L’ANIMA E LA TERRA 1. TRA IMMOBILISMO E TRASFORMAZIONE : ECONOMIA E Società RURALE [Il mezzogiorno – prime considerazioni ] La scarsa presenza di centri abitati , la concentrazione di un popolazione di diversa consistenza e dimensione demografica, la distinzione netta tra centri abitati e campagne costituiscono un dato diffuso del mezzogiorno moderno. Ha determinare questo fenomeno so sono aggiunti anche la morfologia del territorio e la struttura fondiaria con la poi conseguenza dei diversi assetti colturali. Tale concentrazione abitativa si deve soprattutto per le forme con cui si è materializzata l’agricoltura con le sue unità produttive, sparsi nelle diverse parti dell’agro questi appezzamenti sono stati destinati a l’uso di monocolture con pratiche estensive e intensive per lo sfruttamento del suolo. Ciò ha impedito la realizzazione di altre opportunità ma altrove hanno consentito una dislocazione diversa abitativa della popolazione. Delle aree mezzadrili su unità poderali hanno permesso di utilizzare la forza lavoro per tutto il corso dell’anno. Nelle provincie meridionali , l’inesistenza di un’agricoltura del genere ha influito in senso contrario. Queste ripercussioni infatti sono state oltre che di natura logistica anche di ordine economico. La tipologia dell’insediamento meridionale è stata caratterizzato dalla concentrazione abitativa in borghi rurali separati dalle campagne circostanti. Questa realtà pur incidendo negativa sul piano logistico della operatività ed efficienza quotidiana aveva però anche dei risvolti positivi. Il dispendio di ore lavorative e di energie fisiche era però compensato dal vantaggio di vivere a contatto con una collettività molto più articolata di quella familiare. Dove le strutture dell’antico regime erano più radicate sul territorio o dove i condizionamenti ambientali erano più difficili da superare, li si sono verificati processi di più lenta trasformazione dei rapporti socioeconomici. Invece dove i poteri tradizionali o i vincoli ambientali erano meno determinati , li ha avuto luogo una più rapida evoluzione a livello produttivo e i processi di trasformazione sociale sono stati più fluidi e dinamici. Il paesaggio agrario si può infatti configurare come uni degli elementi più idonei a rappresentare questi fenomeni di trasformazione o di consolidamento delle vecchie strutture. Infatti l’agricoltura in un arco cronologico rappresenta anche l’attività prevalente. [ Cenni sul paesaggio storico] Grazie alle informazioni fornite dalla letteratura di quel periodo ci consente di individuare quelle diverse sfaccettature del paesaggio agrario meridionale dell’età moderna. E da queste informazioni che possiamo anche ricostruire in maniera approssimativa le diverse economie rurali e i rapporti sociali che poi determinano la fisionomia della realtà del Mezzogiorno. In tutte le contrade meridionale era il presente la coltura del grano olio e vino e i piccoli contadini, medi e grossi proprietari destinavano a usi diversi i loro appezzamenti in funzione delle disponibilità economiche che disponevano , e inoltre adottavano strategie economiche evidenziando forme di autoconsumo o lì utilizzo promiscuo del suolo. Intanto avvenne anche l’espansione della gelsicoltura promossa questa nella prima età moderna soprattutto danneggiando la viticoltura. Questa progressiva espansione della gelsicoltura si estende dall’area settentrionale verso la parte meridionale configurandosi come coltura prevalente e avendo come protagonisti figure sociali di diversa estrazione, infatti oltre ai piccoli e grandi massari questa attività era esercitata anche da numerosi strati di popolazione. Nel Basso Salento per tutta l’età moderna la parcellizzazione rappresenta un aspetto importante per valutare e comprendere l’organizzazione produttiva della zona. Essa anche se non garantiva l’autonomia lavorativa a coloro che possedeva questi appezzamenti tuttavia assicurava quelle integrazione in termini di denaro o in natura. Infatti il possesso di questi minifondi consentiva un qualche forma di capitalizzazione della forza lavoro del contadino, la quale altrimenti sarebbe rimasta inutilizzata. L’alternativa a questo mondo di piccolissimi produttori, è invece il latifondo in particolare quello cerealicolo, e quello arborato insieme alle sue masserie olivicole. Su questo si và a distinguere Terra d’Otranto con le sue caratteristiche. Del tutto diversa è invece la situazione nella costa barese dove si presenta con l’olivicoltura, qui infatti la trasformazione cui è stato sottoposto lo spazio rurale, per effetto di un affollamento contadino sulla terra, trova la presenza di oliveti e di altre colture arboree la sua principale impronta economica e sociale. I catasti cinquecenteschi di Molfetta e Bisceglie offrono una dimostrazione di quella organizzazione produttiva prevalente in questa zona, rilevando quindi quei assetti produttivi e la struttura sociale. La diffusione infatti di quelle colture attesta la risposta delle popolazioni locali a quella sfida imposta dalla carenza di spazi coltivabili e dalla necessità di superarne i vincoli. E quella presenza massiccia presenza di colture arboree e arbustive si spiega per via di una numerosa presenza contadina e del suo sistematico intervento sul paesaggio agrario. Le conseguenze però di questa sistemazione produttiva si vanno a ripercuotere sulla struttura della società locale. Infatti dietro a questa sistemazione produttiva che esiste una società con una struttura socio-professionale e una stratificazione di condizioni patrimoniali molto articolata. Alla base contadina troviamo i faticatori di fora, foretani, foresi, ortolani, zappatori, bracciali, ai quali si affiancano specializzazioni artigianali che comprende diversi mestieri. A queste categorie si aggiungono quelle della intermediazione mercantile, quelle degli addetti alle professioni liberali, quella della borghesia e del patriziato locale. Il tipico “ giardino mediterraneo “ descritto da Sereni con le fitte piantagioni arboree e arbustive, non è soltanto la realizzazione dello sforzo individuale di coloni e