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Riassunto Diritto internazionale di V. Cannizzaro - Diritto
internazionale - a.a. 2016/2017
Diritto internazionale (Università degli Studi di Torino)
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Parte 1
CENTRALIZZAZIONE E DECENTRALIZZAZIONE DELL’USO DELLA FORZA
SEZIONE 1
L’USO DECENTRALIZZATO DELLA FORZA
1.
Lo sviluppo dei meccanismi normativi di controllo dell’uso della forza è frutto di una evoluzione
recente dell’ordinamento internazionale. È opinione diffusa che il diritto internazionale nel XIX°
secolo fosse caratterizzato da un regime di libertà di ciascuno stato nel decidere il ricorso alla forza,
in mancanza di meccanismi imparziali di accertamento e attuazione coattiva del diritto. La
discrezionalità degli stati sarebbe stata assoluta. Di conseguenza uno stato avrebbe potuto impiegare
la forza per qualsiasi motivo o a tutela di qualsiasi interesse.
2.
Il divieto di uso della forza è stato stabilito, sul piano convenzionale, dall’art.2 par.4 della Carta
delle Nazioni Unite: “i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o
dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato,
sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.
L’inserimento nella Carta del divieto di uso della forza rappresenta l’incontro di due orientamenti. Il
primo di impronta idealista che vedeva nel divieto l’espressione compiuta della kantiana pace
universale. Il secondo vedeva nel divieto dell’uso della forza l’unica possibile forma di controllo
sociale dei conflitti. Secondo quest’ultimo orientamento il divieto dell’uso della forza rappresenta
l’unica possibile tutela nei confronti di abusi perpetrati dagli stati più forti. Questa norma è stata
riconosciuta corrispondente al diritto internazionale consuetudinario, vincolante per tutti i soggetti
della comunità internazionale, e non solo per gli stati parte delle Nazioni Unite.
4.
Il divieto di uso della forza indica come l’uso unilaterale della forza, sia un meccanismo, capace di
compromettere la stabilità e la sicurezza collettiva. La scelta dell’ordinamento internazionale di
limitare l’azione unilaterale degli stati al ricorso alla forza esprime un assetto di valori che indica
come l’interesse collettivo alla stabilità e alla sicurezza del sistema prevalga, sull’ interesse
individuale degli stati a realizzare coattivamente i propri interessi. Strutturalmente la regola ha
valore erga omnes perchè stabilisce un rapporto giuridico fra ciascuno stato e la comunità
internazionale, e carattere cogente perchè la norma che stabilisce il divieto di uso della forza ha
rango gerarchico rispetto alle norme internazionali ordinarie.
5.
La norma ha un nucleo ben definito consistente nel proibire azioni di aggressione sia diretta
(invasione- occupazione militare – bombardamenti aerei , terrestri, navali ) che indiretta, contro l'
integrità territoriale e l' indipendenza politica.
a) Le rappresaglie armate, hanno uno scopo retributivo in risposta ad un illecito altrui, al fine
di infliggere un costo sociale per tale illecito. Le rappresaglie armate sono fattispecie
sanzionate dal divieto di uso della forza anche qualora siano condotte in risposta ad un
attacco armato. Per qualificare una certa misura come rappresaglia armata , occorre che l'
attacco al quale si risponde sia completato/esaurito. Altrimenti di verserebbe nella ipotesi di
legittima difesa, poiché il fine non sarebbe quello di retribuire ma di respingere.
b) Gli interventi a tutela dei cittadini all’estero. Sono Interventi armati per liberare ostaggi
detenuti all’estero, operati soprattutto da stati occidentali. Sovente l’azione è stata realizzata
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senza il consenso dello stato territoriale e/o in aperto dissenso da questo. A tal proposito la
Corte ha affermato l’incompatibilità di uno strumento esecutivo di autotutela con la
procedura di soluzione giudiziaria della controversia , accreditando il carattere assoluto del
divieto che include anche ipotesi minoris generis.
c) Gli interventi umanitari. Per interventi umanitari si intende l’intervento operato sul
territorio di uno stato al fine di arrestare massicce violazioni dei diritti fondamentali operate
dallo stato nei confronti della propria popolazione. Taluni stati occidentali tendono a
giustificare interventi armati unilaterali in situazioni di grave crisi umanitarie. È tuttavia
difficile parlare di uso minore della forza, dato che in questi casi l’intervento si è sempre
realizzato con un uso massiccio delle armi e con il chiaro intento di provocare un
mutamento del regime ritenuto direttamente o indirettamente responsabile delle violazioni
dei diritti umani. Un intervento militare necessario a fermare un regime che ponga in essere
violazioni dei diritti umani, qualora i meccanismi di sicurezza collettiva si dimostrino
inadeguati, costituirà un atto illecito, pur se necessario ad assicurare il rispetto delle più
elementari regole della convivenza umana.
d) Interventi per combattere il terrorismo. Sia le misure operate direttamente nei confronti
di bande terroristiche, che rappresaglie armate contro gli stai che danno sostegno al
terrorismo , sono state oggetto di contestazione dalla comunità internazionale , la quale
ritiene che alla luce del divieto di uso della forza e in assenza di meccanismi di accertamento
obiettivo di condizioni che possano legittimarne l' impiego della forza, il divieto di uso della
forza rappresenta l' unico strumento di controllo dei conflitti , a meno che non rientrino nell
' ambito di applicazione della legittima difesa.
Legittima Difesa
Unica eccezione al divieto di uso della forza è la legittima difesa. L’art. 51 la definisce come un
diritto naturale. Lo stato che agisce in legittima difesa deve notificare la propria azione al consiglio
di sicurezza, e può agire solo fintantoché questi non abbia adottato le misure necessarie per il
ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. La legittima difesa è quindi configurata
come una sorta di misura provvisoria, atta a consentire un primo intervento difensivo dello stato.
Uno stato ha quindi il diritto di usare la forza a titolo di legittima difesa entro i limiti previsti da
questo istituto, sia quando il sistema decisionale istituzionale sia bloccato dal meccanismo del veto,
sia quando il consiglio non interviene per scelta politica. Presupposto essenziale per l’esercizio della
legittima difesa è costituito dall’esistenza di un attacco armato. L’uso della forza è lecito solo in
presenza di un attacco armato e nella misura necessaria per respingerlo. La prassi ritiene che la
nozione di attacco armato comprenda i casi di aggressione di carattere territoriale realizzata da uno
stato, attraverso l’utilizzazione di mezzi militari. Secondo la Corte internazionale di giustizia la
nozione di attacco armato comprende altresì forme di aggressione indiretta, operate da bande
paramilitari che operino sul territorio di uno stato per conto e sotto il controllo di un altro stato.
L’istituto della legittima difesa è costituito da due elementi uno di fatto, l’esistenza dell’attacco
armato, ed uno di diritto, la facoltà giuridica di utilizzare la forza al fine di respingerlo. L’uso della
forza è consentito se necessario a respingere un attacco armato e nella misura proporzionale a tale
scopo. Il parametro per valutare La proporzionalità della reazione è quello che adotta un criterio
funzionale che vincola la scelta dei mezzi difensivi rispetto alla esigenza di realizzare la tutela della
propria sfera territoriale in armonia con la funziona propria dell' istituto della legittima difesa.
legittima difesa preventiva. Il problema consiste nel vedere se uno stato possa agire con misure
implicanti l’uso della forza nella fase antecedente un attacco armato al fine di prevenirlo. In ragione
del rischio di abuso insito nell’istituto della legittima difesa preventiva, la dottrina esige l’esistenza
di un nesso stringente di prossimità fra ‘azione e l’attacco. L’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite
prevede che la legittima difesa possa essere esercitata anche in maniera collettiva. L’esercizio del
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diritto di autodifesa collettiva, da parte di stati terzi, necessita di una richiesta di aiuto da parte
dello stato attaccato. Tale limite ha la funzione di evitare che stati terzi possano prendere a pretesto
la vicenda ed utilizzare la forza per propri fini, diversi dall’esigenza di prestare aiuto a favore dello
stato attaccato.
SEZIONE 2
I MECCANISMI ISTITUZIONALI DI AMMINISTRAZIONE DELLA FORZA: IL SISTEMA
DELLE NAZIONI UNITE.
1.
Al divieto dell’uso unilaterale della forza corrisponde l’istituzione di un sistema centralizzato di
amministrazione della forza.
2.
L’Assemblea generale è composta dai rappresentanti di ciascuno stato membro. Le risoluzioni
dell’Assemblea generale sono adottate a maggioranza semplice, o qualificata 2/3 dei votanti.
L’Assemblea generale può discutere ogni questione relativa al mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale e fare raccomandazioni. Tali poteri incontrano due limiti: il primo limite è
stabilito dall’art.12 che prevede che l’assemblea generale non debba fare raccomandazioni riguardo
ad una controversia o situazione qualora se ne stia occupando il consiglio di sicurezza, al quale
spetta priorità in tema di mantenimento della pace e della sicurezza; un secondo limite è stabilito
dall’art.11 che prevede che qualsiasi questione per la quale si renda necessaria un’azione di
carattere coercitivo deve essere deferita al consiglio di sicurezza. Che detiene competenza esclusiva
in materia di impiego coercitivo della forza. Possiamo però affermare che la competenza
dell’assemblea ad adottare azioni è talora invocata in alternativa a quella del consiglio in caso di
inattività di questo.
3.
Il Consiglio di sicurezza è formato da 15 membri, di cui 5 hanno lo status di membro
permanente[Russia – Cina – USA – Francia – regno unito]. I restanti sono eletti dall’assemblea
generale fra gli stati membri delle nazioni unite. Per quanto riguarda le delibere aventi ad oggetto
questioni di procedura, vengono adottate con 9 voti su 15. Per l’adozione di decisioni relative ad
ogni altra questione è necessario che fra i 9 voti favorevoli vi siano i voti dei 5 membri permanenti.
Il voto contrario di un membro permanente impedisce l'adozione della delibera. La composizione ed
il sistema decisionale del consiglio di sicurezza riflettono l’ineguaglianza fra gli stati membri.
Alcuni di essi hanno il diritto di bloccare il procedimento decisionale ed impedire al consiglio di
agire. Dato che il consiglio è l’organo che possiede la competenza esclusiva ad utilizzare la forza,
l’esercizio del diritto di veto da parte dei membri permanenti equivale a dire che la forza non può
essere usata in maniera contraria alla volontà di una delle grandi potenze.
4.
Il consiglio ha la responsabilità principale nel mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale. Competenze specifiche del consiglio sono descritte dal capitolo 6 della carta, che ne
disciplina la funzione conciliativa, e dal capitolo 7 che ne disciplina l’esercizio del meccanismo
accentrato di uso della forza. Il capitolo 6 riguarda controversie la cui continuazione sia suscettibile
di porre in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Il consiglio dispone di un potere di
inchiesta che gli consente di fare indagini su qualsiasi controversia o situazione al fine di
determinare se la sua continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale.
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5.
Il capitolo 7 concerne, situazioni di minaccia alla pace, di rottura della pace e di atti di aggressione e
conferisce al consiglio la competenza esclusiva ad utilizzare i meccanismi accentrati di
amministrazione della forza internazionale. I presupposti di azione del consiglio sono contenuti
nell’art.39 “il consiglio di sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di un atto
d’aggressione e fa raccomandazioni o decide quali misure debbano essere prese per mantenere o
ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. La discrezionalità del consiglio corrisponde alla
natura politica e all’accertamento delle situazioni che comportano una minaccia per la pace e la
sicurezza internazionale. Essa non è illimitata, infatti Gli atti del consiglio devono essere conformi
alla carta e ai principi del diritto internazionale. Fra i presupposti di azione del consiglio, l’esistenza
della minaccia alla pace è quello maggiormente indeterminato. Sopratutto negli anni ’90 il concetto
di minaccia alla pace ha subito una grande evoluzione fino a comprendere situazioni di emergenza
umanitaria. L’estensione di tale nozione ha avuto quindi, come effetto, l’assunzione da parte del
consiglio di responsabilità al di la dell’ambito del mantenimento della pace, ed ha consentito in
taluni casi una reazione istituzionalizzata a violazioni gravi dei valori fondamentali della comunità
internazionale.
6.
Una volta accertata l’esistenza di minaccia alla pace, il consiglio può fare raccomandazioni o
decidere di agire con misure coercitive. Gli articoli 41 e 42 della carta definiscono rispettivamente
le misure non implicanti e quelle implicanti l’uso della forza. Ai sensi dell’art.41 il consiglio può
decidere l’adozione da parte degli stati di misure non implicanti l’uso della forza. [embargo
economico]. Nella prassi recente il consiglio ha indirizzato misure sanzionatorie direttamente nei
confronti di individui il cui comportamento sarebbe stato all’origine dell’esistenza di una minaccia
per la pace e la sicurezza internazionale. Il consiglio ha adottato questo tipo di sanzioni individuali
soprattutto in relazione ad episodi di terrorismo. Il contenuto delle misure è rimasto circoscritto al
divieto di ingresso sul territorio degli stati membri e a confisca. All’art.41 della carta può essere
ricondotta l’istituzione da parte del consiglio di sicurezza di tribunali penali internazionali aventi
l’incarico di reprimere i comportamenti degli individui resisi colpevoli di gravi violazioni del diritto
internazionale umanitario. Tale possibilità è conferita al consiglio in relazione al fatto che il
consiglio ha non solo il compito di mantenere la pace ma può anche reprimere e pervenire gravi
violazioni di interessi fondamentali della comunità internazionale (ed è proprio a perseguire
quest’ultimo obbiettivo che viene svolta l’attività dei tribunali penali internazionali) .
7.
l’art.42 della carta è la disposizione alla base del sistema di sicurezza collettivo: “ se il consiglio di
sicurezza ritiene che le misure previste nell’art.41 siano inadeguate o si siano dimostrate
inadeguate, esso può intraprendere con forze aeree navali o terrestri ogni azione che sia necessaria
per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale…” l’art. 42 prefigura quindi un
modello accentrato della forza. Il consiglio esercita i poteri conferiti dall' art 42 con due modalità: il
primo è quello della costituzione di forze delle nazioni unite messe a disposizione dagli stati
membri (idea accentrata dell’uso della forza). Il secondo è quello della delega del potere di
utilizzare la forza a favore degli stati (idea decentrata dell’uso della forza).
8.
Le forze delle nazioni unite sono classificate a seconda degli scopi che perseguono e delle funzioni
loro assegnate. Si distinguono in:
a) Le forze di peacekeeping (forze di mantenimento della pace), hanno la caratteristica di
essere stanziate sul territorio con il consenso delle parti al fine di prevenire azioni belliche o
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di sorvegliarne la cessazione. Esse non hanno il potere di usare le armi se non in situazioni
di autodifesa. Sono costituite sulla base di accordi tra il segretario generale e gli stati che
intendono cooperare all’iniziativa.
b) Le forza di peace-enforcing (forze che hanno lo scopo di imporre coercitivamente
condizioni di pace e sicurezza). Talvolta il consiglio ha costituito forze aventi lo scopo di
imporre il ristabilimento della pace. Azioni di questo tipo, hanno costituito semplicemente
l’estensione del mandato affidato in precedenza a forze di mantenimento della pace
(peacekeeping).
c) Azioni di post conflict peace building ( forze che assicurano la sicurezza nella fase di
ricostruzione che fa seguito ad un conflitto armato).
9.
L’incapacità del consiglio di realizzare direttamente operazioni militari di ampia portata hanno
indotto quest’ultimo ad avvalersi di una diversa modalità di intervento, consistente nell’autorizzare
gli stati ad usare la forza per le finalità e con le modalità da esso indicate. Con il modello delle
autorizzazioni si sviluppa quindi un modello decentrato dell’uso della forza.
Al consiglio rimane la fase normativa, relativa all’accertamento delle condizioni che esigono
l’impiego della forza e dell’individuazione dei soggetti e degli strumenti ai quali demandare il
compito di mantenere o ripristinare le condizioni di pace e sicurezza internazionale. Al consiglio
spetta inoltre la funzione di controllo delle operazioni militari. Le autorizzazioni all’uso della forza
sono state impiegate a partire dagli anni ’90. Le autorizzazioni sono concesse per un fine
determinato, il cui perseguimento rende legittimo l’impiego della forza e si indirizzano agli stati.
L’azione armata è condotta dagli stati ai quali spetta decidere l’intensità della forza necessaria e le
modalità operative dell’azione, mentre il controllo sul loro operato è esercitato dal consiglio.
L’istituto delle autorizzazioni ha avuto il suo apogeo negli anni ’90. Successivamente in relazione
ad abusi verificatisi, il ricorso alle autorizzazioni si è fato più raro. Per quanto riguardo la
compatibilità del modello delle autorizzazioni rispetto alla carta, occorre distinguere fra i casi in cui
l’autorizzazione all’uso della forza concerne attività che sarebbero comunque lecite e i casi in cui
l’autorizzazione costituisce l’unico fondamento di liceità di attività altrimenti illecite. Una prima
categoria di autorizzazioni del primo tipo (comunque lecite) concerne ipotesi nelle quali l’uso
individuale della forza autorizzata dal consiglio sarebbe stato lecito anche a titolo di legittima
difesa. Un discorso diverso vale per quegli interventi di carattere umanitario che non hanno altro
fondamento che l’autorizzazione del consiglio. Possiamo desumere quindi che qualora l’azione
unilaterale non si fondi solo sull’autorizzazione del consiglio ma abbia fondamento anche nel diritto
generale non vi sono motivi per negare la legittimità dell’autorizzazione. Diverso è il caso in cui
l’autorizzazione costituisce l’unico fondamento di liceità per l’azione militare ad opera degli stati. Il
diritto internazionale generale tende ad ammettere la liceità dell’uso della forza allorché esso sia
operato nel quadro istituzionale delle nazioni unite. Ne dovrebbe conseguire che le azioni
autorizzate dal consiglio vengono considerate come raccordate al sistema delle nazioni unite, quindi
lecite a condizione che rispettino tutti i limiti usualmente posti dal diritto generale all’impiego della
forza.
10.
In diritto internazionale a differenza di quanto non accada negli ordinamenti statali , la
concentrazione del monopolio dell’uso della forza in capo al consiglio non ha come conseguenza
che il consiglio possa utilizzare la forza ogni qualvolta essa sia necessaria come strumento di
attuazione del diritto. L’uso della forza è riservato ai casi di minaccia alla stabilità e alla sicurezza
internazionale.
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SEZIONE 3
LE ORGANIZZAZIONI REGIONALI, IN PARTICOLARE LA NATO
1.
Il sistema di sicurezza collettivo stabilito dalla carta è completato dalle organizzazioni regionali. La
carta non definisce ne la nozione ne il procedimento di stabilimento delle organizzazioni regionali.
Si tratta di organismi , creati attraverso accordi , che raggruppano stati appartenenti ad una data area
geopolitica/geografica e capaci di riprodurre i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione
universale delle nazioni unite. la carta prevede che le organizzazioni regionali possano svolgere
alcune funzioni, coordinandone l’esercizio con quello svolto dagli organi delle nazioni unite.
L’art.52 attribuisce alle organizzazioni regionali competenza nel campo del regolamento pacifico
delle controversie. La disposizione sembrerebbe assegnare loro priorità di intervento rispetto alle
attività operate dalle nazioni unite, ed esprime un favore verso forme locali di composizione dei
conflitti. Va considerata organizzazione regionale qualsiasi organismo sorto in qualsiasi area del
mondo e dotato di un apparato istituzionale stabile.
La disposizione dell’art.53 prevede che il consiglio di sicurezza possa utilizzare sotto la propria
direzione, organismi regionali per azioni coercitive, delegando quindi ad essi attività implicanti
l’uso della forza. La disposizione precisa che nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in
base ad accordi regionali o da parte di organismi regionali senza l’autorizzazione del consiglio di
sicurezza. La seconda disposizione dell’art.53 indica, che in assenza di delega, un intervento ad
opera di organismi regionali non è compatibile con la carta.
2.
La NATO (organizzazione del trattato dell’atlantico del nord) venne istituita dal trattato di
Washington del 4 aprile 1949, raggruppava originariamente i soli paesi dell’Europa occidentale e
dell’America del nord. Durante il secondo dopo guerra essa aveva essenzialmente, la funzione di
predisporre una forma di coordinamento militare fra gli stati occidentali da contrapporre all’unione
sovietica e al blocco dei paesi dell’Europa orientale raggruppati nel patto di Varsavia. La NATO
dunque non è nata come organizzazione regionale ma come organizzazione di autodifesa collettiva.
All’indomani della sua istituzione, gli stati membri della NATO hanno posto in essere attraverso atti
di esecuzione del trattato, un complesso apparato militare, con forze assegnate permanentemente
all’alleanza, dotandolo di un sistema di basi militari e di un comando unificato. Tali atti hanno posto
le basi per una trasformazione della natura politica e giuridica dell’alleanza. Una nuova dottrina
strategica è stata adottata dalla NATO di Lisbona nel 2010. Il nuovo documento strategico sembra
accentuare ulteriormente il ruolo della NATO nella gestione di crisi internazionali. Esso sembra
affermare la competenza dell’organizzazione ad operare sia nella fase antecedente l’insorgere di una
crisi, sia nella fase successiva. L’evoluzione della NATO non ha riguardato soltanto l’allargamento
dei presupposti e degli obiettivi della sua azione, ma anche l’ampliamento dell’originaria area di
intervento, nella quale i meccanismi militari dell’alleanza erano destinati ad operare. La
trasformazione della NATO da organizzazione di autodifesa collettiva a struttura di gestione delle
crisi su base globale, solleva una serie di problemi sia interni al suo ordinamento , che esterni ,
rispetto ai rapporti con il sistema delle nazioni unite e il diritto internazionale. Infatti tali
trasformazioni sono avvenute senza osservare il procedimento di revisione stabilito dal trattato , ma
tuttavia tale violazione può essere sanata con il consenso unanime degli stati membri. Inoltre I
recenti atti e comportamenti assunti dalla NATO non sembrano fondati sul diritto internazionale
attuale, ma sembrano, piuttosto, presupporre un superamento di tale disciplina a favore di un assetto
che consenta un diritto di azione unilaterale in termini più ampi rispetto al sistema della carta.
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PARTE 2
LA FUNZIONE NORMATIVA
IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE
LA CONSUETUDINE
1.
Negli ordinamenti statali contemporanei, la funziona normativa è prevalentemente affidata ad
organi centrali. Alla consuetudine spetta un ruolo assolutamente marginale. Nell’ordinamento
internazionale, privo di autorità sociali paragonabili allo stato e di una funzione legislativa
accentrata, fanno si che la massima parte delle norme a portata generale siano prodotte attraverso la
consuetudine. Il diritto consuetudinario rappresenta nell’ordinamento internazionale il sostrato
normativo comune che lega fra loro i vari regimi particolari di diritto convenzionale e da ad essi
consistenza ordinamentale. La consuetudine è una fonte a formazione decentralizzata, in quanto si
forma non ad opera di un’autorità sociale, bensi ad opera degli stessi consociati. Ciò non implica
che essa sia espressione del consenso dei consociati ad essere vincolati alla norma come
sostenevano in passato le teorie consensualiste secondo cui il fondamento dell' obbligatorietà era
costituito dal consenso espresso con tacito accordo fra i soggetti dell' ordinamento. Secondo la
teoria dell’obiettore persistente, uno stato non sarebbe vincolato da una norma consuetudinaria, alla
formazione della quale, esso avrebbe manifestato la propria opposizione tramite una espressa
manifestazione del dissenso. Tale capovolgimento risulta in armonia con la portata generale del
diritto consuetudinario che vincola anche stati rimasti estranei al suo processo di formazione.
2.
la consuetudine è caratterizzata da due elementi costitutivi: un elemento oggettivo, dato dalla
ripetizione uniforme nel tempo di una data condotta, la diuturnitas, ed un elemento soggettivo, dato
dalla convinzione collettiva che tale condotta sia una regola giuridica, l’opinio iuris. La
consuetudine inverte la relazione logica che esiste fra una regola e il comportamento che essa
disciplina. È il comportamento a condizionare la norma nel senso che la norma si deduce dai
comportamenti che sono posti in essere al fine di costituirne osservanza , al contrario del diritto
interno in cui è la norma a condizionare i comportamenti. Secondo la teoria dualista Il diritto
consuetudinario si desume dalla prassi accompagna dalla opinio iuris , cioè dalla convinzione che
tale comportamento costituisce osservanza di una regola giuridica.[elemento psicologico ].
3.
È possibile distinguere tre modelli principali procedurali di formazione consuetudini:
1) Modello dualista. Esso si fonda sulla combinazione di prassi e di opinio iuris, concepiti
come fattori di produzione del diritto consuetudinario.
