci è trasmessa dal papiro demotico Insinger:
«(Il dio) ha fatto l’aria all’interno dell’uovo, benché non ci sia via per penetrarvi; egli
ha fatto in modo che tutte le matrici partoriscano a partire dalle semenze che esse
ricevono e che i tendini (?) [jny] e le ossa nascano da queste semenze».588
Troviamo traccia di simili dottrine anche in Grecia, a partire dal V secolo a.C.
L’autore in questione è Ippone di Samo. Da un passo di Censorino apprendiamo che
«Ippone è del parere che la semenza generativa derivi dal midollo: ciò sarebbe
provato dal fatto che, se si uccidono gli arieti dopo la loro unione con le pecore, non si
riuscirà a trovare in essi nemmeno un poco di midollo, essendo completamente
scomparso».589
Per Ippone, inoltre, «le ossa deriverebbero dall’uomo, mentre le carni dalla
donna».590
Anche Platone, nel Timeo, pone nel midollo osseo il luogo di origine della semenza
maschile. Quest’ultima cola lungo la colonna vertebrale, prima di raggiungere gli
organi genitali.591 Jean Yoyotte ha mostrato che da alcuni testi egiziani della Bassa
Epoca emerge un legame funzionale tra il fallo e la colonna vertebrale. 592 Nel tempio
di Dendera, per esempio, «l’ariete signore di Mendes», che partecipa a una
processione di dei locali che portano dei vasi contenenti i frammenti del corpo di
586
In proposito, cfr. R.-A. Jean, A.-M. Loyrette, La mère, l’enfant et le lait en Égypte ancienne. Traditions
médico-religieuses, cit., p. 217.
587
J. Vandier, Le Papyrus Jumilhac, cit.
588
Papiro Insinger, 32, 7, in S. Sauneron, Le germe dans les os, cit., p. 23. Relativamente alla traduzione del
termine jny, cfr. J. Yoyotte, Les os et la semence masculine. À propos d’une théorie physiologique égyptienne, cit.,
p. 139, nota 3.
589
Ippone, A 12, trad, it. di I. Ramelli e G. Reale, in I Presocratici, cit.
590
Ippone, A 13, in ibid.
591
Cfr. Platone, Timeo, 73 b – 74 b; 91 a-b.
592
Cfr. J. Yoyotte, Les os et la semence masculine. À propos d’une théorie physiologique égyptienne, cit., pp. 139
sgg.
180
Osiri, dichiara: «Io porto il fallo [mTA] e la spina dorsale [psD] riuniti insieme».593
Secondo lo studioso la paternità scientifica della teoria che vede nelle ossa il luogo di
origine della semenza e nella colonna vertebrale il canale di scolo che le permette di
arrivare agli organi genitali spetterebbe all’Egitto.
Tra gli autori antichi, Plutarco, riprendendo lo stesso mito narrato nel papiro
Jumilhac, afferma esplicitamente la provenienza egiziana delle dottrine sul seme
maschile e sul latte materno che stiamo esaminando:
«Si rischia di fare qualcosa di simile allo smembramento di Horo di cui parla il
racconto egiziano; dopo che, per vendicare suo padre, egli uccise sua madre, uno
degli dei più antichi giudicò che era necessario lasciare il suo sangue e il suo midollo
[muelov~] e togliergli il grasso [pimelhv] e le carni [savrke~], essendosi questi formati
nel seno di sua madre, quelli invece essendogli derivati da suo padre attraverso la
generazione».594
La semenza e il latte materno svolgono un ruolo fondamentale anche nella
formazione del corpo ultraterreno di cui è dotato l’individuo akh. Nei Testi delle
Piramidi, il re è definito la «semenza del dio» (mtwt nTr).595 Una formula recita:
«Pepy è stato concepito per Ra, egli è nato per Ra! Meryra è la tua semenza [mtwt], o
Ra! Diventa efficace (semenza) nel tuo nome di “Horo che è alla testa dei beati [axw],
stella che attraversa il Grande Verde [wAD-wr]”!».596
Dalla semenza divina, tuttavia, non derivano soltanto le parti ossee del corpo, ma
anche l’ib e, quindi, probabilmente tutte le parti molli che ad esso afferiscono. Un
testo del tempio di Hatshepsut, a Deir el-Bahari, narra della concezione divina della
regina, ad opera del dio Amon. Questi, dopo avere assunto le sembianze di Tutmosi I,
si recò presso la sposa del re che dormiva. Al risveglio della donna, il dio «andò subito
da lei, bruciò d’amore [HAd] per lei e il suo ib fu posto in lei».597
Essere la «semenza del dio» significa, dunque, essere l’immagine perfetta o la
proiezione del dio. Ciò vale per il sovrano anche quando è sulla terra, ma soprattutto
593
Ibid. p. 140.
594
Plutarco, De libidine et aegritudine, 6. Per quanto riguarda il retaggio paterno, la testimonianza di Plutarco
non si rivela sufficientemente precisa. In questo contesto, si parla di sangue e midollo, altrove (De animae
procreatione in Timaeo Platonis, 27), di soffio e sangue; non vengono, invece, menzionate le ossa.
595
Cfr. Pyr, 1417 a.
596
Pyr, 1508 a-c.
597
K. Sethe (a cura di), Urkunden der 18. Dynastie, vol. I, J. C. Hinrichs’sche Buchhandlung, Leipzig 1906, IV,
219. Cfr., inoltre, T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 146 sg.
181
quando si trova nel mondo dell’aldilà e, più in generale, vale per ogni defunto che
diventa akh.
Nel processo di resurrezione del re o del defunto beato, tuttavia, il latte materno,
rispetto alla semenza, non costituisce semplicemente un elemento di contorno. Un
passo dei Testi delle Piramidi invoca Ra affinché conceda al sovrano defunto tutti gli
elementi essenziali alla nuova vita nella dimensione ultraterrena; di questi il primo a
essere menzionato è il latte:
«Salute a te, o Ra, nella tua bellezza, nella tua perfezione […]. Porta dunque a Teti il
latte [jrTt] di Iside, l’inondazione di Nefti, il riversamento del lago, lo straripamento
del Grande Verde, la vita, la salute, la forza, la gioia, del pane, della birra, dei vestiti e
un pasto, affinché Teti possa vivere!».598
In più occasioni, inoltre, il re è presentato nella condizione di un infante che deve
essere allattato.599 L’inizio della vita nell’aldilà equivale, in effetti, a una rinascita.
Diverse divinità nutrici assolvono al compito dell’allattamento. Come ha messo in
evidenza Jean Leclant, tuttavia, sembra che «le menzioni dell’allattamento nei Testi
delle Piramidi oltrepassino spesso la semplice allusione a delle cure inseparabili dalla
condizione materna».600 Le nutrici del re defunto, infatti, sono in diversi casi delle
divinità preposte alla salvaguardia della regalità, come la Signora di El Kab, nelle sue
differenti forme:
«Tua madre è la grande Vacca selvatica [smAt wrt] che risiede a El Kab, dal copricapo
regale scintillante [HDt afnt], dalle due lunghe piume e dalle due mammelle pendenti.
Ella ti allatta [snq] senza svezzarti!».601
Il latte materno che viene offerto al sovrano defunto, dunque, da un lato lo nutre
favorendo la sua resurrezione, dall’altro lo conferma nella sua regalità e nella sua
«divinità». Ciò fa dichiarare a Leclant che «conviene domandarsi se il latte non sia
una bevanda dotata di virtù speciali e perché».602
Relativamente alle virtù del latte postulate dallo studioso, è interessante, a nostro
avviso, richiamare una ricetta del papiro medico di Londra per curare le ustioni. Il
medicamento prescritto, da applicare sulla parte ustionata, è un impasto di varie
598
Pyr, 706 a – 707 d.
599
Cfr., per es., Pyr, 911 b – 912 b; 734 b-d.
600
J. Leclant, Le rôle du lait et de l’allaitement d’après les Textes des Pyramides, in Journal of Near Eastern
Studies, 10 (1951), p. 126.
601
Pyr, 729 a-c.
602
J. Leclant, Le rôle du lait et de l’allaitement d’après les Textes des Pyramides, cit.
182
sostanze mescolato con del «latte di una donna che ha messo al mondo un figlio
maschio». Durante la preparazione, il terapeuta deve pronunciare una formula
magica che evoca il potere guaritore del latte di Iside, utilizzato dalla dea come
rimedio per curare il piccolo Horo colpito da un tizzone ardente, durante la sua
assenza. Nella formula Iside si rivolge alla sorella Nefti con queste parole:
«Vieni con me, Nefti sorella mia, seguimi! […] Mostrami la strada, che io possa fare
ciò che so fare, che io possa spegnere per lui (= Horo) questo (= il fuoco) con il mio
latte [jrTt], il liquido guaritore [mw snbw] che è nei miei seni. Esso sarà applicato sulla
tua superficie corporea [Haw], in modo che i tuoi condotti-met saranno guariti. Io farò
arretrare il fuoco che ti assale».603
Vorremmo riportare un ultimo passo dei Testi delle Piramidi, in cui il latte materno e
la semenza paterna vengono menzionati insieme e vengono messi in relazione con il
processo di ricostituzione corporea del sovrano defunto:
«Io ho purificato la bocca di Teti, affinché egli possa prendere per lui le sue ossa di
ferro [qsw=f bjA] e possa distendere le sue membra [awt] imperiture che sono nel
ventre [Xt] di sua madre Nut! Ra, offri il tuo braccio a Teti […] E’ con il latte [jrTt] delle
due vacche nere, le due nutrici dei ba di Eliopoli, che Teti è allattato! Hepach, una
contrazione va verso il corpo [Xt] del cielo carico della semenza [mtwt] divina che è in
lui! Guarda Teti! E’ in Teti che la semenza [mtwt] divina si trova!».604
Come gli altri fluidi corporei presi in considerazione (sangue, liquido-aaa e pus-ryt),
anche la semenza e il latte possono acquisire una connotazione negativa. Il sememetut può agire, infatti, come un veleno o un agente patogeno. In alcune ricette dei
testi medici si parla della semenza di un dio, di un morto o di una morta come causa
delle malattie da curare.605 Per quanto riguarda il latte materno, invece, due brevi
paragrafi del papiro di Ebers danno delle indicazioni per distinguere dall’odore quello
«buono» (nfrt) da quello «cattivo» (bjnt).606
Concludendo, in Egitto non c’è traccia di una dottrina umorale organizzata in modo
sistematico, né le fonti indicano un numero definito di umori fondamentali per il
funzionamento dell’organismo umano. L’importanza attribuita dagli Egiziani a
603
Londra 46.
604
Pyr, 530 a – 532 b.
605
Cfr. H. von Deines, W. Westendorf, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. VII, Wörterbuch der
medizinischen Texte, cit., p. 412. Cfr. anche R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 396.
606
Cfr. Eb. 788 e 796.
183
determinati fluidi corporei nei processi fisiologici è, tuttavia, innegabile. La selezione
di umori che abbiamo proposto si fonda sui seguenti criteri:
1) abbiamo escluso le sostanze corporee che svolgono un’azione esclusivamente
patogena, la cui natura umorale, peraltro, non è del tutto evidente;
2) abbiamo,
invece,
annoverato
tra
gli
umori
fondamentali
quelli
che
contribuiscono in modo diretto alla costruzione e al mantenimento del sistema
corporeo;
3) sono stati inclusi anche il liquido-aaa, che non ha una connotazione soltanto
negativa e che sembra riprodurre, per certi versi, le caratteristiche del Nun
all’interno del corpo, e il pus-ryt che, a quanto mostrano gli studi di Bardinet,
fornirebbe gli elementi che il sangue deve legare per formare nuovi tessuti.
Ne risulta un sistema di quattro umori, di cui uno variabile sulla base
dell’appartenenza sessuale, che possiamo così sintetizzare:607
Uomo
Donna
sangue (snf)
sangue
pus-ryt (ryt)
pus-ryt
liquido-aaa (aAa)
liquido-aaa
semenza (mtwt; mw)
latte materno (jrTt)
Tra gli umori elencati, il liquido-aaa e il pus-ryt sono i più pericolosi, in quanto
manifestano una predisposizione nosologica. Anche gli altri fluidi corporei indicati
nella tabella, tuttavia, possono essere causa di malattia. Come abbiamo già rilevato, la
fisiologia egiziana, a differenza di quella greca, non individua semplicemente
nell’eccesso o nel difetto dei singoli umori ciò che produce una patologia, bensì lo fa
dipendere dal tipo di azione da essi svolta, connettiva o corrosiva. Il «regime»
consiste nell’equilibrio tra i processi di demolizione e quelli di costruzione che
avvengono nel corpo. Trattando del mito di Osiri, abbiamo rilevato che anche gli
umori che fuoriescono da un cadavere manifestano una doppia valenza: da un lato
essi sono un segno di corruzione, dall’altro conservano ancora un potere vitale.608
607
Ribadiamo che il numero quattro è solo il frutto della nostra selezione, non fondandosi su nessuna indicazione
esplicita contenuta nelle fonti egiziane.
608
Cfr. supra, pp. 104 sgg.
184
Dal sistema umorale proposto traspare il dualismo tipico del pensiero egiziano,
concepito come complementarietà di due termini opposti. Il corpo del singolo essere
umano, uomo o donna, conserva in sé l’apporto di entrambi gli umori prodotti dai
due sessi. Le ossa e forse i loro legamenti,609 gli elementi cioè che strutturano il corpo
articolare, derivano dalla semenza paterna, mentre le parti molli, afferenti al corpo
inviluppo, sono generate in virtù della dissoluzione delle carni materne che dà origine
al latte. In questo contesto l’ib può costituire un’eccezione. La semenza di un dio,
infatti, è in grado di fornire la sostanza per formare non solo le parti ossee, ma anche
l’ib del nascituro. Nel terzo capitolo avevamo individuato nell’ib il trait d’union che
lega il corpo articolare e il corpo inviluppo. Si tratta, dunque, di un elemento
anatomico che partecipa di due nature. Ciò spiega, a nostro avviso, il fatto che le parti
afferenti all’ib possano essere generate sia dalla semenza paterna, quando il nascituro
è un dio o un suo equivalente (il faraone), sia dal latte materno.
All’interno di un organismo umano pienamente strutturato e sano, il sangue esercita
una perenne azione connettiva, legando gli elementi provenienti dalla demolizione
dei cibi (pus-ryt), allo scopo di generare nuovi tessuti. La sfera corporea, inoltre,
come l’intero cosmo che è lambito dalle acque del Nun, contiene in sé il liquido-aaa,
umore pericoloso in grado di trasformarsi in agente patogeno e di corrodere l’identità
personale.
In quanto agenti connettivi che si spostano attraverso la rete dei condotti-met, gli
umori afferiscono al corpo articolare; in quanto secrezioni dello shet che possono
riversarsi all’esterno, essi attengono, invece, al corpo inviluppo. Potremmo, dunque,
definire gli umori come l’intersezione dinamica tra il corpo articolare e il corpo
inviluppo.
609
Cfr. Papiro Insinger 32, 7, citato supra, p. 180.
185
CAPITOLO VI
COSTELLAZIONE UOMO E CORPOREITA’
1. Una visione d’insieme della «costellazione Uomo» egiziana
Ci proponiamo ora di ricapitolare sinteticamente i concetti propri della riflessione
antropologica egiziana di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti, organizzandoli
in un modello maggiormente definito e completo, dal quale possano emergere una
visione d’insieme più chiara della natura dell’essere umano e una migliore messa a
fuoco del ruolo e dell’orizzonte della dimensione corporea.
Nel proporre un possibile schema di lettura della concezione antropologica dell’antico
Egitto, abbiamo introdotto alcune categorie concettuali, in parte coniate da noi e in
parte desunte da altri contesti, che ci sono sembrate dotate della forza euristica
necessaria a porre nel giusto risalto la peculiarità e l’originalità della concezione
antropologica egiziana rispetto al modo di concepire l’uomo che ha avuto origine in
Grecia, tra il VI e il V secolo a. C. Abbiamo visto che l’individuo è pensato dagli
Egiziani come la risultante dell’interazione di una serie di componenti in relazione tra
loro. Abbiamo chiamato, quindi, «individuo articolare» l’essere umano nel suo
complesso, inteso come rete di relazioni. Un’articolazione svolge una funzione
duplice: essa lega due parti e ne permette il movimento. La costellazione Uomo
mostra, infatti, due caratteristiche essenziali: la connettività e la motricità.
L’individuo articolare si compone di una serie di elementi sottili, il cui numero non è
stabilito una volta per tutte, e di un «corpo» che di questi è il supporto e il veicolo. La
tomba tebana n° 82 di Amenemhat, scriba vissuto sotto il regno di Thutmosi III
(XVIII dinastia), ci offre un elenco di numerose componenti dell’individualità. Sulla
parete sud della cappella, un’iscrizione invoca delle offerte
«per il suo ka, per la sua stele [abA], per la sua tomba nella necropoli,610 per il suo
destino [SAw], per la sua durata di vita [aHa], per la sua nascita [msxnt], per la sua
crescita [rnnt], per il suo Khnum».
Sulla parete nord leggiamo, invece:
610
Le trad. del passo proposte da A. Gardiner e A. Hermann in questo punto del testo divergono: secondo
Gardiner viene invocata la «stele che appartiene a questa tomba che è nella necropoli»; secondo Hermann, invece,
la «tomba» costituisce una componente ulteriore dell’essere umano, menzionata di seguito alla stele. Per le
indicazioni bibliografiche, cfr. la nota seguente.
186
«per il suo ka, per la sua stele, […] per il suo [ba], per il suo akh, per la sua spoglia
[XAt], per la sua ombra [Swt] e per tutte le sue forme di apparizione [xprw=f nbw]».611
Questa iscrizione tombale è unica nel suo genere. In questo contesto, anche la «stele»
e la «tomba» sono annoverate tra gli elementi costitutivi dell’individualità umana. Il
testo della parete nord presenta una lacuna nel punto in cui venivano menzionati il
ba e, probabilmente, il cuore.612
Tracciando la mappa della costellazione umana, ci siamo soffermati in primo luogo su
quelle che, a nostro avviso, sono le due «coordinate» fondamentali del sistema: il ka e
il ba. Entrambe le componenti, anche se con modalità differenti, sono espressione
della forza vitale insita nel cosmo e del potere di generazione. Oltre a costituire due
aspetti dell’individualità umana, esse sono, infatti, anche dei principi cosmici.
Entrambe, come abbiamo cercato di evidenziare, manifestano capacità dinamiche e
connettive. Il ba, elemento mobile per eccellenza, agisce su un piano sincronico, cioè
della simultaneità. Esso con il suo movimento tiene insieme le varie parti sia del
macrocosmo che del microcosmo, costituito dall’uomo. Il ka «si muove», invece, su
un piano diacronico, in quanto principio che determina la continuità generazionale,
trasmettendo un’identità nel tempo.
Il ba e il ka determinano, quindi, l’orizzonte e il raggio d’azione della natura umana.
Il centro individuato dall’intersezione dei due «assi» principali lo abbiamo assegnato
al cuore-ib, sede della volontà, della memoria e più in generale della coscienza
dell’individuo. Riferendoci all’elemento centrale della costellazione dell’individualità
umana, abbiamo menzionato anche il «nome» (ren).613 Per gli Egiziani, il nome in
generale non rappresenta un aspetto puramente formale; non si tratta, cioè, di una
semplice «etichetta» utilizzata per contrassegnare un determinato ente. Nominare
una cosa significa farla esistere. Nel mondo ultraterreno è indispensabile che
l’individuo conservi il proprio nome per poter continuare a sussistere. Il nome è,
infatti, ciò che conferisce a un essere umano la sua peculiarità o, in altri termini, la
sua identità.614 Cancellare il nome di un uomo dal suo monumento funebre significa
611
La trad. segue quella tedesca di A. Hermann, in Id., Die Stelen der thebanischen Felsgraber der 18. Dynastie,
Augustin, Glückstadt 1940, p. 152. Cfr. anche A. Gardiner, The tomb of Amenemhet, Egypt Exploration Found,
London 1915, p. 99.
612
Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., p. 143
613
Cfr. supra, p. 78.
614
In proposito, cfr. P. Vernus, Name, in Lexikon der Ägyptologie, vol. IV, Harrassowitz, Wiesbaden 1982, coll.
320 sgg. Sui nomi propri egiziani, benché non documenti gli sviluppi recenti della ricerca in questo campo,
rimane un classico il lavoro di H. Ranke, Die ägyptischen Personennamen, 3 voll., Augustin, Glückstadt 19351977.
187
precludergli la possibilità di una vita ultraterrena.615 Molti passi della letteratura
religiosa egiziana mettono in risalto l’importanza e la natura divina del nome e
ribadiscono la necessità da parte del defunto di ricordare il proprio nome nell’aldilà.
Una formula dei Testi dei Sarcofagi recita così:
«O Thot! O Thot! Il Grande […] Io sono apparso. Eccomi, sono con il mio nome
[rn=j]: è un essere divino [nTr] il mio nome; è escluso che io lo dimentichi, questo
nome che è mio! O Bat, Iside, non colpite il mio nome con ignominia! E’ un essere
divino il mio nome: è escluso che io lo dimentichi, questo nome che è mio! O RaAtum! O Khepri! Sono io che ho creato la festa del “Giorno dell’Anno” e conosco il
mio nome: è un essere divino questo mio nome che è in questo mio corpo [Xt]!
[Dilaniate] a mio beneficio colui che ha tolto il mio nome e il mio cuore [HAty] dalla
mia mano, poiché è escluso che io dimentichi questo mio nome presso il Signore del
Giudizio!».616
La formula, oltre a identificare a più riprese il nome personale con una divinità, lo
mette in relazione, a un certo punto, con il cuore-haty. Nell’ambito delle fonti
religiose egiziane, il legame tra il nome e il cuore emerge in modo esplicito nel Testo
di teologia menfita, dove la creazione di tutto ciò che esiste viene descritta come
l’effetto dell’azione del verbo pronunciato dal demiurgo Ptah. Secondo questo
documento, infatti, i nomi che la lingua (ns), assimilata al dio Thot, articola sono
pensati dal cuore (HAty / ib), assimilato ad Horo.617 In proposito, un'altra
testimonianza significativa è costituita da un passo dei Testi dei Sarcofagi che
richiama il processo di creazione.618 In questo contesto, il dio Atum viene
riconosciuto come il demiurgo che genera l’esistente accoppiandosi con se stesso. Il
dio Hapy, che recita in prima persona la formula, evidenziando l’importanza del
proprio ruolo nell’opera di creazione, si riferisce, tuttavia, anche a un’altra tradizione,
secondo la quale il demiurgo di Eliopoli avrebbe generato il cosmo per mezzo del
verbo, scaturito dal suo cuore-ib:
«La sua parola [rA=f] è ciò che è uscito dal suo proprio ib».619
615
La damnatio memoriae era una pratica piuttosto diffusa in Egitto. Citiamo soltanto questo esempio illustre:
sulla parete di un corridoio del tempio funerario di Sethi I ad Abido compare una lista di sovrani che riporta 76
nomi, da Menes a Sethi I. L’elenco, tuttavia, non è completo; mancano, per es., i nomi di Hatshepsut e Akhenaton.
616
CT, formula 411.
617
Cfr. supra, pp. 24 sg.
618
Cfr. CT, formula 321.
619
CT, IV, 147 h.
188
Questo aspetto viene ribadito poco oltre dall’appello delle due divinità Hu e Sia,
personificazioni rispettivamente del verbo creatore e della conoscenza:
«Vieni, dunque, affinché andiamo e creiamo i nomi [rnw] di questo meandro [qAb pf],
conformemente a ciò che è uscito dal suo ib».620
In questa formula si parla di ib, nel Testo di teologia menfita si alternano, invece, i
termini ib e haty. Abbiamo visto precedentemente che questi vocaboli esprimono
concetti strettamente correlati: l’haty è il luogo dove l’ib si manifesta meglio, è la sede
dell’ib (st ib).621
Le fonti confermano, quindi, in modo esplicito la stretta interdipendenza tra il nome
(ren), o la parola (ra), e il cuore (haty-ib). I nomi esprimono e attuano ciò che è
contenuto nella sfera cardiaca. Si tratta dei due aspetti complementari nei quali si
manifesta il centro della costellazione Uomo.
Alla nascita, l’infante egiziano riceve uno o due nomi. L’attribuzione del nome è
generalmente compito della madre, «che ripete, così, attraverso una creazione
verbale, la sua creazione fisica, tant’è vero che il nome è legato consustanzialmente
all’essere che designa. Di qui l’espressione rn=f n mwt=f, “il suo nome di sua madre”, e
la preminenza della filiazione materna nei testi magici, per colpire la vittima nella sua
identità più essenziale».622
Il fatto che spetti alla madre attribuire il nome al nuovo nato può essere messo in
relazione, a nostro avviso, con la teoria fisiologica secondo la quale la struttura
anatomica dell’ib e le parti corporee ad esso afferenti sono generate dalle secrezioni
materne. Entrambi gli elementi, essendo strettamente legati tra loro, condividono la
medesima origine, sono cioè il frutto dell’apporto materno.
Anche il nome manifesta una natura dinamica; nel corso dell’esistenza esso subisce,
infatti, delle modifiche: può essere, per esempio, accorciato, per ragioni pratiche, o
sostituito da un soprannome. Oppure, in virtù del comportamento meritevole del suo
portatore, può essere arricchito da un epiteto di gloria o sostituito da un nuovo nome
(per esempio, basiloforo). A causa di una cattiva condotta, invece, il nome può subire
delle modifiche in senso dispregiativo. Il nome personale, essendo espressione
dell’essenza di un individuo, si modifica, quindi, in ragione dei cambiamenti che
caratterizzano l’esistenza del suo portatore.
620
CT, IV, 147 l. Il termine qAb, che abbiamo tradotto con «meandro», seguendo la lettura di Carrier, indica in
questo contesto una dimensione indifferenziata.
621
Cfr. supra, pp. 81 sgg.
189
Le nozioni di ba, ka, ib e ren ci permettono di delineare l’impalcatura fondamentale
dell’individuo articolare; si tratta di componenti sottili, ossia non immediatamente
tangibili, che per manifestarsi ed essere operative necessitano di un supporto
corporeo. Tra la parte più sottile dell’essere umano e la sfera corporea si colloca
l’«ombra» (Swyt o xAybt). Abbiamo rilevato, infatti, che questo elemento
dell’individualità, pur non essendo di natura fisica e mostrando una certa somiglianza
con il ba, rimane ancorato al corpo e alla dimensione terrena.623 L’ombra sembra
costituire, quindi, una «regione» intermedia all’interno della costellazione umana.
Per quanto riguarda la sfera corporea, essa si dispiega su due versanti, che abbiamo
descritto ricorrendo alle categorie di «corpo articolare» e «corpo inviluppo». In
questa prospettiva, il corpo risulta essere una rete di relazioni dotata di un involucro
che funge da luogo di gestazione. Sul versante articolare, il corpo è un insieme di
ossa, tenute insieme dalla rete dei condotti-met, lungo i quali sono convogliate le
correnti vitali di origine divina che mantengono coeso e mobile l’individuo. Il centro
direttivo del sistema è costituito dal binomio haty-ib. In quanto involucro, invece, il
corpo è una matrice che protegge e rielabora le parti che formano tra loro una rete di
relazioni. Sul piano cosmico, esso è il ventre della dea Nut, che quotidianamente
rigenera il sole e all’interno del quale il corpo di Osiri viene definitivamente
riarticolato e rianimato.
Rivolgendoci al processo di ricostituzione del corpo osiriano, abbiamo individuato
nell’ib il trait d’union tra i due aspetti della corporeità, quello articolare e quello
relativo all’involucro.624 L’ib di Osiri viene rigenerato grazie all’intervento della
discendenza del dio, grazie all’azione, cioè, dei quattro figli di Horo, ciascuno dei
quali ha ricevuto dal padre una parte dell’ib osiriano, che Iside ha, a sua volta,
precedentemente trasmesso al figlio a partire dalla semenza prodotta dalla
dissoluzione delle parti anatomiche afferenti all’ib dello sposo defunto. Di questi
elementi corporei fanno parte anche le viscere contenute nello shet. Se da un lato,
dunque, l’ib, come abbiamo mostrato, è il fulcro del corpo articolare, dall’altro
partecipa anche del corpo inviluppo. Le ragioni di questa «partecipazione» possono
essere sintetizzate meglio così:
622
P. Vernus, Namengebung, in Lexikon der Ägyptologie, vol. IV, cit., coll. 326 sg.
623
Cfr. supra, pp. 137 sgg.
624
Cfr. supra, pp. 111 sg.
190
1) l’ib è generato dalla dissoluzione delle carni e delle parti molli che afferiscono al
corpo inviluppo. Nella riproduzione degli esseri umani queste secrezioni sono di
origine materna. Nel caso degli dei possono derivare anche dal padre;
2) la struttura anatomica dell’ib comprende anche le viscere dello shet.
Per quanto riguarda invece la componente umorale, nel capitolo precedente
l’abbiamo definita un’«intersezione dinamica» tra i due versanti della corporeità. Gli
umori, infatti, da una parte costituiscono la componente fisiologica dei fluidi che
transitano nel circuito dei condotti-met,625 dall’altra sono secrezioni delle viscere
dello shet, prodotti eventualmente anche dalla loro decomposizione.
La struttura articolare e l’involucro costituiscono due aspetti inscindibili della
dimensione corporea. Durante la vita terrena, tuttavia, l’elemento articolare detiene
un primato: il corpo vivente è anzitutto un sistema di parti mobili in relazione tra
loro. Con il sopravvenire della morte, invece, del corpo non rimane che un involucro,
che può essere aperto e trattato chirurgicamente. L’insieme delle pratiche chirurgiche
e rituali effettuate sul cadavere (XAt) sono funzionali al ripristino della connettività e
della motricità corporee, che l’individuo ha perso al momento del decesso. La morte
pone, infatti, l’essere umano nella condizione di una sommatoria di pezzi
disarticolati. Ciò è riscontrabile su due livelli:
1) quello delle componenti «sottili» della costellazione Uomo: esse non formano
più un sistema di relazioni;
2) quello corporeo: non c’è più un corpo articolare, ma soltanto un involucro che
contiene delle parti non articolate.
Al termine del processo di mummificazione e delle liturgie che l’accompagnano, tutte
le componenti del defunto si trovano riorganizzate in un nuova rete di relazioni; esse
formano una nuova costellazione che ha il suo «supporto» in un corpo riarticolato e
divinizzato, fatto, cioè, di un’altra sostanza rispetto a quello terreno. L’individuo è
diventato un akh, un trasfigurato e continua ad esistere nell’aldilà. In questo nuovo
stato è ancora l’aspetto articolare a prevalere. Questa condizione privilgiata è
riservata a coloro che sono vissuti in accordo con la legge di Maat. Coloro che, invece,
se ne sono discostati vanno incontro alla cosiddetta «seconda morte», ossia alla
perdita dell’individualità o, in altri termini, dell’identità personale.
625
Ribadiamo che nei condotti-met, oltre ai liquidi fisiologici, transitano anche le correnti dinamiche provenienti
dall’esterno.
191
Si tratta di motivi sui quali le fonti religiose egiziane ritornano costantemente.
Relativamente alla questione della perdita della connettività e della motricità delle
membra di un defunto e della loro successiva riarticolazione, a nostro avviso, è
interessante richiamare alcune pratiche di inumazione che prevedevano lo
smembramento del cadavere, risalenti al Predinastico, soprattutto al periodo
Naqadiano. Diverse sepolture di quest’epoca fanno pensare, infatti, a un’inumazione
in due tempi: una prima in cui probabilmente il cadavere era lasciato seccare, in
modo da essere privato dei suoi residui organici, e una seconda in cui le ossa
venivano riorganizzate.626
A proposito della disarticolazione e della ricomposizione delle ossa del defunto,
Rodolfo Fattovich commenta: «In questo rito il ricongiungimento della testa al corpo
doveva essere il momento culminante delle cerimonie funebri; esso infatti permetteva
al morto di entrare nell’aldilà, come si può dedurre dalla formula 372 dei Testi delle
Piramidi (TP 654 a – 657 e). La mutilazione pertanto costituiva verisimilmente un
vero e proprio rito di passaggio dalla condizione di vivo a quella di morto».627
Proseguendo il discorso su questa pratica, tuttavia, lo studioso aggiunge: «Il suo
significato ci sfugge completamente. Secondo la Murray essa avrebbe avuto lo scopo
di distruggere la “potenza” di certi individui, considerata pericolosa per la comunità;
secondo Moret essa andrebbe ricollegata ad una forma arcaica del mito di
Osiride».628 Anche noi siamo dell’avviso che questi rituali abbiano a che fare in
qualche modo con il mito osiriano. Più in generale, riteniamo che possa trattarsi
dell’espressione di una protoforma del modello antropologico che stiamo esponendo.
2. Il corpo «attuale»
Alla luce di quanto esaminato, l’immagine del corpo che emerge dalle fonti egiziane è,
a nostro avviso, quella di un veicolo e di un supporto dell’individualità, la cui natura
non è legata esclusivamente alla dimensione terrena. Che l’essere umano si trovi sulla
terra o in una regione ultraterrena, egli necessita comunque di un corpo per potersi
626
Sulle sepolture dell’epoca predinastica cfr., per es.,: B. Midant-Reynes, Aux origines de l’Égypte. Du
Néolithique à l'émergence de l'État, Fayard, Paris 2003, pp. 151 sgg. Cfr. anche B. Midant-Reynes et al., ElAdaïma, un site prédynastique de Haute-Égypte, in Égypte, 8 (1998), pp. 6 sgg.
627
R. Fattovich, Le sepolture predinastiche egiziane: un contributo allo studio delle ideologie funerarie della
preistoria, in G. Gnoli, J.-P. Vernant (a cura di), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge
University Press, Ed. de la Maison des sciences de l'homme, Cambridge, London, Paris 1982, p. 425.
628
Ibid., p. 426.
192
manifestare e per poter interagire con l’ambiente circostante. Questo corpo, nei suoi
due aspetti di sistema articolare e involucro, dovrà essere necessariamente
«consustanziale» alla dimensione in cui l’individuo si trova, per poter svolgere
pienamente la sua funzione di supporto e veicolo. Un corpo ultraterreno sarà,
dunque, «sostanzialmente» diverso da uno terreno, ma svolgerà il medesimo ruolo
nel contesto della costellazione Uomo.
La sfera corporea non è concepita, pertanto, come l’espressione della temporanea
permanenza dell’essere umano sulla terra, bensì, in senso più ampio, come il segno
tangibile della sua appartenenza all’esistente. La corporeità pensata e vissuta
dall’uomo egiziano manifesta una natura che potremmo definire «trascendentale».
Questo termine, nell’ambito della speculazione filosofica occidentale, ha assunto
accezioni differenti. In questo contesto, lo utilizziamo per significare che il corpo è
«condizione di possibilità» dell’esistenza.
Designamo la sfera corporea concepita in questo modo con l’espressione «corpo
attuale». Questa locuzione vuole indicare, in una prima accezione, ciò che supporta e
rende operativa (pone cioè in atto) un’individualità in una determinata regione
dell’esistente. Il termine «attuale» rinvia, inoltre, a un hic et nunc, ossia a una
spazialità e a una temporalità che, in questo caso, possono essere di natura terrena o
ultraterrena. Le componenti sottili dell’individuo sono, quindi, in grado di
manifestarsi, agire e produrre effetti tangibili nel luogo del mondo «attualmente»
abitato soltanto attraverso il veicolo corporeo. Il corpo attuale è una condizione di
possibilità dell’esistenza che si specifica, si «localizza». Un individuo che dispone di
un corpo attuale terreno può agire e manifestarsi soltanto sulla terra. Il suo veicolo
corporeo, come abbiamo evidenziato, è un ricettacolo di correnti vitali di provenienza
ultraterrena, divina. Queste, una volta convogliate nella dimensione terrena,
producono in essa degli effetti concreti. Anche nel caso del sacerdote ritualista che
interagisce con le forze magiche (HkAw) del cosmo, si tratta dell’azione di un individuo
terreno che opera per ottenere dei risultati tangibili sulla terra. A sua volta, il defunto
che è vissuto nel rispetto della legge di Maat, per poter continuare la propria
esistenza nell’aldilà ed esercitare in esso la propria azione, necessita di un nuovo
corpo che sia della stessa natura della dimensione in cui egli sta per entrare.