piccoli proprietari ma anche il risultato dell’iniziativa dei signori feudali ed ecclesiastici. La Campania e principalmente Terra di Lavoro con le provincie pugliesi erano considerate tra le aree più fertili del Mezzogiorno da tutti contemporanei che ne descrivevano le amenità(piacevolezza) del paesaggio e le caratteristiche dell’agricoltura. Passando dalle zone pianeggianti verso quelle collinari e montuose le condizioni diventano meno floride, e di conseguenza gli abitanti scontano una maggiore precarietà a causa della reciprocità che si determina tra l’incidenza e combinazione tra fattori naturali e strutturali. A partire dal XVI secolo Pietrafesa e Sasso costituivano con Atena lucana e Brienza , il feudo di una delle più importanti famiglie nobili del Regno di Napoli, quella di Caracciolo. Ubicato in una posizione marginale rispetto ai principali centri mercantili la sua economia non subisce trasformazioni sino al 700’, mentre dopo la seconda metà del settecento che si vanno a riscontrare mutamenti che avvengono in concomitanza con il processo di svecchiamento delle strutture tradizionali che si avvia in tutto il Mezzogiorno ai danni della feudalità. In ampie zone della Daunia e soprattutto nel Tavoliere il pascolo rappresenta la forma prevalente di utilizzazione del suolo dalla metà del Quattrocento,questa vasta area di pascoli insieme a campi destinati alla cerealicoltura costituiscono il prevalente binomio produttivo e quell’aspetto che caratterizza il paesaggio agrario di gran parte della provincia per tutta l’età moderna. I protagonisti sono i cosiddetti poteri forti del Mezzogiorno moderno: la feudalità e lo Stato. Entrambi sono il presupposto fondamentale sul quale si fonda l’organizzazione cerealicola che contraddistingue l’economia agraria locale e il regime vincolistico della transumanza nel lungo periodo. Per circa tre secoli l’alternanza tra terre a pascolo e terre a cereali ha caratterizzato vasti spazi del territorio pugliese. Con la crisi del 1764 ci fu nei luoghi di origine della pastorizza una trasformazione produttiva delle colture cerealicole che in alcune zone sarà incentrata più che altro su una prevalenza del mai rispetto al grano, anticipando quella rapida affermazione della patata, che avverrà poi soprattutto nell’Aquilano, dopo la crisi del 1817. Gli effetti della crescita demografica in alcune zone comportò la modificazione compromettendo gli equilibri ecologici , e determinando quei sconvolgimenti ambientali e sono soprattutto i boschi a essere stati sottoposti a un processo di devastazione continua. A partire dal XVI secolo con lo stimolo della crescita demografica, l’arretramento del bosco si manifesto un po’ per tutto il Mezzogiorno continentale. Anche in Terra di Bari , sulla costa Murgia, la documentazione medievale e moderna ci indica la diffusa copertura forestale. Per esempio la documentazione di questo periodo relativa a Molfetta rivela un’interrotta trasformazione del suolo. Nei secoli successivi, nonostante l’incisiva opera di disboscamento e di trasformazione intrapresa dalla prima età moderna, la sopravvivenza di macchie e boschi di pini è largamente attestata nella documentazione della Terra di Bari. E in quest’ottica una particolare attenzione và anche a quei spazi sui quali è stata esercitata una grama cerealicoltura o forme di zootecnica. Nell’insieme queste emergenze boschive nelle zone adiacenti alla costa alla fine dell’età moderna rappresentano una sopravvivenza dei secoli precedenti. Invece è nelle aree montuose dell’interno che il bosco costituisce l’elemento molto importante per gli equilibri ambientali e per gli usi della popolazione. [ I rapporti sociali ] Le attuali conoscenze sui rapporti sociali, cioè riguardo alla distribuzione della proprietà ,all’ammontare dell’imponibile e all’articolazione socio-professionale si devono soprattutto alle fonti fiscali superstiti. E da queste fonti che possiamo anche risalire a quello che fu della polemica della manomorta , infatti nel Settecento il patrimonio ecclesiastico rappresenta il nervo più il nervo più scoperto nella lotta contro le istituzione di antico regime. Secondo le stime di metà Settecento nelle tre provincie pugliesi l’imponibile nelle mani di enti ecclesiastici e ordini religiosi non superava una quota pari al 23 per cento delle ricchezze denunciate dalle diverse componenti sociali. Queste percentuali erano più basse invece in Calabria. Cosi come nei comuni più poveri rappresentavano il 10 per cento mentre nei comuni più ricchi raggiungevano il 25 e talvolta anche il 30 per cento. Tutte queste differenze riscontrate in termini percentuali rinviano alle diverse realtà economiche. Secondo le stime del Galanti riferite al periodo anteriore al Concordato del 1741, la chiesa disponeva di oltre un terzo delle rendite ad essa appartenenti in tutto il regno. I dati di metà Settecento, elaborati dai catasti onciari infatti dimostrano livelli di concentrazione patrimoniale più contenuti. Il ruolo della Chiesa qui è abbastanza importante soprattutto economicamente parlando, in quanto garantisce numerose possibilità occupazionali a uno strato di popolazione locale abbastanza ampio, per la gestione del suo patrimonio fondiario. Nelle aree interne, invece, la concentrazione della terra nelle mani di pochi individui e , spesso, di alcuni enti ecclesiastici sostiene un’economia incentrata sulla grande azienda cerealicola che ridistribuisce , però in maniera fortemente non equa ai relativi proventi. L’economia agraria prevalente sul territorio non è altro che l’espressione dei rapporti sociali. Ciò emerge soprattutto nelle aree a forte incidenza feudale. Nell’area pugliese, per esempio , sin dalla metà del Cinquecento, pur sopravvivendo alcune importanti signorie feudali , sono scomparse le grosse concentrazioni del periodo medievale. In Terra d’Otranto mentre si diffonde la piccola feudalità che diverrà poi l’elemento caratterizzante di questa parte della provincia. Per questa caratteristica strutturale, l’influenza della piccola e talvolta della micro feudalità otrantina si segnala a fine Settecento , e