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Diritto Delle Prove Penali
Diritto delle Prove Penali ed Epistemologia delle Neuroscienze Forensi (Università degli
Studi di Torino)
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LA PROVA NEL PROCESSO PENALE (Ferrua)
CAP.1 PROVA E MODELLI DI PROCESSO
Quando parliamo di prova ne possiamo parlare in due sensi:
– senso ampio: attività volta a provare. Si compone di 3 elementi STRUTTURA TRIADICA
DELLA PROVA.
– Premesse Probatorie: incontriamo il significato ristretto di prova. Possono infatti essere
chiamate semplicemente prove. Le prove sono quindi il punto di partenza di un
percorso che porterà a una conclusione. Possiamo anche chiamarle Proposizioni
probatorie.
– Proposizione da Provare: è la conclusione a cui arriviamo dalle premesse probatorie. È
ciò che va provato, e a seconda dei casi sarà provato o non provato.
N.B. Si parla di Proposizioni e non di fatti o cose! Una premessa probatoria è una testimonianza,
una traccia del reato, tutto raffigurato attraverso il linguaggio. La realtà accede al processo
attraverso il linguaggio che la descrive.
– Oltre ogni ragionevole dubbio: Il criterio che ci consente un salto, il meccanismo che ci
consente, partendo dalle premesse, di giungere a ritenere provata questa proposizione.
È sempre esposto alla possibilità dell'errore, è un salto fallibile. Una proposizione può
essere provata in due modi: in termini deduttivi e in termini abduttivi. Abbiamo il
meccanismo deduttivo nelle scienze formali (matemtica), dove la conclusione
(proposizione da provare) è gia contenuta nelle premesse, si tratta solo di sviluppare in
termini logici certi assiomi. La conclusione del metodo deduttivo è indubitabile. Le
scienze umane (metodo abduttivo) non prevedono una conclusione interamente
contenuta nella premessa. Le premesse descrivono cose diverse dalla conclusione. Il
salto dalla premessa alla conclusione è rischioso, la conclusione non è indubitabile. Se
la premessa è vera, non è detto che sia vera la conclusione ( a differenza del metodo
deduttivo). Nel settore deduttivo le premesse determinano la conclusione (la
provocano, la costringono). Prova oltre ogni dubbio. Nel settore abduttivo le premesse
sottodeterminano la conclusione (la conclusione è qualcosa di irraggiungibile). In
termine giuridico penale si usa il concetto di prova ogni oltre ragionevole dubbio.
L'arricchimento di conoscenza che ho nel settore induttivo/abduttivo lo pago con
l'incertezza.
n.b. Ripasso di concetti fondamentali ai fini della prova:
•
Fattispecie: requisiti sufficienti e necessari perchè un atto produca i suoi effetti tipici e
possa dirsi valido. L'assenza di uno dei requisiti determina la nullità dell'atto. La legge
stabilisce che l'inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti è causa di nullità solo nei
casi previsti dalla legge, quindi non per tutti i requisiti l'assenza pregiudica la validità.
•
Situazioni Soggettive: implicano un rapporto che si istituisce tra un soggetto del processo e
una data condotta. Questa condotta può essere attribuita a titolo di:
◦ potere: l'ordinamento si impegna ad attribuire alla condotta gli effetti o l'esito a cui è
preordinata. (es. al pm spetta il potere di impugnare la sentenza). Esercitare il potere
genera effetti giuridici che consistono in una nuova situazione soggettiva di
potere/dovere. In assenza di potere la condotta è inidonea a produrre gli effetti
desiderati
◦ dovere: il soggetto deve tenere un determinato comportamento imposto dalla norma.
Non bisogna confondere la norma che conferisce potere con quelle che sono costitutive
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di doveri. (es. sentenza emessa da giudice incompetente: egli ha esercitato un potere,
pur avendo violato un dovere).
◦ Facoltà: è la negazione del dovere. Una condotta è facoltativa dove non vi sono obblighi
o doveri. Sono tipiche più che altro dei privati.
◦ Onere: condotta dalla quale dipende effetto favorevole per una parte processuale. Si
dice perfetto quando l'esito favorevole può derivare solo dalla condotta dell'interessato
(danneggiato che vuole risarcimento in sede penale ha onere di costituirsi parte civile).
È imperfetto quando può realizzarsi anche altrimenti (onere della prova: le prove di
colpevolezza non prodotte dal pm possono essere assunte dall'ufficio del giudice).
Nel processo penale la proposizione principale da provare è la colpevolezza dell'imputato. Ma nel
corso del processo possono formare oggetto di prova altre proposizioni dette incidentali. Attuando
il diritto penale sostanziale, il processo deve accertare se l'imputato sia colpevole: quindi se la
condanna richiede prova della colpevolezza, l'assoluzione non richiede prova dell'innocenza, ma è
questa consequenziale alla assenza di prove di colpevolezza. L'onere della prova grava sull'accusa
che deve dimostrare che la condotta dell'imputato integra tutti gli elementi della fattispecie
penale. Essendo gli esiti delle prove assunte nel processo variabili, l'assoluzione può dipendere da
3 situazioni distinte che possiamo individuare nelle motivazioni della sentenza:
– mancanza di qualsiasi prova a carico
– insufficienza delle prove a carico
– presenza di prove da cui risulti l'innocenza
Nella sentenza che accerta o nega la colpevolezza individuiamo due componenti: una
cognitiva/conoscitiva, l'altra autoritativa. La parte conoscitiva è fondata sul sapere e traspare dalla
motivazione del giudice che, in modo argomentativo, sulla base delle prove raccolte riconosce o no
l'imputato come colpevole. La componente autoritativa, fondata sul potere, emerge dal
dispositivo, ossia l'atto con cui il giudice dichiara l'imputato colpevole o lo assolve, con l'effetto
giuridico di imporre all'imputato una qualifica. Il processo penale si conclude con l'emissione di
una sentenza: "Io ti dichiaro colpevole". Questa formula è per metà frutto di un sapere, e per metà
l'esercizio di un potere. Da un punto di vista ideale ci dovrebbe essere il massimo del sapere del
giudice, delle conoscenze che ha ottenuto. Se fosse tutto sapere però il sapere può sempre essere
contestato (come la scienza, sempre aperta alla discussione). Ti dichiaro colpevole è quindi:
– in base alle prove ho accertato la tua colpevolezza (sapere) (dalla realtà verso il giudice)
– io ti impongo la colpevolezza (potere) (dal giudice verso la realtà).
Questa distinzione tra sapere e potere si correla la distinzione tra regole costitutive (che
determinano il potere, perchè creano la possibilità del comportamento che regolano. Come l'atto
con cui si condanna) e regole regolative (con cui si disciplina un comportamento tipico dell'attività
conoscitiva, che potrebbe sussistere anche in assenza di esse come interrogare i testimoni).
Giudicato Penale: la sentenza a un certo punto diventa inconfutabile, quindi genera una
modificazione della realtà, si determina una realtà virtuale ("La sentenza trasforma il bianco in
nero").
I MODELLI DI PROCESSO
Se sapere e potere sono strutturalmente congeniti al processo, l'ampiezza dell'uno o dell'altro può
essere più o meno sviluppata. L'ideale sarebbe che la componente cognitiva fosse sviluppata al
massimo, e che fosse compatibile con le esigenze della durata del processo che sottendono
esigenze di esercizio del potere punitivo. Un processo risulta cognitivo a tre condizioni:
– Completezza dell'accertamento: indagine a tutto campo, con tutte le parti che hanno diritto
di produrre ogni prova non irrilevante
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Giudice terzo e imparziale: la sentenza deve essere pronunciata da un giudice libero da
legami con le parti o da pregiudizi sul tema probatorio.
– Colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio: che è uno standard che presenta una
componente di indeterminatezza, ma che è il limite necessario sotto il quale si va verso esiti
anticognitivi.
Nel modello cognitivo possiamo distinguere a seconda del metodo con cui si forma il sapere. Da un
certo punto di vista anche il processo inquisitorio in cui le prove si raccolgono in segreto potrebbe
dirsi a modo suo cognitivo. In realtà non essendo sottoposto al vaglio della critica è esposto al
rischio di errore. Inoltre è un modello che appartiene ormai alla storia.
Negli ordinamenti moderni il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti con l'esame dei
testimoni nel dibattimento pubblico. Distinguiamo così due tipi di processo:
1. ACCUSATORIO: La cifra del processo accusatorio consiste nel contraddittorio. Rispetto al
misto la differenza consiste in un particolare tipo di prova: la prova dichiarativa. Se io penso
a prove reali (oggetti), accusatorio e inquisitorio non si differenziano molto, perchè in
entrambi i processi si farà vedere all'imputato l'oggetto in questione. Le prove vengono
mostrate. La differenza sta nella prova dichiarativa, testimoniale. Nel processo accusatorio
la prova è rappresentata da ciò che i testimoni dicono nella sede dove c'è presente giudice,
e le due parti. È prova solo ciò che si forma nel dibattimento, e la prova testimoniale sarà
formata attraverso le domande che le parti rivolgono al testimone: contraddittorio per la
prova, contraddittorio nella formazione della prova. Accusa e difesa possono parlare con il
testimone anche "privatamente", ma la prova è solo ciò che viene formata nel
contraddittorio. Se il testimone ha dato una versione diversa in contraddittorio rispetto a
quella data privatamente il giudice potrà credergli o meno, ma non potrà usare la
dichiarazione fornita al di fuori del contraddittorio.
2. MISTO: il testimone è interrogato prima da un giudice, il giudice istruttore, è quello che
dice è una prova. Quel testimone però comparirà nel dibattimento, e lì potrà accadere che
al giudice abbia detto una cosa diversa da ciò che dice nel dibattimento. In questo caso il
giudice può sia credere alla nuova versione, che dubitarne, che attenersi e considerare
prova la versione non formata nel contraddittorio. È considerata prova anche ciò che non è
formata nel contraddittorio. Non è più contraddittorio per la prova ma contraddittorio sulla
prova. Di solito il giudice tende più a credere alla prima versione, perchè più vicina alla
commissione dell'atto. Di solito il testimone però tende a confermare ciò che ha detto nella
prima versione.
3. GIUSTIZIA NEGOZIATA: un processo in cui si giunge alla sentenza attraverso l'accordo delle
parti, reciproche concessioni, una negoziazione. Esempio tipico è il patteggiamento, che ha
origine nell'ordinamento angloamericano. Lì si usa chiedere all'imputato prima del
dibattimento se si dichiara o no colpevole, e se si dichiara colpevole non ha molto senso
proseguire nel processo, ma può accordarsi con l'accusa per avere un vantaggio. In Italia
non è possibile contrattare sul tipo di reato attribuito (da furto ad appropriazione indebita)
ma è possibile avere uno sconto di pena. L'imputato riceve uno sconto di pena, ma rinuncia
all'accertamento della pena oltre ogni ragionevole dubbio. Non rinuncia solo al
contraddittorio, rinuncia all'accertamento della colpevolezza.
E' stato elaborato un nuovo paradigma che ha cercato di unire il paradigma accusatorio e
inquisitorio, inventando una nuova antitesi. Damasca ha pensato di dividere l'universo dei processi
in due grandi gruppi:
– il processo che ha come scopo l'attuazione del diritto sostanziale (previsto dal codice
penale), ossia il processo di attuazione di scelte politiche (perché è lo stato che stabilisce
cosa punire e cosa no, quali sono i reati e quali no).
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Il processo che vuole risolvere un conflitto tra le parti (parallelismo con il processo
accusatorio e anche con la giustizia negoziata).
Obiezioni da parte di Ferrua: risolvere il conflitto può essere lo strumento attraverso il quale
accertare la verità, che è l'obiettivo ultimo del processo. Dire che il processo che risolve il conflitto
tra le parti non si debba occupare di accertare la verità è un'iperbole ed è un contrasto col senso
stesso del processo. Tutti i processi hanno lo scopo di accertare la verità, ciò che li distingue non è
lo scopo ma il metodo. Inoltre Ferrua sottolinea che tutti i processi hanno lo scopo di attuare il
diritto penale sostanziale, non solo un tipo particolare di processo. Contrapponendo questi due
processi è come se avesse contrapposto la frutta alle mele (xD). I processi possono attuare il diritto
penale sostanziale in due forme molto diverse, ovviamente: attraverso un metodo dialettico
(accusatorio), o attraverso una ricerca solitaria della verità con magari anche molte forzature
(inquisitorio). Due metodi ma un solo fine. Damasca dice “nel processo come attuazione del diritto
penale sostanziale, se una dichiarazione è stata estorta questa comunque sarà sempre utilizzabile”.
Quindi Damasca di fatto conferma di avere un pregiudizio, ossia che per accertare la verità si può
utilizzare anche la violenza, e anzi talvolta è essa necessaria. Se noi dobbiamo rinunciare all'ideale
di verità solo perché nella storia se ne è fatto un cattivo uso, allora cadiamo in errore. Molti
preferiscono il processo come soluzione di conflitto perché in sostanza lì almeno non si tortura. Se
io voglio cercare la verità va a finire che arriverò alla tortura (anche questa è un'iperbole). Ma non
posso pensare a un processo che non ricerca la verità?! Se noi seguiamo questo paradigma,
regaliamo al processo inquisitorio la paternità della verità. Questo fa sì che l'opinione pubblica,
dinnanzi a un evento che la sconvolge, vuole sapere chi è il colpevole, non le interessa che venga
risolto il conflitto. Vuole la verità. E questo è pericoloso perché finirebbe per essere chiesto a gran
voce un processo inquisitorio.
Il processo non scopre niente, perché non c'è nulla da scoprire. C'è solo la riproduzione di un
passato, una ricostruzione. Nel processo non c'è scoperta, c'è ricostruzione. il processo parte dai
fatti del presente e ricostruisce il passato, ma è un passato che non c'è più. I nemici
dell'accertamento della verità partono da questo pregiudizio, ossia che il processo debba trovare,
scoprire qualcosa. E quindi ci dovremmo servire del processo inquisitorio. Ma dato che a costoro
non piacciono le materie forti, allora si passa al processo come risoluzione del conflitto.
Popper faceva un parallelismo tra alpinisti che brancolano nella nebbia e a tentoni trovano la vetta
e il processo. Ma il processo non trova mai la vetta, perché la vetta non c'è più, è nel passato.
Popper avrebbe avuto ragione se avesse detto che gli alpinisti ricostruiscono, attraverso le varie
pietre, dove una volta c'era la vetta che adesso non c'è più. Ricostruire, questo fa il processo,
ricostruisce il passato. Il giudice deve andare a ritroso, noi conosciamo gli effetti e dobbiamo
trovare le cause. Le cause determinano gli effetti, ma gli effetti sottodeterminano le cause. Ma ad
un effetto possono essere correlate molte cause. Risalire dagli effetti alle cause è pericoloso, è
molto elevato il rischio di fallimento. Il processo penale non segue quindi il metodo induttivo e
nemmeno quello deduttivo, perché il giudice non vuole fare generalizzazioni dal particolare. Passa
non da particolare a generale, ma da fatti particolari ad altri fatti particolari = metodo abduttivo
(un sacchetto di fagioli bianchi sul tavolo e dei fagioli bianchi sparsi sul tavolo. Ricostruisco che
probabilmente i fagioli erano nel passato contenuti nel sacchetto. Ricostruisco, ma non è detto).
Cosa intendiamo nel processo penale per decisione giusta? Rawl ha ideato una tripartizione della
giustizia procedurale:
– giustizia procedurale pura: non esiste un criterio di giustizia diverso dall'osservanza delle
regole. Un risultato è buono e giusto se e solo se si sono osservate le regole. Non posso
cercare altri criteri esterni. Esempio: tutti i giochi e le scommesse. I sostenitori del processo
come gestione del conflitto ritengono che il processo sia una forma di giustizia pura. Perché
le regole sono state rispettate, il gioco è andato bene, quindi poco importa che tu sia o no
colpevole o innocente perché tutto si è svolto secondo le regole e secondo alcun criterio
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esterno. La sentenza è giusta perché si sono osservate le regole, che tu sia innocente e per
il processo risulti colpevole non interessa in quanto si sono rispettate le regole per cui il
processo è giusto, non c'è lo scopo di accertamento della verità.
giustizia procedurale perfetta: c'è un criterio esterno all'osservanza delle regole, in base al
quale io giudico o no corretto un risultato. Le regole garantiscono che si raggiunga quel fine
esterno. Esempio: la torta divisa tra diverse persone. Quando è giusta la divisione della
torta? Quando a ciascuno spetta una parte uguale. Come garantisco? Chi la divide prende
l'ultima fetta, così chi la divide non può fare parti disuguali perché è l'ultimo a prendere il
pezzo e non ha interesse a fare parti disuguali.
giustizia procedurale imperfetta: c'è un criterio esterno all'osservanza delle regole, in base
al quale io giudico o no corretto un risultato. Le regole non garantiscono che si raggiunga il
fine esterno. Un esempio è il processo penale. Il fine del processo penale è condannare i
colpevoli e assolvere gli innocenti. Se io ho condannato un innocente il risultato non è
giusto, ma non è garantito che anche se vengono osservate tutte le regole si riesca a
condannare il colpevole e assolvere l'innocente. Io posso avere processo giusto (dal punto
di vista delle regole) ma decisione ingiusta.
CAP.2 GIUDIZIO DI FATTO E GIUDIZIO DI DIRITTO
L'art. 187 cpp individua come oggetto di prova tre ordini di fatti:
– i fatti che si riferiscono all'imputazione, alla punibilità e alla misura della pena: ossia il tema
principale del processo in merito alla colpevolezza
– i fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali. Sono i fatti che assumono
rilievo durante il processo, come le modalità di acquisizione di testimonianza,
l'impedimento a comparire dell'imputato.
– I fatti inerenti la responsabilità civile derivante dal reato, quando vi è parte civile.
Ponendo come oggetto di prova i fatti sembra che escludiamo dall'ambito della prova il giudizio di
diritto, il valore giuridico attraverso cui si verifica se il fatto attribuito all'imputato sia o no una
fattispecie penale.
La colpevolezza implica la formulazione di due giudizi positivi: il giudizio storico relativo alla
commissione del fatto da parte dell'imputato, e il giudizio di valore giuridico relativo alla
circostanza che il fatto sia previsto dalla legge come reato.
