CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA Ufficio Liturgico Nazionale Corso di Perfezionamento Liturgico Musicale 2017 - 2019 Liturgia, Chiesa e partecipazione attiva (anche con il canto e la musica) Elaborato scritto dell’Area Liturgia candidato: Giuseppe Verardo Premesse e pregiudizi Personalmente non ho mai avuto modo di partecipare ad una celebrazione eucaristica secondo la forma straordinaria del rito romano. Non mi è mai capitato, né fino ad ora ho sentito il bisogno di trovare il modo di farlo, nemmeno cercando video in rete, cosa che oggigiorno è molto facile fare. Ciò che per tanti è “la Messa di sempre”, per me è “la Messa di mai”, poiché per via della mia relativamente giovane età, da quanto io possa ricordare, la celebrazione eucaristica si era già assestata in quella che oggi so definire come “forma ordinaria del rito romano”, superando il periodo di “rodaggio” immediatamente successivo all’entrata in vigore della riforma liturgica. Ho scoperto che prima della “mia” Messa ce n’era stata un’altra solo attraverso i racconti dei miei genitori e soprattutto dei miei nonni; poi, crescendo, ho saputo che il passaggio dall’una all’altra Messa era stato dovuto al Concilio Vaticano II, che aveva apportato delle modifiche al modo di celebrare. Quello che ricordo dai racconti dei miei parenti, e che è rimasto radicato nel loro linguaggio, erano soprattutto alcuni verbi che descrivevano il loro atteggiamento nei confronti della celebrazione eucaristica: “sentire” o “vedere” la Messa. Questo delinea una loro evidente sensazione di passività rispetto al rito celebrato, come se questo fosse staccato e distante da loro. Forse sapevano anche rispondere al sacerdote in latino, ma in maniera automatica, senza comprendere il significato di quello che pronunciavano (e soprattutto che ascoltavano). La stessa idea di distanza, di separazione mi è stata data studiando in seguito la storia della musica sacra, in particolare nei riti cattolici, fino a prima della riforma liturgica. Probabilmente i partecipanti alle celebrazioni (ovviamente non in tutte le celebrazioni e non in tutti i luoghi, ma solo nelle celebrazioni e nei luoghi più importanti) potevano godere dell’esecuzione di musica di qualità, magari eseguita da professionisti, che poteva elevare lo spirito alle cose divine; ma era in agguato il rischio che tutto questo si riducesse ad una mera esecuzione musicale non molto lontana da un concerto. Non so se sbaglio, ma io immagino una scena simile: il clero e i ministri da una parte, intenti a celebrare; i musicisti dall’altra, impegnati nell’esecuzione scrupolosa del repertorio scelto; e in mezzo... i membri del popolo di Dio, che nel migliore dei casi pregano per conto proprio, pieni di zelo, devozione e sacro timore (il “terror divino” di manzoniana memoria), oppure con un piede sulla porta che sbuffano, in attesa che termini la Messa “di precetto”. Il vivere la celebrazione come uno spettacolo, soprattutto nei giorni di festa, impediva, a mio parere, a quei partecipanti privi di una alfabetizzazione e di una conoscenza teologica e liturgica di base, di recepire pienamente i numerosi messaggi inviati loro attraverso gli altrettanto numerosi canali e codici comunicativi utilizzati dalla liturgia stessa. È vero che per secoli le opere d’arte hanno avuto la funzione di “Biblia pauperum”, ma questo non bastava a far cogliere a pieno i frutti della celebrazione. Con questo non voglio dire che oggi si siano risolti tutti i problemi, ma credo che siano stati fatti diversi passi avanti! Il lungo cammino verso la riforma liturgica I primi segnali di ciò che avrebbe portato alla riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II si intravedono già nei secoli precedenti. Pensiamo, ad esempio, al pensiero del beato Antonio Rosmini, che nel suo libro “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa” ritiene necessario annoverare al primo posto tra queste la divisione esistente tra il clero e il popolo