secondo Galanti nella Relazione sulla Japigia ritiene che una delle cause della popolazione in questa provincia sia proprio la costituzione feudale. Infatti secondo le sue stime intorno allo stesso periodo in Terra di Bari la percentuale si riduceva al 58 per cento, ma in Capitanata e in Terra d’Otranto essa raggiungeva valori molto più alti. Infatti in tutta quella parte interna della Puglia che si succedevano quasi senza interruzioni o feudi posseduti da grandi, medie e piccole casate. La “ masseria di campo” rappresenta la forma più diffusa in cui si esplicita un economia, configurandosi come un’attività fortemente rischiosa ma altrettanto redditizia. All’industria cerealicola si dedicano sia il modesto massaro di campo che affitta la terra utilizzando i suoi animali, e sia i grandi imprenditori agrari della più diversa estrazione sociale che impiegano capitali di notevole consistenza e si arricchiscono in maniera proporzionale. Questa figura non presenta caratteristiche omogenee in tutto il Mezzogiorno continentale. Infatti tra i massari delle aree cerealicole e quelli delle zone a colture promiscue esistono differenze che interessa la loro collocazione nelle stratificazioni della società contadina. Il massaro di Terra d’Otranto esercita una forma ridotta di policoltura e si distingue dai piccoli contadini per la disponibilità di una maggiore quantità di terra e per il possesso di qualche capo di bestiame da lavoro. Le sue attività restano legate comunque a una dimensione locale o provinciale. Il massaro della costa barese esercita invece in maniera più incisiva coinvolgendo tutti gli strati di estrazione contadina. In questo contesto il massaro si differenzia dagli altri produttori agricoli anche per la tipologia delle colture praticate al suo interno. La coltivazione prevalente dell’olivo o dell’olivo associato con il mandorlo costituisce la tipologia e la strategia produttiva più redditizia , per l’alto valore mercantile di queste produzioni. Completamente diverse sono invece la condizione e le strategie produttive dei massari nelle zone a colture estensiva. Nelle aree cerealicole della Puglia settentrionale, il massaro è un vero e proprio imprenditore agrario. In Capitanata chiunque eserciti ” l’industria di campo” viene definito massaro sia che si tratti di una persona fisica sia che si tratti di un ente ecclesiastico. La disponibilità di terra non costituisce un elemento discriminante per esercitare l’industria di semina o per conseguire la qualifica di massaro. Per esercitare infatti questa attività non è necessario essere proprietari fondiari, ma si tratta questa del massaro di un’attività alla quale si può partecipare, purché si sia in condizioni di poter assumere l’onere della gestione economica. Cosi ci sono i massari che sono direttamente coinvolti in questa attività produttiva, nel senso che lavorano in proprio, e altri che prestano la loro opera a terzi. Col termine massaro si designa quasi sempre un individuo che esercita un attività “imprenditoriale “ che spesso dà luogo a improvvisi arricchimenti cosi come anche frequenti fallimenti. Proprio per questa caratteristica imprenditoriale e speculativa, l’attività del massaro è inconcepibile senza la disponibilità di capitali liquidi, necessari per le varie esigenze dell’industria di campo: l’acquisto di capi di bestiame, di utensili e per il pagamento dei salari ai mietitori. In molti centri della Daunia come nelle limitrofe aree interne pugliesi, tra coloro che presentano condizioni economiche sufficientemente consolidate si qualificano con la definizione di vivente “ nobilmente”, vivente “civilmente”, vivente “ del suo” . I massari rappresentano in all’interno di questi microcosmo rurale, una categoria intermedia tra la massa dei lavoratori agricoli e l’élite dei proprietari terrieri o di coloro che a diverso titolo occupano posizioni di prestigio nell’ambito delle singole collettività. La loro funzione è generalmente infatti quella di un imprenditore agricolo. Altri che affollano le categorie degli addetti all’agricoltura sono i bracciali , questa è la qualifica più frequentemente riportata nei documenti coevi. Questa definizione rinvia a una figura piuttosto generica di piccolo contadino generalmente in possesso di terra. Si tratta di un indicazione di mestiere molto approssimativa che rinvia a un lavoratore occupato in agricoltura ma che non disdegna altre forme di impiego delle sue braccia. Infatti i bracciali svolgono una miriade di altre mansioni attraverso il quale riescono a mantenere la propria famiglia e a sopravvivere. Il loro universo comprende i piccoli contadini, i lavoratori giornalieri e stagionali presso le aziende dei proprietari fondiari,e gli addetti ai lavori di trasformazione delle derrate agricole. Insieme ci sono anche le categorie più minorate sempre di estrazione contadina definite con termini quali lavoratori, foresi, faticatori di fora, ortolani o di addetti ad attività zootecniche quali pastori, mulattieri, giumentari, gualani, custodi armenti, costoro si collocano nelle stratificazione più basse dei redditi accertabili nel corso dell’età moderna. I bracciali rappresentano comunque la categoria più numerosa. A metà Settecento a Matera la maggior parte della popolazione si trovava in uno stato di estrema precarietà a causa della notevole concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi individui. Il quadro finora descritto non cambia se dalla Basilicata ci spostiamo verso l’area garganica, anch’essa caratterizzata da un’accentuata orografia del territorio e da una diffusa presenza feudale. La carenza di beni e la povertà della maggior parte di quei contadini sono la dimostrazione della infinita miseria con la quale devono confrontarsi gli strati meno fortunati della popolazione meridionale. 