Questo rapporto tra giudizio storico e valore giuridico ripercorre una distinzione tra due tipi di
discorso:
– il discorso referenziale: enuncia il tema storico, fa riferimento al mondo esterno e descrive
ciò che si assume sia accaduto. È in gioco il rapporto di corrispondenza tra la lingua e il
mondo, ossia tra il fatto e come viene raccontato. Ma non essendo possibile osservare il
fatto direttamente in quanto appartiene al passato, il giudizio sul tema storico si svolge
confrontando la proposizione da provare con le altre proposizioni (prove).
– il discorso legislativo: definito dalla fattispecie penale, ossia dagli enunciati con cui si
riconduce il fatto descritto dal discorso referenziale alla fattispecie penale. La
corrispondenza intercorre tra le due entità linguistiche referenziale e legislativo. Il giudizio è
positivo se l'enunciato referenziale risulta traducibile in quello legislativo, se il fatto
(referenziale) sia descrivibile in lingua giuridica.
Con l'atto di accusa si individua il fatto come spartiacque tra il giudizio storico che lo prova e il
giudizio di diritto che lo qualifica.
1) GIUDIZIO DI VALORE GIURIDICO (di diritto): nel giudizio di valore dovrebbero intervenire
solo questioni di competenza semantica, di significato, nulla rispetto al piano empirico che
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riguarda invece il giudizio storico. In effetti nel qualificare penalmente il fatto, il giudice non
dice nulla sul mondo, si limita a istituire o negare equivalenza tra enunciati. C'è qui un atto
imperativo con cui il giudice chiama (o meno) questo fatto reato: ma si fonda su aspetto
predicativo, sorretto da argomenti per cui quel fatto è o non è reato. Questa ricerca di
significato è al riparto dalle interferenze empiriche? Ovviamente no, è impossibile separare
la componente linguistica da quella fattuale. La distinzione tra fatto e diritto è
fondamentale sul piano operativo, ma pensare di separare i due elementi in realtà è
pressoché impossibile. quanto più è indeterminata la fattispecie legislativa, tanto più fatto e
diritto tendono a confondersi in un continuum che rende problematico il contraddittorio. Il
rischio di ragionamento induttivo è elevato. A garantire il carattere cognitivo del giudizio di
diritto è la struttura delle fattispecie incriminartici nel codice penale. Quando la
formulazione della fattispecie è definibile in base a paradigmi etici o morali è più probabile
che la colpevolezza dipenda più dai fatti che dalle norme. È l'interpretazione della legge
(ossia quello in cui consiste il giudizio di diritto) un'attività di tipo conoscitivo? La teoria
cognitiva dell'interpretazione sostiene che interpretare sia un'attività di tipo conoscitivo.
Essendo le norme delle disposizioni (enunciati in lingua) suscettibili di interpretazioni, e non
ammettendo una e una sola interpretazione vera, l'interpretazione è attività valutativa e
decisoria. Se cognitivo significa solo quanto può essere inconfutabilmente dimostrato in
realtà non rientrerebbero nel paradigma cognitivo né il giudizio di fatto né di diritto. Non
avendo la natura cognitiva del giudizio storico la pretesa di costruire la realtà come è in sé e
indica solo una giustificazione razionale e coerente con le prove, non c'è motivo di ritenere
anticognitivo il giudizio di diritto.
2) GIUDIZIO STORICO: dichiara vero o falso l'enunciato del discorso referenziale contenuto
nell'atto di imputazione, ossia quello che descrive il fatto che si assume sia avvenuto. È
falso quando non è accertato come vero. Quindi occorre mantenere distinto significato di
verità dai criteri o metodi di accertamento della verità. Il significato di verità dato dalla
teoria aristotelica prevede che un enunciato sia vero se e solo se corrisponde alla realtà. È
una teoria non epistemica, perchè è indipendente dal metodo di accertamento della prova.
Il problema sta nel significato di corrispondenza tra enunciato e fatti: come può il linguaggio
unidimensionale corrispondere al reale multidimensionale. Tarski ha proposto la teoria dei
bi-condizionali dove al lato sinistro tra virgolette figura l'enunciato affermato come vero, e
al lato destro lo stesso enunciato tradotto in metalinguaggio: “La neve è bianca” è vero se e
solo se la neve è bianca. Se attribuisco valore di verità a “La neve è bianca” cancello le
virgolette di citazione. Per questo viene detta teoria del devirgolettamento”. Pregio delle
due teorie è mettere in luce come l'essere vero di un enunciato possa consistere solo in una
relazione fra enunciato e il suo oggetto. Queste due teorie utili a definire il concetto di vero
però non forniscono indicazioni sul metodo per accertare il vero. Se il significato di vero sta
nella corrispondenza ai fatti, il metodo della verifica sta nella congruenza tra proposizione
da provare e premesse probatorie. Essendo impossibile la linea referenziale che congiunge
l'enunciato dell'accusa alla realtà del passato, la verifica fattuale si svolge in linea
epistemica inferenziale. Passi del giudizio storico:
•
reale presente
•
enunciati probatori: hanno carattere referenziale perchè relativi al mondo esterno.
Questi però registrano il reale presente, in base a esperienza diretta di cui loro sono
effetto (dalla realtà al giudice
•
enunciato da provare: determina il reale che è passato, derivandolo dagli enunciati
probatori in una sorta di profezia retrospettiva (dal giudice verso il mondo)
•
reale passato
Tanto sul tema storico che sul giuridico la verifica si svolge nel confronto tra le premesse probatorie
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e la proposizione espressa dalla fattispecie penale. Nel giudizio di diritto il rapporto è di
equivalenza semantica, in quello storico è di carattere empirico.
CAP. 3: LA STRUTTURA TRIADICA DELLA PROVA
L'operazione probatoria si svolge sul registro di tre termini: le premesse probatorie (o prove), la
proposizione da provare (o tema probatorio) e l'atto del provare. LA prova è tale in ordine di una
proposizione da provare.
REGOLE DI ESCLUSIONE E CRITERI DI VALUTAZIONE
•
Le Regole di Esclusione probatoria sono ora espresse nella forma di divieto di ammissione
o di utilizzazione. Operano in momento antecedente alla valutazione, perchè negano alla
radice l'idoneità o meno di un dato a fungere da premessa probatoria. La prova acquisita
violando regole di esclusione è giuridicamente inesistente. Le regole di esclusione possono
essere:
◦ assolute: come per scritti anonimi, dichiarazioni estorte
◦ relative: operano solo in rapporto a una proposizione da provare o verso certi imputati
•
i Criteri di Valutazione implicano prove validamente costituite e riguardano il passaggio da
queste alla proposizione da provare. Se supera le regole di esclusione è prova, ma è
inidonea a provare in forza dei criteri di valutazione. Un conto è che un dato venga sottratto
a priori, un altro è che per effetto dei criteri legali il valore di una prova si riduca. È la
differenza tra negazione passiva e negazione attiva.
NEGAZIONE PASSIVA E ATTIVA
La distinzione tra negazione passiva (non valutare che), e attiva (valutare che non), viene
trascurata. La non considerazione di colpevolezza viene speso convertita nella presunzione di
innocenza o presunzione di non colpevolezza. In realtà l'equiparazione tra le due formule è un
errore logico. La Costituzione dice che l'imputato non è considerato colpevole, dove il non è riferito
al verbo e non al sostantivo colpevole. Quindi non impone di presumere innocenza. C'è differenza
tra dire che l'imputato “ è considerato non colpevole” (si predica un giudizio di non colpevolezza,
uguale a quello di innocenza, come da Convenzione europea). Se dico che l'imputato “non è
considerato colpevole” invece si predica l'astensione dal giudizio di colpevolezza. Dobbiamo
considerarle valide entrambe ma in momenti diversi: PRIMA della condanna è più sensato
utilizzare il non colpevole come da Convenzione europea, perché vige il principio di presunzione
d'innocenza. DOPO la condanna (o assoluzione) è meglio utilizzare la dicitura della Costituzione, in
quanto apre alla non presunzione di colpevolezza anche se è stata già espressa valida sentenza,
poiché apre alle impugnazioni successive.
L'ESPRESSIONE SI CONSIDERA...
L'espressione si considera o formule analoghe, possono intendersi nel linguaggio giuridico in due
diversi modi.
– Finzione: una entità x viene inclusa nella classe y nonostante le sia ontologicamente
estranea. Viene usata nelle disposizioni che estendono diritti e garanzie
– Esplicazione: si chiarisce onde evitare equivoci che x va incluso in y, categoria alla quale può
già ricondursi ontologicamente.
AMMISSIBILITA' E EFFICACIA PERSUASIVA DELLA PROVA
Va distinta l'ammissibilità della prova dalla sua efficacia persuasiva. Dire che “x non è una prova”
vuol ire, correttamente inteso, che X non costituisce una valida premessa probatoria e quindi non è
valutabile dal giudice. Spesso però intendiamo dire con “x non è una prova” che X, pur costituendo
valida premessa, non è efficace nel provare, quindi è idonea a provare Y. Nel primo senso si
afferma o nega una potenzialità probatoria, nel secondo si afferma o nega l'esito positivo di una
prova.
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EQUIVOCI IN TEMA DI INDIZI
Ovunque vi sia una proposizione da provare devono esserci prove. L'ipotesi che qualcosa possa
essere provato da entità diverse dalle prove (indizi, elementi) è una contraddizione. Se X è provato
da Y, Y è una prova. Vi sono però prove che non sortiscono l'effetto di provare, perchè irrilevanti o
intrinsecamente deboli o contrarie a X. Se gli indizi non costituiscono probe allora sarebbero
oggetto di una regola di esclusione. Negare che gli indizi hanno natura di prova è confondere la
prova con il valore che essa potrebbe assumere.
PREMESSE PROBATORIE: TRE CLASSIFICAZIONI
PROVE DIRETTE: Molti pensano che la prova
diretta sia solo quella che cade sotto la
percezione (fuori piove, vado a vedere). Se così
fosse a processo sarebbero tutte prove
indirette. In realtà per prove dirette si
intendono quelle in cui tra la proposizione
probatoria e la proposizione da provare non si
interpongono proposizioni intermedie: il teste
dice X e X è la proposizione da provare.
PROVE INDIRETTE: Sono prove indirette quelle
in cui tra la proposizione probatoria e la
proposizione da provare si innestano
proposizioni intermedie che, messe in
sequenza, assumono duplice veste: proposizioni
da provare rispetto alle proposizioni precedenti;
premesse probatorie rispetto alle seguenti. N
afferma di aver appreso X da P. è prova diretta
di ciò che ha appreso da P, indiretta rispetto a X.
PROVE PRECOSTITUITE: Sono prove
precostituite le prove appartenenti alla realtà
esterna al processo. (documenti, foto,
impronte). Quando si tratta di cose materiali
sono acquisite nel processo mediante attività di
apprensione come il sequestro. Quando sono
discorsi, tramite testimonianza indiretta,
registrazione, intercettazione. Contraddittorio
sulla prova.
Prove Costituite e Precostituite spesso si intrecciano fra loro, come nella testimonianza indiretta.
Nella sua forma tipica è il racconto di un racconto, ed è prova costituita riguardo il racconto del
teste che depone a processo rispetto a quanto ha sentito, è prova precostituita rispetto al racconto
riferito. Anche l'intercettazione è prova costituita rispetto allo strumento, precostituita rispetto alla
conversazione. La regola del contraddittorio esige che tutte le prove siano portate a conoscenza
delle parti, ma se per le prove costituite la difesa si esercita attraverso la conoscenza, per quelle
costituite vi è proprio il contraddittorio nella formazione della prova.
PROVE COSTITUITE: sono prove formate
all'interno della sede processuale, compresa
l'attività degli organi inquirenti. Contraddittorio
per la prova.
DICHIARAZIONI DI PROVA: la prova del fatto X
avviene attraverso la narrazione di qualcuno che
lo asserisce come vero e se ne rende garante. La
prova dichiarativa contiene già in sé la
descrizione del fatto da provare. Se la premessa
probatoria è “Tizio afferma che X”, la
proposizione da provare è X, o è vero che X. La
prova dichiarativa poggia su due connotati:
1) essere atto comunicativo: volto a
trasmettere informazione attraverso segni
linguistici. Soprattutto a processo la prova
PROVE CRITICO/INDIZIARIE: la prova del fatto X
avviene attraverso un altro fatto Y diverso dalla
narrazione di X, dal quale si possa, mediante
ragionamento critico, indurre il fatto X. La
proposizione da provare è inespressa e va
decifrata attraverso competenze di tipo
empirico. Tutto ciò che non è prova dichiarativa
è prova critico-indiziaria. Sono prove criticoindiziarie foto, impronte, DNA, oggetti, e
qualsiasi oggetto che abbia rilevanza induttiva ai
fini della prova di reato. È una prova muta, non
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dichiarativa si esplica attraverso il linguaggio
verbale. Fuori dal processo però ci può essere
intento comunicativo anche in atti non verbali.
A seconda che ci sia o no l'intento comunicativo
ci troviamo di fronte a prove dichiarative o
critico-indiziarie. È comunicativo l'atto non
verbale che si svolge con chiara intenzione che
esso produca questo effetto. Preliminare è la
corretta individuazione dell'informazione che
l'emittente intende trasmettere attraverso il
riconoscimento della sua intenzione di
trasmetterla. Quindi perchè si verifichi un atto
comunicativo servono tre condizioni
•
trasmissione di informazione
•
intenzione di trasmettere informazione
•
intenzione che l'info sia ricevuta
attraverso il riconoscimento
dell'intuizione di trasmettere.
2) L'enunciato Apofantico: Oltre al fatto che sia
un atto comunicativo, la prova è dichiarativa se
gli enunciati dell'atto siano veri o falsi. Quindi
costituiscono prova dichiarativa solo gli
enunciati apofantici, mentre non lo sono le
minacce, i consigli, le promesse, per il fatto che
non sono né veri né falsi e non possono asserire
la proposizione da provare.
esprime il fatto da provare ma ne è il segno
naturale. Per critico-indiziaria intendiamo
proprio l''attività che svolge il giudice per
decifrare e risalire dal fatto probatorio a quello
da provare. Sono prove critico-indiziarie anche
quelle non soggette all'alternativa vero falso
perchè, nonostante abbiano il contenuto
comunicativo, non asseriscono nulla come vero
o falso, al massimo sono la premessa per una
diversa proposizione da provare (la porta è
aperta=dichiarativa; chiudi la porta= solo in via
critico-indiziaria io posso indurre che la porta è
aperta).
•
Artificiali: congegnate dall'artificio
umano allo scopo di provare (foto,
registrazione di suoni). In genere sono
ad alta attendibilità perchè destinate a
provare. Sono forti perchè portano quasi
a resurrezione del passato.
•
Naturali: sono cose pertinenti al reato,
come impronte digitali o fatti
induttivamente utili per la ricostruzione.
Tutte le prove che non sono dichiarative sono critico-indiziarie e viceversa. Inutile chiedersi quale
dei due tipi è più affidabile: le prime possono mentire, le seconde essere alterate e comunque la
loro efficacia persuasiva varia a seconda del legame tra fatto probatorio e fatto da provare. Tra di
loro si possono combinare: possono disporsi a raggera quando convergono e rafforzano la
medesima proposizione da provare; si dispongono in sequenza quando la prima proposizione
provata diventa premessa per la successiva proposizione da provare. La forza scema via via che
aumenta il numero di passaggi.
Caso particolare è l'intercettazione, che in quanto tale presenta una commistione delle due
tipologie di prove: la conversazione è un elemento del passato, non più disponibile, e costituisce
prova dichiarativa. La registrazione sonora, il supporto magnetico, diviene la prova attraverso
un'inferenza di carattere abduttivo, ed altro non è che una prova critico-indiziaria. È sia mezzo di
ricerca che di formazione della prova.
Molti autori individuano una nozione diversa di prova critico-indiziaria:
– La prima contrappone indizi alle prove in senso stretto: la regola di base è che nella prova
in senso stretto la conclusione inferenziale si ottiene usando solo leggi logiche o
scientifiche, mentre nell'indizio vi è l'applicazione di massime di esperienza quindi vi è
carenza di validità logica.
– La seconda contrappone prove dirette e prove indiziarie. La prova diretta è quella che verte
direttamente sul fatto oggetto del processo (una testimonianza, una videoregistrazione
della rapina). La prova indiretta verte su un fatto secondario da cui si può induttivamente
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risalire a un fatto principale.
PROPOSIZIONI DA PROVARE
Occorre praticare una doppia distinzione:
– tra le proposizioni finali (già individuato dal legislatore come oggetto di prova) e intermedie
(si articola la sequenza probatoria).
– Tra proposizione principale (rappresentata dalla colpevolezza) e proposizioni incidentali
(altri temi di prova).
Il tenore delle proposizioni finali contribuisce, insieme al rito prescelto, a definire il materiale
probatorio utilizzabile ai fini decisori. Occorre individuare in maniera prioritaria la proposizione da
provare, una volta identificata la proposizione la regola è molto semplice.
ONERE DELLA PROVA
Non si può parlare di onere della prova in senso proprio: si correrebbe il rischio di intendere che la
prova è valida solo se prodotta dalla parte interessata ad affermare la proposizione da provare. In
realtà la prova è validamente assunta chiunque la produca. In realtà di onere della prova possiamo
parlare come di rischio per la mancata prova: rischio che la parte abbia decisione sfavorevole se
manca prova della proposizione. Nel processo penale il rischio per la mancata prova grava sul pm,
ma talvolta grava anche sull'imputato che si è sottratto per libera scelta al contraddittorio. A
scandire la ripartizione degli oneri probatori è la struttura della fattispecie.
L'ATTO DEL PROVARE E IL RAGIONAMENTO ABDUTTIVO
l'inferenza nel processo penale non segue il ragionamento deduttivo ma abduttivo, con cui dai fatti
del presente (prove) si risale al fatto del passato in cui consiste l'ipotesi di colpevolezza. Non
parliamo di induzione perchè l'induzione consta nel passaggio da fatti particolari a teoria e legge
generale. Ma nel processo penale il giudice non vuole giungere a teorie o leggi generali, anzi ne è
fruitore: è grazie a queste che passa dai fatti particolari (prove) al fatto particolare del reato. Le
prove non determinano mai la colpevolezza, possono solo sottodeterminarla (le prove
sottodeterminano le teorie: mentre una teoria implica certe conseguenze, queste sono compatibili
con una pluralità di teorie). Il ragionamento abduttivo non offre sufficienti garanzie di raggiungere
assoluta certezza di colpevolezza. Che la colpevolezza sia la migliore spiegazione possibile per il
materiale probatorio è ragione valida per un rinvio a giudizio, non certo per condannare. La
colpevolezza va provata, verificata oltre ogni ragionevole dubbio.