nelle celebrazioni, portando come buon esempio la Chiesa degli albori: “[…] Questo culto […] non fu solamente uno spettacolo presentato agli occhi del popolo, dove il popolo non intervenisse che per vedere ciò che si faceva, e non entrasse egli stesso parte e attore in questa religiosa scena di culto. […] Iddio […] volle che il popolo stesso nel tempio fosse gran parte del culto; e ora sopra il popolo si esercitassero delle azioni, come avviene quando si applicano a lui i Sacramenti e le benedizioni ecclesiastiche; ora l’istesso popolo unito d’intelligenza non meno che di volontà e di azione col Clero, operasse con esso il Clero, siccome in tutte le 1 preghiere dove il popolo stesso prega, dove risponde ai saluti o agl’inviti de’ sacerdoti, dove rende la pace ricevuta, dove offerisce, e dove interviene fino qual ministro di Sacramento, come nel Matrimonio.”1 Tra le cause di questo distacco Rosmini individua innanzitutto la modalità di trasmissione delle verità della fede, che avveniva principalmente non diffondendo “la verità tutta intera e soda”2, ma attraverso le riduzioni, le semplificazioni, le formule preconfezionate da imparare a memoria offerte dai vari catechismi: “[…] Non è vero che un istitutore che recita ciò ch’egli medesimo non intende, per quanto scrupoloso sia a ripetere verbalmente quanto ebbe altronde ricevuto, fa sentire d’avere il gelo su le labbra, e sparge brine anziché caldi raggi tra’ suoi uditori?”3 Non bisogna però pensare che Rosmini imputasse all’utilizzo nei riti del latino anziché del volgare la mancata intellegibilità dei testi, anzi: egli attribuisce questa colpa alle invasioni barbariche, in quanto distruttrici dell’unità anche linguistica, attraverso il latino, che aveva l’ex impero romano, portando col tempo ad una incapacità di comprendere tale lingua, l’unica allora utilizzabile nei riti. Il problema della partecipazione del popolo alla liturgia viene avvertito da un numero sempre crescente di persone tra il XIX e il XX secolo. Sono numerose in questi anni le iniziative del cosiddetto “Movimento liturgico”, che mira a rinnovare l’interesse per la liturgia celebrata e vissuta. In Italia fioriscono numerose iniziative locali di vario genere, soprattutto di carattere pastorale, come le varie manifestazioni e pubblicazioni tese a favorire la partecipazione dei fedeli alla Messa, attraverso una formazione liturgica realizzata sia attraverso apposite catechesi, sia con la produzione di foglietti, sussidi e altro materiale a stampa. Tra i nomi importanti del Movimento liturgico non possiamo non citare Romano Guardini: “Fare un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un’opera d'arte, questo costituisce il nucleo più intimo della liturgia. Di qui la sublime combinazione di profonda serietà e di letizia divina che in essa percepiamo. E solo chi sa prendere sul serio l’arte ed il gioco può comprendere perché con tanta severità ed accuratezza la liturgia stabilisca in una moltitudine di prescrizioni come debbano essere le parole, i movimenti, i colori, le vesti, gli oggetti di culto.”4 Nel 1947, in occasione di un convegno liturgico, viene fondato a Parma il “Centro di Azione Liturgica”, un’associazione pubblica di fedeli, cultori della liturgia e operatori pastorali, le cui finalità, ancora oggi, sono l’animazione liturgica delle comunità cristiane e la diffusione e promozione delle linee di pastorale liturgica proposte dalla Conferenza Episcopale Italiana, attraverso: a) b) c) d) corsi di formazione e qualificazione per operatori e animatori nel settore liturgico; organizzazione di settimane e convegni liturgici nazionali, regionali e diocesani; sussidi di studio e di divulgazione; promozione di un movimento di “amici della liturgia”.5 Le varie iniziative messe in campo avevano quindi lo scopo di riavvicinare il popolo alla liturgia, facendola percepire non più come un freddo susseguirsi di parole e gesti regolati da una serie di rubriche, ma come un elemento fondamentale