2. AGRICOLTURA PATRIMONIO E STRATEGIE FAMILIARI IN PUGLIA [ premessa] L’istituto del maggiorascato rappresentava una strategia di difesa finalizzata a salvare l’onore di una casata nobiliare che una suddivisione patrimoniale avrebbe potuto compromettere. Mentre per la nobiltà si trattava si salvaguardare l’onere, la reputazione, la considerazione della casata, per gli altri ceti sociali le finalità erano di ben altra natura ovvero connesse in qualche caso con la sopravvivenza personale. Inoltre nel Mezzogiorno l’accentuata concentrazione fondiaria o il frazionamento talvolta imponevano soluzioni molto contrastanti. Le diverse strategie si possono verificare in maniera diretta o indiretta. Nel primo caso esse si posso osservare attraverso la relazione che si instaurano in ambito parentale ovvero tra genitori e figli. Nell’altro caso invece esse sono il risultato di scelte, imposte dalla dura realtà del contesto di appartenenza. La dimensione della famiglia e la sua specifica tipologia strutturale sono espressione delle risorse complessive di cui essa dispone e delle maggiori o minori opportunità che le riserva il territorio di appartenenza. La carenza o l’insufficienza di queste ultime impone, quindi, strategie molto rigorose. Alla fine del Settecento un intellettuale meridionale ragionando sulle prospettive di crescita economica del Regno di Napoli emergeva dalle sue considerazioni l’esigenza di trovare un equilibrio tra popolazione e risorse disponibili mediante la produzione agricola, il commercio e la manifattura. Una volta accertata che la famiglia meridionale dell’età moderna ha una struttura prevalentemente nucleare ma resta comunque da affrontare il problema della sua dimensione. Una famiglia composta da genitori con uno due o massimo tre figli è ben diversa da una famiglia composta da un numero maggiore di figli. E come si sfama, si riscalda, si fornisce un tetto a un numero crescente di figli nel corso dell’età moderna e in un contesto dove prevale la diffusione della piccola proprietà o della sperequazione fondiaria?Dietro questa domanda non c’e solo la legge di Engel e la sua costatazione del rapporto inversamente proporzionale che esiste tra reddito e tipologia dei consumi. Ma emerge anche la forza evocativa maltusiana con la sua teoria dei freni preventivi e positivi. Se il freno positivo consiste nel meccanismo di autoregolamentazione della società e dell’economia tradizionali, il freno preventivo è dato da quella serie di accorgimenti adottati dalle popolazioni del passato per evitare,le conseguenze dovute allo squilibrio tra risorse e popolazione. Affinché una famiglia possa costituirsi è necessario che i due coniugi possano avere la garanzia di risorse economiche sufficienti almeno per soddisfare i bisogni più elementari: vitto e alloggio. Solo in questo caso essi possono costituire un nucleo autonomo e distaccarsi da quello dei propri genitori. Ricostruire l’articolazione delle strutture familiari in un determinato contesto e/o individuare quale tipo di struttura familiare sia predominante può avere importanza perché contribuisce a comprendere l’organizzazione degli aggregati domestici di una determinata realtà economica e politica in un particolare momento storico. [ La Famiglia e la documentazione del passato] Lo studio degli stati delle anime e la successiva utilizzazione dei catasti onciari ha contribuito a evidenziare le caratteristiche e le tipologie più diffuse. Mentre gli stati delle anime si limitano a riportare la composizione del nucleo familiare e forniscono indicazioni di altro tipo come il mestiere e l’attività professionale del capofamiglia e talvolta aggiungendo anche annotazione sulla tipologia abitativa. Più interessanti sono invece le notizie che derivano dai catasti antichi e soprattutto dagli onciari. A partire dai primi secoli dell’età moderna e soprattutto per il Settecento è possibile utilizzare tali fonti fiscali per un tipo di indagine sulla famiglia , riguardante sia la sua struttura e la sua dimensione, ovvero il numero dei suoi componenti. In entrambi i casi questi due parametri ( struttura e dimensione) andrebbero correlati ai condizionamenti economici che direttamente influenzano le singole tipologie familiari. I catasti meridionali e in particolare, gli onciari hanno il pregio di riportare non solo notizie di natura demografica bensì una più ampia serie di dati che consentono approfondimenti di vario genere. Essi costituiscono una fonte non sottovalutabile e non trascurabile. In alcuni casi e per alcune comunità, essi sono l’unica fonte di carattere demografico a disposizione del ricercatore. Il ricercatore ha a disposizione due strade: rigettare tutte quelle informazioni che possono derivare da una fonte da lui ritenuta scarsamente valida oppure ricavare dai documenti quanto ritiene utile alla sua ricerca, senza sottovalutare che si tratta pur sempre di una fonte che ha bisogno di essere opportunamente interpretata. Per questi motivi ritengo che i catasti onciari al pari di altre fonti abbiano una loro legittimazione a essere utilizzati dallo storico nei modi che di volta in volta egli riterrà più opportuni. Lo studio della famiglia trova nei documenti catastali una fonte idonea a determinare quei riscontri con altre variabili, tale da consentire una o più adeguata comprensione delle caratteristiche che ne contraddistinguono la tipologia in area meridionale. A partire dall’indicazione del mestiere, della professione o della collocazione sociale del singolo nucleo familiare. Questi elementi consentono di interpretare oltre la struttura anche la dimensione della famiglia. Infatti non è sempre sufficiente affermare che la famiglia contadina ha una sua determinata dimensione e struttura perché appunto ci sono contadini poveri, ma ci possono essere anche contadini abbastanza ricchi e dotati di beni patrimoniali. [ Il quadro dell’economia rurale nel Mezzogiorno ] I catasti costituiscono in maniera inesauribile di notizie per lo studio della tipologia e della composizionale familiare in età moderna. La predominante struttura nucleare della famiglia del Mezzogiorno continentale è strettamente correlata anche al tipo di agricoltura prevalente sul territorio. In un’economia agraria fondata sulle colture estensive,sull’alternanza del pascolo, e con una struttura proprietaria incentrata sui grandi +patrimoni fondiari, non è possibile che il nucleo familiare sia molto