LA REGOLA DELL'OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO
L'essenza della regola sta nel principio del ragionevole dubbio. Iniziamo dal sostantivo dubbio: nel
processo il dubbio sulla responsabilità dell'imputato deve risolversi nella sentenza assolutoria
deriva dal fatto che il tema del processo è la colpevolezza, non l'innocenza. È la colpevolezza a
dover essere provata, e ritenere provata una proposizione della quale c'è ragione di dubitare è una
palese contraddizione.
Esistono due modelli distinti di prova a cui corrispondono due sottosignificati di provare:
– Il modello delle scienze formali: è il modello della prova intesa come dimostrazione, in cui
le premesse implicano deduttivamente (determinano) la conclusione per cui se sono vere le
premesse sono vere le conclusioni.
– Il modello delle scienze empiriche: è il modello della prova come argomentazione, in cui le
premesse sottodeterminano la proposizione da provare, ossia la rendono più o meno
probabile ma senza garanzia che il provato sia necessariamente vero. A quest'ultimo
appartiene la prova nel processo penale. È per questo che è necessario moderare l concetto
di ogni dubbio logico con quello di ragionevole dubbio. Ragionevole esemplifica il
fenomeno della sottodeterminazione. Si rinuncia allo standard deduttivo per ottenere la
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fondatezza che è lecito pretendere nel settore empirico. Dire che X è provato oltre ogni
ragionevole dubbio è un attenuazione e non un rafforzativo di X è provato. Ragionevole
nasce dall'impossibilità di individuare con precisione qualitativa e quantitativa il livello di
prove idoneo a giustificare la condanna. Ragionevole affida al giudice la responsabilità della
sua definizione nel quadro probatorio. Questa regola svolge la doppia funzione di garantire
l'imputato da subire condanna ingiusta (condanna solo quando la colpevolezza ha trovato
piena conferme nelle prove e nessuna significativa smentita).
Principi e regole non sono la stessa cosa. I principi sono proposizioni normative ad elevato tasso di
genericità, mentre le regole sono proposizioni normative ad elevata specificità. Di qui una
conseguenza: i principi in sede di attuazione sono soggetti a ponderazione, le regole invece
collegano specifici effetti a specifici presupposti e non sono sottoposte a bilanciamento. Esistono
delle proposizioni che, pur essendo formulate come regole, funzionano come principi: una di
queste è la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. La forma è di regola, ma di fatto la direttiva
opera come un principio poiché è il giudice che deve bilanciare. Mentre per i casi facili, con quadro
probatorio univoco, è più probabile che più giudici concordino verso l'assoluzione o la condanna,
nei casi difficili vi è molta discrezionalità. Qualcuno potrebbe obbiettare che nei casi difficili
permane quella componente di dubbio, ma la verità è che si può ragionevolmente dubitare solo se
il dubbio è ragionevole. Assoluzione solo dopo che il giudice ha ritenuto ragionevole il dubbio sulla
colpevolezza.
Per qualcuno (tra cui recentemente il tribunale di Milano), può fornire supporto
all'indeterminatezza del concetto di ragionevole il teorema di Bayes. Usare il teorema di Bayes per
il calcolo delle probabilità della colpevolezza non è possibile in quanto non si può dare preciso
valore ai diversi membri della formula. Ma anche ciò fosse possibile, quale sarebbe poi la
probabilità necessaria per la condanna, posto che la soglia del 100% è irraggiungibile?
CAP. 4 ALTERNATIVE DECISORIE
Chiarita la struttura triadica della prova, analizziamo le alternative decisorie, ossia la scelta del
giudice tra quale paradigma dovrà essere realizzato. In ogni alternativa decisoria distinguiamo:
– termine marcato: veicola le proposizioni da provare, ossia il tema del giudizio
– termine opposto: si pone come consequenziale all'impossibilità di affermare il termine
marcato. Non dispone di autonoma proposizione da provare, ma la sua affermazione
dipende dal fallimento dell'affermazione del termine marcato.
Nell'alternativa condanna/assoluzione il termine marcato è condanna che implica la prova della
colpevolezza, mentre il proscioglimenti è consequenziale alla prova della mancanza di
colpevolezza. Il fatto che il tema principale del processo sia la colpevolezza non dipende dalla
regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio, ma dal tenore delle fattispecie criminose che sono
costruite nella forma “chiunque commette il fatto X è punito con la pena Y”. è dalla colpevolezza
come tema del processo che discende la regola della prova oltre ogni ragionevole dubbio.
Nei giudizi abbreviati la proposizione da provare è sempre la colpevolezza. Diverso è il discorso per
il patteggiamento, in cui non vi è accertamento della colpevolezza ma ci deve essere convergente
volontà tra le parti di applicare la pena ridotta fino a un terzo. In questo caso il termine marcato è
la sentenza di applicazione della pena (se il giudice ritiene congrua la qualificazione giuridica del
fatto e l'applicazione della pena richiesta dalle parti), mentre il termine opposto è il rigetto della
richiesta. Il giudice nel patteggiamento deve fare due verifiche: una positiva (che non vi siano
cause di non punibilità per le quali debba essere pronunciato il proscioglimento), e una negativa
(che siano corrette le qualifiche giuridiche e congrua la pena).
Nei provvedimenti cautelari il termine marcato è l'applicazione della misura cautelare, mentre il
termine consequenziale (opposto) è il rigetto della richiesta. Siamo nel terreno del fumus boni
iuris (gravi indizi) (e dei pericula libertatis. Ma prima i fumus boni iuris): Quali sono le proposizioni
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da provare nei provvedimenti cautelari? Possiamo parlare di prove? L'opinione corrente individua
le prove nei gravi indizi di colpevolezza, la proposizione da provare è la colpevolezza, e lo standard
probatorio nel più probabile che non. Ma così il discorso è contraddittorio. Se i gravi indizi non
sono prove, allora non vi è nulla da provare (perchè ciò può essere provato solo attraverso le
prove). Se sono prove perchè chiamarli indizi? I gravi indizi in realtà non costituiscono prove perchè
essi rappresentano (N.B. Sul terreno cautelare!!!) l'equivalente simmetrico della colpevolezza nel
processo penale. Sono la probabile colpevolezza, quindi vanno veicolati sul versante della
proposizione da provare. I gravi indizi non sono ciò che prova, ma ciò che è oggetto delle prove. Le
prove sono gli elementi prodotti dal pm. La proposizione da provare è la presenza di gravi indizi di
colpevolezza (probabile colpevolezza), e l'atto del provare è regolato dal solito canone dell'oltre
ogni ragionevole dubbio.
I pericula libertatis (reiterazione, fuga, pericolosità sociale) presentano una terna probatoria simile
a quella del fumus boni iuris, in cui le prove sono rappresentate dagli elementi che il pm produce al
giudice, la proposizione da provare è costituita dai pericula, lo standard è quello dell'oltre ogni
ragionevole dubbio.
Che differenza c'è tra dire che nei provvedimenti cautelari si prova la probabile colpevolezza e dire
che si dà in essi una prova incompleta sulla colpevolezza? Nelle esigenze cautelari, dove si deve
provare la situazione di pericolo, indebolire il concetto di provare fino a ritenere sufficiente un
principio di prova del pericolo, o una prova incompleta, equivale a vanificare l'accertamento
richiesta dalla legge.
Nell'alternativa accoglimento/rigetto della richiesta di archiviazione, il termine marcato è il
provvedimento di archiviazione, quello consequenziale è il rigetto, da cui consegue o ordine di
formulare l'imputazione o richiesta di nuove indagini. Temi della decisione sono l'infondatezza
della notizia di reato, o l'assenza di condizione di procedibilità, l'estinzione del reato, o la non
previsione del fatto come reato. L'archiviazione va respinta ogni qual volta non emerga con
chiarezza l'insostenibilità dell'accusa.
Più articolato è il discorso per l'udienza preliminare in rapporto all'alternativa sentenza di non
luogo a procedere/decreto di citazione a giudizio. La sentenza di non luogo a procedere prima era
disposta quando risulta evidente che il fatto non sussiste o non costituisce reato o l'imputato non
lo ha commesso o si tratta di persona non imputabile o non punibile. Il giudice era pertanto tenuto
a disporre il rinvio a giudizio a meno che fosse evidente l'infondatezza dell'accusa. L'attuale
formulazione stabilisce che se sussiste una causa che estingue il reato o una causa per cui l'azione
penale non doveva essere iniziata, se il fatto non è previsto come reato ovvero quando il fatto non
sussiste o l'imputato non lo ha commesso, o si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, il
giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, e la pronuncia anche quando non ha
elementi sufficienti e idonei a sostenere l'accusa in giudizio. Ai fini del rinvio a giudizio in realtà,
nonostante l'ampliamento delle ipotesi di non luogo a procedere, continua a valere la regola del
rinvio a giudizio ogni qualvolta appaiono incerti i presupposti del non luogo a procedere. Quindi a
essere termine marcato è il tema negativo dell'insostenibilità dell'accusa, non il termine positivo
della sua sostenibilità. Anche perchè se ci fondassimo sul tema positivo della sostenibilità
dell'accusa, il rinvio a giudizio che richiede successiva verifica sui gravi indizi di colpevolezza nei
provvedimenti cautelari, finirebbe per assorbire il compito di controllo svolto dal giudizio.
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CAP. 5 IL PROCEDIMENTO PROBATORIO
SEZIONE 1: AMMISSIONE DELLA PROVA
Il procedimento probatorio si sviluppa nelle fasi di ammissione, assunzione e valutazione della
prova. In un processo accusatorio, sono le parti a indicare le prove che intendono assumere a
dibattimento, e il giudice deve verificarne l'ammissibilità. Il diritto alla prova trova quindi il suo
limite nell'esclusione delle prove:
– vietate dalla legge: inammissibili, sono oggetto di una regola di esclusione probatoria e
quindi anche venissero assunte sarebbero comunque giuridicamente inesistenti
– manifestamente superflue o irrilevanti: con questo giudizio il giudice formula una
valutazione anticipata delle conseguenze giuridiche che deriverebbero dalla ammissione
delle prove. Nel primo caso conclude che ci sono altre prove che prefigurano il medesimo
risultato, nel secondo caso che l'esito delle prove non avrebbe influenza sui fatti in oggetto
A livello costituzionale il diritto alla prova, che veniva dedotto dal diritto di difesa, trova espresso
riconoscimento nell'art. 111 comma 3 che prevede che la persona accusata di un reato ha la
facoltà di interrogare o far interrogare persone che rendono dichiarazioni a suo carico o a sua
difesa e ha la facoltà di acquisire ogni altro mezzo di prova a suo favore. Postilla rispetto alle
testimonianze assunte in incidente probatorio: sono pienamente valide, ma è diritto dell'imputato
chiedere che vengano rinnovate nel dibattimento (salvo irripetibilità). Scarsamente conciliabile con
i principi costituzionali appare l'art. 190 bis c.p.p. Secondo cui le dichiarazioni ottenute in sede di
incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona contro cui vanno le
dichiarazioni, l'esame del testimone è richiesto solo se riguarda fatti diversi da quelli in oggetto
nelle precedenti dichiarazioni. Quindi la rinnovazione della prova non viene esclusa a priori ma
viene confinata a ipotesi di eccezionalità e quindi di maggiore gravità: un regime più severo a
seconda della gravità del reato non è giustificato e probabilmente in virtù di un principio di
uguaglianza sarebbe più coerente estendere il regime dell'art. 190 cpp a ogni processo.
Le parti che intendano chiedere l'esame di testimoni, periti, consulenti tecnici o coimputati,
devono a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria la lista con le indicazioni delle
circostanze su cui deve vertere l'esame, entro sette giorni dal dibattimento, pena inammissibilità.
Questo in virtù del diritto alla difesa e in particolare alla controprova. Questa deduzione anticipata
può venir meno se la parte dimostra l'impossibilità di aver potuto comunicare la prova
tempestivamente. Sempre in virtù della controprova è possibile che le parti chiedano la citazione a
prova contraria del testimone, periti, e consulenti presenti nella lista dell'altra parte senza citarli
nella propria.
Il fatto che l'onere della prova spetti e competa principalmente alle parti non esclude che, a date
condizioni, la legge possa autorizzare un intervento probatorio del giudice. Impedire al giudice
iniziativa, anche quando si evidenziano gravi lacune, potrebbe pregiudicare la corretta
ricostruzione dei fatti. D'altro canto però una sistematica intromissione del giudice metterebbe a
rischio la sua imparzialità, imparzialità che potrebbe essere salvaguardata separando la figura di
chi dirige l'escussione dibattimentale con quella di chi decide sulla colpevolezza. È importante che
siano ben definiti i tempi in cui è possibile un intervento probatorio del giudice. L'art. 507 cpp
stabilisce che “terminata l'acquisizione delle prove, il giudice, se necessario, può disporre anche
d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova”: con l'espressione nuovi mezzi di prova si allude a
ogni prova che non sia già stata acquisita, quindi sia alle prove sopravvenute che a quelle non
prodotte dalle parti per negligenza o scelta. Con l'inciso terminata l'acquisizione delle prove si
intende garantire il carattere sussidiario dell'iniziativa del giudice, che ha luogo solo dopo
l'assunzione delle prove dalle parti. Quanto alla condizione se assolutamente necessario è palese
l'intenzione di sostituire al criterio di ammissione (non manifesta superfluità e non irrilevanza della
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prova) un criterio severo di assoluta necessità. Infine l'espressione anche d'ufficio sottolinea come
l'assunzione di nuove prove possa avvenire o a richiesta delle parti o per iniziativa del giudice.
Importante è la motivazione del giudice dell'accoglimento o del rigetto della richiesta delle parti a
produrre prove da parte: dovrà essere pertinente e non dare anticipazioni di giudizio sul quadro
probatorio già acquisito.
In appello il giudizio può svlgersi o sui soli atti assunti in primo grado, oppure rinnovando
l'istruzione dibattimentale o riassumendo prove già acquisite o acquisendone delle altre. Per le
prove sopraggiunte dopo il giudizio di primo grado, la rinnovazione è disposta nei limiti dell'art.
495 cpp, ossia con il diritto di ammissione della prova salvo sia irrilevante o manifestamente
superflua. Le prove non dedotte tempestivamente per negligenza delle parti, o per le prove già
acquisite in prima istanza, la riassunzione è disposta se il giudice ritiene di non essere in grado di
decidere allo stato degli atti e se il giudice ritiene la rinnovazione assolutamente necessaria .
SEZIONE DUE: ASSUNZIONE DELLA PROVA E REGOLA DEL CONTRADDITTORIO
La forza del contraddittorio non sta nell'idea chimerica che le due parti collaborino insieme alla
ricerca della verità, ma nell'opposizione dialettica, nello scontro che consente di formare la prova a
partire da visioni confliggenti. L'idea di base è che la verità si riveli proprio attraverso il conflitto
delle diverse prospettive, che si tradisca senza il volere delle parti. Per questo l'avvocato rinuncia al
controesame verso un teste affidabile, perché sa che nulla fortifica una tesi quanto il fallimento del
tentativo di falsificarla. Il maggior pregio dell'esame incrociato è scoprire la menzogna più che
accertare la verità.
La disciplina costituzionale sul contraddittorio nella formazione della prova si compone di 3
proposizioni:
– una regola generale (il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella
formazione della prova)
– una regola speciale (la colpevolezza non può essere provata sulla base di dichiarazioni di chi
si è sempre volontariamente sottratto dall'interrogatorio da parte di imputato o difensore)
– tre eccezioni alla regola generale: la legge regola i casi in cui la formazione della prova non
ha luogo nel contraddittorio: per consenso dell'imputato, per accertata impossibilità di
natura oggettiva, per effetto di provata condotta illecita).
Affermando che il processo penale è regolato dal contraddittorio nella formazione della prova, il
comma 4 dell'art. 111 della Cost, impone al legislatore due generi di obblighi:
– positivo: apprestare tecniche e strumenti idonei a formare le prove nel contraddittorio. È
una direttiva che opera come principio (ampio e discrezionale)
– negativo: estromettere dal quadro decisorio le prove non formate nel contraddittorio.
Opera come regola e in particolar modo come regola di esclusione probatoria.
Esistono però due limiti da ritenere impliciti nel precetto costituzionale:
– limite relativo alla proposizione da provare: il contraddittorio nella formazione della prova
riguarda solo il tema principale del processo (la colpevolezza). Sui temi incidentali è valido
ogni atto indipendentemente da sede o metodo di assunzione
– limite relativo alle premesse probatorie: vale solo per le prove di cui si possa ipotizzare la
formazione in contraddittorio, quindi solo quelle costituite nella sede processuale. Non
vale per le prove precostituite per le quali il contraddittorio può effettuarsi solo sulla prova.
Pur riferibile a ogni prova raccolta in sede processuale (accertamenti, esperimenti giudiziari,
perizie), la regola del contraddittorio trova la sua applicazione più significativa sulla prova
dichiarativa assunta attraverso esame incrociato. Sono inutilizzabili tutte le dichiarazioni raccolte
unilateralmente nell'indagine preliminare o nell'investigazione difensiva. Diverso il discorso per
quanto è stato detto fuori dalla sede processuale. Non avrebbe senso lamentare l'assenza del
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contraddittorio in quel discorso, poiché quella è una prova precostituita quindi sottratta alla regola
del contraddittorio. Nienrte impedisce sia acquisito a processo attraverso prove documentali o
come oggetto di testimonianza indiretta da parte di chi lo ha recepito. L'imputato può chiedere che
che la persona di cui viene riportato il discorso (da un'altra), venga sentita e il giudice non potrà
mai ritenere la cosa irrilevante. Intendiamo per utilizzabilità della testimonianza indiretta che la
meta-dichiarazione funge da premessa probatoria rispetto al fatto che sia stata resa la
dichiarazione oggetto. Sino a qui la testimonianza è ancora diretta. È possibile un secondo passo
inferenziale, ossia il passaggio dal fatto materiale della dichiarazione oggetto alla verità di essa. A
questo punto la meta-testimonianza diventa indiretta, i due racconti si dispongono in sequenza
probatoria.