2) Un secondo modello, tende ad accentuare il carattere volontarista nella formazione di norme
consuetudinarie e si fonda sulla ricerca dell’equilibrio fra interessi contrapposti ed evidenzia
una dinamica fra la pretesa di alcuni stati e la resistenza o l’acquiescenza di altri.
3) Un terzo modello di carattere logico, tende a considerare la formazione del diritto
consuetudinario come combinazione di valori e principi normativi.
Il primo modello è composto da quelle norme che sorgono in virtù di una graduale convergenza
della condotta degli stati verso modelli comportamentali che si rivelino idonei a soddisfare esigenze
della vita di relazioni internazionali. Questo è il modo attraverso il quale si sono formate la maggior
parte delle consuetudini internazionali nel quale il riferimento al precedente ha prevalente rispetto
ad ogni altra considerazione. La sedimentazione di un flusso di comportamenti consente
all’interprete di ricostruire la regola che la comunità internazionale considera idonea al fine di
disciplinare determinati rapporti.
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Pretesa e resistenza , pretesa e resistenza
Diverso è il discorso per norme consuetudinarie che nascono attraverso repentine pretese degli stati
di realizzare i propri interessi, ai quali si contrappongono interessi di altri stati. In questi casi le
norme consuetudinarie sorgono sulla base di comportamenti concentrati in un breve lasso di tempo ,
ai quali si accompagna la reazione degli altri membri della comunità, che ne evidenzia
l’acquiescenza o la contestazione. In tale modello le regole nascono e si evolvono attraverso
l’interazione fra le pretese avanzate da taluni stati e l’acquiescenza o la resistenza di altri stati.
Talune norme si formano sulla base di un compromesso fra i vari stati. Questo procedimento di
formazione evidenzia come gli stati più potenti , agendo come forma di autorità sociale ,
promuovano lo sviluppo del diritto generale. Un terzo modello, che acquista rilievo nei momenti di
ricambio rapidissimo del diritto internazionale, è quello che ammette l’esistenza di norme generali
in assenza di precedenti, qualora rispondenti ai mutati bisogni sociali della comunità internazionale.
Ricostruzione del diritto generale
E’ difficile operare una distinzione fra prassi(diuturnitas) e opinio iuris. Nella ricostruzione della
prassi, una certa difficoltà emerge quanto alle manifestazioni che contribuiscono a formarla. Mentre
pochi dubbi esistono sul fatto che un comportamento positivo contribuisce a formare la prassi, è più
dubbio quale sia il valore da riconoscere ad un comportamento di tipo negativo. Ciò è rilevante
quando il contenuto della norma internazionale si sostanzia in un divieto, come il divieto di uso
della forza. In tali casi la considerazione delle violazioni del divieto non tiene conto del fatto che in
innumerevoli altri casi astenendosi dal compiere una violazione i soggetti si sono conformati alla
regola. D’altro lato anche la semplice astensione dal tenere un comportamento non vale
automaticamente a provare l’esistenza di un divieto se non si accompagna ad una manifestazione di
opinio. Solo da questa sarà possibile ricavare che l’astensione è tenuta in quanto doverosa e non
semplicemente per mancanza di interesse o di capacità a tenere un comportamento contrario.
SEZIONE 2
I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO
1.
Con la formula “principi generali di diritto” sono indicate due diverse categorie di fonti normative.
La prima è quella dei principi comuni agli ordinamenti nazionali. I principi di origine nazionale,
considerati come sostrato normativo dell’esperienza giuridica universale, integrano l’ordinamento
internazionale e ne colmano le eventuali lacune. La seconda è quella dei principi generali propri
dell’ordinamento internazionale, dedotti dalle dinamiche normative interne all' ordinamento
internazionale. I principi generali di origine nazionale sono tradizionalmente considerati come una
fonte di carattere residuale, la quale sorge in assenza di norme di origine convenzionale o
consuetudinaria. I principi generali esprimono i valori fondamenti della comunità internazionale e
determinano le condizioni di applicazione delle altre regole dell’ordinamento.
3.
I principi generali provenienti dagli ordinamenti nazionali hanno maggior rilievo per la
regolamentazione internazionale di condotte di individui. Infatti la trasposizione di principi giuridici
da un ordinamento ad un altro appare più agevole allorchè tali principi siano destinati ad
individuare situazioni soggettive omogenee. Ciò appare significativo alla luce della evoluzione
recente dell’ordinamento internazionale, il quale tende a disciplinare in misura crescente fattispecie
di carattere individuale, stabilendo in capo agli individui sia obblighi che diritti. I principi generali
di diritto, comuni agli ordinamenti interni , sono espressamente menzionati tra le fonti del diritto
dall’art. 21 dello statuto della corte penale internazionale , che in mancanza di principi e regole di
diritto internazionali per la risoluzione di controversie anche la normativa interna degli stati [ che
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avrebbero avuto giurisdizione sul crimine] purchè non in contrasto con lo statuto della corte penale
internazionale e con i principi generali del diritto internazionale.
4.
I principi generali dell’ordinamento internazionale sono stati utilizzati dalla prima giurisprudenza
internazionale in varie situazioni. Una prima situazione è quella classica, data dall’esistenza di una
lacuna nella regolamentazione di una fattispecie. In casi di questo genere la giurisprudenza ha
individuato un principio generale a partire da regole che disciplinano soluzioni analoghe. Su tale
base è stata ricostruita la regola applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio. In situazioni di
questo tipo, i principi generali sono visti come fattore che assicura la completezza dell’ordinamento
internazionale e la sua coerenza sistematica. Es: stretto di corfù. Una seconda situazione è quella in
cui i principi generali sono utilizzati al fine di adattare il contenuto di una regola a circostanze
particolari del caso concreto. In situazioni di questo tipo, i principi hanno svolto una importante
funzione di promozione dello sviluppo del diritto internazionale. Una terza situazione è quella in cui
il ricorso a tecniche argomentative fondate su principi generali ha consentito alla giurisprudenza la
soluzione di conflitti fra norme di condotta che pongono regole incompatibili. Tale tecnica consiste
nell’individuazione dei principi ispiratori delle regole di condotta apparentemente in conflitto per
poi provvedere alla loro composizione attraverso un processo di bilanciamento dei principi generali
e infine definire su tale base la regola applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio.
5.
Una particolare categoria di principi generali è quella che può essere tratta non da regole specifiche
bensì dalla struttura delle relazioni giuridiche internazionali. Tali principi non si esprimono in
regole compiute di condotta ma sono utilizzati al fine di guidare l’interpretazione e l’applicazione di
altre regole internazionali. Tali sono i principi di reciprocità e proporzionalità.
1) Il principio di reciprocità evidenzia come nei processi di formazione e di attuazione di
norme internazionali i comportamenti degli stati si organizzano secondo schemi relazionali
sinallagmatici o correlativi. Tale modello evidenzia come il diritto internazionale si fonda
sulla sovrana eguaglianza degli stati.
2) Il principio di proporzionalità si applica in presenza di poteri funzionali, di poteri che
l’ordinamento conferisce ad uno stato o ad un organo internazionale per l’esercizio
decentrato di funzioni di natura amministrativa. Attraverso il conferimento di poteri
funzionali, l’ordinamento internazionale tende a sopperire all’assenza di strutture
centralizzate di accertamento e di attuazione del diritto. L’ordinamento conferisce quindi ad
un soggetto giuridico il potere di agire per il raggiungimento di uno scopo che corrisponde
ad un interesse di carattere generale. Il soggetto agente deve tenere conto dell’esistenza di
altri interessi concorrenti, meritevoli di tutela giuridica, che devono essere
convenientemente composti con l’interesse prevalente.
I due modelli hanno un rilievo sistematico. Mentre il modello della reciprocità è dominato dal
concetto di sinallagma, il modello della proporzionalità evidenzia i caratteri di organizzazione
pubblicista del potere internazionale. Il primo modello è idoneo a disciplinare i rapporti giuridici
paritari. Il secondo è idoneo a disciplinare rapporti giuridici non paritari, nei quali l’ordinamento
conferisce ad un soggetto il compito di provvedere ad una composizione equilibrata fra i diversi
interessi concorrenti , individuali , collettivi o universali. I principi di reciprocità e proporzionalità ,
stabiliscono ,i criteri applicativi delle regole internazionali.
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CAPITOLO 2
IL DIRITTO DEI TRATTATI
IL DIRITTO CONSUETUDINARIO E LA CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969
A differenza delle consuetudini e dei principi, i trattati non hanno applicazione generale, ma si
applicano, ai soli stati che hanno espresso il proprio consenso ad impegnarsi. I trattati costituiscono
fonte di diritto particolare modellati sui principi di reciprocità e bilateralismo. Essi trovano
fondamento sullo mutuo scambio di consenso e tendono a realizzare interessi propri di ciascuna
delle parti. I trattati a volte sono utilizzati anche per la realizzazione di interessi di carattere
collettivo o universale. Il diritto dei trattati è essenzialmente di natura consuetudinaria. Esso è stato
codificato da una delle più importanti convenzioni di codificazione: la CONVENZIONEDI
VIENNA del 1969 sul diritto dei trattati, redatta da una conferenza internazionale sulla base di
lavori condotti dalla commissione del diritto internazionale delle nazioni unite. Non tutte le norme
della convenzione sono corrispondenti al diritto consuetudinario. Nel preambolo si da atto che essa
è stata redatta sia allo scopo di codificare il diritto consuetudinario dei trattati sia allo scopo di
promuoverne l’ulteriore sviluppo, in sintonia con i principi contenuti nella carta delle nazioni unite.
Tecnicamente un trattato costituisce uno scambio di consenso, idoneo a produrre diritti ed obblighi
fra le parti. La convenzione di Vienna non si applica a tutti i trattati. Essa si applica ai soli accordi
redatti in forma scritta e retti dal diritto internazionale. La convenzione di Vienna si applica inoltre
ai soli accordi fra stati. Sono quindi esclusi dal suo ambito di applicazione gli accordi conclusi fra
stati ed altri soggetti internazionali [Unione Europea], nonché da questi soggetti fra loro. La
Convenzione di Vienna prevede che le regole di tale convenzione si applichino ai rapporti
convenzionali fra stati parti di un trattato anche qualora del medesimo trattato siano parti degli stati
che non hanno ratificato la convenzione, o degli enti di natura non statale purchè non siano soggetti
internazionali. Agli accordi conclusi fra stati e organizzazioni internazionali o fra organizzazioni
internazionali si applica invece la convenzione di Vienna del 1986.
SEZIONE 1
LA FORMAZIONE DEI TRATTATI
1.
Nel procedimento di formazione dei trattati occorre distinguere varie fasi. La prima è quella relativa
alla definizione di un testo. Il testo può essere definito attraverso negoziati diretti, o per i trattati
multilaterali, nel corso di una conferenza internazionale. L’art 9 della convenzione di Vienna,
prevede che l’adozione del testo di un trattato ad opera di una conferenza internazionale avvenga
con la maggioranza dei due terzi presenti e votanti. Il testo di un trattato può essere anche adottato
attraverso risoluzioni di organizzazioni internazionali, in particolare nell’ambito delle nazioni unite,
e successivamente aperto alla stipulazione degli stati membri. Questa procedura viene seguita per
trattati che hanno ad oggetto la tutela di interessi collettivi o universali. Un procedimento più
complesso è seguito per gli accordi di codificazione. Una volta definito il testo, il trattato viene
firmato ad opera di plenipotenziari. L’effetto della firma varia a seconda che il trattato venga
concluso in forma solenne o semplificata. Per i trattati conclusi in forma semplificata la firma ha la
funzione di concludere il procedimento di formazione e quindi di esprimere il consenso dello stato
ad impegnarsi. Per i trattati conclusi in forma solenne, la firma ha solo la funzione di autenticare il
testo. Il consenso dello stato ad impegnarsi è invece espresso dalla ratifica, cioè atto unilaterale
rivolto alle altre parti del trattato con il quale uno stato esprime il proprio consenso ad impegnarsi
sul piano internazionale. La ratifica può essere sostituita da atti aventi la medesima funzione, quali
l’adesione, l’accettazione , l'approvazione. Si tratta di atti che spiegano effetti giuridici con lo
scambio o il deposito presso un depositario designato a riceverli. Il raggiungimento di un numero
minimo di ratifiche per l’entrata in vigore di un trattato è sovente richiesto per trattati multilaterali a
carattere universale. Generalmente il depositario ha anche il compito di notificare agli altri stati il
raggiungimento del quorum. Vi sono trattati che estendono la facoltà di firmare e ratificare il testo
anche ad opera di stati rimasti estranei al procedimento di formazione. Questi trattati sono definiti
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come trattati aperti(es: Convenzione di Vienna) in contrapposizione ai trattati chiusi che non
ammettono tale facoltà. L’equivalenza delle due forme di conclusione di un trattato ha come
conseguenza che un trattato concluso in forma solenne potrà essere derogato da uno concluso in
forma semplice e viceversa.
2.
Gli ordinamenti nazionali contengono disposizioni che disciplinano i procedimenti di conclusione
dei trattati. Il potere di impegnare con un trattato lo stato sul piano internazionale rientra nella sfera
del potere esecutivo. Ma ciò provoca dei problemi di competenza tra il parlamento (detentore del
potere legislativo) e il governo (responsabile del potere esecutivo).
Molti ordinamenti costituzionali hanno adottato soluzioni tendenti in vario modo a vincolare la
conclusione di trattati da parte dell’esecutivo a forme di assenso preventivo del parlamento,
soprattutto per trattati politicamente importanti o suscettibili di incidere sulla funzione legislativa.
L’idea dell’autorizzazione preventiva alla conclusione dei trattati da parte del parlamento è quindi
dettata dall’esigenza di tutelare le prerogative interne del parlamento rispetto alle prerogative
assicurate all’esecutivo sul piano esterno. L’art. 87 Cost. Italiana prevede la competenza del
presidente della repubblica a ratificare i trattati previa autorizzazione delle camere [quando
occorre]. Si tratta non di un potere proprio del presidente della repubblica ma di un potere che
ricade nelle competenze dell’esecutivo. L’art. 80 cost prevede che il parlamento autorizzi con
legge , la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica o importano modificazioni di
leggi. Le due disposizioni sembrerebbero indicare che l’ordinamento costituzionale italiano non
preveda la possibilità di concludere accordi in forma semplificata. Si tratterebbe di una disposizione
assai rigida, che non tiene conto del fatto che nel diritto internazionale vi sia a volte la necessità di
concludere accordi in maniera rapida ed informale. Le conseguenze giuridiche della mancata
autorizzazione alla ratifica da parte del parlamento e la conseguente conclusione in forma
semplificata di un accordo rientrante nelle categorie previste dall’art 80 ingenera da un lato la
responsabilità politica dell’esecutivo nei confronti del parlamento e sul piano normativo
l'irregolarità incostituzionalità del procedimento di formazione. La disciplina costituzionale della
legge di autorizzazione alla ratifica è completata da altre due norme. L’art 72 prevede la c.d. riserva
di aula, escludendo la possibilità di approvazione da parte delle commissioni parlamentari. L’art 75
esclude il referendum abrogativo popolare per le leggi di autorizzazione alla ratifica. La ratio dell'
art 72 è quella di assumere in maniera ponderata vincoli internazionali, quella dell' art 75 di
sottrarre al corpo elettorale l' opportunità di violare un impegno internazionale.
3.
Nella concezione tradizionale, il riconoscimento del potere di assumere impegni internazionali in
capo ad enti substatali è ritenuto inconciliabile con il presupposto dell’unitarietà dello stato nei
rapporti internazionali. L’ordinamento italiano prevede espressamente il potere delle regioni di
stipulare accordi internazionali. L’art 117 cost nel nuovo testo, prevede che nelle materie di sua
competenza la regione può concludere accordi con stati e intese con enti territoriali interni ad altro
stato nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello stato. Da ciò si ricava che il potere delle
regioni non è esclusivo ma concorre con il generale potere dello stato di concludere accordi in
materie che sono interamente di competenza concorrente o esclusiva delle regioni. Le regioni
possono stipulare solo accordi esecutivi rispetto ad accordi già conclusi dallo stato[di natura tecnico
amministrativa – programmatica - promozionale]. Inoltre le regioni non possono concludere accordi
in loro nome ma devono agire come organi dello stato centrale, che sarebbe per tanto l’unico ente
titolare dei diritti ed obblighi che derivano dall’accordo.
4.
Per quanto riguarda la questione della validità di un trattato per violazione delle norme interne sulla
competenza a stipulare, questa può essere esaminata attraverso due diversi schemi fondamentali:
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1) Lo schema costituzionalista, tende a dar rilievo alla normativa interna alla quale in diritto
internazionale farebbe rinvio, al fine di determinare gli organi e le procedure interne per la
conclusione dei trattati. Questa ricostruzione fa dipendere la validità internazionale del
trattato dalla validità interna degli atti che hanno portato alla sua conclusione. Un trattato
sarà quindi invalido allorché il procedimento seguito per la sua conclusione non sia
conforme a quello prescritto dalla costituzione statale.
2) Lo schema interanazionalista, afferma che la procedura di formazione stabilita
dall’ordinamento internazionale potrebbe causare l’invalidità del trattato. Non sarebbero
quindi invalidi accordi stipulati dall’ esecutivo, pure in difformità rispetto a procedure
costituzionali interne.
La convenzione di Vienna ha adottato una soluzione divergente da ambedue le prospettive. Secondo
l’art.46 la circostanza che un trattato sia stato concluso da uno stato in violazione delle proprie
norme interne sulla competenza a stipulare non da luogo ad invalidità del trattato a meno che la
violazione non sia manifesta e non concerna una norma di diritto interno di importanza
fondamentale. L’art 46 indica quindi che solo una violazione evidente di regole interne di carattere
fondamentale potrà dar luogo ad invalidità del trattato. Una violazione è manifesta se
obiettivamente evidente per qualsiasi altro stato. La prassi conferma che un trattato concluso in
difformità alla costituzione formale , ma conforme a quella sostanziale non è invalido. Applicando
al caso italiano art 80 -87 la cost di vienna il trattato è invalido. Applicando la prassi invece NO.
SEZIONE 2
GLI EFFETTI DEI TRATTATI RISPETTO A STATI TERZI
1.
La convenzione di Vienna stabilisce che i trattati non producono diritti ne obblighi per stati terzi
senza il loro consenso. Questa regola non impedisce alle parti di includere in un trattato
Disposizioni che accordino benefici a favore di stati terzi ovvero che impongano loro dei gravami.
In tali casi però, la condotta di stati terzi costituirà solo una fattispecie materiale rispetto ai diritti o
agli obblighi contenuti nel trattato, dei quali sono titolari solamente le parti del trattato. Solo le parti
potranno richiederne l’adempimento ed esercitare le prerogative connesse alla titolarità di una
posizione soggettiva.
2.
Un trattato può produrre effetti nei confronti di uno stato che non ne sia parte allorché questi presti
il proprio consenso. Il consenso dello stato terzo potrebbe essere costruito come elemento di una
fattispecie contrattuale complessa, consistente nell’offerta ad opera delle parti e nell’accettazione
dello stato terzo. Il consenso del terzo perfezionerebbe un accordo fra le parti. Questa è la soluzione
accolta dalla convenzione di Vienna agli articoli 35 e 36. La convenzione traccia una distinzione fra
l’espressione del consenso ad assumere un obbligo che dovrà essere formulata in forma scritta, e
quella necessaria per assumere un diritto, per la quale stabilisce invece una presunzione. La
convenzione di Vienna stabilisce un diverso regime di revocabilità In relazione a la forma di
manifestazione del consenso. L'accettazione di un obbligo da parte dello Stato terzo impedisce che
le parti originarie del trattato possono revocarlo. La presunzione dell'accettazione non esclude la
possibilità di revoca ad opera delle parti a meno che esse non è abbiano pattuito l'irrevocabilità. Tale
regime generale non trova applicazione rispetto a trattati che producono effetti a favore di individui.
3.
Le regole convenzionali di un trattato generalmente non producono effetti nei confronti di terzi.
Tuttavia la convenzione di Vienna all’art 38 prevede che una regola convenzionale possa spiegare
effetti nei confronti di stati terzi qualora tale regola abbia anche natura consuetudinaria. L'ipotesi si
applica sia nel caso in cui la regola consuetudinaria sia già esistente al momento della conclusione
del trattato, sia che si formi con il trattato stesso. Questo meccanismo è alla base dell’utilizzo dei
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trattati al fine di soddisfare interessi generali, e quindi di costituire situazioni giuridiche destinate a
valere per tutta la comunità internazionale. Siamo in presenza di un fenomeno di legislazione
internazionale che si esprime non con un atto istituzionale, ma attraverso una fonte, il trattato
appunto, che di per se non potrebbe produrre tali effetti. Accordi di questo tipo tendono a stabilire
situazioni che si impongono a tutti i membri della comunità internazionale. È però difficile pensare
che esse possano stabilire una disciplina giuridica applicabile a stati terzi. Avremo quindi un gruppo
di stati che operano come legislatori di fatto della comunità internazionale, ponendo in essere regole
che intendono valere anche per stati che non abbiano prestato il proprio consenso.
4.
Se un trattato è in grado di produrre situazioni obiettive, che si impongono a stati terzi
indipendentemente dal loro consenso, il trattato dovrebbe limitare anche la capacità degli stati parte
di sottrarsi all’osservanza di tale disciplina mediante strumenti propri del diritto dei trattati.
SEZIONE 3
LE RISERVE
1.
L’espressione riserva indica una dichiarazione unilaterale, fatta da uno stato quando sottoscrive,
ratifica, accetta o approva un trattato o vi aderisce, attraverso la quale esso mira ad escludere o
modificare l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo stato
medesimo. L’istituto delle riserve è quindi teso a consentire ad uno stato di aderire ad un trattato
multilaterale pur non assumendo determinati obblighi o modificandone la portata. Esso ha quindi lo
scopo di facilitare l’adesione degli stati ai trattati multilaterali. Attraverso l’apposizione di riserve,
gli stati possono alterare in vario modo l’integrità degli obblighi convenzionali: possono escludere o
modificare l’effetto di una o più disposizioni, determinarne l’interpretazione e così via. Il diritto
internazionale ha sviluppato una serie di regole tese ad evitare le conseguenze di un uso improprio
di tale strumento. Diverse dalle riserve sono le dichiarazioni interpretative, allegate alla firma o alla
ratifica di un trattato con le quali una delle parti chiarisce l’interpretazione, che a proprio avviso, va
data ad una certa disposizione. Le dichiarazioni interpretative non producono l’effetto di rendere
vincolante l’interpretazione suggerita e, di conseguenza, non richiedono accettazione ad opera di
altre parti, ma si limitano a chiarire l’indirizzo interpretativo che sarà seguito dalla parte che le
appone. Il regime giuridico delle riserve è soggetto ad un processo di costante evoluzione nel quale
si avverte la tensione fra due esigenze di ordine opposto: da un lato, il riconoscimento di ampia
libertà agli stati in materia di riserve, a costo di una frammentazione del sistema normativo degli
accordi multilaterali, dall’altro, l’esigenza si salvaguardare l’unità di tale sistema, limitando la
libertà degli stati di apporre riserve.
2.
La disciplina classica tendeva a limitare in maniera rigida la possibilità di apporre riserve a
disposizioni di un trattato multilaterale. A tal fine era infatti necessario il consenso di tutte le parti.
Così facendo una riserva ad opera di uno stato avrebbe prodotto effetti uniformi nei confronti di
tutte le altre parti del trattato. Questo regime mutò nel dopoguerra. Secondo il parere della Corte
una riserva sarebbe ammissibile qualora compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato.[parere
del 1951]. Il parere stabiliva quindi un regime liberale quanto al potere di apporre riserve, temperato
tuttavia dal divieto di apposizione di riserve incompatibili con l’oggetto e lo scopo del trattato. Con
ciò la corte ha voluto evitare che uno stato possa aderire ad un trattato pur astenendosi
dall’assumere obblighi che ne rappresentano la ragione d’essere. Per quanto riguarda l’assenza di
strumenti obiettivi di accertamento del diritto nei rapporti giuridici internazionali, la corte ha
prospettato un’utilizzazione dei meccanismi decentralizzati di accertamento del diritto. Secondo il
parere, in presenza di una riserva non espressamente prevista dal testo, la compatibilità con
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l’oggetto e lo scopo del trattato andrebbe accertata in via unilaterale da ciascuna delle parti del
trattato. Ognuna delle parti avrebbe il potere di accettare la riserva o obiettare. In conseguenza
dell’accettazione il trattato entra in vigore nei rapporti fra le parti. L’obiezione ad una riserva
avrebbe invece l’effetto di impedire il sorgere di rapporti convenzionali fra lo stato autore della
riserva e lo stato che ha obiettato.