numeroso , a causa dell’irrilevanza dei redditi e per la insufficienza di occasioni di lavoro collegate ad un’economia del genere. Inoltre sia nelle zone a colture estensive e sia in quelle a coltura specializzate, la tipologia degli assetti fondiari non offre la piena occupazione di tutti i membri della famiglia contadina e la loro permanenza sulla terra. Al contrario delle aree mezzadrili, diffuse in tutta l’area centro-settentrionale della penisola, nel Mezzogiorno prevale il piccolo affitto e la colonia parziaria, nonché la concessione in enfiteusi di piccole particelle di terra. Soprattutto nelle zone ad agricoltura specializzata. Il primo dei parametri da considerare per valutare la dimensione della famiglia è la consistenza delle disponibilità economiche complessive della famiglia stessa. Un maggior reddito comporta un migliore tenore di vita e di conseguenza un più basso indice di mortalità infantile. Devono essere in maniera subordinata anche analizzate le condizioni che attengono al tipo di economia prevalente. Al loro interno che si possono anche considerare altre variabili quali l’attività lavorativa o la condizione socioprofessionale, e la tipologia dei beni posseduti. Inoltre a determinare la dimensione della famiglia non è tanto la qualifica socioprofessionale ma bensì l’ammontare del reddito e la sua tipologia in rapporto alle diverse aree produttive in cui si scompone il territorio pugliese in età moderna. Tutte queste annotazioni riguardano alcuni centri pugliesi ubicati in aree aventi caratteristiche produttive diverse come ad esempio la Daunia, la costa barese e la arte meridionale della penisola salentina. [ La famiglia del Subappenino dauno ] Per esaminare la condizione della famiglia in un’area interna del Mezzogiorno il caso di Candela può essere molto significativo. Per la sua collocazione geografico – territoriale Candela fa parte della zona Subappenino dauno. Questo centro rispecchia le caratteristiche tipiche dell’agricoltura dauna, incentrata sulla prevalenza della cerealicoltura estensiva integrata dalla zootecnica locale. A queste attività si affianca la pastorizza transumante organizzata nell’ambito della Dogana delle pecore di Foggia. E proprio intorno a queste coordinate che ruota l’economia locale e si articola la società contadina. Il contesto sociale è caratterizzato da una massa di contadini del tutto privi di soddisfacenti risorse economiche per effetto di una concentrazione patrimoniale nelle mani di feudali. Per una necessaria differenziazione degli elementi che intervengono nella composizione complessiva delle risorse familiari una distinzione importante è quella ricoperta tra redditi da lavoro e dotazione economica. Per redditi da lavoro si intende soprattutto sottolineare gli introiti derivanti alla famiglia contadini dal lavoro salariato del capofamiglia e degli altri componenti di sesso maschile. Nei documenti di metà Settecento questa parte del reddito imponibile è comunemente definita col termine industria. A comporre il reddito imponibile complessivo di queste categorie concorre spesso l’apporto dell’attività lavorativa di qualche familiare ( un figlio o un fratello). A questi introiti che si possono aggiungere quelli derivanti dal possesso di qualche imponibile. Dalla somma di questi redditi che poi si ricava la loro dotazione economica, cioè un reddito caratterizzato da una complessità di voci. Per quanto riguarda i bracciali e i lavoratori di Candela, i valori evidenziano una apprezzabile correlazione tra dimensione familiare e condizioni o disponibilità economica. In genere bracciali e lavoratori presentano nuclei familiari piuttosto ridotti, la cui dimensione dipende dalle possibilità finanziare e spesso dalla loro giovane età. Quest’ultima costituisce una variabile importante e in molti casi assume una funzione discriminante per essere strettamente legata a ipotetiche eredità. Invece la categoria dei massari impersonano una specie di ceto intermedio all’interno della società rurale di antico regime. Esaminando questa categoria si ha un’ulteriore dimostrazione del rapporto reciproco esistete tra dotazione economica e composizione del nucleo familiare. A parte la scarsa presenza di massari tra gli strati meno abbienti delle categorie di estrazione contadina, costoro denunciano redditi che sono integrati da beni di varia natura. appezzamenti di terreni e animali da lavoro costituiscono quasi sempre la parte più cospicua del loro reddito imponibile, talchè essi presentano condizioni economiche sufficienti a garantire la sopravvivenza di un nucleo familiare molto più numeroso di quello che si rintraccia tra le categorie dei bracciali e dei lavoratori. Analoghe considerazione vanno avanzate anche per quelle categorie socio – professionali che compongono la restante parte della società ovvero gli esponenti dell’artigianato. Se gli artigiani condividono le condizioni economiche e la dimensione familiare degli strati più modesti dei contadini, un discorso diverso va fatto per le atre due categorie sociali: la borghesia rurale e il patriziato. Tra uno dei tanti esempi di famiglie numerose è quelli di don Andrea Fontanella cospicue anche sotto il profilo finanziario. [ La dimensione della famiglia nella pianura dauna ] San Severo, un centro della piana del Tavoliere, con un’economia fondata sull’agricoltura estensiva che si esercita in grandi masserie di campo destinate alla produzione di cereali, rappresenta un’esemplificazione altrettanto significativa di altri casi analoghi riscontrati a Candela. Dal catasto del 1753 si ricava un’organizzazione domestica con la tendenza a un uso comune dei beni di famiglia per esigenze di natura produttivistica. Si tratta di un nucleo di sedici persone che, vivendo in comunione di beni, riescono a praticare delle economie di scala e, a risparmiare sulle spese domestiche, ottenendo positive ripercussioni sul piano della gestione della propria azienda agraria. [ La Terra di Bari: il caso della fascia costiera ] In Terra di Bari le colture arboree, fondate essenzialmente sull’olivo, offrono ampi margini di guadagno ai ricchi