L'esame dei testimoni in dibattimento (e in incidente probatorio) si svolge i due fasi:
– esame diretto condotto dalla parte che ha indicato il testimone e da quella che ha interesse
comune. È un esame che deve svolgersi sulle circostanze indicate nella lista e su quelle
eventualmente suggerite dal testimone
– controesame fatto dalle parti avversarie. So svolge sulle circostanze indicate nella lista ma
in realtà può estendersi a ogni circostanza utile a verificare la credibilità del testimone.
Finalità principale è porre in dubbio la versione dei fatti fornita dal teste nell'esame diretto.
Questo scopo può svolgersi in:
– chiave demolitiva attaccando l'attendibilità della testimonianza
– additiva integrativa esplorando aspetti e profili non sufficientemente approfonditi
– esplicativa chiarificatrice con domande tese a evidenziare le diverse interpretazioni del
racconto.
Di norma è prudente rinunciare al controesame se non vi sono buone ragioni per aspettarsi
modifiche rispetto all'originaria versione dei fatti. Il controesame infatti, se non incrina la
credibilità del testimone, inevitabilmente la rafforza.
Al termine del controesame, la parte che ha svolto l'esame diretto può rivolgere al testimone
nuove domande, diverse da quelle già rivolte ma sempre nell'ambito delle circostanze dedotte elle
liste testimoniali o emerse successivamente. Al nuovo esame diretto per uguaglianza può sempre
seguire un controesame e così via. È questione controversa se, in caso di rinuncia all'audizione dei
propri testimoni da parte di una parte, la controparte possa comunque procedere al loro esame
anche se non li aveva ammessi in lista. Una volta ammessa, la prova appartiene al processo e
quindi resta a disposizione del contraddittorio. Il giudice incaricato di dirigere l'istruzione
dibattimentale può svolgere domande solo dopo esame e controesame, e solo domande che
devono vertere sulle circostanze già dedotte in lista, proprio a evitare impulsi provocatori. Nel caso
voglia introdurre nuovi argomenti deve invitare le parti a esplorare i nuovi tempo e nell'inerzia
eventualmente rivolgere le domande.
L'art. 499 cpp disciplina il tenore delle domande che devono vertere su fatti specifici. In realtà
dobbiamo sostituire il concetto di fatto (generico per definizione) con domanda specifica. È
importante distinguere le domande nocive (possono nuocere alla sincerità delle risposte), vietate
in tutte le fasi dell'esame, dalle domande suggestive, (tendono a suggerire le risposte) vietate
espressamente solo nell'esame diretto. Le domande nocive sono quelle che impediscono al test di
esprimere il suo pensiero. A compromettere la comunicazione che è l'elemento che
contraddistingue la prova dichiarativa non sono le menzogne, ma i fraintendimenti, gli equivoci, i
malintesi, le intimidazioni. Quando il significato oggettivo di ciò che è stato dichiarato non
corrisponde a cosa si sarebbe voluto dichiarare. Il danno in questo caso è irrimediabile, e queste
domande sono lesive della libertà di autodeterminazione. Sono vietate.
Sono domande suggestive quelle che in qualche modo indirizzano il test verso una risposta che
viene di fatto suggerita. Sono spesso domande a cui è sufficiente rispondere con un sì o un no in
quanto l'informazione che ci si attende dal test è già contenuta nella domanda anche se in forma
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ipotetica. Sono domande suggestive anche le cosiddette domande trabocchetto. In linea di
principio anche queste devono considerarsi vietate. In via di eccezione il divieto può venire meno
in quei contesti come il controesame, in cui la parte può proporsi legittimamente di scardinare o di
mettere alla prova la credibilità di un test. Se l'esame testimoniale ha come scopo l'accertamento
della verità, nel controesame lo scopo si manifesta attraverso la scoperta delle menzogne.
In seguito a ciò che la disciplina codicistica si presta ad almeno due rilievi critici:
– definire le domande nocive come quelle che possono nuocere alla sincerità delle risposte
significa includere anche le domande trabocchetto che sono formulate allo scopo di
smascherare falsi testimoni. Nocive sono le domande che, per il loro carattere ambiguo e
intimidatorio, impediscono al teste di esprimersi liberamente.
– Riguardo l'ammissibilità delle domande suggestive, la scelta più corretta sarebbe quella di
disciplinare con due diverse disposizioni: la prima volta a vietarle in qualsiasi contesto
processuale, la seconda, di natura eccezionale, diretta ad ammettere in sede di
controesame o esame diretto se il teste si rivela ostile all'interrogante. Così invece il codice
si limita a una sola disposizione che vieta le domande suggestive nell'esame diretto. Ma
quindi sono ammesse sempre tranne l'eccezione dell'esame diretto? (anche nelle domande
condotte dal giudice, e nell'indagine preliminare?). Se il divieto nell'esame diretto è
esemplificazione di un principio generale, allora va escluso anche dal controesame.
È per questo che la giustizia oscilla tra due estremi: quello in cui anche il giudice può rivolgere
domande suggestive, e quello in cui nemmeno il controesaminante è autorizzato.
Il primo indirizzo muove dalla premessa che vietare le domande suggestive nell'esame diretto ha
carattere eccezionale ed è spiegato dal rapporto ostile tra teste e parte, rapporto ostile che non
riguarda il giudice che quindi può usare domande suggestive. In realtà il giudice, dato anche il
ruolo che riveste, ha un potere di forte condizionamento sul testimone e potrebbe inquinare la
prova. Il problema quindi nel primo indirizzo sta proprio nelle premesse che vedono il divieto come
eccezionale. Ma come si diceva il discorso va capovolto. Il divieto va applicato a ogni contesto
processuale, salvo eccezione per specifica ragione. È il rapporto di ostilità che giustifica nel
controesame eventualmente la legittimità di disporre di domande suggestive per porre i dubbio la
credibilità del testimone. Ma ciò non può valere per l'esame condotto dal giudice, che non ha
interessi di parte e quindi non ha ragione di coltivare rapporto di ostilità col teste. Erroneo è anche
il secondo indirizzo della Cassazione, per cui vengono vietate le domande suggestive anche nel
controesame, poiché vengono equiparate le domande suggestive alle domande nocive.
Quali sono le conseguenze rispetto la violazione delle regole concernenti le domande vietate?
In quanto lesive della libertà di autodeterminazione, le domande nocive non tempestivamente
censurate determinano la radicale inutilizzabilità delle risposte. Più complesso il discorso sulle
domande suggestive che non sono lesive della libertà di autodeterminazione, o per lo meno non
troppo. Va osservato che la suggestione è ineliminabile, ma ritenere preclusa ogni domanda sulle
circostanze della domanda suggestiva sarebbe esagerato. La risposta a una domanda suggestiva
non prontamente censurata non può essere nulla. Rispetto alla sanzione di inutilizzabilità, dipende
dall'interpretazione dell'art. 191 cpp e dall'espressione acquisite in violazione dei divieti stabiliti
dalla legge. Se acquisite significa ottenute, è ottenuta in violazione del divieto di domande
suggestive e quindi nulla. Se invece significa ammesse, la risposta è ammissibile non essendoci
divieto di deporre sul tema oggetto della domanda suggestiva. Tendiamo a pensare che il codice
intenda acquisite come ammesse, quindi illegittimamente ammesse in virtù di divieti probatori. In
tal caso la risposta sarà acquisita a processo, ma non per questo la violazione resterà priva di
effetti. Ammissibilità non significa attendibilità, e l'attendibilità di una risposta dipende anche dalla
domanda.
Veniamo alla disciplina delle contestazioni in sede di esame testimoniale. A logica la sede delle
contestazioni sembrerebbe individuabile nel controesame. Ma se si tiene conto del fatto che la
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maggioranza delle dichiarazioni contenute nel fascicolo del pm risultano a carico dell'imputato,
spesso a provvedere alle contstazioni sarà il pm in sede di esame diretto, quando il teste d'accusa
ritratti la precedente dichiarazione. Le contestazioni possono effettuarsi anche in sede di
controesame.
Il nuovo testo dell'art. 500 cpp consacra l'irrilevanza probatoria delle contestazioni, stabilendo
che le dichiarazioni lette per le contestazioni possono essere valutate ai fini della credibilità del
teste, e solo nei casi eccezionali contemplati sono acquisite al fascicolo del dibattimento.
Seconda disposizione che è stata riformulata è il comma 4 dell'art. 195 cpp, dove il legislatore ha
vietato testimonianza indiretta della polizia giudiziaria sul contenuto delle dichiarazioni acquisite
dai testimoni. Le eccezioni, ossia i casi in cui non c'è divieto di testimonianza indiretta, riguardano:
le rivelazioni del morente sul luogo del delitto, le parole sfuggite impudentemente durante
perquisizione, i dialoghi captati occasionalmente dalla polizia giudiziaria al di fuori del contesto
procedimentale.
Usare il precedente difforme, dove il teste a segretamente dichiarato “nero” per il controllo sulla
credibilità della testimonianza dibattimentale con cui il soggetto dichiara bianco, significa per il
giudice trovarsi davanti a un trilemma: credere o no a bianco, oppure credere a nero. Al teste nel
giudizio si contesta la dichiarazione di “nero” durante le indagini preliminari. Ma la ragione per cui
potrà ritenersi inattendibile la dichiarazione di bianco nel dibattimento, non é né la veridicità di
quanto dichiarato in indagini preliminari, né la difformità rispetto al dibattimento. A screditare il
testimone sono le sue reazioni durante le contestazioni, non essere convincente nella
spiegazione del contrasto. Non è importante solo ciò che dice ma anche come lo si dice. La
precedente dichiarazione serve per interpellare il teste, ma resta priva di ogni valore probatorio e il
giudice valuta l'attendibilità dell'esaminato solo sulla base di ciò che avviene in dibattimento.
Inoltre negare credito alla dichiarazione di bianco vuol dire che “non è provato bianco” e non che
“è provato non bianco”. Perché sia escluso ogni uso probatorio la negazione deve essere passiva e
non attiva. Deve cadere sulla prova e non su bianco”.
Distnto concettualmente è ciò che può significare sulò piano probatorio l'ammissione, da parte del
teste, che dichiara bianco nel giudizio, di aver dichiarato nero precedentemente. Qui ci troviamo di
fronte a 3 dichiarazioni:
– la dichiarazione dibattimentale in cui dichiara bianco (p)
– la meta-dichiarazione dibattimentale con cui diciara di aver dichiarato nero nell'indagine
preliminare (q)
– la dichiarazione oggetto con cui si è dichiarato nero nell'indagine preliminare (z).
Sappiamo che Z non può essere utilizzata per provare la verità di quanto dichiarato (nero).
Dobbiamo vedere se possiamo arrivare alla prova di nero attraverso la dichiarazione
dibattimentale q.
Q è una prova pienamente ammissibile perché resa nel contraddittorio, valutabile come è
valutabile p. Q come metadichiarazione può solo provare il fatto che sia stata resa Z, non la verità
di quest'ultima. L'inferenza che passa da q a z deve fermarsi a z, è possibile trarre solo inferenze
che non implichino la verità stessa di z.
Quando il teste a dibattimento rifiuta di deporre o si avvale della facoltà di astensione, le
precedenti dichiarazioni non possono essere contestate e restano prive di rilevanza probatoria.
Diverso è se il teste ha accettato esame o controesame di una parte ma si rifiuta di sottoporsi a
quello dell'altra parte. In tal caso se il rifiuto riguarda la difesa si applica il comma 4 dell'art.111
secondo cui la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da
chi per libera scelta si è sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore,
pertanto restano inutilizzabili tutte le dichiarazioni sia del dibattimento che dell'indagine
preliminare.
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PROVATA CONDOTTA ILLECITA
L'art. 111 comma 5 contempla, tra le eccezioni al contraddittorio nella formazione della prova, la
provata condotta illecita. È l'eccezione che si verifica quando vi sono elementi concreti per ritenere
che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro, affinché
non deponga o deponga il falso, allora sono acquisite a fascicolo del dibattimento le dichiarazioni
contenute nel fascicolo del pm. Le dichiarazioni originarie divengono così prove, che vanno però
sottoposte al vaglio dell'attendibilità da parte del giudice.
L'effetto causato dalla condotta illecita va ricercato nella perdita di libertà di autodeterminazione.
Per questo ci riferiamo alle condotte illecite sul testimone e non del. L'art. 500 cpp fa sì che la
deroga funzioni sia per eccesso che per difetto: per eccesso perché viene consentita la deroga al
contraddittorio anche quando la condotta illecita di fatto non ha sortito alcun effetto. Per difetto
perché concede la deroga anche quando il dichiarante abbia perso la sua libertà di parola, pur non
avendo subito condotta illecita: teste intimidito. La scelta del silenzio e della reticenza non sono
liberi, ma nemmeno sono rientrabili nelle previsioni relative alla condotta illecita men che meno a
quelle relative alla impossibilità di natura oggettiva. Pertanto le precedenti dichiarazioni cadono
sotto la regola dell'esclusione probatoria e restano inutilizzabili.
La disposizione quindi subordina l'utilizzazione delle precedenti dichiarazioni alla prova della
condotta illecita sul testimone. Se non ci troviamo di fronte a una condotta illecita sul testimone
ma a un rifiuto a deporre, essendo impossibile procedere alle contestazioni, le dichiarazioni sono
utilizzabili. Se il teste acceta l'esame dibattimentale è ragionevole pensare che le precedenti
dichiarazioni possano entrare in dibattimento solo mediante contestazione. Se la condotta illecita
deve essere provata, non vi è dubbio che gli strumenti attraverso cui provarla devono essere
chiamati a tutti gli effetti prove. Ed essendo la prova della condotta illecita tema incidentale e non
principale del processo, non è sottoposto alla regola nella formaizone della prova e quindi sono
pienamente utilizzabili gli atti dell'indagine preliminare. L'importante è non utilizzare come prova
della condotta illecita la stessa dichiarazione che si vorrebbe acquisire a giudizio, pena corto
circuito.
È prova di condotta illecita ogni elemento che sveli un influsso esterno capace di mettere a rischio
la libertà di autodeterminazione. È proposizione da provare la condotta illecita, esplicata nei
comportamenti suddetti.
CONVERSIONE IN PROVA DELLE DICHIARAZIONI DIVENUTE IRRIPETIBILI
In caso di morte, irreperibilità o inabilità a deporre da parte del teste che ha reso dichiarazione
nelle indagini preliminari, è impossibile l'esame in contraddittorio. Si apre il dilemma tra affermare
la regola dell'esclusione probatoria o recuperare le dichiarazioni con un sacrificio del
contraddittorio. Le scelte di costituzione e cpp si riassumono in 3 direttive:
– regola generale: nega valore probatorio alle dichiarazioni raccolte fuori dal contraddittorio
– eccezione relativa all'impossibilità di formare la prova nel contraddittorio, secondo cui il
giudice dispone che sia data lettura agli atti su richiesta della parte
– regola speciale: secondo cui la colpevolezza non può essere provata sulla base di
dichiarazioni di chi per libera scelta si sia sempre sottratto al contraddittorio.
Quindi l'uso delle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio è subordinato a 3 elementi:
1) richiesta della parte
2) impossibilità di assumere in dibattimento la deposizione del teste
3) natura oggettiva dell'irripetibilità, e carattere imprevedibile: il carattere imprevedibile serve
a garanzia che la parte, pur avendone le possibilità. Si sia colpevolmente astenuta da
chiedere incidente probatorio. La natura oggettiva esige che l'impossibilità derivi da
circostanze indipendenti dalla volontà del dichiarante.
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Esistono situazioni di confine in cui l'esame in contraddittorio, pur non essendo impossibile,
esporrebbe a rischi per la salute fisica e psichica del testimone. In questi casi l'ideale è l'assunzione
della testimonianza in sede di incidente probatorio e con modalità protetta. Se però questo non è
avvenuto si propone il dilemma tra il recupero delle precedenti dichiarazioni e l'ascolto orale del
teste. Si tende a bilanciare e a considerare quanto stress possa causare l'ascolto orale, quanti
danni.
Ci sono differenze rispetto al fatto che le dichiarazioni siano state raccolte in sede investigativa dal
pm o dal difensore dell'imputato. Se le dichiarazioni sono state raccolte dal difensore
dell'imputato, la regola speciale non è mai applicabile, in quanto il testimone non si è sottratto
all'esame dell'imputato o difensore, anzi, ha reso dichiarazione a quest'ultimo. Ciò che può
chiedere la difesa è valutare queste dichiarazioni a favore dell'imputato, non di certo per provare la
colpevolezza. Quindi l'alternativa è tra regola di esclusione e eccezione. Queste dichiarazioni
sarebber pienamente utilizzabili, qualunque sia la natura dell'irripetibilità, a patto che sia
imprevedibile. Per le dichiarazioni raccolte dal difensore l'irripetinilità non solo deve essere
prevedibile e oggettiva: ossia non determinata da una libera scelta del dichiarante di sottrarsi al
contraddittorio. Mancando la prova della irripetibilità oggettiva e imprevedibile si applica la regola
dell'esclusione probatoria e le dichiarazioni restano inutilizzabili.
Se le dichiarazioni sono rese al pm, questo po' anche applicare la regola della sottrazione per libera
scelta all'interrogatorio del difensore. Se l'accusa intende recuperare queste dichiarazioni deve
dimostrare che sono divenute Irripetibili per ragioni imprevedibili. In virtù della regola speciale,
spetta alla difesa provare la natura non oggettiva (derivante da libera scelta) dell'irripetibilità, che
rientrerebbe nella sottrazione per libera scelta. Quindi se il pm proba l'irripetibilità per cause
imprevedibili delle dichiarazioni da lui raccolte, spetta al difensore provare che l'irripetibilità è
soggettiva e quindi dipende da libera scelta del teste di sottrarsi al controesame.
SEZIONE TRE: VALUTAZIONE DELLA PROVA
Ai sensi dell'art. 192 cpp il giudice valuta la prova dando conto della motivazione dei risultati
acquisiti e dei criteri adottati.