del vivere quotidiano, conciliando il culto ufficiale con la pietà popolare e la devozione, e favorendo così una vita cristiana più autentica. La preoccupazione per la liturgia non fu solo dei laici o di pochi “addetti ai lavori”, ma fu avvertita anche dalle gerarchie della Chiesa. Penso, per esempio, a Pio X, che con il motu proprio “Tra le sollecitudini” fa proprie alcune idee del Movimento liturgico: 1 A. Rosmini, “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa”, n. 14 A. Rosmini, “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa”, n. 17 3 A. Rosmini, “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa”, n. 17 4 R. Guardini, “Liturgia come gioco” 5 Statuto del CAL 2 2 “Essendo, infatti, Nostro vivissimo desiderio che il vero spirito cristiano rifiorisca per ogni modo e si mantenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere prima di ogni altra cosa alla santità e dignità del tempio, dove appunto i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa.”6 In questo testo fa la sua comparsa l’espressione “partecipazione attiva”, che sarà ripreso molto spesso nei successivi documenti del magistero. E sebbene, come ben sappiamo, l’argomento principale del motu proprio sia la musica sacra, non si può non cogliere comunque al suo interno un rinnovato interesse per la liturgia e il suo valore nella vita cristiana. Arriviamo poi al 20 novembre 1947, quando Pio XII dedica un’intera enciclica, la “Mediator Dei”, alla liturgia. La natura ecclesiale della liturgia viene messa sin da subito in risalto: “Fu, inoltre, messo più chiaramente in evidenza il fatto che tutti i fedeli costituiscono un solo, compattissimo corpo, di cui Cristo è il capo, dal che ne viene il dovere per il popolo cristiano di partecipare secondo la propria condizione ai riti liturgici.”7 Inoltre, viene dedicato molto spazio al tema della partecipazione dei fedeli: “È necessario dunque, Venerabili Fratelli, che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote, come dice l’Apostolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui».”8 Viene infine chiarito che l’offerta viene fatta dal sacerdote unitamente a tutti i fedeli, seppure in modi diversi, come diverso è il rispettivo sacerdozio (ministeriale il primo, battesimale il secondo); questo viene anche dimostrato, per esempio, citando alcune preghiere che vengono dette dal sacerdote ma a nome di tutti, utilizzando la prima persona plurale. È da notare che Pio XII, pur lodando il fiorire degli studi riguardo la liturgia (non solo quella latina), mette comunque in guardia dalle sperimentazioni liturgiche non autorizzate o dalle pretese di interpretazione autentica della liturgia, che possono portare a pericolose devianze rispetto alla dottrina e al magistero della Madre Chiesa. Sempre questo Pontefice aveva istituito nel 1946 una commissione (detta “Pïana”) per la riforma generale della liturgia, che inizia i suoi lavori nel 1948 e confluisce poi nella commissione preparatoria sulla liturgia del Concilio Vaticano II. Il Concilio Vaticano II e “Sacrosanctum Concilium” Il 28 ottobre 1958 viene eletto papa Angelo Giuseppe Roncalli, che prende il nome di Giovanni XXIII. Sebbene in molti pensavano che dovesse essere un pontefice “di transizione”, sappiamo come sono poi andate le cose; tra le numerose iniziative da lui intraprese, fondamentale è stata l’indizione di un concilio ecumenico, nonostante l’opposizione dei conservatori. Il Concilio Vaticano II (successivo al Concilio Vaticano I, avviato nel 1868 ma interrotto nel 1870 a causa della guerra franco-prussiana e formalmente chiuso da Giovanni XXIII nel 1960) viene annunciato ufficialmente dal pontefice il 25 gennaio 1959, a pochi mesi dalla sua elezione al soglio di Pietro, e viene successivamente indetto nella costituzione apostolica “Humanae salutis” del 25 dicembre 1961. Lo scopo della sua indizione viene subito manifestato: “immettere l’energia perenne, vivificante, divina del Vangelo 6 Pio X, “Tra le