Giusnaturalismo Termine generale che identifica quelle posizioni filosofiche, giuridiche e politiche che riconoscono l’esistenza di un “diritto naturale e razionale”, universalmente valido, considerato quale fondamento di ogni diritto civile (tradotto: esiste una legge interiore che va al di là di quella di uno stato, valida per tutti gli uomini). Normalmente ritenuto fondato sui principi espressi da Aristotele (nel V libro della sua Etica Nicomachea) il Giusnaturalismo (dal latino ius naturale, “diritto di natura”) in realtà prese piede con la filosofia stoica, soprattutto nella sua fase romana abbracciata anche dal retore, politico e avvocato romano Marco Tullio Cicerone e si affermò come dottrina vera e propria soltanto fra il XVI e il XVIII secolo parallelamente alla formazione degli stati moderni. Presupposto del giusnaturalismo è il riconoscimento dell’esistenza di uno “stato di natura”, reale o solo ipotizzato, dominato dalle leggi naturali, cui gli uomini avrebbero spontaneamente rinunciato, attraverso un “contratto sociale”, per dare vita a una società organizzata. Su questo schema concettuale si basa la teoria detta Contrattualismo che riconduce la nascita dello stato (come ente superiore al singolo) ad un “patto” stipulato tra gli uomini (o tra gli uomini e un sovrano). Le cose secondo la teoria contrattualistica sarebbero andate più o meno così: divenuto lo stato di natura impraticabile, violento ed insicuro, gli uomini, in vista di un’utilità comune, decisero di passare allo “stato civile” trasferendo ad un sovrano, mediante un patto, il potere di far coercitivamente rispettare la sfera di interessi di ciascun individuo, di mantenere l’ordine sociale e la pace. A tale impianto teorico facevano riferimento pensatori quali l’italiano Marsilio da Padova, l’olandese Ugo Grozio, l’inglese Thomas Hobbes, lo svizzero Jean-Jacques Rousseau . Al contrattualismo si appoggiano tutte le teorie che svincolano l’autorità statale da qualsiasi investitura religiosa o sacrale, attribuendo al singolo individuo la possibilità di cedere in tutto o in parte i propri diritti, in modo razionale e volontario, attraverso l’uso del contratto sociale. Contrattualisti furono tanto filosofi che riconoscevano l’esistenza di un diritto naturale, indipendente da quello dello stato, quanto pensatori che al diritto naturale non riconoscevano alcuna legittimità. Questo è il caso del cosiddetto Positivismo giuridico, teoria che, pur accettando l’esistenza di un “patto” che avrebbe originato l’entrata dell’uomo in uno stato societario, si contrappone al giusnaturalismo in quanto considera valido solamente il “diritto positivo”, inteso, quest’ultimo, come il corpus di leggi creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Giusnaturalismo antico Nel clima culturale in cui fiorisce la democrazia di Pericle, nell’Atene del V secolo, i sofisti, portati a discutere tutti gli istituti tradizionali, per primi contrappongono, in termini filosofici, ad un “giusto per legge” (nomoi dykaion) un “giusto per natura” (physei dykaion), considerando il secondo diverso dal primo e superiore ad esso. Ippia di Elide ed Antifonte di Atene fondarono la teoria naturalistica del diritto e rimprovando alle leggi positive di non corrispondere sempre alle esigenze naturali e razionali dell’uomo. Per Ippia, esiste un diritto naturale, universalmente valido, superiore a quello positivo che è un prodotto arbitrario e mutevole delle convenzioni umane. Egli dice infatti che gli uomini sono “tutti parenti, familiari e concittadini per natura non per legge; perché il simile è per natura parente del simile, mentre la legge, essendo tiranna degli uomini, costringe a fare molte cose contro natura”.1 1 Platone, Protagora, 337 c - d Per Antifonte le leggi umane non hanno una sanzione necessaria come le norme di natura e perciò sono ad esse inferiori, poiché “le norme di legge sono accessorie, quelle di natura essenziali; quelle di legge sono frutto di convenzione, non di creazione della natura [...] Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché non se ne accorgono gli autori di esse va esente da biasimo e da pena […] ma se violenta oltre il possibile le norme create dalla natura, se anche nessuno se ne accorge, non minore è il male, né è maggiore anche se tutti lo sanno, perché si offende non l’opinione ma la verità”.2 Aristotele, nel V libro dell’Etica, dove parla della giustizia (Dyke), fa propria la distinzione sofistica di giusto per natura (Naturale) e giusto per legge (Legittimo o legale), fissato dai vari stati: naturale è il giusto che ha la stessa validità dappertutto, indipendentemente dal fatto che sia stato o non sia stato decretato; legale è invece non importa che sia in un modo o in un altro per sua essenza, bensì importa quale sia quando sia stato sancito.3 E nella Grande Etica, ritiene il primo “il migliore” o superiore (beltion). Ma gli accenni ad un “giusto per natura” sono in Aristotele talmente fugaci da non giustificare la paternità della teoria giusnaturalistica che gli è stata attribuita Periodo del principato romano Fautori del diritto Naturale a Roma furono alcuni storici, filosofi e giuristi e le tesi più esplicitamente giusnaturalista sono quelle di Gaio e Ulpiano: Gaio, la cui attività giuridica si esplica tra il regno di Antonino Pio e quello di Marco Aurelio, propende per una bipartizione del diritto in ius civile (creazione artificiale della civitas) e in ius gentium o ius naturale (diritto comune ai popoli) che trova la sua ragion d’essere nella naturalis ratio cioè in una ragione naturale, ritenuto anche eticamente migliore poiché ispirato dalla natura: lo schiavo, ad esempio, viene visto come situazione naturale già predisposta dalla stessa natura. Eneo Domizio Ulpiano , come Gaio pensa sì che lo ius civile sia creazione artificiale ma distingue bene lo ius gentium (che regola i rapporti tra gli esseri umani) dallo ius naturale che sarebbe quello di tutte le creature viventi: in questo caso la condizione di schiavo viene vista come una condizione predisposta dal diritto e non entrante nella condizione naturale dell’uomo. Giusnaturalismo scolastico Successivo a quello antico fu, nel XIII secolo, il giusnaturalismo scolastico, che ha avuto come suo massimo esponente Tommaso d’Aquino, per il quale il diritto naturale è l’“insieme di primi principi etici e generalissimi” che sono in grado di condizionare il legislatore nel diritto positivo. Giusnaturalismo moderno L’attuale giusnaturalismo nacque nei secoli XVII e XVIII e lo distinguiamo in due filoni: quello derivato dal pensiero illuministico di fine ‘700 e quello che si sviluppa a partire dal pensiero di Thomas Hobbes. Questi, per la verità, considerava il diritto naturale proprio soltanto dell’uomo nello “stato di natura”, ossia nella ipotetica condizione in cui l’uomo si trovava prima di stipulare quel “contratto sociale” che portò all’istituzione dello stato; pertanto Hobbes non può ritenersi propriamente un giusnaturalista, ma più un contrattualista. Il giusnaturalismo trovò la sua compiuta formulazione soltanto nel pensiero dell’olandese Ugo Grozio (Huig van Groot 1583-1645), considerato anche uno dei padri del Contrattualismo. Secondo la formulazione di Grozio, una volta stipulato il patto sociale (in virtù di quello che chiama, in senso aristotelico, Appetitus societatis), ogni essere umano, pur in presenza di uno stato e di un diritto 2 3 1364, frammento A, col. 1,23 - 2,23 Aristotele, Etica, V, 7, 1134 b. positivo, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, alla libertà e altri diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché “razionalmente giusti “ e non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, egli li riconosce come “diritti” proprio in quanto corrispondenti alla “ragione”, connessa al libero arbitrio da Lui stesso donato. Nel suo De jure belli ac pacis (Il diritto della guerra e della pace), del 1625, Grozio fonda il diritto esclusivamente sulla ragione umana. Il punto di partenza del suo discorso sta nell’identificazione di ciò che è naturale con ciò che è razionale, identificazione fondata sull’assunto che la natura dell’uomo è la ragione. In virtù di tale specificazione, Grozio rappresenta il primo momento di una riflessione laica sulla politica, secondo la quale i diritti degli esseri umani sono tali per natura e quindi inalienabili. Il diritto, come necessario impianto per la convivenza, non deriva da Dio ma dalla razionalità che è specifica dell’essere umano ed è comune a tutti gli uomini. Per questo motivo il “diritto naturale” è uguale per tutti, perché si fonda su quella specifica forma di natura propria degli esseri umani che è la razionalità. L’universalità della ragione permetteva così a Grozio di individuare diritti naturali fondamentali e inalienabili per tutti gli uomini; mentre l’ autorità della ragione, come fonte di conoscenza, conferiva al giusnaturalismo una incisiva funzione critica nei confronti delle legislazioni storicamente realizzate. Esse, tuttavia poiché non tutti gli uomini utilizzano la ragione allo stesso modo, sono indispensabili per esplicare un “controllo” e garantire il rispetto dei diritti di ogni essere umano. Il