La valutazione di ogni elemento deve essere fatta nel quadro di tutto il materiale disponibile,
nell'intero sistema di prove legittimamente acquisite. L'unico criterio di valutazione è quello della
prova oltre ogni ragionevole dubbio. Questo non significa però che il giudice sia libero nella sua
valutazione, svincolato da regole. Il concetto di libero convincimento, in un processo fondato sulla
decisione motivata dei giudici togati, andrebbe sostituito con quello di valutazione legale e
razionale. Legale perché si esercita unicamente su prove legittimamente acquisite. Razionale
perché implica l'obbligo a motivare secondo criteri di ragionevolezza, nel rispetto delle regole della
logica, della scienza e dell'esperienza corrente. La libertà del giudice sta semplicemente a indicare
la sua piena autodeterminazione e l'assenza di vincoli gerarchici nella valutazione delle prove.
L'art. 192 cpp stabilisce che l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che
questi non siano gravi, precisi e concordanti. Per indizi, questo articolo intende non precisamente
tutte le prove critico-indiziarie. Intende una categoria specifica delle critico-indiziarie, in particolar
modo quelle che non si fondano su una legge scientifica (DNA, impronte digitali, fotografie), a su
massima tratta dall'esperienza corrente (ad esempio le generalizzazioni fondate sul
comportamento umano). Non esistono prove scientifiche dell'intenzionalità, della gelosia, sebbene
questi temi influiscano nel giudizio sulla colpevolezza. È probabilmente a questo genere di prove,
che appartengono al regno del verosimile, a cui si riferisce l'art. 192 cpp, fissando un severo
criterio di valutazione in base al quale gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti. Resta il
fatto che comunque sia tautologia, in quanto un fatto non può essere desunto da indizi ma solo da
prove.
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Sempre l'art. 192 cpp contempla un analogo criterio di valutazione sulle dichiarazioni rese
dall'imputato del medesimo reato o di un diverso reato connesso: stabilisce che le dichiarazioni
sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità. Così detta,
pare che la dichiarazione del coimputato non sia valutabile e quindi sia inutilizzabile se non vi sono
riscontri. Ma non è così, perché se legittimamente acquisita la dichiarazione è utilizzabile e va
valutata. Quello che si vieta non è la valutazione, ma un certo esito della valutazione. Ovviamente
le dichiarazioni richiedono la più attenta critica, e maggiore cautela di quella suggerita per i
testimoni. Il controllo deve svolgersi sotto un triplice profilo:
– in rapporto alla credibilità del dichiarante
– in rapporto all'oggettiva attendibilità delle dichiarazioni (coerenza, accuratezza e
verosimiglianza della narrazione)
– in rapporto ai riscontri estrinseci (mentre i primi due criteri sono tipici anche della prova
testimoniale, il terzo è tipico solo della prova del coimputato).
In realtà questo criterio di valutazione sarebbe stato preferibile affidarlo all'elaborazione
giurisprudenziale invece che cristallizzarlo in una formula legale. Anche perché non sarebbero da
sottoporre a vaglio severo anche le altre dichiarazioni di altri teste?
L'incursione legislativa nel settore della valutazione delle prove crea numerosi effetti negativi. Tutta
la giurisprudenza sul merito e sulla legittimità dell'art. 192 cpp non si sarebbe potuta evitare in
funzione del principio di economia mentale. Questi criteri legali posti come intermediari tra giudice
e prove travalicano la loro funzione a scapito del caso concreto fungendo da ostacolo di
approfondimento.
La legge di attuazione del giusto processo ha introdotto, all'art. 526 cpp, un nuovo comma che
riproduce testualmente l'art. 111 con però una variante: “all'esame” invece che
“all'interrogatorio”: la colpevolezza non può essere provata sulla base di dichiarazioni di chi per
libera scelta si è sempre sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore. Il richiamo
alla colpevolezza, e in particolar modo la sottrazione riferita solo all'esame (interrogatorio da parte
della difesa) e la struttura della norma costruita come un divieto di trarre una certa inferenza da
determinati elementi, al verificarsi di un evento pregiudizievole per la difesa (sottrazione al
controesame), avvalorano l'ipotesi che non si tratti di una regola di esclusione probatoria ma di un
criterio legale di valutazione.
Parlando del contraddittorio nella formazione della prova, si è detto che la regola di esclusione
probatoria riguarda solo solo le prove costituite nel processo latamente inteso e le dichiarazioni
assunte unilateralmente nell'indagine preliminare o nell'investigazione difensiva. Resta da stabilire
se la conclusione vale anche in rapporto alla sottrazione per libera scelta. Ovvero: P testimonia a
giudizio su quanto di decisivo per la colpevolezza dell'imputato Q gli ha confidato N. N chiamata a
deporre si avvale di facoltà di astensione come prossimo congiunto, oppure per libera scelta si
sottragga al contraddittorio. La colpevolezza dell'imputato non può ovviamente essere provata
sulla base delle dichiarazioni eventualmente rilasciate da N in indagine preliminari. Ma cosa fare
rispetto a quanto ha raccontato P? P non si sottrae al controesame, ma consentire la condanna
sulla base della testimonianza di quanto detto da N non equivale a consentirla sulla base delle
dichiarazioni di N, che però si è sottratto al contraddittorio? La sola via per rispondere
negativamente sarebbe sostenere che le dichiarazioni del criterio di valutazione sono solo quelle
costituite nel processo. Se N si è sottratto per libera scelta al controesame difensivo, la
colpevolezza non può essere provata in base alle dichiarazioni extra processuali di cui P si è fatto
testimone in via indiretta. Due soli limiti rispetto a questa conclusione: che la libera scelta non sia
dell'imputato stesso rispetto al fatto per cui è accusato (sarebbe semplice sottrarsi al proprio
esame per togliere efficacia probatoria a ogni dichiarazione resa al di fuori del processo). Il
secondo è che la colpevolezza non può essere provata assumendo come vere dichiarazioni
soggette all'alternativa vero/falso.
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CAP. 6: CIRCOLAZIONE DELLE PROVE FRA PROCESSI
In un sistema connotato dal contraddittorio in senso debole (contraddittorio sulla prova e non per
la prova), la circolazione delle prove da un processo all'altro non è un problema. È sufficiente che la
prova acquisita e il suo verbale vengano esibiti e sottoposti all'esame delle parti.
In un sistema come quello vigente fondato sul contraddittorio nella formazione della prova, la
prova altrove raccolta può essere acquisita in altro processo solo se la difesa dell'imputato contro
cui viene utilizzata aveva partecipato alla sua formazione, salvo eccezioni. È per questa ragione
che l'art. 238 cpp subordina l'utilizzazione delle prove raccolte aliunde (in altro processo) a due
vincoli:
– che si tratti di prove assunte nell'incidente probatorio o nel dibattimento: quindi regola di
esclusione probatoria per il materiale raccolto unilateralmente nelle indagini preliminari
(che in realtà non viene usato nemmeno nella fase dibattimentale del processo da cui
deriva, quindi perché usarlo ad quem)
– i verbali di dichiarazioni acquisiti da altro procedimento penale possono essere utilizzati
contro l'imputato solo se il suo difensore ha partecipato all'assunzione della prova: non è
una regola di esclusione ma un criterio di valutazione che vieta l'utilizzazione di
dichiarazioni che non siano state assunte di fronte a medesimo difensore dell'imputato. In
realtà il rapporto di identità non va riferito al difensore ma all'imputato: poco importa che
sia mutato il difensore, ma deve essere rappresentato il medesimo imputato.
L'art. 238 bis cpp va in sostanziale contraddizione rispetto alle regole appena enunciate. Afferma
infatti che le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della prova di fatto in
esse accertato.
Questa disciplina è in realtà severamente criticabile per due ragioni:
 attribuisce valore probatorio a un atto che in nessun caso dovrebbe esercitare tale efficacia: le
sentenze non sono prove, bensì atti che valutano la prova nella funzione decisoria di una
specifica controversia oltre la quale non provano nulla. I giudici sono sì liberi di leggere
qualsiasi sentenza e di sfruttarla come buon modello di argomentazione, ma un conto sono gli
spunti argomentativi, l’altro è pretendere di acquisire la sentenza in chiave probatoria.
 Acquisire una sentenza irrevocabile vuol dire valorizzare gli atti probatori su cui si fonda, anche
sono raccolti senza le garanzie previste per la circolazione di prove tra processi. Si realizza così
una sostanziale eversione dell’art. 238 cpp.
Si comprende quindi come sia ingiustificata la sopravvivenza della disposizione 238 bis. Non solo
perché se la sentenza irrevocabile è stata emanata in un rito negoziale si basa su atti
unilateralmente formati (quindi viola la disposizione 238 cpp), ma qualora anche fosse una
sentenza dibattimentale, difficilmente sarebbe fondata su atti assunti con la partecipazione della
difesa dell’imputato nel processo ad quem.
Gli atti del processo definito con sentenza irrevocabile restano solo formalmente utilizzabili, ma
nella sostanza esercitano la loro influenza nel processo in corso attraverso la sentenza irrevocabile
che li ha utilizzati.
In seguito alla questione dell’art. 238 bis cpp sollevata dal tribunale di Biella, la Corte
Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione della legittimità ribadendo la conformità
della norma. La sentenza costituzionale 29 del 2009 sull’art. 238 bis cpp, esordisce con una
digressione che in realtà propone rilievi non influenti sulla questione di legittimità costituzionale,
ma servono solo a disegnare la cornice su cui si collocava la riforma costituzionale.
L’argomentazione in merito alla legittimità si fonda su questi punti:
a) L’acquisizione è un momento distinto ma non autonomo dalla valutazione: certamente
esiste nesso di interdipendenza tra acquisizione e valutazione, in quanto tutto ciò che è
acquisito come prova deve essere valutato, e tutto ciò che viene valutato deve essere
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legittimamente acquisito al processo. Ma quale incidenza può avere ciò sul quesito di
costituzionalità? Sembra essere un modo della Corte di dirci che il regime di valutazione
della sentenza giustificasse o sanasse la sua acquisizione, ritenuta illegittima dal giudice di
merito. Mettere in ombra l’acquisizione per porre l’attenzione sulla valutazione appare
poco riuscito. In realtà l’art. 238 bis cpp prima di regolamentare la valutazione della
sentenza ne contempla l’acquisizione, ed è questo a porsi in contrasto con la regola del
contraddittorio. Sappiamo che una prova può essere acquisita a processo solo se formata
in contraddittorio (ci riferiamo ovviamente a prove costituite). Nessun limite alla
valutazione può compensare un vizio di illegittima acquisizione
b) Il contraddittorio sulla formazione della prova non ha senso in relazione all’acquisizione di
una sentenza: è vero che una sentenza non può essere certo formata in contraddittorio. Ma
questo non significa che dobbiamo considerarla alla pari delle prove precostituite al
processo, come documenti e cose pertinenti al reato. Innanzitutto perché la sentenza non
è una prova ma un atto di valutazione che abusivamente viene convertito in prova dall’art.
238 bis cpp. Acquisire una sentenza irrevocabile equivale a utilizzare, anche se mediate
dalla valutazione del giudice, le prove su cui essa si fonda, che ben di rado sono formate in
contraddittorio. Così si consuma la violazione dell’art. 111 coma 4 oltre che dell’art. 238
cpp. E non appare nemmeno sensata la sentenza della Cassazione secondo cui è escluso
che l’art. 238 bis possa consentire l’ingresso di elementi probatori la cui acquisizione
sarebbe esclusa per altre vie. Così dicendo, vuol dire che la sentenza irrevocabile può
essere valutata solo se sia fondata su prove che potrebbero entrare a processo secondo
l’art. 238 cpp. Ma questo, oltre alla difficoltà per il giudice di compiere tale indagine,
renderebbe di fatto la norma 238 bis cpp una norma inutile e inapplicabile, non essendoci
alcuna necessità di ricorrere alle altrui valutazioni per atti di cui il giudice può
legittimamente disporre. In realtà ciò che consulta e cassazione vogliono dirci è che
l’acquisizione della sentenza irrevocabile non autorizza il giudice ad acquisire e valutare gli
atti su cui essa si basa. Però a questo punto l’acquisizione della sentenza è un’eversione
dell’art. 238 cpp tutte le volte che è fondata su atti formati al di fuori del contraddittorio.
Che la pronuncia sull’art. 238 bis cpp rimanga un precedente isolato nell’interpretazione delle
regole del giusto processo lo lascia sperare una sentenza n. 197 del 2009 della Corte costituzionale
sull’art. 503 cpp, in sintonia con l’art. 111 Cost.
Con l’ordinanza 293 del 2002 la Corte aveva affermato che il 4 comma della legge Cost. 111 con cui
il legislatore ha dato formale riconoscimento al contraddittorio, esprime una regola generale di
esclusione probatoria, in base alla quale nessuna dichiarazione raccolta unilateralmente durante
le indagini può essere usata come prova, se non nei casi di consenso dell’imputato, di accertata
impossibilità di natura oggettiva di formare la prova nel contraddittorio, e di provata condotta
illecita. Veniva così resa giustizia e riconosciuta piena legittimità costituzionale all’art. 195 (divieto
di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria) e 500 (contestazioni valutabili solo per il
controllo sulla credibilità del testimone).
La stessa legge aveva lasciato immutato il comm 3 dell’art. 503 cpp secondo cui le dichiarazioni alle
quali il difensore aveva diritto di assistere assunte da pm o polizia giudiziaria sono acquisite al
fascicolo dibattimentale se sono state utilizzate per le contestazioni. L’uso di queste dichiarazioni
deriva dalla presenza del difensore, anche se in realtà è molto difficile che si siano formate in
contraddittorio e di solito la presenza del difensore è una presenza passiva. L’utilizzabilità di queste
dichiarazioni nei riguardi dei coimputati non avrebbe alcuna giustificazione in quanto ai difensori
non spetta analogo diritto di assistenza. Viene così nell’ordinanza del tribunale di Siracusa
eccepita la legittimità del comma 3 dell’art. 503 cpp rispetto alla parte in cui non prevede che
queste dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso.
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La corte Costituzionale dichiara infondata la questione di legittimità in quanto l’art. va interpretato
rispetto a quanto stabilito dall’art. cost. 111 comma 4: le dichiarazioni possono essere utilizzate per
quel che concerne la responsabilità dei coimputati ai soli fini di valutare la credibilità del
dichiarante, e salvo che i coimputati prestino consenso all’utilizzazione, secondo quanto sancito
anche dall’art. 500 comma 4 per cui una prova può dirsi formata in contraddittorio se vi partecipa
la difesa dell’imputato nei confronti del quale è utilizzato l’atto.
CAP. 7 LA PROVA NEI RITI NEGOZIALI
IL CONSENSO DELL’IMPUTATO E LA RINUNCIA AL CONTRADDITTORIO NELLA FORMAZIONE DELLA
PROVA
Il comma 5 dell’art.111 contempla il consenso dell’imputato fra le deroghe al contraddittorio nella
formazione della prova. La costituzione non vincola il legislatore a rendere sistematicamente
disponibile il contraddittorio, a decretarne la caduta ogni qualvolta lo chieda l’imputato: autorizza
a disciplinare l’ipotesi in cui il consenso dell’imputato determini una più o meno ampia acquisizione
di prove fornite unilateralmente. Nulla vieta al legislatore di convertire il consenso dell’imputato in
accordo tra le parti, come avviene per l’acquisizione concordata di atti contenuti nel fascicolo del
pm e della documentazione dell’attività di investigazione difensiva. Si sa che l’acquisizione
concordata di atti può spingersi sino all’accettazione in blocco dell’intera indagine del pm: il rito
ordinario si trasforma in una sorta di rito abbreviato dove il premio non formalizzato dipende
interamente dalla discrezionalità del giudice (talvolta giudice invoglia all’accettazione promettendo
benefici che però consistono in un abuso).
A differenza del patteggiamento, che costituisce un modello anticognitivo in cui la pena è applicata
in base al consenso o alla richiesta dell’imputato senza accertamento di responsabilità, il rito
abbreviato è un processo cognitivo-inquisitorio dove l’imputato chiede di essere giudicato sugli atti
dell’indagine preliminare, e di fronte alla rinuncia al contraddittorio ottiene pena ridotta di un
terzo. Quindi rito inquisitorio perché gli atti delle indagini sono formati unilateralmente, ma
cognitivo perché la condanna esige la prova dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Il codice definisce il
rito abbreviato come un giudizio allo stato degli atti: ossia in base al materiale probatorio raccolto
fino a quel momento. Ne deriva che l’imputato, se conosce gli atti in rapporto ai quali è disposto il
rito abbreviato, non conosce gli atti su cui sarà giudicato. La vaghezza della formula rende possibile
ogni accertamento ritenuto utile e compatibile con le finalità processuali tipiche del rito
abbreviato. Così facendo però la decidibilità allo stato degli atti diventava quasi una condizione di
ammissibilità del rito abbreviato, con il giudice autorizzato a rifiutare il rito quando ritenesse il
processo non maturo per una decisione. Questo tuttavia determinava una disparità: l’imputato
raggiunto da gravi indizi di colpevolezza poteva accedere facilmente al rito negoziale, mentre vi
resta escluso in caso di quadro probatorio incerto. Il paradosso per ottenere il rito era confessare il
fatto reato determinando così la decidibilità. La riforma del giudice unico ha riconosciuto
all’imputato il diritto di ottenere l’abbreviato in modo incondizionato, ma di contro ha riconosciuto
al giudice un potere istruttorio che lascia l’incognita all’imputato rispetto al materiale probatorio.
PROBLEMI DI INCOSTITUZIONALITA’ DEL PATTEGGIAMENTO
Estesa a cinque anni la pena applicabile su richiesta delle parti, il patteggiamento è ormai in grado
potenzialmente di definire il novanta per cento delle imputazioni. Il fatto che il patteggiamento sia
anticognitivo non corrisponde a una sua anticostituzionalità e illegittimità. E nemmeno avvalora
l’idea che debba essere utilizzato solo per reati minori. Quindi era prevedibile l’esito negativo della
questione di legittimità sollevata da un giudice di merito secondo cui l’estensione del
patteggiamento avrebbe ridotto il sistema processuale penale a un luogo di negoziazione che
svilisce la funzione giurisdizionale. In realtà la questione faceva riferimento ad un altro profilo di
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illegittimità: l’art. 111 al comma 5 prevede la rinuncia al contraddittorio nella formazione della
prova, ossia a un metodo di accertamento, non all’accertamento stesso. In realtà nel
patteggiamento a mancare è proprio l’accertamento. La conclusione della Corte Costituzionale di
carattere quasi deduttivo individua che la Costituzione copre esclusivamente il rito abbreviato, ma
non il patteggiamento. Dichiarare però illegittimo il patteggiamento, dopo questa evidenza, era
pressoché impensabile. Quindi come conciliare questo rito con il precetto costituzionale che
sembra esigere l’accertamento? Eludendo l’interrogativo posto dal giudice di merito nella
ordinanza di rimessione, in quanto vago. Il problema però, nonostante l’interrogativo vago,
permane. Il rischio è che per salvaguardare il patteggiamento si giunga ad affermare che,
applicando la pena negoziata, si accerti la colpevolezza dell’imputato. Il limite sull’illegittimità del
patteggiamento potrebbe essere contenuto nella volontà dell’imputato di accordarsi con la
controparte nell’applicazione della pena.