sollecitudini” Pio XII, “Mediator Dei” 8 Pio XII, “Mediator Dei” 7 3 nelle vene di quella che è oggi la comunità umana” (HS 3), facendo in modo che “la Chiesa si dimostri sempre più idonea a risolvere i problemi degli uomini contemporanei” (HS 6). In altre parole, l’intenzione è quella di “aggiornare” l’istituzione Chiesa rispetto al mutare dei tempi, dimostrando la sua “perpetua giovinezza” (HS 7) e facendo sentire la sua presenza viva ed attuale sia a coloro che, illusi dal progresso e dalla tecnologia, credono di trovare in essi tutto ciò di cui hanno bisogno, ma anche per soccorrere i propri figli travagliati dalle guerre. Tra gli argomenti da trattare, trovano posto anche “i sacramenti e le preghiere della Chiesa” (HS 10), ossia la liturgia. Il Concilio Vaticano II si apre l’11 ottobre 1962 e termina l’8 dicembre 1965; la prima sessione ha inizio sotto il pontificato di Giovanni XXIII, ma la sua morte il 3 giugno 1963 ne ferma i lavori. Le successive sessioni saranno convocate e presiedute dal suo successore, Paolo VI, che porterà a termine il sogno del suo predecessore. Tra i numerosi documenti prodotti dal Concilio, la costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium” sulla liturgia è senza dubbio il più noto, proprio a causa delle conseguenze pratiche che ha comportato nella vita quotidiana dei fedeli e non solo degli “addetti ai lavori”. Anche in virtù della sua lunga ed accurata preparazione, questa costituzione è stata approvata con una larghissima maggioranza dai padri conciliari: 2147 voti favorevoli, 4 contrari e 1 voto nullo; viene promulgata il 4 dicembre 1963. Così come questo documento definisce la liturgia “culmine e fonte” (SC 10), si potrebbe dire che esso stesso rappresenta il culmine, l’apice, il coronamento dei fermenti riguardanti la liturgia, ma anche la fonte, l’origine, l’impulso che ha portato poi alla realizzazione pratica della riforma liturgica. Nel capitolo I, partendo dal concetto che la Chiesa, costituita dal popolo di Dio, è essa stessa segno, “sacramento di unità” (SC 26) scaturito “dal costato di Cristo dormiente sulla croce” (SC 5) , viene da subito posto l’accento sul fatto che l’invito rivolto da Cristo agli apostoli non doveva limitarsi all’annuncio del Vangelo, ma riguardava anche l’offerta del sacrificio e dei sacramenti (SC 6). In questo compito mirabile, la Chiesa non è sola, poiché Cristo è sempre presente, soprattutto nelle azioni liturgiche, seppur in diverse forme, portando così alla glorificazione di Dio e alla santificazione degli uomini (SC 7). Il termine “liturgia” deriva dalla parola greca “leitourghia”, che a sua volta deriva dalla composizione di “laos” (popolo) e di “ergon” (opera). Tradotto letteralmente “leitourghia” significa quindi “servizio reso al popolo” o “servizio direttamente prestato per il bene comune”. La liturgia terrestre è un’anticipazione della liturgia celeste, verso la quale noi tendiamo come pellegrini (SC 8). Pur non esaurendo tutta l’azione della Chiesa (SC 9), la liturgia costituisce comunque “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (SC 10). Pertanto è necessario che i fedeli vi si accostino con una “retta disposizione d’animo”, affinché possano prendervi parte “in modo consapevole, attivo e fruttuoso” (SC 11). Al fine di raggiungere questa consapevolezza, è necessaria una vera e propria formazione liturgica, dapprima del clero e di conseguenza del popolo cristiano, che ne ha “diritto e dovere” in virtù del battesimo (SC 14÷19). Inoltre, per fare in modo che un numero sempre maggiore di fedeli possa ottenere “le grazie abbondanti che la sacra liturgia racchiude”, la Chiesa desidera adattare quelle parti della liturgia che, contrariamente a quelle “di istituzione divina”, possono essere modificate, eliminando elementi inadatti o non più idonei e facendo in modo che “le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria” (SC 21). Poiché “le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa” (SC 26), è necessario che le modifiche alla liturgia siano apportate solo dalla gerarchia della Chiesa stessa (SC 22), non senza “un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale”, coniugando “sana tradizione e legittimo progresso” (SC 23). Viene sottolineata la fondamentale importanza della sacra Scrittura, per cui è necessario offrirla in maniera più abbondante (SC 35 e SC 51) per farne provare, grazie anche all’utilizzo delle lingue nazionali (SC 36 e SC 54), “quel gusto saporoso e vivo” (SC 24). 