3.
La convenzione di Vienna ammette l’apposizione di riserve previste dal testo o di quelle compatibili
con l’oggetto e lo scopo del trattato. L'ammissibilità di una riserva è soggetta ad accettazione
ovvero ad obiezione ad opera di ciascuna delle parti. L'accettazione può essere tacita o desunta dalla
mancanza di obiezione nel periodo di 12 mesi successivi alla data di notifica della riserva ovvero
alla data di conclusione del trattato. L'accettazione all'effetto di consentire l'instaurazione di
rapporti contrattuali fra lo stato che la posta è lo Stato che l'ha accettata. L'obiezione non ha l'effetto
di impedire la costituzione di rapporti contrattuali a meno che tale intenzione non sia espressamente
indicata dallo stato obiettante. Il trattato entrerà in vigore ma da esso andrà espunta la disposizione
alla quale si riferisce la riserva.Il regime delle riserve che emerge dalla convenzione di Vienna non
appare del tutto coerente. Innanzitutto l’esasperato bilateralismo sul quale esso si fonda può
funzionare in maniera adeguato solo in presenza di obblighi il cui contenuto risulti scomponibile su
base reciproca. In secondo luogo la convenzione di Vienna non chiarisce se il regime fondato sulla
accettazione o sulla obiezione unilaterale alle riserve sia anche esclusivo o se uno stato possa
rilevare l’inammissibilità di una riserva attraverso altri strumenti. In terzo luogo il regime della
convenzione appare sbilanciato nel senso che esso non dissuade adeguatamente gli stati dall’apporre
riserve inammissibili.
4.
Nei confronti delle riserve ai trattati sui diritti umani, l’approccio bilateralista della convenzione
sembra inadeguato. Gli obblighi in tema di diritti umani hanno infatti una struttura erga omnes,
tendono cioè a creare vincoli giuridici solidali fra le parti e non sono facilmente scomponibili su
base reciproca. In relazione al loro oggetto di tutela inoltre, l’interesse a mantenere l’unità del
sistema convenzionale è particolarmente forte. Vi è infatti un interesse collettivo ad evitare che uno
stato aderisca al trattato senza accettare determinati obblighi, la cui assunzione sembra
indissociabile dalla qualità di parte. Inoltre gli strumenti di garanzia a tutela dei diritti umani
possono essere attivati da individui. Il concorso di queste circostanze è probabilmente all’origine di
un orientamento della corte europea dei diritti umani, tendente a valutare la compatibilità di riserve
alla convenzione europea con l’oggetto e lo scopo della convenzione, e una volta accertatane
l’inammissibilità a dichiararle invalide. In conseguenza della sua invalidità la riserva sarebbe
inapplicabile. Risulterebbe quindi pienamente applicabile la disposizione alla quale essa si riferiva.
La prassi sembra evidenziare come la concezione bilateralista, che disciplina la convenzione di
Vienna, non sia in grado di spiegare compiutamente il fenomeno delle riserve. In particolare per
determinati tipi di trattati, sembra più appropriata una diversa prospettiva che si fonda sulla
esistenza di una nozione obiettiva di inammissibilità delle riserve e quindi sul fatto che una riserva
sia da considerarsi invalida e venga quindi disapplicata.
SEZIONE 4
L’INTERPRETAZIONE DEI TRATTATI
1.
L’interpretazione è un’attività logica che consiste nell’attribuire un certo significato ad una
disposizione linguistica. Dato che i trattati sono il frutto del consenso degli stati parte, la principale
questione che si pone è quella di vedere se il significato di una disposizione convenzionale vada
determinato in maniera obbiettiva o se la funzione dell’attività interpretativa abbia come scopo
principale la ricerca della volontà delle parti.
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2.
L’esistenza di regole giuridiche relative all’interpretazione è stata oggetto di contestazioni sia in
generale che con riferimento all’ordinamento internazionale. In una prospettiva generale si può
dubitare che l’attività interpretativa possa essere predefinita nell’ambito di fattispecie disciplinate
da regole astratte. Una difficoltà di individuare regole generali di interpretazione è data
dall’eterogeneità del contenuto e della portata soggettiva dei trattati. È difficile ritenere che le
medesime regole interpretative possano valere sia per i trattati bilaterali(disciplinano interessi
privati) che multilaterali. (disciplinano valori collettivi o universali).
In considerazione di tali difficoltà Le norme della convenzione di Vienna presentano due
caratteristiche di fondo: innanzitutto si limitano a disciplinare i metodi di interpretazione, indicando
gli elementi che l’interprete deve considerare al fine di interpretare una certa disposizione e
stabiliscono una scala di priorità fra tali metodi. In secondo luogo le norme della convenzione
hanno carattere residuale rispetto a regole interpretative che si possono affermare rispetto a singole
categorie di trattati.
3.
Nella prassi interpretativa si possono distinguere tre metodologie interpretative:
1. metodi di tipo oggettivo, i quali danno prevalentemente rilievo al testo del trattato;
2. metodi di interpretazione soggettiva, i quali danno rilievo alla volontà originaria delle parti;
3. metodi di tipo funzionale che tendono a considerare lo scopo per la cui realizzazione il
trattato è stato concluso.
Il metodo oggettivo e quello funzionale hanno maggiore rilievo. Alla volontà originaria si ricorre in
caso di mancato funzionamento dei metodi principali. La regola generale dispone che un trattato
debba essere interpretato in buona fede secondo il significato ordinario da attribuire ai suoi
termini e nel loro contesto, nonché alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Il principio
dell’interpretazione contestuale, esso imposto all’interprete di considerare ciascuna disposizione
nell’ambito del sistema normativo complessivamente predisposto dal trattato.[elementi da
considerare: preambolo – trattati collegati – annessi – norme internazionali vincolanti – accordi prassi ]
4.
la convenzione di Vienna ammette il ricorso a metodi soggettivi, solo in via supplementare: qualora
cioè l’applicazione degli altri metodi lasci il significato di una disposizione ambiguo o oscuro, o
conduca ad un risultato assurdo o irragionevole. Il consenso delle parti sull’interpretazione viene in
considerazione fra i criteri principali di interpretazione, allorché essa si esprima in un accordo
interpretativo(anche successivo alla formazione del trattato) o in una prassi dalla quale tale accordo
emerga implicitamente. L'articolo 41 della convenzione proibisce ad alcune fra le parti di
modificare gli obblighi di un trattato multilaterale se non a certe condizioni, poste a salvaguardia
dell'interesse delle altre parti a preservare l'unitarietà della disciplina convenzionale.
5.
L' accertamento del significato normativo di un trattato pone il problema di vedere se le nozioni in
esso contenute vadano interpretate nel significato che esse avevano al momento della sua
conclusione o nel significato che esse hanno assunto con il mutare del costume sociale al momento
dell’interpretazione. La prima soluzione [certezza del diritto] privilegia tecniche interpretative di
tipo statico, tese a conservare il significato normativo posto in essere dalle parti. La seconda
soluzione privilegia tecniche interpretative di carattere evolutivo, tese ad adattare la norma giuridica
all’evoluzione delle dinamiche sociali che essa tende a regolare. Essa presenta il vantaggio di
preservare nel tempo la capacità della norma di disciplinare rapporti sociali evitando una sua
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obsolescenza. La convenzione di Vienna non indica espressamente la possibilità di utilizzare
tecniche di interpretazione evolutiva. Questa soluzione appare tuttavia quella che meglio si
armonizza con la concezione obbiettivista che ha ispirato il sistema convenzionale e con il carattere
assai ridotto assegnato invece alle volontà delle parti. L’interpretazione evolutiva stabilisce un
meccanismo obiettivo di adeguamento dell’interpretazione rispetto all’evoluzione sociale.
6. Interpretazione dei trattati settoriali
La disciplina della convenzione di Vienna non ha impedito la formazione da parte della
giurisprudenza di orientamenti interpretativi specifici, che si applicano a categorie particolari di
trattati e che solo parzialmente seguono le indicazioni della convenzione di Vienna.
Ad esempio possiamo ricordare:
1. L’interpretazione dei trattati sui diritti dell’uomo. Nel campo dei diritti dell’uomo
l’interpretazione oggettiva sembra assumere un ruolo di secondo piano rispetto a quella
funzionale. La giurisprudenza tende infatti a considerare in primo luogo lo scopo di tali
trattati, che è quello di tutelare i diritti individuali nei confronti degli stati parte, nonché
l’esigenza di una interpretazione evolutiva dei diritti umani, la cui portata si estende al di la
del loro ambito originario. La giurisprudenza della corte europea dei diritti dell'uomo
nell'accertare il contenuto delle disposizioni convenzionali interno agli stati, ritiene che
l'interpretazione della convenzione vada effettuata in relazione all'evoluzione della società
civile europea.
2. L’interpretazione dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. La particolare natura
di tali trattati ha consentito lo sviluppo, ad opera della giurisprudenza, di particolari dottrine
interpretative. Tali trattati, presentano la caratteristica di istituire un nuovo soggetto di
diritto, caratterizzato da un proprio ordinamento interno, rispetto al quale essi hanno una
funzione propria di un atto costituzionale.
3. Nel definire in via interpretativa i poteri assegnati alle nazioni unite, la corte internazionale
di giustizia non ha fatto ricorso alle normali regole interpretative dei trattati. Essa ha invece
utilizzato tecniche di interpretazione di tipo costituzionalista, fra le quali la dottrina dei
poteri impliciti. Tale dottrina tende a sottolineare come un ente non disponga solo dei poteri
ad esso espressamente trasferiti dagli stati membri, ma anche di altri poteri, in particolare, di
quelli necessari per l’esercizio delle competenze e delle funzioni ad esso assegnate. Si tratta
di una dottrina espansiva che tende ad esaltare i caratteri di autonomia del nuovo ente
rispetto agli stati membri.
SEZIONE 5
LE CAUSE DI INVALIDITA’ E DI ESTINZIONE DEI TRATTATI
1.
Il tradizionale assetto normativo dell’estinzione e dell’invalidità dei trattati è fondato su una
concezione bilateralista. La differenza fra cause di estinzione e cause di invalidità è che la causa di
estinzione impedisce dal momento in cui si verifica , la produzione degli effetti di un trattato,
facendone salvi quelli già prodotti, invece la causa di invalidità rende nullo il trattato dal momento
della sua conclusione. L’art 44 della convenzione di Vienna prevede che le cause di estinzione o
invalidità operino nei confronti dell’intero trattato a meno che esse non si riferiscano a singole
disposizioni separabili dal resto del trattato.
2.
La convenzione di Vienna disciplina i vizi della volontà secondo la tripartizione, errore violenza e
dolo. La convenzione di Vienna distingue fra la violenza esercitata sul rappresentante dello stato,
che può essere violenza fisica o violenza morale, e la violenza esercitata sullo stato, che è solo
morale. La violenza morale sullo stato rileva come vizio di validità solo se si tratta di violenza di
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tipo bellico. L’art 52 prevede la nullità di un trattato “la cui conclusione sia stata ottenuta con la
minaccia o impiego della forza in violazione dei principi di diritto internazionale contenuti nella
carta delle nazioni unite”. L’equilibrio sul quale si fonda la disciplina della violenza nella
convenzione di Vienna è incerto. Da un lato l’art 44 stabilisce che la violenza pregiudica la validità
dell’intero trattato e non solo delle clausole viziate. Dall’altro l’art 65 limita ai soli stati parte del
trattato la possibilità di invocarne la validità. La disciplina sembrerebbe concepire la violenza come
semplice vizio del consenso e non come articolazione di un interesse collettivo ad eliminare le
conseguenze di un uso illegittimo della forza.[es: accordo concluso sotto minaccia]. La convenzione
di Vienna non prevede la nullità di un trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o
l’impiego della violenza economica.
3.
L’art 53 della convenzione di Vienna disciplina il caso dell’invalidità dei trattati confliggenti con
norme superiori dell’ordinamento indicate con la formula del diritto imperativo o cogente. L’art 64
prevede l’estinzione di trattati confliggenti con norme imperative supervenientes.
4.
L’art 60 della convenzione di Vienna contiene la disciplina sull’estinzione o sospensione dei trattati
per inadempimento. La disposizione prevede che solo una violazione sostanziale può giustificare
l’estinzione o la sospensione del trattato o parte di esso. Tale è il mancato adempimento del trattato
nel suo complesso o di una norma fondamentale per l’oggetto e lo scopo del trattato. E' tracciata
una distinzione fra accordi bilaterali ed accordi multilaterali. Una violazione sostanziale di un
trattato bilaterale legittima l’altra parte ad invocare la violazione come motivo di estinzione del
trattato o sospensione totale o parziale. Una disciplina diversa è prevista per l’inadempimento di
trattati multilaterali ad opera di una delle parti. In questo caso la convenzione di Vienna privilegia la
reazione collettiva, prevedendo il potere per le altre parti che agiscono collettivamente, di
estinguere o sospendere il trattato sia in via generale sia soltanto nei rapporti con la parte
inadempiente. La reazione unilaterale all'inadempimento è ammessa in due ipotesi : La prima
prevede il diritto di sospendere unilateralmente il trattato ad opera delle parti specialmente lese
dall'inadempimento.
La seconda prevede il diritto per ciascuna parte
a sospendere
unilateralmente il trattato qualora questo sia di natura tale che una violazione di una delle
disposizioni ad opera di una delle parti modifica radicalmente la situazione per ciascuna delle
altre. Vige il divieto assoluto di estinguere un sospendere trattati in riferimento a obblighi che
tutelano interessi collettivi universali, Come diritti umani. Art 60 par 5.L’estinzione o la
sospensione di un trattato in seguito all’inadempimento di una delle parti si limita a far cessare
temporaneamente o permanentemente gli effetti giuridici di un trattato. La reazione normativa ha lo
scopo di realizzare un equilibrio normativo che si riflette nel trattato e che è stato alterato dalla
violazione. Qualora lo stato non si curi di estinguere o sospendere il trattato e reagisca con un
comportamento di tipo materiale, la reazione non è di carattere normativo ma si colloca nel campo
della responsabilità internazionale. In questo caso il trattato mantiene la sua efficacia e continua a
governare i comportamenti delle parti.
5.
L’art 62 della convenzione di Vienna disciplina l’estinzione di un trattato in caso di mutamento
fondamentale delle circostanze alla base della sua conclusione. Si tratta di una causa di estinzione
indicata con la formula rebus sic stantibus. Si tratta di una clausola che tende ad adeguare la
situazione normativa convenzionale al mutamento della realtà sociale. Essa non opera per il diritto
consuetudinario che evolve in maniera da adeguarsi all’evoluzione del costume sociale. L’art 62
limita l’invocazione della clausola al caso in cui le circostanze di fatto esistenti al momento della
conclusione del trattato abbiano costituito il motivo determinante del consenso ad obbligarsi e il
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loro mutamento abbia l’effetto di alterare radicalmente la natura o la portata degli obblighi
convenzionali che rimangono da adempiere.
6.
La convenzione di Vienna prevede il meccanismo per far valere l’invalidità o l’estinzione dei
trattati. In assenza di procedure obiettive di accertamento, tale meccanismo si fonda sulla ricerca del
consenso delle parti. Una parte che voglia adottare una misura che dichiari l’invalidità l’estinzione o
la sospensione, o che intenda recedere da un trattato deve notificare alle parti la propria intenzione.
In assenza di obiezioni, potrà procedere ad adottare tale misura. Qualora alla pretesa di una parte di
dichiarare un trattato invalido o estinto corrisponda una obiezione di altre parti, sorge una
controversia che andrà risolta utilizzando i mezzi pacifici per la soluzione delle controversie
internazionali. In assenza di soluzione decorsi 12 mesi dall'obiezione , ciascuna delle parti può
chiedere l'attivazione di una ulteriore procedura di conciliazione. L'esito della procedura di
conciliazione non produce effetti vincolanti. Qualora la controversia abbia ad oggetto norme
imperative del diritto internazionale è competente la corte internazionale di giustizia che potrà
essere adita unilateralmente da ciascuna parte. Il regime stabilito dalla convenzione per la
determinazione dell’invalidità o dell’estinzione dei trattati ha un carattere consensuale. Il consenso
fra le parti è necessario anche rispetto a cause di invalidità o estinzione che riguardano la tutela di
interessi collettivi o universali. In assenza di un meccanismo obiettivo di accertamento ciascuna
parte che ritenga un trattato invalido o inefficace avrà la facoltà di adottare misure unilaterali o di
tenere comportamenti difformi rispetto al trattato.
CAPITOLO 3
LE FONTI A FORMAZIONE CENTRALIZZATA
1.
Con il termine “istituzionalizzazione della funzione normativa” sono indicate le fonti
dell’ordinamento internazionale che producono diritto sulla base di un procedimento di tipo
istituzionale. Tali sono le fonti del diritto previste dalla carta delle nazioni unite.
2.
L’assemblea generale delle nazioni unite adotta sovente risoluzioni contenenti principi giuridici e
raccomanda agli stati di conformarvisi. La carta non stabilisce espressamente tale potere, che trova
fonte nel generale potere assegnato dall’art 10 di rivolgere raccomandazioni su questioni o
argomenti che rientrino nell’ambito di applicazione della carta. D’altra parte, la carta assegna
all’assemblea il compito di promuovere lo sviluppo progressivo e la codificazione del diritto
internazionale. Queste due competenze dell’assemblea tendono talvolta a sovrapporsi. Le
dichiarazioni di principi dell’assemblea generale non hanno valore formale vincolante. È diffusa
l’opinione che esse contribuiscano in maniera accentuata alla formazione del diritto generale. In una
prospettiva istituzionale, le dichiarazioni dei principi possono essere viste come una procedura
centralizzata di formazione di norme non vincolanti, talvolta definite anche come norme di soft-law.
Con questa espressione si definiscono delle norme perfettamente compiute quanto al loro contenuto
dispositivo ma prive di valore vincolante. Tuttavia le dichiarazioni dell'assemblea possono produrre
norme vincolanti, nel momento cui una dichiarazione nonostante non costituisca di per sé un atto
vincolante esprima esigenze avvertite dalla comunità internazionale la quale automaticamente vi si
conforma.
3.
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Il consiglio di sicurezza è un organo di carattere operativo. Ad esso è assegnata la responsabilità
principale nel mantenimento della pace e della sicurezza. Le risoluzioni di carattere operativo sono
quelle con le quali, il consiglio affronta una situazione concreta nella quale vi è una minaccia alla
pace e alla sicurezza internazionale, adottando raccomandazioni o decisioni rivolte agli stati o
misure di vario tipo rivolte alle forze delle nazioni unite. Ancorché le risoluzioni operative non
hanno come scopo quello di accertare o stabilire norme giuridiche, esse possono dare un
contributo in questa direzione. Nell’ambito delle proprie funzioni il consiglio ricostruisce il
contenuto di norme internazionali, ne determina l’ambito di applicazione, accerta la liceità o
l’illiceità di una condotta. Ciò facendo il consiglio non svolge direttamente una funzione normativa
ma contribuisce all’accertamento e allo sviluppo del diritto internazionale generale. Più complesso
è stabilire se il consiglio di sicurezza abbia anche il potere di stabilire norme generali e astratte
applicabili non solo in situazioni determinate ma in via generale. Il consiglio ha occasionalmente
adottato delibere di carattere normativo al fine di assicurare la pace e la sicurezza internazionale. Un
contributo allo sviluppo del diritto internazionale può venire anche dalle risoluzioni organizzative,
con le quali il consiglio stabilisce organi e procedure per l’amministrazione di situazioni di crisi o
organi giudiziari per il perseguimento di condotte individuali contrarie al diritto internazionale
penale. il consiglio di sicurezza indica anche il diritto applicabile da tali organi sia ricostruendo
norme applicabili, sia indicandone di nuove. Le risoluzioni con le quali il consiglio stabilisce
norme giuridiche generali producono obbligo a carico dei soggetti di diritto internazionale. La carta
non conferisce direttamente al consiglio potere di produzione normativa, ma il potere di mantenere
la pace e la sicurezza internazionale. Il potere normativo del consiglio trova fondamento nella
misura in cui sia funzionalmente legato al mantenimento della pace. Il consiglio nello svolgere
questo ruolo normativo deve rispettare i principi fondamentali della carta. Per cui il consiglio non
può imporre agli Stati la violazione dei diritti individuali fondamentali ancorché tale violazione sia
necessaria al fine di mantenere la pace e la sicurezza.
4.
L'assemblea generale il consiglio di sicurezza hanno il potere di adottare raccomandazioni entro i
limiti delle competenze stabiliti dalla carta. La raccomandazione è un atto non vincolante che
consiste nell'indicare un certo comportamento agli Stati membri. Le raccomandazioni hanno la
funzione di orientare , e non vincolare, i comportamenti degli Stati per finalità di ordine generale.
Una raccomandazione può costituire una causa di esclusione dall’illecito qualora essa sia stata
adottata al fine di consentire una condotta altrimenti vietata dal diritto internazionale e qualora
l’organo che l’ha adottata abbia il potere di vincolare gli stati a tenere quella determinata condotta.
Il consiglio di sicurezza ha il potere di vincolare gli stati, nonostante che tali condotte risultino in
contrasto con altri obblighi internazionali. Al contrario le raccomandazioni dell'assemblea non
essendo atti vincolanti, hanno l'effetto di integrare le regole di diritto e di contribuire alla loro
interpretazione applicazione.
CAPITOLO 4
I RAPPORTI TRA FONTI
1.
Le dinamiche normative dell’ordinamento internazionale sono diverse da quelle statali. Quelle
statali tendono ad ordinare il sistema delle fonti sulla base di criteri formali quale , quello
gerarchico temporale e di specialità. Nell’ordinamento internazionale, caratterizzato dall’assenza di
meccanismi centralizzati di produzione giuridica assumono rilievo le tecniche di coordinamento fra
norme di pari valore.
2. La codificazione del diritto generale
L’esigenza di codificare il diritto è avvertita anche nel diritto internazionale. La codificazione ha la
funzione di recepire la normativa non scritta è lo scopo di rafforzare la certezza del diritto. Il
passaggio da una norma non scritta ad un testo normativo altera l’effetto giuridico erga omnes
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proprio della norma consuetudinaria, nonchè la natura della fonte consuetudinaria , capace di
adeguare immediatamente il diritto alla mutevole realtà sociale. Nell’ordinamento internazionale la
codificazione è operata attraverso i trattati. La carta delle nazioni unite ha dato un novo impulso
alla codificazione assegnando all’assemblea generale il compito di promuovere lo sviluppo del
diritto internazionale e la sua codificazione. L’assemblea generale ha istituito un organo sussidiario:
la commissione del diritto internazionale, composta da 34 membri eletti a titolo personale
dall’assemblea. L'assemblea generale propone alla commissione del diritto internazionale , un
articolato relativo alla materia da codificare. La commissione la sottopone agli stati membri per
approvarne un testo indicativo dello stato del diritto internazionale. Tale testo viene sottoposto
successivamente alla 6^ commissione dell 'assemblea generale , la quale deciderà se promuovere la
conclusione di un accordo. In caso positivo sarà convocata una conferenza internazionale e il testo
verrà aperto alla ratifica degli stati. Fra i tanti accordi di codificazione es: conv vienna – 4 conv
ginevra. Il successo della codificazione nell’ordinamento internazionale risiede nella autorevolezza
dello strumento di codificazione e nella sua capacità di orientare i comportamenti degli attori
internazionali. L’attività di codificazione ha esiti diversi: Essa, può limitarsi a trasfondere il
contenuto di una norma consuetudinaria in un testo scritto. In tal caso lo strumento di codificazione
avrà portata generale in quanto corrispondente ad una norma avente applicazione generale. In
secondo luogo la codificazione può portare alla formazione di una norma ex novo non
corrispondente alla prassi. L'effetto di tale norma sarà quello proprio dello strumento di
codificazione utilizzato, ovvero di carattere convenzionale o privo di valore vincolante. La
codificazione potrà avere inoltre l'effetto di cristallizzare il diritto esistente, oppure di provocare
un'evoluzione rapidissima del diritto consuetudinario, o ancora di far retrocedere il diritto
internazionale verso soluzioni meno avanzate ma più gradite agli stati.
La recezione di norme consuetudinarie in un trattato di codificazione non comporta la perdita del
valore di principio di diritto consuetudinaro, a meno che non emerga espressamente dal trattato.