CAP. 8 IL CONTROLLO SULLA MOTIVAZIONE
IL CONTROLLO SULLA MOTIVAZIONE IN APPELLO
Nella parte relativa al giudizio di fatto la motivazione della sentenza riflette la struttura triadica
della prova: premesse probatorie (indicazione delle prove), proposizione da provare (il fatto
attribuito all’imputato), e le ragioni per cui il giudice ritiene di affermare o negare le seconde sulla
base delle prime. Per le sentenze e le ordinanze la motivazione è prescritta pena nullità. La nullità
riguarda solo i casi in cui manca fisicamente o è illeggibile. La mancanza in senso logico determina
invece un vizio di motivazione destinato a convertirsi in motivo di appello o di ricorso in cassazione
ai sensi dell’art. 606 cpp (mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione)
Vi sono differenze a seconda che il vizio di motivazione sia invocato in appello o in cassazione:
- In Appello il giudice decide sui punti della sentenza impugnati con gli stessi poteri del
giudice di primo grado. A fronte della denuncia di vizio di motivazione conferma o riforma
la sentenza impugnata, disponendo se occorre la rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale. E poiché la conferma o la riforma ha per oggetto il dispositivo e non la
motivazione, può accadere che il giudice convalidi la decisione ma dissenta dalle ragioni
esposte a suo sostegno. Quindi conferma che la sentenza è viziata nella motivazione.
L’obbligo di motivazione nel giudice di appello sarà particolarmente rigoroso quando
intende riformare la sentenza impugnata, specie se vuole sostituire una assoluzione in una
condanna. Bisogna stabilire se è obbligatorio in questi casi rinnovare l’istruzione
dibattimentale o meno, e la Corte Europea lo ha ritenuto necessario.
- in Cassazione il giudice è privo di potere istruttorio e decide sui motivi addotti dalla parte.
A dispetto del luogo comune che individua nella Cassazione il giudice del solo diritto, l’art.
606 cpp riguarda i vizi di motivazione in fatto. Questo non significa che il giudice di
Cassazione sia giudice di fatto alla stregua di quelli del primo e del secondo appello. I teorici
della Cassazione come giudice di puro diritto si richiamano all’art. 111 comma 7 secondo
cui il ricorso deve essere fatto per violazione di legge. È questo però un discorso
inconsistente. Il livello posto è il livello minimo, non massimo: il legislatore resta libero di
superarlo estendendo il controllo della Cassazione anche a questioni di fatto. Oggi è
pressoché impossibile non ipotizzare un vizio di motivazione che non sia anche una
violazione di legge. Quindi ad oggi la disciplina apre quasi interamente alla ricostruzione del
fatto.
L’ART. 606 COMMA E CPP
L’art. 606 lett.e) c.p.p. include nel vizio di motivazione tre ipotesi (mancanza, contraddittorietà, o
manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento
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impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame)
- mancanza di motivazione: è un’espressione doppiamente ingannevole. Induce a ritenere
che anche la mancanza fisica della motivazione (o l’ipotesi a essa equivalente di
motivazione illeggibile) siano denunciabili, quando sappiamo che sono invece nulle.
- Contraddittorietà: veicola un concetto già incluso nella manifesta illogicità di cui è
sottospecie (un’affermazione contraddittoria è manifestamente illogica, ma non il
contrario)
- Manifesta illogicità: non alludendo solo alle fallacie della logica formale, sarebbe stato
preferibile parlare di irragionevolezza. Infelice è soprattutto l’aggettivo manifesta, che
condurrebbe a ritenere denunciabili solo le illogicità decifrabili a prima vista, restano quindi
irrilevanti quelle abilmente dissimulate.
La seconda parte della lett.e) ha il merito di rimediare al limite che subordinava il vizio di
motivazione alla circostanza che risultasse dal testo del provvedimento impugnato. Aggiungendo la
clausola ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame è volta a
consentire la denuncia di vizi risultanti dal raffronto tra la motivazione e gli atti del processo (es.
non considerazione di una prova). L’errore consiste però nel termine gravame: in nessun modo il
ricorso è qualificabile come gravame. Il ricorso è un’azione impugnativa, mentre è l’appello a
essere intermedio tra azione impugnativa e gravame. La Cassazione in presenza di vizio di
motivazione annulla con o senza rinvio la sentenza impugnata. L’annullamento però non implica
che la sentenza sia nulla (ipotesi limitata alla mancanza fisica di motivazione): quando
l’annullamento è senza rinvio equivale a una sentenza di proscioglimenti. Con rinvio fa riferimento
ai limiti del giudizio della Cassazione alla quale sono interdetti nuovi accertamenti sul fatto, e
quindi anche un’eventuale pronuncia di condanna.
I vizi della motivazione su cui si esercita il controllo della Cassazione, possono essere ricondotti a 3
grandi categorie (vizi sulle premesse probatorie, sulle proposizioni da provare, sull’atto del
provare).
VIZI RELATIVI ALLE PROPOSIZIONI PROBATORIE
Sono i vizi concernenti gli enunciati che descrivono i dati dell’evidenza empirica legittimamente
acquisiti al processo (le prove). Le ipotesi tipiche in merito a questi vizi sono due: l’incompleta o
l’erronea formulazione delle proposizioni probatorie. L’incompleta si verifica quando il giudice ha
omesso di valutare prove legittimamente acquisite o non abbia assunto prove decisive richieste
dalle parti. Per la seconda ipotesi, ossia l’erronea formulazione delle proposizioni probatorie, si
verifica quando il giudice si avvale di prove illegittimamente acquisite o di prove il cui contenuto
non corrisponde a quello risultante dagli atti del processo (es. il giudice assume che il teste abbia
dichiarato X, ma dagli atti risulta Y).
La possibilità di includere nel vizio di motivazione anche il contrasto con gli atti del processo ha
avuto realizzazione con la riforma dell’art. 606 comma e). questo però ha visto molte resistenze da
parte della magistratura. La Cassazione ha avuto orientamento nel complesso restrittivo in merito,
volto ad arginare in qualche modo l’inflazione dei ricorsi. La giurisprudenza ha espresso due linee
interpretative:
- L’indirizzo minoritario della Sezione V: in alcune sentenze emerge come la Sezione neghi
ogni portata innovativa alle modifiche introdotte nella lett. e) dell’art.606 (n.b. mancanza,
contraddittorietà, o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo
del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei
motivi di gravame). L’espressione altri atti del processo non aprirebbe l’accesso agli atti
probatori, ma alluderebbe solo al potere della Corte di confrontare i motivi di appello, le
memorie e le richieste difensive, con l’esame che ha compiuto il giudice di merito.
Affermare che il divieto di accesso agli atti probatori permanga anche dopo la Riforma
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-
Pecorella è un’arbitraria forzatura delle formule legislative. L’attuale versione dell’art.606
lett.e) cpp con atti del processo include necessariamente gli atti probatori.
L’indirizzo maggioritario della Sezione VI: l’indirizzo maggioritario è guidato da due
sentenze della Sezione VI. Queste riconoscono che, in seguito alla nuova legge, il controllo
di legittimità si estende anche alla mancata valutazione e al travisamento di prove.
Stabiliscono però, prendendo spunto dall’inciso atti specificamente indicati nei motivi di
gravame quattro condizioni a cui deve uniformarsi il ricorrente che lamenta vizio di
motivazione risultante dagli atti del processo:
o Identificare l’atto processuale a cui il ricorrente fa riferimento
o individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che emerge da tale atto e che
risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dalla sentenza impugnata
o Dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato e
della sua esistenza dell’atto su cui tale prova si fonda: mentre è ineccepibile che il
ricorrente debba provare l’esistenza degli atti che invoca, risulta meno chiaro cosa si
intende con prova della verità. Se con prova della verità si allude alla loro presenza
negli atti del processo, il concetto è già contenuto nella seconda parte della
condizione. se alludesse a una prova della veridicità ad esempio della testimonianza
sarebbe assurdo che la parte debba provare. Il giudice di merito non era vincolato a
ritenere attendibili quelle prove. Ma se il ricorrente documenta che le ha ignorate o
travisate, pur essendo regolarmente acquisite e utili ai fini decisori, non ha senso
imporre altro onere per il ricorrente
o Indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette la tenuta logica e la coerenza
interna della motivazione, introducendo radicale incompatibilità all’interno
dell’impianto argomentativo impugnato: non è sufficiente che gli atti del processo
invocati dal ricorrente siano contrastanti con alcuni accertamenti e valutazioni del
giudice o rispetto alla ricostruzione complessiva dei fatti. Occorre che gli atti del
processo su cui fa leva il ricorrente siano autonomamente dotati di forza
esplicativa e dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero
ragionamento del giudicante, e rendano così incongrua o contraddittoria la
motivazione.
Quindi appare evidente che non è il semplice divario tra premesse probatorie e atti del
processo a determinare l’annullamento della decisione impugnata. Occorre che questa
contraddittorietà si ripercuota sullo sviluppo argomentativo della decisione. L’onere della
prova grava sul ricorrente. Essendo la Cassazione chiamata a decidere direttamente sui
motivi di ricorso, e non sui punti della decisione a cui si riferiscono i motivi (appello), è
onere del ricorrente enunciare compiutamente le ragioni che giustificano l’annullamento
del provvedimento impugnato. È possibile che sia dichiarato inammissibile il ricorso,
qualora non emergano con sufficiente chiarezza le ragioni per l’annullamento. È il
cosiddetto principio di autosufficienza del ricorso: quando il vizio di motivazione consiste
nel travisamento o nella mancata valutazione della prova, quest’ultima deve essere
riportata nell’atto del ricorso, insieme alle altre ragioni che rendono la prova incompatibile
con la decisione assunta dal giudice, a pena di inammissibilità. Quindi a questo punto la
corte accede agli atti, e spetta alla corte verificare che quello che si assume nel ricorso
corrisponda alla verità. La Corte non accede agli atti quando il ricorrente non documenta
adeguatamente il vizio di motivazione: automaticamente il ricorso diventa inammissibile
per infondatezza dei motivi.
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VIZI RELATIVI ALLE PROPOSIZIONI DA PROVARE
Nell’ambito delle proposizioni da provare bisogna ripetere la distinzione tra proposizioni finali
(quelle già individuate dal legislatore come oggetto di prova) e proposizioni intermedie (in cui si
articola la sequenza probatoria): la proposizione provata da certe prove può infatti diventare
premessa probatoria di una nuova proposzione da provare (la forza probatoria scema al crescere
dei passaggi). Seconda distinzione è quella tra proposizione principale (rappresentata dalla
colpevolezza) e proposizioni incidentali (altri temi di prova su cui il giudice deve decidere, come i
pericula libertatis nei provvedimenti cautelari, o la condotta illecita, o i gravi indizi di reato nelle
intercettazioni di conversazioni).
Sul tema della colpevolezza fin dall’atto di imputazione devono essere distinte la componente
storica (definita nelle sue coordinate spazio-temporali) e la componente giuridica (che afferma la
riconducibilità della proposizione fattuale alla norma incriminatrice).
Per gli errori nella qualificazione giuridica del fatto la disposizione di riferimento è la lett.b) art.606
cpp. Quanto alla componente storica, la mancata correlazione tra accusa contestata e la sentenza
(tra proposizione da provare e quella che si afferma provata, è fonte di nullità ex art. 522 cpp, e
pertanto va eccepita pur risultando dalla motivazione. Tuttavia, per i provvedimenti conseguenti
alla rivelazione della nullità, occorre fare una distinzione: se il fatto è nuovo rispetto a quello
contestato, allora la Cassazione pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio. Se invece
riguarda un fatto diverso da quello contestato, allora sentenza di annullamento con rinvio.
È anche causa di nullità dell’atto di accusa la mancata enunciazione, in forma chiara e precisa, del
fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di
sicurezza.
Rispetto ai temi incidentali occorre identificare con chiarezza le proposizioni da provare.
Particolare attenzione riveste il tema delle misure cautelari coercitive. Sul versante delle esigenze
cautelari, le proposizioni da provare sono i pericula libertatis (pericolo di fuga, inquinamento delle
prove, recidiva), che vanno provati al di là di ogni ragionevole dubbio. Sul versante invece del
fumus boni iuris, i gravi indizi non fungono da premesse probatorie rispetto alla proposizione da
provare che è la colpevolezza. Sono loro stessi la proposizione da provare intesa come probabile
colpevolezza.
VIZI RELATIVI ALL’ATTO DEL PROVARE: IL CONTROLLO SULLA REGOLA DELL’OLTRE OGNI
RAGIONEVOLE DUBBIO
L’atto del provare contrassegna il passaggio dalle premesse probatorie alla proposizione da
provare. I vizi riguardano i casi in cui pur essendo correttamente espresse sia le premesse
probatorie che la proposizione da provare, la proposizione non discenda dalle premesse, non sia
da esse adeguatamente giustificata. La consequenzialità della motivazione non deve essere
valutata sul metro del settore deduttivo, ma secondo i criteri del settore abduttivo dove la
conclusione è sottodeterminata dalle premesse. Se le prove valutate in sentenza non giustificano le
conclusioni ivi raggiunte, la motivazione non può che essere insufficiente, contraddittoria, illogica.
Questo però non significa che la Cassazione debba sostituirsi al giudice di merito rigormulando il
giudizio espresso da costui. Esistono i casi limite (i cosiddetti casi difficili), in cui il giudice si trova
investito di potere discrezionale, che di fatto pone limiti al controllo della Cassazione. Compito del
giudice di legittimità è accertarsi che il giudice di merito non abbia travalicato i limiti della
discrezionalità. Il giudice di Cassazione (a differenza di quello di merito e di appello), non deve
chiedersi se lui nelle vesti del giudice di merito avrebbe assolto o condannato. Se il giudice di primo
e secondo grado hanno come oggetto la ricostruzione del fatto attribuito all’impuato, con la
possibilità che in appello il giudice rinnovi un autonomo giudizio sulla prova, quello di Cassazione è
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un meta-giudizio che riguarda le argomentazioni svolte bella sentenza impugnata sindacabili sotto
il profilo di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
CAP. 9 PROVE ILLEGITIMAMENTE ACQUISITE
Quali sono le conseguenze per i vizi del procedimento probatorio? In presenza di un divieto di
ammissione, la prova che sia stata eventualmente acquisita è giuridicamente inesistente. Non c’è
nemmeno bisogno di una specifica previsione di nullità o altro vizio processuale, se la prova è
vietata dalla legge non può essere assunta, e l’atto compiuto in assenza di potere è
processualmente irrilevante. Discorso diverso invece per le modalità di formazione di una prova
ammissibile. Occorre che la legge indichi espressamente le conseguenze derivanti dalla violazione
delle forme prescritte: inutilizzabilità, nullità assoluta, relativa, o di genere intermedio. Nel silenzio
del legislatore si è di fronte a una mera irregolarità che non incide sull’idoneità dell’atto a produrre
l’effetto tipico: una legge che contempla i requisiti di un atto deve contemplare anche la
conseguenza processuale di una loro assenza.
Occorre interpretare l’arti. 191 cpp secondo cui le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti
dalla legge non possono essere utilizzate. Dipende tutto dal significato dato alla parola acquisire.
Può essere intesa in due modi:
- Ammesse: se viene intesa come ammesse (ed è questa l’interpretazione preferibile), il
senso della disposizione è ribadire che la violazione dei divieti di ammissione della prova
implica l’inutilizzabilità, l’irrilevanza processuale della prova. Per quanto riguarda invece la
violazione di altre regole diverse dai divieti probatori, l’atto è invalido se è espressamente
previsto dalla legge, altrimenti è semplicemente irregolare ma idoneo a produrre i suoi
effetti.
- Ottenute: se intendiamo acquisite come ottenute, l’inutilizzabilità viene a sanzionare
qualsiasi vizio del procedimento probatorio, indipendentemente dal fatto che sia attinente
all’ammissibilità della prova o alla modalità di formazione. Così dicendo, l’art. 191 cpp
assumerebbe una notevole rilevanza, ma la perderebbero tutte quelle specifiche previsioni
di inutilizzabilità in materia probatoria.
Le conseguenze delle due tesi si rendono evidenti in due settori:
- Se acquisite significa ammesse, le cose pertinenti al reato rinvenute durante una
perquisizione illegittima, condotta in violazione delle regole che la disciplinano, possono
essere validamente sequestrate e usate come prova nel processo, fermo restando che
qualsiasi abuso sarà sanzionato dalle regole disciplinari. La regola di ammissione del
sequestro è contenuta nell’art.253 cpp che attribuisce all’autorità giudiziaria il potere di
disporre del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento
dei fatti. Quindi indipendentemente dalla modalità con cui l’autorità giudiziaria è entrata
nella disponibilità degli oggetti. Il Teste che durante la sua testimonianza riveli un segreto
d’ufficio o un segreto professionale si espone a sanzione penale, ma la sua deposizione
processualmente costituisce un atto valido utilizzabile in chiave probatoria. Infatti ai sensi
dell’art. 200 cpp i teste non possono essere obbligati a deporre sul segreto professionale,
salvo casi in cui hanno obbligo di riferire all’autorità giudiziaria. Se di fronte all’astensione
venisse fatta coercizione allora la dichiarazione sarebbe inutilizzabile. Ma di fronte a
deposizione spontanea la deposizione è legittimamente acquisita. Più complesso il discorso
sul segreto d’ufficio che a norma dell’art. 201 cpp salvo i casi di obbligo di riferire
all’autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, impiegati e incaricati di pubblico servizio hanno
l’obbligo di astenersi dal deporre. Così detta potrebbe apparire un divieto probatorio, ossia
l’assenza di un potere del giudice a assumere la loro testimonianza. L’obbligo del teste di
astenersi dal deporre è penalmente sanzionato, ma non è incompatibile con il potere del
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giudice di assumere la sua deposizione. Quindi se il teste decide liberamente di deporre,
nonostante l’obbligo di astenersi, la sua testimonianza è validamente assunta.