4 Il carattere ecclesiale delle celebrazioni liturgiche viene messo in risalto anche richiedendo una maggiore priorità alla celebrazione comunitaria dei riti, secondo la natura di ciascuno (SC 27). Nella totalità dell’assemblea celebrante, si richiede che “ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza” (SC 28). Viene inoltre evidenziata e valorizzata la molteplicità di ruoli e ministeri presenti nelle celebrazioni, dove ciascuno svolge il proprio “munus”, ossia “compito ministeriale” (SC 29). La partecipazione attiva dell’assemblea viene tenuta in grande considerazione e promossa anche attraverso delle indicazioni pratiche, come la raccomandazione affinché essa possa attuarsi attraverso “le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo”; si noti che tra le modalità operative che realizzano la partecipazione attiva viene annoverato anche il “sacro silenzio” (SC 30). La liturgia ha una grande funzione pedagogica: “Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il suo Vangelo; il popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la preghiera”. Quindi nell’attuazione della riforma liturgica si auspica, utilizzando un apparente ossimoro, che “i riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 31). Pertanto, quando vediamo nelle nostre celebrazioni segni fantasiosi e arbitrari che per essere compresi hanno necessità di un prolisso commentatore-cronista, questo è segno che siamo lontani da quell’auspicio. Così come avviene per l’adozione delle lingue nazionali, la Chiesa si rende disponibile, ferme restando le verità della fede e il bene comune generale, ad accogliere nei suoi riti alcune caratteristiche proprie del costume delle varie razze e dei vari popoli (leggasi “inculturazione”), a patto che queste caratteristiche si armonizzino con la liturgia stessa. Pertanto demanda alla competente autorità ecclesiastica territoriale determinare gli opportuni adattamenti, facendo comunque salva la sostanziale unità del rito romano (SC 37÷40). Il vescovo, pastore della Chiesa locale, è il “grande sacerdote del suo gregge”; pertanto i riti da lui celebrati insieme al suo clero ed al suo popolo, specialmente nella chiesa cattedrale, devono essere di esempio per l’intera comunità diocesana (SC 41). Poiché, però, il vescovo non può celebrare sempre e ovunque in mezzo al suo gregge, nelle singole parrocchie, soprattutto nella Messa domenicale, si coltivi il senso della comunità parrocchiale, rappresentazione viva della “Chiesa visibile stabilita su tutta la terra” (SC 42). Al fine di dirigere l’attività pastorale liturgica sul territorio, è necessaria l’istituzione di commissioni liturgiche, composte da esperti in liturgia, in musica e arte sacra e in pastorale, anche laici (SC 44). A livello diocesano, dovranno parimenti costituirsi delle commissioni di sacra liturgia, come anche di musica sacra e arte sacra (SC 45÷46). Nel capitolo II possiamo trovare la parte riguardante il mistero eucaristico, partendo dall’istituzione del sacrificio eucaristico e dall’affidamento di Cristo alla Chiesa del compito di perpetuare il suo memoriale (SC 47). Poiché tutta la Chiesa deve attuare questo compito, è necessario che “i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede”, ma che partecipino “consapevolmente, piamente e attivamente” all’azione sacra, comprendendo questo mistero di fede “per ritus et preces”, ossia “nei suoi riti e nelle sue preghiere” (SC 48). Si richiede una maggiore chiarezza delle singole parti