Se la conclusione di un trattato di codificazione non ha l’effetto di abrogare le precedenti norme
consuetudinarie, ne dovrebbe conseguire che le vicende del trattato non dovrebbero avere effetti su
tali norme. L'apposizione di una riserva Ad una disposizione di una convenzione di codificazione,
non altera il valore giuridico della corrispondente norma consuetudinaria, infatti questa continuerà
a vincolare gli Stati parte.L’evoluzione del diritto consuetudinario successiva rispetto alla
conclusione di un accordo di codificazione dovrebbe comportare la modifica dell’accordo e quindi,
l’inapplicabilità delle norme convenzionali anche nei rapporti fra le parti. Se infatti la codificazione
di norma non scritte, e la loro incorporazione in un trattato, non toglie a tali norme la natura
consuetudinaria ad esse propria, essa non dovrebbe escludere uno degli effetti tipici del diritto
consuetudinario, consistente nella abrogazione di norme convenzionali già esistenti al momento in
cui la consuetudine si forma.
3. Il coordinamento fra fonti internazionali di pari valore e l’art 31 della convenzione di Vienna.
L’assenza di una chiara gerarchia fra le fonti internazionali evidenzia come il diritto internazionale
sia generalmente fondato sul principio dispositivo. Le norme internazionali operano nei limiti in cui
esse non vengano derogate da altre norme di pari valore. Le norme internazionali interagiscono fra
loro di modo che un trattato può derogare, fra le parti, ad una norma generale, e che una norma
generale può derogare o abrogare un trattato. Il principio dispositivo non è appropriato alle
dinamiche del diritto internazionale. In caso di successione nel tempo di due consuetudini
incompatibili , si applica il principio secondo cui , la consuetudine successiva abroga quella
precedente. Il principio dispositivo potrà applicarsi ai rapporti fra due trattati solo in presenza di
identità della sfera soggettiva delle parti. Un trattato fra A e B non potrà modificare un precedente
trattato tra B e C. Le regole concernenti i rapporti fra trattati incompatibili presuppongono
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l’esistenza di un conflitto. In assenza di un conflitto, si possono avere varie forme di interferenza
che possono essere trattate attraverso tecniche non conflittuali di coordinamento. Una importante
tecnica di coordinamento è stabilita dall’art 31 della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Essa prevede che l’interpretazione di un trattato vada compiuta alla luce delle altre regole di diritto
applicabili nei rapporti fra le parti. L’art 31 ha la funzione di allargare il novero degli elementi che
vanno considerati nell’interpretazione di un trattato. Esso prevede che un trattato non vada
interpretato in isolamento rispetto alle altre norme internazionali. Al fine di percepirne
compiutamente il significato occorre invece collocare ciascuno strumento convenzionale nel più
ampio ambito normativo dato dall’insieme degli obblighi che incombono sulle parti. La
disposizione è rilevante in quanto impone di considerare, a fini interpretativi, anche norme esterne
rispetto al trattato da interpretare, realizzando così un coordinamento fra sistemi normativi. Si tratta
di un coordinamento limitato. L’art 31 ha infatti una portata ristretta. Esso impone la considerazione
di norme esterne a fini interpretativi solo qualora esse siano vincolanti per tutte le parti del sistema
convenzionale da interpretare.
La ridotta operatività dell’art 31 è compensata dalla tendenza della prassi giudiziale ad utilizzare
accordi esterni a fini interpretativi anche al di fuori dei ristretti limiti di applicazione di tale
disposizione. Possiamo distinguere due diverse tecniche interpretative di coordinamento fra sistemi
normativi. La prima di tipo formale, è quella stabilita dall’art 31. Essa stabilisce che
l’interpretazione di una disposizione va contestualizzata anche nel vasto insieme normativo
composto dalle regole internazionali vincolanti per le stesse parti. Questa tecnica consente di
mettere i connessione sistemi normativi formalmente diversi e quindi di armonizzare conflitti fra
questi sistemi. Diverso è il meccanismo che consente di considerare a fini interpretativi norme
internazionali non vincolanti per tutte le parti dell’accordo da interpretare. Questa forma di
coordinamento consente di attribuire ad una disposizione/nozione di un accordo il significato che
essa assume alla luce delle tendenze evolutive dell’ordinamento internazionale. Consente l'
applicazione di orientamenti giurisprudenziali uniformi , a distinti sistemi normativi.
4. I conflitti fra norme internazionali. Tecniche non gerarchiche di soluzione dei conflitti
La successione nel tempo di più trattati aventi il medesimo ambito soggettivo non pone problemi.
Se gli obblighi che ne derivano sono fra loro compatibili, essi, di regola, concorreranno a formare la
disciplina giuridica applicabile alle parti. L’art 30 sul diritto dei trattati prevede che i rapporti fra le
parti di due trattati successivi saranno regolati dal primo solo nella misura in cui gli obblighi di
questo risultino compatibili con il trattato successivo. Il problema sorge in presenza di trattati
incompatibili , non aventi un medesimo ambito soggettivo. Ne la prassi ne la logica giuridica
forniscono elementi per risolvere il conflitto. In assenza di meccanismi di soluzione dei conflitti, i
trattati confliggenti sono quindi validi e produttivi di effetti fra le parti. Ne consegue che uno stato
che sia parte di più trattati è obbligato, nei confronti di parti diverse, a tenere condotte
materialmente incompatibili, per cui non potrà adempiere a entrambi. L’adempimento di uno dei
trattati rende quindi impossibile l’adempimento dell’altro, con conseguente responsabilità nei
confronti delle parti del trattato che rimarrà inadempiuto.
L’art 30 prevede la possibilità che un trattato specifichi di voler essere applicato solo in caso di
compatibilità con altri, solitamente antecedenti. Questa disposizione fa riferimento alla possibilità
che le parti di un trattato facciano salvi gli obblighi di alcune di esse con altri stati. Si stabilisce una
forma di coordinamento unilaterale, che si fonda sull’interesse ad evitare che la diversità di ambito
soggettivo dei trattati possa comportare un conflitto fra obblighi convenzionali. Es: art 351 UE che
consente allo stato membro di discostarsi dagli obblighi assunti, al fine di ottemperare ad obblighi
convenzionali con stati terzi.
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L’art 41 della convenzione di Vienna stabilisce che la possibilità per alcune parti di un accordo
multilaterale di concludere fra loro un accordo in deroga al primo è subordinata ad una serie di
condizioni: che tale accordo non incida sui diritti delle altre parti; che esso non risulti incompatibile
con l’oggetto e lo scopo del primo accordo. I conflitti fra norme convenzionali vanno risolti sulla
base delle regole internazionali. Non sarebbe corretto risolvere tali conflitti sulla base del rispettivo
valore che tali norme hanno nell’ambito di un determinato ordinamento interno.
Un diverso meccanismo di coordinamento è quello stabilito dall’art 103 della carta delle nazioni
unite, il quale prevede che gli obblighi derivanti dalla carta prevalgono in caso di conflitto rispetto
agli altri obblighi convenzionali. A differenza delle clausole di compatibilità, l’art 103 della carta
non intende subordinare unilateralmente l’accordo nel quale è contenuto, la carta delle nazioni
unite, rispetto ad eventuali accordi confliggenti, ma al contrario intende sancirne la prevalenza.
Questo effetto è previsto in via generale sia quindi rispetto ad eventuali accordi fra stati membri
delle nazioni unite e stati terzi, sia rispetto ad accordi dei quali siano parti solo stati membri. L’art
103 non pone agli stati membri l’obbligo di considerare invalido un accordo confliggente con la
carta. Esso si limita ad escludere che l’esistenza di un obbligo internazionale possa indurre uno stato
a tenere una condotta incompatibile con gli obblighi derivanti dall’appartenenza alle nazioni unite.
La funzione dall'articolo 103 è quella di imporre effettivamente agli Stati di osservare gli obblighi
derivanti dalla propria appartenenza alle Nazioni Unite. L'articolo 103 rappresenta la tendenza della
carta a superare i limiti connessi alla sua natura convenzionale e a stabilire in via di fatto la sua
prevalenza rispetto a qualsiasi altra norma internazionale. Vari elementi concorrono a delineare
l'articolo 103 come un meccanismo obiettivo teso ad assicurare la priorità degli obblighi della carta
rispetto ad altri obblighi internazionali, cioè tende a stabilire una forma di autorità sociale
nell'ordinamento internazionale. una prospettiva di questo tipo costituirebbe una regola gerarchica
tesa ad assicurare al sistema della carta valore superiore rispetto alle altre fonti internazionali.
5. Il diritto cogente e la gerarchia fra norme in diritto internazionale
Dati i caratteri strutturali dell'ordinamento internazionale fondato sul principio di sovranità dei suoi
membri e sul ruolo preponderante della volontà degli Stati nella produzione di norme , metodi di
coordinamento fondati su un criterio gerarchico sono incompatibili. Al contrario una relazione
gerarchica fra fonti si può stabilire nell'ambito di ordinamenti speciali quali quelli istituiti da un
accordo internazionale. I rapporti fra il trattato istitutivo e gli atti adottati sulla base di esso sono
organizzati su base gerarchica di modo che il conflitto fra una norma secondaria e il trattato
istitutivo produce l'invalidità della prima. L'idea di un diritto superiore che limitasse il potere di
disposizione degli Stati ha condotto a coniare la formula di diritto cogente, Il quale è contrapposto
al diritto dispositivo. Il diritto cogente indicherebbe una sfera normativa superiore rispetto ai trattati.
Gli articoli 53 e 64 della convenzione di Vienna concernono la validità e l’efficacia dei trattati
confliggenti con il diritto cogente. L’art 53 prevede che un trattato è invalido se, al tempo della
sua conclusione, risulta in conflitto con norme imperative del diritto internazionale generale. L’art
64 della convenzione precisa che un trattato confliggente con una norma imperativa venuta in essere
dopo la sua conclusione non è nullo ma si estingue a partire da tale momento. La convenzione di
Vienna stabilisce quindi le conseguenze sul piano normativo, che hanno l’effetto di rendere
invalido, o di estinguere un trattato. Nella disciplina della convenzione di Vienna, il diritto cogente
ha competenza limitata alla sfera normativa fra obblighi previsti da un trattato e obblighi previsti da
una norma superiore. Il diritto cogente esprime un interesse della comunità internazionale a non
tollerare una norma contraria ai valori fondamentali dell'ordinamento, Indipendentemente che si sia
prodotta o meno una violazione effettiva di tali valori.
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La convenzione di Vienna non indica quali siano le norme cogenti. L’art 53 stabilisce però un
metodo per identificarle. Una norma imperativa è una norma generale, riconosciuta come
inderogabile dalla comunità internazionale nel suo insieme. Si tratta di norme generali che sono
anche riconosciute ed accettate dalla comunità internazionale come norme inderogabili.[opinio
iuris]. Il processo di formazione del diritto cogente si articola in 2 fasi. Occorre innanzitutto che una
norma venga in essere quale norma generale. In secondo luogo occorre che tali regole generali si
affermino anche come regole cogenti: occorre cioè che esse acquisiscano lo speciale effetto di
invalidare o estinguere accordi confliggenti. Essa potrà essere abrogata solo da una regola
successiva avente lo stesso valore cogente. In assenza di forme autoritative di produzione giuridica,
l'affermazione di una sfera di norme superiori dovrebbe seguire il medesimo procedimento di
formazione delle regole consuetudinarie, fondato sulla prassi e sull' opinio iuris. Il carattere cogente
di una regola, non deriva necessariamente dalla prassi, ma costituisce un corollario dell'esistenza di
una regola superiore, che tutti i valori fondamentali della comunità internazionale. La prassi relativa
all'invalidità o all'estinzione dei trattati riguarda esclusivamente casi di contrasto fra un obbligo
convenzionale e un principio di carattere fondamentale per la comunità internazionale, quale il
divieto di uso della forza, il principio di autodeterminazione dei popoli, il divieto di violazioni
massicce dei diritti umani. Il divieto di uso della forza è stato definito come norma cogente dalla
corte internazionale di giustizia,Come anche il divieto di violazioni massicce dei diritti umani.
La categoria del diritto cogente sembra caratterizzata da due elementi: il carattere collettivo degli
interessi protetti e il loro rilievo fondamentale. Questi elementi sono tradizionalmente attribuiti
anche alla norma erga omnes. Le due nozioni, sono concettualmente molto vicine. La nozione di
norma erga omnes attiene ad una particolare struttura di taluni obblighi internazionali. Tali sono le
norme il cui contenuto normativo non si scompone in un fascio di obblighi e diritti reciproci, ma
tende alla tutela di un valore di carattere collettivo o universale. Gli obblighi erga omnes non sono
dovuti ad uno o più stati singolarmente identificati, ma nei confronti della comunità nel suo insieme
concepita come entità di carattere collettivo. La nozione di norme erga omnes attiene ad una
caratteristica strutturale di regole internazionali le quali producono obblighi solidali e non scindibili
su base reciproca. Il concetto di diritto congente attiene invece ad un valore normativo dal quale
deriva la capacità di rendere invalida o di estinguere una regola convenzionale confligge. Non
sempre le norme aventi struttura erga omnes tutelano anche interessi e valori fondamentali della
comunità internazionale. È difficile ipotizzare l'esistenza di regole di diritto congente che non
abbiano struttura erga omnes. L'articolo 65 della convenzione, prevede la procedura da seguire per
far valere l'invalidità o l'estinzione di un trattato. Essa è applicabile anche qualora l'invalidità o
l'estinzione è invocata a motivo del contrasto con il diritto cogente. L'articolo 66 Prevede che una
volta esperiti inutilmente i mezzi pacifici, Ciascuna delle parti potrà adire unilateralmente la corte
internazionale di giustizia, che avrà competenza a definire la controversia. L’art 44 della
convenzione prevede che il contrasto con il diritto cogente produce la conseguenza di rendere
invalido l’intero trattato, senza poterne separare le clausole non viziate. In caso di contrasto con
norme cogenti sopravvenute, saranno colpite da estinzione le sole clausole viziate, qualora
separabili dal resto del trattato. La Disciplina Della convenzione di Vienna, limitando alle sole parti
di un trattato la possibilità di invocarne l'invalidità o l'estinzione è contraddittoria. Infatti da un lato
tende a sottolineare l'esistenza di una sfera di interessi collettivi che costituiscono un limite alle
capacità contrattuale delle parti; dall'altro affida la garanzia di tale sfera alle parti medesime poiché
sono queste che possono adire la corte internazionale di giustizia Affinché dichiari l'invalidità o
l'estinzione.
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L’esistenza di un diritto gerarchicamente superiore non rileva solo nell’ambito del diritto dei trattati,
essa anzi appare rilevante nelle dinamiche normative dell’ordinamento. Non necessariamente tale
nozione ha lo stesso contenuto nelle varie situazioni in cui essa venga impiegata. Il ruolo del diritto
cogente è ben diverso qualora esso venga invocato come limite all’autonomia contrattuale degli
stati o come limite all’azione istituzionale del consiglio di sicurezza.
Il diritto cogente non dovrebbe rilevare come un limite alle norme consuetudinarie. È difficile che
una norma consuetudinaria possa essere in contrasto con norme di diritto cogente. Le prime
manifestazioni della prassi contrarie al diritto cogente costituirebbero delle violazioni degli interessi
fondamentali della comunità internazionale. Il diritto cogente è stato talvolta invocato come uno
strumento gerarchico di soluzione dei conflitti fra norme consuetudinarie. Ciò è dovuto al fatto che
il diritto consuetudinario non costituisce un sistema normativo coerente. Quanto ai rapporti fra
regole che prevedono l' immunità degli stati dalla giurisdizione e regole che vietano agli individui la
commissione di crimini internazionali , in caso di commissione di crimini da parte di autorità
statali , tali regole finiscono per ostacolare l' accertamento da parte degli organi giurisdizionali
interni. L'emergenza di un diritto cogente pone il problema di un adattamento delle norme
strumentali dell'ordinamento internazionale che si sono formate in un ambiente giuridico
essenzialmente interstatale. Le regole processuali costituiscono uno strumento di realizzazione
delle regole sostanziali quindi possono determinare i limiti e le modalità di attuazione della
normativa sostanziale ma non negarne l'esercizio.
Il concetto di diritto cogente è stato impiegato anche al fine di rinvenire i limiti all'azione di organi
di istituzioni internazionali come il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Se il consenso degli
Stati parte non ha la capacità di derogare a norme cogenti esso non potrebbe validamente conferire
ad un organo istituzionale il potere di violare tali norme. La questione dei limiti al potere del
consiglio di sicurezza in relazione al diritto congente è stata affrontata dal tribunale dell'unione
europea il quale ha affermato che le norme cogenti costituiscono un limite di validità delle
risoluzioni del consiglio di sicurezza, indicando che la questione di validità di risoluzione del
consiglio di sicurezza, confliggenti con il diritto cogente, possa essere risolta dai giudici degli
ordinamenti nazionali nei quali le risoluzioni debbono essere eseguite. Tuttavia la funzione
fondamentale del consiglio di sicurezza consistente nel determinare condizioni di pace e sicurezza
internazionale potrebbe in determinate occasioni di scostarsi dalle regole di diritto cogente.
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PARTE 3
LE DINAMICHE SOGGETTIVE IN DIRITTO INTERNAZIONALE
SEZIONE 1
LO STATO
1.
In diritto internazionale lo stato costituisce una comunità territoriale organizzata politicamente, una
comunità territoriale dotata di una forma di governo che esercita un controllo effettivo sul territorio.
L’ordinamento internazionale non pone alcun requisito attinente alla forma di organizzazione o al
regime politico per essere qualificato stato. Lo stato come soggetto dell’ordinamento internazionale
tende a coincidere con l’organizzazione politica della comunità territoriale e quindi con l’apparato
di governo.
2.
Il concetto di sovranità esprime la pretesa di autonomia opposta dai moderni Stati alle precedenti
pretese universalistiche. La sovranità indicherebbe la capacità di un ente di determinare liberamente
i fini e gli strumenti della sua azione politica interna e di concorrere con gli altri soggetti
dell'ordinamento alla determinazione di forme di organizzazione sociale sul piano internazionale.
Nella prassi tradizionale la sovranità viene identificata nella capacità di un certo ente di determinare
liberamente gli obiettivi e i mezzi della propria azione. In tal senso si ricorda l'opinione individuale
espressa dal giudice Anzilotti secondo cui l'indipendenza è la condizione normale degli Stati
secondo il diritto internazionale, ciò significa che lo Stato non ha nessuna autorità al di sopra di sé
se non il diritto internazionale. La corte ha affermato che la capacità di uno stato di limitare la
propria libertà di azione attraverso un trattato costituisce una espressione di sovranità. Secondo la
dottrina classica il trasferimento di poteri ad un ente non costituisce una limitazione di sovranità
fintanto che tale fenomeno rimane sul piano puramente normativo. Questa prospettiva si differenzia
dal concetto normativo di sovranità per prendere in considerazione una nozione politica effettuale di
sovranità secondo la quale sarebbe sovrano l'ente che dispone del potere coercitivo. Tuttavia il
principio dell'eguaglianza sovrana degli Stati esprime un carattere strutturale dell'ordinamento
internazionale dato dalla assenza in via di principio di autorità sociale ovvero di istituzioni o
funzioni centralizzate, che salvaguarda la personalità dello Stato, la sua integrità territoriale e la sua
autonomia negli affari interni.
3.
Il principio di sovranità non è limitato ad alcun requisito attinente a criteri di rappresentatività fra
stato e popolo. La scelta della forma di stato e del regime di governo rientrano nell’ambito degli
affari interni di ciascuno stato. Non solo quindi il modo con il quale si determina la scelta di un
regime non costituisce un elemento per affermare o per negare la soggettività internazionale di un
ente, non vi è nemmeno alcuna norma generale che imponga requisiti di legittimazione democratica
o di rappresentatività. Tuttavia la convenzione europea dei diritti umani contiene un obbligo di
consentire la scelta del regime politico attraverso libere elezioni. Inoltre dal combinato disposto
degli articoli 2 e 7 del trattato sull'unione europea emerge un procedimento per accertare il rischio
di violazione dei principi democratici. Ancora l'articolo 25 del patto internazionale sui diritti civili e
politici garantisce ad ogni cittadino il diritto di partecipare alla direzione politica personalmente o
attraverso rappresentanti liberamente scelti. Il principio di sovranità dello stato subisce quindi una
importante eccezione data dal principio di autodeterminazione dei popoli. La carta delle nazioni
unite indica fra i fini dell'organizzazione lo sviluppo di relazioni amichevoli fra le nazioni , fondate
sul rispetto del principio dell'eguaglianza dei diritti , e dell'autodeterminazione dei popoli. Il
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contenuto e la portata del principio di autodeterminazione appaiono però piuttosto limitati.
Innanzitutto la nozione di popolo è priva di connotati etnici, storici o culturali. Essa designa la
comunità territoriale dello stato. Ne consegue che il principio non si applica a suddivisioni interne
della popolazione. In secondo luogo, il principio di autodeterminazione si applica solo in tre
situazioni: ai popoli soggetti a dominazione coloniale, ai popoli soggetti a dominazione straniera, ai
popoli soggetti ad un regime non rappresentativo l’intera popolazione. La prassi è chiara nel
delineare come il principio non possa implicare un limite alla integrità territoriale o all' unità
politica degli stati che non rientrino nelle fattispecie indicate sopra. Infatti l'assemblea generale
delle Nazioni Unite ha affermato che gli sforzi della comunità internazionale a favore del principio
di democrazia non devono pregiudicare il diritto di ciascuno Stato di scegliere liberamente il
proprio regime politico e sociale. L'applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli
comporta un obbligo di concedere l'indipendenza in presenza di una dominazione di carattere
straniero o coloniale ovvero la necessità di assicurare la rappresentatività dei gruppi etnici razziali o
religiosi di uno Stato. Il compito di stabilire regole applicative dell'autodeterminazione spetta
all'assemblea generale la quale lo esercita direttamente o delegando all'organizzazione regionale
competente. la struttura erga omnes del principio di autodeterminazione dovrebbe indicare che
ciascuno degli Stati della comunità internazionale abbia un interesse giuridico sul rispetto.
4.
Il diritto internazionale non contiene alcuna regola che stabilisca direttamente i modi di formazione
o estinzione di uno stato ma si limita a constatarne l’esistenza o la sua cessazione, e a regolarne gli
effetti. Oggi i nuovi stati si formano in seguito a processi di formazione di preesistenti
organizzazioni statali per effetto di un radicale sovvertimento dell'intero apparato di governo.
Frequentemente nuovi stati si formano in seguito a dissoluzione o distacchi di porzioni di territorio
rispetto ad una o più organizzazioni statali preesistenti, A volte come il risultato di un processo
consensuale talora a seguito di conflitti interni o internazionali. Secondo l'opinione prevalente le
regole di diritto internazionale che disciplinano la formazione di nuovi stati hanno un contenuto
puramente procedurale. Esse determinerebbero solo le modalità per far valere le esigenze
potenzialmente in conflitto: la pretesa di secessione da un lato, la pretesa dello status a quo
dall’altro. Da un punto di vista formale il diritto internazionale si limiterebbe a stabilire che le
pretese contrapposte non vengano perseguite con metodi contrari al diritto internazionale. Dal punto
di vista sostanziale la comunità internazionale dovrebbe limitarsi a prendere atto dell'esito del
conflitto. La neutralità del diritto internazionale si manifesta quindi nell'astenersi da una
qualificazione giuridica dei fenomeni secessionisti. Tuttavia il principio della neutralità del diritto
internazionale finisce per penalizzare le pretese secessioniste. L'ente secessionista gode infatti solo
della protezione indiretta che deriva dal divieto posto allo stato di impiego eccessivo della forza
interna nonché dalla tutela dei diritti fondamentali. Per cui il principio di neutralità equivale in
realtà ad un sostegno allo Stato territoriale. Il principio di neutralità è un corollario del principio
della non ingerenza negli affari interni di uno Stato che tende a ribadire la struttura paritaria
dell'ordinamento internazionale. Il principio subisce una attenuazione qualora il conflitto fuori esca
dai confini interni e ponga in pericolo interessi collettivi della comunità internazionale. In questo
caso, l'uso eccessivo della forza, gravi violazioni dei diritti umani, fenomeni di genocidio o di
pulizia etnica e l'esistenza di una minaccia diretta per la pace e la sicurezza internazionale
giustificano , un intervento di carattere unilaterale delle Nazioni Unite. Secondo la classica
impostazione realista, il procedimento di formazione di un nuovo stato, non conforme al diritto
internazionale, non preclude la natura statale dell'ente, una volta che si sia costituito ed abbia
esercitato con carattere di permanenza e l'effettività la propria sovranità. La prassi più recente tende
a considerare come in nulla e non avvenuta la formazione di uno Stato in violazione di principi
fondamentali della comunità internazionale.
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5.