Dai resti del corpo terreno, che la morte ha reso una sommatoria di pezzi disarticolati
contenuti in un involucro, inizia il processo di generazione del nuovo corpo attuale.
Trattando del mito di Osiri come modello antropologico, ci siamo soffermati su alcuni
193
dei numerosi passi della letteratura religiosa egiziana che sviluppano questa tematica.
Al termine del suo iter di rigenerazione, il defunto può recitare parole come queste:
«Le mie ossa [qsw] sono state portate, le mie membra [awt] sono state riunite, ciò che
mi era stato tolto mi è stato riportato, è stato per me riunito ciò che mi [era stato tolto
(?)] […] I miei due occhi sono stati aperti per me, affinché io possa vedere grazie ad
essi, da parte di Khenty-en-irty […] Le mie due orecchie sono state aperte per me,
affinché possa sentire grazie ad esse, da questo grande falco al quale nessuno parla
[…] L’amuleto-uadj è al mio collo, affinché il soffio [TAw] non sia separato dal mio
naso: che esso non sia separato!».629
Il nuovo corpo attuale, articolato e percorso da correnti vitali, funge da supporto e
veicolo dell’individualità nel mondo ultraterreno. La mummia è il luogo di gestazione
dal quale esso sorge. Per quanto riguarda il corpo mummificato (saH), abbiamo
identificato in esso un primo stadio di dignificazione (saH) del defunto che si sta
trasformando in un akh.630 Abbiamo, inoltre, cercato di mettere in evidenza come, a
nostro avviso, l’involucro mummiforme contenga in nuce la struttura del corpo
articolare. Le bende riproducono la rete dei condotti-met, mentre gli oli
rappresentano le correnti dinamiche che scorrono nei canali.631
Quando
l’individuo
raggiunge
lo
stato
di
akh,
l’involucro
mummiforme
metaforicamente si apre, per fare uscire il nuovo essere purificato e rigenerato alla
luce del giorno:
«Io ho aperto i mattini del giorno [dwAwt hrw], ho aperto le porte delle tombe. Ho
salutato Ra che è nel suo giorno. Ho estirpato il male di Osiri che è nella sua notte.
[…] Or dunque Osiri ha detto riguardo a me: “che gli siano date le sue ossa [qsw], che
gli siano portate le sue membra [awt], che sia rimesso insieme il suo corpo [Haw]! […]
Le bende [Htr] che erano sulla mia bocca sono state tolte e il bendaggio [annw] che era
sul mio corpo [Xt] è stato strappato, di modo che io mangio con la mia bocca e defeco
con il mio ano. Questa impurità è uscita dalla mia bocca».632
Terminato il processo di ricostituzione corporea, la funzione della mummia sembra
essere ormai esaurita. Tuttavia, essa viene accuratamente conservata per l’«eternità»,
riposta in un sarcofago il cui nome è «Signore della vita» (nb anx). La letteratura
629
CT, II, 117 b-d; f; h; j-k.
630
Cfr. supra, pp. 125 sg.
631
Cfr. supra, pp. 122 sgg.
632
CT, II, 113 b-e; 113 k – 114 a; 115 b-f.
194
religiosa insiste, inoltre, sul fatto che le componenti dell’individualità mantengono un
legame con il corpo mummificato. In particolare, il ba ogni notte scende nella tomba
per ricongiungersi alla spoglia mortale. Ciò può far pensare da un lato a una
rigenerazione perpetua, che si rinnova ogni giorno, sul modello del ciclo solare,
dall’altro alla necessità del mantenimento del corpo terreno per la sopravvivenza
dell’individuo, dopo la morte. In realtà, il defunto nello stato di akh dispone ormai di
un nuovo corpo attuale, simile a quello degli dei, un corpo cioè che, nella dimensione
ultraterrena, gli consente di manifestarsi e interagire con l’ambiente che lo circonda.
Il nuovo veicolo corporeo non gli permette più, tuttavia, di essere attivo anche sulla
terra. A nostro avviso, la conservazione del corpo mummificato pone, invece,
l’individuo akh nelle condizioni di poter essere ancora presente e agire nella
dimensione terrena.
La mummia rappresenterebbe, pertanto, un surrogato del corpo terreno. Attraverso
di essa è possibile mantenere un legame tra il cielo e la terra: coloro che abitano tra le
stelle imperiture portano il cielo in terra, contribuendo alla coesione delle diverse
regioni dell’esistente. L’opera degli akhu si associa, così, a quella del faraone, il cui
compito è quello di legare la terra al cielo, realizzando la Maat all’interno dello stato,
organismo essenziale al benessere degli individui che, per funzionare adeguatamente,
deve essere l’esatta riproduzione del cosmo.
La dimensione della corporeità in quanto supporto richiama, a nostro avviso, anche il
concetto di «collina primordiale». Secondo le narrazioni cosmogoniche, infatti, il dio
demiurgo, per poter dare inizio alla sua opera, necessita di un sostegno su cui stare.
La teologia di Eliopoli lo rappresenta come una collina che emerge dalle acque
limacciose del Nun. Altre tradizioni teologiche egiziane ricorrono, invece, alle
immagini di un fiore di loto che emerge dagli abissi, di un’isola di fiamma, oppure di
una grande vacca che porta la divinità solare tra le corna. Grazie a questo supporto, il
demiurgo può sorgere dall’abisso primordiale e manifestarsi dando vita all’esistente.
Il corpo, a sua volta, è il supporto e il mezzo di ogni possibile esperienza nell’ambito
dell’esistente.
Utilizzando un’espressione egiziana, il corpo attuale nella sua bipolarità (sistema
articolare e involucro) potrebbe essere definito a pieno titolo set-ankh (st anx), ossia
«sede della vita». Esso è il luogo epifanico dell’individualità o, in altri termini, della
costellazione Uomo. Soltanto quando è in possesso del proprio corpo un individuo
può essere, in senso pieno, un «vivente».
195
Nella concezione corporea egiziana ritroviamo i tre pilastri dell’ontologia: dualismo,
complementarietà e movimento. I due versanti della corporeità sono, infatti,
complementari tra loro e non separabili. Essi formano, inoltre, un sistema in
movimento che, attraversando le tre fasi costituite dalla vita terrena, dalla morte e
dalla vita ultraterrena, progressivamente si riconfigura.
3. La «performatività» del corpo: il canone artistico
Oltre a essere un sistema in movimento, il corpo attuale è, nello stesso tempo, un
sistema che genera movimento. E’ grazie al veicolo corporeo, infatti, che l’individuo
ha la possibilità di entrare in relazione con il mondo che abita e produrre in esso degli
effetti. Adottando un termine introdotto negli anni Cinquanta del secolo scorso in
ambito linguistico-analitico e fatto proprio ormai anche dagli egittologi, potremmo
parlare di «performatività» del corpo.633 E’, dunque, nella prassi che per gli Egiziani
si può cogliere pienamente la natura della sfera corporea.
Per chiarire meglio questo aspetto e per dare maggiore completezza all’immagine
egiziana della corporeità che stiamo delineando, ci rivolgeremo alle modalità di
riproduzione artistica della figura umana e all’utilizzo della gestualità nella musica.
Più precisamente, prenderemo in considerazione il «canone» artistico e, nel
paragrafo che segue, il fenomeno della «chironomia».
Relativamente alle origini dell’arte egiziana, in un celebre saggio scritto verso la metà
del Novecento, Donadoni pone l’accento sul «carattere realistico di questa arte
primitiva, che è assai più interessata a “creare” che a “rappresentare”. Una
figurazione, sia in disegno che in rilievo, non tende tanto a mostrare, in questa civiltà,
cosa sia il mondo figurativo del suo autore, quanto a creare un sostituto del mondo
sensibile. E’ in certo modo magia disegnativa». Poco oltre aggiunge: «L’opera
figurativa assume qui un’indipendenza e una autonomia non appena è creata […]
Non per nulla in egiziano si dice “partorire” e non scolpire una statua».634
Quanto sostenuto da Donadoni a proposito dell’arte della preistoria e della
protostoria egiziane, in linea generale, può essere considerato valido per l’arte
egiziana nel suo complesso. Diversi studi condotti nella seconda metà del Novecento,
633
Secondo la «teoria degli atti linguistici» elaborata da John Austin, un enunciato è performativo quando non è
utilizzato per comunicare qualcosa (in modo vero o falso), ma per compiere un’azione. In proposito, cfr.: J.
Austin, Come fare cose con le parole, trad. it. di C. Villata, Marietti, Genova 1987. Cfr. anche infra, p. 262.
196
infatti, hanno messo in evidenza che la funzione principale delle pitture e delle
sculture realizzate nell’antico Egitto non era quella di essere contemplate e
apprezzate da un punto di vista estetico. Erik Iversen, per esempio, introducendo la
questione del canone utilizzato per scolpire o dipingere figure umane afferma:
«Poiché una parte sostanziale dell’arte egiziana non fu mai concepita per essere vista
da occhi mortali, la manifestazione di qualità decorative ed estetiche non può essere
stata il suo principale scopo, che era indubbiamente di natura metafisica e magica. E’
stata, infatti, una convinzione nella realtà magica dell’arte, nel suo presunto potere di
perpetuare sul piano di una quarta dimensione, al di là di spazio e tempo, la vita e
l’esistenza dei suoi modelli che ha dato impulso all’impareggiabile produzione
artistica degli Egiziani […] Le rappresentazioni scultoree erano di conseguenza in
primo luogo non degli oggetti di bellezza e di diletto, bensì entità magiche cariche di
significato fatale».635
Studiando la pittura egiziana e, più specificamente, quella delle tombe tebane,
Roland Tefnin ha espresso considerazioni analoghe. L’atto di ammirare un’immagine
e fruirne in senso estetico non costituisce il vero scopo per cui essa è stata creata da
un artista. Si tratta di un aspetto secondario. Le immagini hanno in primo luogo la
funzione di «far esistere ciò che rappresentano. Questa funzione principale è
evidentemente magica o, più precisamente, performativa».636
In virtù della sua natura fondamentalmente «performativa», l’arte egiziana non è
«imitativa». Gli artisti egiziani non erano interessati, infatti, a rappresentare gli
oggetti come appaiono in uno spazio e in un tempo determinati, da un certo punto di
vista. Essi volevano cogliere, invece, «la natura durevole» delle scene raffigurate.
Stabilirono, pertanto, «delle convenzioni per codificare le informazioni sul mondo
che desideravano esprimere. […] Una convenzione fondamentale era che gli oggetti
erano mostrati in ciò che era considerato come la loro forma più caratteristica,
indipendente dal tempo e dallo spazio».637 Poiché l’opera d’arte rivela l’essenza, essa
ha il medesimo statuto dell’oggetto riprodotto. Un corpo umano scolpito o dipinto ne
può sostituire, quindi, uno in carne ed ossa. Il rituale di apertura della bocca, per
634
S. Donadoni, Arte egizia, Einaudi, Torino 1982, p. 27.
635
E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, Aris and Phillips, Warminster 1975, p. 6.
636
R. Tefnin, Comment lire la peinture des tombes thébaines de la XVIII dynastie?, in L’arte nel Vicino Oriente
antico. Bellezza, rappresentazione, espressione. Atti del convegno internazionale, Milano, 12 marzo 2005,
Edizioni Ares, Milano 2006, pp. 53 sg.
637
G. Robins, Proportion and style in ancient Egyptian art, University of Texas Press, Austin 1994, p. 3.
197
esempio, nella sua fase più antica veniva eseguito sulla statua del defunto.638
Similmente, la statua di un dio rappresenta per quest’ultimo un «corpo terreno»,
attraverso il quale egli può manifestare la sua potenza e la sua azione sulla terra.
Erwin Panofsky sintetizza con chiarezza la differenza tra la figura umana creata da un
artista greco e la medesima creata da un artista egiziano: «Per i greci l’effige plastica
ricorda un essere che è stato vivo; per gli egiziani è un corpo che attende di essere
richiamato in vita. Per i greci l’opera d’arte esiste in una sfera di idealità estetica, per
gli egiziani in una sfera di realtà magica. Per gli uni fine dell’artista è l’imitazione
(mivmhsi~), per gli altri la ricostruzione».639
La performatività di un corpo riprodotto artisticamente è, tuttavia, la conseguenza di
una performatività più originaria, quella intrinseca alla dimensione corporea in
generale. Per essere realmente performative, quindi, la statua o l’immagine dipinta di
un individuo dovranno rispettare le proporzioni naturali del corpo. A questo scopo,
viene introdotto un «canone».
Il primo studioso a parlare di un canone egizio fu Richard Lepsius, che scoprì in
alcune tombe di Saqqara delle figure ancora inscritte nelle linee guida originali,
utilizzate dagli artisti per eseguire la loro opera. 640 L’analisi di queste figure mise in
evidenza che l’altezza era misurata dal piede alla linea dei capelli, lungo una linea
verticale passante per l’orecchio e la biforcazione delle gambe. Questa linea centrale,
che divideva il tronco in due parti uguali all’altezza delle ascelle e il piede in due parti
in rapporto di 1 : 2 tra loro, era intersecata da altre linee orizzontali, passanti per il
ginocchio, il polso e la natica, il gomito, le ascelle, la nuca e, infine, la linea dei capelli
(fig. 1). Lepsius notò che la lunghezza del piede corrispondeva alla distanza tra il
gomito e il polso e rappresentava 1/6 dell’altezza della figura, misurata dal piede alla
linea dei capelli. Poiché questa lunghezza, equivalente alla «misura 2/3» della
metrologia egiziana, era uguale a quella del piede utilizzato nella metrologia greca e
romana, lo studioso concluse che doveva esserci una connessione stretta tra il canone
e la metrologia egiziani. In seguito, tuttavia, considerando che il piede non costituiva
un’unità di misura autonoma nella metrologia egiziana, Lepsius abbandonò questa
teoria.
638
Cfr. supra, p. 126.
639
E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1962, p. 68.
640
Lepsius visitò queste tombe durante la sua celebre spedizione in Egitto, compiuta tra il 1842 e il 1845 e
patrocinata dal re di Prussia Friedrich Wilhelm IV. Sulla questione del canone, cfr. R. Lepsius, Die Längenmasse
der Alten, Hertz, Berlin 1884.
198
Fig. 1 (R. Lepsius, Denkmäler aus Aegypten und Aethiopien, vol. I, 1849, p. 234)
199
La conclusione fu che l’arte egiziana aveva conosciuto tre sistemi di proporzioni
differenti:641
1) dalla III alla XII dinastia, una divisione del corpo mediante un modulo
corrispondente a 1/6 dell’altezza canonica (pianta del piede – linea dei capelli);
2) dalla XII dinastia, una griglia che divide l’altezza canonica in 18 quadrati (fig. 2).
Lepsius considerò questo secondo sistema un perfezionamento del primo,
ottenuto tramite una divisione meccanica del vecchio modulo in tre parti;
3) dalla XXVI dinastia, una griglia di 21 quadrati che copre la distanza tra la pianta
del piede e la linea degli occhi (fig. 3).
Gli studi sul canone compiuti da Iversen a partire dalla metà del secolo scorso
mostrano che, in realtà, la divisione lineare, della quale è stata trovata traccia nelle
tombe dell’Antico Regno, non rappresenta un sistema di proporzioni differente da
quello delle griglie documentato a partire dal Medio Regno. Si tratta, invece, del
medesimo sistema, espresso con un modulo che in un caso corrisponde a 1/6
dell’altezza canonica e nell’altro a 1/18 della medesima. «La divisione lineare, che è
basata sul modulo più grande e che, di conseguenza, riflette le proporzioni con un
minore grado di accuratezza, non rappresenta, pertanto, uno stadio più vecchio, più
primitivo o embrionale dell’evoluzione del canone, ma lo stesso sistema delle griglie,
del quale è solamente una semplificazione tecnica riservata a scopi specifici: il
proporzionamento di servi e dipendenti, la cui accuratezza proporzionale era
considerata di secondaria importanza. Il fatto che nessun esempio di figure inscritte
nelle griglie originali ci sia finora pervenuto dall’Antico Regno sarebbe, quindi,
puramente accidentale».642
Il canone rappresenta una standardizzazione delle relazioni intercorrenti tra le varie
parti anatomiche, il cui scopo è quello di garantire la conformità della figura
realizzata dall’artista alle proporzioni naturali del corpo umano. Da un punto di vista
fisiologico, infatti, le mutue relazioni tra le parti del corpo, sono relativamente
costanti in tutti gli individui e indipendenti dalle dimensioni corporee.
Come in altre civiltà antiche, anche in quella egiziana le principali unità di misura
della metrologia sono ricavate dalle parti anatomiche e dalle loro suddivisioni.
641
Cfr. E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., p. 28.
200
Fig. 2 (E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., tav. 4)
642
Ibid., p. 29.
201
Fig. 3 (Ibid., tav. 23)
202
L’unità fondamentale del sistema metrologico egiziano è il cubito (mH), che
corrisponde alla distanza tra il gomito e la punta del pollice. Un cubito è suddiviso in
6 palmi (Ssp), ognuno dei quali equivale a 4 dita (Dba). La distanza tra il gomito e il
polso, suddivisa in 4 palmi è la cosiddetta «misura 2/3», in quanto rappresenta 2/3
del cubito. La lunghezza del braccio dalla spalla al gomito è, invece, il remen (rmn),
che misura 5 palmi, mentre la distanza tra i due pollici, misurata con le braccia
estese, corrisponde a un fathom, uguale a 4 cubiti. Per la costruzione di edifici
pubblici o di culto il «piccolo» cubito era sostituito dal cubito reale, misurato dal
gomito alla punta del dito medio (=7 palmi o 28 dita).643
Abbiamo elencato le principali unità di lunghezza. Esistono, tuttavia, ulteriori
suddivisioni; di queste, le più rilevanti ai fini del nostro discorso sul canone sono il
pollice (1/12 della misura 2/3 oppure 1+1/3 di dito) e il pugno (4 dita + 1 pollice).
L’insieme di queste unità di misura è schematizzato con chiarezza nel disegno
seguente:
Fig. 4 (Ibid., tav. 9)
643
Il rinvenimento di alcune delle aste cubito utilizzate nel culto funerario ha permesso di ricavare i valori
numerici delle lunghezze del piccolo cubito e del cubito reale, rispettivamente di 0,450 m e 0,525 m. Si tratta,
tuttavia, di valori medi ed è necessario tenere presente che, in relazione al canone, l’aspetto fondamentale è
costituito dall’insieme dei rapporti tra le varie unità metrologiche e non dai valori numerici corrispondenti. Un
sistema di proporzioni è, infatti, adimensionale e, pertanto, indipendente dal valore numerico attribuito alle
misure di lunghezza. Cfr. E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., p. 17.
203
Nel sistema delle linee guida documentato nelle tombe dell’Antico Regno (fig. 1), il
modulo utilizzato, il piede (1/6 dell’altezza canonica), corrisponde alla misura 2/3
della metrologia. L’altezza canonica è, invece, equivalente a un fathom. Nel sistema
delle griglie (fig. 2), il modulo, cioè il lato di un singolo quadrato, è uguale a 1/3 della
misura 2/3, che corrisponde al pugno delle misure di lunghezza. I due sistemi sono
sovrapponibili tranne che per un particolare: la linea passante per le ascelle non trova
corrispondenza nelle griglie (divide a metà il quindicesimo quadrato; fig. 5).
Il canone artistico si fonda, quindi, sulla metrologia che, a sua volta, esprime un
sistema di rapporti tra parti anatomiche. Il sistema di proporzioni egiziano, secondo
la definizione formulata da Iversen, è «una descrizione antropometrica del corpo
umano, basata sulla standardizzazione delle sue proporzioni naturali espresse nella
misura egiziana di lunghezza. Come riflessi diretti del sistema, le griglie possono
essere definite similmente delle proiezioni geometriche delle proporzioni canoniche,
basate sulla identificazione del quadrato modulare con il pugno anatomico e
metrologico di 1+1/3 palmi proporzionali».644
Relativamente all’impostazione del canone egiziano, vorremmo evidenziare due
aspetti che ci sembrano rilevanti se messi in relazione con la performatività della
sfera corporea. In primo luogo, i rapporti espressi dal canone, in accordo con il
sistema metrologico, si fondano sulla lunghezza del braccio o, più nello specifico,
dell’avambraccio e sulle sue suddivisioni. Questa parte del corpo rimanda
immediatamente all’idea del «fare», dell’«operare». Nella lingua egiziana il termine
che denota il braccio, a
(a), può significare anche «atto», «azione».645
Il canone deve, infatti, esprimere e ricreare nella statua o nell’immagine la natura
performativa della corporeità, affinché l’opera dell’artista possa davvero fungere da
surrogato di ciò che riproduce.
Una seconda osservazione riguarda la disposizione delle linee guida rinvenute nelle
tombe dell’Antico Regno, in particolare quando la figura è disegnata in piedi e con un
braccio disteso. Le linee orizzontali che la attraversano, tranne le due che
determinano l’altezza canonica, passanti per la pianta del piede e la linea dei capelli,
644
Ibid., p. 33.
645
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 134. Cfr. anche Y. Bonnamy, A. Sadek,
Dictionnaire des hiéroglyphes, cit., p. 91.
204
segnano tutte dei punti di articolazione (figg. 1 e 5). Sembra, quindi, che la figura sia
realizzata avendo come riferimento la sua struttura articolare. A nostro avviso, ciò
contribuisce al dinamismo dell’immagine, al suo potere performativo.
Il canone utilizzato era il medesimo per le sculture, i rilievi e le pitture. Nel caso della
scultura a tutto tondo, la quadrettatura veniva disegnata sulle facce dei blocchi di
pietra da scolpire. L’idea di un unico canone nell’arte egiziana era già sostenuta da C.
Edgar ai primi del Novecento.646 Si poneva, tuttavia, il problema della traslazione
della figura umana da uno spazio tridimensionale a un piano. La peculiarità delle
immagini bidimensionali consiste in ciò: esse non sono disegnate dall’artista egiziano
come delle entità composite, ma sono scomposte nei loro elementi costitutivi. In
proposito, Heinrich Schäfer affermò che non si trattava di semplici regole
convenzionali, ma di un particolare approccio pregreco che riproduceva le figure non
sulla base della loro apparenza naturale, ma fondandosi su una sorta di «visione»
(Schau) indotta da esse.647 Iversen sottolinea l’importanza di un’osservazione
empirica di Schäfer circa le relazioni tra le figure tridimensionali e quelle
bidimensionali. Si tratta della constatazione che il gruppo scultoreo raffigurante un
uomo e una donna lato a lato in posizione frontale rispetto all’osservatore è il modello
per la realizzazione di immagini bidimensionali analoghe (come quella di fig. 2), in
cui ogni elemento anatomico è riprodotto nella sua forma completa e indipendente
dalla prospettiva o dall’aspetto.648
In realtà, Iversen, sulla base dei suoi studi, si spinge oltre le affermazioni di Schäfer,
sostenendo che le figure bidimensionali sono riproduzioni dirette dei loro modelli a
tre dimensioni. La regola tecnica applicata dagli Egiziani è, quindi, la seguente: «nelle
loro proiezioni bidimensionali, le parti che sporgono dal piano tridimensionale
devono essere viste di profilo, le parti che, invece, si estendono sul piano, di
fronte».649 Ne risultano figure che presentano il viso di profilo, le spalle di fronte, il
bacino di tre quarti e le gambe di profilo. Migliaia di immagini documentano questa
procedura tecnica.
646
Cfr. C. C. Edgar, Remarks on Egyptian sculptors models, in Recueil de travaux rélatifs à la philologie et à
l’archéologie égyptiennes et assyriennes, 27 (1905), pp. 137 sgg.
647
Cfr. H. Schäfer, Von ägyptischer Kunst, Hinrichs, Leipzig 1930, pp. 307 sg.
648
Cfr. E. Iversen, Canon and proportion in Egyptian art, cit., pp. 34 sg.
649
Ibid., p. 35.
205
Fig. 5 (Ibid., tav. 3)
206
Delle linee guida, quella verticale che passa per l’orecchio (linea MM nelle figg.), oltre
a dividere il corpo in due metà, funge da asse attorno al quale vengono ruotate le
varie parti del corpo nella loro traslazione da uno spazio a tre dimensioni a uno
bidimensionale. Questa linea mette in relazione tra loro, o potremmo anche dire
«riarticola», le differenti parti anatomiche apparentemente indipendenti e slegate.
La riproduzione artistica del corpo umano non è finalizzata a fissare il singolo istante
di un movimento nello spazio e a trasmetterne di conseguenza l’idea. Le statue o le
pitture egiziane possono apparire, in molti casi, statiche all’osservatore. La loro
funzione, a nostro avviso, non è, infatti, quella di «sembrare» in movimento, bensì di
«generare» movimento, riproducendo la performatività del corpo attraverso l’uso del
canone.
Con la XXVI dinastia il cubito viene riformato. Si adotta il cubito reale, ossia la
lunghezza dell’avambraccio tra il gomito e la punta del dito medio, e lo si suddivide in
6 grandi palmi. Ciascuno di questi, a sua volta suddiviso in 4 dita, corrisponde a
1+1/6 di «piccolo» palmo. Questo cambiamento nell’ambito della metrologia si
riflette immediatamente sul canone che su di essa è fondato. La struttura della griglia
viene, quindi, modificata: l’altezza canonica viene misurata dalla pianta del piede alla
linea degli occhi e ripartita in 21 quadrati. Il modulo del singolo quadrato rimane
ancora il pugno. La conseguenza diretta di questo aggiustamento è la perdita della
corrispondenza tra le proporzioni risultanti dal nuovo canone e quelle naturali: «la
rigida conformità tra le proporzioni naturali del corpo e le unità metrologiche che era
stata rigorosamente osservata nel primo canone fu rotta, dando origine a diversi
problemi pratici».650
La soluzione di queste difficoltà viene lasciata ai singoli artisti. Ciò comporta
l’introduzione nelle opere prodotte di elementi soggettivi, afferenti alla sfera emotiva
e intellettuale dell’artista. Emerge, dunque, un’arte individuale, foriera di una serie di
nuove valutazioni estetiche estranee all’arte egiziana dei periodi precedenti. L’opera
d’arte comincia ad assumere i caratteri della rappresentazione, perdendo così,
almeno in parte, la sua funzione performativa.
650
E. Iversen, The Egyptian origin of the archaic Greek canon, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen
Instituts, 15 (1957), p. 142.
207
4. La «performatività» del corpo: il gesto musicale
Una composizione del Nuovo Regno, l’Inno al Nilo, a un certo punto recita:
«Si cominciano a cantare le lodi per te con l’arpa, si cantano le lodi per te con la
mano».651
Questo passo fa riferimento alla «chironomia», una pratica impiegata nell’ambito
della musica, in particolare, di quella vocale. Si tratta, infatti, dell’arte di dirigere un
complesso vocale o strumentale attraverso dei segni eseguiti con la mano e con il
braccio. La chironomia è presente anche nella Grecia antica ed è conosciuta ancora
nel Medioevo occidentale. L’uso dei neumi, tipico della musica medievale, deriva
probabilmente dagli antichi segni chironomici.652
Per quanto riguarda la chironomia dell’antico Egitto, le fonti principali sono
costituite dalle scene musicali dipinte nelle tombe. Generalmente, l’artista egiziano
rappresenta un gruppo di musicisti, ciascuno dei quali ha di fronte il proprio
chironomo. Ciò ha indotto gli studiosi a pensare che il gesto chironomico non abbia
esclusivamente un significato ritmico; in questo caso, infatti, sarebbe bastato un solo
chironomo a dirigere i musicisti. La chironomia avrebbe anche la funzione di indicare
degli intervalli melodici o delle note musicali, nel senso ampio di questi termini. E’
quanto sostiene, per esempio, Hans Hickmann, le cui ricerche rappresentano ancora
oggi un punto di riferimento essenziale nell’ambito degli studi sulla musica egiziana:
«Se il pittore rappresenta, dunque, quattro chironomi e quattro musicisti che
riproducono ciascuno a modo suo il medesimo suono, la sua intenzione non era
affatto di mostrarci come veniva suonata, alla sua epoca, una nota all’unisono da
parte di diversi interpreti, ma di comunicarci il suono che si eseguiva nel momento
immaginario o reale in cui l’artista rappresentava tale complesso. Si tratta, dunque, di
un messaggio musicale concepito intenzionalmente e formulato attraverso i mezzi
651
M. G. Maspero (a cura di), Hymne au Nil, Imprimerie de l'Institut Français d'Archéologie Orientale, Le Caire
1912, p. 4. La trad. è nostra.
652
In proposito, H. Hickmann afferma: «La scrittura che impiega dei neumi ha conservato, in ogni caso, ancora
per lungo tempo, le tracce di un antico impiego di alcuni di questi segni come indicazioni chironomiche. L’analisi
dei dati permette evidentemente d’intravedere un’origine comune degli accenti utilizzati nelle Indie e dai
grammatici alessandrini. Non è escluso che dobbiamo cercarla nella chironomia degli antichi Egiziani, ma la quasi
certezza di questi legami non è mai stata sostenuta da prove solide, poggiando unicamente su deduzioni e
confronto di testimonianze. Già gli autori greci volevano far risalire l’origine della chironomia a una pratica
musicale in uso nella Valle del Nilo». (H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, in Zeitschrift für
ägyptische Sprache und Altertumskunde, 83 (1958), p. 97).
208
tecnici dell’epoca, di una sorta di grafia musicale, che lascia prevedere già una vera
notazione».653
I gesti chironomici raffigurati nelle pitture, tuttavia, non hanno, a nostro avviso,
semplicemente la funzione di comunicare a un ipotetico osservatore un ritmo o una
melodia. Essi hanno anche e soprattutto una funzione performativa. Come abbiamo
evidenziato nel paragrafo precedente, infatti, lo scopo principale di una riproduzione
artistica è quello di dare esistenza agli enti rappresentati. Il ritmo e le note dipinti
formano, dunque, una sorta di partitura vivente, cioè un brano musicale
costantemente eseguito. La performatività di queste immagini attinge a quella
corporea. Sono i gesti delle mani e delle braccia che danno vita alla composizione
musicale. Ciò vale, naturalmente e in primo luogo, nel caso di un chironomo in carne
ed ossa che, come leggiamo nell’Inno al Nilo, canta «con la mano».
Secondo Hickmann, si possono distinguere tre tipi di gesti chironomici:
1) gesti a significato ritmico, che hanno la funzione di segnare il ritmo e la misura
(fig. 6). Questi non vanno confusi con altri gesti che segnano la misura mediante
il battito della mano sul ginocchio o sulla coscia;
Fig. 6 (H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, cit., p. 106)
2) gesti a significato melodico, eseguiti generalmente da chironomi che sono nello
stesso tempo anche cantori. Il segno distintivo di un chironomo cantore è una
mano posata sull’orecchio (fig. 7);
653
Ibid., p. 99.
209
Fig. 7 (Ibid., p. 107)
3) Segni composti. Si tratta dei gesti eseguiti da musicisti che non sono raffigurati
con la mano posata sull’orecchio e che, dunque, in linea di principio, non sono
cantori, ma soltanto chironomi. Essi hanno a disposizione due mani per la
gestualità musicale, il che fa pensare alla possibilità di eseguire segni ritmici e
melodici combinati (fig. 8).654
Fig. 8 (Ibid., p. 111)
Fig. 9 (H. Hickmann, La musique polyphonique dans l’Égypte ancienne, cit., p. 241)
654
Cfr. H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, cit., pp. 101 sgg. Cfr. anche Id., La musique
polyphonique dans l’Égypte ancienne, in Bulletin de l’Institut d’Égypte, 34 (1951-1952), pp. 240 sgg.
210
L’insieme dei gesti non composti può essere suddiviso in due gruppi, sulla base di due
gesti principali che ricorrono spesso nelle scene musicali (fig. 9):
1) la mano libera del chironomo cantore forma un anello con l’indice e il pollice;
2) la medesima mano è aperta e tesa.
L’esame delle scene musicali dipinte nelle mastabe di Nenkheftka e di Ti, risalenti
alla V dinastia, ha condotto Hickmann alla conclusione che questi due gesti principali
rappresentano le due note più importanti del sistema musicale: la fondamentale e la
sua quinta. Gli altri gradi della gamma, che riempiono l’intervallo tra queste due note,
sono indicati dal chironomo con la variazione dell’angolo tra il braccio e
l’avambraccio. Un’ampiezza minore corrisponde probabilmente a una nota più acuta.
«L’insieme dei gesti forma una sorta di scala il cui numero di gradi coincide con le
gamme musicali conosciute attraverso la misurazione degli strumenti conservati»
(fig. 10).655
Fig. 10 (H. Hickmann, La chironomie dans l’Égypte pharaonique, cit., p. 118)
Diversi gesti chironomici sono serviti anche da modello per una serie di geroglifici.
Nel sistema di scrittura geroglifica troviamo, infatti, dei segni che riproducono le
stesse pose delle mani dei musicisti dipinti nelle scene musicali.656 Ci limitamo a due
esempi che ci sembrano significativi. I testi letterari egiziani che presentano una
struttura metrica sono caratterizzati in genere da un aspetto formale specifico: la
puntuazione, ossia un insieme di punti tracciati in rosso o in nero, destinati a
separare tra loro i distici o gli stichi. Alla fine di una sezione o stanza (Hwt, lett.
655
H. Hickmann, La musique polyphonique dans l’Égypte ancienne, cit., p. 242.
211
«dimora», «castello»), può comparire il «segno della pausa»:
(da leggersi
forse grH, «fermarsi», «tacere», «cessare»).657
Nel caso preso in considerazione, il braccio compie l’azione del fermare, del bloccare.
Questo geroglifico costituisce, «evidentemente, un richiamo dei segni chironomici
melodici e ritmici, 1) secondo la posizione della mano che batte la coscia, con il palmo
in basso, o che fa dei segni determinati, o 2) secondo l’inclinazione dell’avambraccio
rispetto al braccio».658
Il medesimo geroglifico compare come determinativo anche nel termine che denota il
cubito, la misura di lunghezza alla base della metrologia egiziana; in questo contesto
esso può essere utilizzato anche come ideogramma:
oppure
o
(mH).
Abbiamo visto che tutte le principali misure di lunghezza del sistema metrologico
egiziano hanno come origine il braccio umano e i rapporti tra le parti che lo
compongono.
Le
suddivisioni
del
braccio,
elemento
corporeo
fortemente
performativo, sono, inoltre, il fondamento del canone artistico, in virtù del rapporto
che lega quest’ultimo alla metrologia.
Il canone artistico e il gesto chironomico sono due esempi significativi dell’approccio
egiziano al mondo, che non è mai puramente contemplativo o ricettivo, bensì sempre
interattivo. Lo strumento indispensabile per interagire con il mondo circostante è il
corpo, che abbiamo denominato «attuale». L’opera d’arte che riproduce il corpo
umano e i suoi gesti attinge la propria performatività a quella intrinseca alla sfera
corporea. In quanto dotate della performatività corporea, l’immagine, la statua o la
partitura musicale codificata attraverso una serie di gesti delle mani e delle braccia
sono degli enti autonomi e attivi e non semplicemente degli oggetti rappresentativi.
5. «Mappa» della dimensione umana e osservazioni conclusive
A conclusione del discorso sulle concezioni antropologiche egiziane, proponiamo uno
schema riassuntivo. Cerchiamo, cioè, di tracciare una mappa generale della
costellazione Uomo. Prima, vorremmo, tuttavia, chiarire meglio alcuni aspetti della
656
Cfr. H. Hickmann, Le probleme de la notation musicale dans l’Égypte ancienne, in Bulletin de l’Institut
d’Égypte, 36 (1953-1954), pp. 504 sgg.
657
Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 156 e 658.