dei riti della Messa e la loro reciproca connessione, in modo che esse siano più comprensibili e favoriscano così “la partecipazione pia e attiva dei fedeli” (SC 50); questo obiettivo deve essere raggiunto attraverso l’eliminazione di quelle parti che col passare del tempo si sono via via aggiunte, ma che non hanno portato grandi vantaggi, oppure ripristinando quelle parti ereditate dalla tradizione dei Padri e che col tempo sono andate perdute. Viene auspicata una maggiore presenza della Parola di Dio, in modo che in un determinato numero di anni (realizzati poi con il ciclo triennale festivo e quello biennale feriale) venga letta la quasi totalità della Bibbia (SC 51). Viene inoltre ripristinata la “preghiera dei fedeli” o “orazione comune”, sempre per favorire la partecipazione dei fedeli (SC 53). 5 Per quanto riguarda il capitolo III, dedicato agli altri sacramenti e ai sacramentali, viene sottolineata l’importanza degli stessi in quanto “sacramenti della fede”, perché oltre ad esprimerla, essi stessi la nutrono. Per questo motivo “è necessario che i fedeli comprendano facilmente i segni dei sacramenti” (SC 59), attraverso la semplificazione e l’adattamento dei vari riti. Il capitolo IV è dedicato all’ufficio divino, attraverso il quale la Chiesa esercita la funzione sacerdotale di Cristo e santifica con la preghiera le varie ore del giorno e della notte (SC 83-84). Questa preghiera non è solo un obbligo, ma un onore, in quanto permette a coloro che la compiono di porsi “davanti al trono di Dio in nome della madre Chiesa” (SC 85), da cui l’ecclesialità di questa preghiera. In particolare, affinché questa preghiera sia coerente, si raccomanda che “le diverse ore, per quanto è possibile, corrispondano al loro vero tempo” (SC 88). Anche in questo caso viene rimarcata l’importanza della Parola, richiedendo che le venga dedicato uno spazio più ampio, sia per i Salmi che per le altre letture (SC 91-92). Sempre per favorire una maggiore partecipazione dei fedeli, viene raccomandata la celebrazione comunitaria dell’ufficio divino, soprattutto delle ore principali (come ad esempio i vespri), sia all’interno delle comunità che nelle parrocchie (SC 99-100). Nel capitolo V viene esaminato l’anno liturgico, attraverso il quale la Chiesa ripropone ai suoi fedeli i misteri della redenzione che hanno realizzato l’opera salvifica di Cristo, sia attraverso la celebrazione della domenica, Pasqua della settimana, che attraverso il ciclo annuale scandito dai cosiddetti “tempi forti”, dalle feste del Signore, dalle feste mariane e dal ricordo dei martiri e dei santi. Giungiamo infine al capitolo VI, interamente dedicato alla musica sacra, il cui scopo è “la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli” (SC 112), il che richiama lo scopo, l’effetto della liturgia stessa (SC 10). In particolare, il canto sacro viene definito “parte necessaria ed integrale della liturgia solenne” (SC 112), quindi non più un semplice ornamento giustapposto arbitrariamente ai riti, ma un qualcosa che ha un “munus” ministeriale non meno importante di altri elementi (SC 29). Anche in questo caso, tra le prime parole troviamo nuovamente la “partecipazione attiva del popolo” (SC 113), raccomandando ai vescovi e agli altri pastori che “in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente” (SC 114). Sottolineando l’importanza del canto gregoriano, “canto proprio della liturgia romana” (SC 116), si comprende comunque il fatto che non tutte le comunità abbiano persone in grado di cantare dignitosamente queste meravigliose ma non facili melodie; pertanto viene auspicata “un’edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese più piccole” (SC 117), che possa favorire l’intervento dell’assemblea. Sempre a tale scopo, non viene disdegnato il canto religioso popolare, non solo nei pii esercizi ma anche nelle azioni liturgiche stesse, affinché “possano risuonare le voci dei fedeli” (SC 118). Viene raccomandato, soprattutto nelle missioni, di