Il diritto internazionale non pone obblighi allo stato relativamente alla sua organizzazione interna, e
non contiene regole tendenti ad identificare i suoi organi. Secondo un criterio formale, sono organi
dello Stato quelli formalmente incardinati nella sua struttura burocratica. Il diritto internazionale
rinvierebbe al diritto interno l'attribuzione di competenza ad agire. L'articolo 4 dell'articolato sulla
responsabilità dello Stato, infatti indica che sono organi di Stato tutti coloro che hanno lo status di
organo secondo il diritto interno. Una soluzione più equilibrata sembra quella di contemperare il
criterio formale con il criterio dell'effettività. Andrebbero considerati organi coloro che pur
sprovvisti formalmente di tale qualifica abbiano legami di fatto tali da risultare organicamente legati
alla realizzazione degli obiettivi politici di uno Stato. Secondo la corte internazionale di giustizia
sarebbero organi dello Stato non solo gli individui formalmente inseriti nell'ambito della struttura
burocratica, ma anche coloro sui quali uno Stato esercita un controllo totale. Di converso individui
sui quali uno Stato non esercita un controllo totale non sarebbero organi di tale stato. La camera
d'appello del tribunale internazionale penale, aveva affermato che la condotta di individui che
agiscono in via generale sotto il controllo di uno Stato sia attribuibile a tale stato anche qualora non
sia dimostrato che ciascuna singola azione sia stata posta in essere sotto la direzione di controllo
statale. Quel che il diritto internazionale intende accertare è che una certa azione o omissione sia
posta in essere da uno stato è ricada nell'ambito di applicazione del diritto internazionale.
L'esistenza di un legame organico fra individuo è stato andrebbe provato caso per caso e non sulla
base di criteri predeterminati. I vari criteri utilizzati dalla prassi costituiscono solo criteri di carattere
presuntivo è vanno adattati alle circostanze concrete.
6.
La nascita di un nuovo stato è solitamente accompagnata dal riconoscimento ad opera degli altri
stati della comunità internazionale. Il riconoscimento è un atto unilaterale che esprime un
accertamento svolto unilateralmente da altri stati circa l’esistenza e la capacità di un nuovo ente ad
esercitare le funzioni di sovranità su di una comunità territoriale. In assenza di un accertamento
autoritativo, il riconoscimento esprime quindi, a livello decentrato, la volontà degli stati di
considerare il nuovo ente come un nuovo soggetto di diritto e di entrare in rapporti giuridici con
esso. Una forma di riconoscimento collettivo si verifica con l’adesione di uno stato alle nazioni
unite. Alla luce del procedimento di ammissione, che prevede una pronuncia dell’assemblea
generale su raccomandazione del consiglio di sicurezza, l’ammissione esprime la volontà di
accogliere il nuovo ente nella comunità internazionale. Si è affermata in dottrina una diversa
ricostruzione secondo la quale il riconoscimento non avrebbe carattere costitutivo, ma avrebbe
natura meramente ricognitiva. Con esso ciascuno stato esprime la propria convinzione che un certo
ente rivesta i caratteri voluti dall’ordinamento per acquisire personalità internazionale. Vi è una
tendenza a subordinare il riconoscimento al rispetto da parte del nuovo stato di principi di
democrazia e dei diritti umani.
7.
In caso di vicende che comportano l’estinzione di uno stato, si pone il problema di vedere se si
estinguano anche i suoi obblighi convenzionali, o se si determini un fenomeno di successione in
capo al nuovo ente statale che succeda nel governo della comunità territoriale. La materia è
disciplinata tradizionalmente da due principi: Il primo è quello della continuità secondo cui l’ambito
di applicazione territoriale di un trattato si modifica automaticamente in corrispondenza
dell’accrescimento o della contrazione del territorio di tale stato qualora l'apparato di governo non
risulti modificato. Per cui una variazione del territorio di uno Stato comporta che l'ambito di
applicazione dei trattati si estenderà automaticamente alla nuova porzione di territorio alla quale
invece non si applicheranno i trattati conclusi dal precedente sovrano territoriale. Il secondo
principio è quello della tabula rasa, secondo cui l'estinzione di uno stato comporta la cessazione
dell'efficacia dei trattati presso conclusi. Tale regola costituisce applicazione rigorosa del principio
per il quale l’estinzione di un soggetto comporta automaticamente l’estinzione dei suoi obblighi.
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L'estinzione di uno Stato si realizzano in diverse forme: Il distacco; su una parte del territorio di uno
stato si afferma un nuovo ente di governo. La fusione; più Stati precedenti danno vita ad un nuovo
stato. Smembramento; sul territorio di uno Stato si formano più enti di governo di distinte comunità
territoriali. In tutti questi casi, Secondo il diritto internazionale, lo Stato di nuova formazione sorge
privo di vincoli convenzionali. La convenzione di Vienna invece, prevede relativamente alle
vicende di estinzione sopra citate, che si applichi il principio della continuità dei trattati,
limitatamente alla sfera territoriale dei trattati, che si applicavano allo stato predecessore.
Generalmente uno stato di nuova formazione, notifica la propria adesione ai trattati multilaterali
aperti, conclusi dal predecessore. La notifica di successione, ha effetti retroattivi, che decorrono dal
momento della formazione del nuovo Stato. La prassi tende ad affermare la continuità degli
obblighi derivanti dai trattati in presenza di un interesse della comunità internazionale.
SEZIONE 2
ENTI STATALI A SOVRANITA’ LIMITATA
1.
Dal momento che la sovranità è un concetto di carattere unitario e indivisibile, l’idea che vi possano
essere enti statali dotati di una “parte” di sovranità sembra inconciliabile con le categorie logiche
del diritto internazionale. La prassi presenta una serie di figure di enti, che tendono a presentarsi
come statti, ma difettano di sovranità. Governi in esilio: strutture formali di governo, prive di reale
effettività costituite all'estero in seguito all'occupazione militare di un paese. La loro mancanza di
controllo effettivo di un territorio rende impensabile l'equiparazione ad uno stato. Vi è la tendenza a
considerare i governi in esilio dei soggetti su cui generis dell'ordinamento internazionale, capaci di
esercitare determinate posizioni soggettive, come la possibilità di invocare norme internazionali per
l'esercizio del diritto di legittima difesa collettiva. Stati fantoccio: Organizzazioni statali
formalmente indipendenti, ma dipendenti totalmente da altri Stati per l'esercizio delle funzioni
statali.
2.
failed state. stato che si trova di fatto in una situazione di anarchia tale da impedire lo svolgimento
delle funzioni normalmente assicurate da uno stato. La dottrina prevalente ritiene che l'esistenza di
una situazione di anarchia, nonché l'incapacità di fatto di uno stato di assicurare le funzioni minime
di governo territoriale, ha l'effetto di sospendere la soggettività internazionale. Tuttavia il collasso
delle funzioni governative di uno Stato, non ha l' effetto di rendere res nullius il territorio di uno
Stato fallito, né l'effetto di far venire meno l'esistenza di una comunità territoriale di modo che
possa essere soggetto ad appropriazione territoriale o che la comunità territoriale possa essere
oggetto di forme di dominio politico. Il fenomeno di failed states consente di evidenziare come non
ci sia una perfetta coincidenza fra il governo e la comunità territoriale. Di conseguenza, il venir
meno dell’organizzazione politica non ha come conseguenza il venir meno delle regole che tutelano
gli interessi della comunità territoriale.
3.
I rogue state (stati canaglia) sono gli stati ai quali, in ragione di un comportamento contrario ad
alcuni principi fondamentali del diritto internazionale, si dovrebbe negare l’appartenenza alla
comunità internazionale e le garanzie che il diritto internazionale tutela. Per il fatto di violare le
regole sociali della convivenza fra stati, di conseguenza non sarebbero abilitati ad invocare le
garanzie di diritto internazionale di modo che eventuali azioni coercitive nei loro confronti
potrebbero essere lecite.
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SEZIONE 3
GLI ENTI A SOGGETTIVITÀ LIMITATA
1.
Il diritto internazionale classico annovera tradizionalmente, accanto agli stati alcuni enti aventi
soggettività limitata, i quali disponendo di competenze limitate, sono destinatari di regole attinenti
all’esercizio delle loro competenze.
Insorti: governo provvisoriamente stabilito su una parte del territorio statale da un movimento
rivoluzionario o secessionista. Gli insorti sono considerati soggetti solo a certe condizioni; che essi
agiscano sotto un comando effettivo, che acquisiscano un controllo territoriale, ed esercitino
funzioni di governo su una porzione non insignificante di territorio. Secondo la tesi prevalente il
diritto internazionale non disciplina il fenomeno dell'insurrezione, il quale rimane un fatto
giuridicamente irrilevante per tutto lo svolgimento del conflitto. Tuttavia l'articolo 3 della
convenzione di Ginevra del 1949, stabilisce che qualora insorga un conflitto armato ciascuna delle
parti è tenuta a rispettare disposizioni minime di diritto umanitario.
2.
Nel sistema concettuale del diritto internazionale, la costituzione di organizzazioni internazionali ha
fatto sorgere il problema della loro capacità di essere destinatarie e di esercitare posizioni soggettive
tradizionalmente riservate agli stati. Secondo la teoria consensualista per determinare il contenuto
e la portata della soggettività di un’organizzazione è necessario stabilire se, con il trattato istitutivo,
gli stati membri hanno inteso costituire un centro autonomo di imputazione di rapporti soggettivi o
semplicemente un organo comune. Secondo la teoria obbiettivista, la soggettività di un ente è
stabilita in base al diritto generale. Una organizzazione internazionale ,Sarà destinataria di posizioni
soggettive internazionali, qualora sia capace di esercitare i diritti e obblighi internazionali con un
certo grado di autonomia. Vengono mosse critiche ad entrambe le teorie. Alla prima costruzione di
carattere consensualista si è opposto il fatto che un trattato non potrebbe dar vita ad un nuovo
soggetto di diritto in quanto inidoneo a produrre effetti nei confronti di soggetti terzi. Infatti un ente
si afferma come soggetto di diritto internazionale se mostra la capacità, di intrattenere autonome
relazioni con altri soggetti. La dottrina obiettivista sembra porre eccessiva enfasi sulla constatazione
in via di fato dell’autonomia del nuovo ente, la quale, nei suoi momenti iniziali non può che trovar
fonte nel trattato istitutivo. La corte internazionale di giustizia, al fine di determinare la personalità
di organizzazioni internazionali [Nel caso specifico Organizzazione Nazioni Unite]In primis a dato
rilievo al trattato istitutivo. Secondo la corte gli Stati membri hanno voluto istituire un nuovo ente
capace di determinare autonomamente il proprio indirizzo politico nella sfera delle relazioni
internazionali. Inoltre la corte ha dato rilievo alla prassi internazionale, indicando come l'ONU,
attraverso l'esercizio degli strumenti di azione conferiti dalla Carta, si fosse affermato
effettivamente come un nuovo ente capace di esercitare poteri per realizzare i propri fini. Il parere
della corte internazionale di giustizia evidenzia come l'esistenza di poteri indicati in un trattato non
è sufficiente a stabilire la personalità di un ente la quale potrà essere accertata con sicurezza, sulla
propensione degli altri soggetti della comunità internazionale ad entrare in rapporti giuridici con il
nuovo ente. Per cui la personalità internazionale costituisce un processo dinamico di acquisizione
che si svolge fra il piano del diritto interno dell'organizzazione e il diritto internazionale. Un
modello utile per determinare le regole internazionali che si rivolgono alle organizzazioni
internazionali, è quello di verificare se un'organizzazione destinataria di una regola abbia la capacità
di violare tale regola attraverso l'esercizio delle proprie competenze. Dato che le organizzazioni non
hanno competenza piena ma limitata a i poteri necessari per la realizzazione degli scopi loro
assegnati secondo la dottrina prevalente, avrebbero una illimitata personalità ma una capacità
limitata al campo delle competenze delle quali esse dispongono.
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3. (stati che hanno trasferito poteri ad enti sovranazionali)
Il trasferimento di competenze a favore di organizzazioni internazionali pone il problema di
verificare se gli stati membri di tali organizzazioni abbiano mantenuto inalterata la propria
personalità. Nella prospettiva classica questo fenomeno di transizione della personalità non si
verificherebbe mai perchè la personalità dello stato non sarebbe un elemento acquisibile o
dismettibile, quanto piuttosto una qualità essenziale della statualità di un certo ente. La personalità
costituisce, nel caso dello stato, un corollario della sua sovranità ed appare da esso indissociabile.
Inoltre le organizzazioni internazionali sono enti dotati di soggettività funzionale, loro attribuita per
le finalità che esse perseguono. In conseguenza di tale schema, l’istituzione di una organizzazione
internazionale aggiunge un nuovo soggetto, a soggettività parziale, al panorama di quelli gia
esistenti, ma non altera in alcun modo la soggettività degli stati.
4. (Stati che hanno trasferito poteri sovrani ad enti sub-statali)
Si tende generalmente a negare che abbiano soggettività internazionale gli enti substatali, quali gli
enti costitutivi di uno stato federale o le articolazioni territoriali interne di stati unitari.
Tradizionalmente si ritiene che gli enti costitutivi di stati federali siano sprovvisti di sovranità. Ciò
varrebbe non solo nei casi in cui uno stato federale sorge in seguito alla devoluzione di competenze
ad opera di un precedente stato unitario, ma anche qualora lo stato federale sorga in seguito ad un
processo di federazione di stati sovrani. Nelle confederazioni sono gli Stati confederati a
determinare l'ampiezza dei poteri dell'ente confederale a cui spetta la sovranità. Negli enti federali è
l'ente centrale a determinare la sfera di competenza degli Stati, titolare della sovranità. Nella
maggior parte dei casi di aggregazioni federali, il trasferimento di sovranità comporta la perdita
della soggettività internazionale. Generalmente l’ente federale raggruppa in se le funzioni estere del
nuovo stato. In tal caso, lo stato federale è tale solo verso l’interno, e si presenta invece con le
sembianze di uno stato unitario sul piano esterno (es. Stati uniti d’America).
SEZIONE 4
GLI INDIVIDUI
1.
Le categorie concettuali del diritto internazionale si sono formate sul presupposto che i destinatari
naturali delle sue regole siano gli stati. Questo schema teorico resta sostanzialmente immutato
anche nei casi in cui delle regole internazionali tendano a produrre situazioni vantaggiose o
svantaggiose per individui o per gruppi di individui. Gli individui sarebbero meri beneficiari
materiali della regola, la quale produrrebbe posizioni soggettive internazionali soltanto nei confronti
degli stati. Secondo questo schema concettuale, il titolare di una posizione soggettiva non coincide
necessariamente con il beneficiario materiale di essa. Sarà invece titolare colui al quale
l’ordinamento internazionale riconosce il potere di pretendere l’osservanza di una regola nonché di
agire per farne valere la violazione.
2.
nello schema classico le regole internazionali possono disciplinare attività individuali, ma lo fanno
attraverso l’intermediazione normativa rappresentata dagli ordinamenti interni. Un diverso schema
teorico è avanzato dalle regole internazionali ,che intendono produrre diritti e obblighi direttamente
in capo a soggetti individuali. regole di questo tipo rappresentano un tratto caratteristico
dell’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo.
3.
il diritto internazionale classico conteneva una limitata serie di regole che stabilivano obblighi a
carico di individui e ne sanzionavano l’inosservanza. La formula classicamente utilizzata era quella
dei crimina iuris gentium, un' insieme di regole internazionali, che sanzionavano condotte di
individui considerate lesive per la comunità internazionale. La normativa internazionale sui crimini
individuali si è sviluppata a partire dalla seconda metà del XX secolo. Il 9 dicembre 1948
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l’assemblea generale delle nazioni unite ha adottato la convenzione sul genocidio. La convenzione
definisce il genocidio come un crimine internazionale prevedendo che esso comporti non solo la
responsabilità dello stato, ma anche la responsabilità penale degli individui che lo abbiano
commesso. La convenzione stabilisce quindi che la giurisdizione penale su atti di genocidio
compiuti da individui spetti ad un tribunale internazionale, e in mancanza allo stato sul cui territorio
siano state poste in essere le condotte che costituiscano genocidio. La corte internazionale di
giustizia ha stabilito che la convenzione stabilisce la proibizione per gli Stati di commettere
genocidio. La formazione di un corpo di regole consuetudinaria rivolte agli individui, è confermata
dall'istituzione di tribunali ad hoc aventi una giurisdizione che si estende alla violazione delle regole
internazionali nel corso di conflitti in un dato territorio. Lo statuto della corte penale internazionale
inoltre conferisce alla corte penale internazionale la giurisdizione a perseguire condotte di
genocidio, crimini di guerra contro l'umanità, e crimini di aggressione.
4.
In corrispondenza alla formazione di regole internazionali che pongono obblighi a carico di
individui, l’ordinamento internazionale ha anche sviluppato un imponente corpo di regole a tutela
dei diritti individuali. Il processo di sviluppo di tutela dei diritti dell’uomo ha avuto inizio ad opera
delle nazioni unite. Il 10 dicembre 1948 è stata celebrata la dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo. Ha fatto seguito l'adozione di varie convenzioni e l' istituzione di commissioni quali: La
convenzione sul genocidio, La commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, il consiglio dei
diritti umani, il comitato dei diritti umani, nonché la convenzione europea dei diritti dell'uomo.
Quest'ultima contiene un elenco di diritti individuali e prevede un sistema di controllo incentrato
sulla corte europea dei diritti dell'uomo. Tutela diritti civili Inderogabili quali: il diritto alla vita, il
divieto di tortura e trattamenti degradanti, il diritto di libertà, il divieto di arresto arbitrario, il
divieto di lavori forzati, il diritto ad un equo processo, il principio di legalità delle pene. Tutela
diritti collettivi quali: il diritto al rispetto della vita privata e familiare, la libertà di pensiero, la
libertà di coscienza di religione, la libertà di espressione, la libertà di riunione. La convenzione
europea prevede la possibilità di reclamo individuale per gli individui che pretendano di essere lesi
nei diritti garantiti dalla convenzione ad opera di uno Stato parte. Tale reclamo viene definito con
sentenza, a seguito di un procedimento in contraddittorio con lo stato convenuto.
5.
La circostanza che varie regole internazionali, consuetudinarie o convenzionali, riconoscano certi
diritti individuali non è sufficiente a concludere che effettivamente si costituiscano posizioni
soggettive in capo a singoli individui. Al fine di affermare la titolarità dei diritti dell'uomo da parte
di singoli individui occorre dimostrare che tali regole stabiliscano un rapporto soggettivo del quale
siano parte direttamente gli individui. Per quanto riguarda gli obblighi posti agli individui
l'esistenza di norme che sanzionano direttamente le condotte dimostra che l'ordinamento
internazionale pretende direttamente da essi l'osservanza di tali regole, prevedendo dei meccanismi
sanzionatori in caso di inadempimento. [es: crimini iuris gentium] L'applicazione del medesimo
criterio anche al caso delle norme che prevedono diritti individuali induce a ritenere che gli
individui ne sono destinatari qualora essi abbiano il potere di reclamare il rispetto di tali regole. La
convenzione di Vienna stabilisce il diritto per l'individuo arrestato all'estero, di avvalersi
dell'assistenza consolare da parte del proprio Stato nazionale. La corte ha stabilito che il diritto
all'assistenza consolare è un diritto garantito all'individuo. Tuttavia la corte ha sostenuto che non
costituisce un diritto dell'uomo.
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SEZIONE 5
LA TUTELA DELLA PERSONALITÀ DELLO STATO: IL REGIME DELLE IMMUNITÀ E
PRIVILEGI
1.
Il diritto internazionale ha sviluppato una serie di regimi relativi alle immunità di stati stranieri e di
suoi organi. Il primo è quello delle immunità accordate agli organi di stati stranieri in relazione a
condotte organiche. Si tratta di regole che imputano le condotte organiche allo stato per il quale
sono state operate e non direttamente agli individui che le hanno poste in essere. Un secondo
gruppo è dato dalle regole che stabiliscono le immunità di cui godono gli stati negli ordinamenti
interni. Tali regole hanno lo scopo di tutelare la personalità internazionale degli stati evitando che
essi possano essere convenuti di fronte ai tribunali di un altro stato. Un terzo gruppo è composto
dalle regole che assicurano forme di immunità a favore di particolari organi statali per condotte
private. Esse si applicano al personale diplomatico, ai capi di stato e di governo, ai ministri
responsabili per le relazioni internazionali. L’immunità risponde all’esigenza si assicurare la libertà
di azione degli organismi supremi dello stato e di mantenere aperti i canali diplomatici.
2.
Le regole sull’immunità sono regole sull’imputazione. Che impongono di imputare le condotte
poste in essere da organi di stati stranieri nell’esercizio delle proprie funzioni , allo stato, per il
quale tali condotte sono state eseguite. Tale regola ha l’effetto di sottrarre una certa condotta
all’applicazione del diritto interno di uno stato e di consegnarla al diritto internazionale. La regola
sull’imputabilità allo stato di condotte dei propri organi comporta delle eccezioni. Infatti è
consentito agli Stati di imputare direttamente agli individui condotte quali: spionaggio, attività di
polizia clandestina, pur se poste in essere in qualità di organi di uno Stato. La ratio consiste nel
particolare disvalore etico che le accompagna. Altra eccezione è prevista per i crimini di iuris
gentium, Qualora tali regole siano violate da individui che agiscono in qualità di organi, la condotta
viene imputata oltre che allo stato anche direttamente agli individui.
3.
Nel diritto internazionale classico le regole sull'immunità avevano una portata assoluta, per cui era
esclusa ogni possibilità di convenire in giudizio uno stato straniero. Attualmente è riconosciuto
pressoché universalmente il principio dell'immunità ristretta il quale tende a riservare l'immunità
alle azioni statali che costituiscono esercizio di funzioni sovrane, negandola per le attività
commerciali nelle quali gli stati agiscono come soggetti privati. Il principio dell'immunità non ha
riguardo alla finalità dell'azione statale ma alla natura dell'azione. Saranno perseguibili attività di
uno Stato straniero di natura privatista, saranno invece sottratte alla giurisdizione le attività di
carattere pubblico. Il criterio di distinzione fra attività iure imperii, e iure gestionis, è stato accolto
dalla convenzione delle Nazioni Unite, che stabilisce l'inapplicabilità dell'immunità alle attività di
tipo commerciale. L'applicazione del criterio comporta difficoltà in caso di controversie relative a
rapporti di lavoro fra uno Stato i suoi dipendenti. La giurisprudenza italiana ha ritenuto che la
giurisdizione sussiste solo se la controversia riguarda aspetti meramente patrimoniali del rapporto di
lavoro. La prassi internazionale si orienta verso un criterio che attiene all'intensità della connessione
fra il lavoratore e lo stato del foro.
4.
il diritto internazionale assicura l’immunità dalla giurisdizione, ad alcuni organi di stati stranieri
per le attività poste in essere al di fuori dell' esercizio delle proprie funzioni. Queste spettano ai
rappresentanti degli stati accreditati presso altri stati o organizzazioni internazionali, cioè agenti
diplomatici e entro una certa misura ai consoli. La disciplina delle immunità diplomatiche è
disciplinata dalla convenzione di Vienna, secondo cui lo stabilimento di relazioni diplomatiche si
fonda sul mutuo consenso. La convenzione non distingue fra immunità che spettano alla missione
diplomatica e ai suoi membri, nell’esercizio della funzione diplomatica, ed immunità che vanno
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riconosciute ai membri della missione, per le loro attività private. Infatti all'articolo 39 dispone che:
le immunità e i privilegi riconosciuti all'agente diplomatico vengono meno dal momento in cui
cessata la funzione l'agente lascia il territorio dello Stato ospitante. La convenzione prevede che l'
agente continui a godere dell'immunità per atti funzionali. La corte internazionale di giustizia non
distingue fra attività funzionali e attività private, ma indica diversi regimi giuridici in relazione al
tipo di attività. L' immunità per atti funzionali , posti in essere nel esercizio delle funzioni, non
viene mai meno. Non è riconosciuta l'immunità per atti privati compiuti durante la carica.
L'immunità viene meno alla scadenza della carica. Titolare del diritto all'immunità è lo stato di
invio, E non il funzionario diplomatico. Lo stato di invio può rinunciare all'immunità
giurisdizionale dei propri agenti. L'immunità della giurisdizione penale e assoluta. L'esercizio della
giurisdizione civile è ammesso rispetto alle azioni reali, alle azioni successorie, alle azioni connesse
ad attività commerciali o professionali.
5.