212
tematica sviluppata. Abbiamo sostenuto che la sfera corporea ha una natura duale:
essa si manifesta come corpo articolare e corpo inviluppo. Nel suo complesso, la
corporeità costituisce il supporto e il mezzo indispensabili all’essere umano per
esprimersi e interagire con l’ambiente circostante. Abbiamo chiamato questo
supporto e veicolo «corpo attuale». Abbiamo, invece, denominato la costellazione
Uomo nel suo complesso «individuo articolare». Il quesito che si pone è, dunque, il
seguente: anche l’individuo articolare, inteso come rete di relazioni tra un insieme di
elementi, dispone di un proprio involucro? La nostra risposta è affermativa, anche se
non parliamo, in questo caso, di un «individuo involucro o inviluppo». Per l’essere
umano che vive sulla terra l’involucro o luogo di gestazione è costituito dalla società e
dallo stato. A partire dal Nuovo Regno, il faraone, in quanto rappresentante dello
stato, viene indicato in egiziano con il termine
Per-aa
(pr-aA), letteralmente «la grande casa», espressione
che, nelle epoche precedenti, era utilizzata soltanto per designare il palazzo reale.659
Lo stato e il suo vertice, il sovrano, rappresentano, infatti, per ogni individuo, un
involucro protettivo e il luogo dove è possibile esprimere e realizzare la propria
natura, conformemente alla legge di Maat. Un inno dedicato a Sesostri III (XII
dinastia) mostra con chiarezza la funzione di protezione e contenimento svolta dal re,
garante della società:
«Com’è grande il signore della sua città! E’ una diga che trattiene il fiume nei suoi
straripamenti. […] E’ una sala fresca dove ognuno può dormire a mezzodì. […] E’ il
muro che protegge Goscen. […] E’ l’asilo, dove nessuno può essere inseguito. […] E’ il
rifugio che salva il timoroso dal suo nemico».660
Al di fuori dello stato regna il caos, le forze di Isefet, e l’essere umano non è più
realmente tale.
L’involucro dell’individuo articolare che è passato attraverso la morte, scindendosi
nelle sue componenti e rigenerandosi successivamente come akh, è costituito, invece,
dal corpo e dal ventre di Nut. Il defunto che si trova nello stato di akh, in quanto
immagine di Osiri-Orione, dimora, infatti, tra le costellazioni dell’emisfero
settentrionale. Il corpo celeste di Nut è il suo nuovo spazio vitale e determina il suo
658
H. Hickmann, Le probleme de la notation musicale dans l’ Égypte ancienne, cit., pp. 504 sg.
659
Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., p. 147. Cfr. anche A. Amenta, Il Faraone.
Uomo, sacerdote, dio, Salerno Editrice, Roma 2006, pp. 63 sgg.
213
raggio d’azione. Nel ventre di Nut, l’individuo akh è tenuto in perpetua gestazione; in
virtù di ciò il suo essere rimane incorruttibile.
Tornando, invece, alla natura performativa del corpo, trattando del canone artistico e
della chironomia, ci siamo soffermati sull’importanza del braccio come strumento
operativo. Sarebbe, tuttavia, inesatto attribuire al braccio il primato assoluto della
performatività nell’ambito della sfera corporea. Un altro elemento corporeo che, per
gli Egiziani, manifesta un alto grado di performatività è l’occhio. L’atto del vedere non
è, infatti, puramente contemplativo, bensì è in grado di interagire o, potremmo anche
dire, di dialogare con l’oggetto al quale si rivolge. La migliore conferma di ciò la
troviamo nel fatto che nell’egiziano geroglifico il segno dell’occhio è utilizzato per
esprimere il verbo «fare»:
iri
(jrj), fare, agire, realizzare, generare.661
L’occhio solare riveste nella mitologia egiziana un ruolo notevole. Fin dalle epoche
più antiche esso è considerato un eccellente amuleto, che ha la virtù di apportare
salute e benessere. Secondo un racconto mitologico, infatti, Horo recuperò l’occhio
perso in uno scontro violento con Seth e lo rimise al suo posto completamente
risanato. Il termine udjat (wDAt) che lo denota significa, appunto, «essere vigoroso»,
«intatto», «sano».662
Nelle narrazioni cosmogoniche, inoltre, anche altre parti corporee manifestano la
loro natura prettamente performativa, svolgendo un ruolo di primo piano nella
creazione. E’ quanto abbiamo rilevato nel primo capitolo. Nella teologia di Eliopoli
l’organo creativo è il fallo di Atum; secondo una variante è, invece, la sua bocca che
con lo sputo genera i primi dei. Secondo la dottrina di Menfi, la creazione avviene per
mezzo della lingua di Ptah che veicola il verbo pensato dal cuore. Il dio Khnum di
Esna si serve, infine, del suo braccio per plasmare il mondo e gli esseri che lo abitano.
Dal momento che la sfera corporea è una realtà essenzialmente performativa, il
fattore unificante per eccellenza che opera in essa è costituito dalla «prassi».
Affrontando la concezione egiziana della corporeità, avevamo individuato nell’organo
cardiaco e nella rete dei condotti-met i principali generatori di connettività. L’unità
organizzata di tutte le parti corporee alla quale concorrono il cuore e l’insieme dei
canali, tuttavia, si palesa e si rende percepibile soltanto nell’interazione tra
660
Inno a Sesostri III, trad. it. di E. Bresciani, in Id., Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 214.
661
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 100 sgg.
662
Cfr. ibid., p. 247.
214
l’individuo e la dimesione che lo circonda. Per «prassi» intendiamo questa
interazione e gli effetti che ne conseguono. Essa è resa possibile dal corpo attuale e ne
rivela l’unità. Non si tratta, quindi, di un’unità ideale, bensì reale, dinamica e,
potremmo dire, «centrifuga», nel senso che si manifesta ed è operante soltanto
nell’atto di interagire con il mondo e con i propri simili.
Presentiamo ora lo schema riassuntivo della costellazione Uomo:
INDIVIDUO ARTICOLARE
nello Stato/nel ventre di Nut
Componenti sottili
principali
Ombra
corpo terreno/
corpo ultraterreno (Akh)/
mummia (surrogato del
corpo terreno)
Ba
Ib/
Ren
Ka
Corpo articolare:
cuore-haty;
condotti-met;
ossa
215
Corpo attuale:
Umori
Corpo inviluppo:
viscere della
cavità Shet
CAPITOLO VII
LA VISIONE DEL MONDO: MODELLI EGIZIANI E MODELLI GRECI
1. Un sistema di pensiero alternativo a quello greco?
Le analisi relative alla speculazione ontologica e antropologica egiziana, sviluppate
nei capitoli precedenti, hanno evidenziato i tratti distintivi di un sistema di pensiero
originale, impostato in modo diverso rispetto a quello greco. Generalmente, il
pensiero egiziano viene definito «religioso». Si parla, infatti, di «religione egiziana»,
ma difficilmente di «filosofia egiziana». E’ sicuramente innegabile la rilevanza della
componente religiosa e liturgica nei testi egiziani. Il concetto di religione che
troviamo in Egitto è, tuttavia, differente rispetto a quello che si è consolidato nella
nostra cultura. E non alludiamo semplicemente all’aspetto politeistico. Anzitutto, gli
Egizi non pongono all’origine delle loro concezioni «religiose» una rivelazione unica
da parte di una divinità. In secondo luogo, essi non costruiscono un sistema
dogmatico codificato definitivamente in uno o più testi canonici. L’elemento più
peculiare della cultura faraonica è stato sempre quello che Henri Frankfort ha
definito multiplicity of approaches.663 Il pensiero egiziano, infatti, non assume
contenuti univoci, ma contempla la possibilità di più livelli di lettura della realtà.
Esso si configura, quindi, come un sistema aperto, sempre in fieri.
L’uomo e il mondo per gli Egizi sono come i templi che essi erigevano, sono sempre
«in costruzione». Abbiamo, infatti, già avuto modo di rilevare che in Egitto i templi,
pur essendo costruiti sulla base di un ordine e un’articolazione prestabiliti, non
escludevano la possibilità di estensioni e modifiche. Ogni sovrano poteva effettuare
dei cambiamenti in un tempio, senza tuttavia comprometterne la struttura
fondamentale.
Sia la sfera divina che quella umana sono concepite come la risultante di una
molteplicità di componenti. Secondo questa visione, ogni elemento costitutivo della
personalità umana o di quella divina non rappresenta una sostanza né indipendente
né contrapposta alle altre, bensì l’epifania di un’unica e medesima realtà. Uomo e dio,
663
Cfr. H. Frankfort, Myth and reality, in The intellectual adventure of ancient man, The University of Chicago
Press, Chicago 1946, pp. 3 sgg. Cfr. anche Id., Ancient Egyptian religion, Columbia University Press, New York
1949, pp. 3 sgg. Cfr., inoltre, quanto afferma P. Derchain sulla «religione» egiziana in Le Papyrus Salt 825 (B.M.
10051), rituel pour la conservation de la vie en Égypte, Académie Royale de Belgique, Bruxelles 1965, pp. 3 sgg.
216
inoltre, non sono intesi come due dimensioni separate e incommensurabili, ma come
differenti espressioni dello stesso universo. Nella teologia egiziana, il ruolo di essere
supremo può essere di volta in volta impersonato da qualunque dio del pantheon, in
alcuni casi anche da dei locali, di importanza relativamente minore. L’uomo egiziano,
dunque, in una determinata epoca e in relazione a una circostanza ben precisa
«sceglie un dio, che per lui in quel momento significa tutto»664. Questo fenomeno,
che non è rimasto circoscritto soltanto all’Egitto, è stato indicato dallo storico delle
religioni Friedrich Max Müller con il termine «enoteismo». Questi afferma: «Ogni dio
è, per la mente del supplicante, buono come tutti gli altri. Esso viene pensato, nello
stesso tempo, come vera divinità, suprema ed assoluta, nonostante le necessarie
limitazioni che, per la nostra comprensione, una pluralità di dei deve imporre ad ogni
singolo dio. Tutto il resto scompare di fronte all’orante e solo colui che può appagare i
suoi desideri si trova in piena luce davanti ai suoi occhi».665
I singoli dei, come le componenti della personalità umana, anziché contrapporsi o
escludersi a vicenda, si completano, dando luogo a un mondo variegato e nello stesso
tempo unitario.666 Gli dei egiziani, inoltre, a differenza di quelli greci, non si
presentano a noi come figure chiare e definite. Essi mostrano una natura fluida,
variabile, sottraendosi, così, ad ogni determinazione definitiva. All’osservatore
moderno un simile pensiero può apparire quantomeno confuso. Hornung osserva in
proposito: «Secondo i principi della logica occidentale sarebbe una contraddizione
impossibile per il divino apparire al fedele come uno, quasi assoluto, e poi di nuovo
come una molteplicità per noi sconcertante».667 Non stupisce, quindi, che in più
occasioni il pensiero egizio sia stato giudicato «illogico» o, nel migliore dei casi,
«prelogico».
Frankfort, tuttavia, mette in guardia chi si accosta alla cultura egiziana dal formulare
giudizi troppo sbrigativi: «Noi troviamo, dunque, nella religione egiziana un numero
di dottrine che ci colpiscono in quanto contraddittorie; ma è pura presunzione
accusare gli antichi di avere le idee confuse a questo riguardo. […] Gli antichi non
tentarono di risolvere i problemi fondamentali mettendo a confronto l’uomo con una
664
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 210.
665
F. M. Müller, Lectures on the origin and growth of religion, Longmans, Green, and Co. Williams and Norgate,
London 1878, pp. 285 sg.
666
Per una maggiore intelligibilità del discorso, possiamo impostare la seguente proporzione:
singola componente umana : costellazione Uomo = singola componente divina : essere divino = singolo dio :
pantheon.
667
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 211.
217
teoria singola e coerente; questo è stato il metodo di approccio a partire dall’epoca dei
Greci. Il pensiero antico – pensiero mitopoietico, “costruttore di miti” – ammetteva
fianco a fianco delle intuizioni certamente limitate, che erano ritenute valide
simultaneamente, ciascuna nel suo proprio contesto, ciascuna corrispondendo a un
tipo definito di approccio».668
La nostra posizione si associa a quella di quegli studiosi che, come quelli che abbiamo
appena citato, vedono nell’impostazione tipica della cultura egizia un sistema logico
«diverso» o, detto altrimenti, alternativo a quello tuttora predominante.
Anche il pensiero dell’antico Egitto, come la filosofia greca, manifesta l’esigenza di
gestire le opposizioni; per l’Egiziano, tuttavia, esse non si elidono mai a vicenda,
bensì si integrano, si completano. Un determinato soggetto può avere proprietà
«incompatibili». Il cielo, per esempio, rivela diverse nature che coesistono: esso è
mucca, baldacchino, acqua, donna, la dea Nut e la dea Hathor. In questo contesto, il
principio di non contraddizione, difeso da Aristotele nel IV libro della Metafisica e
fatto assurgere ad assioma fondamentale di tutte le scienze, non sembra assumere lo
stesso ruolo fondante che ha nel sistema filosofico aristotelico.669 Abbiamo a che fare,
invece, con una «logica» polivalente o della «complementarietà».670 Proprietà
contrarie, infatti, almeno in alcuni casi, ineriscono contemporaneamente allo stesso
soggetto.
Aristotele nega la possibilità della compresenza dei contrari (ejnantiva) in una stessa
cosa. Nelle Categorie, leggiamo:
«In realtà, quando tutti siano in salute, sussisterà la salute, e la malattia invece no;
analogamente, quando tutti gli oggetti siano bianchi, sussisterà la bianchezza, ma
non la nerezza. Oltre a ciò, se il dire: Socrate è sano, risulta il contrario del dire:
Socrate è ammalato, e se d’altro canto non è possibile che queste due determinazioni
appartengano simultaneamente al medesimo oggetto, non potrà darsi allora che,
sussistendo uno dei due contrari, sussista anche l’altro».671
668
H. Frankfort, Ancient Egyptian religion, cit., pp. 3 sg.
669
La formulazione più nota del principio di non contraddizione è contenuta in Metafisica, IV, 3, 1005 b, 19-20.
Essa suona così: «E’ impossibile che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il
medesimo rispetto». Nel capitolo successivo, il quarto, lo Stagirita prende le difese di questo principio,
sviluppando un’argomentazione complessa e tuttora oggetto di controversia esegetica. Non è questa la sede per
esaminarla nel dettaglio.
670
Cfr. E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 213 sgg.
671
Aristotele, Categorie, 11, 14 a, 8-13, in Id., Organon, trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1955. Aristotele
sviluppa una teoria delle opposizioni (ajntikeivmena) nel capitolo 10 delle Categorie. L’analisi condotta dallo
Stagirita esordice in questo modo: «Un oggetto si dice opporsi ad un altro in quattro modi: una prima forma di
opposizione è quella dei termini relativi, una seconda è dei contrari, una terza sussiste tra privazione e possesso,
218
Il pensiero platonico ammette, invece, la compresenza dei contrari, ma soltanto nel
mondo sensibile, concepito come una dimensione che partecipa dell’essere e del non
essere. Nel libro V della Repubblica, la qualità distintiva del filosofo viene individuata
nella sua capacità di cogliere l’idea che sta a monte di una molteplicità di oggetti. Per
esempio, il filosofo è in grado di cogliere il bello in sé, non limitandosi, quindi, alla
semplice considerazione delle cose belle. A colui che non crede nell’esistenza di «una
idea di bellezza sempre identica a se stessa», Platone si rivolge in questi termini:
«Ottimo uomo […] delle molte cose belle ve n’è forse qualcuna che non possa
apparire anche brutta? E delle giuste, ingiusta? E delle sante, empia? […] E così, le
quantità doppie non possono apparire tanto come metà quanto come doppie? […]
Così le cose grandi e le piccole, le leggere e le pesanti, forse che c’è più ragione a
chiamarle così piuttosto che col nome contrario?»672
In generale, la filosofia platonica è più vicina al pensiero egiziano di quella
aristotelica. In
più
occasioni, Platone parla dell’Egitto
con
ammirazione,
descrivendolo come un paese depositario di un’antica tradizione, che rappresenta un
modello anche per i Greci. Nel Timeo, per esempio, Crizia narra il viaggio che Solone
avrebbe compiuto in Egitto. Secondo il racconto, un anziano sacerdote di Sais si
rivolse al celebre ateniese con queste parole:
«“Solone, Solone, sempre fanciulli siete voialtri greci, mai vecchio è un greco”. E
Solone udito questo: “Cosa vuoi dire?”. E allora il sacerdote: “Tutti giovani siete di
spirito! Ché in voi nessuna opinione antica, prova di vecchia tradizione, avete, né
sapienza alcuna bianca di tempo”».673
Nelle Leggi, a proposito della legislazione relativa all’educazione e dell’opportunità
che la formazione dei giovani sia affidata all’estro dei poeti, alla domanda di Clinia «E
allora, come dici che vien regolata in Egitto tale materia?» l’Ateniese risponde:
«Meravigliosamente, anche al solo sentirne parlare. Dai più lontani tempi, sembra, fu
da essi riconosciuto quel principio razionale che noi sosteniamo ora, e cioè che negli
una quarta tra affermazione e negazione. Ecco un’esemplificazione sommaria, per ciascuna di tali opposizioni: i
termini relativi si oppongono come il doppio alla metà; i contrari si oppongono come il male al bene; la privazione
si oppone al possesso come la cecità alla vista; l’affermazione si oppone alla negazione come sta seduto – non sta
seduto» (11 b, 17-23; abbiamo modificato la trad. di Colli, rendendo ajntikei`sqai con «opporsi» anziché
«contrapporsi»). Una dottrina analoga viene esposta nei libri V e X della Metafisica.
672
Platone, Repubblica, V, 479 a-b. Il tema della presenza della bruttezza nelle molteplici cose belle è affrontato
da Platone anche in uno dei dialoghi della cosiddetta «fase socratica», l’Ippia maggiore. Anche in questo
contesto, viene postulata la coesistenza dei contrari nel mondo sensibile (cfr., in particolare, 289 a-d). Nel dialogo,
tuttavia, non si perviene a una reale soluzione del problema, in quanto la dottrina delle idee non è ancora stata
sufficientemente elaborata da Platone.
219
Stati i giovani debbono abitualmente occuparsi delle belle movenze e dei bei canti.
Definiti quindi quali sono e come debbono essere, ne esposero i modelli nei templi,
né fu permesso che i pittori, o tutti coloro che in qualche modo rappresentano figure
o altre cose del genere, le trasformassero o ne immaginassero di nuove, ad eccezione
di quelle patrie; ed anche oggi tutto questo è loro proibito, sia per le arti figurative
come per ogni altro tipo d’arte».674
Tornando alla struttura del pensiero egiziano, Hornung, cercando di coglierne la
peculiarità, pone l’accento sulle difficoltà di approccio che essa comporta:
«Fintantoché la base intellettuale di una logica polivalente rimane incerta, possiamo
indicare solo prospettive, ma nessuna soluzione valida. Se la base non è stabilita,
allora il pensiero egiziano e il pensiero “pre-greco” in genere, rimarranno esposti in
avvenire all’arbitrio o alla confusione. Se essa è trovata, allora possiamo comprendere
l’uno e i molti come affermazioni complementari, i cui veri valori non si escludono nel
sistema di una logica polivalente, ma contribuiscono insieme a tutta la verità».675
La questione relativa alla struttura del pensiero egiziano presenta, tuttavia, un
aspetto ulteriore, decisamente complesso da gestire. Un sistema di pensiero si
traduce in un linguaggio e in una scrittura. Questi ultimi orientano l’approccio nei
confronti della realtà. Senza avere la pretesa di voler enucleare un problema tanto
dibattuto, ci limitiamo a sottolineare la particolarità della scrittura geroglifica
egiziana, nella quale il singolo segno può essere contemporaneamente figura e lettera.
L’aspetto figurativo e, per così dire, «simbolico» dei geroglifici fu considerato dal
mondo occidentale, fino alla nascita della moderna egittologia, l’essenza di questo
sistema di scrittura. Per i neoplatonici di età tardo-antica la scrittura geroglifica era
quella che maggiormente si avvicinava alla forma di conoscenza che un dio o
un’intelligenza superiore potevano avere della natura e dell’universo. Nelle Enneadi,
Plotino afferma che «i saggi di Egitto […] quando volevano rivelare la loro sapienza,
non si servivano dei segni delle lettere, che designano parole e proposizioni ma non
corrispondono alla pronuncia e al significato delle cose dette, ma disegnavano figure
<geroglifici>, ciascuna delle quali significava una singola cosa, e ne decoravano i
templi per mostrare che il procedimento discorsivo non appartiene al mondo di lassù,
673
Platone, Timeo, 22 b. Agli occhi di Platone, l’Egitto appare come la cornice ideale in cui narrare le imprese
gloriose di un’Atene mitica contro le mire espansionistiche del popolo di Atlantide. Cfr. Timeo, 23 c – 25 d.
674
Platone, Leggi, II, 656 d-e, trad. it. di F. Adorno, in Id., Dialoghi politici, lettere, vol. II, Utet, Torino 1970.
675
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., p. 214.
220
in quanto ciascun individuo è anche una scienza e ciascuna figura è sapienza,
soggetto e sintesi, e non un pensiero discorsivo né un progetto»676.
Molti secoli più tardi, questo stesso brano, tradotto e commentato da Marsilio Ficino,
i testi attribuiti alla figura mitica di Ermete Trismegisto e gli Hieroglyphica di
Orapollo, giunti a Firenze nel 1422, hanno improntato tutta la speculazione
rinascimentale intorno alla scrittura egiziana. Il sistema geroglifico, secondo Ficino,
riproduce il pensiero divino, poiché oltrepassando i limiti del procedere discorsivo,
offre una visione immediata e completa delle cose. Tutta la tradizione ermetica vede
nella lingua egiziana uno strumento dotato di potere magico, di forza creatrice e ad
essa contrappone la lingua greca, puramente intellettuale e astratta. Gli studiosi del
Rinascimento trovavano la conferma definitiva di questa concezione proprio
nell’opera di Orapollo. Questi interpretava, infatti, la scrittura egiziana in senso
puramente simbolico. I capitoli degli Hieroglyphica seguono generalmente uno
schema ternario: viene prima indicato il significato di un geroglifico, successivamente
l’immagine che lo veicola e, infine, la relazione simbolica tra i due aspetti,
argomentata attraverso ragionamenti «filosofici» simili a quelli che si trovano nei
bestiari medievali.677
Con la decifrazione della grafia egiziana ad opera di Champollion, evento che ha
inaugurato la moderna egittologia, si è iniziato a vedere nel geroglifico quasi
esclusivamente un segno che indica una o più lettere. Sulla base di questo nuovo
approccio, diversi studiosi hanno interpretato la scrittura iconica egiziana come una
versione meno pratica e avanzata di una scrittura alfabetica. Attualmente, gli
egittologi raggruppano i geroglifici in due grandi classi:
a) i segni con valore fonetico;
b) quelli che hanno esclusivamente un valore semantico.
I segni che appartengono alla prima classe si dividono, a loro volta, in due gruppi:
1) ideogrammi: esprimono una parola, ossia significano ciò che rappresentano;
per esempio, per esprimere il termine «braccio», si disegna un braccio
stilizzato:
2) fonogrammi: specificano uno o più suoni; sono segni che vengono usati per il
loro valore fonetico, indipendentemente da ciò che rappresentano.
676
Plotino, Enneadi, V, 8, 6, trad. it. di G. Faggin, Bompiani, Milano 2000.
677
Cfr. E. Iversen, The Myth of Egypt and its Hieroglyphs in European Tradition, Gad, Copenhagen 1961, p. 48.
221
I segni semantici, detti «determinativi» e posti alla fine delle parole, permettono,
invece, di distinguere «visivamente» due termini scritti nello stesso modo ma di
significato differente. Numerosi geroglifici assumono, tuttavia, secondo il contesto in
cui sono inseriti, le funzioni di ideogramma, di fonogramma o di determinativo.678
A differenza delle lingue che, come quella greca, si scrivono utilizzando dei segni
«alfabetici», la lingua egiziana forma con la scrittura geroglifica un’unità compatta.
«Ne consegue – sostiene Alessandro Roccati – che […] questa scrittura può scrivere
solo una lingua unica e che la rappresentazione di questa lingua è così intimamente
legata alla scrittura predisposta, che questa si presenta come una proiezione visiva di
essa».679 In virtù di questa peculiarità della lingua egiziana, l’aspetto «visivo» svolge
nell’economia del pensiero degli abitanti della Valle del Nilo un ruolo di importanza
non inferiore a quello svolto dall’aspetto «discorsivo».
Il confine tra scrittura e immagine non è mai netto e definito. Ad alcuni segni grafici,
raffiguranti oggetti vari, viene aggiunto un paio di gambe umane; troviamo allora un
vaso, un chiavistello o un contenitore di acqua sopra delle gambe. Si tratta, in genere,
di verbi di movimento, in cui il segno delle gambe ha una funzione semantica. Alcuni
oggetti vengono, invece, personificati apponendo loro una testa umana. Altri segni si
trasformano, all’occasione, in creature con braccia e gambe, in grado di muoversi e di
agire. Ogni geroglifico presenta, inoltre, una cromia peculiare, almeno in origine. La
varietà cromatica della realtà si riflette così nella policromia dei geroglifici. A quanto
sembra, dunque, l’approccio allo spirito dell’antico Egitto non può limitarsi
esclusivamente all’impiego dello strumento «filologico»: «Per poter decifrare le frasi
egiziane si rivela sempre più urgente anche la comprensione della lingua delle
immagini. […] La scrittura egiziana si compone di tutta una serie di segni il cui
significato non si esaurisce in un semplice valore fonetico, ampiamente utilizzati
anche al di fuori della scrittura come simboli carichi di significato, o ancor più
concretamente come amuleti efficaci. […] Si tende ad attribuire ad un segno grafico
un unico significato, una lettura fissa, mentre un simbolo è per sua natura ambiguo e
polivalente».680
Le parole e i concetti egiziani in contesti differenti si rivestono di sfumature nuove,
sono, cioè, polivalenti. Un cosmo «simbolico» o polivalente, come quello egiziano, si
678
Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 13 sgg.
679
A. Roccati, Introduzione allo studio dell’egiziano, Salerno Editrice, Roma 2008, p. 17.
680
E. Hornung, Spiritualità nell’antico Egitto, cit., pp. 27 sgg.
222
fonda sulla complementarietà degli opposti. Eraclito afferma che «la via in su e la via
in giù sono una sola e medesima via».681 Con Parmenide, invece, il mondo non è più
polivalente e gli opposti non dialogano più tra loro. La divaricazione dei «sentieri»
(kevleuqoi), quello del Giorno e quello della Notte, esige una scelta. Si delinea così un
diverso modo di pensare.682
Aristotele giudica in modo negativo l’ambiguità linguistica. Quest’ultima genera un
sillogismo e una confutazione che «sembrano tali, ma non lo sono».683 Coloro che
traggono vantaggio da ciò sono i sofisti che, secondo lo Stagirita, fingono di essere
saggi per ricavarne un guadagno. In Platone riscontriamo, invece, un atteggiamento
più flessibile. In un passo del Teeteto, infatti, Socrate afferma:
«Maneggiare disinvoltamente nomi ed espressioni senza sottoporli a esame accurato
per lo più non è ignobile, anzi è piuttosto il contrario di questo ad essere indegno di
un uomo libero».684
Subito dopo, tuttavia, il filosofo aggiunge che in certi casi è richiesta una maggiore
precisione, come nella questione che sta trattando con i suoi interlocutori:
«ma talvolta è necessario [il contrario della disinvoltura], per esempio anche ora è
necessario riprendere la risposta che hai dato là dove non è corretta».685
Il quadro presentato rivela l’ampiezza e la complessità del problema relativo alla
struttura e alle implicazioni del sistema «logico» egiziano e al suo rapporto con la
speculazione greca. Il nostro obiettivo è quello di individuare, all’interno di un tema
tanto vasto e impegnativo, dei possibili itinerari concettuali, che ci consentano di
chiarire meglio lo «statuto» del pensiero egiziano e di individuare degli eventuali
punti di contatto o delle cesure nette con la filosofia greca. Il percorso che seguiremo
nel prosieguo del capitolo si concentrerà principalmente sull’impostazione e sulle
tendenze della matematica egiziana e su alcuni aspetti della matematica e della
dialettica greche e avrà come approdo il modello di scienza codificato nelle opere di
Aristotele e di Euclide. La riflessione matematica rappresenta, a nostro avviso, un
terreno indubbiamente favorevole sul quale operare un confronto tra il modo di
681
Eraclito, B 60, trad. it. di G. Reale, in I Presocratici, cit.
682
Menzionando Eraclito e Parmenide, ci limitiamo a tracciare un parallelo formale, suggerito dalle
considerazioni di alcuni studiosi. Piankoff, per es., rileva una certa affinità tra la speculazione egiziana e il
pensiero di Eraclito. Riferendosi alle concezioni teologiche, l’egittologo afferma: «Non è una mistica, ma una fisica
[…] una fisica, tuttavia, che ricorda stranamente le idee di Eraclito di Efeso» (La création du disque solaire,
Imprimerie de l'Institut d'Archéologie Orientale, Le Caire 1953, p. 1).
683
Cfr. Aristotele, Confutazioni sofistiche, 1, 165 a, 18-19.
684
Platone, Teeteto, 184 c, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol II, cit.
223
pensare egiziano e il modo di pensare greco, in quanto ci consente di disporre di dati
maggiormente
intelligibili.
Dalla
matematica,
inoltre,
emergono
in
modo
particolarmente chiaro i meccanismi del pensiero di una civiltà.
2. Un «metodo» per conoscere tutto ciò che esiste
Un notevole limite per gli studiosi della matematica egiziana consiste nell’esiguità
delle fonti pervenuteci. A differenza di quanto è avvenuto nella regione
mesopotamica, in Egitto sono giunti fino a noi soltanto pochi documenti di
argomento matematico. Questa lacuna rende difficile valutare l’effettiva portata delle
conoscenze egiziane in ambito matematico ed espone al rischio di formulare dei
giudizi mal documentati. I testi reperiti sono scritti soprattutto su papiro;
possediamo anche alcuni ostraca e un eccezionale rotolo di cuoio.
Le due fonti principali sono costituite dal papiro di Rhind e dal papiro di Mosca,
risalenti al Medio Regno. Gli altri documenti non aggiungono nulla di essenziale a
quanto possiamo ricavare da questi due papiri. Tutti questi testi si presentano nella
forma di manuali di matematica per studenti. L’elemento che maggiormente induce
gli studiosi a questa ipotesi è l’impostazione dei testi stessi. Essi si concentrano sul
metodo corretto di risoluzione dei problemi, ma non espongono una teoria razionale
o delle leggi matematiche che chiariscano le procedure applicate. Ogni eventuale
teoria con le sue implicazioni filosofiche ed epistemologiche deve, quindi, essere
dedotta indirettamente dall’utilizzo pratico che ne viene fatto.
Dei testi matematici che ci sono pervenuti solo il papiro di Rhind ha conservato un
titolo. Si tratta dell’unica dichiarazione esplicita relativa al concetto egizio di
matematica. Essa recita:
«tp Hsb n hAt m xt rx ntt nbt snk […] StAt nbt».
«procedimento corretto per scendere nelle cose, conoscere tutto ciò che esiste, [ogni]
mistero […] ogni segreto».686
685
Ibid.
686
La trad. è nostra. Proponiamo alcune delle trad. di questo titolo: «Rules for enquiring into nature, and for
knowing all that exists, (every) mystery, […] every secret» (T. E. Peet, 1923); «Les règles pour faire des recherches
sur la nature, pour connaître tout ce qui existe, chaque mystère et chaque secret» (A. Rey, 1942); «Règles pour
étudier la nature, et pour comprendre tout ce qui existe, chaque mystère, chaque secret!» (J. Vercoutter, 1957);
«Méthode correcte d’investigation dans la nature, pour connaître tout ce qui existe, chaque mystère, tous les
secrets» (T. Obenga, 1990); «Exemple de calcul afin de sonder les choses et connaître tout ce qui est obscur …
ainsi que tous les secrets» (S. Couchoud, 1993); «Metodo corretto di entrare nella natura, conoscere tutto ciò che
esiste, ogni mistero, ogni segreto» (A. Cartocci, 2007).
224
Nel tentativo di dimostrare che l’uomo egiziano era capace di un certo grado di
sistematicità e di astrazione nel pensare, Obenga dirige la sua attenzione
sul termine tp-Hsb
che traduce con l’espressione «metodo corretto»
(méthode correcte). Questo termine manifesterebbe, nel pensiero egizio, un’esigenza
teorica di primaria importanza in ogni attività scientifica: «Il metodo è
essenzialmente un’operazione logica che mira a raggiungere un risultato determinato,
segnalando certi errori da evitare. Si tratta, in fondo, di ragionare correttamente e di
evitare l’errore. […] Dall’antico Egitto […] il problema filosofico decisivo, trattandosi
di matematica in particolare e di scienze in generale, il problema centrale, dunque, è
stato sempre quello di conoscere le operazioni logiche attraverso le quali la mente
umana passa per raggiungere la verità, evitando l’errore: è ciò che gli Egiziani
chiamavano tep-heseb, “regole”, “metodo corretto” per studiare la natura in tutti i
suoi recessi in maniera esatta».687
Precedentemente anche Thomas Eric Peet, curatore di una celebre edizione del
papiro di Rhind, traducendo il termine tp-Hsb con «esattezza» (accuracy), aveva
ritenuto che l’espressione potesse essere intesa come «metodo corretto per» (correct
method for).688
Secondo il Wörterbuch der aegyptischen Sprache, il verbo Hsb significa «contare»
(rechnen, berechnen) e il termine composto tp Hsb assume il significato di «calcolo
esatto», «esattezza» (richtige Berechnung, Richtigkeit).689 Il dizionario di Hannig,
infine, conferma questa interpretazione.690 Per lo scriba egizio, dunque, l’esattezza e
il procedere rigoroso sono le caratteristiche fondamentali della matematica.
I termini che, nel titolo in questione, seguono l’espressione tep-heseb mettono in
evidenza, invece, l’oggetto e il raggio d’azione di questo strumento. Attraverso la
matematica lo spirito umano può «scendere nelle cose» (n hAt m xt) e «conoscere tutto
ciò che esiste» (rx ntt nbt). L’orizzonte che questo «metodo» dischiude è, dunque, la
natura nel suo complesso, ossia tutta quanta la realtà, nei suoi aspetti manifesti e in
quelli nascosti. Come abbiamo rilevato nel primo capitolo, secondo la cultura
egiziana, gli dei condividono con gli uomini lo stesso mondo. La dimensione divina,
687
T. Obenga, La philosophie africaine de la période pharaonique, cit., p. 361.
688
T. E. Peet, The Rhind Mathematical Papyrus British Museum 10057 and 10058, Hodder & Stoughton,
London 1923, p. 33.
689
Cfr. Wb, III, pp. 166 sg.
690
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 603.
225
pertanto, non costituendo una regione trascendente rispetto al resto della creazione,
può essere fatta rientrare a pieno titolo nel campo d’indagine della matematica, anche
se nel papiro di Rhind e negli altri testi di argomento matematico non si parla mai
esplicitamente di divinità.
A favore di questa tesi ci sono anche altri indizi. In pressoché tutte le civiltà antiche
alcuni numeri o determinati rapporti matematici sono considerati «divini». Per
ordinare le divinità e i loro attributi, gli Egiziani seguono generalmente degli schemi
numerici. I numeri che risaltano maggiormente sono il due, il tre, il quattro, il sette e
il nove.691 L’ordinamento più semplice è costituito dalla coppia di dei: per esempio,
Horo e Seth o Iside e Nephtys. Se viene aggiunto un figlio alla coppia divina si ottiene
la triade, che rappresenta la forma ordinativa più diffusa tra gli dei egiziani. Una
triade molto importante è, per esempio, quella di Menfi, composta da Ptah, Sekhmet
e Nefertum. Anche il numero quattro ricorre spesso nella teologia egiziana; basti
pensare ai quattro figli di Horo o ai quattro sostegni del cielo. La rilevanza del
numero sette, numero magico per eccellenza, è attestata in pressoché tutte le culture
antiche. Già nei Testi delle Piramidi il sette e i suoi multipli sono menzionati come
numeri sacri.692 Nel Nuovo Regno, il dio Ra è dotato di sette ba e quattordici ka.
L’enneade è, invece, lo schema che rappresenta la creazione ormai completa e
strutturata. Vogliamo infine rammentare che i sottomultipli dell’heqat (HqAt), un’unità
di misura per i volumi, sono in relazione con le parti dell’occhio di Horo, uno dei
simboli principali della religione egiziana.
E’ possibile, dunque, sostenere che, per gli Egiziani, la matematica, in quanto
conoscenza della realtà naturale, è anche conoscenza della divinità. In proposito, è
interessante il parallelo che si può rilevare tra il titolo del papiro di Rhind e quello
dell’Onomasticon di Amenope, un testo risalente all’epoca ramesside (XX
dinastia).693 L’Onomasticon è costituito da una lista di nomi ripartiti per categorie,
che ha lo scopo di organizzare il sapere. Anche in questo contesto si afferma che
quanto viene insegnato permette di conoscere «tutto ciò che esiste». In questo caso,
tuttavia, il titolo specifica meglio l’oggetto dell’indagine:
691
Sull’importanza del numero nella teologia e nella magia egiziane cfr., per es., J.-C. Goyon, Nombre et univers:
réflexions sur quelques données numériques de l’arsenal magique de l’Égypte pharaonique, in A. Roccati, A.