proprietari che esercitano anche un lucroso commercio di esportazione dell’olio. Questo tipo di economia riserva una sopravvivenza per un’ampia schiera di contadini. A livello di famiglia agiate tende a prevalere la tendenza a tenere diviso il patrimonio domestico per evitare inutili e dispersioni ricchezze. Una esplicita dimostrazione in tal senso è fornita da una cronista molfettese del Settecento, il canonico Geronimo Visaggio. Anziché disperdere il modesto patrimonio domestico in tante suddivisioni ereditarie, il cronista molfettese, auspica invece una maggiore propensione a coltivare forme di celibato tra fratelli proprio per evitare una parcellizzazione delle risorse familiari. Anche nei centri della fascia costiera barese, con un’economia rurale differente da quella della Daunia e delle zone interne della stessa provincia di B ari prevale la medesima tipologia familiare nucleare, con un numero di persone essenzialmente ridotto. Quella estrema dimensione numerica della famiglia contadina fondata su un ristretto numero di componenti è l’espressione più evidente delle scarse risorse economiche che l’agricoltura specializzata della costa barese mette a disposizione dei ceti meno abbienti. [ La Terra d’Otranto. Il caso della penisola salentina] In un contesto come la Terra d’Otranto, e soprattutto la penisola salentina le più scarse risorse disponibili in generale determinano ripercussioni del tutto diverse rispetto alla Terra di Bari. Nelle piccole e piccolissime comunità di villaggio in cui prevale un’agricoltura fortemente legata all’autoconsumo e quindi con minori opportunità economiche rispetto a quelle derivanti dalla spiccata vocazione mercantile della costa barese, si notano forme di convivenza tra più nuclei familiari costituiti da fratelli o da genitori e figli. Sono soprattutto gli elementi della piccola borghesia contadina a praticare tali forme di aggregazione familiare. Specialmente nella parte sud – orientale della penisola salentina.Casi del genere si possono leggere con una certa frequenza nei numerosi catasti compilati a metà Settecento nelle piccole comunità ubicate nella parte più meridionale della provincia. Sullo sfondo di questo quadro sociale ed economico si spiegano le convivenze tra fratelli nell’ambito di meccanismo sociali ed economici che spesso implicano scambi matrimoniali tra sorelle e fratelli di famiglie diverse. Casi del genere sono stati esaminati da Lorenzo Palumbo. È soprattutto la consistenza del reddito e del patrimonio a fare la differenza sia rispetto alla Terra di Bari che alla Capitanata. Nel Basso Salento le condizioni dei appartenenti alla piccola e media stratificazione economica inducono a comportamenti difensivi. 3. MANOMORTA E MEZZOGIORNO [ Premessa] L’obiettivo di queste pagine mira a una ricostruzione delle principali vicende che hanno caratterizzato la presenza economica della Chiesa nel contesto meridionale. Soffermando l’attenzione non solo sulla quantificazione dell’assetto patrimoniale ma anche sul concetto di “ presenza economica” inteso come proprietà, patrimonio, beni e simili con i quali più frequentemente si allude a quella concentrazione di ricchezze. Nel corso dei circa dieci secoli di sopravvivenza delle strutture feudali, la Chiesa, con la sua organizzazione spirituale e materiale, ha occupato un posto di primo piano che è servito alla stabilizzazione di quel sistema politico ed economico sociale. Essa in seguito a subito progressive trasformazioni derivanti dall’esigenza di adattarsi ai mutamenti interni ed esterni imposti dalle circostanze e dalla storia. Per sostenere il suo apparato che la Chiesa era stata dotata di un patrimonio considerevole, e quelle ricchezze erano necessarie per la sua sopravvivenza come istituzione e contribuivano a fornire “ servizi” e opportunità a coloro che ne facevano richiesta o che ne avessero avuto bisogno. [ La crisi del patrimonio ecclesiastico tra Medioevo e inizio dell’età moderna] Prima di questa fase il patrimonio ecclesiastico è stato sottoposto ad alterne vicende che in parte hanno sgretolato la si consistenza ma , più spesso hanno anche contribuito al suo progressivo consolidamento. Le informazioni disponibili sulla consistenza del patrimonio ecclesiastico tra il tardo Medioevo e l’inizio dell’età moderna confermano le ripetute manomissioni e usurpazioni (impadronirsi) che hanno interessato il suo assetto fondiario. Nel Mezzogiorno d’Italia abbazie di antica fondazione dimostrano non poche difficoltà ad amministrare e gestire i propri possedimenti. Questo è il caso che descrivono i catasti in maniera indirettamente nel Cinquecento facendo riferimento ad alcuni centri della Terra di Bari, all’interno dei quali sono riportati con una certa frequenza riferimenti a censi, intestati a quegli enti ecclesiastici. Quegli oneri costituiscono la testimonianza di vecchie concessioni enfiteutiche, stipulate in epoca remota, cosi attestando i diritti vantati da quegli enti sulla terra. All’inizio del Quattrocento alcune grandi comunità religiose avevano terre diffuse un po’ dappertutto nel Mezzogiorno. Da quelle descrizioni che si può desumere che quei terreni fossero ancora in piena proprietà e possesso di quelle comunità monastiche, e quindi si suppone che non si fosse ancora determinata la necessità di alienare o di cedere quelle terre da parte degli enti proprietari. Questa decisione verrà maturata in seguito , nel corso del Quattrocento, dal momento che gli apprezzi e il catasto cinquecenteschi di Molfetta riportano invece frequenti segnalazioni di censi di cui gli enti risultano titolari. Tali concessioni a lungo tempo attesterebbero il tentativo di salvaguardare o di attenuare la diminuzione delle proprie entrate da parte di quei monasteri. L’alternativa sarebbe stata l’abbandono dei campi e il loro progressivo inselvatichimento, con la perdita di qualsiasi provento da parte di enti proprietari. Però si preferì una riduzione dei redditi fondiari ma ci si garanti delle entrate durature nel tempo. Mediante analoghe stipulazioni molti appezzamenti di terreno appartenenti originariamente a grandi abbazie