Le varie forme di immunità costituiscono un sistema teso a tutelare l’organizzazione degli stati e a
garantire l’esercizio di funzioni sovrane, evitando quindi che l’esercizio della giurisdizione interna
di altri stati possa interferirvi. Si pone il problema se tali regole possono essere violate a titolo di
contromisura in risposta ad un illecito altrui. La corte ha indicato che il regime delle immunità
diplomatiche prevede già le forme di reazione nei confronti dell'illecito, consistenti nella
dichiarazione di “personae non gratae”, e nel loro allontanamento. L'esistenza di un abuso tuttavia
non giustifica una corrispondente violazione dell'immunità a titolo di contromisura.
6. act of state
Le regole sull’immunità degli stati hanno una portata soggettiva ristretta. Esse escludono la
giurisdizione interna nei confronti di uno stato straniero. La dottrina dell’act of state tende ad
impedire l’applicazione del diritto internazionale, da parte di giudici interni ,allorché esso è
invocato al fine di opporsi ad un atto sovrano di uno stato, adottato nell’ambito della propria
competenza territoriale.
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PARTE 4
CENTRALIZZAZIONE E DE-CENTRALIZZAIONE NELLA DISCIPLINA DELLA
RESPONSABILITA’ INTERNAZIONALE
SEZIONE 1
IL RAPPORTO BILATERALE DI RESPONSABILITA’
1.
Nell’ambito del diritto della responsabilità assume rilievo la questione di determinare le modalità
centralizzate o decentralizzate di accertamento dell’illecito e di garanzia delle posizioni soggettive.
la carenza di strutture istituzionali fa si che molte attività connesse all’accertamento e alla
repressione di condotte illecite sono operate a livello decentrato , cioè dai medesimi soggetti che
sono anche parti destinatarie della norma sostanziale violata e vittime dell’illecito.
2.
L’assemblea generale diede impulso chiedeva alla commissione del diritto internazionale di
includere il tema della responsabilità nei lavori di codificazione. Il progetto definitivo, veniva
approvato dalla commissione nel 2001. Il testo dell’articolato è stato posto all’attenzione della
commissione dell’assemblea generale delle nazioni unite. Con risoluzione l’assemblea ha preso atto
dell’articolato, senza decidere se avviare i lavori per una convenzione di codificazione. Allo stato
attuale l’articolato costituisce un documento di indubbia autorevolezza sullo stato del diritto della
responsabilità ma privo di valore vincolante.
3.
La struttura del rapporto di responsabilità è stata oggetto di ricostruzioni di vario tipo. In una
prospettiva normativista, la violazione di regole primarie da luogo all’applicazione di regole
secondarie. Le regole secondarie sono norme strumentali che assistono l’attuazione delle norme
primarie. Esse stabiliscono gli obblighi che incombono in conseguenza di un illecito, sullo stato che
ne è autore e i corrispettivi diritti a favore dello stato leso. Il mancato adempimento di questi
obblighi giustificherebbe l’attivazione degli strumenti di garanzia, tesi ad indurre lo stato autore ad
assumersi la responsabilità di ripristinare la legalità dell’ordinamento violato dall’illecito. Non
sempre il rapporto di responsabilità si articola secondo l'ordinata struttura concettuale tributaria.
la carenza di strumenti di accertamento e di garanzia condiziona uno stato vittima a soddisfare
direttamente le proprie posizioni soggettive, sia in via coercitiva che esecutiva.
4.
Affinché vi sia illecito occorre in primo luogo che vi sia una condotta antigiuridica, contraria ad una
regola del diritto internazionale e non giustificata da una causa di esclusione dell’illecito. La
violazione può far seguito sia a condotte di organi esecutivi, sia di organi legislativi. Tuttavia sorge il
problema di vedere se vi siano forme di responsabilità ingenerata da condotte lecite. La possibilità
che sorga responsabilità per atti leciti, è stata configurata nel settore dei danni procurati ad altri
Stati della comunità internazionale , a causa di attività rischiose intraprese sul proprio territorio, o
in zone non sottoposte alla sovranità altrui. La commissione del diritto internazionale, Si è
orientata in due direzioni: Da un lato ha sostenuto che la condotta dello Stato che intraprende
questo tipo di attività è soggetta ad obblighi di diligenza e di precauzione consistenti nell'adottare
standard di sicurezza è nel astenersi dal compiere attività pericolose in presenza di un rischio
eccessivo. Dall'altro ha previsto l'obbligo da parte dello Stato di indennizzare gli stati vittima
equamente, mediante forme di assicurazione. Ciò indica l'esistenza di una forma di responsabilità
da atto lecito. Infatti lo Stato territoriale è responsabile qualora non si sia adeguato agli obblighi di
diligenza e di precauzione per minimizzare il rischio, nonostante l'esercizio della sovranità sul
proprio territorio sia Assoluta. Sono previste una serie di cause di esclusione dell'illecito: il
consenso dell'avente diritto, la forza maggiore, lo stato di necessità. Nell'ordinamento
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internazionale, lo stato di necessità svolge un'importante funzione come fattore di ricambio del
diritto. L'articolo 25 [ Del Progetto di articoli ,della commissione del diritto internazionale , sulla
responsabilità dello Stato ] dispone che: la necessità giustifica un'azione contraria ad una regola di
diritto, a condizione che tale azione sia indispensabile per salvaguardare un interesse essenziale da
un pericolo grave ed imminente e che essa non pregiudichi in maniera grave un interesse
essenziale dello Stato nei cui confronti si viola tale regola.
5.
L’art 2 dell’articolato stabilisce che la responsabilità sorge per uno stato in conseguenza di una
condotta antigiuridica che gli possa essere attribuita. La regola fondamentale di attribuzione è
stabilita dall’art 4 dell’articolato, secondo il quale: va attribuita allo stato ogni condotta di un suo
organo ( centrale o decentrato), quale che sia la sua funzione e la sua posizione nell'
organizzazione dello stato. La definizione della nozione di organo comporta difficoltà concettuali.
La soluzione classica, attribuisce la qualità di organo sulla base di un criterio formale, dato dal fatto
che un soggetto rivesta la qualità di organo secondo il diritto interno di ciascuno Stato. Si pone il
problema di attribuire ad uno stato condotte di soggetti non aventi formalmente la qualità di
organo ma comunque dotati di un intenso legame con lo Stato, come gli squadroni della morte. La
corte internazionale di giustizia, esige la dimostrazione che ciascuna condotta sia stata operata
sotto la direzione e il controllo di organi dello Stato. Secondo la corte l'esistenza di un rapporto
organico potrebbe stabilirsi non solo sulla base di criteri formali ma anche di fatto, allorché lo Stato
eserciti un controllo totale sul azione di certi individui atto a predeterminarne completamente i
comportamenti. Secondo la camera d'appello del tribunale internazionale penale, va imputata ad
uno stato la condotta di individui sui quali esso esercita un controllo di carattere generale, senza
che occorra dimostrare che ciascuna condotta di tali individui sia stata operata sotto la direzione e
il controllo statale. I vari criteri esaminati, il criterio del legame organico formale, il criterio del
legame organico di fatto, nonché l'attribuzione di condotte operate sotto la direzione del controllo
dello Stato, costituiscono dei criteri di carattere presuntivo non sono idonee a ricomprendere
l'infinita varietà di situazioni che si possono presentare nella prassi. L'esistenza di un atto statale di
attribuzione eliminerebbe l'esigenza di dimostrare volta a volta l'esistenza di una forma di
direzione e di controllo.
6.
Nella prassi, e nei testi di codificazione, il rapporto di responsabilità sorge obiettivamente, senza
alcun riguardo ad elementi di carattere psicologico quali il dolo o la colpa. Le regole del diritto
internazionale, Tendono a obiettivizzare l'accertamento dell'elemento psicologico. Il nesso di
cosciente partecipazione, fra l'autore e la condotta illecita, è espresso attraverso la predisposizione
di modelli standard predeterminati di condotta. L'adozione di tali modelli ha lo scopo di stabilire il
livello di diligenza voluto dall'ordinamento e quindi di rendere oggettivo l'accertamento della
colpa. Non mancano regole internazionali che espressamente richiedono una forma di
partecipazione cosciente dello Stato all'illecito. Ad esempio l'articolo 2 della convenzione sul
genocidio del 1948, lo definisce come delle condotte materiali accompagnate da un intento
specifico di distruggere un gruppo nazionale, etnico razziale o religioso. Tuttavia la convenzione
non ha stabilito alcun parametro attraverso cui accertare L'intento specifico dello Stato di
partecipare alla condotta genocidiale. È ragionevole ritenere che l'intento genocidiale dello Stato
richieda la consapevolezza da parte degli organi supremi dello Stato, di porre in essere un piano
genocidiale complesso alla realizzazione del quale possono contribuire singole condotte
individuali.
7.
La seconda parte dell’articolato stabilisce regole relative alle conseguenze che derivano dall’illecito
sul piano dei rapporti giuridici fra lo stato autore e lo stato vittima. Fra le conseguenze sostanziali
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dell’illecito, l’articolato include la cessazione, l’obbligo di assicurare la non ripetizione e l’obbligo di
riparazione. Quest’ultima assume le forme del ripristino della situazione che sarebbe esistita in
assenza dell’illecito, del risarcimento del danno e della soddisfazione.
-Cessazione e garanzia di non ripetizione
Qualora l’illecito non sia di carattere istantaneo, il soggetto autore ha l’obbligo di cessarlo e
riprendere una condotta conforme alla regola violata. L’obbligo di cessazione non costituisce una
conseguenza dell’illecito, ma piuttosto un effetto della medesima norma primaria violata. Nei casi
di obblighi di carattere continuativo l’illecito non sospende l’effetto della norma violata. Lo stato
autore dell’illecito avrà in primo luogo l’obbligo di cessare la condotta illecita.
-La riparazione
Una volta cessato l’illecito, l’autore dovrà provvedere alla riparazione. Questa si articola nella
riparazione in forma specifica, che consiste nell’obbligo per lo stato autore di ripristinare la
situazione che sarebbe esistita se non si fosse verificato l’illecito [restitutio in intergum] e nella
riparazione per equivalente, consistente essenzialmente nell’obbligo di prestare un indennizzo. La
regola che prevede la riparazione in integrum, impone allo stato autore di eliminare
retroattivamente le conseguenze dell’illecito. Il tipo di condotta necessaria a tal fine dipenderà dal
contenuto dell’obbligo violato. Qualora l'illecito consista in una condotta giurisdizionale, come nel
caso in cui un giudice riconosca di aver esercitato la propria giurisdizione in contrasto con quanto
previsto da una norma sull'immunità dalla giurisdizione, La sentenza cassata costituirà riparazione
adeguata. La corte internazionale di giustizia ha configurato l'obbligo di revisione di una sentenza,
come applicazione dell'istituto della riparazione. La corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto
che a seguito della condanna di un imputato, pronunciata in un processo non equo, la riparazione
più adeguata, sarebbe riaprire il processo e giudicare nuovamente l'imputato. All'impossibilità,
totale o parziale, di una riparazione in forma specifica, consegue l'obbligo del risarcimento del
danno. La determinazione della forma di riparazione più appropriata è compiuta caso per caso, in
relazione alla funzione e al contenuto di ciascuna singola norma violata. In diversi sistemi
convenzionali è dato rilievo al risarcimento come forma di riparazione, in alternativa alla restitutio
in integrum e all'indennizzo. La convenzione europea sui diritti umani consente alla corte europea
di accordare un equo indennizzo alla vittima , una volta accertata la violazione dei diritti
convenzionali, qualora il diritto interno preveda solo la riparazione parziale. Inoltre la
giurisprudenza più recente della corte sembra riconoscere una garanzia di non ripetizione,
imponendo agli Stati membri di modificare il proprio diritto interno in maniera da evitare la
reiterazione delle violazioni della convenzione. Da questi esempi si nota come gli Stati tendono a
preferire la cessazione dell'illecito, la soddisfazione, la garanzia di non ripetizione piuttosto che il
risarcimento e la riparazione.
La soddisfazione
è una sorta di riparazione del danno morale, che consiste nel riconoscimento dell’illecito. La
giurisprudenza internazionale, ritiene che l’accertamento dell’illecito ad opera di un tribunale
internazionale costituisce adeguata realizzazione dell’obbligo di soddisfazione.
8.
La parte terza dell’articolato concerne il sistema di garanzie posto a disposizione di uno stato
vittima di un illecito. Qualora l’illecito sorga dalla violazione di regole reciproche, il rapporto di
responsabilità avrà struttura bilaterale, nel senso che ciascuno stato leso avrà titolo per invocare
autonomamente la responsabilità dell’autore. L’art 43 stabilisce gli adempimenti preliminari
all’invocazione della responsabilità. A tal fine, occorre che lo stato leso notifichi allo stato autore la
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richiesta di cessazione o di riparazione, specificando, in tale caso, la forma di riparazione richiesta.
La norma offre la possibilità di determinare concordemente le forme di responsabilità, prima di
attivare gli strumenti unilaterali di garanzia. Le disposizioni degli articoli 44 e 45 prevedono alcune
condizioni di procedibilità, in tema di nazionalità e di previo esaurimento dei ricorsi interni
giurisdizionali. In tema di violazione delle regole sul trattamento dello straniero , l'azione
internazionale potrà essere condotta solo dallo stato con il quale l' individuo , oggetto della
violazione , ha un legame effettivo di nazionalità , e abbia esaurito i ricorsi posti a sua disposizione
nell' ordinamento interno dello stato autore dell' illecito. Mentre l'articolato qualifica questi
requisiti come condizione di procedibilità, la dottrina prevalente le identifica come condizioni
ostative di procedibilità ; infatti mancando il requisito della nazionalità mancherebbe il requisito
soggettivo dell' illecito. Contestualmente il mancato esaurimento dei ricorsi interni mancherebbe l
'elemento oggettivo dell' illecito poiché la condotta costituirebbe un illecito per effetto di sentenza
definitiva di condanna.
Le contromisure nel rapporto bilaterale di responsabilità
In diritto internazionale l’unico strumento a disposizione dello stato leso per garantire la propria
sfera giuridica violata dall’illecito è dato dalla reazione unilaterale. Il potere di adottare
contromisure Comprende sia la possibilità di violare a propria volta regole internazionali nei
confronti dell'autore dell'illecito, sia di reagire con misure inamichevoli ma non contrarie a norme
di diritto. Il potere di adottare contromisure è funzionale allo scopo di indurre lo Stato autore ad
assumersi la responsabilità dell'illecito ottenendo da quest'ultimo la cessazione dell'illecito nonché
eventuali garanzie di non ripetizione e la riparazione. Le contromisure devono avere carattere
provvisorio e non devono pregiudicare la futura osservanza della norma violata. Lo stato vittima
dovrà intimare allo Stato autore di riprendere l'osservanza della norma violata offrendo di aprire
un negoziato ed eventualmente prospettare il ricorso ad un'azione unilaterale. L'adozione di
contromisure in via provvisoria sarà ammissibile solo nella misura in cui essa sia necessaria per
salvaguardare i diritti dello stato vittima. L'adozione di contromisure è vietata in pendenza di
soluzioni giudiziarie nonché qualora la condotta illecita sia cessata. Attraverso tale procedimento
l'ordinamento tende ad attenuare la mancanza di strumenti istituzionali di risoluzione delle
controversie e a mitigare l'uso della forza. Nella prassi meno recente le contromisure svolgevano
una funzione tipicamente retributiva quella di infliggere allo stato autore un costo per la
commissione dell'illecito. Le contromisure retributive non intendevano realizzare le conseguenze
dell'illecito attraverso la cooperazione dell'autore . Il danno inflitto unilateralmente dalla vittima
all'autore non aveva alcuna funzione coercitiva, ma unicamente afflittiva . Alla condotta illecita
corrispondeva la pena. Una concezione più sofisticata è caratterizzata dalle contromisure
normative, in cui lo stato vittima ha l'obiettivo di mutare il contenuto della regola violata e di
riprodurre negativamente, il Sinallagma originario alterato dall'illecito. Un esempio è caratterizzato
dal procedimento di estinzione di un trattato bilaterale effettuato da una delle parti a seguito di
una violazione sostanziale operata dall'altra. Altro esempio è quello di uno stato vittima di una
violazione che dichiara l'inapplicabilità della regola nei suoi rapporti con lo Stato autore. Carattere
intermedio hanno le contromisure compensative che gli Stati possono adottare nell'ambito
dell'organizzazione mondiale del commercio. La violazione di regole dell' OMC , comporta l'obbligo
per lo Stato autore di cessare la violazione, in mancanza la vittima è autorizzata ad adottare
contromisure compensative, atte ad annullare i vantaggi economici e commerciali che derivano
all'autore dalla violazione. Altro tipo di contromisure sono quelle esecutive, che tendono a
realizzare direttamente un risultato analogo a quello voluto dalla regola violata. Lo stato vittima
verrebbe a sostituirsi all'autore dell'illecito nell'adempimento degli obblighi di quest'ultimo. Il
principale limite posto al potere di agire in contromisura è dato dalla proporzionalità della
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reazione. L'articolo 51 dell'articolato definisce la proporzionalità nel suo aspetto quantitativo,
come rapporto fra l'illecito è la reazione. Sarà quindi sproporzionata una reazione che comporta
danni superiori a quelli subiti anche in considerazione della gravità giuridica della violazione. La
proporzionalità nel suo aspetto quantitativo è definita come diritto di arrecare allo stato autore un
danno eguale e contrario a quello causato dall'illecito. La prassi evidenzia come la proporzionalità
nel suo aspetto quantitativo non vada valutata come, equivalenza materiale di reazione all'illecito,
ma come nesso di ragionevole congruità tra l'obiettivo della reazione e i mezzi posti in essere al
fine di realizzarlo. La proporzionalità della reazione dovrà essere valutata in relazione allo scopo di
ottenere la cessazione e la riparazione in forma specifica. In questo caso la reazione potrà
comportare danni materiali anche superiori a quelli causati dall'illecito in virtù dell'alto valore
giuridico del bene che essa si propone di realizzare. Al fine di quantificare la proporzionalità
occorre valutare se la misura sia idonea e necessaria per la realizzazione del fine. Occorre inoltre
valutare che essa non comporti un pregiudizio eccessivo rispetto al beneficio che ci si aspetta di
ricavare. L'articolo 50 stabilisce i limiti al potere di agire in contromisura rispettando: il divieto
dell'uso della forza, obbligo di tutelare i diritti umani fondamentali, il diritto cogente,Soluzione
pacifica delle controversie, obblighi concernenti le immunità diplomatiche.
SEZIONE 2
IL RAPPORTO COLLETTIVO DI RESPONSABILITA’
2.
L'idea di un rapporto collettivo di responsabilità è originato dalla violazione di regole poste a tutela
di interessi fondamentali della comunità internazionale. La commissione del diritto internazionale
tende a distinguere fra due forme di illeciti: illeciti ordinari, e darebbero luogo ad una forma
ordinaria di responsabilità, ed illeciti qualificati e darebbero invece luogo ad una forma di
responsabilità aggravata. L'articolo 19 “intitolato crimine delitti internazionali”Sanzionava una
serie di condotte illecite. Nell'articolato approvato in seconda lettura, La commissione del diritto
internazionale ha eliminato il termine crimini sostituendolo con l'espressione “grave violazione di
obblighi derivanti dal diritto cogente”,Al fine di mitigare l'allusione a elementi di carattere penalista
e dalla quale si desume la distinzione tra una responsabilità ordinaria dell'illecito da una forma
aggravata di responsabilità.
3.
Particolarmente complessa è l’identificazione del contenuto della responsabilità aggravata. Il suo
elemento distintivo dovrebbe consistere in un obbligo incondizionato di reintegrare la situazione
giuridica lesa. Il carattere fondamentale degli interessi lesi non dovrebbe tollerare forme
equivalenti di riparazione.
L’art 41 indica fra le conseguenze speciali della violazione di interessi essenziali della comunità
internazionale: l’obbligo per gli stati di cooperare per ottenere la cessazione dell’illecito, l’obbligo
degli stati di non riconoscere una situazione costituita attraverso una grave violazione di interessi
essenziali della comunità internazionale , L'obbligo di non prestare assistenza nel mantenimento di
tale situazione. L'obbligo di cooperazione non equivale ad un obbligo di agire. La disposizione
indica che il contenuto principale della responsabilità aggravata è la cessazione dell'illecito e che a
tal fine la reazione degli Stati deve incanalarsi entro modelli di cooperazione che assicurino una
forma istituzionale di reazione.
4.
Il dibattito dottrinale sull’esistenza e sulle forme di responsabilità aggravata si è prevalentemente
concentrato sull’individuazione di forme appropriate di garanzia, che concilino l’esistenza di
posizioni soggettive tese alla tutela di valori ed interessi collettivi della comunità internazionale nel
suo insieme con la struttura decentrata dell’ordinamento internazionale. Si possono a proposito
individuare tra linee principali di tendenza.
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1) La prima tende a valorizzare la struttura erga omnes delle regole violate. Se tutti i soggetti
della comunità internazionale sono lesi da una grave violazione di obblighi derivanti dal
diritto cogente, ciascuno di essi è legittimato ad agire nei confronti dell’autore;
2) Una seconda tendenza di carattere istituzionalista, tende a negare la legittimazione ad agire
ai singoli soggetti internazionali. Dato che le regole violate producono posizioni soggettive
non in capo a ciascuno stato, bensì alla comunità internazionale nel suo insieme, sarebbe
quest’ultima[concepita come un soggetto distinto dai singoli stati], l’unico ente titolare di
posizioni soggettive collettive, e quindi, l’unico legittimato ad agire attraverso propri organi.
3) Un’ipotesi intermedia è quella di considerare che, in assenza di reazione istituzionale,
ciascuno stato della comunità internazionale è legittimato ad agire, ma non a tutela di una
propria posizione soggettiva bensì per conto della comunità internazionale. La possibilità di
una reazione dei singoli stati agenti comporta la necessità di stabilire delle forme di
coordinamento sia fra gli stati agenti, sia fra questa forma di reazione decentralizzata ed
eventuali forme di azione istituzionale.
L’art 48 della carta indica come l’interesse collettivo alla cessazione dell’illecito possa essere fatto
valere da ciascuno degli stati della comunità internazionale, agente individualmente. Ciascuno
stato potrà agire per la riparazione del danno, ma solo a favore dei beneficiari della regola violata.
L’articolato indica la possibilità di individuare nell’ambito del rapporto collettivo di responsabilità
uno stato specialmente leso, il quale avrà titolo a far valere nei confronti dell’autore tutte le
conseguenze dell’illecito alla stregua di un rapporto individuale di responsabilità. La distinzione fra
stato specialmente leso dalla violazione ed altri stati egualmente parti del rapporto collettivo di
responsabilità si avverte rispetto al potere strumentale di attivare strumenti di garanzia e quindi
del potere di adottare contromisure. Lo stato specialmente leso ha un generale potere di adottare
contromisure nel perseguimento degli scopi e nel rispetto dei limiti che incontra qualsiasi stato
vittima in un rapporto bilaterale di responsabilità. Uno Stato non specialmente leso potrà adottare
misure lecite al fine di ottenere la cessazione dell'illecito è la riparazione, a favore dei beneficiari
della norma violata. Di fronte ad una aggressione la posizione dello stato aggredito è ben diversa
da quella di tutti gli altri Stati della comunità internazionale. Mentre il primo agisce a tutela della
propria sfera di sovranità territoriale, gli altri agiscono solo a tutela dell'interesse collettivo al
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Mentre al primo l'ordinamento
riconosce il potere di agire in legittima difesa, Ai secondi è precluso di agire senza il consenso dello
stato aggredito. Nel caso di una grave violazione dei diritti umani nessuno stato può vantare una
posizione speciale nel rapporto di responsabilità, Dato che le regole internazionali sui diritti umani
non tutelano interessi di Stato bensì interessi individuali. Taluni autori hanno sostenuto che si
possa individuare uno Stato specialmente leso. Lo Stato nazionale degli individui, sarebbe
interessato a doppio titolo dalla condotta illecita: Primo perché titolare come tutti gli altri Stati
dell'interesse generale alla tutela dei diritti individuali, secondo in quanto titolare del diritto al
trattamento nel rispetto dei diritti umani.,dei propri cittadini, da parte di uno Stato straniero. Nel
caso dell'aggressione, Lo stato aggredito e specialmente leso, in quanto oltre a subire la violazione
dell'interesse generale al mantenimento della pace della sicurezza internazionale, subisce la
violazione del proprio diritto di sovranità territoriale. Nel caso della violazione di diritti individuali
lo Stato specialmente leso sarebbe quello che oltre a far valere l'interesse generale alla tutela dei
diritti umani, ha anche un interesse particolare dato dal rapporto di cittadinanza rispetto ad alcuni
individui colpiti dalla violazione. Riguardo alla liceità delle misure l'institut de droit international ,
indica l'esistenza di un potere in capo a ciascuno Stato della comunità internazionale ad adottare
contromisure non implicante l'uso della forza, per reagire alla violazione di un obbligo, alle stesse
condizioni previste per gli Stati che possano considerarsi particolarmente lesi.