Opposte alle precedenti sarebbero le considerazioni nel caso in cui acquisite venisse inteso
come ottenute. Secondo qualcuno la lettura di acquisite come ottenute trova conferma
nell’art. 185 cpp secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che
dipendono da quello dichiarato nullo. Quindi applicando questa regola si conclude che
l’illegittimità della perquisizione contaminerebbe il sequestro perché dipendente dalla
perquisizione. Innanzitutto però sappiamo che in giurisprudenza non parliamo di dipendenza
causale ma giuridica. Il sequestro può essere consequenziale alla perquisizione, ma nessuna
norma li vincola. (es. americano frutti dell’albero avvelenato).
Resta da individuare il rapporto tra prove e decisioni. Dovrebbe essere evidente che non ha senso
definire nulla una sentenza che ignora o travisa prove legittimamente acquisite, che valuti prove
nulle, inutilizzabili o materialmente nulle. Se fossero nulle allora il giudice in appello dovrebbe
annullare la sentenza ordinando la regressione in primo grado. Epilogo assurdo, perché invece
questo tipo di situazione va a ricadere in un vizio di motivazione sindacabile in appello, in cui il
giudice di appello dopo aver rinnovato l’atto nullo o inutilizzabile, valuterà il materiale
legittimamente acquisito al processo (escludendo l’atto viziato e includendo quello ignorato), e a
seconda dell’esito riformerà o confermerà la sentenza impugnata.
Rispetto al ricorso in Cassazione l’alternativa è tra il rigetto nel caso in cui dalla stessa motivazione
risulti che la prova non ha influito sul giudizio; oppure annullamento con o senza rinvio, non perché
sia nulla ma per i limiti posti al potere decisorio in Cassazione.
L’inutilizzabilità è insanabile ed è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato del processo, mentre la
nullità a date condizioni può essere sanata.
CAP.10 PROVA E CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
RAPPORTI TRA COSTITUZIONE, CONVENZIONE EUROPEA E LEGGE ORDINARIA
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo detta in materia probatoria una
serie di principi e regole che sono state recepite dal nuovo comma 3 dell’art. 111. Restano però
delle rilevanti differenze tra i due testi, per effetto dei quali bisogna definire i rapporti tra
Costituzione e Convenzione europea e tra convenzione europea e codice di rito.
- La normativa della Costituzione europea, pur non assimilabile a quella della Costituzione,
assume rilievo costituzionale in forza dell’art. 117 comma 1 Cost, con la conseguenza che
nel contrasto tra leggi interne e Convenzione, si applica la legge interna ma con il giudizio di
legittimità da parte della Corte Costituzionale
- Il giudice comune deve interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione
internazionale, entro i limiti del testo della norma. Qualora non sia possibile deve chiedere
l’intervento della Corte costituzionale che deve esprimersi sulla legittimità
- Lo scrutinio di legittimità costituzionale fatto dalla Corte deve essere condotto in modo da
verificare se:
o Effettivamente c’è contrasto interpretativo tra la norma interna e le norme della
Convenzione, per come sono interpretate dalla corte europea, e assunte come
parametro integratore di costituzionalità
o Se le norme della convenzione invocate a integrazione del parametro di
costituzionalità, nell’interpretazione a esse date dalla Corte Europea, siano
compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano.
La Corte Costituzionale dichiarerà illegittima la legge ordinaria se è effettivamente insanabile il
contrasto con le norme della convenzione, a meno che non siano le norme della convenzione a
essere in conflitto con l’ordinamento italiano.
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Ipotetici contrasti tra codice di procedura penale e Convenzione Europea
In virtù dell’assimilazione delle garanzie dell’art. 6 della Convenzione Europea sono state recepite
nell’art. 111 della costituzione, è difficile che in materia probatoria una norma del codice penale
contrasti con la convenzione senza contrastare con la costituzione.
La differenza più vistosa tra Costituzione e Convenzione è che la Convenzione non menziona
esplicitamente la regola del contraddittorio nella formazione della prova, e quindi non accenna
nemmeno alle eccezioni (consenso dell’imputato, impossibilità oggettiva, provata condotta
illecita). Questo però non significa che i due testi siano in contrasto, in quanto la regola del
contraddittorio emerge implicitamente nella Convenzione parlando di diritto a controinterrogare i
testi dell’accusa. Il diritto al controesame è poi rinunciabile col consenso della parte, quindi
individuiamo anche la presenza delle eccezioni.
Nel vaglio della legittimità e della conformità delle nostre disposizioni processuali a quelle della
Convenzione bisogna tenere conto degli indirizzi della Corte di Strasburgo, chiamata ad accertare
nei singoli processi la violazione di norme convenzionali. Finora non risulta che la corte abbia mai
censurato in materia probatoria una disposizione del nostro codice di rito.
Sono stati ipotizzati almeno quattro possibili contrasti tra il nostro sistema processuale e la
Convenzione:
- Il contrasto tra la regola che nega valore probatorio alle precedenti dichiarazioni contestate
al testimone e la Convenzione che lo ammette
- Il contrasto tra l’art.512 cpp che riconosce valore probatorio alle dichiarazioni rese da testi
rimasti assenti nel dibattimento mentre la Convenzione subordina il valore alla circostanza
che non costituiscano prova esclusiva
- Il contrasto tra l’art.521 cpp che autorizza il giudice a dare al fatto definizione giuridica
diversa da quella enunciata nell’imputazione, mentre la Convenzione europea subordina il
mutamento al contraddittorio con la difesa.
- Il contrasto tra l’art. 603 cpp che in appello consente la rinnovazione del dibattimento solo
in casi eccezionali e la Convenzione che invece esige la rinnovazione del dibattimento
quando il giudice riforma l’assoluzione in condanna sulla base della diversa valutazione
della prova dichiarativa.
DISCIPLINA DELLE CONTESTAZIONI AL TESTIMONE
Il contrasto con la Convenzione europea regge su un equivoco. Secondo la Corte europea, se
l’accusato ha avuto la possibilità di controesaminare i testi a carico, non costituisce violazione delle
regole convenzionali l’eventuale utilizzazione in chiave probatoria delle precedenti dichiarazioni
raccolte dagli organi inquirenti e contestate al testimone. Ma quello della Convenzione europea è
un limite minimo che non impone agli stati aderenti di poter convergere verso un limite massimo e
quindi dichiarare che on hanno valore probatorio le dichiarazioni contestate nel corso dell’esame. È
uno standard minimo.
In oggetto della Corte Europea è il singolo processo in cui il ricorrente ipotizza la violazione delle
regole convenzionali. Una volta individuata la violazione delle regole convenzionali in quel
processo specifico, non va a ipotizzare contrasti tra le regole convenzionali e la legge nazioanle.
Saranno i giudizi nazionali a individuare se questa valutazione sia stata fatta in seguito a un’erronea
applicazione della legge processuale o se è questa legge processuale a porsi in contrasto con la
convenzione. Occorre molta cautela prima di convertire le argomentazioni della Convenzione in
formule generali e categoriche, poiché l’interpretazione della Corte si ricava solo induttivamente.
Non solo, la Corte mette a confronto due entità eterogenee e molto distanti tra loro: da un lato i
principi della Convenzione disposizioni generali nella forma di fattispecie aperta, dall’altra vi è
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una pratica operativa, ossia il processo. Il gap tra la genericità dei principi e il paeticolarismo dei
processi è troppo altro perché le decisioni della Corte rappresentino una base solida e per estrarre
direttiva su cui conformare le leggi nazionali alla convenzione. La corte nell’accertare la violazione
dei principi tiene conto soprattutto di elementi specifici del caso, quindi è estremamente
dipendente dal contesto.
In merito alle dichiarazioni rese da testi assenti al dibattimento oggi regna grande confusione. A
livello costituzionale la disciplina è regolata sulla base della distinzione tra impossibilità oggettiva
(indipendente dalla volontà del testimone di sottrarsi al contraddittorio) e impossibilità soggettiva
(artificiosamente provocata). Nel caso di impossibilità oggettiva è consentita la valutazione in
chiave probatoria delle dichiarazioni già rese. Ma questo non significa che è possibile una
condanna disposta sulla loro base. Il giudice è solo autorizzato ad acquisirle e valutarle sul tema
della colpevolezza, che essendo provata al di là di ogni ragionevole dubbio difficilmente questa
conclusione sia raggiunta con un dichiarazione irripetibile come unica prova della colpevolezza
(non possiamo però escluderlo a priori). Se invece si tratta di impossibilità soggettiva, le
dichiarazioni già rese non sono valutabili ai fini della colpevolezza. Dobbiamo poi ulteriormente
distinguere se queste dichiarazioni sono state rese agli organi inquirenti o alla difesa. Se sono state
rese agli organi inquirenti allora applichiamo l’art. 111 comma 4 Cost che sancisce che la
colpevolezza non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera sclelta si è
sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. Nel
secondo caso, non essendo operativo il criterio del teste che si sottrae all’interrogatorio del
difensore, si ricare nella regola di esclusione probatoria, le dichiarazioni restano processualmente
irrilevanti a ogni effetto.
La Convenzione Europea non contempla espressamente la regola del contraddittorio nella
formazione della prova e neppure le sue eccezioni. Si limita a prevedere il diritto della difesa
all’esame dei testi a carico (il controesame). Da qui l’interpretazione tende a leggere il diritto al
controesame come incondizionato, quindi le dichiarazioni rese al difuori del contraddittorio,
seppur irripetibili, non costituiscono materiale probatorio e devono restare irrilevanti ai fini del
processo. Se invece leggiamo il diritto al controesame come condizionato, allora è possibile l’uso
delle dichiarazioni irripetibili.
La Corte di Strasburgo ha sempre mostrato di propendere per la seconda soluzione. In alcune
sentenze però ha ridimensionato e attenuato il valore probatorio delle dichiarazioni irripetibili,
fissando un flessibile criterio di valutazione che vuole provata la colpevolezza oltre ogni
ragionevole dubbio.
O la colpevolezza è già provata indipendentemente dalla dichiarazione irripetibile, e allora
quest’ultima risulta superflua, o comunque non determinante. Se non è provata in assenza di
quella dichiarazione, allora questa appare determinante, come tutte le prove che hanno
contribuito a determinare la condanna. Ma evidentemente non è questa la nozione seguita dalla
Corte europea, che altrimenti avrebbe vietato radicalmente ogni dichiarazione irripetibile.
Determinante per come inteso dalla Corte Europea altro non è che una categoria connotata
quantitativamente dal peso della singola prova rispetto all’economia della decisione: è
determinante la prova che ha influito in maniera preminente sulla condanna, quella a cui ruota
intorno il discorso giustificativo della condanna. Nei fatti la categoria prova determinante si
avvicina molto al concetto di prova esclusiva, e la differenza sta nella circostanza: quella esclusiva è
isolata, mentre quella determinante è accompagnata da altri elementi.
INDIRIZZO DELLE SEZIONI UNITE: EQUIVOCI NELL’ESEGESI DELL’ART. 526 COMMA 1 BIS CPP
Preoccupata di garantire la conformità del nostro processo ai criteri della Corte europea è
intervenuta la giurisprudenza di legittimità che non ha evidenziato alcuna questione di
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costituzionalità, escludendo un contrasto tra la normativa interna e la CEDU.
Secondo la CEDU anche nel sistema italiano le dichiarazioni accusatorie predibattimentali rese al di
fuori del contraddittorio, anche se legittimamente acquisite, non possono da sole fondare la
colpevolezza. A tal proposito i giudici di legittimità indicano degli spunti offerti dal principio della
prova formata nel contraddittorio e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Il discorso appare
ragionevole ma c’è un punto che richiede approfondimento: le Sezioni unite osservano che i giudici
di merito avrebbero già dovuto applicare il criterio dell’art. 526 che vieta di affermare la
responsabilità dell’imputato esclusivamente sulla base delle dichiarazioni accusatorie
predibattimentali. L’utilizzo del termine esclusivamente però sembra far intendere che la
condanna sia vietata solo quando questa si formi unicamente su dichiarazioni rese da chi si è
sottratto al contraddittorio, con la conseguenza che se queste venissero rafforzate da altri elementi
allora sarebbero idonee a provare la colpevolezza. Se così fosse allora tutte le dichiarazioni
divenute irripetibili, anche rese da chi si è sempre sottratto al controesame per libera scelta,
potrebbero insieme ad altri elementi di prova formare una sentenza di condanna. Ovviamente non
è così.
Grave situazione di incertezza sulle regole procedurali riguarda il mutamento di qualifica giuridica
del fatto. Il nostro ordinamento richiede che ogni modifica del fatto sia previamente contestata
all’imputato sin dal primo grado di giudizio, ma si consente al giudice di mutare il nomen iuris
quando il fatto resti invariato.
La modifica della qualifica del fatto, senza obbligo di previa contestazione, viene solitamente
giustificato con il principio di iura novit curia, ma è una spiegazione inconsistente, un chiaro
esempio di fallacia dell’argomentazione di una conclusione diversa da quella pertinente. Il
contraddittorio riguarda sia il tema del fatto che quello del diritto, e perché possa correttamente
esercitarsi, ogni mutamento di qualifica deve essere comunicato alla difesa.
Perché allora il codice, che ha disposto la contestazione necessaria per la modifica del fatto, non lo
ha imposto anche per il nomen iuris? Presumibilmente per due ragioni:
- Difficoltà di carattere pratico legate alla circostanza che il mutamento di qualifica giuridica
si prospetta per lo più in camera di consiglio, e se fosse necessaria la contestazione il
giudice sarebbe costretto a regredire alla sede dibattimentale.
- Indubbia rilevanza che assume la modifica dell’accusa rispetto al fatto o alla qualifica
giuridica. Mentre la modifica del fatto, se non contestata, sfugge ad ogni controllo
difensivo, la modifica giuridica è in qualche modo prevedibile. E sembra scorretto postulare
un onere di difesa dell’imputato indipendentemente dalle qualifiche del fatto contestato.
La CtEDU sul tema è intervenuta censurando una sentenza della Corte di Cassazione che aveva
aggravato la qualificazione del fatto contenuta nella condanna impugnata. Come sappiamo la
CtEDU non decide in merito alle leggi ma ai singoli processi. Nella fattispecie la Cassazione aveva
sostituito alla corruzione semplice la corruzione in atti giudiziari. La Corte ha ritenuto violato il
diritto alla conoscenza dell’accusa, senza precisare a quali condizioni si debba ritenere subordinata
la modifica del titolo di reato. Il criterio della corte è quello di maggiore pregiudizio derivato dal
mutamento della qualifica giuridica. Resta incerto se, per il rispetto della Convenzione occorra:
- Che il nomen iuris sia contestato limitatamente al caso in cui abbia determinato un
concreto mutamento del fatto, fermo restando la possibile autonomia dei due profili (con la
vicenda che sarebbe effettivamente passata da corruzione semplice a atti giudiziari)
- Il diverso nomen iuris sia sempre contestato in quanto ogni modifica della qualifica
giuridica implica necessariamente un mutamento del fatto
- Il diverso nomen iuris sia sempre contestato, anche quando resta immutato il fatto
Il primo caso non andrebbe in contrasto col nostro ordinamento: si tratterebbe solo di interpretare
le disposizioni che regolano la correlazione tra accusa e difesa il giudice dispone con ordinanza la
trasmissione degli atti al pm se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che
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dispone giudizio ovvero nella contestazione”. Il secondo caso, costruito sulla interdipendenza tra
fatto e diritto, l’art. 521 diverrebbe una norma vuota ma applicabile in quanto non è irrealizzabile il
suo costrutto implicito, ossia la possibilità che il diverso nomen iuris non coinvolga il fatto.
Più complesso è il terzo caso per cui esistono tre letture. Una prima è che il mutamento di qualifica
deve essere contestato sin dal primo grado di giudizio. La seconda è che la diversa qualifica debba
essere contestata prima della sentenza di qualsiasi grado di giudizio. La terza ritiene sufficiente che
l’imputato abbia la possibilità di esplicare la sua difesa almeno una volta rispetto alla diversa
qualifica, anche posticipata in impugnazione (solo in Cassazione è prevista come indispensabile la
sentenza preventiva).
Ovviamente questi discorsi non riguardano solo l’aggravamento della qualifica giuridica, ma in linea
teorica anche in attribuzione di una qualifica meno grave.
CONDANNA IN APPELLO E RINNOVAZIONE DEL DIBATTIMENTO
Il codice prevede la riassunzione in appello di prove già acquisite in primo grado a due condizioni:
- A richiesta di parte, se il giudice ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli
atti
- D’ufficio se il giudice lo ritiene assolutamente necessario
In realtà sono due condizioni equipollenti, in quanto non si realizza l’una senza la realizzazione
dell’altra. Volendo è sempre possibile decidere allo stato degli atti, in quanto la regola impone
l’assoluzione in caso di mancanza di prova di colpevolezza. Ma proprio perché la legge stessa
ipotizza una impossibilità di decidere allo stato degli atti, l giudice può per questo chiedere la
riassunzione di una prova che ritiene decisiva.
Bisogna capire se l’attuale ordinamento è compatibile con la Convenzione europea.
Appare incongruo che una condanna possa essere inflitta in appello in seguito a un esame
puramente cartolare, volta a una diversa valutazione di prove che erano state assunte oralmente. È
vero che l’imputato ha esercitato il diritto alla prova in primo grado, ma in quella sede è stato
assoluto, mentre a condannarlo è un giudice che non è mai entrato in contatto con i testimoni e ne
reinterpreta le dichiarazioni. Quindi il minimo da pretendere è che le prove dichiarative su cui il
giudice d’appello riforma l’assoluzione, siano riassunte in quella sede se già acquisite in primo
grado. Si potrebbe obiettare che dovrebbe anche valere per la riforma assolutoria di una condanna
pronunciata in primo grado. Ma in realtà c’è una sensibile differenza tra l’appello dell’imputato e
quello del pm: mentre la conversione di una condanna in una assoluzione si può svolgere
attraverso attività demolitiva, la conversione di una assoluzione in una condanna implica attività
costruttiva pertanto è FONDAMENTALE il rapporto diretto con le fonti di prova.