e monasteri erano stati concessi ai contadini dietro il semplice pagamento di un censo “ come corrispettivo all’ente dell’avvenuta alienazione”. Al contrario dell’enfiteusi, il censo perpetuo finiva per configurarsi come una cessione vera e propria di un immobile. Dietro queste concessioni o trasferimenti fondiari c’erano motivazioni di convenienza reciproca sia da parte dei concedenti che dei concessionari. In quanto gli enti concedenti, si sbarazzavano di terreni improduttivi mentre i piccoli concessionari ottenevano altre quote fondiarie, cioè nuovi mezzi di produzione, dai quali trarre dei redditi da integrare alle scarse risorse disponibili. Queste concessioni fondiarie a carattere perpetuo hanno contribuito, in parte al consolidamento e alla formazione della piccola proprietà contadina e hanno avuto una funzione promozionale per la trasformazione delle campagne tra Medioevo ed età moderna. l’azione di valorizzazione del suolo avvenuta sulle terre della Chiesa trova maggiore conferma soprattutto sulla zona meridionale e in altre province. All’inizio del Trecento le terre dell’abbazia di Cava sono in un tale stato di abbandono da indurre l’abate a concedere in affitto per cinque anni il casale di Santa Maria di Giuncarico. Pochi anni dopo, le stesse terre, insieme al territorio di Santa Maria di Giuncarico e ai beni della chiesa di Santa Maria Nova di Gravina vengono concesse ad un altro affittuario ì: il milite Nicola de Iamvilla, per diciannove anni. All’inizio di questa nuova assegnazione vi sono difficoltà a causa della loro distanza geografica. Il nuovo affittuario si impegna a riparare le chiese, le case , gli edifici del monastero e a dare costruire entro un biennio un mulino ad acqua nel territorio. Già prima della scadenza del contratto che l’abate Di Cava è costretto a revocarla concessione precedente. Una volta constatato il loro definitivo stato di abbandono, gli appezzamenti dei due casali vengono concessi in enfiteusi perpetua agli abitanti di Rocchetta. In questi anni la concessione fondiaria agli esponenti della feudalità hanno una ricaduta molto proficua. [ La ripresa postridentina] Una svolta decisiva rispetto alla crisi della proprietà e del patrimonio ecclesiastico si deve alla normativa controriformistica e alle sue applicazioni sul piano organizzativo. In questa fase si assiste alla diffusione di nuovi ordini regolari e alla riforma delle congregazioni degli ordini mendicanti. Si tende a ristrutturare e a rafforzare l’apparato economico della Chiesa. Tra il sesto e il settimo decennio del Cinquecento, in ossequio alla bolla De censibus emanata nel 1569 gli enti ecclesiastici abbandonano la conduzione diretta della terra a favore di un sistema di affittanze a breve scadenza e di un generale aumento dei canoni fondiari. Intorno alla metà del Cinquecento molto incisivo è il prelevo fiscale dei tributi ecclesiastici che, sotto forma di decime pontificie, bisognava inviare a Roma per sostenere la crociata contro il pericolo turco. Infatti l’impresa di Lepanto indusse, soprattutto nelle province pugliesi, una singolare mobilitazione del clero regolare e secolare verso queste richieste. A favorire la riduzione della durata dei contratti agrari e l’inasprimento dei canoni fondiari sono le motivazioni politico – militare di quel periodo oltre che ai prezzi crescenti delle derrate agricole. Ciononostante sopravvivevano i contratti a lunga scadenza stipulati a censo enfiteutico o a terza generazione, quindi con canoni più bassi. Malgrado queste eccezioni, nel periodo compreso tra la seconda metà del Cinquecento e i primi due decenni del Seicento, gli affitti triennali diventano la norma, tanto da determinare una rapida coltura di rapina da parte di affittuari e coloni delle terre ecclesiastiche e da provocare pesanti ripercussioni su tutta l’economia agraria locale. I guasti prodotti dagli affitti triennali praticati dagli enti ecclesiastici erano dovuti al meccanismo col quale veniva concessa la terra di quest’ultimi. È questa tipologia di affitti che consente di spiegare la crisi seicentesca dell’agricoltura nelle zone pugliesi. Tra Cinquecento e Seicento, benché sia in vigore il divieto contenuto nella De censibus , continua a essere praticata ancora la gestione diretta della terra da parte di persone ed enti ecclesiastici. Cosi nel Mezzogiorno d’Italia l’arco di tempo che intercorre tra la seconda metà del Cinquecento e tutta la prima metà del Settecento dà luogo a un nuovo e ulteriore consolidamento del patrimonio ecclesiastico. (****) [ Un tentativo di qualificazione ] Allo stato attuale degli studi, risulta che quella enorme massa di risorse economiche concentrata nelle mani della Chiesa non corrispondeva alle stime indicate dagli anticurialisti napoletani per motivi polemici. Se la Chiesa non era immune da forme di gestione parassitarie e antieconomiche l’attacco portato al suo patrimonio era un chiaro segno della maggiore debolezza di quest’ultima nel panorama più generale di antico regime. Il parassitismo, la trascuratezza, le frodi cui talvolta erano sottoposti quei beni venivano accentuati, giustificando le accuse rivolte ai loro proprietari. Sin dai primi secoli dell’età moderna la gestione della terra era vincolata dalla manomorta. In pratica la Chiesa amministrava il suo patrimonio con gli stessi criteri generali cui si uniformava la grande possidenza di estrazione laica. Queste ricchezze consentiva alla Chiesa di svolgere compiti più strettamente collegati con la sua missione spirituale ed evangelica. Mentre i ceti socialmente ed economicamente più poveri, abituati a trarre minimi vantaggi dalle emarginazioni caritative offerte dalle organizzazione ecclesiastiche, non erano stimolati ad impegnarsi nelle attività lavorative o a dedicarsi più operosamente alla propria sussistenza. Se la Chiesa non è l’unica istituzione negativa dell’economia moderna è importante anche valutare l’incidenza della manomorta all’interno di quel sistema. Si riteneva che la Chiesa possedesse i due terzi della ricchezza del Regno. Tale valutazione era stata avanzata da Costatino Grimaldi il quale