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5. Reazione decentralizzata e reazione istituzionale nel rapporto collettivo di responsabilità
La disciplina delle forme di reazione nei confronti di gravi violazioni di interessi fondamentali della
comunità internazionale, Da un lato ammette l'esistenza di un rapporto collettivo di responsabilità
che si instaura fra l'autore e la comunità internazionale, dall'altra sembra concepire la reazione
come essenzialmente decentrata. Infatti il diritto internazionale da un lato ha sviluppato nozioni
che richiamano l'esistenza di una sfera di interessi pubblici, mentre dall'altro e imperniato quanto
ai meccanismi di garanzia, sull'azione individuale dei singoli Stati. L'articolato contiene tuttavia una
clausola di salvaguardia. Infatti la carta delle Nazioni Unite prevede l'esercizio dell'uso della forza in
relazione all'esigenza di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Tuttavia il consiglio di
sicurezza svolge anche un ruolo di accertamento e di repressione di condotte che Violano interessi
fondamentali della comunità internazionale. Il consiglio di sicurezza non ha una competenza
esclusiva a reagire ad illeciti che colpiscono interessi fondamentali della comunità internazionale,
al contrario ha una competenza esclusiva nel campo dell'impiego dell'Uso forza. L'esistenza di un
doppio canale di garanzie, [istituzionali e decentrate], tende a conciliare due esigenze diverse: da
un lato consentire alle tradizionali forme di reazione individuale dei singoli Stati di evitare che gran
parte degli illeciti più gravi rimangano altrimenti non sanzionati. Dall'altra assicurare
un'amministrazione istituzionale della forza che procede sulla base di un accertamento obiettivo
delle condizioni che ne impongono il ricorso. Il sistema delineato quindi tende a contemperare
l'esigenza di consentire agli Stati di agire singolarmente senza pregiudicare la possibilità di una
reazione istituzionale e salvaguardando la competenza esclusiva delle Nazioni Unite a determinare
l'impiego della forza per limitarne la possibilità di abusi.
PARTE 5
LA SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE E LA FUNZIONE GIUDIZIARIA
1.
In un ordinamento a struttura paritaria come quello internazionale, Ispirato ad una rigorosa
applicazione del principio di sovranità, la regolamentazione giudiziaria delle controversie è
possibile solo in presenza di un consenso degli Stati parte della controversia. L'assenza di forme di
garanzia di attuazione di decisioni giudiziarie ha l'effetto di affidare l'esecuzione delle stesse
esclusivamente alle parti della controversia. Si distingue tra mezzi diplomatici e mezzi giudiziari di
risoluzione delle controversie. Sono mezzi giudiziari quelli che prevedono il deferimento del potere
di risolvere la controversia ad un giudice. Sono mezzi diplomatici quelli incentrati sull'azione
politica degli Stati parte della controversia. Fra i mezzi diplomatici maggiormente in uso rilevano:
Il negoziato: consiste in contatti diretti fra le parti aventi lo scopo di ricercare una soluzione.
Buoni uffici:Uno Stato terzo presta la sua opera per avvicinare le posizioni delle parti
L'inchiesta: Un organismo terzo rispetto alle parti accerta i fatti controversi
La mediazione: un soggetto terzo ricerca assieme alle parti una soluzione di merito
Conciliazione: la definizione nel merito della controversia è affidata interamente a un terzo
Attualmente l'ordinamento internazionale è caratterizzato da una marcata tendenza a definire
controversie attraverso regolamento giudiziario. Esso si è dotato di tribunali permanenti sia a
competenza generale quale la corte internazionale di giustizia che ha competenza settoriale come
il tribunale internazionale per il diritto del mare .Tuttavia la competenza dei giudici internazionali
rimane fondata sul consenso degli Stati. Dal punto di vista strutturale l'ordinamento internazionale
mostra una tendenza a centralizzare la funzione di soluzione delle controversie, dal punto di vista
funzionale essa viene esercitata su base decentralizzata su impulso delle parti.
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2.
L’istituto dell’arbitrato consiste nella competenza di un soggetto terzo, sia esso privato o stato, a
definire una controversia, o parte di essa, attraverso l’applicazione del diritto o attraverso equità
con effetti obbligatori per le parti. Gli organi arbitrali sono composti da individui che non
rappresentano il punto di vista di uno stato. Tuttavia, non è insolita, la presenza in un collegio
arbitrale, di un componente designato da ciascuna parte della controversia. La presenza in collegio
di un componente designato dalle parti ha una funzione di garanzia politica, senza però alcun
vincolo di rappresentanza. L’accordo che conferisce ad un arbitro la competenza a definire una
controversia è detto compromesso. La competenza dell’arbitro può essere precostituita attraverso
una clausola inserita in un trattato. La clausola prende il nome di clausola compromissoria e
conferisce ad un arbitro la competenza a conoscere le controversie relative all’interpretazione e
all’applicazione dell’accordo-trattato nel quale è inclusa. La clausola compromissoria obbliga le
parti a ricorrere ad un arbitro ma non ha l’effetto di precostituire la competenza dell'organo
arbitrale. Per stabilire la competenza dell’arbitro occorrerà che le parti lo istituiscano, di comune
accordo, attraverso la stipulazione di un compromesso. Qualora la clausola compromissoria
stabilisca la competenza in capo ad un organo giudiziario definito, o preveda una procedura
obiettiva per istituirlo, potrà essere adito unilateralmente da ciascuna parte della controversia,
quindi senza bisogno del consenso delle altre parti. La competenza dell'arbitro si stabilisce in base
alla domanda dell'attore che ha l'onere di redigere la domanda in maniera da circoscriverla alla
condotta oggetto della controversia. La competenza di un organo arbitrale può inoltre derivare da
un trattato di arbitrato, Il cui oggetto è quello di stabilire la competenza di un organo arbitrale per
tutte o per certi tipi di controversie. A differenza della clausola compromissoria che circoscrive la
competenza del giudice all'ambito di applicazione di un trattato determinato, il trattato di arbitrato
invece stabilisce la competenza per categorie generali di controversie, quindi a qualsiasi
controversia fra le parti. Analogamente a quanto accade per le clausole compromissorie il trattato
generale di arbitrato non necessariamente ha l'effetto di precostituire la competenza arbitrale ma
solo quello di obbligare le parti a stipulare un compromesso al fine di individuare l'organo arbitrale
e deferire ad esso la competenza.
4.La corte internazionale di giustizia
La corte internazionale di giustizia è stata istituita dalla carta delle nazioni unite, la quale la
definisce come il principale organo giurisdizionale delle nazioni unite. La carta precisa inoltre che la
corte funziona in base allo statuto, il quale ha natura convenzionale, per cui l'adesione alla carta
comporta l' adesione allo statuto. Lo statuto disciplina la composizione e il funzionamento della
corte internazionale di giustizia. La corte ha sede all’Aja. Essa è composta da 15 giudici eletti
dall’assemblea generale e dal consiglio di sicurezza, fra le persone incluse in un elenco predisposto
dai gruppi nazionali della corte permanente di arbitrato. I giudici sono eletti sulla base di un
criterio che assicuri la rappresentanza delle aree geopolitiche mondiali e godono di garanzie di
indipendenza, e devono possedere i requisiti per la nomina alle alte magistrature nazionali. Lo
statuto affida alla corte due funzioni : una contenziosa, ovvero di soluzione giudiziaria di
controversie fra stati, ed una consultiva, consistente nel fornire pareri giuridici agli organi politici
delle nazioni unite. La funzione contenziosa della corte internazionale di giustizia è aperta solo agli
stati. La corte non ha una competenza generale a definire controversie fra stati. Occorre invece che
la competenza le sia specificatamente attribuita attraverso un compromesso , una clausola
compromissoria , o un trattato generale di arbitrato. Ciascuno stato aderente allo statuto può in
qualsiasi momento effettuare una dichiarazione unilaterale con la quale riconosce la competenza
della corte a definire controversie che possano insorgere con qualsiasi altro stato che abbia
effettuato o che effettuerà una dichiarazione analoga. La carta delle nazioni unite contiene un
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meccanismo teso a garantire coattivamente l’attuazione delle sentenze della corte. Se una delle
parti di una controversia non si conforma alla soluzione decisa dalla corte, l’altra può ricorrere al
consiglio di sicurezza, il quale può fare raccomandazioni o anche decidere misure per l’attuazione
della sentenza. L'art' 96 della carta prevede che l'assemblea generale o il consiglio di sicurezza
possono chiedere alla corte internazionale di giustizia un parere consultivo su qualsiasi questione
giuridica. Gli altri organi delle Nazioni Unite e gli istituti specializzati possono chiedere pareri solo
su questioni che ricadono nell'ambito delle loro rispettive competenze e su autorizzazione
dell'assemblea generale. I pareri consultivi della corte internazionale di giustizia non sono
obbligatori ne vincolanti. L'assenza di effetti formalmente vincolanti non esclude l'autorevolezza
tipica delle pronunce della corte da una prospettiva di evoluzione del diritto internazionale. Basti
ricordare a titolo di esempio il parere sulle riserve alla convenzione del genocidio, il parere sulla
liceità della minaccia o dell'uso delle armi nucleari. Si pone quindi il problema di vedere se la corte
debba esercitare la propria funzione consultiva per rendere pareri rispetto a questioni che siano
oggetto di controversie fra Stati. I pareri consultivi vincolanti sono invece quelli che la corte
internazionale di giustizia rende al fine di definire le controversie fra Stati e istituzioni specializzate
delle Nazioni Unite. Questa modalità di impiego dei pareri consultivi è resa necessaria dalla
circostanza che solo gli Stati possono essere parti del procedimento contenzioso davanti alla corte
internazionale di giustizia. In questo caso l'istituto dei pareri consultivi è utilizzato a fini contenziosi
per cui si rende necessario un accordo fra le parti della controversia con il quale esse si vincolano
preventivamente a conformarsi al parere della corte. La giurisprudenza ha costantemente ribadito
il principio secondo cui l'esercizio della funzione consultiva non deve sovrapporsi al principio
consensualista tipico della funzione contenziosa. La corte ha chiarito che una cosa è definire una
controversia fra Stati nell'ambito della funzione contenziosa altra è fornire agli organi politici delle
Nazioni Unite i chiarimenti giuridici necessari per l'esercizio delle competenze che ad essi
incombono in virtù della carta. In altre parole i pareri consultivi della corte non sono indirizzati agli
Stati ma hanno effetti nell'ambito della sfera istituzionale delle Nazioni Unite. L'assenza del
consenso degli Stati al regolamento pacifico delle proprie controversie non ha l'effetto di limitare o
di influenzare l'azione istituzionale delle Nazioni Unite. In verità Le due competenze esprimono
due diverse dimensioni dell'ordinamento internazionale quella bilateralista e quella istituzionale.
La competenza contenziosa presuppone la struttura paritaria della comunità internazionale,
nell'ambito della quale la sottoposizione di uno Stato a regolamento giudiziario avviene sulla base
del consenso. La competenza consultiva Esprime la dimensione istituzionale dell'ordinamento
internazionale, tensa alla tutela di interessi collettivi attraverso dinamiche di tipo pubblicista.
Valutazione del ruolo della corte:
-Da una prospettiva sistematica L'ordinamento internazionale è un ordinamento di Stati i quali
rappresentano comunità territoriali politicamente organizzate, per cui sono naturalmente portati a
considerare in via prioritaria i propri interessi unilaterali. la corte di giustizia invece è un organo
composto da individui che hanno una diversa percezione degli interessi e dei valori dell'
ordinamento che tendono a considerare gli interessi collettivi dell'ordinamento internazionale.
-Da una prospettiva di tecnica giuridica. La corte non dispone di una generale precostituzione della
competenza in materia contenziosa, per cui il carattere consensuale della competenza ha l'effetto
di condizionare grandemente la politica giudiziaria della corte
-Da una prospettiva strumentale, si rinviene la difficoltà di assicurare l'attuazione delle decisioni
della corte poiché allo stato attuale , l'attuazione delle decisioni si fonda esclusivamente
sull'autorevolezza dell'organo e sulla capacità persuasiva di essa di orientare le condotte.
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I tribunali settoriali
Ai tribunali permanenti a competenza generale, si sono affiancati una serie di tribunali a
competenza settoriale. Essi sono stati istituiti con trattato e la loro competenza si estende, in forza
di una clausola compromissoria, alle sole controversie ricadenti nell’ambito del trattato stesso.
Nella categoria dei tribunali settoriali occorre tener distinti quelli che giudicano unicamente
controversie fra Stati, da quelli che hanno competenza in relazione a diritti ed obblighi diretti a
individui. L'organizzazione mondiale per il commercio è una organizzazione internazionale a
carattere tendenzialmente universale che opera nell'ambito dei rapporti economici e nella
disciplina degli scambi commerciali fra Stati. Il sistema di soluzione delle controversie si articola in
due gradi di giudizio previo esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione. Il primo
grado di giudizio si svolge di fronte ad uno panels composto di tre esperti o cinque esperti
nominati in relazione alle singole controversie da definire. L'organo di appello è composto da sette
membri ma siede in camere composte da tre membri. Sia i membri dei panels che quelli
dell'organo di appello, Operano a titolo personale e non in quanto rappresentanti di alcuno stato e
devono rispondere ai requisiti di competenza imparzialità indipendenza. Mentre il panel è
competente ad accertare i fatti e la compatibilità delle misure contestate con le disposizioni OMC,
L'organo d'appello può decidere soltanto questione di legittimità, [confermando - annullandomodificando] , in tutto o in parte le conclusioni del panel. L'effetto vincolante non deriva
direttamente dalle decisioni dei panels o dell'organo di appello, ma da un organismo di carattere
politico del quale fanno parte i rappresentanti degli Stati membri.
6.Funzione giudiziaria internazionale
Nell’ambito della funzione giudiziaria internazionale, i tribunali internazionali esercitano una
funzione tipicamente assegnata a quelli interni: quella cioè di accertare posizioni soggettive
individuali e di determinare le conseguenze della loro violazione. I tribunali istituiti dalle
convenzioni sui diritti dell’uomo sono generalmente chiamati ad accertare violazioni di tali diritti
da parte degli stati e a determinare le conseguenze che ne derivano a favore degli individui. I
tribunali istituiti dalle convenzioni di diritto internazionale penale sono invece chiamati ad
accertare la violazione di norme del diritto internazionale penale da parte di individui e ad irrogare
le loro sanzioni di carattere penale.
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
La convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, è stata conclusa dai 47 stati
membri del consiglio d'Europa , a Roma nel 1950 ed entrata in vigore nel 1953. La convenzione
prevede un meccanismo di ricorsi individuali, oltre a quelli interstatali , alla corte europea dei diritti
umani che costituisce il sistema di tutela dei diritti convenzionali. La corte è composta da un
giudice per ogni stato membro ed è suddivisa al suo interno in sezioni. L’adesione alla convenzione
comporta il riconoscimento automatico della competenza della corte e l’accettazione del sistema di
ricorso individuale. L'art 34 della convenzione prevede che : la corte può essere investita di un ricorso da
parte di una persona fisica, un'organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d'essere
vittima di una violazione da parte di una delle altre parti contraenti. Affinché un ricorso possa essere
esaminato nel merito è necessario che sia dichiarato ricevibile. I rimedi della convenzione sono
sussidiari rispetto a quelli dell'ordinamento interno dei singoli stati. A tal proposito il ricorrente
deve avere previamente esaurito i ricorsi interni e deve presentare il ricorso alla corte entro il
termine di sei mesi dalla violazione[ pronuncia della sentenza definitiva di condanna]. Il ricorso
deve concernere uno dei diritti garantiti dalla convenzione e non essere identico ad altro
precedente esaminato, esso non deve essere anonimo o risultare manifestamente infondato o
abusivo. Tuttavia la corte ha affermato che qualora un ricorso interno non sia accessibile ed
effettivo, ovvero risulti inidoneo a garantire la cessazione della violazione ed un'idonea riparazione
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alla vittima, il suo previo esaurimento non è necessario ai fini della competenza della corte. Una
volta dichiarati ricevibili i ricorsi sono assegnati ad una camera composta da 7 giudici. Un ricorso
che appaia irricevibile viene assegnato ad un comitato di 3 giudici. Qualora il ricorso comporti la
soluzione di delicati problemi interpretativi la camera può spogliarsi della competenza a favore di
una grande camera composta da 17 giudici che funge anche da organo di revisione delle sentenze
camerali. Infatti ogni parte di una controversia può chiedere entro tre mesi che il caso sia rinviato
dinanzi alla grande camera. Per essere esaminata nel merito una domanda di revisione deve essere
considerata ricevibile da un collegio di cinque giudici, il quale valuta se la questione, oggetto del
ricorso, sollevi gravi problemi di interpretazione o di applicazione della convenzione o dei suoi
protocolli o comunque un'importante questione di carattere generale. Le sentenze della corte
hanno l’effetto di accertare una violazione dei diritti convenzionali, e di condannare lo stato
responsabile della violazione, accordando un equo indennizzo [equa soddisfazione] alla parte lesa
qualora il diritto interno non consenta di riparare integralmente la violazione. La corte non ha
quindi il potere di accertare la contrarietà alla convenzione, di leggi ed altri atti normativi del
diritto interno, Ma solo di pronunciarsi rispetto all'esistenza attuale di una violazione a carico del
ricorrente. Tuttavia la corte ha ritenuto di poter indicare le disposizioni normative del diritto
interno allo Stato, che risultino strutturalmente in conflitto con i diritti convenzionali, e che
pertanto gli stati parte hanno l'obbligo di rimuovere.
7.La corte penale internazionale
La corte penale internazionale è la prima giurisdizione penale internazionale a carattere
permanente istituita attraverso trattato, il quale ne contiene lo statuto. La corte penale
internazionale è un’organizzazione indipendente, posta al di fuori del sistema delle nazioni unite.
Essa ha sede a L’Aja e il suo funzionamento, per quanto non regolato dallo statuto, è disciplinato
dall’assemblea degli stati parte. La corte si compone di 4 organi: la presidenza, le camere, l’ufficio
del procuratore e la cancelleria. La corte può esercitare la sua competenza in relazione ai crimini di
guerra, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di genocidio commessi da individui. Tuttavia la
competenza della corte non è universale. Essa può essere esercitata solo nell’ipotesi in cui
l’accusato sia cittadino di uno stato parte o di uno stato che ha accettato la competenza della corte.
La competenza della corte incontra anche un limite temporale. Infatti, non può essere esercitata in
nessun caso in relazione a condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore del suo statuto. Per
gli Stati che ne divengano parte dopo la sua entrata in vigore, la corte ha competenza solo riguardo
ai fatti verificatisi successivamente all'adesione di tale Stato allo statuto, salvo che abbia accettato
la sua giurisdizione anche per il periodo precedente alla sua adesione. La competenza
giurisdizionale della corte è sussidiaria rispetto alla giurisdizione nazionale. Sono irricevibili quei
casi che sono stati oggetto di un'inchiesta o di un procedimento penale in uno Stato , parte della
convenzione, che ne abbia competenza. Tuttavia la corte può esercitare la propria giurisdizione nei
casi in cui si riscontra un difetto di volontà o un'incapacità dello Stato di perseguire i crimini di sua
competenza. Inoltre Un caso può essere dichiarato irricevibile perché non di gravità sufficiente. La
giurisdizione della corte penale internazionale può essere attivata dal procuratore, sia d'ufficio o su
richiesta di uno Stato parte, che dal consiglio di sicurezza. Il consiglio di sicurezza è in grado di
bloccare l'attività della corte. Infatti qualora il consiglio di sicurezza ne faccia richiesta, nessuna
indagine è nessun procedimento penale possono essere iniziati o proseguiti per il periodo, di 12
mesi successivi alla data della richiesta.
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PARTE VI
CONCEZIONI UNIVERSALISTE E CONCEZIONI
PARTICOLARISTE NEI RAPPORTI FRA DIRITTO
INTERNAZIONALE E DIRITTO INTERNO
1. Monismo e tendenze universaliste
Le dottrine moniste sono caratterizzate dall'idea di una strutturale omogeneità fra l'esperienza
giuridica internazionale e quella interna. Questo è visivamente rappresentato da uno schema di
tipo piramidale, nel quale ciascuna norma trae fondamento dalla norma superiore. Il diritto statale
trae quindi fondamento dal diritto internazionale in una relazione assai simile a quella che
intercorre fra gli ordinamenti nazionali e quelli delle entità substatali. Questa costruzione
presuppone che il diritto internazionale crei norme che producano effetti negli ordinamenti
interstatali, di modo da governare direttamente i comportamenti interindividuali. Nella versione
più estrema di tale dottrina i due ordinamenti sono perfettamente integrati ed organizzati su scala
gerarchica di modo che le norme internazionali producano direttamente i loro effetti negli
ordinamenti nazionali. Carattere comune alle concezioni moniste è l'idea che le regole
internazionali sono automaticamente dotate dei caratteri del primato e degli effetti diretti. Esse
sarebbero idonee ad operare nella sfera degli ordinamenti interni, senza bisogno di alcuna forma di
ricezione ad opera di norme nazionali, e prevalgono inoltre rispetto a norme nazionali confliggenti.
2. Dualismo e tendenze alla chiusura degli ordinamenti statali
Le concezioni dualiste tendono ad attribuire caratteri di autonomia ed originarietà a ciascuno degli
ordinamenti. Le concezioni dualiste affondano le proprie radici ideologiche nella più generale
dottrina pluralista, che si fonda sul presupposto che ciascun ordinamento definisce
unilateralmente il carattere giuridico delle proprie norme. Secondo le dottrine dualiste un
ordinamento originario è esclusivo in quanto riconosce come giuridiche soltanto le regole formate
in base a procedimenti da esso stabiliti. L'esistenza di più ordinamenti esclusivi determina la
necessità di un loro coordinamento, il quale viene disposto unilateralmente da ciascuno nell'
proprio ambito normativo. Le dottrine dualiste tendono a negare gli effetti della prospettiva
monista : ovvero gli effetti diretti e il primato delle norme internazionali. Infatti per la dottrina
dualista , le regole internazionali al fine della loro attuazione, dovranno essere adottate sulla base
di procedimenti normativi interni a ciascuno Stato. In stretto rapporto con i presupposti
fondamentali del pensiero dualista è la dottrina dell'adattamento. Questa, parte dal presupposto
che gli obblighi internazionali vincolano lo Stato solo nella sfera del diritto internazionale. La
conformità dell'ordinamento interno agli obblighi internazionali e assicurata attraverso tecniche di
adattamento di tipo ordinario e speciale: L'adattamento ordinario consiste nell'adozione di un atto
normativo interno che recepisca materialmente il contenuto dell'obbligo internazionale,
disponendo le modifiche necessarie per la sua attuazione. L'adattamento speciale invece di
recepire il contenuto materiale dell'obbligo si limita ad ordinare l'attuazione interna della norma
internazionale. Es: ordine di esecuzione.
3. Monismo e dualismo nella storia del pensiero giuridico
Il problema dei rapporti fra diritto internazionale e diritto interno Non aveva ragione di porsi nel
modello di Stato assoluto perché tutti i poteri si concentravano nelle mani del sovrano. Nello Stato
Liberale il sovrano manteneva il potere esecutivo mentre il potere legislativo veniva affidato al
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Parlamento. Al fine di determinare i rapporti fra il potere esecutivo e potere legislativo si ricorse
alla distinzione fra la ratifica di un trattato è la legge di attuazione. Mantenendo l'unitarietà della
sfera interna e di quella esterna venne imposto che, il potere di concludere trattati dell'esecutivo
venisse condizionato alla previa autorizzazione del Parlamento, Affinché i trattati potessero
spiegare effetti normativi corrispondenti a quelli di una legge. In altri termini le prime storiche
forme di dualismo si limitavano a sostenere la necessità di distinguere concettualmente la fase
della formazione delle norme internazionali da quella della loro attuazione interna. Tuttavia non
era escluso che le fonti internazionali potessero produrre direttamente i loro effetti
nell'ordinamento interno a condizione che venissero rispettate le prerogative del Parlamento.
4. Le soluzioni adottate negli ordinamenti contemporanei
Le soluzioni adottate nella maggior parte degli ordinamenti contemporanei tendono a conciliare
un equilibrio fra l'esigenza di autonomia del sistema giuridico interno e l'esigenza di una apertura
alle norme e ai principi dell'ordinamento internazionale, Esigendo che vi sia un atto interno che
ordini l'applicazione delle regole internazionali nell'ordinamento interno.