Siliotti (a cura di), La magia in Egitto ai tempi dei faraoni. Atti del convegno internazionale di studi, Milano 2931 ottobre 1985, Rassegna Internazionale di Cinematografia Archeologica Arte e Natura Libri, Verona 1987, pp. 57
sgg.
692
Cfr. Pyr, 511 a-c.
226
«Ciò che Ptah ha creato, ciò che Thot ha trascritto, il cielo con i suoi disegni [Ssrw], la
terra e ciò che è in essa, ciò che le montagne hanno vomitato [qa], ciò che è bagnato
dall’inondazione, ogni cosa sulla quale Ra ha brillato, tutto ciò che è cresciuto sul
dorso della terra».694
Tra le parole elencate nel testo, inoltre, compaiono i nomi «dio» (nTr), «dea» (nTrt),
akh (Ax).695 Viene, quindi, stabilita palesemente una relazione tra conoscenza, natura
e divinità: «Appare dunque chiaro che, come il conoscere la natura per mezzo delle
parole che descrivono il reale permette di conoscere anche la creazione degli dei, così
la stessa conoscenza può essere raggiunta per mezzo dello studio dei numeri».696
Prima di entrare nel merito dell’impostazione caratteristica della matematica
egiziana, vorremmo soffermarci ancora sulla struttura formale dei due principali testi
matematici pervenutici e sul ruolo che per gli Egizi riveste il sapere matematico nel
processo conoscitivo. I due testi in questione presentano un contenuto piuttosto
scarno ed entrambi hanno l’aspetto di un’antologia di esercizi, accompagnati dalle
loro soluzioni. Nel caso del papiro di Rhind, gli esercizi sono preceduti dalle tavole
necessarie per i calcoli. Alla luce di questi documenti la matematica egiziana rischia
di apparire una disciplina abbastanza «primitiva». Questa è stata, in effetti,
l’opinione di diversi studiosi, tra cui Otto Neugebauer, che scrisse: «il fatto che la
matematica egizia si sia mantenuta ad un livello relativamente primitivo ci permette
di studiare una fase di sviluppo che non ci è più accessibile in una forma così
semplice tranne che nei documenti egizi».697 Tuttavia, secondo Maurice Caveing, un
esame approfondito di questi testi mostra che non tutto è stato consegnato allo
scritto, bensì solo l’essenziale. Negli esercizi, infatti, non tutti i conti sono stati
trascritti, ma è presente solo ciò che serve a evidenziare i passaggi.
Questo aspetto ha fatto supporre a Caveing che in Egitto il calcolo mentale fosse
particolarmente sviluppato: «Calcolo mentale o calcoli ausiliari non messi per iscritto
suggeriscono che la parte scritta è costituita da risultati organizzati allo scopo di
comunicare un insegnamento che contiene soltanto l’essenziale e che riporta
693
Cfr. A. Cartocci, La matematica degli Egizi. I papiri matematici del Medio Regno, Firenze University Press,
Firenze 2007, pp. 80 sg.
694
The Onomasticon of Amenope, in M. Clagett, Ancient Egyptian Science, vol. I, American Philosophical
Society, Philadelphia 1989, p. 247. La traduzione del passo segue quella inglese di A. Gardiner.
695
Cfr. ibid., p. 248.
696
A. Cartocci, La matematica degli Egizi. I papiri matematici del Medio Regno, cit., p. 81.
697
O. Neugebauer, Le scienze esatte nell’Antichità, trad. it. di A. Carugo, Feltrinelli, Milano 1974, p. 95.
227
solamente dei numeri accuratamente scelti con quest’intenzione».698 Questi testi
matematici non sarebbero soltanto una raccolta di problemi, ma un insieme di
modelli procedurali che trasmetterebbero l’insegnamento attraverso l’esempio. Ciò
spiegherebbe la scelta in molti casi arbitraria dei valori numerici e il fatto che
numerosi problemi cominciano con la formula «esempio di» (tp n). Gli 87 problemi
del papiro di Rhind, inoltre, sono raggruppati secondo le tipologie di calcolo
necessarie a risolverli. Caveing illustra in questo modo i passi che l’utilizzatore del
testo deve seguire:
a) riconoscere la tipologia del problema;
b) effettuare la sostituzione dei dati numerici;
c) applicare la procedura mostrata dall’esempio;
d) effettuare i calcoli ausiliari, sia per iscritto che mentalmente.
Il testo spiega anche come verificare i conti attraverso una «prova», consistente
nell’introdurre il risultato ottenuto nell’espressione numerica dell’enunciato per
riottenere i dati di partenza: «questo torna a effettuare una sintesi dopo aver cercato
per analisi».699
Tutti questi aspetti fanno pensare, dunque, a un certo grado di sistematicità e
astrazione nella matematica egiziana. Alcuni studiosi si sono spinti oltre. Secondo O.
Gillain, la verifica finale che conclude i singoli problemi esprime un’esigenza dello
«spirito razionale»; essa non avrebbe senso, infatti, in un contesto puramente
«empirico». La funzione della prova eseguita dallo scriba al termine del calcolo
sarebbe analoga a quella del moderno C.V.D., la formula conclusiva di una
dimostrazione matematica: «Egli non si affida, dunque, all’intuizione empirica, ma
aspira a qualcosa d’altro. E questo qualcosa d’altro è la soddisfazione logica».700 In
effetti, attraverso la prova lo scriba non si limita a fare un controllo, egli mostra in
primo luogo che il risultato ottenuto risponde alla domanda iniziale.701 Anche
Obenga, relativamente alle procedure della matematica egiziana, esprime delle
698
M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, Presses
universitaires de Lille, Lille 1994, p. 381.
699
Ibid., p. 383.
700
O. Gillain, La science égyptienne, Édition de la Fondation Égyptologique Reine Élisabeth, Bruxelles 1927, p.
306.
701
Il tipo di domanda individua la procedura matematica da impiegare nella risoluzione del problema. In
proposito, Caveing osserva: «Ciò che riceve un nome nella classificazione non è la procedura risolutoria, né il
metodo che la ispira, ma il tipo di domanda posta: qual è il “complemento”? Qual è la quantità incognita? Quali
sono le parti?». Lo studioso aggiunge poco oltre: «Ci si può dunque domandare se tutto ciò non oltrepassi il livello
di una tecnica, la cui sistematizzazione è, però, sufficientemente sviluppata perché l’astrazione vi si profili» (Id.,
Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., p. 384).
228
considerazioni analoghe: «Così, in tutta obiettività, lo scriba manifesta uno spirito
logico, scientifico che non si accontenta soltanto di affermare, ma che vuole provare,
dimostrare tecnicamente, attraverso il calcolo, ciò che afferma».702 Merita
menzionare, tuttavia, l’invito alla prudenza di Caveing, il quale, pur riconoscendo al
sapere matematico egiziano una certa sistematicità e una certa capacità di astrazione,
esclude che si possa parlare di «scienza razionale», in senso moderno.703
La matematica egiziana, dunque, non è una disciplina puramente empirica e legata
soltanto alle contingenze quotidiane né è una scienza astratta, che ha per scopo
esclusivamente una conoscenza teorica. Essa è concepita come una scienza «pratica»,
finalizzata allo studio della natura e dei suoi fenomeni. Si tratta di uno strumento
funzionale a una «fisica», intesa come misura di quantità e grandezze del mondo
sensibile,704 ma, nello stesso tempo, anche di una disciplina legata inscindibilmente a
problematiche di ordine filosofico e teologico. Infatti, come rileva Sauneron, «questa
scienza fu costruita progressivamente da uomini che vivevano in un mondo
fondamentalmente orientato verso i problemi religiosi – la teologia – e l’esercizio del
culto: essa è dunque d’intenzione pratica – ma pratica nell’ambito di un sistema
spirituale fissato».705 Il numero è, quindi, la chiave per accedere ai segreti dell’intero
creato e le procedure matematiche sono l’espressione dell’ordine e delle leggi
dell’universo.
3. L’impostazione «logica» della matematica egiziana
Il concetto di numero sviluppato dalla civiltà egiziana emerge dal particolare sistema
di notazione adottato. Questo sistema è presente già all’inizio dell’epoca dinastica, in
forma strutturata e completa. Esso utilizza sette segni, ognuno dei quali può essere
ripetuto al più nove volte. Questi segni rappresentano le prime sette potenze di 10, da
100 a 106. Schematicamente, il sistema di notazione degli interi naturali si presenta
così:706
702
T. Obenga, La philosophie africaine de la période pharaonique, cit., p. 375.
703
Cfr. M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., pp. 384
sgg.
704
Cfr. ibid., pp. 388 sg.
705
S. Sauneron, Les prêtres de l’ancienne Égypte, Éditions du Seuil, Paris 1998, p. 134.
229
Ordine di grandezza
Potenza
Segno
unità
100
|
decine
101
centinaia
102
migliaia
103
decine di migliaia
104
centinaia di migliaia
105
milioni
106
Nella grafia di un numero intero i simboli delle cifre di ordine superiore precedono
quelli delle cifre di ordine inferiore. I simboli dello stesso ordine possono essere
scritti in sequenza orizzontale o assemblati in linee sovrapposte. Come risulta subito
evidente, questo tipo di notazione, a differenza di quella utilizzata da noi attualmente,
non è posizionale, ossia l’ordine di grandezza di una cifra non è determinato dalla sua
posizione nella sequenza numerica. Il sistema non prevede, quindi, la possibilità di
contare all’infinito. Esso è applicabile soltanto agli interi naturali (con l’esclusione
dello zero) inferiori a 107. Abbiamo già rilevato che la nozione di infinito, secondo
l’ontologia egizia, è estranea alla sfera dell’essere. La dimensione dell’esistente è,
infatti, limitata sia spazialmente che temporalmente. L’infinito appartiene, invece, al
non esistente, all’oceano primordiale del Nun. Possiamo ipotizzare che questo valga
anche per lo zero.
Il sistema ha una struttura decadica, ossia sono utilizzati soltanto i termini della
progressione geometrica di ragione 10. Non ci sono simboli per indicare i numeri 5,
50, 500, ecc., come nella notazione attica o in quella latina. Ciò implica la ripetizione
di uno stesso simbolo fino a nove volte. In questo aspetto, non ci sembra troppo
azzardato intravedere un riflesso del concetto filosofico-teologico di enneade, che
esprime l’idea di un processo giunto al suo termine. La struttura decadica della
notazione numerica egizia testimonierebbe, secondo Caveing, un’«astrazione» in
706
I segni raffigurano nell’ordine un trattino verticale, una pastoia per bestiame, una corda arrotolata, un fiore di
loto, un dito, un girino di rana e un dio che alza le braccia al cielo.
230
grado di slegare il numero tanto dalle procedure di calcolo eseguite sulle dita della
mano quanto dalla praticità nella scrittura. In questa astrazione sarebbe contenuta,
inoltre, «la nozione di “base” di un sistema di numerazione».707
Un’altra caratteristica del sistema è una notevole polisemia della nozione di unità.
Quest’ultima è dovuta al fatto che non si fa distinzione tra un numero e l’insieme di
elementi di cui esso è il «cardinale».708 Se il numero è concepito come un insieme di
unità, queste unità saranno nello stesso tempo «identiche» e «distinte»; identiche
perché ciascuna è in effetti un’unità, distinte perché bisogna poterle contare. Si
possono individuare tre significati principali dell’unità:
a) essa indica anzitutto il numero 1, opponendosi al concetto di «pluralità»;
b) la stessa nozione denota, inoltre, ognuno dei segni identici che compongono la
grafia di un numero compreso tra 1 e 9. In questo senso essa è «l’elemento
costitutivo» dei numeri;
c) poiché i segni che indicano le potenze di 10 si comportano come il numero 1
(ciascuno è ripetuto graficamente fino a nove volte), l’unità denota anche una
collezione di oggetti o una totalità.709
I concetti di unità e pluralità appaiono, dunque, relativizzati: «Dopo essere stata
l’opposto della pluralità, l’unità si è rivelata essere anche l’elemento della pluralità e,
infine, un attributo di questa stessa pluralità».710
La relatività della nozione di unità condiziona notevolmente anche il calcolo delle
frazioni. Lo scriba egizio, infatti, utilizza esclusivamente frazioni unitarie,
considerando ciascuna di esse come l’n-esima parte di un’unità relativa, composta da
un’insieme di unità assolute. Le frazioni non unitarie vengono sempre scomposte in
somme di frazioni unitarie. Un’eccezione a questa regola è rappresentata dalla
frazione 2/3, che possiede una propria particolare notazione; questa frazione è forse
la più usata della matematica egiziana.711 Per scrivere le frazioni, lo scriba poneva
sopra al numero corrispondente al denominatore l’ideogramma della bocca
707
(r).
M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., p. 245.
708
Nell’opera Die Grundlagen der Arithmetik (1884), G. Frege pone l’accento sulla confusione tra il concetto di
cardinale e quello di numero intero naturale.
709
Cfr. M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., pp. 245
sgg.
710
Ibid., p. 247.
711
In realtà anche la frazione ¾ possiede una propria notazione; si tratta, tuttavia, di un segno impiegato
raramente. Esiste poi un segno speciale per indicare ½ e dei segni ieratici per le frazioni 1/3 e ¼. Secondo
Neugebauer si tratterebbe di frazioni «naturali», considerate concetti di base come i numeri interi; cfr. O.
Neugebauer, Le scienze esatte nell’Antichità, cit., pp. 96 sgg.
231
In questo contesto, Kurt Sethe attribuisce al geroglifico della bocca il significato di
«parte» e rileva che il nome del numero scritto sotto questo geroglifico è sempre al
genitivo. La grafia di una frazione significherebbe, quindi, «la parte di» un
determinato numero n.712 Quest’ultimo rappresenta un’unità relativa, costituita da un
insieme di unità uguali a 1 (unità assolute), delle quali se ne considera soltanto una.
Questa notazione, secondo Caveing, è funzionale a esprimere una divisione
«impossibile», quella di un numero più piccolo per un numero più grande. Ciò
significa che il rapporto tra questo quoziente «impossibile» e l’unità 1 è uguale a
quello tra l’unità 1 e il denominatore della frazione. Utilizzando la nostra notazione, la
proporzione che ne risulta è la seguente: 1/n : 1 = 1 : n; «L’espressione del risultato
non implica, dunque, in nessun modo che si divida l’unità 1 in n unità più piccole, ma
che si rapporti l’unità assoluta 1 a un’unità relativa n volte più grande».713
Un ultimo aspetto importante del sistema di notazione numerica egizio che
vorremmo evidenziare consiste nella sua «additività». Essa è dovuta alla
giustapposizione spaziale dei simboli numerici che costituisce, in sostanza,
l’equivalente di un’addizione. Ne segue che un numero qualsiasi appare anche come il
risultato di una somma di elementi.
Chiariti gli aspetti di base della matematica egizia, relativi alla peculiarità della
notazione e ai concetti di numero e di unità, vorremmo ora soffermarci su quelle che
sono state individuate come le «grandi tendenze» del sapere matematico della Valle
del Nilo.714 Dall’esame dei papiri matematici emerge un particolare interesse da parte
degli Egizi per le progressioni. Diversi problemi ci mostrano, infatti, esempi di
progressioni aritmetiche e geometriche. Lo stesso sistema di notazione, come
abbiamo potuto constatare, si fonda sulla progressione geometrica 10k. L’insieme
delle frazioni, al quale abbiamo brevemente accennato, forma, invece, la seguente
progressione: 1, 1/2, 1/3, 1/4, …, 1/n, …, conosciuta nella nostra matematica come
serie armonica.715
Tra le progressioni prese in considerazione dalla matematica egiziana, la
progressione geometrica 2k è sicuramente la più importante. Su di essa si fondano
712
Cfr. K. Sethe, Von Zahlen und Zahlworten bei den alten Ägyptern und was für andere Völker und Sprachen
daraus zu lernen ist, Trubner, Strassburg 1916, p. 85 sg.
713
M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., p. 269.
714
Cfr. Ibid., pp. 361 sgg.
715
Essa è chiamata in questo modo perché gli armonici prodotti da un corpo vibrante hanno rapporti di
frequenza con il suono fondamentale che possono essere espressi con gli elementi della serie.
232
quello che Caveing chiama il «teorema fondamentale dell’aritmetica egiziana» e il
metodo di calcolo della moltiplicazione.716
Il teorema in questione afferma che qualunque numero naturale può essere
scomposto nella somma di potenze di due, prese al più una sola volta. L’unità e la
duplicazione continua generano, dunque, la serie dei numeri naturali. La
progressione 2k è l’unica a contenere tutti i termini necessari per ottenere un
qualsiasi elemento dell’insieme dei numeri naturali. Chiaramente una simile
formulazione non è presente in nessuno dei testi matematici egiziani di cui
disponiamo. Tuttavia, da questi stessi testi emerge che questo principio era
sicuramente ben noto al matematico dell’antico Egitto.
Per eseguire una moltiplicazione lo scriba procede utilizzando la duplicazione. Il
metodo si fonda, infatti, sulla scomposizione di uno dei due fattori da moltiplicare in
una somma di potenze di due e sulla duplicazione dell’altro, effettuata tante volte
quanti sono i termini ottenuti con la scomposizione. Se lo scriba dovesse, per
esempio, moltiplicare 9 per 7, procederebbe nel modo indicato dalle due colonne
centrali della tabella seguente:
Progressione 2k
1° fattore
20
\1
7
20 ⋅ 7
21
2
14
21 ⋅ 7
22
4
28
22 ⋅ 7
23
\8
56
23 ⋅ 7
9
63
(20 + 23) ⋅ 7
20 + 23
2° fattore
Progressione 2k ⋅ 7
Come risulta dalla tabella, il primo fattore, il numero 9, è stato scomposto in una
somma di potenze di due, segnate con un tratto obliquo (nella seconda colonna):
1 + 8, ossia 20 + 23.
L’altro fattore (7), invece, è stato duplicato tre volte (14, 28, 56), in modo da ottenere
(nella terza colonna) i termini corrispondenti all’1 e all’8. La somma di questi due
termini è il risultato della moltiplicazione:
7 + 56 = 63.
716
Cfr. M. Caveing, Essai sur le savoir mathématique dans la Mésopotamie et l'Egypte anciennes, cit., pp. 253
sgg.
233
Il procedimento funziona perché le due liste di numeri, redatte dallo scriba, sono
proporzionali tra loro. In relazione al nostro esempio, la proporzione che vige è la
seguente:
1 : 7 = 2 : 14 = 4 : 28 = 8 : 56.
Più in generale, vale questo rapporto:
1 : n = 2 : 2n = 22 : 22n = … = 2k : 2kn
Il concetto di proporzionalità rappresenta un’altra delle «grandi tendenze» della
matematica egiziana. Esso informa tutto il sistema logico-matematico. La
proporzionalità, infatti, non viene utilizzata soltanto per calcolare le moltiplicazioni e
le divisioni, ma anche per risolvere problemi algebrici e geometrici: «Ciò che sembra
in ogni caso possibile è affermare […] che la proporzionalità è la chiave del calcolo
egiziano, senza la quale nessuna regola particolare può essere compresa, e che essa è
anche il metodo di risoluzione dei problemi».717
In tutti i casi in cui viene impiegato il principio di proporzionalità, si procede
istituendo un rapporto tra una determinata quantità e l’unità, che può essere assoluta
(come nel calcolo della moltiplicazione) o relativa. In questo modo, il problema viene
risolto trovando una soluzione proporzionale a quella richiesta.
Una delle applicazioni più ricorrenti della proporzionalità consiste nel cosiddetto
metodo della «falsa posizione». Per chiarire meglio il ruolo giocato dal concetto di
proporzionalità nella matematica e nella «logica» egiziane, daremo un esempio di
questo metodo.
Il problema 26 del papiro di Rhind chiede di trovare
«aHaw ¼=f Hr=f xpr=f m 15 wAH»,
ossia quella quantità che aggiunta al suo quarto è uguale a 15.718 Si tratta di risolvere
un’equazione di primo grado, anche se non si fa uso di notazione simbolica e
l’incognita è chiamata «quantità», «cifra»
(aHaw).
Scrivendo l’equazione in termini moderni, otteniamo:
x + ¼ x = 15
Per la risoluzione, lo scriba parte formulando l’ipotesi più semplice, ossia x = 4. Si
tratta di una «falsa posizione». Se indichiamo con y la quantità cercata aggiunta al
717
Ibid., p. 373.
718
Cfr. S. Couchoud, Mathématiques égyptiennes. Recherches sur les connaissances mathématiques de l’Égypte
pharaonique, Éditions Le Léopard d’Or, Paris 1993, pp. 115 sg.
234
suo quarto, il suo nuovo valore, in seguito alla sostituzione di x con 4, risulterà essere
5. L’operazione è la seguente:
(1 + ¼) ⋅ 4 = 5
Indicando poi con x1 e y1 i «falsi» valori di x e y, abbiamo x1 = 4 e y1 = 5. A questo
punto, per trovare la soluzione richiesta dal problema, y viene diviso per y1 e
moltiplicato per x1:
15/5 · 4 = 12.
Il risultato cercato è, quindi, 12. Come è immediatamente evidente, i valori presi in
considerazione formano una proporzione:
12 : 4 = 15 : 5, oppure x : x1 = y : y1
In generale, quindi, se il problema si presenta nella forma di un’equazione di primo
grado del tipo
x + x/n = y, ovvero (1 + 1/n) x = y
si procede scegliendo come «falsa» soluzione x1 = n. Al secondo membro
dell’equazione si otterrà allora il valore y1 = (1 + 1/n) n. Moltiplicando poi entrambi i
membri per y/y1 (il fattore di proporzionalità) si giunge alla relazione
y = (1 + 1/n) n y/y1,
dove la quantità n y/y1 è la soluzione del problema. In sintesi, quindi, il procedimento
consiste nel trovare una falsa soluzione che, moltiplicata per un fattore di
proporzionalità, consente di calcolare la soluzione «vera».
4. Il riflesso ontologico-teologico del sapere matematico
Abbiamo detto precedentemente che l’ordine matematico, per il pensiero egizio, non
ha un ruolo puramente formale, ma è il riflesso dell’ordine della natura o del cosmo.
La matematica, conformandosi ai principi naturali, è in grado di fungere da
strumento di conoscenza dell’intera realtà. Ogni concetto matematico ha, quindi, una
portata ontologica o teologica. Il concetto di unità, non scevro di una certa ambiguità,
rispecchia il modo di essere della divinità. Tutti gli dei partecipano dell’«unica» sfera
divina, ma ogni dio è anche «unico» nel suo genere e non ha eguali accanto a sé. In
certi casi un singolo dio è addirittura l’«unico», o «il più grande», senza, tuttavia,
negare l’esistenza o l’importanza degli altri dei. Afferma Hornung: «L’assoluta unicità
di dio si trova, per l’Egiziano, solo al di là della creazione, nella momentanea
transizione dal non esistente all’esistente. Nella sua opera creatrice il primo e
235
inizialmente unico dio si dissolve nella pienezza differenziata nella quale ogni figura
divina è unica e incomparabile, nonostante i molti tratti che ha in comune con le
altre».719 Soltanto durante il breve periodo in cui ha regnato Akhenaton (XIV sec. a.
C.), un unico dio, Aton, non ha tollerato accanto a sé nessun’altra divinità.
Elementi peculiari della matematica egiziana, come il rapporto tra unità e
molteplicità insito nel concetto di numero, la progressione geometrica 2k e la
proporzionalità sono riscontrabili nella cosmogonia eliopolitana.720 Il processo di
creazione innescato da Atum rispecchia, per certi versi, il processo della
moltiplicazione. Quest’ultimo, come abbiamo constatato, riassume in sé le «grandi
tendenze» della matematica egiziana e si fonda sulla duplicazione. In effetti, il
numero due svolge sul piano ontologico-teologico una funzione che potremmo
definire «demiurgica». Nel primo capitolo abbiamo evidenziato come nei Testi dei
Sarcofagi la condizione di non esistenza antecedente all’atto di creazione viene
descritta affermando che «non c’erano ancora due cose».721 Il numero due
rappresenta la prima differenziazione che inaugura l’esistente.
La funzione creatrice della progressione 2k, a nostro avviso, appare in modo ancora
più evidente che nella teologia di Eliopoli in un’iscrizione presente sul sarcofago di un
sacerdote di Amon vissuto durante la XXII dinastia, rinvenuto da Gaston Maspero e
conservato al museo del Cairo. In questo contesto, il defunto, Petamon, nelle vesti del
dio demiurgo recita:
«jnk wa xpr(w) m 2, jnk 2 xpr(w) m 4, jnk 4 xpr(w) m 8, ink wa m-sA=f».
«Io sono Uno che diventa Due. Io sono Due che diventa Quattro. Io sono Quattro che
diventa Otto e sono Uno dopo di ciò».722
Maspero individua in questa sequenza l’enneade, «concepita come formata
dall’ogdoade più uno».723 Anche Siegfried Morenz e Herman Kees mettono in
relazione la sequenza numerica presente sul sarcofago con l’enneade di Eliopoli.
719
E. Hornung, Gli dei dell’antico Egitto, cit., pp. 165, sg.
720
Cfr. A. Cartocci, La matematica degli Egizi. I papiri matematici del Medio Regno, cit., pp. 109 sgg.
721
CT, II, 396 b; III, 383 a.
722
Cfr. G. Maspero, Notes, in Recueil de travaux relatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et
assyriennes, 23 (1901), p. 196. Si tratta del sarcofago JdE 29666, citato anche in H. Kees, Der Götterglaube im
alten Aegypten, Hinrichs, Leipzig 1941, p. 171, in S. Morenz, Aegyptische Religion, W. Kohlhammer Verlag,
Stuttgart 1960, p. 153 e in E. Hornung, L’Égypte, la philosophie avant les Grecs, in Les études philosophiques,
avril-septembre 1987, p. 115. Cfr. anche M. Tosi, Dizionario enciclopedico delle divinità dell’antico Egitto, Vol. II,
Ananke, Torino 2006, p. 430.
723
G. Maspero, Notes, cit., p. 197.
236
Kees parla di questi numeri come di «derivazioni [Ableitungen] dall’unità secondo
uno schema matematicamente dimostrabile: 1 > 2 > 4 > 8».724 La creazione
seguirebbe, quindi, questo schema.
Vogliamo far notare che il passo in questione è costituito da una serie di proposizioni
a predicato nominale; esso esprime, dunque, un principio sempre valido, svincolato
dalle contingenze spazio-temporali.
Secondo l’insegnamento di Ermopoli, invece, all’inizio viene posta un’ogdoade,
formata da quattro dei e quattro dee, raggruppati in coppie; «Qui è posta come
fondamento di tutto il divenire non l’unità teorica come a Eliopoli, bensì la
molteplicità che si osserva nella natura […] Il concetto di unità è qui ordinato secondo
la modalità dell’associazione di dei».725
Perché il pensiero egiziano avrebbe riconosciuto proprio nella progressione
geometrica 2k la legge che governa il processo della creazione? Una possibile risposta
la possiamo ricavare dal «teorema fondamentale dell’aritmetica egiziana». La
progressione geometrica di ragione 2, infatti, è l’unica in grado di generare tutti gli
interi naturali; essa, pertanto, in virtù di una corrispondenza tra ordine matematico e
ordine naturale, genera anche tutti gli enti del creato. L’importanza del dualismo
come principio fondante della realtà emerge, in modo particolarmente evidente, dalla
bidimensionalità caratteristica della pittura egiziana. Il medesimo aspetto emerge
anche dalla metrica. Numerosi testi letterari e inni religiosi egiziani si presentano,
infatti, come una successione di «distici», ossia di coppie di due versi o stichi, ognuno
dei quali ha un numero fisso di unità accentuali.726
Un altro aspetto fondamentale dell’ordine cosmico è stato espresso dagli Egizi
attraverso il principio di proporzionalità. L’arte e l’architettura egiziane testimoniano
l’importanza che è stata attribuita a questa legge matematica. Questo principio
sancisce, in sostanza, una commensurabilità tra le varie parti dell’esistente; dunque
anche tra la sfera divina e quella umana. Gli enti che popolano il mondo si
«richiamano» a vicenda nello stesso modo in cui si relazionano tra loro le quantità
alle quali si applica il principio della falsa posizione. Per quanto riguarda, invece, il
non esistente, non è possibile individuare nessun ordine.
724
H. Kees, Der Götterglaube im alten Aegypten, cit., p. 161.
725
Ibid., p. 167.
726
La struttura metrica più caratteristica della poesia egizia è il «distico eptametrico», in cui il primo verso è
costituito da quattro unità accentuali e il secondo da tre. In proposito, cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di
egiziano geroglifico, cit., pp. 655 sgg.
237
L’uomo, in quanto parte integrante del creato, rientra nella legge della
proporzionalità. Per la rappresentazione dell’essere umano, nella pittura o nella
scultura, l’artista egiziano utilizzava, infatti, un canone. Come abbiamo già rilevato,
sulla superficie da dipingere veniva disegnato un reticolo a quadrati regolari che
serviva a definire la collocazione e le dimensioni di ciascuna parte. Nel caso di
un’opera scultorea, invece, la quadrettatura veniva disegnata sulle varie facce dei
blocchi di pietra. Iversen ha operato un confronto tra il canone egizio e quello
utilizzato in Grecia e ha suggerito un’influenza del primo sull’arte greca.727
Prima di proseguire nella nostra indagine rivolgendoci nuovamente al mondo greco,
vorremmo evidenziare ancora un aspetto. Tra le unità di misura egiziane, la heqat
(staio), utilizzata generalmente per misurare le granaglie, è suddivisa in sottomultipli,
dal valore quantitativo compreso tra (½)1 e (½)6. Questi sottomultipli corrispondono
alle parti in cui fu diviso l’occhio di Horo. Secondo la mitologia, infatti, durante una
lotta tra Seth e Horo, l’occhio del dio falco fu colpito dall’avversario e smembrato in
sei parti. Successivamente, Thot ricompose l’occhio, ridandogli la sua integrità.
Questo simbolo sacro della tradizione egiziana, denominato udjat,
(wDAt)
rappresenta, quindi, tutto ciò che è integro e in buona salute. La somma dei valori
corrispondenti alle differenti parti dell’occhio, tuttavia, dà come risultato 63/64 e non
l’unità. La serie (½)k, per k → +∞, tende, infatti, all’unità senza mai raggiungerla. Ci
troviamo in una situazione simile a quella descritta da uno dei celebri paradossi di
Zenone di Elea, quello della dicotomia.
Qual è il rapporto tra l’infinito e l’unità? L’infinito, come abbiamo potuto riscontrare,
non è contemplato né dalla matematica, né dalla teologia egiziane. Esso non
appartiene all’esistente, bensì all’abisso del Nun. Una risposta plausibile è che l’unità
o l’intero non sono concepiti semplicemente come una somma di componenti, ma
come una dimensione di ordine superiore. Se, quindi, l’immagine del mosaico
cosmico non è il risultato di un’addizione di tasselli, possiamo provare a intendere
l’unità o l’intero in senso dinamico, facendo coincidere il cosmo nella sua interezza
con la globalità del processo del suo divenire. Per generare il movimento ordinato che
anima e rinnova il cosmo è necessaria l’interazione tra la dimensione finita
727
Cfr. E. Iversen, The Egyptian origin of the archaic Greek canon, in Mitteilungen des Deutschen
Archäologischen Instituts, Kairo 15 (1957), pp. 134 sgg.
238
dell’esistente e l’infinità del non esistente. E’ in virtù di questo movimento che le parti
del creato entrano in relazione tra di loro e costituiscono l’«unità». In ciò sta il potere
magico del dio Thot.
5. Un retaggio egiziano nella matematica greca?
Tracce dell’impostazione e dei procedimenti propri della matematica egiziana sono
riscontrabili nell’aritmetica greca. Anzitutto è possibile rilevare una somiglianza tra il
sistema di notazione numerica egiziano e quelli in uso nel mondo greco. I simboli
numerici del periodo miceneo corrispondono, come quelli dell’antico Egitto, alle
potenze di 10 e sono ripetibili al più nove volte. In seguito al crollo della civiltà
micenea, la scrittura viene reintrodotta su base alfabetica. Il sistema di notazione è
conservato con due differenze:
a) ad esclusione dell’unità, rappresentata con un tratto verticale come in Egitto,
le potenze di 10 sono scritte utilizzando le iniziali maiuscole dei nomi
corrispondenti;
b) viene introdotta un’abbreviazione per indicare le potenze di 10 moltiplicate per
5. I segni della prima serie possono essere, pertanto, ripetuti al più quattro
volte.728
Il sistema rimane comunque decadico e con una capacità limitata di rappresentare gli
interi naturali. Esso comporta, inoltre, come quello egiziano, un’ambiguità della
nozione di unità. Anche in questo caso, come evidenzia Caveing, l’unità può essere
intesa in tre modi:
a) come il numero 1, che si oppone al concetto di pluralità;
b) come l’elemento di un insieme, quello dei segni identici che costituiscono il
simbolo di un intero;
c) come una delle potenze di 10.
«L’unità è così a turno l’opposto della pluralità, l’elemento di una pluralità e, infine,
un attributo di una pluralità, la totalità che questa costituisce».729
A differenza della matematica egiziana, tuttavia, quella greca esplicita questa
situazione. Negli Elementi di Euclide leggiamo:
728
Cfr. M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, Presses
universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Asq 1997, pp. 191 sgg.
729
Ibid., p. 194.
239
«Unità è ciò secondo cui ciascuno degli enti è detto uno. E numero è una molteplicità
composta di unità».730
Concepire il numero come una pluralità di unità significa non distinguerlo
dall’insieme di cui è il cardinale. Questa mancata distinzione genera un’ulteriore
sovrapposizione concettuale: quella tra l’aggiunta di nuovi elementi a un insieme o
collezione e l’operazione dell’addizione. In questo modo, contare e addizionare
risultano essere la stessa cosa. Caveing commenta: «Il sistema, come quello degli
Egiziani, è spontaneamente additivo. Esso implica, nello stesso tempo, la
“definizione” del numero come pluralità di unità e l’idea che i numeri risultano
dall’addizione dell’unità a sé stessa, ossia la confusione tra la definizione del numero
e la genesi della serie naturale degli interi».731
La matematica greca presenta, inoltre, tracce del procedimento di duplicazione e del
suo inverso, quello di «dimidiazione», che in Egitto era impiegato per eseguire le
divisioni. Nella metrologia utilizzata in Attica, per esempio, è possibile ritrovare i
termini della progressione (½)k, corrispondenti in Egitto alle frazioni dell’occhio di
Horo.732
Nella Metafisica di Aristotele si incontrano alcuni passi dove si parla della genesi dei
numeri come di un processo di duplicazione. Nel libro V, per esemplificare il fatto che
è possibile indicare una cosa non soltanto attraverso la sua definizione, ma anche per
mezzo della definizione di un’altra, Aristotele afferma: «si può dire che otto è doppio
usando la definizione di due».733
Nel libro XIII, invece, nel quale viene discussa la teoria platonica della generazione
dei numeri, leggiamo: «il numero deriva dall’uno e dalla diade indefinita».734
Più avanti il testo prosegue: «Ma essi [i platonici] dicono che dal primo due e dalla
diade indefinita dovrebbe nascere il quattro».735 E poco oltre: «Ma necessariamente
neppure il quattro può derivare da due due a caso: infatti dicono che la diade
indefinita, avendo accolto la diade definita, ha prodotto due due, perché la diade
indefinita aveva il potere di raddoppiare la diade ricevuta».736
730
Euclide, Elementi, VII, Def. I e II, in Id., Tutte le opere, trad. it. di F. Acerbi, Bompiani, Milano 2007.
731
M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, cit., p. 197.
732
Cfr. Ibid., pp. 198 sgg.
733
Aristotele, Metafisica, V, 29, 1025 a, 1.
734
Ibid., XIII, 7, 1081 a, 14-15.
735
Ibid., XIII, 7, 1081 b, 20-22.
736
Ibid., XIII, 7, 1082 a, 11-14.
240
Secondo le dottrine platoniche riportate da Aristotele, l’uno agendo sulla diade
indefinita genera il due. Nella genesi del quattro, quindi, è necessario distinguere due
diadi, ossia una «prima diade» che è moltiplicata e una seconda che moltiplica.