tenere in grande considerazione il compito della musica tradizionale nella vita religiosa e sociale di un determinato popolo, accogliendone le espressioni nei riti, quando parrà opportuno (SC 119). Infine si sottolinea il fatto che anche la musica strumentale può elevare gli animi a Dio e dare solennità ai riti celebrati; pertanto “nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne”, ma ciò non toglie che anche altri strumenti possano essere adatti alle celebrazioni (SC 120). L’istruzione “Musicam Sacram” Il 5 marzo 1967, dopo una “gravidanza” travagliata, vede finalmente la luce l’istruzione “Musicam Sacram”, che ha lo scopo di recepire gli orientamenti contenuti nella “Sacrosanctum Concilium” dando delle indicazioni concrete sulla loro realizzazione nelle celebrazioni (MS 3). Nel I capitolo vengono date alcune norme generali. Sin dai primi numeri viene messa in evidenza l’importanza della partecipazione dei fedeli attraverso il canto, attraverso il quale “l’unità dei cuori è resa più profonda dall’unità delle voci”, gli animi si elevano, la preghiera diventa più gioiosa e si avvicina alla 6 liturgia celeste; questo avviene anche attraverso un’opportuna “distribuzione degli uffici e delle parti” e avendo cura che ci siano “i ministri necessari e idonei” (MS 5-6), preparando con cura ogni celebrazione. Viene introdotto il principio della “solennizzazione progressiva”: non tutto ciò che è previsto che sia fatto in canto deve essere sempre cantato, ma si può dosare la maggiore o minore presenza di interventi in canto all’interno di una celebrazione, dando priorità innanzitutto “[a] quelle [parti] spettanti al sacerdote e ai ministri, cui deve rispondere il popolo, o che devono essere cantate dal sacerdote insieme con il popolo”, aggiungendo poi quelle riservate ai soli fedeli o alla sola “schola cantorum” (MS 7), coerentemente con la solennità che si celebra e la tipologia di assemblea che celebra (MS 10). Nella scelta delle parti cantate, si raccomanda di valutare l’eseguibilità da parte delle “risorse” a disposizione (celebrante, solisti, strumentisti, “schola cantorum”, assemblea); ciò al fine di ottenere un’esecuzione dignitosa delle varie parti (MS 9). La solennità non dipende dalla quantità o dalla qualità del canto o di altre componenti, ma dall’armonioso e pertinente contributo che queste possono dare rispetto al rito celebrato (MS 11 - SC 112). Il capitolo II è dedicato ai partecipanti alle celebrazioni liturgiche. Si rimarca il concetto che a celebrare è l’intero “popolo santo radunato e ordinato”, presieduto dal vescovo o dal sacerdote. Questi ultimi, in quanto ministri ordinati, hanno un posto particolare, ma lo hanno anche gli altri ministri in virtù del compito che svolgono (MS 13). La partecipazione dei fedeli deve essere “piena, consapevole e attiva”, e al contempo essere interna (conformando la mente a ciò che si ascolta o si dice) ed esterna (gesti, parole, canto). Anche ascoltare la “schola” o i ministri è partecipazione! (MS 15) Ancora una volta si loda la partecipazione dell’intera assemblea con il canto, non intendendo con questo far cantare tutto a tutti, ma dando delle priorità, spronando chi di dovere alla preparazione canora dell’assemblea ed evitando di escluderla completamente dal canto (MS 16 e MS 18). Come in “Sacrosanctum Concilium”, anche qui il silenzio è un modo di realizzare la partecipazione attiva, e non per ridurre i partecipanti ad “estranei e muti spettatori” (MS 17). Contrariamente a chi vede un coro come contrapposto al canto dell’assemblea, questo documento ne chiarisce l’importante ruolo: “curare l’esecuzione esatta delle parti sue proprie, secondo i vari generi di canto, e favorire la partecipazione attiva dei fedeli nel canto” (MS 19); ne auspica l’istituzione e la promozione sia nelle cattedrali come anche nelle chiese minori, sempre avendo cura che una “schola”, per quanto prestigiosa, non escluda la partecipazione dei fedeli privandoli del canto delle parti