contratto, in base a cui le leggi positive sono state istituite, ha trasferito la sovranità totale dal popolo al principe, ma tale trasferimento è soggetto a determinate condizioni, che il principe è tenuto a rispettare (non è assoluto!). Se non le rispetta, il contratto si dissolve e il popolo acquista il diritto di resistenza ai voleri del principe. Positivismo giuridico Col termine positivismo giuridico o Giuspositivismo si intende quella dottrina giuridico-politica che considera come unico possibile diritto il diritto positivo (ossia quello concretamente osservato nei fatti) e come unica fonte del diritto la legge dello stato. Il Diritto positivo (jus in civitate positum) è il diritto vigente in un determinato ambito politicoterritoriale in un determinato spazio di tempo. È l’insieme delle leggi poste dal potere sovrano dello stato. La dottrina del giuspositivismo si presenta storicamente e concettualmente in antitesi a quella del giusnaturalismo. L’opposizione con il giusnaturalismo è l’opposizione classica tra “due fratelli nemici”. Il Giuspositivismo è una concezione monista che ritiene che il diritto positivo sia l’unico degno di questo nome. Fuori dalle norme poste dallo stato non esiste diritto.4 Il Giusnaturalismo è una concezione dualista che sostiene, cioè, l’esistenza di due ordini di diritto, un diritto naturale (insieme di principi eterni e universali) e un diritto positivo che si trova in relazione subordinata (prodotto storico che promana dalla volontà del legislatore). Per i giusnaturalisti, il diritto positivo per essere valido deve essere giusto e quindi conforme ai principi del diritto naturale. È la giustizia morale dei suoi contenuti che rende tale il diritto; dunque il giusnaturalismo stabilisce una correlazione necessaria tra il diritto storicamente vigente e la morale come insieme di principi razionali che governano la vita associata. 4 Guido Fassò, Storia della filosofia del Diritto, vol. I. pag. 44. Il Giuspositivismo, invece, esclude che tra i due debba esservi una relazione necessaria e ammette, in alcune sue forme, che il diritto possa essere anche ingiusto, scindendo la sua validità dalla sua giustizia. Il Giusnaturalismo può presentare tra le sue varianti quella volontaristica, quando lo si consideri posto dalla Volontà divina e non un diritto insito nella natura umana razionale. Il Giuspositivismo è sempre una dottrina volontaristica: il diritto non ha altro fondamento se non il fatto che la volontà dello stato l’ha istituito. Esso non ha nessun riguardo, nel valutare l’obbligatorietà del diritto al suo valore etico, ossia alla corrispondenza a principi “superiori o anteriori” alla autorità dello Stato. Anche per i giusnaturalista la legge positiva è un atto di volontà del legislatore; ma per essi il motivo di validità di questa legge è la sua conformità alla ragione. Per i fautori del diritto positivo, invece, la legge, per essere valida non ha bisogno d’altra giustificazione che l’essere stata posta dalla volontà di chi aveva il potere per farlo. “Legge è anche obbedire alla volontà di uno solo”, diceva Eraclito. Il filosofo italiano Norberto Bobbio, grande studioso di diritto, sostiene che il diritto naturale non possa essere considerato un vero e proprio diritto, ma sia “un diritto disarmato”, perché, a differenza del diritto positivo, manca del carattere della coercibilità, cioè della possibilità di essere fatto valere con la forza. Anche se il giuspositivismo è essenzialmente dottrina moderna ed i suoi precorrimenti si sogliono ricercare non oltre il XVII secolo con Thomas Hobbes (o al massimo con Marsilio da Padova o Guglielmo di Occam), alcuni accenni di un atteggiamento giuspositivistico si possono rintracciare anche nel mondo greco. Oltre al già citato frammento di Eraclito, Positivistico è certamente l’atteggiamento di Creonte, l’antagonista di Antigone nell’omonima tragedia di Sofocle: “chi lo stato ha scelto come capo, a quello bisogna dare ascolto tanto nelle cose piccole e giuste quanto in quelle opposte”.5 Fuori dalla poesia, Senofonte, nei suoi Memorabili, attribuisce a Pericle una definizione della legge tipicamente giuspositivistica. “Si chiama Legge tutto ciò che il potere sovrano dello stato abbia deliberato e prescritto come obbligatorio” e in questa definizione Pericle, secondo Senofonte, fa rientrare anche il comando di un Tiranno.6 Fedele all’idea della variabilità della morale secondo i luoghi e i costumi, tipica della sofistica, Trasimaco, nel primo libro della Repubblica di Platone afferma che la giustizia si identifica con l’interesse del più forte, con ciò che è