Quest’ultima costituisce l’operatore di duplicazione che viene applicato alla serie
inaugurata dalla prima diade e che viene chiamato diade indefinita. I verbi utilizzati
da Aristotele lasciano intendere che, nella generazione, la diade indefinita assume il
ruolo di principio femminile. Lo Stagirita aggiunge inoltre:
«Ma non deve sfuggire neppure questo: alcuni due saranno anteriori e altri
posteriori, e lo stesso accadrà anche per gli altri numeri. Supponiamo che i due che si
trovano nel quattro siano simultanei; ma essi sono anteriori rispetto ai due che si
trovano nell’otto e li hanno generati, perché come il due ha generato questi due,
questi hanno generato i quattro che si trovano nell’otto in sé».737
La prima diade genera, dunque, dalla diade duplicativa o indefinita le due diadi che
costituiscono il quattro, in questo modo:
II × 2 = (I × 2) + (I × 2) = II + II.
Ciascuna delle due unità della prima diade ha generato, attraverso l’operatore di
duplicazione, una nuova diade. Lo stesso procedimento è alla base della genesi
dell’otto. Ciascuno dei due che si trovano nel quattro viene duplicato per ottenere la
coppia di quattro che dà origine all’otto:
II II × 2 = (II × 2) + (II × 2) = II II + II II.738
Rimane poco chiaro, invece, il modo in cui sono generati i numeri dispari.739 Quello
che ci interessa rilevare in questo contesto, tuttavia, è la presenza della progressione
geometrica 2k, sulla quale si fonda il «teorema fondamentale» dell’aritmetica egiziana
e che, secondo i teologi della Valle del Nilo, spiega il processo di generazione di tutti
gli enti del creato.
Le dottrine relative all’uno e alla diade indefinita di cui parlano Platone e Aristotele
costituiscono un retaggio della scuola pitagorica. Secondo i Pitagorici, la duplicazione
e la dimidiazione, accanto all’addizione, svolgono un ruolo fondamentale nella genesi
dei numeri.740
737
Ibid., XIII, 7, 1082 a, 26-31.
738
Cfr. M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, cit., pp. 204
sg.
739
Cfr. il commento di C. A. Viano, in Aristotele, Metafisica, cit., nota 1, p. 557.
740
Cfr. L. Brunschvicg, Les étapes de la philosophie mathématique, A. Blanchard, Paris 1981, pp. 4 sg.
241
Ulteriori affinità tra la matematica egiziana e quella greca emergono anche dall’esame
delle nozioni di «misura» e di «parte». Euclide afferma:
«Un numero è parte di un numero, il minore del maggiore, quando misuri
completamente il maggiore».741
Secondo Caveing, questa definizione si basa sulle modalità dell’operazione della
divisione.742 L’operazione consiste, infatti, nel trovare quante volte il divisore è
contenuto nel dividendo. Il divisore svolge, quindi, la funzione di «unità di misura»
del dividendo.
Nella Metafisica di Aristotele troviamo diverse formulazioni della concezione
dell’uno come «unità di misura». Nel libro X, per esempio, leggiamo: «Nel campo dei
numeri l’uno e i molti si oppongono come la misura a ciò che è misurato».743 E poco
oltre: «il numero è una molteplicità misurata dall’uno».744 Nel libro XIV si afferma,
invece: «Che l’uno indichi una misura è evidente. E in ogni genere c’è qualche cosa
diversa che fa da soggetto all’uno, per esempio, nell’armonia il diesis, nella grandezza
il dito o il piede o qualcos’altro di questo genere, nel ritmo il piede o la sillaba;
analogamente anche nel peso c’è una qualche unità di misura definita. […] L’uno
infatti significa misura di una molteplicità, il numero significa molteplicità misurata e
molteplicità di misure».745
In virtù di questa concezione dell’uno, Euclide può affermare che «qualora un’unità
misuri un certo numero, e un altro numero misuri un certo altro numero le stesse
volte, anche alternando l’unità misurerà il terzo numero e il secondo il quarto le
stesse volte».746
In linguaggio formale, questa proposizione può essere espressa nel modo seguente:
1 : α = β : γ ⇒ 1 : β = α : γ.
Concepire il divisore come unità di misura del dividendo e l’uno come unità di misura
tra i numeri, ci riporta, dunque, al principio di proporzionalità. E’ ciò che
riscontriamo
nella
divisione
eseguita
dallo
scriba
egiziano.
Vediamone
schematicamente un esempio, scegliendo per semplicità una divisione che non dia
741
Euclide, Elementi, VII, Def. III, in Id., Tutte le opere, cit.
742
Cfr. M. Caveing, La figure et le nombre. Recherches sur les premières mathématiques des Grecs, cit., pp. 211
sgg.
743
Aristotele, Metafisica, X, 6, 1056 b, 32-33.
744
Ibid., X, 6, 1057 a, 3-4.
745
Ibid., XIV, 1, 1087 b, 33-37 – 1088 a, 4-6.
746
Euclide, Elementi, VII, Prop. 15, in Id., Tutte le opere, cit.
242
resto. Si voglia dividere 154 per 22. Si dovrà procedere duplicando il divisore fino a
riottenere il dividendo per addizione dei dividendi parziali:
1
22 /
2
44 /
4
88 /
=7
= 154
Nella colonna di destra il divisore 22 misura tante volte il dividendo 154 quante nella
colonna di sinistra l’unità misura 7, ossia vale la seguente proporzione:
22 : 154 = 1 : 7.
L’importanza delle proporzioni e delle progressioni emerge in modo particolarmente
evidente nel Timeo di Platone; in questo contesto, esse diventano gli strumenti
indispensabili al demiurgo per creare il corpo e l’anima del mondo. In proposito,
afferma Timeo:
«Ma poiché non è possibile che due termini da soli formino una buona composizione
senza un terzo termine, bisogna che in mezzo vi sia un legame che li congiunga
entrambi. Ora, di tutti i legami il più perfetto è quello che, per quanto è possibile,
costituisca in unità sé ed i termini che lega: ed è la proporzione [ajnalogiva] che
realizza ciò nel modo più perfetto».747
In questo rapido esame di alcune delle concezioni proprie della matematica greca
ritroviamo, quindi, quelle che sono state definite le «grandi tendenze» della
matematica egiziana; nello specifico, la polisemia dell’unità, il procedimento di
duplicazione e il principio di proporzionalità.
747
Platone, Timeo, 31 b-c. Nella formazione del corpo del mondo i due elementi di partenza sono il fuoco e la
terra. Dal momento che l’universo non è semplicemente una superficie, bensì un solido, un unico medio non è
sufficiente, ce ne vogliono due. Il demiurgo «ponendo acqua e aria tra fuoco e terra ed in rapporto proporzionale
per quanto era possibile, sì che come il fuoco stava all’aria, anche l’aria stesse all’acqua, e come l’aria all’acqua
l’acqua alla terra, collegò e costituì il cielo, visibile e tangibile» (32 b-c). Nel dividere poi l’anima del mondo,
risultante da una mescolanza di tre generi, essere, identico e diverso, il demiurgo ricorre alla successione 1, 2, 3, 4,
9, 8, 27. Quest’ultima deriva da due progressioni geometriche che partono dall’unità e che hanno rispettivamente
ragione 2 e ragione 3: 1, 2, 4, 8 e 1, 3, 9, 27 (cfr. Timeo, 35 a – 36 b). Per un esame approfondito di questi aspetti
matematici, cfr. F. M. Cornford, Plato’s Cosmology. The Timaeus of Plato translated with a running
commentary, Routledge & Kegan Paul, London 1937, pp. 43 sgg e 66 sgg. Cfr. anche le note di F. Fronterotta in
Platone, Timeo, trad. it. di F. Fronterotta, Bur, Milano 2006, pp. 190 sg e 200 sgg.
243
6. Dalla matematica alla dialettica platonica: alla ricerca di un modello
per la scienza
Dopo aver mostrato la presenza di affinità anche profonde tra la matematica egiziana
e quella greca, il passo successivo è quello di misurarne gli effetti a livello speculativo.
Ciò ci consentirà di approfondire meglio il confronto tra l’approccio egiziano e quello
greco, individuando eventuali convergenze o elementi di cesura. Il punto di partenza
della nostra indagine sarà il Fedone di Platone. In questo dialogo Socrate introduce la
celebre metafora della «seconda navigazione», che indica il passaggio da
un’esplorazione della realtà condotta attraverso i sensi ad un’esplorazione condotta
attraverso i lovgoi. Socrate ne parla in questi termini:
«Così pensai anch’io e temetti di diventare completamente cieco nell’anima,
osservando le cose con gli occhi e tentando di coglierle con ciascuno dei sensi. Mi
parve che dovessi rifugiarmi nei lovgoi ed indagare in essi la verità degli enti»748.
Ma che cosa si intende con l’espressione «rifugiarsi nei lovgoi»? Il discorso di Socrate
lo precisa poco oltre:
«Comunque, mi avviai per questa strada e, ponendo come ipotesi in ciascun caso il
lovgo~ che giudico più forte, pongo come vere le cose che mi sembrano essere in
accordo con esso, sia riguardo alla causa sia riguardo a tutte le altre cose, mentre
quelle che non mi sembrano in accordo, le pongo come non vere».749
In questo passo viene descritto il «metodo ipotetico». Formulare un’ipotesi significa
assumere una proposizione come vera. Il lovgo~ che nel Fedone viene assunto come
ipotesi è l’esistenza delle idee.
E’ necessario, tuttavia, che l’ipotesi sia giustificata, ossia che si possa renderne
ragione in occasione di un’eventuale contestazione. Socrate prosegue, infatti,
affermando:
«Tu […] attenendoti alla solidità dell’ipotesi, risponderesti così. E se qualcuno si
appigliasse alla stessa ipotesi, gli diresti addio e non gli risponderesti finché non
avessi esaminato se i risultati di essa sono in accordo o disaccordo tra loro. E quando
tu dovessi dare ragione di essa, lo faresti allo stesso modo, stabilendo un’altra ipotesi,
748
Platone, Fedone, 99 e. In questo passo e in quello che segue, abbiamo modificato leggermente la trad. di G.
Cambiano sostituendo «ragione» con il termine originale lovgo~, per evitare una trad. inevitabilmente controversa.
Non entriamo nel merito di tale questione tanto dibattuta; ciò non rientra, infatti, negli obiettivi della nostra
ricerca. Nel prosieguo del nostro discorso, comunque, ci atteniamo, tendenzialmente, alla linea interpretativa di
G. Cambiano.
244
quella che apparisse la migliore tra le ipotesi superiori, fino a giungere a qualcosa di
sufficiente».750
In questo contesto, il metodo ipotetico è la procedura propria della dialettica che,
secondo Platone, costituisce la scienza per eccellenza, ossia la filosofia. Le operazioni
in cui consiste questa procedura metodologica sono due:
1) dedurre dall’ipotesi assunta le conseguenze che ne derivano, per verificare se
conducono a una contraddizione;
2) ricondurre l’ipotesi a un’altra ipotesi più universale che sia in grado di
giustificarla e procedere in questo modo fino a quando non si sia giunti ad un
principio che non richiede ulteriori giustificazioni, cioè un principio
«anipotetico».
L’aspetto che ci interessa evidenziare è il seguente: il dialettico per risolvere un
problema A lo riconduce a un problema B. In proposito, Giuseppe Cambiano afferma:
«Platone intende reperire un ordine tra le proposizioni ed è ciò che egli intende con
l’espressione “rendere conto”. Tale ordine è costruito a partire da una proposizione
problematica A (per esempio l’immortalità dell’anima). Per rendere conto di A si
rintraccia una proposizione B (per esempio l’esistenza delle idee). Il criterio di
reperimento di B è l’esistenza di un rapporto di concordanza tra A e B, nel senso che
se si ammette B come vero, si assume anche A come vero».751
In generale, un problema A è riconducibile a un problema B soltanto se tra essi c’è
una commensurabilità. Si tratta dello stesso procedimento tipico della matematica
egiziana, recepito in seguito dalla matematica greca. Nel Menone Platone afferma
esplicitamente che il metodo ipotetico di cui parla è quello utilizzato dai geometri.752
Si tratta di uno strumento che consente di stabilire le «condizioni di risolubilità di un
problema».753
Nel Menone il problema sul quale si indaga è se la virtù sia insegnabile o meno:
«Poiché non sappiamo né che cos’è né qual è, esaminiamo per via di ipotesi se è
insegnabile o no. Diciamo così: se tra gli enti pertinenti all’anima la virtù è di una
certa qualità, sarà insegnabile o no? In primo luogo, se è simile o dissimile dalla
749
Ibid., 100 a.
750
Ibid., 101 c-d.
751
G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, in Rivista di
filosofia, 58 (1967), p. 140.
752
Cfr. Platone, Menone, 86 e.
245
scienza, può essere insegnata o no, o, come dicevamo poco fa, essere ricordata (sia
indifferente per noi usare un termine o l’altro). Ma è insegnabile? Non è chiaro a tutti
che ad un uomo non si insegna altro che la scienza?».754
Come risulta chiaramente da questo passo, il problema in questione viene ridotto ad
un altro problema: se la virtù sia scienza. Siamo di fronte al corno di un alternativa, il
quale costituisce un ulteriore problema, la cui soluzione richiede un’altra ipotesi:
«Non diciamo che la virtù è un bene? Non manteniamo questa ipotesi, che essa è un
bene?»755
Anche questa ipotesi è il corno di un alternativa e così via. La ricerca, quindi, è resa
possibile dall’esistenza di connessioni tra le parti della realtà.
Un aspetto essenziale del metodo sviluppato da Platone consiste in ciò: l’ordine e la
concatenazione delle proposizioni non sono stabiliti a priori, in maniera definitiva e
universalmente applicabile, ma sono strettamente dipendenti dal problema specifico
che si richiede di risolvere. Questo particolare approccio è tipico della geometria
greca, perlomeno fino alla metà del V secolo a.C. Secondo le testimonianze di cui
disponiamo, infatti, la geometria greca, in questa fase della sua storia, non costituisce
ancora un edificio sistematico. Essa ruota intorno ai singoli problemi da risolvere e le
nozioni di teorema e di dimostrazione le sono estranee, non essendo organizzata
come un «sistema assiomatico».
Un esempio emblematico di questa impostazione è costituito dalla soluzione del
problema della quadratura delle lunule proposta da Ippocrate di Chio (V sec. a.C.).
Senza entrare nel dettaglio del procedimento sviluppato da Ippocrate, ci limitiamo a
evidenziarne i momenti principali. In primo luogo, viene stabilita una proposizionechiave A che costituisce l’ajrchv della costruzione. Successivamente, A viene
dimostrata facendo ricorso a una proposizione B, anch’essa dimostrata. Infine,
vengono distinti e risolti quattro casi del problema, utilizzando la proposizione A.
Ippocrate segue, dunque, un certo ordine, che non coincide, tuttavia, con quello
euclideo. I principi sulla base dei quali si arriva alla soluzione, non sono, infatti, un
insieme di assiomi costituenti le fondamenta della geometria. «Ciò significa – scrive
Cambiano – che non esiste un sistema univoco immutabile di rapporti tra le
proposizioni. L’insieme dei principi è determinato dalle condizioni del problema
753
Cfr. G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., pp. 134
sgg.
754
Platone, Menone, 87 b-c, trad. it. di G. Cambiano, in Id., Dialoghi filosofici, vol. I, cit.
246
specifico che si intende risolvere, non in funzione di tutta la geometria».756 Il
modello di metodo che Platone presenta nel Menone e nel Fedone è, quindi, identico,
sotto l’aspetto formale, a quello utilizzato da Ippocrate di Chio. Si tratta, come
abbiamo potuto constatare, di un metodo «analitico-riduttivo», non deduttivo.
A partire dalla Repubblica, invece, la dialettica non è più identificata con il metodo
ipotetico impiegato dai geometri. Di fronte alla geometria Platone assume un
atteggiamento decisamente critico:
«coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e di altre questioni del genere,
suppongono il pari e il dispari, le figure, tre specie d’angoli ed altre cose simili, a
seconda dell’oggetto della propria ricerca, e, ammesse per conosciute queste cose, le
erigono ad ipotesi e ritengono di non doverne dare più ragione né a sé né agli altri,
come se fossero principi assiomatici per tutti, e, partendo da questi, passano a
trattare tutto il resto deducendo così di conseguenza in conseguenza quella
conclusione in virtù della quale avevano preso le mosse».757
La
ragione
principale
del
rifiuto
da
parte
di
Platone
del
parallelismo
precedentemente istituito tra la ricerca matematica e quella filosofica va individuata
nell’uso «scorretto» che la geometria fa delle ipotesi. Essa e le altre discipline tecnicoscientifiche che le sono affini producono una conoscenza dell’essere che «somiglia a
un sogno», perché «si servono di ipotesi che non discutono affatto, non sapendone
rendere ragione».758 Ammettendo, infatti, la cronologia tradizionale dei dialoghi, nel
periodo che intercorre tra la stesura del Fedone e quella della Repubblica la
geometria greca attraversa una fase di progressiva assiomatizzazione, che
raggiungerà il suo apice nell’opera di Euclide. Le ipotesi si trasformano in assiomi
non dimostrati e indiscutibili. Ma una geometria siffatta per Platone non è una
scienza, ma soltanto una «convenzione» (oJmologiva).759
La dialettica platonica viene presentata nella Repubblica come un’attività che
«tenendo le ipotesi non in conto di principi, ma appunto per quello che sono,
supposizioni, che son come gradini e pezze d’appoggio per elevarsi fino al principio
del tutto, a ciò che è di là dalle ipotesi, ed una volta raggiunto quel principio, ed a
quello tenendosi ferma ed a ciò che da esso deriva, discenda fino alla conclusione
755
Ibid., 87 d.
756
G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., p. 130.
757
Platone, Repubblica, VI, 510 c-d.
758
Ibid., VII, 533 c.
247
ultima, indipendentemente da ogni dato sensibile, ma soltanto trascorrendo di idea
in idea, per concludersi in un’idea».760
In questo passo viene ribadito, in modo ancora più esplicito che nel Fedone, il doppio
processo, ascensivo e discensivo, proprio della dialettica. Quest’ultima, pur
presentandosi in una forma più strutturata rispetto al metodo ipotetico del Menone,
rifiuta di trasformarsi in un sistema assiomatico, già costruito prima che si presenti il
singolo problema da risolvere.761
Nei dialoghi successivi la posizione di Platone nei confronti della geometria non
muta. Emerge, invece, un’ulteriore divergenza tra la dialettica e la geometria
assiomatizzata.762 Il procedimento discensivo della dialettica, infatti, non si configura
come una catena lineare avente la sua origine in un insieme di assiomi, ma come un
metodo di divisione dicotomica. A ogni passo del procedimento dialettico si genera
una coppia di alternative che richiede di operare una scelta in base a criteri non
contenuti direttamente nel sistema. Cambiano sintetizza così le caratteristiche del
metodo impiegato dal dialettico: «Il metodo dicotomico implica: 1) l’assenza di
principi primi, stabiliti una volta per tutti e non sottoponibili a loro volta ad un
procedimento di investigazione dialettica; 2) la selezione tra due alternative ad ogni
passo della divisione in vista del concetto che si vuole precisare, cioè del problema da
risolvere».763
Tra il modello di scienza delineato da Platone, sostanzialmente in accordo con le
procedure della geometria greca precedente all’assiomatizzazione, e l’approccio
«logico-epistemologico» della matematica o, più in generale, della «scienza» egiziana
non c’è, dunque, una cesura, ma sono riscontrabili, al contrario, alcuni significativi
punti di convergenza. Nella filosofia platonica, l’idea è l’unità di un molteplice; ciò
significa che «tra le componenti del molteplice esistono relazioni di compatibilità che
le rendono un’unità e variazioni che le rendono molteplici».764 La stessa ambivalenza,
come si è riscontrato, è presente nel concetto di unità della matematica e della
759
Cfr. G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., pp. 141 sgg.
760
Platone, Repubblica, VI, 511 b-c.
761
In proposito, Cambiano osserva: «L’andamento ascensivo della dialettica è vicino alla geometria descritta
prima della Repubblica, il cui punto di forza era il metodo analitico-riduttivo, che aveva appunto un carattere
ascensivo di apertura e problematizzazione, non di sistema chiuso. La geometria, che Platone critica nella
Repubblica, è invece un sistema chiuso, fortemente assiomatizzato, al quale manca una adeguata e non dogmatica
ricerca sui fondamenti» (Id., Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., p.
143).
762
I dialoghi a cui facciamo riferimento sono nello specifico il Parmenide, il Sofista e il Politico.
763
G. Cambiano, Il metodo ipotetico e le origini della sistemazione euclidea della geometria, cit., p. 147.
248
teologia egiziane. Il metodo dialettico, inoltre, recepisce il principio della
proporzionalità e quello della duplicazione. Il procedimento dicotomico ha lo scopo
di definire un oggetto attraverso la sua connessione con altri oggetti. Si pensi, per
esempio, alla divisione effettuata da Platone nel Sofista per definire il pescatore con
la lenza. L’indagine deve, quindi, riuscire a fare emergere, a proposito di un ente, la
rete di relazioni che lo unisce ad altri enti o che lo separa da essi. Ogni passo del
procedimento implica una duplicazione e la scelta tra due alternative. Il metodo
impiegato nello studio della realtà, infine, tanto nel pensiero egiziano quanto in
quello platonico, non è considerato come uno strumento autonomo rispetto
all’oggetto al quale viene applicato. Il modello della scienza deve essere, infatti,
conforme all’ordine che vige nel cosmo. Con ciò, il nostro obiettivo non vuole essere
quello di arrivare ad affermare un’identità di contenuti tra il pensiero egiziano, la
matematica greca precedente alla metà del V secolo e la filosofia platonica, ma quello
di evidenziarne la compatibilità e le affinità metodologiche. Si tratta, infatti, di
orizzonti che, a nostro avviso, manifestano tra di loro una «commensurabilità».
7. L’«assiomatizzazione» come cesura e svolta nel pensiero occidentale.
Con l’organizzazione della scienza come «sistema assiomatico» si produce una cesura
netta tra l’impostazione logico-epistemologica propria del mondo egiziano e la
filosofia greca. Questo evento culturale costituisce una svolta che avrà effetti decisivi
sugli sviluppi successivi del pensiero occidentale. Secondo il modello proposto da
Aristotele, ogni scienza si articola in due parti: una prima anapodittica, concernente i
principi primi indimostrabili, e una seconda apodittica, relativa alle proposizioni
dimostrabili a partire dai principi. Le proposizioni della scienza sono ordinate,
quindi, in modo univoco e secondo rigidi rapporti di antecedenza e conseguenza.
Nei Secondi Analitici, Aristotele delinea chiaramente il suo modello:
«Ora
però
chiamiamo
sapere
il
conoscere
mediante
dimostrazione.
Per
dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico, e scientifico chiamo poi
il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo. Se il sapere è
dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà pure necessario che la scienza dimostrativa
764
G. Cambiano, Introduzione a Platone, Dialoghi filosofici, vol. I, cit., p. 26.
249
si costituisca sulla parte di premesse vere, prime, immediate, più note della
conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa».765
Ogni singola scienza possiede dei principi propri che ne circoscrivono l’ambito di
ricerca. Le scienze sono, tuttavia, anche legate tra loro da un filo costituito da una
serie di principi comuni, che Aristotele chiama «assiomi» (ajxiwvmata). Tra questi,
l’assioma fondamentale è senza dubbio il principio di non contraddizione. La
caratteristica peculiare di questi principi è la loro necessità.
Questo stesso modello di scienza è riscontrabile negli Elementi di Euclide, anche se in
questo contesto non viene privilegiato il sillogismo come strumento di dimostrazione.
Anche Euclide, infatti, distingue nella geometria una parte anapodittica e una
apodittica, istituendo un rigido rapporto di consequenzialità tra principi e
proposizioni. La geometria contenuta negli Elementi si presenta, dunque, come un
sistema assiomatico organizzato deduttivamente. Euclide ha riorganizzato e
compendiato nella sua opera una geometria che già all’epoca di Aristotele era ormai
assiomatizzata e assestata sul piano deduttivo. Con la svolta assiomatica della
geometria il baricentro della ricerca non è più rappresentato dalla nozione di
problema, bensì da quella di «teorema». Questo nuovo orientamento determina una
notevole accentuazione della portata «contemplativa» della scienza geometrica. Ogni
passo dell’iter dimostrativo ora viene deciso soltanto in base a criteri interni al
sistema e senza dover operare una scelta tra due alternative. L’intero procedimento si
sviluppa secondo un’unica catena deduttiva, a partire da un insieme di asserzioni che
sono considerate evidenti di per sé e che non richiedono, quindi, una giustificazione.
Il modello di scienza che emerge dalle opere di Aristotele ed Euclide, a nostro avviso,
costituisce, nell’ambito del pensiero greco, un nuovo orizzonte non più rapportabile a
quello precedente. L’approccio logico-epistemologico, retaggio del mondo egiziano,
che non astrae dalla situazione «concreta», ossia che privilegia la nozione di
problema, e che cerca di individuare la rete di relazioni di proporzionalità che collega
tutti gli enti, è ora definitivamente superato.
Prima di concludere il capitolo, vorremmo fare ancora qualche considerazione e
qualche precisazione. Relativamente al metodo della ricerca scientifica teorizzato da
Aristotele, ci sembra particolarmente significativo quanto afferma Jonathan Barnes
in un suo saggio sulla teoria aristotelica della dimostrazione: «Il metodo che
765
Aristotele, Secondi Analitici, I, 2, 71 b 18-23, in Id., Organon, trad. it. di G. Colli, cit.
250
Aristotele segue nei suoi trattati scientifici e filosofici e il metodo che egli prevede per
l’attività scientifica e filosofica nei Secondi Analitici non sembrano coincidere».766 La
teoria della scienza, secondo Barnes, non avrebbe lo scopo di guidare la ricerca, ma
avrebbe una funzione eminentemente didattica. Essa servirebbe, cioè, a dare ordine e
sistematicità a conoscenze già acquisite; questa teoria, infatti, «non descrive come
fanno gli scienziati, o come dovrebbero fare, ad acquisire conoscenze: essa offre un
modello formale di come gli insegnanti dovrebbero presentare e diffondere la
conoscenza».767 Seguendo questa interpretazione, si deduce che i criteri che guidano
e orientano la ricerca scientifica «concreta» non sono codificati da Aristotele in modo
definitivo in un sistema chiuso. L’impianto dimostrativo ha, dunque, la funzione di
rendere leggibili e trasmissibili i dati forniti dalla ricerca, eliminando ogni ambiguità.
Le fondamenta di questa costruzione sono i principi comuni, gli ajxiwvmata e in primo
luogo il principio di non contraddizione, considerato da Aristotele il «più sicuro di
tutti […] quello intorno al quale è impossibile essere nel falso».768 Strettamente
connesso a questo «assioma», c’è un secondo principio che svolge un ruolo fondante
nell’ambito del sistema: quello del terzo escluso.
Gli Egiziani non hanno mai tematizzato questi principi. Ciò non implica, tuttavia, che
il loro pensiero non ne tenesse assolutamente conto o che vi si opponesse nettamente.
Più verosimilmente, il «filosofo» egiziano non ha mai sentito l’esigenza di sviluppare
una riflessione epistemologica sullo statuto di questi principi, né quella di ordinare la
conoscenza in un sistema chiuso.
Cercheremo di evidenziare ora quelle che, secondo noi, sono le ragioni di questa
scelta della cultura egiziana. Abbiamo affermato in precedenza che nel pensiero
egiziano le opposizioni non si escludono a vicenda, ma costituiscono polarità
complementari tra loro che in qualche modo «coesistono». Secondo la formulazione
aristotelica del principio di non contraddizione, «è impossibile che la stessa cosa
766
J. Barnes, Aristotle’s theory of demonstration, in J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji (a cura di), Articles on
Aristotle, vol. I, Duckworth, London 1975, p. 65.
767
Ibid., p. 77. In seguito ad alcune critiche (ci riferiamo, nello specifico, a quelle mosse da W. Kullmann,
Wissenschaft und Methode: Interpretationen zur aristotelischen Theorie der Naturwissenschaft, W. De Gruyter,
Berlin 1974 e da M. F. Burnyeat, Aristotle on Understanding Knowledge, in E. Berti (a cura di), Aristotle on
Science. The “Posterior Analytics”, Antenore, Padova 1981), Barnes ha revisionato la sua interpretazione secondo
la quale i Secondi Analitici sarebbero soltanto un trattato di didattica. Lo studioso ha, tuttavia, ribadito che il testo
aristotelico costituisce un’indicazione di come i risultati della ricerca devono essere organizzati per risultare
intelligibili (cfr. J. Barnes, Introduction a Aristotle’s Posterior Analytics, Clarendon Press, Oxford 1993,
particolarmente, pp. xviii sgg).
768
Aristotele, Metafisica, IV, 3, 1005 b, 11-12.
251
insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo
rispetto».769
Questa enunciazione, come precisa Berti, non esclude «l’esistenza di rapporti di
opposizione fra termini diversi, ma […] soltanto la coesistenza contemporanea e sotto
il medesimo riguardo di predicati opposti nel medesimo soggetto».770 Se pensiamo,
però, alle concezioni teologiche egiziane, il divino sembra apparire uno e molti nello
stesso tempo. L’uno è il sostrato dei molti; attraverso la molteplicità esso può
manifestarsi e rinnovarsi costantemente, realizzando così la propria natura. La stessa
falsariga è riscontrabile nella concezione della dimensione umana: l’essere umano è
la risultante di una costellazione di componenti e, nello stesso tempo, è anche
ciascuno di questi componenti. Ogni uomo, per esempio, ha un ba, ma è anche un ba.
Che cosa differenzia, dunque, questo approccio dal modello di scienza proposto da
Aristotele? Come abbiamo avuto modo di ribadire, gli Egiziani hanno una concezione
dinamica della realtà. Il movimento è ciò che anima e rinnova periodicamente
l’universo, permettendogli così di sussistere. La conoscenza deve configurarsi nello
stesso modo, deve cioè rispecchiare la natura del suo oggetto. Essa non potrà,
pertanto, essere «fissata» in un edificio concettuale chiuso, ossia non potrà tradursi
in un sistema assiomatico. Ogni fase e ogni risultato del processo conoscitivo non
rappresenta, infatti, un’acquisizione definitiva e autonoma, ma un’«entità» che si
muove e diviene, inserita in una rete di relazioni di proporzionalità. In questo
contesto, l’ordine universale impersonato da Maat svolge il ruolo di principio
anipotetico, quel principio che Platone identificava con l’idea di Bene. La legge di
Maat, fondamento e punto di riferimento ultimo di tutti i rapporti di proporzionalità
tra gli enti del creato, manifesta un rigore matematico. Essa, tuttavia, costituisce un
ordine dinamico, vivente e, pertanto, non codificabile in una definizione astratta. La
cultura egiziana non ha mai fornito una definizione vera e propria di Maat, ma ha
sempre espresso la convinzione che essa fosse conoscibile e insegnabile attraverso la
sua realizzazione.
Con ciò abbiamo però enunciato soltanto un risvolto della questione. Un ulteriore
aspetto altrettanto rilevante è costituito, a nostro avviso, dal fatto che il pensiero
egiziano non privilegia il discorso predicativo come sua unica e peculiare forma
espressiva. La componente iconografica e visiva, per esempio, svolge in esso un ruolo
769
Ibid., IV, 3, 1005 b, 19-20.
252
che non è semplicemente di corredo. La scienza di Aristotele si identifica, invece, con
il discorso che la esprime, ossia con una catena lineare di proposizioni. Relativamente
al contenuto del primo libro dei Secondi analitici, Barnes afferma: «La tesi essenziale
del Libro A è semplice e sorprendente: le scienze sono esposte correttamente in
sistemi formali assiomatizzati. Ciò che Euclide fece più tardi, con esitazione, per la
geometria, Aristotele volle che fosse fatto per ogni branca della conoscenza umana.
Le scienze devono essere assiomatizzate: ciò significa che l’ambito di verità che
ciascuna definisce deve essere presentato come una sequenza di teoremi dedotti da
alcuni postulati o assiomi di base».771
Il principio di non contraddizione è una legge del pensiero discorsivo e predicativo.
In tale ambito, come si legge nella Metafisica, «è impossibile che esso venga violato,
se appena colui che intende contestarlo dice qualche cosa; se non dice nulla, è
ridicolo cercare di impiantare un ragionamento con uno che non ragiona su nulla,
perché non ha la ragione. Costui infatti è simile a una pianta proprio in quanto tiene
quell’atteggiamento».772
Ma ciò di cui parla Aristotele sarebbe stato considerato dal «filosofo» egiziano
soltanto uno tra i vari linguaggi possibili, non l’unico appropriato per veicolare la
conoscenza.
A proposito della cultura dell’antico Egitto, all’inizio del capitolo abbiamo parlato di
«molteplicità degli approcci». Quest’ultima si traduce in una molteplicità di
linguaggi: accanto al linguaggio discorsivo, troviamo quello dell’immagine, quello
architettonico, quello del suono, ecc. Nessuno di questi può essere assolutizzato,
perché tutto ciò che è assoluto per l’Egiziano contrasta con l’esistente. Si pone allora
il problema della relazione e dell’accordo tra questi linguaggi e del nesso sussistente
tra ciascuno di essi e la realtà di cui parla. Relativamente alla «logica» egiziana,
Hornung parla di «complementarietà». Il «principio di complementarietà» è stato
introdotto da Niels Bohr nella fisica per descrivere il comportamento ambiguo
dell’energia nei quanti, per poter spiegare il duplice aspetto corpuscolare e
ondulatorio dei fenomeni che avvengono nel microcosmo della meccanica
quantistica.773 Questo principio esclude, in sostanza, la possibilità che un singolo
770
E. Berti, Nuovi studi aristotelici, vol. I, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 130 sg.
771
J. Barnes, Introduction a Aristotle’s Posterior Analytics, cit., pp. xii sg.
772
Aristotele, Metafisica, IV, 4, 1006 a, 12-15.
773
In proposito cfr. N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, trad. it. di P. Gulmanelli, Boringhieri,
Torino 1961.
253
linguaggio possa diventare il supporto e il veicolo naturale della razionalità.
Trattando del problema della realtà nella meccanica quantistica, Silvano Tagliagambe
osserva: «Tra i linguaggi che contribuiscono a definire e a esprimere l’ambito
concettuale di una teoria complessa non può […] essere stabilita alcuna gerarchia
valida in linea di principio. Al più, ci possono essere motivi di carattere storico, o di
organizzazione sistematica, tali da indurre […] a riconoscere una priorità
nell’esposizione o, al massimo, nella conoscenza, ma in nessun caso questa priorità
può essere trasformata in una relazione fondante in grado di legittimare la riduzione
degli altri linguaggi a quello “di base”».774
La mancanza di un linguaggio «di base» rende impossibile una descrizione univoca
dell’oggetto. Bohr precisa, infatti: «noi dobbiamo, in generale, essere preparati ad
accettare il fatto che una spiegazione completa di una stessa questione possa
richiedere diversi punti di vista che non ammettono una descrizione unitaria».775
Soltanto la combinazione di differenti linguaggi consente di tessere una rete
semantica in grado di descrivere i fenomeni in modo esauriente; «l’unitarietà della
rete viene […] garantita da un’intensa attività analogica di parziale traduzione da un
linguaggio all’altro».776 Secondo Hornung, i nuovi orizzonti concettuali aperti dalla
fisica contemporanea potrebbero contribuire in modo rilevante ad una più adeguata
comprensione delle strutture logiche che sottendono il pensiero egiziano e, più in
generale, il pensiero «pre-greco».
774
S. Tagliagambe, L’epistemologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 255.
775
N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 357.
776
S. Tagliagambe, L’epistemologia contemporanea, cit., p. 257.
254
CAPITOLO VIII
L’APPROCCIO EGIZIANO AL MONDO TRA ORALITA’ E SCRITTURA
La concezione egiziana dell’uomo e del mondo come reti articolate di relazioni tra
enti in rapporto dinamico tra loro è il risultato dell’attività di un pensiero
«analogico», di un pensiero, cioè, che coglie il singolo ente attraverso l’insieme dei
rimandi che lo collega a una serie di altri enti del cosmo. La commensurabilità che
vige tra le varie regioni dell’esistente e tra gli enti che le popolano, esprimibile anche
matematicamente tramite delle proporzioni, è dunque la condizione necessaria
all’intelligibilità del mondo. Il non esistente, il Nun, privo di qualsiasi punto di
riferimento e di qualsiasi determinazione, è del tutto inintelligibile.