L'ordinamento della Repubblica federale di Germania si ispira ad una logica dualista stabilendo la
conformità dell'ordinamento interno al diritto internazionale generale. Le norme generali
internazionali prevalgono sulle leggi interne ma sono sottoposte al limite del rispetto dei principi
fondamentali della legge fondamentale della costituzione tedesca. I trattati sono attuati mediante
un ordine di esecuzione contenuto generalmente in una legge ordinaria di modo che prevalgono
sulle leggi antecedenti ma possono essere derogati da leggi successive.
IL modello costituzionale francese è ispirato ad una logica monista che stabilisce la prevalenza dei
trattati sulla legislazione interna a condizione di reciprocità, ma la loro subordinazione alle norme
costituzionali.
L'ordinamento degli Stati Uniti d'America è ispirato ad una logica parzialmente monista. I trattati
costituiscono fonte di diritto federale senza bisogno di provvedimenti di attuazione ad hoc e
prevalgono, previa autorizzazione alla ratifica, rispetto al diritto degli Stati federali. I trattati hanno
quindi valore corrispondente a quello delle leggi federali ma subordinato a quello della
costituzione federale.
L'ordinamento dell'unione europea è ispirato sui presupposti fondamentali della dottrina monista.
Prevede che gli accordi conclusi dall'unione producono effetti interni e prevalgono rispetto al
diritto derivato. Essi quindi sono sottoposti solo al rispetto del trattato istitutivo che costituisce il
diritto primario dell'unione.
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I RAPPORTI FRA L'ORDINAMENTO ITALIANO E NORME INTERNAZIONALI
L'ADATTAMENTO AL DIRITTO GENERALE
1. L' articolo 10 della costituzione italiana.
I rapporti fra ordinamento nazionale e norme internazionali solo disciplinati dall'art. 10 della
costituzione il quale dispone che: l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute. L'esigenza di rispettare le norme internazionali
generalmente riconosciute, corrisponde ad un interesse costituzionale dell'ordinamento italiano.
2. L'ambito di applicazione e il contenuto della garanzia disposta dall'art. 10
Sia la formulazione testuale che la ratio, inducono ad escludere dal suo ambito di applicazione i
trattati che sono fonti di diritto internazionale particolare. La norma opera sia sul piano dell'
adattamento sia sul piano del valore Attribuito a tali norme nell'ordinamento interno. Da una
prospettiva dualista la norma costituzionale produce direttamente le norme interne necessarie
all'adempimento degli obblighi derivanti dalle regole internazionali generali. In una prospettiva
monista ha la funzione di consentire alle regole internazionali generali di produrre direttamente
effetti nell'ordinamento interno. L'articolo 10 conferisce al diritto internazionale generale valore
costituzionale, poiché le corrispondenti norme interne di adattamento hanno rango costituzionale.
Il rango costituzionale delle norme internazionali generali ha come conseguenza, che le leggi con
esse confliggenti risulteranno incostituzionali e andranno dichiarate illegittime dalla corte
costituzionale.
3. I rapporti fra Diritto internazionale generale e regole costituzionali
Il diritto internazionale è il diritto costituzionale sono fondate sul logiche diverse. Infatti il primo
tende alla tutela di interessi statali mentre il secondo concerne la tutela della sfera di libertà
individuali. Un esempio è quello dei potenziali conflitti fra il regime delle immunità garantite dal
diritto internazionale e i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale. La questione si è
posta nel caso Russel. La questione posta alla corte concerneva la compatibilità con l'articolo 24
della costituzione, con la disciplina dell'immunità dalla giurisdizione civile degli agenti diplomatici
contenuta nella convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. La corte ha ritenuto che la
convenzione di Vienna fosse meramente ricognitiva del diritto consuetudinario il quale ha
costituito il reale oggetto della questione di legittimità. Infatti il preambolo di apertura della
convenzione di Vienna si apre con un richiamo al diritto consuetudinario il quale ricorda che fin
dall'antichità i popoli di ogni paese riconoscono lo Stato degli agenti diplomatici. La corte
costituzionale ha escluso di poter risolvere il conflitto fra norme consuetudinarie e norme
costituzionali per mezzo del criterio gerarchico dato che si tratta di norme aventi lo stesso valore
formale. Inoltre la corte ha dichiarato che le norme consuetudinarie prevalgono sulle norme
costituzionali secondo il principio di specialità. Al fine di risolvere il problema la corte
costituzionale ha adottato un criterio di ordine temporale: Secondo tale criterio, le consuetudini
formatesi prima dell'entrata in vigore della costituzione non incontrano alcun limite; Quelle
formatesi dopo di essa incontrano invece il limite del rispetto dei principi fondamentali della
costituzione italiana. Tale criterio ha consentito alla corte di evitare la pronuncia di illegittimità
delle regole internazionali sull'immunità.
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L'ADATTAMENTO AI TRATTATI
1. Adattamento ordinario e ordine di esecuzione
Secondo la dottrina prevalente non vi è nella costituzione italiana una norma che disciplina il
procedimento di attuazione dei trattati. L'art. 80 della costituzione disciplina sono il procedimento
di formazione, mentre l'articolo 117 al trattamento interno della normativa di attuazione . In
assenza di una disciplina costituzionale l'adattamento ai trattati va disposto con provvedimento
specifico qualora l'ordinamento non sia già conforme agli obblighi derivanti dal trattato, E
dovranno essere adottati con atti di rango costituzionale a seconda del livello delle modifiche
normative apportate. L'adattamento ordinario consiste in un provvedimento che contiene le
regole materiali necessarie per consentire l'adempimento degli obblighi internazionali.
L'adattamento speciale consiste nell'adozione di un ordine di esecuzione, privo di un proprio
contenuto materiale che si limita ad ordinarne l'esecuzione. La prassi Tende ad unificare la fase
della formazione dei trattati con la fase dell'adattamento. Infatti lo stesso atto legislativo che
contiene l'autorizzazione alla ratifica contiene anche l'ordine di esecuzione del trattato. Questa
prassi è dettata prevalentemente dall'esigenza di semplificare l'intera procedura. Tale prospettiva
tende a sottolineare l'unitarietà dell'esperienza giuridica interna e internazionale e ad attenuare
l'idea di un artificiale separazione fra i due ordinamenti.
2. I rapporti fra trattati e leggi interne
Prima della riforma costituzionale del 2001 si riteneva generalmente che un trattato assumesse
nell'ordinamento interno il valore della fonte che ne aveva disposto l'attuazione. Il nuovo articolo
117 prevede che: la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della
costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali. Questa disposizione stabilisce un meccanismo di prevalenza dei trattati rispetto alle
leggi interne.
3. Il contenuto dell'art 117
L'articolo 117 non disciplina la procedura di adattamento dell'ordinamento italiano al diritto
internazionale, perché gli obblighi internazionali sono attuati nell'ordinamento interno attraverso i
procedimenti previsti dall'articolo 10. Esso inoltre non altera il valore formale delle norme di
attuazione, ma si limita a costituzionalizzare l'interesse dell'ordinamento vincolandone la funzione
legislativa al rispetto di tali obblighi senza però attribuire valore costituzionale alle singole fonti
internazionali. la corte costituzionale ha stabilito che il contrasto fra una legge ordinaria e la
convenzione europea dei diritti dell'uomo dà luogo ad una questione di legittimità costituzionale
della norma ordinaria. In considerazione di questa soluzione, dato il numero dei potenziali conflitti
di questo tipo, la corte costituzionale verrebbe investita da numerose questioni di legittimità. A tal
proposito la corte ha precisato che il dovere del giudice ordinario di sollevare questione incidentale
di costituzionalità sorgere solo in presenza di un vero e proprio conflitto. I giudici ordinari
rimangono competenti a verificare se il conflitto Possa essere risolto in via interpretativa attraverso
l'applicazione del principio dell'interpretazione conforme è attraverso il criterio di specialità.
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4. L'ambito di applicazione della garanzia costituzionale
L'ambito di applicazione dell'articolo 117 è limitato ai soli obblighi internazionali che si sono
formati nel rispetto delle procedure costituzionali, o in senso più garantista, ai soli obblighi assunti
previa autorizzazione parlamentare alla ratifica.
5. il coordinamento con le altre garanzie speciali disposte dalla costituzione
L'adozione nell'articolo 117, di un meccanismo generale di tutela a favore di tutti gli obblighi
internazionali, formati nel rispetto delle procedure previste, pone il problema di determinare i
rapporti con gli altri meccanismi di garanzia esistenti nel sistema. rispetto ai rapporti con l'articolo
10 visto che il suo ambito di applicazione è circoscritto a obblighi derivanti da norme generali, si
applicherà al titolo speciale rispetto all'articolo 117. il problema di coordinamento Si pone tra
l'articolo 11 della costituzione è l'articolo 117, Poiché entrambi hanno un ambito di applicazione
generale. La corte costituzionale ha concluso che le due disposizioni hanno un diverso ambito di
applicazione, poiché si riferiscono a diverse categorie di obblighi. Infatti l'articolo 11 si riferisce agli
obblighi derivanti dall'appartenenza all'unione europea e stabilisce a favore di tali obblighi la
disapplicazione della legge nazionale contrastante con norme dell'unione aventi effetti diretti.
L'articolo 117 invece si riferisce agli obblighi internazionali, ne consegue che i conflitti saranno
risolti attraverso il sindacato di legittimità costituzionale.
La corte costituzionale nelle due sentenze numero 348 349 riguardanti gli effetti interni della
convenzione europea dei diritti umani, ha escluso la competenza del giudice ordinario a
disapplicare norme di legge contrarie a trattati internazionali, poiché a differenza del trattato
dell'unione europea, questi non hanno effetti diretti. Dato che la giurisprudenza e la dottrina
hanno riconosciuto ai trattati internazionali idonei a disciplinare rapporti individuali, la possibilità
di esplicare effetti diretti nell'ordinamento interno, L'interpretazione da attribuire alla conclusione
della corte è quella di avere indicato la particolare forza normativa della quale sono dotate le
norme del trattato dell'unione europea. Secondo la giurisprudenza della La corte di giustizia
dell'unione europea, Un eventuale obbligo posto al giudice ordinario di sollevare questione di
legittimità delle leggi interne confliggenti con norme dell'unione aventi effetti diretti, costituisce un
ostacolo all'applicazione immediata di tali norme e viola il trattato istitutivo dell'unione.
In un'altra sentenza, la corte costituzionale, ha chiarito che la futura adesione dell'unione europea
alla convenzione europea dei diritti dell'uomo, avrà l'effetto di stabilire un doppio binario nel
trattamento dei conflitti fra leggi interne norme convenzionali internazionali.
1-(I conflitti che ricadono nell'ambito di applicazione del diritto dell'unione europea saranno
definiti dal giudice ordinario mediante lo strumento della disapplicazione, poiché le norme della
convenzione rileveranno come limite posto dall'articolo 11 della costituzione, alla funzione
legislativa.)
2-(Per i conflitti che ricadono al di fuori dell'ambito di applicazione del diritto dell'unione europea,
la convenzione sarà applicata come limite posto dall'articolo 117 alla funzione legislativa. Tali
conflitti andranno quindi definite attraverso un sindacato di costituzionalità).
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6. Considerazioni conclusive sulla portata dell'articolo 117.
L'adozione di un meccanismo generale di garanzia a favore degli obblighi internazionali stabilisce
un vincolo alla legislazione indipendentemente dal contenuto e dal rilievo che essi assumono nella
dinamica delle relazioni internazionali. L'esistenza di un accordo internazionale ha quindi l'effetto
di cristallizzare lo stato della legislazione impedendo che essa si adegui al mutare del costume
sociale. Parte della dottrina ha prospettato una diversa funzione della disposizione costituzionale.
Con essa non si sarebbe voluto formulare una garanzia costituzionale rispetto alla generalità degli
obblighi internazionali, quanto piuttosto stabilire un meccanismo di coordinamento fra le leggi e gli
accordi internazionali conclusi rispettivamente da Stato e regioni. Infatti la disposizione è collocata
nel titolo v° della costituzione che concerne appunto i rapporti fra Stato e regioni.
7. Trattati e norme costituzionali
8. la giurisprudenza costituzionale
9. L'attuazione dei trattati da parte delle regioni
L'art. 117, comma 5, Cost. prevede che le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano,
nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti
normativi comunitari, e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e
degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato.
La norma costituzionale riconosce alle Regioni il potere di attuare accordi allorché l'adozione di
norme di attuazione ricada nell'ambito della competenza regionale. Ancorché la norma menzioni i
soli accordi, essa va interpretata in senso estensivo, includendo quindi anche il potere regionale di
adottare norme di attuazione del diritto internazionale generale. L'art. 117, 5 comma, tuttavia non
assegna alle Regioni una competenza esclusiva. Alle Regioni dovrebbe spettare quindi solo la
competenza ad adottare[produrre] le norme interne, eventualmente necessarie a precisare e
integrare l'ordine di esecuzione. Tale competenza sarebbe esclusiva, rispetto alle norme di
attuazione, che riguardano materie ricandenti nell' ambito della propria competenza esclusiva. Nei
campi di competenza concorrente, anche questo potere incontra il limite del rispetto dei principi
stabiliti con legge dello Stato. Tuttavia, la legge di attuazione del titolo V° tende a limitare il potere
di attuazione delle Regioni ai soli "accordi internazionali ratificati, limitando il potere di attuazione
delle regioni ai soli accordi conclusi in forma solenne. Al fine di evitare che l'inadempimento
regionale possa comportare l'insorgere di responsabilità per lo Stato, la Costituzione prevede delle
forme di sostituzione. La prima concerne l'attuazione in via legislativa. L'art. 117, comma 5,
prevede che la legge dello Stato disciplini il potere sostitutivo dello Stato in caso di inadempienza.
L'art. 120 concerne invece l'attuazione in via amministrativa e precisa che il Governo può sostituirsi
a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato
rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria. Il potere sostitutivo è
disciplinato dall'art. 8 della legge La Loggia. La disposizione prevede che il Presidente del Consiglio
dei Ministri assegni all'ente interessato un termine per provvedere e che lo stesso possa adottare i
provvedimenti necessari solo alla scadenza del termine. La sostituzione nelle funzioni legislative
delle Regioni dovrebbe seguire una strada analoga, salvo che i provvedimenti necessari devono
essere adottati solo provvisoriamente dal Governo, a mezzo di un decreto-legge, e devono essere
quindi adottati in via definitiva solo dal Parlamento.
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10. L'adattamento ad atti istituzionali e a sentenze internazionali
I trattati istitutivi di organizzazioni internazionali prevedono dei meccanismi di produzione
normativa. Nel ordinamento italiano si tratta quindi di vedere se l'ordine di esecuzione di un
trattato sia in grado di operare anche rispetto alle norme del trattato che stabiliscono
procedimenti normativi. Secondo il dispoto del art 11 della costituzione, un trattato
internazionale produce effetti nell'ordinamento interno, non soltanto quanto alle sue norme
sostanziali, ma altresì quanto alle norme che predispongono procedimenti di produzione
normativa. Una soluzione che meglio si conforma ai procedimenti di produzione normativa previsti
dalla Costituzione consiste nel dare attuazione, ad atti di organizzazioni internazionali, attraverso
specifici provvedimenti di adattamento. Art 117. - 10- Di conseguenza, l'ordine di esecuzione di un
trattato istitutivo di una organizzazione internazionale, avrebbe l'effetto di consentire agli atti
derivati di tale organizzazione di produrre automaticamente effetti nell'ordinamento interno. Tale
soluzione impedisce che un trattato possa dar vita a procedimenti atipici di formazione di norme
giuridiche, senza che siano rispettate le garanzie di democraticità e di legittimazione assicurate dal
sistema costituzionale. Essa presenta inoltre il vantaggio di consentire ai soggetti dell'ordinamento
interno una migliore conoscenza della normativa che disciplina i loro comportamenti. Il problema,
si converte nel vedere se l'istituzione di procedimenti normativi diversi da quelli istituiti dalla
Costituzione italiana siano compatibili con il sistema costituzionale. Dato che si formano in un
ambiente istituzionale esterno, tali procedimenti tendono a sottrarsi ai vincoli interni e ad
affermare la propria autonomia. L'inconveniente principale che deriva dalla produzione di effetti
nell'ordinamento interno è dato dal fatto che la posizione soggettiva dei singoli viene modificata
attraverso norme prodotte da procedimenti atipici e prive dei meccanismi di pubblicità. Esse non
potrebbero invece, di per sé, imporre obblighi a carico di soggetti dell'ordinamento interno a meno
che non siano adempiuti i requisiti di pubblicità imposti per le norme interne di pari valore. Un
ulteriore limite agli effetti interni di atti di organizzazioni internazionali viene dal rispetto dei limiti
di competenza assegnata a tali organizzazioni. In tale ambito ci si é chiesto se l'esistenza di un
meccanismo interno di rispetto delle competenze dell'Unione non comporti l'attribuzione
all'Unione del potere di determinare autonomamente l'ambito della propria competenza. Ciò
equivarrebbe quindi ad attribuire all'Unione un vero e proprio potere costituente: un potere che
neanche le Carte costituzionali degli Stati membri potrebbero legittimamente attribuire all'Unione.
Tale problema può essere risolto sulla base di un principio di omogeneità fra il sistema normativo
esterno, che esige il rispetto della propria autonomia, e il sistema costituzionale interno, che esige
il rispetto dei propri valori. Tanto più l'ordinamento costituzionale sarà propenso ad ammettere
tale autonomia, quanto più l'organizzazione internazionale sia fondata su principi omogenei a
quelli che ispirano l'ordine costituzionale interno.
b) L'attuazione interna di sentenze internazionali
La sentenza internazionale ha la funzione di accertare l' esistenza di un illecito, e di determinarne
le conseguenze. Vincolano gli Stati ai quali sono dirette e pongono in capo ad essi l'obbligo di
conformarsi. Una sentenza che stabilisca, l'illiceità di una condotta statale prevista da una legge
comporta la necessità di abrogazione o di modifica di tale legge. Vincola I giudici interni ad
interpretare ed applicare la Convenzione in giudizio , ma non a seguire gli orientamenti
interpretativi della Corte. La Convenzione non stabilisce un obbligo di precedente, né per la Corte
né, per i giudici nazionali. L'esigenza di tener conto della giurisprudenza della Corte
nell'interpretazione della Convenzione deriva dalla circostanza che la Corte rappresenta un
autorevole interprete della Convenzione e ne determina il diritto vivente. Oltre ad accertare
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l'esistenza di un illecito, una sentenza internazionale può determinarne le conseguenze, comprese
le misure che uno Stato dovrà adottare al fine di ripristinare la situazione preesistente e di prestare
riparazione. Normalmente, tali conseguenze non possono essere applicate senza un intervento
normativo interno che ne precisi il contenuto e le condizioni di applicazione. Altre volte la sentenza
può fungere da fondamento per la pretesa soggettiva di un individuo. Infatti la Corte di cassazione
ha riconosciuto gli effetti automatici delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo. La
Corte europea dei diritti dell'uomo aveva stabilito che la sentenza penale pronunciata a carico di
Somogyi dai giudici italiani fosse contraria all'art. 6 della Convenzione europea, che garantisce il
diritto ad un equo processo, stabilendo l'obbligo per lo Stato italiano di riapertura del
procedimento. La Corte di cassazione ha ritenuto che la sentenza della Corte europea, fondasse la
pretesa dell'individuo alla restituzione in termini del diritto di proporre appello.
1. Norme self-executing r norme non self-executing
Un ordinamento che consenta alle norme internazionali di operare direttamente, e disciplinare
rapporti interni senza l'intermediazione di norme interne, sarà maggiormente aperto all'influsso
del diritto internazionale rispetto ad un ordinamento che preveda invece un procedimento di
riformulazione del diritto esterno ad opera delle fonti nazionali. A tal fine una norma
internazionale dovrà risultare idonea non solo a disciplinare rapporti fra Stati, ma altresì rapporti
giuridici interni. La prassi dimostra che ci sono norme inidonee a disciplinare direttamente rapporti
giuridici interni , allorchè sia formulata in maniera da dedurre sia obblighi internazionali per gli
stati , sia idonea a disciplinare rapporti giuridici fra individui. Un esempio è dato dall' art 28 della
convenzione delle nazioni unite sul diritto del mare , che prevede il divieto per lo Stato costiero di
esercitare misure di esecuzione civile su una nave straniera. Tale norma si presta ad essere
invocata ed applicata in un giudizio interno, Dato che si può dedurre il divieto di operare misure
esecutive su un determinato bene.
2. La nozione classica di norme Self executing.
Le norme Idonee a disciplinare direttamente rapporti giuridici interni sono dette self executing. L'
idoneità di una norma ad essere applicata a rapporti interni si desume dalla completezza di
contenuto dispositivo dal quale se ne ricava la disciplina. Se la norma non ha un contenuto idoneo
a disciplinare rapporti soggettivi interni, essa si dirà non self executing e non potrà essere applicata
direttamente dagli operatori giuridici interni, poiché per la sua attuazione è necessario l'intervento
del legislatore. L'ordine di esecuzione le conferisce carattere normativo consentendogli di produrre
effetti nel ordinamento, ma non ha completezza di contenuto tale da poter essere utilizzata per
disciplinare direttamente rapporti giuridici individuali. Essa infatti può essere utilizzata sia a fini
interpretativi sia allo scopo di costituire il parametro di validità di norme inferiori.
3. La trasformazione della nozione di norma self executing e le tendenze neomoniste
La nozione di norma self executing è stata distorta rispetto al suo contenuto originale ed è stata
utilizzata per impedire che il diritto interno possa fungere da strumento di garanzia del diritto
internazionale. Un contributo decisivo è venuto dalla giurisprudenza di alcuni giudici interni
secondo i quali, per valutare se una norma internazionale ha carattere self executing non è
sufficiente guardare alla sua completezza espositiva, ma occorre valutare se essa è stata posta in
essere al fine di disciplinare direttamente fattispecie interne. Questo orientamento emerge da due
linee giurisprudenziali: La corte di giustizia dell'unione europea ha costantemente negato che
l'accordo generale sulle tariffe e sul commercio [G.A.T.T General Agreement on Tariffs and Trade ].
possa essere applicato nell'ordinamento interno nonostante le sue disposizioni siano formulate in
maniera tale da poterne dedurre una disciplina applicabile ai rapporti individuali Poiché affidare al
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giudice interno la garanzia dell'attuazione delle decisioni giudiziarie del OMC, comporterebbe
un'alterazione dell'equilibrio normativo sotteso a tali accordi, poiché gli Stati parte hanno
espresso la volontà di affidare le garanzia della osservanza degli accordi contenuti nel OMC
unicamente a dinamiche strumenti di garanzia di tipo internazionale. In una seconda linea
giurisprudenziale la corte di giustizia ha indicato che l'effetto diretto di un accordo consegue alla
intenzione delle parti di conferire diritti e obblighi a favore di individui. Prima di applicare un
accordo nei rapporti interni il giudice dovrebbe verificare se sulla base dell'oggetto del trattato e
dell'intenzione delle parti, questo è stato concepito come norma destinata ad operare solo sul
piano dei rapporti fra Stati, oppure anche al fine di disciplinare rapporti giuridici individuali. Un
ulteriore orientamento tendente a ridurre l'impatto del diritto internazionale nell'ordinamento
interno si è affermato negli Stati Uniti d'America. Nel caso dei trattati sui diritti dell'uomo gli Stati
Uniti hanno apposto una riserva interpretativa secondo la quale tali convenzioni non sono di
natura tale da spiegare effetti diretti nell'ordinamento interno. La corte di cassazione ha
menzionato la circostanza che sono gli stessi trattati a strutturare i procedimenti per accertare le
violazioni, a prevedere le sanzioni in caso di responsabilità e a indicare le corti internazionali
competenti. La giurisprudenza interna ha utilizzato tre diversi argomenti per evitare l'applicazione
interna di norme internazionali. L'esigenza di mantenere la reciprocità fra le parti; L'esigenza di non
alterare il sistema di garanzia disposto a livello internazionale; l'esigenza di non alterare il
contenuto interstatale delle norme. Questi argomenti hanno nucleo comune: Tendono a
sottolineare l'esigenza che l'applicazione interna non alteri la natura e il contenuto delle norme
internazionali. La dottrina prevalente a sottolinearlo come l'applicazione ad opera degli
ordinamenti nazionali costituisca la forma naturale di garanzia delle norme internazionali.
L'applicazione ha un doppio effetto: da un lato essa tende ad aprire l'ordinamento interno ai valori
espressi dalle norme internazionali, dall'altro ha l'effetto di assicurare l'effettività delle norme
internazionali attraverso rimedi interni.
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