vantaggioso per chi comanda, intendendo come “giustizia” proprio il “giusto per legge”. Egli è uno dei pochi sofisti a non criticare il diritto positivo, anzi per lui agire contro la legge è equivalente ad agire contro giustizia. Dunque legale eguale a giusto. Non è, però, di un sofista ma di un discepolo di Anassagora, Archelao di Atene, l’affermazione più rispondente a ciò che oggi noi intendiamo per positivismo giuridico: “non esiste un giusto per natura ma soltanto un giusto per legge”. Sempre Senofonte, nei Memorabili, riporta una frase di Socrate. “Io dico che ciò che è legale (nóminon = conforme alla legge positiva) è giusto (díkaion), chi obbedisce alle leggi dello stato agisce giustamente, chi disobbedisce loro, ingiustamente”.7 Il valore di obbedienza alla legge, per Socrate, è un valore morale in sé. Si deve obbedire alla legge non se il suo contenuto è “giusto” ma perché obbedirvi è morale (un atteggiamento “formale” che verrà ripreso da Kant) . Alla legge non ci si deve ribellare soltanto per l’immoralità di un simile atteggiamento in se stesso.8 Al male, non si deve rispondere con altro male. È meglio subire ingiustizia piuttosto che compierla.9 Socrate insegnò questo altissimo principio con i fatti piuttosto che con le parole quando, come narra 5 Sofocle, Antigone, v. 667. Senofonte, Memorabili, I, 2, 43. 7 Senofonte, Memorabili, IV, 4, 12-13. 8 Platone, Critone, 10, 49 a-e. 9 Platone, Gorgia, 29-35, 474 b-479 e. 6 Platone nel Critone, dopo essere stato condannato a morte, ingiustamente ma secondo la legge, rifiutò di approfittare dell’opportunità di fuggire dal carcere. Ed affrontò la pena che gli era stata comminata. Norberto Bobbio considera, Hobbes il padre del positivismo giuridico moderno, con la sua teoria dell’assolutismo politico secondo la quale il sovrano è al di sopra delle leggi che egli stesso pone, legibus solutus. Lo stato, che Hobbes chiama “Il Dio mortale”, è uno stato assoluto in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono concentrati nelle mani del sovrano. Da questa concezione politica deriva una concezione giuspositivista secondo cui unico possibile diritto è la legge del sovrano che determina il giusto e l’ingiusto. Se Hobbes rappresenta l’origine del giuspositivismo moderno, l’età della codificazione del XVIII secolo consolida e afferma definitivamente la concezione giuspositivista. Sono tre le forze che conducono alla nascita dei codici e alla dottrina secondo cui il diritto coincide con la legge: 1. Un’esigenza di chiarezza che spinge i giuristi del tempo ad avere un’organizzazione delle fonti del diritto che eliminasse quella massa confusa e incerta composta dal diritto romano, impiegato fino al ‘700, diritto canonico, diritto imperiale, statuti delle città, pareri dei giuristi e usi locali. 2. Un’esigenza politica, manifestata dai sovrani che promulgano i codici, di assicurare il controllo e l’unità politica degli stati con un corpo di leggi che portasse il sigillo dello stato (dicono che Napoleone, che promulgò il codice civile francese nel 1804, considerasse il codice come una delle sue più grandi opere politiche). 3. Infine un’esigenza di giustizia sociale che vedeva, nelle parole scritte della legge, l’affermazione dei diritti naturali degli individui, tradotti in diritti positivi garantiti dallo stato. La codificazione sembrò quindi a molti la chiave per far coincidere chiarezza, razionalità, giustizia ed efficacia. Dal momento in cui nacquero i primi codici civili (1794 codice prussiano, 1804 codice francese, 1811 codice austriaco) il diritto civile stesso finì per coincidere col codice: il lavoro del giudice era ridotto a una mera applicazione di una norma. Unica interpretazione (equità) ammessa era quella letterale che doveva cogliere il significato delle parole della legge, espressione della volontà del legislatore. La concezione che nasce dai codici si chiama anche legalista, perché fa coincidere il diritto con la legge dello stato. Inoltre: ricordiamo dunque che, tanto i giusnaturalisti (come Grozio o Rousseau) o i giuspositivisti come Hobbes, partono da un presupposto Contrattualistico. Il contrattualismo è il principio comune che sarà criticato da Hegel nella sua dottrina dello Stato Etico. Il contrattualismo di Grozio avrà come esito giuridico il giusnaturalismo. Il contrattualismo di Hobbes avrà come esito giuridico il giuspositivismo e politico l’Assolutismo. Il contrattualismo di Locke e di Kant avrà come esito politico la teoria del liberalismo. Il contrattualismo di Rousseau avrà come esito politico la teoria democratica e della sovranità popolare,