Il termine ultimo di tutti i rimandi possibili, fondamento del cosmo e dell’uomo, è
costituto dalla legge suprema di Maat, che rappresenta, come abbiamo rilevato nel
capitolo precedente, una sorta di «principio anipotetico». Per l’uomo egiziano,
l’aspetto conoscitivo e quello operativo non sono mai del tutto scissi tra loro. L’atto
conoscitivo non è mai, cioè, puramente contemplativo, come cercheremo di
evidenziare meglio; al contrario, esso deve contribuire alla coesione e all’ordine del
mondo. In questo contesto, il pensiero che si organizza secondo la modalità
discorsiva e predicativa non è inteso come lo strumento privilegiato per rapportarsi
alla realtà.
Nei paragrafi che seguono ci soffermeremo sul ruolo della parola e del linguaggio in
generale nel rapporto dell’uomo egiziano con i suoi simili e con il mondo. Il nostro
percorso avrà come punto di partenza le caratteristiche della magia. In essa si
manifestano, infatti, la struttura e il funzionamento del cosmo egiziano e del pensiero
analogico che ne è il riflesso. La parola «magica» ha una natura «performativa». Ci
occuperemo, quindi, del nesso tra performatività e pensiero analogico. In proposito,
prenderemo in considerazione le formule di trasformazione del Libro dei Morti,
basandoci
sull’analisi
condotta
da
Frédéric
Servajean
e,
successivamente,
proporremo una nostra analisi delle formule di apertura del papiro di Ebers.
Dall’esame di questi testi emergeranno il ruolo e l’importanza delle proposizioni a
predicato nominale in un pensiero che procede «analogicamente».
Ci rivolgeremo, infine, al rapporto tra oralità e scrittura. Il sistema geroglifico,
strettamente legato alla lingua di cui è veicolo, riproduce la rete di relazioni cosmica.
255
Nell’interdipendenza tra lingua egiziana, grafia geroglifica e ordine cosmico
ritroviamo la logica del corpo articolare alla base delle concezioni antropologiche
dell’antico Egitto. La conoscenza umana consiste nell’articolare e nell’attivare una
serie di elementi o di parti, come quelle del corpo di Osiri. Questo procedimento
potrebbe, quindi, chiamarsi «metodo osiriano».
1. Il sistema della magia come organon conoscitivo-operativo
Il cosmo egiziano si presenta come una molteplicità di forze in divenire, che può
assumere configurazioni differenti. In determinate circostanze, alcune di queste forze
possono diventare una minaccia alla sopravvivenza dell’uomo, dello stato o
addirittura del cosmo stesso. Da un lato, ciò fa parte della natura dell’esistente,
dall’altro, tuttavia, si rende necessario un intervento costante da parte dell’uomo per
la conservazione della vita. Si tratta di un intervento che possiamo definire «magico».
L’Egitto faraonico è intriso di magia; essa viene praticata sia all’interno che
all’esterno dei templi. Ad essa ricorrono tanto gli abitanti del mondo terreno quanto
quelli dell’aldilà.777
Relativamente alla magia egiziana, Sauneron rileva che si tratta di un ambito «dove la
sola “legge” riconosciuta è quella dei ritorni analogici».778 Lo studioso osserva,
inoltre, che questa magia è una sorta di «scienza».779
Per comprendere e valutare meglio queste affermazioni, dobbiamo considerare più da
vicino il ruolo svolto dalla magia nel mondo egiziano e le sue principali modalità
operative. Nel primo capitolo, abbiamo rimarcato che la forza magica, heka, è un
elemento fondamentale dell’universo egiziano. La magia è, tuttavia, anche una
«tecnica» che prevede delle operazioni concrete. Come ha messo in evidenza Thomas
Schneider, questa pratica non può essere ritenuta semplicemente uno «specifico
settore del mondo e dell’agire umano», accanto agli altri, quelli relativi
all’amministrazione dello stato, al culto, alla medicina, ecc. Una simile posizione da
parte di chi si accosta a queste tematiche deriva generalmente da un giudizio a priori
negativo sulla magia; in questa prospettiva, si avrebbe a che fare con un
777
L’operatore di magia dell’antico Egitto richiama, per certi versi, la figura del mago come servitore della natura
teorizzata da alcuni pensatori del Rinascimento, come Giordano Bruno. In proposito, si pensi anche al
personaggio di Prospero, protagonista della Tempesta di Shakespeare.
778
S. Sauneron, Le monde du magicien égyptien, cit., p. 29.
779
Cfr. ibid.
256
sottoprodotto dello spirito egiziano. La magia che troviamo nella Valle del Nilo è,
invece, «una costante fondamentale dell’immagine del mondo egiziana, senza la
quale quest’ultima non può essere compresa».780
Secondo Schneider, la magia in Egitto costituisce un sistema generale finalizzato alla
stabilizzazione dell’ordine esistente, che trova applicazione in tutti i settori del
mondo. Questo sistema funziona sulla base di meccanismi «razionali» e il risultato
che produce è la reintegrazione di «settori del mondo caotici, attraverso analogie,
nella struttura normativa dell’ordine dotato di senso».781 Si può distinguere una
magia «preventiva» da una «reattiva». Nel settore della politica, per esempio, per la
salvaguardia dello stato e per il benessere della società, verrà applicata una magia
preventiva; nel caso si tratti di politica estera, gli strumenti specifici impiegati a
supporto dell’azione magica saranno la diplomazia, l’esercito e le fortificazioni,
nell’ambito della politica interna, invece, si farà ricorso a risorse quali l’educazione e
l’etica. Se si dovrà fronteggiare una malattia, invece, l’intervento magico sarà di tipo
reattivo; in questo caso lo strumento ausiliario specifico sarà la medicina.782 Esiste,
inoltre, una magia di carattere più generale, in grado di agire sulla natura o sul cosmo
intero; essa ha come veicolo principale le pratiche cultuali officiate all’interno dei
templi.
La magia rappresenta, dunque, una categoria «di ordine superiore» (übergeordnete),
in grado di estendersi al cosmo intero e di comprendere ogni settore dell’agire e del
conoscere umani. Essa è universale e «funziona», perché riproduce il dinamismo
cosmico e l’ordine che lo governa. Se tale è la natura della magia egiziana, allora, a
nostro avviso, abbiamo a che fare non tanto con una forma di «scienza» quanto con
una sorta di organon, ossia con una propedeutica generale a ogni singolo ambito
conoscitivo.
Il termine ojvrganon, «strumento», è stato utilizzato fin dall’antichità per designare,
nel contesto della filosofia aristotelica, il corpus degli scritti logici. Aristotele non
spiega, in realtà, quale sia il suo concetto di logica, né assegna ad essa un posto
preciso nell’ambito dello schema in cui suddivide e sistema le scienze. Alessandro di
Afrodisia, uno dei principali commentatori aristotelici, definisce la logica o
780
Cfr. T. Schneider, Die Waffe der Analogie. Altägyptische Magie als System, in K. Gloy, M. Bachmann (a cura
di), Das Analogiedenken. Vorstösse in ein neues Gebiet der Rationalitätstheorie, Karl Alber, Freiburg, München
2000, p. 47.
781
Ibid., p. 37.
782
Cfr. ibid., p. 39.
257
«sillogistica», «il prodotto della filosofia» e afferma che, in ragione di ciò, «alcuni
pensano che essa sia anche una parte della filosofia. Altri, tuttavia, dicono che non è
una parte, ma uno strumento [ojvrganon] della filosofia».783
Secondo il commentatore, la logica è stata concepita all’origine proprio come uno
strumento: «i primi pensatori che svilupparono lo studio della logica a misura della
sua utilità ebbero ragione a chiamarla uno strumento e non una parte».784
I «pensatori» ai quali si fa riferimento sono Aristotele e i suoi discepoli. La
concezione della logica espressa da Alessandro ha avuto una notevole influenza
storica, tanto da determinare un titolo collettivo per gli scritti logici aristotelici.
A nostro avviso, ojvrganon indica bene la funzione della logica, che fornisce
l’equipaggiamento concettuale preliminare, necessario per poter affrontare le diverse
discipline che trovano posto nel sistema. Lo strumento logico consente di ordinare
dati e riflessioni, conferendo loro una forma coerente e intelligibile, permette, cioè, di
muoversi e operare nei differenti territori delle varie scienze.
Quali sono i meccanismi interni dell’organon «magico» egiziano? Che cosa produce
la sua applicazione? Le caratteristiche essenziali di questo strumento operativo
possono essere così sintetizzate:
2)
il ricorso all’analogia. Gli enti che popolano il cosmo, infatti, sono legati tra
loro da una rete di rimandi in virtù della quale ognuno di essi manifesta la
propria identità e il proprio ruolo;
3)
l’utilizzo della parola. In proposito, Sauneron rileva: «tutta la magia egiziana
non è che una questione di parole; i riti materiali e la messa in scena
intervengono soltanto in modo secondario, tutto si riduce, in fin dei conti, a
conoscere le formule onnipotenti – o a sapere dove trovarle».785
Per rispondere in modo più efficace ai quesiti che abbiamo posto, esaminiamo
l’applicazione di questo modello in un contesto specifico. Prendiamo in
considerazione l’ambito della medicina. Le formule magiche riportate dai papiri
medici, in realtà, non sono molte in rapporto al numero complessivo delle ricette
presenti. Come ha mostrato Wolfhart Westendorf, tuttavia, le principali raccolte di
ricette mediche prevedono che i vari tipi di intervento terapeutico siano supportati da
783
Alessandro di Afrodisia, Sui Primi analitici di Aristotele, 1, 8-9, la trad. segue quella inglese di J. Barnes
(Alexander of Aphrodisias On Aristotle Prior Analytics 1.1-7, Duckworth, London 1991).
784
Ibid., 3, 3-4.
785
S. Sauneron, Le monde du magicien égyptien, cit., p. 32.
258
formule di accompagnamento corrispondenti, fissate per iscritto soltanto in un punto
del testo.786
Il prologo del papiro di Ebers, per esempio, è costituito da tre formule che, secondo
Bardinet, devono essere recitate dal medico per la sua protezione personale, in
occasione del contatto con il paziente.787 Il Grundriss afferma, invece, che le formule
sono destinate al malato, anche se possono essere lette dal medico in sua vece.788
Questo particolare, ai fini del nostro discorso, non è comunque rilevante. Il nostro
obiettivo è, infatti, quello di cogliere, per quanto possibile, la «logica» interna del
medesimo modello applicato in contesti differenti. La seconda delle formule
menzionate inizia con queste parole:789
«Horo fu liberato da Iside dalle cose malvage fatte contro di lui da suo fratello Seth,
quando egli (=Seth) uccise suo padre Osiri».790
L’autore della formula individua in primo luogo un avvenimento di riferimento, che si
svolge al di fuori dello spazio e del tempo ordinari e che vede come protagonisti delle
divinità, ossia dei principi cosmici. L’avvenimento in questione è tratto dalla leggenda
osiriana e l’azione si svolge dopo la morte di Osiri.
Il testo prosegue:
«O Iside, grande nel potere magico [wrt HkAw], possa tu liberarmi, possa tu slegarmi
da qualsiasi cosa cattiva, malvagia e rossa, causata dall’attività di un dio o di una dea,
causata da un morto o una morta o da un oppositore, maschio o femmina, che venisse
a opporsi in me, nello stesso modo in cui [mj] tu liberasti e slegasti tuo figlio Horo e
dal momento che [Hr-ntt] sono entrato (anch’io) nel fuoco e sono scampato all’acqua.
(Allora) non cadrò nella trappola di questo giorno».791
In questo passo vengono istituite delle analogie tra la situazione contingente, quella
del medico che deve liberare il paziente dalla causa della malattia, ma che deve anche
proteggere se stesso, e un evento simile di portata cosmica che si è già concluso
positivamente, o meglio, che termina con esito positivo ogni volta che si ripete, al di
là dello spazio e del tempo terreni. Questo «meccanismo» dà efficacia alla formula e
786
Cfr. W. Westendorf, Handbuch der altägyptischen Medizin, vol. I, Brill, Leiden, Boston, Köln 1999, pp. 529
sgg. Cfr. anche T. Schneider, Die Waffe der Analogie. Altägyptische Magie als System, cit., p. 77.
787
Cfr. T. Bardinet, Les papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, cit., pp. 39 sgg.
788
Cfr. H. Grapow, Grundriss der Medizin der Alten Ägypter, vol. II, Von den medidizinischen Texten, Akademie
Verlag, Berlin 1955, p. 26.
789
Abbiamo già citato un breve passaggio di questa formula nel secondo capitolo; cfr. supra, p. 89.
790
Eb. 2 (1, 12-13).
791
Eb. 2 (1, 13-17).
259
ciò in virtù della rete di relazioni che collega tutti gli enti del cosmo. Si tratta di un
procedimento che richiama il metodo della falsa posizione impiegato nella
matematica egiziana. Si deve individuare la proporzione che consente di pervenire
alla soluzione corretta. Nel caso della formula che stiamo esaminando, la proporzione
viene impostata in questo modo:
Horo : orante (medico/malato) = Seth : agente patogeno (o azioni malvage compiute
da Seth : malattie) = Iside : azione terapeutica/protezione.
L’ultima parte del testo recita:
«Ho detto quando ero giovane e piccolo: “O Ra, parla in favore del tuo
rappresentante (lett.: del tuo corpo djet)! O Osiri, parla in favore di colui che è uscito
da te!” Allora Ra parlò in favore del suo rappresentante [Dt=f] e Osiri parlò in favore
di colui che era uscito da lui, poiché (prima) tu mi avevi salvato da qualsiasi cosa
cattiva, malvagia e rossa, a causa dell’attività di un dio o di una dea, a causa di un
morto o di una morta».792
Il meccanismo dell’analogia permette all’orante di parlare a nome del dio al quale si è
rapportato. Non si tratta di un’assimilazione di colui che recita a una divinità. Chi
parla in prima persona, medico o paziente, mantiene la propria identità e, tuttavia,
assume le principali caratteristiche del dio, partecipa cioè della sua natura.
Nell’ultimo passo della formula vengono chiamate in causa altre due divinità, Ra e
Osiri, allo scopo di estendere la rete di analogie e potenziare, quindi, l’azione
terapeutica o profilattica. In termini più formali:
Horo : orante = Ra e Osiri : azione terapeutica/protezione.
Il medico o il paziente che recitano la formula partecipano della natura di Horo grazie
a una commensurabilità che viene riconosciuta e attivata. Viene, cioè, in primo luogo
riconosciuta l’esistenza di una serie di analogie. Queste ultime svolgono, come
osserva Schneider, una «funzione tecnica. Esse istituiscono delle relazioni tra il
settore in pericolo e l’ordine costitutivo del mondo».793 Le analogie vengono,
successivamente, «attivate» attraverso la parola.
792
Eb. 2 (1, 17 – 2, 1).
260
2. La performatività del linguaggio
Nel XVI trattato del Corpus Hermeticum, Asclepio, discepolo di Ermete Trismegisto,
discorrendo con il re Ammone sulle peculiarità della lingua egiziana e sullo
stravolgimento (diastrofhv) del contenuto di un testo che può comportare una
traduzione dall’egiziano al greco, a un certo punto afferma:
«Espresso invece nella lingua originale, il discorso mantiene chiaro il senso delle
parole, poiché la qualità sonora e l’intonazione delle parole egizie ha in sé l’efficacia
[th;n ejnevrgeian] di ciò che viene detto».794
Riferendosi poi al linguaggio greco, il discepolo di Ermete commenta:
«I Greci […] fanno discorsi vuoti, adatti a produrre dimostrazioni [ajpodeivxewn
ejnerghtikouv~], e questa è la loro filosofia: un rumore di parole [lovgwn yovfo~]. Noi
invece non ci serviamo di parole, ma di suoni ricchi di azione [fwnai`~ mestai`~ tw`n
ejvrgwn]».795
I testi attribuiti a Ermete Trismegisto, considerati nel Rinascimento di origine
antichissima, sono oggi fatti risalire ai primi secoli della nostra era. E’, tuttavia,
confermata l’origine autenticamente egiziana di una parte delle dottrine da essi
riportate. I passi del discorso di Asclepio che abbiamo richiamato mettono in luce un
aspetto essenziale della concezione egiziana del linguaggio. In essi vengono delineati
e distinti due versanti lungo i quali può dispiegarsi l’esperienza linguistica: da una
parte la dimensione comunicativa del linguaggio, dall’altra il suo potere di operare, di
intervenire nell’ordine del mondo. Il limite ascritto alla filosofia greca e alla lingua
nella quale è espressa è quello di non essere in grado di spingersi oltre la prospettiva
della comunicazione e dell’argomentazione. La caratteristica essenziale della lingua
egiziana viene individuata, invece, nel suo «potere creativo».
Relativamente all’egiziano, possiamo affermare che esso è caratterizzato da entrambi
gli orizzonti messi in evidenza dal Corpus Hermeticum e che l’aspetto
«performativo» svolge un ruolo tutt’altro che secondario. Negli ultimi decenni, le
ricerche di un certo numero di egittologi hanno apportato dei notevoli contributi alla
comprensione del significato e dell’importanza del fenomeno della performatività
nella lingua egiziana.
793
T. Schneider, Die Waffe der Analogie. Altägyptische Magie als System, cit., p. 40.
794
Corpus Hermeticum, XVI, 2, trad. it. di V. Schiavone, Bur, Milano 2009. Abbiamo modificato leggermente la
trad. di Schiavone, rendendo ejnevrgeia con «efficacia» anziché «energia».
261
Le ricerche sulla performatività del linguaggio nascono dalle riflessioni linguistiche
sviluppate dai filosofi appartenenenti alla corrente analitica, anche se la particolarità
degli enunciati performativi era già stata rilevata da alcuni linguisti. Un punto di
riferimento fondamentale nell’ambito di questi studi è costituito dalle dodici
conferenze tenute da John Austin nel 1955 ad Harvard.796 Il tema trattato dallo
studioso concerne l’asserzione in generale, ma una particolare attenzione è rivolta a
quegli enunciati che non hanno lo scopo di descrivere uno stato di cose o di esporre
dei fatti, bensì servono a compiere un’azione. Austin riassume le caratteristiche di
questi enunciati in questi termini:
1)
«non “descrivono” o “riportano” o constatano assolutamente niente, non sono
“veri o falsi”; e
2)
l’atto di enunciare la frase costituisce l’esecuzione, o è parte dell’esecuzione, di
una azione che peraltro non verrebbe normalmente descritta come, o come
“soltanto” dire qualcosa».797
Tali asserzioni sono chiamate «performative» (performatives), in opposizione a
quelle «constative» (constatives), la cui funzione è quella di descrivere delle
situazioni.798
Tra gli esempi formulati da Austin troviamo frasi di questo tipo:
«“Battezzo questa nave Queen Elizabeth”– pronunciato quando si rompe la bottiglia
contro la prua».
«“Lascio il mio orologio in eredità a mio fratello” – quando ricorre in un
testamento».799
Come risulta da questi esempi, una frase performativa, per avere efficacia, deve
essere pronunciata in «circostanze appropriate». Deve, cioè, vigere una procedura
convenzionale, accettata e rispettata da tutti i partecipanti, che preveda l’atto di
pronunciare certe parole o l’esecuzione di determinate azioni da parte di certe
persone. Se manca un elemento del contesto previsto dalla procedura l’enunciato non
è «falso», bensì «infelice» (unhappy), termine che vuole evidenziare che c’è qualcosa
di scorretto, qualcosa che funziona male.800
795
Ibid.
796
Le conferenze sono state pubblicate postume, nel 1962, con il titolo How to do Things with Words.
797
J. Austin, Come fare cose con le parole, cit., p. 9.
798
Il termine «performativo» deriva dal verbo inglese to perform.
799
Ibid., p. 10
800
Cfr. ibid., p. 12 e pp. 15 sgg.
262
In ambito egittologico, l’idea che alcune frasi della lingua egiziana possano avere una
valenza performativa era già stata avanzata nel 1924. Battiscombe Gunn aveva
sostenuto, infatti, che le legende che accompagnavano le raffigurazioni parietali dei
templi, costruite con il compiuto sDm∼n=f, esprimevano l’azione rappresentata nella
scena, la quale si realizzava nel momento dell’enunciazione.801 Mancava ancora,
tuttavia, una teoria linguistica adeguata che gli permettesse di dare sufficiente
fondamento alla sua ipotesi. Le grammatiche di Gardiner e Lefebvre, apparse
rispettivamente nel 1927 e nel 1940, ripresero l’idea di Gunn:
«La funzione primaria della forma sDm∼n=f, quindi, era probabilmente quella di
presentare l’azione verbale come un evento, come qualcosa che accade o succede a
qualcuno, senza riguardo per la posizione temporale».802
«In via d’eccezione, nelle formule di carattere arcaico che accompagnano delle scene
rituali, sDm∼n=f si impiega, senza riferimento al passato, per descrivere un’azione che
si compie nel momento stesso in cui la si enuncia. L’agente è un dio o un
sacerdote».803
Questa interpretazione non fu accolta, all’epoca, da tutti gli egittologi. Alcuni di essi
non condividevano, infatti, l’idea di tradurre una forma verbale al compiuto con un
presente.804 A partire dagli anni Ottanta, nuovi studi egittologici, potendosi avvalere
delle nuove teorie formulate in ambito linguistico, hanno messo in evidenza con più
efficacia la funzione performativa di certi enunciati della lingua egiziana. In
proposito, Vernus, prendendo in esame le scene presenti nella cappella bianca di
Sesostri I a Karnak, in cui un dio offre un simbolo (anx, Dd o wAs) al re pronunciando
una frase al compiuto, osserva: «Il dio non parla di altro atto se non di quello di
affermare d∼n=j n=k. Quando la rappresentazione sembra riprodurre il senso
dell’espressione, si tratta di una ridondanza secondaria. Così, tali utilizzi di sDm∼n=f
devono essere chiamati performativi».805
801
Cfr. B. Gunn, Studies in Egyptian syntax, Geuthner, Paris 1924, pp. 69 sgg.
802
A. Gardiner, Egyptian Grammar, Griffith Institute Ashmolean Museum, Oxford 1988, § 411, p. 328.
803
G. Lefebvre, Grammaire de l’Égyptien Classique, Imprimerie de l’Insitut Français d’Archéologie Orientale, Le
Caire 1940, § 279, p. 139.
804
Cfr., per es., A. De Buck, Grammaire élémentaire du moyen égyptien, traduite par B. van de Walle et J.
Vergate, Brill, Leiden 1952, § 133 e E. Edel, Altägyptische Grammatik, cit., § 539.
805
P. Vernus, “Ritual” sDm.n.f and some values of the “accompli” in the Bible and in the Koran, in S. Israelit-Groll
(a cura di), Pharaonic Egypt. The Bible and Christianity, The Magnes Press, The Hebrew University, Jérusalem
1985, p. 309.
263
Secondo Vernus, dunque, l’enunciato d∼n=j n=k, pronunciato dal dio, non è una
semplice didascalia del dipinto al quale è associato. Esso, da un punto di vista
puramente grammaticale, andrebbe tradotto «io ti ho dato»; la forma verbale
impiegata, infatti, esprime un’azione che è già stata compiuta. Se teniamo conto del
valore performativo della frase, però, nella traduzione dovremo utilizzare il presente.
L’impiego del compiuto vuole evidenziare che, nel momento in cui un atto viene
nominato, esso, di fatto, è già realizzato.
Vernus fa notare che anche in lingue semitiche come l’ebraico e l’arabo ritroviamo un
utilizzo analogo del compiuto, per formulare delle proposizioni a valore
performativo.806
Fondandosi sulle osservazioni di Vernus, Françoise Labrique mostra che certi
enunciati pronunciati da un dio o dal re nelle scene di offerta che si trovano sulle
pareti del tempio di Edfu vanno interpretati in senso performativo. Ancora una volta
l’accento viene posto sulla forma sDm∼n=f, impiegata in un contesto rituale.807
Caratteristica fondamentale della performatività è quella di dipendere dal contesto,
dalla situazione: «la performatività […] non è né morfologica né semantica, ma
pragmatica, situazionale».808 Non si possono, dunque, stabilire delle leggi
grammaticali per questo fenomeno, ribadisce Philippe Derchain, «ma ogni volta che
una situazione d’enunciazione sembra richiederlo, bisogna pensare che l’Egiziano
sentisse il carattere performativo della sentenza».809
Essendo essenzialmente «pragmatico», il linguaggio performativo è indice di un
pensiero che, a sua volta, si organizza in funzione di una situazione specifica. Si tratta
dello stesso approccio caratteristico della matematica egiziana, che abbiamo
presentato nel capitolo precedente, in cui l’ordine del procedimento dipende dal
problema da risolvere.
La frase «questa è un’offerta», per esempio, enunciata rispettando determinate
condizioni (un sacerdote che la proferisce, in un tempio, davanti a delle vettovaglie,
ecc.),
trasforma
l’oggetto
considerato
in
un’offerta
reale
al
dio,
e
ciò
indipendentemente dal fatto che esso sia qualcosa di materiale o una figura dipinta.
Assumendo questa prospettiva, quindi, le scene raffigurate nei templi non appaiono
806
Cfr. ibid., pp. 311 sg.
807
Cfr. F. Labrique, Le sDm.n.f “rituel” à Edfu: le sens est roi, in Göttinger Miszellen, 106 (1988), pp. 53 sgg.
808
Ph. Derchain, À propos de performativité. Pensers anciens et articles récents, in Göttinger Miszellen, 110
(1989), p. 15.
264
più semplicemente come delle descrizioni di avvenimenti, ma come degli atti veri e
propri che si perpetuano. Rispetto alle rappresentazioni egiziane, quelle prodotte
dall’arte occidentale hanno, invece, come scopo principale quello di comunicare delle
informazioni o indurre delle emozioni nell’osservatore.
«Si comprende così – commenta Derchain relativamente al concetto di
performatività
–
la
portata
enorme
dell’introduzione
di
questa
nozione
nell’interpretazione egittologica. Essa implica che ci si sforzi di cogliere la situazione
extra-testuale nel suo insieme, senza più limitarsi a studiare le iscrizioni secondo dei
punti di vista puramente grammaticali, manifestamente insufficienti per afferrare la
complessità del fenomeno “tavola d’offerta”».810
3. Discorso performativo e pensiero analogico
Per chiarire meglio il ruolo della performatività del linguaggio nella cultura egiziana e
il suo nesso con il meccanismo dell’analogia di cui abbiamo parlato nel primo
paragrafo, ci appoggeremo ora all’analisi delle formule di trasformazione contenute
nel Libro dei Morti, condotta da Servajean in un suo recente saggio.811
Si tratta di una serie di formule funerarie grazie alle quali il defunto può assumere
differenti aspetti.812 Il locutore è il defunto stesso che parla in prima persona; l’atto
del recitare coincide con un’azione che produce degli effetti concreti, nel caso
specifico la trasformazione in un animale, in un fiore di loto o in un essere divino.
«Pronunciando il testo di queste formule – dicendo io – il defunto constata e/o attiva
una rete complessa di analogie. Gli elementi che la compongono appartengono ai miti
o alla teologia di una o più divinità. Esse intrattengono tra di loro, o con il defunto,
delle relazioni particolari […] che si possono qualificare come analogiche e/o
“simpatiche”. Per quanto riguarda l’analogia, si tratta soprattutto di un’analogia di
809
Ibid., p. 18, nota 8.
810
Ibid., p. 14. Nonostante qualche contestazione (cfr., per es., D. Kurth, Zum “sDm.n.f” in Tempeltexten des
griechisch-römischen Zeit, in Göttinger Miszellen, 108 (1989), pp. 31 sgg), la nozione di performatività è ormai
stata accolta nel campo dell’egittologia. Ritroviamo questo concetto, per es., negli studi di A. J. Baumann (cfr. Id.,
The suffix conjugation of early Egyptian as evidenced in the Underworld Books, vol. I, UMI, Ann Arbor 1998, p.
289), nella grammatica di M. Malaise e J. Winand (cfr. Id., Grammaire raisonnée de l’égyptien classique,
C.I.P.L., Liège 1999, §§ 389 e 563) e nelle ricerche di F. Servajean (cfr. Id., Les formules des transformations du
Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, IFAO, Le Caire 2008).
811
Cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la
performativité, cit.
812
Le formule in questione costituiscono il contenuto di dodici capitoli del Libro dei Morti (76-88). Esse
richiamano le formule di trasformazione che troviamo nei Testi dei Sarcofagi, circa una sessantina; il locutore di
queste ultime, tuttavia, è il ritualista che si riferisce al defunto in terza persona.
265
situazione – in generale con una divinità o un essere divino (pianta, animale,
concetto, ecc.) – in relazione con la “legge dei ritorni analogici” di S. Sauneron. Per
quanto riguarda la simpatia, si tratta di una dottrina attestata dall’epoca greca ma che
sembra di origine egiziana».813
Delle formule analizzate da Servajean prenderemo in considerazione un passo di
quella che costituisce il capitolo 80 del Libro dei Morti, cercando di mettere in
evidenza gli elementi funzionali al nostro discorso. Dopodichè, nel paragrafo
seguente, ci rivolgeremo nuovamente al prologo del papiro di Ebers e, sulla base degli
aspetti emersi dall’esame del primo testo, proporremo un’analisi della formula di
apertura.
Il capitolo 80 del Libro dei Morti si intitola: «Fare una trasformazione in un dio e
fare in modo che le tenebre si rischiarino» (jrt xprw m nTr rdt sSp kkw).814 Il passo che ci
interessa si ricollega al racconto mitologico del combattimento tra Horo e Seth che
abbiamo brevemente richiamato nel capitolo precedente. Durante la lotta Seth
colpisce un occhio del rivale e lo lacera in sei parti. Secondo il mito, in virtù
dell’intervento magico di Thot l’occhio di Horo recupera in seguito la sua integrità.
Nel passo in questione, viene ripercorso il processo della sua ricostituzione in sei
tappe. La suddivisione del testo è la seguente:815
1) Jnk sxAy=f.
Io sono il suo ricordo.
2) Jw jT∼n=j Hw m njwt=j, gm∼n=j sw jm=s.
Io afferro Hu nella mia città, avendolo
trovato in essa.
3) Jw jn∼n=j kkw m wsrw=j.
Io rischiaro le tenebre grazie al mio
potere.
4) Jw Sd∼n=j jrt m jwty(t)=s, n jj 15-n(y)t- Io salvo l’occhio per mezzo di ciò che non
Hb.
ha,
non
essendo
ancora
venuto
il
quindicesimo giorno di festa.
5) Jw wDa∼n=j stS (j)m(y) prw Hrw Hr jAw Io giudico Seth che è nelle dimore
Hna=f
superiori riguardo al Vegliardo che è con
813
F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la
performativité, cit., p. 5. Relativamente alla nozione di «simpatia», cfr. ibid., nota 24.
814
La trad. è nostra.
815
Cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la
performativité, cit., p. 42. L’analisi del testo è condotta sulla versione A. Per una visione sinottica delle differenti
versioni della formula 80, cfr. ibid., pp. 111 sgg.
266
lui.
6) Jw apr∼n=j DHwty m Hwt-jaH, n jj 15-n(y)t- Io equipaggio Thot nel castello della
Hb, jT∼n=j wrrt.
luna, non essendo ancora venuto il
quindicesimo giorno di festa, dopo aver
preso la corona bianca.
La prima frase è una proposizione a predicato nominale introdotta dal pronome
indipendente jnk. Seguono delle proposizioni a predicato avverbiale con lessema
verbale, alcune delle quali sono introdotte dall’indicatore di enunciazione jw. La
presenza di quest’ultimo segna l’inizio di una ulteriore tappa del processo. Secondo
Servajean, infatti, la presenza, o l’assenza, di jw permette di distinguere due tipi della
forma verbale sDm∼n=f: uno con valore performativo (introdotto da jw), l’altro con
valore constativo.816
L’occhio di Horo è mitologicamente associato alla luna.817 Le sei tappe necessarie a
ricostituire l’organo possono essere messe in relazione con il periodo di luna
crescente. Nel passo riportato, in due occasioni si fa riferimento al «quindicesimo
giorno di festa», che coincide con la pienezza del disco lunare. 818 La frase iniziale
istituisce una analogia tra il locutore e la luna che, con buona probabilità, è nel suo
periodo di invisibilità (novilunio). Il defunto che recita la formula afferma: «Io sono il
suo ricordo»; si tratta del ricordo o riflesso del sole, si sta parlando cioè della luna,
anche se sole e luna, in realtà, non sono menzionati esplicitamente.819 L’analogia può
essere espressa formalmente in questo modo:
defunto : luna = Ra : sole.820
Le tappe successive sono realizzate attraverso una serie di enunciati introdotti da jw;
in essi il compiuto sDm∼n=f ha valore performativo e può essere tradotto, dunque,
816
Cfr. ibid., p. 44.
817
Riguardo alle concezioni mitologiche egiziane relative alla luna, Derchain scrive: «Il simbolo mitologico più
frequente è tuttavia l’”occhio di Horo”, Horo che è in questo caso il dio del cielo. Ma in questo caso, la luna diventa
femminile, dal momento che “occhio” è femminile in egiziano. E poiché è normale che il dio del cielo abbia due
occhi, si spiegherà che essa è l’occhio sinistro, mentre il sole è l’occhio destro» (Id., Mythes et dieux lunaires en
Égypte, in La lune, mytes et rites, Éditions du Seuil, Paris 1962, pp. 20 sg).
818
Nelle fonti egiziane il riempimento dell’occhio di Horo avviene seguendo un ciclo di sei giorni, che richiama il
numero delle parti in cui l’organo è stato diviso, oppure un ciclo di quattordici/quindici giorni, corrispondenti alla
durata del periodo di luna crescente. In proposito, cfr. Ph. Derchain, Mythes et dieux lunaires en Égypte, cit., pp.
25 sgg).
819
Cfr. P. Barguet (a cura di), Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, Les Éditions du Cerf, Paris 1967, p. 118,
nota 2.
267
come un presente. Con il primo di questi enunciati (seconda tappa), il defunto
acquisisce Hu, ossia il potere della parola, del verbo creatore. Segue un compiuto con
valore constativo (gm∼n=j), che indica il motivo per cui il defunto ha ottenuto questo
potere: lo ha trovato nella sua città. Grazie al potere di Hu, il locutore della formula è
in grado di produrre luce nelle tenebre (terza tappa).
Con un ulteriore enunciato performativo (quarta tappa) l’occhio viene salvato (Sdj),
viene cioè ricostituito mediante «ciò che non ha» (jwty(t)=s).821 Il progressivo
riempimento dell’occhio si compie durante il periodo di luna crescente, prima del
plenilunio (il quindicesimo giorno di festa), informazione che viene fornita
impiegando una forma negativa del compiuto a valore constativo (n jj 15-n(y)t-Hb).822
La tappa seguente (la quinta) richiama il mito di Osiri e la sua uccisione per mano di
Seth. Il Vegliardo di cui si parla designa probabilmente Osiri, ma anche la luna.823 Il
defunto giudica Seth e lo separa da Osiri-luna; il verbo utilizzato, wDa, può significare,
infatti, sia «giudicare» sia «separare». L’azione si svolge su un piano cosmico;
attraverso questo giudizio o separazione, ogni elemento viene rimesso al proprio
posto e il potere oscurante esercitato da Seth sulla luna viene neutralizzato. Con
l’ultimo enunciato performativo (sesta tappa) il defunto «equipaggia» (apr) il dio Thot
nel «castello della luna» (Hwt-jaH).824 Thot è una divinità lunare ed è l’artefice della
ricostituzione dell’occhio di Horo. Il defunto porta così a compimento il processo che
ridona all’occhio la propria integrità. L’iter coincide con il periodo di luna crescente
che termina con la luna piena. Il passo si conclude con una frase al compiuto a valore
constativo con la quale il locutore afferma di aver preso la corona bianca (wrrt), che
rappresenta l’occhio di Horo riempito, cioè la luna piena.825
820
Cfr. F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la
performativité, cit., p. 43. Secondo lo studioso, è possibile impostare la rete di rapporti anche in questo modo:
defunto : Ra = luna : sole; cfr. ibid.
821
Cfr. ibid., p. 44, nota 58.