L’INTERVENTO DELLE SEZIONI UNITE
A suggerire la rinnovazione in caso di riforma della sentenza assolutoria è a nostro avviso la regola
dell’oltre ogni ragionevole dubbio. A tal proposito si sono pronunciate le sezioni unite che hanno
sostenuto che l’affermazione della responsabilità dell’imputato pronunciata dal giudice di appello
su impugnazione del pm riformando una sentenza assolutoria fondata su prove dichiarative
decisive, delle quali non sia stata disposta rinnovazione integra un vizio di motivazione della
sentenza in appello per mancato rispetto della regola dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio.
Discutibile solo l limite relativo al termine decisive, sostituibile più semplicemente con rilevanti,
poiché altrimenti questa espressione vaga consegna al giudice discrezionalità. Evidentemente però
le sezioni unite si sono uniformate all’indirizzo della giurisprudenza europea sulla prova
determinante o decisiva.
CONDANNA IN APPELLO DEL PATTO INTERNAZIONALE SUI DIRITTI CIVILI E POLITICI
Il Patto internazionale sui diritti civili e politici recita che ogni individuo condannato per un reato ha
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diritto che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di
seconda istanza. Si intende che deve essere garantita, come in appello, la possibilità di denunciare
ogni errore di fatto e di diritto contenuti nella condanna. La Legge Pecorella aveva risolto il
problema stabilendo l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione visto che il patto internazionale
prevede solo il riesame dell’imputato rispetto alle condanne, e non alle impugnazioni del pm.
Questa parte è stata dichiarata incostituzionale.
LE INTERPRETAZIONI VINCOLANTI DELLA CORTE EUROPEA
La Corte Costituzionale nella motivazione delle sentenze gemelle ha affermato il carattere
vincolante delle interpretazioni della Corte Europea operate dalla corte di Strasburgo. Questo
assunto, unito alla diffcoltà di estrarre dalla giurisprudenza europea delle dirttive sul significato dei
precetti convenzionali, ha prodotto effetti negativi tra cui dubbi nell’interpretazione della
Costituzione. Talvolta è stata forzatamente adeguata l’interpretazione delle nostre leggi fino alla
disapplicazione.
La pretesa di carattere vincolante delle interpretazioni della Corte Europea appare eversiva dei
principi fondamentali che reggono il rapporto tra giurisdizione e legislazione. Queste sono le
ragioni:
- Non esiste alcuna disposizione nazionale o sovranazionale che attribuisca carattere
vincolante alle interpretazioni della Convenzione. La Corte Europea, pur essendo organo di
ultima istanza, non ha monopolio interpretativo della Convenzione come non lo ha la
cassazione rispetto all’interpretazione della legge. Nessuno nega che, rispetto alle questioni
in cui è investita, abbia competenza interpretativa né che spetti ad essa l’ultima parola. Il
problema il carattere dogmatico di questa competenza, che la stessa convenzione rifiuta.
- Le decisioni di ogni organo giurisdizionale vincolano rispetto a ciò che accertano. La corte
europea accerta se il singolo processo abbia violato o no le disposizioni convenzionali, ma
la loro interpretazione non ha efficacia giuridicamente vincolante.
- In regime di soggezione dei giudici alla sola legge, il parametro con cui si valuta la
correttezza dell’interpretazione è la conformità al testo interpretato, non quanto afferma
un giudice di vertice. Vincolanti sono i comandi, non la loro interpretazione.
- Se il carattere vincolante delle interpretazioni della Corte europea è compatibile con la
costituzione secondo le sentenze gemelle, allora perché non riconoscere la stessa efficacia
anche ai precedenti della Cassazione? In realtà il rimedio sarebbe peggiore del male,
perché ne uscirebbe vanificato il principio della soggezione del giudice alla sola legge. E in
questa situazione in cui il vincolo alla supremaziona delle giurisdizioni superiori e
all’interpretazione dei giudici di legittimità ridurrebbe ancora lo spazio al contraddittorio
sulle questioni di diritto.
PALINODIA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
La Corte Costituzionale, non ha ammesso l’errore rispetto alle sue interpretazioni, però ha
riconosciuto e compreso le conseguenze derivanti dal ritenere vincolanti le interpretazioni della
corte europea. In quanto da un lato il giudice di merito sarebbe cstretto a prendere come vangelo
qualsaisi parola contenuta nelle motivazioni delle pronunce europee. E dall’altro i giudici
costituzionali sarebbero privati dalle loro funzioni e ridotti solo a funzione ricognitiva.
La corte costituzionale non si è rassegnata al ruolo subalterno che si era attribuita con le sentenze
gemelle, e ha provveduto a relativizzare la vincolatività con una serie di riserve che restituiscono ai
giudici italiani autonomia interpretativa come previsto dal principio di soggezione alla sola legge.
Così ha inizio la palinodia della Corte Costituzionale.
Dapprima ha attenuato la rigidità dell’assunto originario sostenendo che l’obbligo di conformarsi
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alla giurisprudenza europea debba comunque rispettare la sostanza di quella giurisprudenza dove
per sostanza intende una rimodulazione.
Agli stati membri va riconosciuto un margine di apprezzamento al fine di favorire il loro
adattamento ai principi dei singoli stati. È un’affermazione però contradittoria, perché se
veramente le disposizioni della corte europea e della convenzione sono vincolanti, non potrebbe
spettare alcun margine di apprezzamento a nessun giudice.
Così facendo il giudice si trova investito di doppia discrezionalità: quella di ricostruire le
interpretazioni della convenzione disseminate nelle varie pronunce della corte, e quello del
margine di apprezzamento.
Infine viene posto dalla Corte Costituzionale un nuovo e significativo limite: la Corte Europea
svolge funzione interpretativa in virtù di un confronto ermeneutico che coinvolga la comunità degli
interpreti. Ma è errato e in contrasto con quanto detto pensare che il giudice nazionale debba
spogliarsi della funzione che riveste, tenendo conto che il giudice riceve indicazioni delle regole da
applicare in giudizio solo dalla legge e non da nessun’altra autorità.
A queste premesse però non segue coerenza nelle conclusioni, dove la Corte relativizza i principi
appena affermati e afferma che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento solo un diritto
consolidato generato dalla giurisprudenza europea. Questo pone l’ulteriore difficoltà di
comprendere non solo quali sono gli indirizzi dei giudici europei, ma anche se sono consolidati.
Invece di costringere il giudice interno a chiedersi se la giurisprudenza europea sia o no
consolidata, se lo è rispettarla nella sostanza ma con margine di apprezzamento, non sarebbe puù
semplice limitarsi a dire che la Convenzione va interpretata tenendo conto degli indirizzi della
Corte Europea? Si eviterebbe la tensione con principio di soggezione del giudice alla sola legge.
CAP. 11 PROVA SCIENTIFICA E NEUROSCIENZE
La progressiva influenza della prova scientifica e la marginalizzazione della prova dichiarativa sono
i connotati più significativi dell’attuale processo penale. Sarebbe assurdo opporsi a strumenti di
indagine come DNA, intercettazioni, che forniscono un contributo prezioso e spesso decisivo, oltre
che assai meno fallibile della prova testimoniale, che sempre di più viene intesta non come proba
ma come un mezzo che sta in luogo alla prova, che la supplisce quando non vi sono solide
evidenze.
Importante è che la prova scientifica, quando entra a processo, rispetti le regole del contraddittorio
e dell’esigenza che la prova scientifica sia resa accessibile al giudice e alle parti pena il rischio che la
sentenza non sia altro che una recezione di sclete altrove deliberate. Il paradosso sta proprio nella
elevata attendibilità della prova scientifica, che dà al giudice la sensazione di assoluta obiettività. In
alcuni reati (test etilico per la guida in stato di ebbrezza ad esempio), la colpevolezza non sta tanto
nell’aver compiuto il fatto previsto dal codice penale, ma nella presenza di prove ritenute segno
inequivocabile e necessario. Si crea cortocircuito tra reato e prova che liquida la possibilità di
controargomentazioni. Però sappiamo che la scienza è tutt’altro che infallibile, e che l’evoluzione si
svolge proprio attraverso la falsificazione. Arrestarsi acriticamente davanti a un’evidenza ritenuta
inconfutabile è un errore.
IL METODO SCIENTIFICO: PROBLEMI, TEORIE, CRITICHE
Di metodo scientifico nel processo penale si può parlare da un duplice punto di vista: in generale,
come metodo funzionale a giusta decisione, in particolare, come metodo di cui si avvalgono periti
e consulenti oltre che il giudice per questioni di carattere tecnico. Per metodo scientifico
intendiamo proprio un protocollo di operazioni per ottenere un risultato (metodo) con mezzo
idoneo al fine conoscitivo (scientifico). Paradosso: se il metodo è scientifico solo in quanto
garantisce una conoscenza indubitabilmente certa, allora il metodo scientifico non esiste, o esiste
solo nelle scienze formali, perché in scienze come le scienze della natura o umane non esiste
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l’indubitabilità. E la fallibilità è il mezzo per l’accrescimento di conoscenza a cui le conclusioni
giungono partendo dalle premesse che non le contengono. Riconosciuta la fallibilità di ogni
procedura, si può convenire sull’esistenza di un metaparadigma, un modello generale di metodo
scientifico capace di assicurare razionalità. Questo modello, valido per ogni scienza, implica 3
passaggi, secondo l’elaborazione di Popper: problemi-teorie-critica. Passaggio cruciale è quello
relativo alla critica della teoria. La critica non è volta alla verificazione della teoria, ma alla sua
falsificazione. Se la teoria elaborata resiste a una serie di controlli falsificatori allora è corroborata e
può essere provvisoriamente accolta. Altrimenti la teoria è respinta. Anche il falsificazionismo
presenta una serie di problemi:
- Gli enunciati che rappresentano il materiale di falsificazione sono comunque impregnati di
teoria, non puri. E anche questa teoria dovrebbe essere sottoposta a falsificazione e così
all’infinito. Quindi anche i dati empirici non sono giudice imparziale, perché sono
influenzati da una teoria di riferimento. Occorre evitare che siano influenzati però dalla
stessa teoria, altrimenti si cade in un meccanismo circolare in cui parti della teoria vengono
usate nella conferma di altre.
- Tesi di Duhem-Quine: la falsificazione di una proposizione isolata è inattuabile, perché
nessuna proposizione teorica affronta da sola la prova dell’esperienza. Questo perché ogni
ragionamento sperimentale regge su una serie di proposizioni ausiliarie che, insieme
all’enunciato sottoposto a controllo, servono a identificare eventuali falsificatori. Lo
scienziato interessato a difendere il nucleo della propria teoria, può indirizzare la
falsificazione verso una delle proposizioni ausiliarie e correggere il tiro.
Sono critiche dal peso rilevante, ma non incidono sulla svolta segnata dal falsificazionismo.
L’epistemologia deve prendere atto del suo fallimento come impresa fondazionale che pretende di
garantire un metodo di conoscenza incondizionatamente sicuro. Quindi due possibilità:
- Riduzione dell’epistemologia a scienza descrittiva che verta sul soggetto umano e i suoi
processi conoscitivi. Quasi a divenire un capitolo della psicologia.
- Epistemologia conserva la sua natura di scienza normativa che detta i criteri di scientificità
del sapere, ma deve riconoscere la fallibilità di ogni metodo e moderare le sue pretese.
METODO DELLA FALSIFICAZIONE NEL PROCESSO PENALE
Abbandoniamo l’idea di metodo scientifico in grado di garantire il risultato di giusitizia. Lo
concepiamo secondo il paradigma di Popper problemi-teorie-critiche, che ci consente di
individuare come scientifico il metodo di accertamento della colpevolezza.
Problema: notizia di reato. È il nodo da sciogliere
Teoria: formulazione dell’accusa che dà inizio al processo
Critica: contraddittorio tra accusa e difesa e dibattimento a seguito del quale viene emessa la
sentenza.
Non è il contraddittorio a discendere dalla falsificazione popperiana, ma il contrario. Non bisogna
però lasciarsi ingannare da ogni eventuale automatismo nell’applicazione di questo metodo: così
detto sembra come se l’onere della prova gravi sulla difesa per documentare l’insensatezza della
accusa, ma sappiamo bene che grava sull’accusa.
PROVE NEUROSCIENTIFICHE: UNA VIGILE CAUTELA
Il punto di forza delle prove neuroscientifiche è dato dalla possibilità di sostituire alle massime di
esperienza di cui talvolta si fa uso nel processo, qualcosa di più solido e scientifico. La vigile cautela
è motivata dal fatto che le metodologie sono ancora in fase sperimentale. E poi perché, benché
presentino all’apparenza doti di grande obiettività, bisogna determinare l’influenza che su di esse
eserciti l’operatore. Per quanto sia minima rispetto a quella esercitata dall’interrogante nelle prove
dichiarative, nella testimonianza l’influsso è trasparente e compensato dal contraddittorio, qui
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molto meno verfiicabile e più insidioso. È anche fondamentale che, dato che le indagini
neuroscientifiche si svolgono sull’imputato di solito, è fondamentale che sia rispettata la libertà di
autodeterminazione.
Il veicolo d’ingresso delle neuroscienze nel processo è attraverso la perizia o la consulenza tecnica.
L’ammissione di queste prove deve svolgersi secondo le regole ordinarie o le regole contemplate
per le cosiddette prove atipiche? Potrebbe essere utile intenderle atipiche perché la regola di
ammissione delle prove atipiche impegna al contraddittorio anticipato, in cui il giudice sente le
parti sulle modalità della loro assoluzione. In realtà però l’art. 189 cpp che disciplina le prove
atipiche parla di prova non disciplinata dalla legge, ma quelle in esame che entrano attraverso
perizia e consulenza lo sono.
CONSENSO O ACCERTAMENTI COATTIVI
La maggior parte delle prove neuroscientifiche sono state assunte su consenso o su richiesta stessa
della persona che ne era oggetto. Il consenso è indispensabile poiché sono prove che richiedono
una collaborazione attiva della persona. Diverso il discorso per indagini come risonanza magnetica,
tomografia, che richiedono una certa passività. Qui, nel rispetto della legge che stabilisce che le
limitazioni alla libertà personale sono consentite solo nei casi previsti dalla legge, si potrebbe
acnche intervenire coattivamente, con autorizzazione della legge e senza pericoli per l’integrità
della persona.
CAPACITA’ DI INTENDERE E VOLERE
Il contributo che possono fornire le prove neuroscientifiche riguarda sia la capacità di intendere e
volere che la ricostruzione del fatto. Gli strumenti utilizzati sono la Tomografia computerizzata, la
PET, la risonanza magnetica, vari test psicologici. Però questi mezzi di indagine non devono
sostituire i test psicodiagnositici e i colloqui clinici, ma affiancarli. Il vizio di mente rileva sia la
capacità di intendere e volere che quella di partecipare coscientemente a processo. L’indagine
neuroscientifica trova applicazione in entrambe, ma sembra più che sufficiente nell’indagine sulla
partecipazione cosciente al processo l’utilizzo di strumenti tradizionali.
Rispetto alla capacità di intendere e volere e l’utilizzo della prova neuroscientifica ci sono delle
ragioni di diffidenza legate al timore che le neuroscienze possano demolire il principio di libero
arbitrio dell’individuo. Nulla di quesgto appare veritiero, anche se è evidente che le loro indagini
possano portare a un aumento dei vizi di mente.
LIMITI DEGLI ACCERTAMENTI SULL’INFERMITA’ MENTALE
Le neuroscienze, come ogni altro accertamento, documentano un fatto del presente, ossia l’attuale
sussistenza di determinate anomalie che possano annullare o diminuire la capacità di
autodeterminazione dell’individuo. Resta da stabilire se queste anomalie sussistessero anche al
momento della commissione del fatto e siano in un rapporto causale con quest’ultimo. Sono passi
abduttivi che ricadono sotto la pesante responsabilità del giudice e per questo vanno molto
delimitati i quesiti che vengono rivolti ai periti, evitando di introdurre nei quesiti le qualifiche su cui
spetta invece al giudice pronunciarsi. Occorre che le conclusioni a cui giungono gli esperti non
influiscano sulla ricostruzione del fatto o sulla sua attribuzione all’imputato: rischio che il criminale
virtuale diventi criminale reale per la suggestione delle relazioni peritali. Ideale sarebbe processo
bifasico, uno sul controllo della capacità di intendere e volere, l’altro sull’accertamento della
colpevolezza.
MEMORY DETENCTION
Rispetto alla ricostruzione del fatto le neuroscienze offrono contributo attraverso delle tecniche di
lie e memory detenction. Sono tecniche verso cui comunque bsogna usare molta cautela. In italia
solo la memory detenction ha trovato utilizzo, in particolar modo lo IAT (Implicit Association Test)
ideato da Sartori. Tecnica costruita sui tempi di reazione alle domande, che consiste nel chiedere al
soggetto di classificare in modo rapido e accurato come vere e false le frasi che compaiono sul pc.
Lo IAT si basa sulla teoria che un ricordo genuino ha rapidi tempi di reazione, la falsificazione
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aumenta questi tempi. Come ogni test anche questo ha margini di errore, tutti i mezzi di prova
sono fallibili, ma mentre rispetto a una testimonianza io posso mettere in dubbio l’attendibilità
attraverso il controesame, come controinterrogare gli esiti della memory detenction? Inolgtre la
tecnica accerta la corrispondenza delle risposte ai ricordi tuttora presenti nella mente, il che non
prova che questi corrispondano al reale.
Non è questa una tecnica che limita la libertà di autodeterminazione? Il soggetto in realtà si
sottopone al test per libera scelta e resta libero di definire vere o false le frasi che gli vengono
proposte. Certo, sa che se dice il falso potrebbe venir scoperto, ma dovremmo teorizzare qui un
diritto a mentire senza essere scoperti.
Il vero motivo di perplessità verso queste tecniche riguarda il fatto che l’atto di parola non sia più
rilevante come momento di dialogo, ma sia analizzato chimicamente allo scopo di estrarne
informazioni come si fa con un esame ematologico. Anche nella testimonianza si assumono i tratti
paralinguistici, ma assumono rilevanza come elementi del dialogo che si svolge nel contraddittorio
in cui si parla per essere creduti. Qui il rapporto si inverte, perché non si risponde per essere
ascoltati o creduti: la parola è l’elemento di informazione solo attraverso tempi di reazione. Forse il
vecchio metodo della cross examination risulta ancora vittorioso.
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