nelle Considerazioni teologiche – politiche affermava la discussione in tali termini quantitativi. Quelle donazioni penalizzavano u ceti meno privilegiati : sottraendo loro ricchezza e riducendo la loro base imponibile che , invece, veniva gravata di un maggiore carico tributario. All’impoverimento degli uni e all’arricchimento degli ecclesiastici facevano riscontro le esigenze fiscali dello Stato che, per i privilegi e le esenzioni di cui godeva la Chiesa, si traduceva in maggiore oneri per gli strati più indifesi della società di antico regime. Il concetto di patrimonio rinvia a tutte le voci che concorrono a costituire la disponibilità economica della Chiesa. Tra la nozione di rendite che può rinviare a quella di patrimonio , e quella di proprietà fondiaria esistono differenze di ordine tassonomico. Le rendite ( cioè l’ammontare dei redditi che si ricavano o meno da tutto il patrimonio è formato da svariati cespiti più o meno redditizi e non ) e altra cosa è invece prendere in considerazione soltanto la proprietà fondiaria che costituisce una parte del patrimonio e concorre a formare la rendita totale di un qualsiasi detentore di ricchezze. [ L e “ inchieste” e altre fonti per l’analisi del patrimonio ecclesiastico] Riguardo all’ammontare dei beni della Chiesa meridionale in età moderna non ci sono fino a tutta la metà del Settecento fonti specifiche sull’argomento , in quanto quelle esistenti consentono ricostruzioni parziali e non offrono la possibilità di una comparazione né sul piano cronologico né su quello territoriale. I catasti onciari, comunque per la loro diffusione su tutto o quasi il regno di Napoli, consentono un altro tipo di indagini a largo raggio. Questo utilizzando le “ collettive generali delle once” che concludono la stesura di quel censimento fiscale, ovvero il cosiddetto onciario vero e proprio. Esse riportano alcuni dati sintetici offrendo cosi opportunità di approfondimenti e verifiche di ordine generale sulla distribuzione del reddito imponibile tra le singole “ categorie fiscali” censite in quel registro. In tal modo si possono valutare i redditi accatastati sia per gli enti ecclesiastici (secolari e regolari) sia per i religiosi secolari. Si tratta della somma questo della somma dei redditi derivanti da tutti i cespiti in possesso di quest’ultimi e non soltanto dei proventi fondiari o dell’estensione della terra. La presenza di stime dello stesso genere per le altre categorie di contribuenti consente di valutare l’ammontare delle ricchezze della Chiesa in rapporto alle altre componenti della società settecentesca fornendo un contributo intorno alla vexata quaestio sulla quantificazione dei beni di manomorta. Un’altra fonte di documentazione è quella prodotta dall’istituzione della Cassa Sacra in Calabria dopo il terremoto del 1783, o quella delle carte d’archivio pervenute in seguito ai provvedimenti di soppressione degli ordini religiosi promossi nel decennio francese e nel periodo postunitario. [ Qualche esemplificazione sull’articolazione del patrimonio ecclesiastico del Seicento] I beni che erano nelle mani della Chiesa erano di diversa tipologia e consistenza. La tendenza ad acquistare la proprietà fondiaria non sempre costituiva la forma di investimento prevalente delle strategie economiche. Nel corso del Seicento la collocazione in entrate di debito pubblico era largamente preferita dalla maggior parte dei monasteri femminili. Nel Sei-Settecento era largamente diffuso la preferenza per l’acquisto di quote di debito pubblico. Nei decenni successivi invece, nonostante qualche leggera flessione, gli alti tassi d’interesse assicurati dai capitali monetari continuano ad arricchire i monasteri femminili assicurando quote superiori. L’incidenza dei redditi prodotti dai censi e dai titoli di debito pubblico è più marcata soprattutto nei monasteri cittadini. A questa collocazione dei capitali liquidi si uniformano anche diversi ordini maschili della capitale e delle province che , in questo modo, ricavano quote apprezzabili di reddito. Le entrate che assicurano il sostentamento alle maggiori congregazioni religiose nel Mezzogiorno non derivano soltanto dagli impieghi delle risorse di cui essi dispongono. A tale proposito vanno considerate anche quelle forme di approvvigionamento non risultanti dagli impieghi di capitali. A metà Seicento secondo l’analisi dei redditi di alcuni congregazioni religiose dimostra un’articolazione delle risorse. Infatti solo in Sicilia i redditi mobiliari, pur essendo prevalenti, non raggiungono le percentuali delle altre province religiose, a causa dell’importanza assunta dal reddito rurale. Risultati analoghi possono ripetersi per gli agostiniani scalzi, i quali confermano la prevalenza degli introiti di tipo mobiliare. A differenza dei somaschi e dei teatini, gli agostiniani scalzi fanno registrare in tutta l’Italia una netta prevalenza dei redditi rurali rispetto a quelli ricavati dagli immobili urbani. Un attenta lettura della fonte permette di accertare anche che i censi e il reddito derivante dai titoli del debito pubblico hanno una scarsa incidenza sul totale delle entrate attestato nei bilanci. A prevalere sono gli introiti provenienti dalle elemosine, che nel caso dei teatini, costituivano la quota più consistente dei redditi mobiliari. Un ruolo più marginale e territorialmente differenziato giocano i prestiti concessi mediante il sistema dei censi bollari. Essi infatti incidevano sul totale delle entrate mobiliari con quote di appena 3.54 per cento. In Puglia le attività fondiarie dei teatini si configurano alquanto consistenti, come dimostrano i padri della casa di Lecce o quelli dei conventi di Barletta e di Foggia. Più importanti sono i beni fondiari dei teatini in Sicilia dove essi possiedono estesi appezzamenti e possono considerarsi “tra i grandi proprietari” con però rilevanti “ problemi di gestione e manutenzione ma anche grossi guadagni procurati dai prodotti della terra “. Ciò accade principalmente nelle zone in cui l’agricoltura svolge un ruolo economicamente determinate con colture che sono legate al mercato di esportazione.