822
Secondo alcuni studiosi questa frase e quella precedente, in cui compare l’espressione jwty(t)=s,
costituirebbero un’allusione a un’eclisse. Cfr. Ph. Derchain, Mythes et dieux lunaires en Égypte, cit., p. 31 e P.
Barguet (a cura di), Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, cit., p. 118, nota 5.
823
Dell’associazione di Osiri alla luna si trova traccia già nei Testi delle Piramidi. Cfr. Ph. Derchain, Mythes et
dieux lunaires en Égypte, cit., pp. 44 sgg.
824
Il termine apr(w)t, lett. «colui che è equipaggiato», indica l’occhio della luna; cfr. Wb, I, p. 181. Alcuni santuari
dedicati alla luna sono denominati «castello della luna»; cfr. Ph. Derchain, Mythes et dieux lunaires en Égypte,
cit., p. 47 e F.-R. Herbin, Un hymne à la lune croissante, in BIFAO, 82 (1982), p. 237, nota 1.
825
Cfr. P. Barguet (a cura di), Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, cit., p. 118, nota 6. Relativamente alla
frase circostanziale n jj 15-n(y)t-Hb («non essendo ancora venuto il quindicesimo giorno di festa»), presente nella
versione A del testo scelta da Servajean e posizionata subito dopo l’ultimo enunciato a valore performativo, lo
studioso osserva: «Lo scriba sembra essersi sbagliato, poiché ha dimenticato che la luna piena è ormai
sopraggiunta, cosa che i copisti delle altre versioni hanno perfettamente compreso» (cfr. F. Servajean, Les
formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., p. 46).
268
Riferendosi al passo analizzato, Servajean commenta: «Si vede bene come, con l’aiuto
di enunciati performativi e di metafore di grande complessità, fondate su legami
“simpatici”, il defunto stimoli la luna – con la quale si trova in situazione di analogia
– nel corso della prima metà del suo ciclo, dalla neomenia fino agli ultimi istanti della
notte di luna piena. E’ qui che risiede probabilmente l’idea stessa di trasformazione
(xprw): il defunto agisce, con l’aiuto di enunciati performativi, a guisa di un dio-luna,
che restituisce i pezzi mancanti al satellite».826
Per comprendere più a fondo il meccanismo che rende efficaci le frasi performative,
dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al ruolo svolto dall’enunciato iniziale. La
proposizione a predicato nominale che apre il passo, come abbiamo riscontrato,
istituisce un’analogia tra il defunto che pronuncia la formula e la luna. Questa prima
analogia, in realtà, negli enunciati che seguono, si articola in una rete di rimandi
ulteriori. Gli elementi che partecipano al «gioco» analogico, infatti, sono molti; quelli
che compaiono espressamente nelle poche righe che compongono il testo sono: il
locutore (indicato nella prima frase mediante il pronome indipendente jnk e
successivamente con il pronome suffisso =j), la luna, il dio Hu, luce e tenebre,
l’occhio di Horo, il quindicesimo giorno di festa, il dio Seth, il dio Thot e la corona
bianca. Altri elementi possono essere sottintesi, per esempio il sole, di cui la luna è il
riflesso e il dio Osiri, che probabilmente si cela dietro la figura del Vegliardo. Tutti
questi enti sono commensurabili tra loro e possono combinarsi secondo rapporti
differenti. Vediamo qualche possibile combinazione:
defunto/Hu/Thot : luce = Seth : tenebre;
defunto : luna = Thot : occhio di Horo;
quindicesimo giorno di festa : luna piena = corona bianca : occhio di Horo
ricostituito.
La prima proposizione del passo costituisce, tuttavia, il fondamento sul quale poggia
il discorso performativo che segue. Secondo la teoria elaborata da Servajean, gli
enunciati performativi, per essere efficaci, esigono che il locutore si trovi in una
situazione di analogia con una divinità;827 questa analogia è espressa dalla lingua
egiziana attraverso proposizioni a predicato nominale, in particolare quelle che
826
F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la
performativité, cit., p. 48.
827
La divinità in questione è generalmente Ra, la cui parola è creatrice. Cfr. ibid., p. 49.
269
presentano la forma «pronome indipendente + nome». Questo tipo di proposizioni
costituisce, dunque, il «fondamento analogico della performatività».828
Una frase nominale, in generale, implica un predicato nominale senza verbo o copula.
Non si tratta semplicemente di un fenomeno linguistico limitato a una famiglia o ad
alcune famiglie di lingue; esso è stato riscontrato in moltissimi ceppi linguistici, tra
cui, per esempio, l’indoeuropeo e il semitico. Questo tipo di costruzione è, invece,
estranea alle lingue europee occidentali parlate attualmente. Nella famiglia delle
lingue indoeuropee, la frase nominale è un «enunciato assertivo finito»,
sintatticamente simile ad ogni altro.829 Ciò che la distingue dagli altri enunciati,
osserva Émile Benveniste, dipende dal fatto che «nella classe nominale, l’elemento
assertivo, essendo nominale, non è suscettibile delle determinazioni proprie della
forma verbale: modalità temporali, personali, e così via. L’asserzione avrà la
caratteristica di essere atemporale, impersonale, non modale, in breve di poggiare su
un termine ridotto al suo esclusivo contenuto semantico».830
A differenza di una frase verbale, inoltre, una frase nominale non può istituire un
rapporto tra il tempo dell’evento e quello del discorso sull’evento e non partecipa
della soggettività del locutore: «La frase nominale in indoeuropeo asserisce che al
soggetto dell’enunciato appartiene una certa “qualità” (nel senso più generale), ma al
di fuori di ogni determinazione temporale o d’altro genere e al di fuori di ogni
rapporto con il parlante».831 Non si tratta, quindi, semplicemente di una frase priva
di verbo; l’asserzione nominale è in sé completa ed ha una natura differente.
Nella lingua greca l’enunciato verbale e quello nominale coesistono. Relativamente
all’uso che viene fatto di questi due tipi di asserzione, Benveniste, analizzando
un’opera poetica come le Pitiche di Pindaro, rileva che la frase nominale «1. è sempre
legata al discorso diretto; 2. è sempre usata per asserzioni di carattere generale,
ovvero sentenziose».832 Lo scopo di un enunciato nominale è quello di convincere
esponendo una «verità generale» nel contesto di un dialogo. La frase verbale si
presta, invece, alla narrazione di un fatto, alla descrizione di una situazione.
828
Cfr. ibid., pp. 49 sgg.
829
Secondo la definizione di É. Benveniste, «un enunciato assertivo finito possiede almeno due caratteri formali
indipendenti: 1. è compreso tra due pause; 2. ha un’intonazione specifica “finale”, opposta in tutti gli idiomi ad
altre intonazioni altrettanto specifiche (sospensiva, interrogativa, esclamativa, e così via)» (Id., Problemi di
linguistica generale, trad. it. di M. V. Giuliani, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 182).
830
Ibid., p. 187.
831
Ibid.
832
Ibid., p. 191.
270
Conclusioni analoghe si traggono anche dall’esame degli Erga di Esiodo. E’, pertanto,
naturale che in un’opera di prosa narrativa come le Storie di Erodoto, il cui scopo è
quello di informare su una serie di fatti accaduti, prevalga la frase con ejsti. Anche nei
poemi omerici la frase nominale compare soltanto nei discorsi, per esprimere
qualcosa di generale che ha un valore permanente. La frase con ejsti descrive, invece,
situazioni occasionali.833
Nella letteratura greca, però, secondo Charles Guiraud, le verità generali sono
espresse, in alcuni casi, ricorrendo al verbo «essere»: «Salvo qualche caso contrario,
queste frasi verbali si spiegano abbastanza bene: il verbo particolarizza e attualizza
l’enunciato. Le verità generali con ejsti/eijsi, invece di costituire delle verità
immutabili, essenziali, si deducono dall’esame di un caso particolare, appaiono come
la conseguenza di uno sviluppo anteriore. D’altra parte, attualizzare una verità
generale, è insistere sulla realtà di ciò che essa afferma, è dire “si, davvero” o “no,
davvero”».834 Viene posta, dunque, una distinzione tra le frasi rigorosamente
atemporali e indipendenti dal contesto e quelle che esprimono delle verità generali
facendo uso del verbo essere. Queste ultime realizzerebbero un principio generale,
collegandosi a una situazione particolare.835
In egiziano, la frase a predicato nominale serve a identificare un soggetto con un
predicato o a classificare un soggetto come elemento dell’insieme espresso dal
predicato. Il tipo di rapporto che viene istituito tra soggetto e predicato non è
contingente, non è, cioè, subordinato a vincoli spazio-temporali. I linguisti, in campo
egittologico, tendono a insistere sulla funzione di classificazione di questo tipo di
enunciato. In proposito, Vernus parla di «predicazione di classe»: «essa assicura
l’identificazione di un soggetto a un identificante presentato come una sostanza,
dunque appartenente a una classe o a una categoria (costituendola eventualmente
soltanto per lui)». L’espressione «predicazione di classe», secondo lo studioso, riflette
il «semantismo fondamentale» di questo fenomeno linguistico.836 Una posizione
analoga è assunta anche da Antonio Loprieno: «Nelle frasi nominali bipartite o
tripartite con “jnk/ntk-Pred” interlocutivo o “Pred-pw delocutivo […], il predicato
833
Cfr. ibid., pp. 192 sgg.
834
C. Guiraud, La phrase nominale en grec, d’Homère à Euripide, C. Klincksieck, Paris 1962, pp. 60 sg. Sulla
questione delle verità generali, cfr. ibid., pp. 33 sgg.
835
Per degli esempi di questo fenomeno linguistico, cfr. ibid., pp. 49 sgg.
836
P. Vernus, Observations sur la prédication de classe (“Nominal predicate”), in Lingua Aegyptia, 4 (1994), p.
325.
271
nominale classifica il soggetto, cioè definisce una o più delle sue proprietà
semantiche».837
Limitandoci ai casi che ci interessano, diciamo che una proposizione a predicato
nominale, in egiziano, può assumere la forma «predicato + pw + (eventualmente)
esplicitazione del soggetto», oppure «pronome indipendente + predicato».838 Alcuni
egittologi, come Grandet e Mathieu, propongono di considerare sempre il predicato
(che può essere un nome, un sintagma nominale o un pronome) come il primo
elemento di questo tipo di proposizioni, riservando l’ordine «soggetto + predicato»
all’enunciato a predicato avverbiale, che esprime una relazione di situazione. Quando
la proposizione nominale assume la forma «pronome indipendente + predicato», il
pronome viene considerato una «tematizzazione» del soggetto (che in questo tipo di
frase è il pronome dimostrativo astratto Ø), ossia una sua esplicitazione anticipata.839
Elenchiamo ed esemplifichiamo i casi menzionati, seguendo l’impostazione di
Grandet e Mathieu, in questa tabella:
Esempio
Traduzione
s pw, sS
Lo scriba è un uomo (lett.: Predicato + soggetto (il pronome
(è)
un
uomo,
Struttura
questo,
scriba).
s Ø, sS
lo dimostrativo pw) + esplicitazione
del soggetto.
Lo scriba è un uomo (lett.: (è) Predicato + soggetto (il pronome
un uomo, (ciò), lo scriba).
dimostrativo
astratto
Ø)
+
esplicitazione del soggetto.
wsjr pw
È
Osiri
(lett.:
questo).
jnk, ra-tm(w) Ø
(è)
Osiri, Predicato + soggetto (il pronome
dimostrativo pw).
Io sono Ra-Atum (lett.: io, (è) Tematizzazione + predicato +
Ra-Atum, (ciò)).
soggetto (il pronome dimostrativo
astratto Ø).
837
A. Loprieno, Ancient egyptian, a linguistic introduction, Cambridge University Press, Cambridge 1995, pp.
105 sg. Sulla medesima questione, cfr. anche É. Doret, Phrase nominale, identité et substitution dans les Textes
des Sarcophages, in Revue d’Égyptologie, 40 (1989), p. 50.
838
In proposito, cfr., per es., M. Malaise, J. Winand, Grammaire raisonnée de l’égyptien classique, cit., §§ 454
sgg.
839
Cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 295 sg.
272
La proposizione a predicato nominale, esprimendo un’identificazione o una
classificazione non contingente, si oppone a un altro tipo di frase non verbale: la
proposizione a predicato avverbiale con m di «stato» o di «equivalenza».
Consideriamo, per esempio, i due enunciati seguenti:
Enunciato
Struttura
jnk, wsjr Ø
Tematizzazione + predicato + soggetto (il
pronome dimostrativo astratto Ø).
jw=j m wsjr
Indicatore di enunciazione + soggetto (il
pronome suffisso =j) + predicato (m di
stato + nome).
Entrambi gli enunciati possono essere tradotti «Io sono Osiri». Nel caso del secondo
enunciato, tuttavia, si tratta di una «predicazione occasionale», soggetta a limiti
spazio-temporali. La prima asserzione è, invece, svincolata da ogni situazione
contingente. E’ per questo motivo che le proposizioni a predicato nominale non
iniziano mai con l’indicatore di enunciazione jw. Quest’ultimo, infatti, esprime un
punto di riferimento che «circoscrive» la validità di una proposizione.
Vernus precisa che jw ha due caratteristiche: la prima è quella di presentare ciò che
segue come un fatto oggettivo, «la seconda è che questa validazione si giudica rispetto
a un elemento di riferimento […] Anticamente, questo elemento di riferimento era il
momento dell’enunciazione […] In medio egiziano, c’è un ampliamento. Se l’elemento
di riferimento può essere il momento dell’enunciazione, esso può anche essere
definito dal testo stesso».840
Come fa notare Servajean, le proposizioni non verbali costruite sul modello jw=j m X,
dove X è il nome di una divinità qualunque, «non compaiono praticamente mai nelle
formule di trasformazione».841 Se così non fosse le «verità» enunciate sarebbero
relative a un hic et nunc. Pronunciando, invece, una frase del tipo jnk X Ø, il defunto
si colloca al di fuori di un contesto spazio-temporale; egli istituisce una
corrispondenza analogica tra se stesso e una divinità. In virtù di questa analogia, il
840
P. Vernus, Les parties du discours en moyen égyptien. Autopsie d’une théorie, Société d’Égyptologie, Genève
1997, pp. 26 sg.
841
F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la
performativité, cit., p. 50.
273
locutore della formula partecipa della natura della divinità scelta, conservando la
propria identità.
Riferendosi alle proposizioni che presentano la forma jnk + nome di divinità, Vernus
afferma: «E’ escluso che un privato sia identificato con una divinità in quanto tale. Il
nome proprio […] si riferisce dunque al dio considerato come una classe o una
categoria. E’ del resto probabile che, anche nel caso del faraone, il nome proprio della
divinità, piuttosto che essere un puro appellativo, rinvii alla classe che essa costituisce
per le sue caratteristiche d’insieme».842 Lo studioso propone, pertanto, di tradurre la
frase jnk Hapy nb jhwt, presa come esempio, «Io sono un Api signore delle vacche»,
dove l’articolo indeterminativo vuole mettere in evidenza che non si tratta di una
assimilazione o identificazione.843
Anche Assmann sottolinea questo aspetto, benché in un contesto differente da quello
dell’analisi linguistica in cui si muove Vernus. Trattando delle «immagini egiziane
della morte», l’egittologo parla di imitatio Osiridis e imitatio solis;844 il defunto,
durante il suo cammino di rigenerazione, non si confonde con Osiri o con il sole,
bensì rimane se stesso, pur essendo in relazione analogica con queste divinità.
Tornando alle formule di trasformazione del Libro dei Morti, le proposizioni a
predicato nominale stabiliscono una rete di analogie che mette il defunto nelle
condizioni di operare, facendogli acquisire le principali caratteristiche della divinità
di riferimento. Su queste frasi, che generalmente assumono la forma «jnk + nome», si
fondano gli enunciati performativi che le seguono o le precedono.845 Secondo
Servajean, tra la proposizione nominale e il discorso che segue o precede c’è un
legame di causalità.846 E’ interessante notare che Benveniste fa la medesima
osservazione a proposito dei poemi omerici: «Non si fa mai notare abbastanza che la
frase nominale omerica compare di sovente in relazione causale, sottolineata da gavr,
con il contesto. L’enunciazione così formulata, proprio a causa del carattere
842
P. Vernus, Observations sur la prédication de classe (“Nominal predicate”), cit., p. 327.
843
Cfr. ibid.
844
Cfr. J. Assmann, Mort et Au-delà dans l’Égypte ancienne, cit., pp. 263 sgg. Cfr. anche Id., La morte come
tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, cit. p. 28.
845
Le frasi nominali con pw e l’esplicitazione del soggetto, secondo l’analisi di Servajean, partecipano anch’esse al
fondamento analogico della performatività, precisandone alcuni aspetti particolari. L’analogia tra il defunto e una
divinità, per quanto vi è di generale, è enunciata attraverso proposizioni del tipo «jnk + nome»; per quanto vi è di
particolare, invece, mediante proposizioni della forma «nome + pw + nome» o «nome + nome» (cfr. F. Servajean,
Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la performativité, cit., pp. 62
sgg).
846
Questo legame può essere evidenziato meglio in una traduzione mediante congiunzioni come «poiché» o
«infatti», se la frase nominale segue quelle verbali.
274
permanente del contenuto, può benissimo servire da riferimento, da giustificazione,
quando si vuole creare una convinzione».847
Servajean si domanda se l’alternanza tra frasi nominali e non nominali sia la
costruzione discorsiva che meglio di altre esprime le peculiarità del pensiero
analogico. Il defunto, mediante l’uso di proposizioni a predicato nominale, mette in
evidenza «una serie di analogie, poste come delle verità generali, tra il suo divenire in
corso e quello di alcuni esseri divini che, periodicamente, si ritrovano nella sua stessa
situazione».848 Successivamente per agire performativamente o per enunciare le
conseguenze delle analogie poste, egli ricorre a delle proposizioni a predicato
avverbiale con lessema verbale. «Di conseguenza, solo l’enunciazione delle
proposizioni a predicato nominale autorizza quella delle altre, poiché esse
costituiscono lo zoccolo, il fondamento analogico, sul quale riposa ogni enunciazione
verbale ulteriore, di cui garantiscono la riuscita».849
4. L’esordio performativo del papiro di Ebers
Quanto emerge dall’analisi delle formule di trasformazione del Libro dei Morti
sviluppata da Servajean rappresenta, a nostro avviso, un contributo rilevante alla
comprensione del fenomeno della performatività e, più in generale, dei meccanismi
del pensiero analogico. Tutto ciò che concerne il mondo egiziano è, tuttavia,
refrattario a schemi fissi, pur rispettando sempre un certo ordine. Relativamente al
discorso performativo, è possibile individuare gli aspetti linguistici che lo
caratterizzano maggiormente; essi non saranno, però, riscontrabili tutti insieme,
sempre e nello stesso modo, nei molteplici esempi di utilizzo della performatività del
linguaggio che le fonti egiziane ci offrono.850 In rapporto a una circostanza particolare
il discorso si organizza in modo differente, anche se l’impostazione di fondo rimane
simile. Sulla base dei nuovi elementi presentati nei paragrafi precedenti, riprendiamo
in considerazione il prologo del papiro di Ebers e, nello specifico, la prima delle tre
847
É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, cit., p.193.
848
F. Servajean, Les formules des transformations du Livre des Morts à la lumière d’une théorie de la
performativité, cit., pp. 57 sg.
849
Ibid., p. 58.
850
Lo stesso Austin nega l’esistenza di un criterio certo, universalmente valido, per riconoscere un enunciato
performativo. Cfr. J. Austin, Saggi filosofici, trad. it. di P. Leonardi, Guerini e Associati, Milano 1990, pp. 228 sgg.
275
formule magiche che aprono la raccolta.851 Proponiamo la seguente suddivisione del
testo:
1) pr∼n=j m jwnw Hna wrw n(y)w Hwt-aAt, nbw Io sono uscito da Eliopoli insieme ai
mkt HqAw nHH; nHmn pr∼n=j m sAw Hna mwt Grandi del Grande Tempio, i signori dei
nTrw. rd∼n=sn n=j mkwt=sn.
mezzi di protezione, sovrani dell’eternità;
nello stesso modo, sono uscito da Sais con
la madre degli dei. Essi mi hanno dato i
loro mezzi di protezione.
2) jw Tsw n=j jr(ww)∼n nb r-Dr, r dr st-a nTr, Io possiedo le parole fatte dal Signore
nTrt, mt, mtt, Hmwt-rA, nty m tp=j pn, m nHbt=j universale, per cacciare l’attività di un dio,
jptn, m qaHw=j jpn, m jwf=j pn, m awt=j iptn, di una dea, di un morto, di una morta, e
r sswn srxy, Hry saqyw Xnn m jwf=j pn, bjbj(w) così di seguito, che si manifesta in questa
m awt=j jptn, m aq(w)t m jwf=j pn, m tp=j pn, mia testa, in questo mio collo, in queste
m qaHw=j jpn, m Haw=j, m awt=j jptn.
mie spalle, in questa mia carne, in queste
mie parti corporee, e per punire il
Calunniatore, il capo di coloro che fanno
entrare il disordine in questa mia carne,
che corrodono queste mie parti corporee,
come qualcosa che penetra in questa mia
carne, in questa mia testa, in queste mie
spalle, in queste mie membra, in queste
mie parti corporee.
3) n(y)-wj ra.
Io appartengo a Ra.
4) Dd∼n=f:
Egli ha detto/dice:
5) jnk nD(w) sw m-a xftyw=f.
«Io sono colui che lo protegge dai suoi
nemici.
6) sSmw=f pw, DHwty;
Thot è la sua guida;
7) jw=f d=f mdw dfr, jr=f dmDwt, d=f Ax n egli fa in modo che lo scritto parli, fa le
rxw-xt n swnww jm(y)w xtw=f r wHa.
compilazioni medicali, dà il potere ai
sapienti e ai medici che sono nel suo
seguito di liberare (i malati).
851
La formula è pressoché identica a quella contenuta in Hearst, 78.
276
8) mrrw nTr, sanx=f sw.
Colui che è amato dal dio, egli lo tiene in
vita».852
9) jnk pw, mrrw nTr,
Io sono colui che è amato dal dio,
10) sanx=f wj.
egli mi tiene in vita.
La prima tappa costituisce una sorta di antefatto che giustifica quanto segue. Il
locutore dichiara di avere stretto un rapporto con le divinità di Eliopoli e con la dea di
Sais, Neith; in virtù di questo rapporto egli ha ottenuto degli strumenti indispensabili
(i mezzi di protezione) per poter operare in una situazione specifica: quella di una
malattia da combattere. Nel passo troviamo una serie di verbi al compiuto, nella
forma sDm∼n=f; i verbi non sono, tuttavia, introdotti dall’indicatore di enunciazione
jw. Quest’ultimo introduce, invece, il passo seguente (secondo punto). La prima frase
è una proposizione a predicato avverbiale senza lessema verbale che esprime
un’attribuzione. Grazie a ciò che è accaduto prima, l’orante è in possesso delle parole
performative hic et nunc, ossia nel luogo e nel momento in cui si trova a dover
prevenire o fronteggiare l’attacco di una moltitudine di agenti patogeni.
Segue una proposizione a predicato nominale (terzo punto), che esprime, ancora una
volta, una relazione di attribuzione, presentata però come verità generale.853 Colui
che pronuncia la formula dichiara di appartenere a Ra, ossia di partecipare della sua
natura. Questa frase, a nostro avviso, costituisce il fondamento analogico di quanto
precede e di quanto segue. Volendo dare una veste formale a questa analogia,
possiamo impostare la proporzione così:
locutore (medico/paziente) : Ra = formula : parola divina.
E’ la relazione tra il locutore e Ra che rende efficace la formula e che permette al
primo di fare proprie le parole del dio. Subito dopo la prima frase nominale segue,
infatti, un verbo al compiuto (quarto punto) che introduce un discorso diretto. Sono
le parole pronunciate da Ra che, per l’analogia istituita, diventano anche le parole del
locutore. Per questo motivo, a nostro avviso, questa forma compiuta può essere
tradotta anche con un presente: l’orante, essendo come Ra, dice al presente ciò che il
dio ha detto in una situazione analoga. Si tratta di un dire performativo.
852
Nella trad. di questa frase seguiamo l’interpretazione di T. Bardinet, che concorda con quella di B. Ebbell (The
Papyrus Ebers. The greatest Egyptian medical document, Levin & Munksgaard, Copenhagen 1937, p. 29). Il
Grundriss propone una lettura diversa (cfr. H. von Deines, H. Grapow, W. Westendorf, Grundriss der Medizin
der Alten Ägypter, vol. IV, Übersetzung der medizinischen Texte, cit., p. 308).
277
Il discorso di Ra contiene due frasi a predicato nominale che articolano l’analogia
posta al terzo punto. La prima (quinto punto), del tipo «jnk + nome», ribadisce il
potere protettivo del dio che si trasmette al locutore, presentandolo come una verità
generale. La seconda (sesto punto), del tipo «nome + pw + nome», fornisce una
precisazione ulteriore: il potere di Ra si trasmette attraverso un intermediario, il dio
Thot, indicato come guida. Le proposizioni a predicato avverbiale che seguono
(settimo punto), introdotte da jw, enunciano le conseguenze di questa azione di
intermediazione. Thot è l’autore dei testi medici; egli fa in modo che «lo scritto parli»
(mdw dfr), e non solo in senso «comunicativo». Il discorso diretto si conclude con
l’affermazione che chi è amato dal dio, conserva la propria vita e la propria salute
(ottavo punto).
Le ultime due frasi della formula, che si riallacciano alla conclusione del discorso di
Ra, sono una proposizione a predicato nominale, di nuovo del tipo «jnk + nome»
(nono punto), e una verbale (decimo punto) che esprime la conseguenza diretta della
prima. Il locutore, per dare maggiore forza a tutto ciò che precede, afferma di essere
amato dal dio; egli ribadisce, cioè, in altri termini, la sua appartenenza a Ra. Ciò gli
garantisce vita e salute.
In questo testo ritroviamo l’alternanza tra proposizioni nominali e non nominali di
cui parla Servajean. In una di queste, in particolare, abbiamo individuato il
fondamento analogico del discorso (terzo punto). Non riscontriamo, invece, un
impiego dell’indicatore di enunciazione jw per distinguere tipi differenti di sDm∼n=f,
performativi e constativi. Rileviamo, inoltre, un altro aspetto interessante: delle tre
formule magiche che costituiscono il prologo del papiro di Ebers, la prima è l’unica a
presentare delle proposizioni a predicato nominale. E’, tuttavia, fuor di dubbio la
valenza performativa delle altre due, nelle quali si istituiscono reti di analogie allo
scopo di ottenere effetti preventivi o terapeutici concreti. La questione, a nostro
avviso, si può risolvere in questo modo: le tre formule sono strettamente legate tra
loro e le frasi a predicato nominale che compaiono nella prima costituiscono un
fondamento anche per le corrispondenze analogiche poste nelle altre due. Queste
ultime risulteranno, dunque, veramente efficaci solo se saranno precedute dalla
recitazione della prima.
853
Riguardo a questo tipo di costruzione, cfr. P. Grandet, B. Mathieu, Corso di egiziano geroglifico, cit., pp. 314
sgg.
278
5. Il contesto appropriato: il Verbo della «prima volta»
Un discorso performativo, per essere realmente «atto», deve essere inserito nel
contesto giusto. Austin parla di «circostanze appropriate» e di «procedura
convenzionale». Si tratta di elementi indispensabili per trasformare un certo tipo di
enunciato in un’azione; in mancanza di essi o a causa di un loro uso scorretto,
l’enunciato risulta «infelice».854 Anche Benveniste pone l’accento su questo aspetto
essenziale: «In ogni caso un enunciato performativo non ha realtà se non quando sia
autenticato come atto. Al di fuori delle circostanze che lo rendono performativo, un
enunciato del genere non è più niente».855
La costruzione discorsiva egiziana che abbiamo delineato non è in grado, quindi, di
dare efficacia performativa a un testo, indipendentemente da una sua adeguata
contestualizzazione. Tra le circostanze che contribuiscono alla performatività di una
formula, possiamo menzionare l’autorità riconosciuta del locutore (un sacerdote, un
medico, ecc.) e il luogo e il momento in cui le parole sono proferite (per es., in un
tempio, durante una particolare celebrazione). Possiamo altresì richiamare
l’importanza del supporto sul quale, eventualmente, il testo viene scritto (un papiro,
una parete, ecc.) e degli inchiostri o colori utilizzati. Tutti questi elementi, tuttavia,
per quanto rilevanti, non sono ancora in grado di garantire la piena efficacia a un
discorso performativo.
Ciò che rende effettivamente performativo un enunciato o un discorso egiziano è in
primo luogo il suo legame diretto con il Verbo creatore pronunciato la «prima volta»,
quando il dio demiurgo ha posto in essere il cosmo. In questo caso, quindi, la
performatività non riposa su un insieme di «convenzioni sociali», ma sulle virtù della
Parola per eccellenza. La «prima volta» costituisce, dunque, il contesto appropriato.
Riguardo alla lingua «letteraria egiziana», quella utilizzata per redigere i testi
religiosi e funerari, quelli più specificamente magici, e tutti gli scritti «ufficiali»,
Vernus rileva: «Il pensiero egiziano, come altri pensieri antichi, dà alla Prima Volta,
al momento della creazione e all’ordinamento del mondo, lo statuto di un modello al
quale riferirsi costantemente».856
854
Cfr. supra, p. 262.
855
É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, cit., p. 326. Abbiamo leggermente modificato la trad. di M. V.
Giuliani, rendendo il termine performatif con «performativo» (anziché «esecutivo»).
856
P. Vernus, Langue litteraire et diglossie, in A. Loprieno (a cura di), Ancient Egyptian literature. History and
forms, Brill, Leiden 1996, p. 556.
279
I documenti ufficiali nell’antico Egitto non hanno esclusivamente la funzione di
comunicare o propagandare delle idee; essi hanno uno scopo ulteriore: quello di
produrre un effetto concreto:
«non si tratta solamente di esporre una visione
individuale o collettiva del mondo, ma anche di farla avvenire performativamente,
mediante il testo e l’immagine, e di perpetuarla erigendola al rango di elemento della
creazione, in una parola, di sacralizzarla. Ora, per avere le migliori possibilità di
ottenere questo risultato, la forma deve essere curata. Per dire efficacemente, bisogna
dire bene, perfezionando (smnx) ciò che è detto, tanto più che narrare il mondo è
semplicemente pensarlo facendo apparire attraverso le parole e le frasi che lo
descrivono l’infinita rete di analogie e di affinità che unisce tra loro ciascuno dei suoi
componenti».857
I canoni stilistici osservati nella redazione di questo genere di documenti non
rispondono, quindi, a esigenze puramente estetiche, ma mirano a riprodurre le
caratteristiche della lingua della «prima volta», la lingua performativa per eccellenza.
6. Oralità e scrittura: una scrittura che «parla»
Nell’affrontare la questione della performatività dell’egiziano ci siamo concentrati,
finora, soltanto su aspetti linguistici, senza soffermarci sul ruolo della scrittura. Il
legame tra la lingua egiziana e la scrittura geroglifica è, tuttavia, molto stretto e ci
induce a rivolgere ora la nostra attenzione al rapporto tra i geroglifici e la lingua che
veicolano. Cercheremo, in particolare, di mettere in rilievo i tratti essenziali che
distinguono la grafia geroglifica da scritture «alfabetiche», come quella greca.
Relativamente al rapporto tra oralità e scrittura in generale, è emblematico quanto
afferma Platone nella parte conclusiva del Fedro. In questo contesto, il filosofo
richiama la figura del dio egiziano Thot che, secondo la tradizione, ha donato agli
uomini le arti e le scienze, nonché la scrittura. Riguardo a quest’ultima, il Thot
platonico, davanti al re Thamus, al quale mostra le sue invenzioni, si esprime in
questi termini:
«Questo insegnamento, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di
ricordare, perché è stato inventato quale rimedio per la memoria e la sapienza».858
Il sovrano ribatte, tuttavia, puntualizzando che
857
Ibid., pp. 557 sg.
280
1)
non si tratta di un rimedio per la memoria, ma per «richiamare alla memoria»
(uJpomnhvsew~ favrmakon). I segni della scrittura sono, infatti, qualcosa di
esterno, di estraneo all’individuo;
2)
questo strumento non procura ai propri discepoli la verità, bensì l’apparenza,
dal momento che i discorsi scritti riportano molte informazioni senza
insegnamento.
Rispetto al discorso parlato, la parola scritta ha il limite, secondo Platone, di essere
assolutamente priva di movimento e, potremmo dire, di vita. E’, cioè, incapace di
agire e reagire, nel contesto di una situazione concreta. Il discorso scritto non è,
dunque, in grado di difendersi e necessita del soccorso del suo autore:
«Questo, infatti, Fedro, ha di terribile la scrittura, e davvero simile alla pittura.
Effettivamente i prodotti della pittura stanno davanti come esseri viventi, ma se fai
loro qualche domanda, tacciono solennemente. Lo stesso fanno anche i discorsi scritti
[…] Una volta che sia stato scritto, ogni discorso circola dappertutto tanto in mano di
quelli che se n’intendono quanto di quelli per i quali non è affatto adatto e non sa a
chi deve parlare e a chi no. E maltrattato e ingiustamente vilipeso, ha sempre bisogno
del soccorso del padre, perché da sé non è capace né di difendersi né di portarsi
aiuto».859
Sulla base di queste premesse, la scrittura non può essere considerata altro che un
«gioco» (paidiav), mediante il quale l’autore dello scritto accumula per sé una
moltitudine di ricordi, «qualora giunga la dimentica vecchiaia».860
L’oralità è, invece, superiore alla parola scritta, nella misura in cui essa produce un
discorso che, «accompagnato da scienza, è scritto nell’anima di chi apprende ed è
capace di difendere se stesso e sa con chi deve parlare e con chi tacere».861 Chi ricorre
all’oralità ha la possibilità di cogliere la natura dell’anima e di ordinare il discorso in
modo conseguente, «rivolgendo discorsi variopinti e di ogni gamma di toni a
un’anima variopinta e semplici invece ad un’anima semplice».862 Il discorso proferito
oralmente si declina, quindi, in riferimento a una situazione specifica. Esso è
portatore di un seme che, piantato nell’anima di chi ascolta, genererà altri discorsi.
858
Platone, Fedro, 274 e.
859
Ibid., 275 d-e.
860
Ibid., 276 d.
861
Ibid., 276 a.
862
Ibid., 277 c.
281
Chi non ha da dire nient’altro all’infuori di ciò che scrive non è un «filosofo», bensì
un poeta o uno scrittore di discorsi o di leggi.863
Secondo Platone, la cesura tra oralità e scrittura è profonda. Il filosofo dichiara la
superiorità della prima sulla seconda. Tuttavia, presentando la sua posizione per
iscritto, egli è sicuramente consapevole del fatto che la scrittura apre un nuovo
orizzonte al pensiero, ossia ristruttura il modo di pensare, in senso non soltanto
limitativo.
Le ricerche di Eric Havelock hanno mostrato che gli inizi della filosofia greca sono da
mettere in relazione con la diffusione della scrittura in Grecia nel corso del V secolo a.
C. e con la conseguente rivoluzione del modo di pensare.864 Al nuovo orizzonte
culturale dischiuso dalla parola scritta Platone non è del tutto ostile, nonostante la
netta presa di posizione a favore del discorso orale che riscontriamo nel Fedro. La
filosofia platonica, infatti, pur conservando certe caratteristiche tipiche dell’oralità
come, per esempio, la forma dialogica, può articolarsi in maniera complessa e
manifestare una certa autonomia proprio perché viene scritta. Il pensiero «analitico»,
del resto, ha la possibilità di svilupparsi soltanto in una cultura che abbia ormai
interiorizzato la scrittura. Secondo Havelock, la critica che Platone indirizza contro la
poesia e i poeti nella Repubblica rappresenta un rigetto dell’impostazione
intellettuale propria della cultura orale: «Dobbiamo renderci conto che opere geniali,
composte nell’ambito della tradizione semi-orale, per quanto siano motivo di squisito
godimento per i lettori moderni dell’antica letteratura greca, costituivano o
rappresentavano una mentalità globale che non è la nostra e non era quella di
Platone; e che, proprio come la stessa poesia, finché dominò incontrastata, costituiva
il principale ostacolo alla creazione di una prosa efficace, così esisteva una mentalità
che chiameremo opportunamente “poetica” o “omerica” o “orale”, che rappresentava
il
principale
ostacolo
al
razionalismo
scientifico,
all’uso
dell’analisi,
alla
classificazione dell’esperienza e al suo riordinamento in sequenze di causa ed effetto.
Ecco perché la mentalità poetica è per Platone il nemico numero uno».865
Il largo uso della scrittura ha generato un atteggiamento mentale diairetico,
separatore e ha contribuito al progressivo distacco del pensiero dalle situazioni
863
Cfr. ibid., 278 d-e.
864
Cfr. E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad. it. di M. Carpitella,
Laterza, Roma-Bari 1973.
865
Ibid., p. 45.
282
concrete. In proposito, possiamo considerare la logica aristotelica una delle maggiori
realizzazioni prodotte da questo nuovo approccio.
Diversamente dal pensiero analitico connesso alla scrittura, la cultura orale,
caratterizzata dal «suono», non è separatrice, bensì aggregante; essa ricorre a
massime, proverbi, frasi fatte, che fungono da moduli mnemonici per il pronto
recupero di un pensiero o di un’informazione. La parola orale, anche se non viene
espressa in versi, tenderà, inoltre, ad essere ritmica. Il pensiero è, dunque,
fortemente condizionato dai sistemi mnemonici, i quali ne determinano lo sviluppo e
la sintassi. L’oralità è, in secondo luogo, sempre «contestualizzata», cioè strettamente
legata alle situzioni concrete, proprio per il fatto che non pensa in termini di categorie
astratte, come quelle della geometria o della logica formale. In proposito,
richiamandosi alle ricerche svolte da Aleksandr Luria all’inizio degli anni Trenta del
secolo scorso su illetterati e persone a bassa alfabetizzazione, in alcune aree remote
dell’Uzbekistan e della Kirghizia, Walter Ong osserva: «Chi ha interiorizzato la
scrittura, non solo scrive, ma parla anche in modo diverso, organizza cioè persino la
propria espressione orale in ragionamenti e forme verbali che non conoscerebbe se
non sapesse scrivere. Poiché il pensiero basato sull’oralità non segue questi schemi,
gli alfabetizzati ne ritengono ingenua l’organizzazione; tale pensiero può invece
essere molto sofisticato e capace di un tipo di riflessione tutto suo».866
Menzioniamo ancora un aspetto: mentre il discorso orale è un evento sonoro,
dinamico e irreversibile, la parola scritta è in rapporto con la vista, la quale è in grado
di registrare il movimento, ma si sofferma più agevolmente su un oggetto fermo.
Anche le idee platoniche sono in relazione con la facoltà visiva; i termini ijdeva ed ei\do~
derivano, infatti, entrambi da una radice che esprime il concetto di «vedere»:867 «Le
idee platoniche sono silenti, immobili, prive di calore, non interattive ma isolate, non
inserite nel mondo vitale umano ma al di sopra e al di là di esso».868
Gli aspetti che abbiamo richiamato, relativamente al linguaggio scritto e al suo
rapporto con l’oralità, sono inerenti alle scritture alfabetiche. Lo stesso Platone, nel
Fedro, quando formula la sua critica ai discorsi scritti, ha in mente probabilmente
una scrittura soltanto alfabetica, anche se fa riferimento al dio Thot e alla scrittura di
866
W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, trad. it. di A. Calanchi, Il Mulino, Bologna 1986, p.
88.
867
Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris
1999, pp. 316 sg e 455.
868
W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, cit., pp. 121 sg.
283
sua invenzione. Il sistema geroglifico è, infatti, uno strumento che può essere
impiegato come supporto per l’oralità e che conserva, dunque, alcune delle
caratteristiche proprie di quest’ultima.
Assmann ha distinto due differenti funzioni della scrittura egiziana; essa può
funzionare come un’estensione della memoria oppure come appoggio della voce:
1) «La scrittura come memoria artificiale è destinata a equipaggiare il morto con
un repertorio di testi di cui avrà bisogno nell’altro mondo. […] E’ l’origine della
letteratura funeraria – la scrittura come ricettacolo (artificiale) di un sapere
magico.
2) La scrittura come voce artificiale, dall’altro lato, è destinata a stabilizzare e
rendere permanente la recitazione liturgica al di là della sua esecuzione reale.
La scrittura serve ancora a realizzare una recitazione permanente».869
E’ necessario precisare che nell’antico Egitto sono esistiti più sistemi grafici. Il
geroglifico era la scrittura utilizzata per i testi incisi o dipinti sui monumenti; di essa è
raro trovare traccia in altri ambiti. I testi manoscritti su papiro, su ostraca o su altro
supporto erano, invece, redatti in «ieratico», una forma corsiva del geroglifico. I due
sistemi sono coevi e presenti durante tutto il periodo faraonico. In età tarda, tra l’VIII
e il VII secolo a. C., dallo ieratico si sviluppò un ulteriore sistema grafico, il
«demotico». Si tratta di una scrittura legata a quella che è considerata la quarta fase
della lingua egiziana; il demotico, durante l’epoca saita, divenne la grafia utilizzata
per la stesura dei documenti amministrativi e quotidiani. Il geroglifico si differenzia
dallo ieratico e dal demotico per la sua iconicità. Ciò che, invece, accomuna i tre
sistemi grafici è il fatto di non essere scritture alfabetiche. Soltanto il copto, ultima
fase della lingua egiziana, attestato a partire dal II-III secolo d. C., viene scritto
ricorrendo a dei segni alfabetici (desunti per la maggior parte dall’alfabeto greco).
I testi medici e matematici che abbiamo menzionato in precedenza sono redatti su
papiro, in ieratico. Essi possono essere considerati degli aide-mémoire, ossia dei
compendi di nozioni pensati rispettivamente per i medici e per gli studenti. Si tratta
di scritti molto sintetici, che non forniscono una visione completa e articolata delle
discipline di cui trattano. Per quanto riguarda i papiri medici, le formule magiche in
essi contenute sono concepite per essere recitate ad alta voce. La loro recitazione le
rende efficaci. In questo caso, la scrittura non è un’estensione della voce umana,
869
J. Assmann, Images et rites de la mort dans l'Égypte ancienne. L'apport des liturgies funéraires, Cybele,
Paris 2000, p. 32.
284
bensì uno strumento per richiamare alla memoria ed eventualmente perfezionare un
sapere specifico, con il quale il lettore ha già una certa familiarità. Lo stesso può dirsi
delle redazioni su papiro del Libro dei Morti, che costituiscono un equipaggiamento
magico per il defunto.870
Se consideriamo, invece, le grandi composizioni religiose dell’Egitto faraonico, Testi
delle Piramidi, Testi dei Sarcofagi e Libri dell’Oltretomba, che troviamo in contesti
funerari, il ruolo della scrittura è, in primo luogo, quello di sostituire la voce. Questi
testi, infatti, non sono stati redatti per essere letti o recitati da qualcuno; essi
costituiscono una sorta di recitazione permanente a carattere performativo. Nelle
piramidi dell’Antico Regno in cui sono presenti dei testi sulle pareti, un discorso
«orale» perpetuo circonda il sovrano defunto, producendo degli effetti. Le colonne
dei Testi delle Piramidi iniziano con la formula Dd mdw, ossia «parole da recitare». Il
tema principale di queste recitazioni è l’ascesa al cielo del re.
In un contesto rituale mutato rispetto a quello dell’Antico Regno, i Testi dei
Sarcofagi, iscritti sulle pareti delle bare dei funzionari del Medio Regno, assolvono a
una funzione analoga. Assmann mette in relazione questi testi con le «veglie orarie»
che accompagnano il processo di imbalsamazione: «Si iscrivono le recitazioni delle
veglie orarie sulle pareti dei sarcofagi per “eternizzare” la situazione finale
dell’imbalsamazione».871 Anche in questa circostanza la scrittura, sostituendo la voce,
ha innanzitutto un ruolo di tipo performativo.
Nel caso dei Libri dell’Oltretomba presenti sulle pareti delle tombe della Valle dei Re,
il testo scritto è arricchito da una componente iconografica di pari rilevanza. Le
immagini si integrano in maniera complementare con i testi, intensificandone
l’efficacia performativa.872 Queste composizioni, infatti, come rileva Vernus, «mirano
a ricreare nella tomba il periplo del sole durante la notte, detto diversamente, ad
attualizzare, a beneficio del defunto, il reale ideologico».873
Pur ipotizzando che le grandi composizioni religiose possano essere state concepite
dagli Egiziani anche allo scopo di tramandare ad una lontana posterità un corpus di
870
Cfr. ibid., p. 36.
871
Ibid.
872
Sui rapporti tra i testi e le rappresentazioni nel mondo egiziano, cfr. P. Vernus, Des relations entre textes et
représentations dans l’Égypte Pharaonique, in D. Dentel (a cura di), Écritures II, Centre de semiotique textuelle,
Université de Paris X, Nanterre 1987, pp. 45 sgg. Cfr. anche P. Piacentini, Per l’eternità dell’eternità: geroglifici e
sacralizzazione, in Sartori, A. (a cura di), Parole per sempre? L’interpretazione delle epigrafie, le interpretazioni
dell’epigrafia. Atti del 1° incontro di Dipartimento sull’epigrafia (28 ottobre 2002), Milano 2003, pp. 19 sg.
873
P. Vernus, Des relations entre textes et représentations dans l’Égypte Pharaonique, cit., p. 59.
285
conoscenze teologiche, cosmologiche e magiche, la loro funzione principale resta,
tuttavia, quella di agire, di produrre degli effetti concreti e non semplicemente quella
di comunicare delle informazioni. Una volta che un luogo di sepoltura era stato
chiuso, infatti, nessuno avrebbe più dovuto entrare «per l’eternità»; soltanto il
defunto, ricongiungendosi come ba alla mummia, avrebbe potuto guardare e
«leggere» i testi.
Per la realizzazione dei «libri» monumentali, la scrittura che viene utilizzata è quella
geroglifica che, formando un tutt’uno omogeneo con le parole da essa veicolate,
diventa una voce che parla «per l’eternità». Il geroglifico «sembra essere la sola
scrittura pittografica che non ha ceduto alla tendenza universale all’astrazione e alla
semplificazione ma che ha mantenuto, fino alla fine, per più di tre millenni, il suo
realismo iconico e la sua complessità artistica».874 La scrittura geroglifica non
costituisce, tuttavia, un sistema chiuso e statico; essa è potenzialmente aperta ad
accogliere dei segni nuovi, per raffigurare i nuovi oggetti o esseri animati che entrano
a far parte del mondo egiziano. L’uso del cavallo come animale da tiro, per esempio,
si diffonde in Egitto sotto il dominio degli Hyksos, durante il Secondo Periodo
Intermedio; nelle epoche precedenti, pertanto, non troviamo segni che rappresentano
questo animale.
Perché i segni geroglifici sono in grado di compiere delle azioni? Riteniamo che il
potere performativo attribuito dagli Egiziani alla loro scrittura monumentale sia
legato alla sua iconicità. Per l’Egiziano, infatti, esiste uno stretto legame tra i
geroglifici e gli enti che popolano il cosmo; ogni ente è già un geroglifico. In altri
termini, l’immagine di un ente non è un surrogato o una semplice copia, bensì
partecipa della medesima natura di quell’ente.
All’inizio del De interpretatione, Aristotele formula una teoria ben diversa:
«Ordunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo
nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. […] suoni e lettere
risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti».875
Secondo lo Stagirita, dunque, le parole articolate con la voce sono surrogati del
pensiero e le parole scritte, a loro volta, sostituiscono il discorso orale.
874
J. Assmann, Images et rites de la mort dans l'Égypte ancienne. L'apport des liturgies funéraires, cit., p. 113.
875
Aristotele, De interpretatione, 1, 16 a, 1-7. in Id., Organon, trad. it. di G. Colli, cit.
286
Nella filosofia platonica, viene ribadito in più contesti che l’immagine non condivide
lo stesso statuto con l’ente al quale è associata. Più in generale, l’immagine non è
«essere» a pieno titolo.
Nel momento in cui uno scriba traccia dei geroglifici, invece, egli sta richiamando
«concretamente» gli esseri corrispondenti. Questo aspetto caratterizza il sistema
geroglifico fin dalle sue origini. Tra le primissime attestazioni di questa grafia (fine
del IV millennio a. C.), troviamo una serie di etichette utilizzate per indicare dei
prodotti. La funzione più ovvia che potrebbe essere attribuita a queste etichette è
quella di rispondere a delle esigenze amministrative di classificazione. Vernus fa
notare, tuttavia, che «le etichette mirano non soltanto a identificare il prodotto, ma
anche a mostrare che esso si inserisce in un contesto rituale o cerimoniale e che ne
veicola virtualmente gli effetti e, più ancora, (mirano) a captarne l’essenza attraverso
l’iscrizione stessa che lo identifica, grazie alle virtù “performative” specifiche della
scrittura geroglifica».876
Un documento molto posteriore, l’Onomasticon di Amenope, riferendosi all’insieme
di tutte le parole ripartite per categorie, afferma:
«Ciò che Ptah ha creato, ciò che Thot ha trascritto».877
Viene ribadita, dunque, in modo esplicito, l’equivalenza tra gli enti che popolano il
cosmo e i geroglifici.
Una possibile obiezione che si potrebbe sollevare, relativamente alla performatività
della scrittura egiziana, è la seguente: il discorso parlato, essendo suono, è sempre in
movimento, anche se per un tempo limitato; la parola scritta, invece, anche se ha una
«durata» incomparabilmente più lunga, è ferma, immobile e, quindi, dovrebbe essere
incapace di azione. Il problema si risolve, a nostro avviso, in questo modo: il discorso
scritto, a differenza di quello orale, è legato alla facoltà visiva; ora, per gli Egiziani,
l’organo della vista, l’occhio, è connesso all’idea del «fare». Il verbo jrj (fare), in
geroglifico, è, infatti, un occhio e anche la sua radice è la stessa del sostantivo che
denota l’organo:
iri
(jrj), fare;
iret
(jrt), occhio.
La visione non è mai, dunque, una pura contemplazione; essa rappresenta, invece,
una partecipazione attiva al mondo.
876
P. Vernus, Les premières attestations de l’écriture hiéroglyphique, in Aegyptus, 81 (2001), p. 31.
287
7. La logica del corpo articolare tra oralità e scrittura geroglifica
Gli aspetti evidenziati mostrano che la scrittura geroglifica è strettamente legata alla
dimensione dell’oralità; essa è principalmente un’estensione della voce umana. Le
scritture alfabetiche costituiscono, invece, essenzialmente un supporto per la
memoria. A questo punto, ci sembra interessante richiamare la tesi di Bolens che
individua nell’avvento della scrittura in generale la causa che ha prodotto la
scomparsa della «logica del corpo articolare».878 Secondo la studiosa, le culture
occidentali, dopo aver interiorizzato
la scrittura, hanno «metaforizzato e
simbolizzato» il corpo umano a tal punto da non essere più in grado di coglierne la
mobilità intrinseca. In una cultura dello scritto, la motricità corporea viene ridotta al
semplice meccanismo fisiologico o a una serie di gesti convenzionali stabiliti sulla
base di un codice estetico, politico, religioso, atletico, ecc. Il corpo non è più
concepito, quindi, come «evento», come luogo di mobilità di parti organizzate in un
sistema di giunture e separazioni, bensì come oggetto di osservazione.
La differenza tra la «logica dell’oralità» e quella della scrittura emerge chiaramente
dall’esempio che fa Bolens: «il cuore, organo vitale, può essere descritto attraverso la
sua forma, può essere disegnato o rappresentato da un simbolo. Ma esso può essere
anche descritto da un movimento di pulsazione della mano, che si apre e si richiude
alternativamente e regolarmente».879 Il secondo modo di descrivere l’oggetto in
questione, proprio di una logica dell’oralità, non si interessa della sua forma, ma si
concentra sul movimento di cui è capace. Esso implica, dunque, la presenza di un
corpo vivente, di una bocca che parla, in primo luogo, ma anche di un insieme di
espressioni e gesti corporei.
Relativamente all’importanza della corporeità in una cultura orale anche Ong si
esprime in modo analogo: «Il mondo orale […] non esiste mai in un contesto
puramente verbale, come invece accade per la parola scritta. L’espressione orale è
sempre la modificazione di uno stato complessivo, esistenziale, che impegna tutto il
corpo. L’attività corporea non è né un elemento peregrino, né un espediente
artificioso nella comunicazione orale, ma ne è una componente naturale e addirittura
877
Cfr. supra, p. 227.
878
G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 221.
879
Ibid., p. 218.
288
inevitabile. Nell’espressione orale, specialmente se pubblica, l’immobilità assoluta è
già di per sé un gesto significativo».880
Nell’Iliade, come fa notare Bolens, il verbo (ejpi)/(ajpo)-gravfein, che in seguito
significherà anche «scrivere», «iscrivere», ricorre in contesti in cui si descrivono
ferite provocate da colpi inferti durante un combattimento. Lo si utilizza con i
significati di «incidere», graffiare», «scorticare».881 Esso denota, quindi un’azione
contraria alla vita. In Omero c’è un unico riferimento alla parola scritta; in quel
contesto, essa viene presentata come uno strumento di morte. La circostanza è la
seguente: Antea, moglie del re Preto, accusa ingiustamente presso il marito l’eroe
Bellerofonte di aver voluto sedurla. Per vendicare l’offesa, il re vuole uccidere
Bellerofonte; egli non può, tuttavia, farlo direttamente, in quanto l’eroe è suo ospite.
Lo invia allora presso suo suocero con una tavoletta sulla quale è scritta la sua
condanna:
«Lo inviava in Licia e gli affidò dei segni funesti [shvmata lugrav]: aveva inciso molti
segni di morte [qumofqovra] in una tavoletta ripiegata e gli ordinava di mostrarla a suo
suocero, con la mira che perisse».882
I segni mortiferi di cui parla Omero sono le lettere dell’alfabeto; si tratta di segni
fissi, rigidi, che ben si prestano a trasmettere un messaggio di morte. In determinate
circostanze, anche i geroglifici possono rappresentare un pericolo, tanto che in
ambito funerario alcuni segni indicanti esseri viventi vengono deliberatamente
lasciati mutili, affinché non rechino danno al defunto o non gli sottraggano delle
offerte.883 I segni della scrittura geroglifica, tuttavia, al contrario di quelli alfabetici
menzionati nell’Iliade, sono ricchi di vita, sono, cioè, degli enti in grado di
«muoversi» e di compiere delle azioni da soli, indipendentemente dal concorso di un
essere umano o di un dio. Alcuni geroglifici sono utilizzati, inoltre, per le loro virtù,
anche al di fuori della scrittura; essi possono essere, per esempio, degli efficaci
amuleti (si pensi, in proposito, all’occhio wDAt, ai segni anx e Dd, ecc.). Ne consegue, a
nostro avviso, che la tesi di Bolens è valida soltanto se le scritture prese in
considerazione sono quelle alfabetiche o, più in generale, aniconiche. Nel caso dei
880
W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, cit., p. 100.
881
Cfr. G. Bolens, La logique du corps articulaire, cit., p. 219.
882
Omero, Iliade, VI, 168-170. Abbiamo modificato leggermente la trad. di G. Tonna, rendendo l’espressione
shvmata lugrav con «segni funesti» (anziché «scritto funesto»).
883
Cfr. P. Lacau, Suppressions et modifications de signes dans les textes funéraires, in Zeitschrift für Ägyptische
Sprache und Altertumskunde, 51 (1913), pp. 1 sgg.
289
segni geroglifici, infatti, come abbiamo cercato di evidenziare, non si genera una reale
cesura tra oralità e scrittura. La «logica del corpo articolare» rimane, quindi,
confermata, poiché il sistema geroglifico riproduce il cosmo egiziano, che si configura
come una rete di enti in relazione tra loro e non come il semplice contenitore di una
sommatoria di elementi separati e immobili.
L’essere umano e la sua dimensione corporea manifestano la medesima struttura
costitutiva del cosmo. Le analisi condotte nei capitoli precedenti hanno mostrato che
le nozioni di «corpo articolare» e «corpo inviluppo» si rivelano degli strumenti
concettuali produttivi, dotati di una notevole forza euristica, anche nell’ambito delle
concezioni antropologiche egiziane. Applicate in questo contesto, tuttavia, esse non
denotano due approcci alla corporeità che si escludono a vicenda, bensì individuano
due aspetti essenziali e complementari di quell’«ente» che abbiamo denominato
«individuo articolare». Il corpo vivente è, in primo luogo, un sistema di elementi
caratterizzato da connettività e motricità, che ha capacità performative,884 in secondo
luogo un involucro che contiene e protegge degli organi. Analogamente, il sistema
geroglifico, nel quale si coniugano oralità e scrittura, manifesta primariamente un
aspetto «articolare» e attivo; esso genera, cioè, reti di relazioni, in grado di produrre
degli effetti concreti. Secondariamente, il medesimo sistema grafico funge da
involucro per preservare un contenuto da comunicare.
In virtù della coesistenza della dimensione orale e di quella della scrittura nel segno
geroglifico, la lingua egiziana e la grafia geroglifica formano un complesso unitario e
organico che, riproducendo l’ordine e la struttura essenziale del mondo e dell’uomo, è
in grado di parlare adeguatamente di questi soggetti e di intervenire attivamente nel
loro divenire.
La stretta correlazione tra lingua, scrittura e ordine cosmico emerge chiaramente, per
esempio, dall’utilizzo da parte degli Egiziani della «paronomasia», ossia dei giochi di
parole. Nelle culture occidentali, questo fenomeno linguistico istituisce una dialettica
tra suono e significato: i significati delle sequenze fonetiche identiche o simili sono in
corrispondenza tra loro. Il gioco di parole viene considerato, generalmente, una
figura letteraria, avente, per lo più, finalità estetiche. In Egitto, tuttavia, come ha
evidenziato Loprieno, la situazione è differente. Anzitutto viene coinvolta una terza
sfera oltre a quelle del suono e del significato, la sfera del grafema. Si crea, quindi,
884
Cfr. supra, pp. 196 sgg.
290
una convergenza tra suono, messaggio e segno geroglifico.885 La paronomasia non
costituisce, inoltre, un semplice artificio estetico, bensì un vero e proprio
procedimento epistemologico. In proposito, Loprieno afferma: «se nella cultura
occidentale la paronomasia è un fenomeno eminentemente estetico, cioè
autoreferenziale, nella cultura egiziana il gioco di parole rientra altrettanto bene
nella sfera epistemologica, ossia referenziale. La paronomasia egiziana informa
analogicamente sulla realtà. […] questa realtà non è veicolata unicamente dalle due
articolazioni del linguaggio, ossia l’articolazione semantica e quella fonologica, ma
anche dall’articolazione grafica. La concezione dell’etimologia sulla quale si fonda
questo procedimento analogico potrebbe essere definita non come nomen est omen,
ma piuttosto come littera est nomen est omen».886
Attraverso i giochi di parole gli Egiziani stabiliscono delle associazioni etimologiche,
dei legami semantici che esprimono la contiguità di enti apparentemente separati e
lontani tra loro. Non si tratta, infatti, di una figura retorica, ma di un metodo per
classificare gli elementi che popolano il cosmo e per costruire, così, una sorta di
«enciclopedia».
Un impiego frequente e particolarmente significativo della paronomasia lo troviamo
nell’ambito dei nomi propri, a partire dai Testi delle Piramidi. Nella fonetica e nella
grafia del nome proprio, oltre alla sua origine etimologica, vengono individuate tutte
le associazioni che definiscono la sua «sfera enciclopedica».887 Viene messa, cioè, in
luce la rete di relazioni che costituisce l’orizzonte dell’individuo in questione,
quell’insieme di rapporti che lo integra nel cosmo, conferendogli un posto e un ruolo
specifici. Questo procedimento emerge, oltre che nei testi religiosi, anche in opere
narrative come, per esempio, Le avventure di Sinuhe. Il nome Sinuhe (sA-nht)
significa «figlio del sicomoro», l’albero sacro alla dea Hathor. Il protagonista del
racconto riveste presso la corte la carica di «servitore dell’harem regale e della
principessa» (bAk n(y) jpAt nswt (j)r(y)t-pat).
La sfera denotata dal nome sA-nht
comprende i seguenti termini in rapporto tra loro: il personaggio Sinhue, il sicomoro,
la dea Hathor, le concubine dell’harem, la principessa ereditaria Neferu. Sinhue è,
quindi, per sua natura, in relazione con un elemento femminile, che può manifestarsi
come albero, dea, concubina reale o principessa.
885
Cfr. A. Loprieno, La pensée et l’écriture. Pour une analyse sémiotique de la culture égyptienne, Cybele, Paris
2001, p. 131.
886
Ibid., pp. 140 sg.
291
La paronomasia egiziana, in qualsiasi contesto venga utilizzata, «combina segni,
suoni e significati per interpretare l’universo».888 Si tratta di un universo «vivo»,
dinamico, che non può essere fissato in schemi rigidi. Di conseguenza, nella cultura
dell’antico Egitto non vengono istituite distinzioni nette tra ambiti differenti: tra la
dimensione linguistica e quella grafica, tra testi religiosi, scientifici e letterari, tra la
sfera epistemologica e quella estetica o artistica.
8. Il circuito della conoscenza e il «metodo osiriano»
Poiché l’uomo e il cosmo egiziani sono sempre in movimento, in azione e assumono
configurazioni differenti in relazione alle singole situazioni concrete (per esempio,
alle medesime divinità non corrispondono sempre gli stessi attributi, alle parti del
corpo non sono associate sempre le stesse divinità, ecc.), anche il processo
conoscitivo segue la medesima impostazione, non riducendosi mai a un’esperienza
puramente contemplativa o ricettiva. La conoscenza implica un’azione, un intervento
nell’ordine del mondo. Il termine egiziano classico che denota l’atto conoscitivo e la
conoscenza è il seguente:
rekh
(rx). Utilizzato come verbo, rekh si trova in genere nella
forma compiuta; l’Egiziano, cioè, non dice, «io conosco», «io so», ma «io ho
conociuto», «io ho saputo» (jw=j rx=kw). Secondo Donadoni, il «sapere» espresso da
questo verbo è statico, «in confronto dell’attivo e assimilatore “sapere” della cultura
tarda».889 Il termine di paragone al quale fa riferimento lo studioso è il verbo am
(am), utilizzato in epoca più recente per denotare l’atto del conoscere e che
originariamente significava «ingoiare». A nostro avviso, tuttavia, la forma compiuta
che caratterizza l’utilizzo del verbo rekh è un’indicazione dell’aspetto performativo
della conoscenza. Lo stesso Donadoni, del resto, fa notare che, quando è entrato
nell’uso il secondo verbo, rekh «ha assunto il valore di “saper fare”, fino all’esito
copto che vuol dire “potere”».890
887
Cfr. Ibid., pp. 142 sgg.
888
Ibid., p. 157.
889
S. Donadoni, I modi egiziani del conoscere, cit., p. 139.
890
Ibid.
292
Una «teoria della conoscenza» formulata in modo esplicito è contenuta nel Testo di
teologia menfita, dove leggiamo:
«Gli occhi vedono, le orecchie odono, il naso respira: essi informano il cuore [jb]: è lui
che permette ogni conoscenza [arqyt], ed è la lingua [ns] che ripete ciò che il cuore
[HAty] ha pensato. Così nacquero tutti gli dei e fu completata l’Enneade. Ogni parola
del dio si manifestò secondo ciò che il cuore [HAty] aveva pensato e che la lingua aveva
ordinato. […] Così è stato creato ogni lavoro ed ogni arte, l’attività delle mani, il
camminare dei piedi, il moto di tutte le membra, secondo il comando pensato dal
cuore [jb] ed espresso dalla lingua, e che viene compiuto in ogni cosa».891
Secondo quanto afferma il passo, immagini, suoni e odori, attraverso gli organi di
senso, vengono convogliati al cuore, dove sono elaborati; il risultato di questa
elaborazione è indicato con il termine
arqyt
(arqyt).892 La radice arq (arq) da un lato
contiene l’idea di un processo che è stato completato, dall’altro esprime l’intelligenza,
la capacità di comprendere. Troviamo, infatti, un verbo arq che significa
«terminare», «completare» e un altro verbo omonimo che viene tradotto con «essere
intelligente», «capire», «conoscere».893 All’interno del cuore viene riorganizzato e
riconfigurato il mondo che ci circonda. L’arqyt viene successivamente veicolata dalla
lingua, che la traduce in parola performativa.
Un primo rilievo è questo: l’elaborazione della conoscenza necessita il contatto
diretto con il mondo esterno; la speculazione fondata esclusivamente su elementi
interni o innati non coglie, quindi, l’essenza del cosmo. Ciò potrebbe far pensare a
una sorta di empirismo. E’, tuttavia, necessario approfondire ulteriormente la
questione. Il processo conoscitivo che permette all’uomo di conoscere il mondo e di
intervenire in esso riproduce il meccanismo fisiologico che apporta vita e
sostentamento al corpo umano. Come abbiamo riscontrato precedentemente, infatti,
per gli Egiziani, ciò che entra dall’esterno nel corpo, dirigendosi verso il cuore, non è
costituito soltanto da una serie di percezioni o elementi «sensibili». Al cuore vengono
convogliate soprattutto le correnti dinamiche di origine «divina», quindi
«soprasensibile», che rappresentano una linfa vitale per il corpo umano. Queste
891
Testo di teologia menfita, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 18.
892
Il Wörterbuch (I, p. 212) e Hannig (Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 163) traducono arqyt
con Entschluss, cioè «decisione», «risoluzione».
293
correnti vengono poi ridistribuite dall’organo cardiaco, attraverso i condotti-met, ad
ogni
parte
corporea.
Analogamente,
la
conoscenza
è
il
risultato
finale
dell’elaborazione di una serie di stimoli esterni di varia natura; dal cuore essa viene
veicolata all’esterno grazie all’intermediazione della lingua che la rende «parola».
In secondo luogo, osserviamo che la parola produce un «movimento» nell’ambiente
circostante; similmente, l’azione dei soffi vitali è quella di animare, di mettere in
movimento le membra corporee.
Nella genesi della conoscenza ritroviamo i meccanismi che determinano il
funzionamento del «corpo articolare». In entrambi i contesti l’elemento centrale è
rappresentato dal cuore, dal binomio ib-haty, che in un caso indirizza ciò che risulta
dall’elaborazione delle correnti dinamiche verso il mondo esterno, nell’altro verso
quello interno. La sfera cardiaca funge, dunque, da trait d’union non soltanto tra il
corpo articolare e il corpo inviluppo, come abbiamo mostrato, ma anche tra il
macrocosmo in generale e il microcosmo umano nel suo complesso. Il corpo
articolare è una rete di relazioni; allo stesso modo la conoscenza riproduce la rete di
rapporti che costituisce il mondo.
Poiché la conoscenza condivide la natura del mondo che esprime, essa non ha un
ruolo semplicemente descrittivo, ma è in grado di intervenire in modo significativo
nell’ordine cosmico. L’azione esercitata dal cuore e dalla lingua e il potere che essi
hanno su tutte le altre membra sono comuni a tutti gli esseri viventi, dal momento
che «l’uno (= il cuore) è in ogni corpo, e l’altro (= la lingua) è in ogni bocca, di tutti gli
dei, di tutti gli uomini, di tutti gli animali, di tutti i rettili, di tutto ciò che vive».894
Secondo il Testo di teologia menfita, quindi, dei, uomini e animali sembrano
condividere una natura e un approccio al mondo simili, anche se, chiaramente, la loro
conoscenza del mondo e le loro capacità operative risultano qualitativamente
differenti.
Due concetti importanti che nella cultura egiziana sono associati al processo
conoscitivo sono quelli espressi dai termini
sia
(siA) e hu
(Hw).
Il primo termine, che ricorre come verbo e come sostantivo, indica l’atto del
conoscere o del riconoscere qualcosa; esso denota altresì la «percezione». Il secondo
893
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch Ägyptisch-Deutsch, cit., p. 163.
294
è un sostantivo che significa «ordine», «comando», ma che indica anche il potere
creatore del verbo proferito dal dio demiurgo.895
Un contesto significativo in cui ricorrono entrambi i termini è rappresentato dalla
formula 321 dei Testi dei Sarcofagi, già menzionata, che riporta una variante della
teologia di Eliopoli secondo la quale il demiurgo Atum avrebbe posto in essere il
mondo mediante la sua parola. Sia e Hu compaiono nelle vesti di due divinità.
Secondo la lettura di questa formula proposta da Bardinet, questi due dei
rappresenterebbero i due estremi di un cammino obbligato, di un circuito (pXrt) che
la parola deve seguire prima di essere emessa dalla bocca.896 Colui che presiede
questa via è il dio Hapy. Anche in questo caso, come nel Testo di teologia menfita, il
percorso ha inizio nel cuore (jb) e termina nella bocca. Il luogo anatomico del dio Sia
è il cuore; egli governa l’intelligenza e la conoscenza, che proprio nell’organo cardiaco
hanno la loro sede. Il dio Hu risiede, invece, nella bocca e interviene nell’articolazione
finale del verbo. Quest’ultimo da un lato traduce il contenuto del pensiero che dimora
nel cuore, dall’altro ha in sé un potere di azione. La valenza performativa della parola
è massima nel demiurgo, inferiore negli altri dei e negli uomini.
Riproducendo l’andamento del mondo, il pensiero egiziano non si cristallizza mai in
concetti chiusi. Ogni concetto, pur conservando una propria identità, si riconfigura in
base ai contesti e alle circostanze del momento. Questo aspetto si manifesta anche
nell’ambito dell’etica. Il furto, per esempio, può assumere una connotazione
differente, a seconda che venga compiuto da qualcuno che ha di che vivere o da
qualcuno che non possiede nulla. L’oasita derubato dei propri beni, protagonista del
celebre racconto, chiedendo giustizia al soprintendente Rensi, afferma:
«Se il furto è tollerabile da parte chi non possiede nulla, la cattiva azione di chi non è
privo di niente è un furto da criminale».897
Benché in perpetuo divenire e non rappresentabile in modo univoco, tuttavia, il
sistema del mondo, così come la «costellazione» umana, manifesta una coerenza
interna. Si tratta, infatti, di una rete di relazioni e di analogie che si ristruttura, si
trasforma (xpr), mantenendo inalterati i rapporti proporzionali. La configurazione di
894
Testo di teologia menfita, trad. it. di E. Bresciani, in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, cit., p. 17.
895
Cfr. R. Hannig, Grosses Handwörterbuch, Ägyptisch-Deutsch, cit., pp. 546 e 719.
896
Cfr. T. Bardinet, Dents et mâchoires dans les représentations religieuses et la pratique médicale de l’Égypte
ancienne, cit., pp. 140 sgg.
897
L’Oasita eloquente, B1, 153-154, la trad. segue quella francese di P. Grandet, in Id. (a cura di), Contes de
l’Égypte ancienne, cit., p. 51. In proposito, cfr. anche S. Donadoni, I modi egiziani del conoscere, cit., pp. 144 sg.
295
elementi è «locale», l’ordine espresso dai rapporti tra gli elementi è universale, è la
legge di Maat. La «scienza», come orizzonte operativo e di pensiero, frutto di un
approccio conoscitivo alla realtà, è, nello stesso tempo, espressione e attivazione del
sistema del mondo.
A nostro avviso, il mito di Osiri, che costituisce un modello per le concezioni
antropologiche egiziane, si rivela esplicativo e chiarificatore dello «spirito» egiziano
anche su un piano più propriamente epistemologico. Relativamente all’approccio al
mondo dell’uomo egiziano, potremmo parlare di «metodo osiriano». Per certi versi,
infatti, la realtà si presenta all’uomo come il corpo di Osiri: una serie di frammenti
sparsi da recuperare e riassemblare. Ciò che determina l’esito finale di questo
riassemblamento è la situazione attuale, concreta. Non a caso, del mito di Osiri non
troviamo traccia di un resoconto unitario e completo nelle fonti dell’Egitto faraonico.
Il mito è raccontato in maniera frammentaria; esso va ricostruito cercando e
mettendo insieme i vari pezzi e distinguendone le varianti. Allo stesso modo, la
«scienza» è il risultato della ricerca, della composizione e dell’articolazione di un
insieme di pezzi sparsi. Essa non è «dogmatica», in quanto non è concepibile una
versione univoca dei fatti. Ad ogni atto conoscitivo corrisponde una riorganizzazione
di elementi, più o meno significativa, nella rete di rapporti costitutiva del mondo; si
tratta, cioè, di un intervento nell’ordine cosmico.
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