a loro spettanti (MS 19-20). Ne viene anche chiarita la funzione di parte dell’assemblea che svolge un ministero specifico, indicandone una opportuna collocazione, anche al fine di permettere ai suoi componenti una partecipazione anche sacramentale alla Messa (MS 23). Si raccomanda anche un’adeguata preparazione non solo musicale ma anche spirituale, affinché tutti possano meglio cogliere i frutti del loro ministero (SC 24-25). Sempre a beneficio dell’assemblea troviamo la figura del “cantore”, non inteso come semplice cantante o solista, ma come quello che oggi chiamiamo “guida del canto dell’assemblea” (MS 21). Nel capitolo III, dedicato al canto nella celebrazione della Messa, troviamo qualche incongruenza con quanto è poi effettivamente stato stabilito nel Messale, come la distinzione tra Messa solenne, Messa cantata e Messa letta (MS 28). Vengono suggeriti anche dei “gradi di partecipazione” (MS 29-31), che però all’epoca non potevano tenere conto delle modifiche poi subentrate nel rito. Viene posta l’attenzione sui testi utilizzati per i canti del “proprio”, nel caso in cui differiscano da quelli riportati nel Graduale, richiedendone l’approvazione da parte delle gerarchie ecclesiastiche e avendo cura che gli stessi canti favoriscano una seppur minima partecipazione dell’assemblea (MS 32-33). Tra i canti del “proprio”, viene enfatizzato il salmo responsoriale, richiedendo esplicitamente che sia eseguito, per quanto possibile, con la partecipazione (col canto) dell’assemblea. L’istruzione non censura le parti dell’ordinario polifoniche, a patto che queste composizioni non escludano completamente l’assemblea, soprattutto in canti come il Credo, il Sanctus e l’Agnus Dei (MS 34). Il Padre nostro deve essere cantato da tutti insieme al sacerdote (MS 35). 7 Il capitolo IV, dedicato al canto dell’ufficio divino, recepisce e conferma in sostanza le indicazioni date da “Sacrosanctum Concilium”. Il capitolo V riguarda la musica nella celebrazione di sacramenti e sacramentali e in altri tipi di celebrazioni; viene messo nuovamente in risalto l’aspetto “ecclesiale” del cantare insieme (MS 42). Il canto e la musica sono lodati come segni di solennità in particolari celebrazioni, ma al contempo si mette in guardia dall’introduzione di elementi profani o sconvenienti nei riti, soprattutto nei matrimoni (MS 43). È il caso di dire “la musica non è cambiata”! Il capitolo VI tratta della lingua da utilizzare nelle celebrazioni liturgiche in canto, citando i relativi numeri di “Sacrosanctum Concilium” e demandando anche qui tali scelte all’autorità ecclesiastica territoriale. Chiede, però, che si faccia in modo che i fedeli “sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti che loro spettano dell’Ordinario della Messa” (MS 47 - SC 33). Come in SC 116, al canto gregoriano viene dato il primo posto, a parità di condizioni, ma premettendo l’espressione “Nelle azioni liturgiche in canto celebrate in lingua latina” (MS 50), lasciando comunque possibile l’esecuzione di parti cantate in lingua latina anche nelle celebrazioni in lingua volgare (MS 51). Anche le nuove composizioni devono rispondere ai principi espressi dalle norme, permettendo l’esecuzione da parte di “scholae” maggiori e minori, non senza favorire la partecipazione attiva di tutta l’assemblea. Il repertorio tradizionale deve essere attentamente vagliato per verificarne la “pertinenza rituale”, ossia la rispondenza alle esigenze della liturgia; in caso contrario, questi canti possono essere utilizzati nei pii esercizi o nelle liturgie della Parola (MS 53). Il capitolo VII si preoccupa della creazione (o dell’adattamento) delle melodie da utilizzare per i testi in lingua volgare, suggerendo che le melodie gregoriane possano fungere da punto di partenza e di riferimento per le rispettive parti in lingua nazionale (MS 56); viene raccomandato che per ogni lingua esistano una o più melodie comuni per il celebrante e le risposte dell’assemblea, al fine di favorirne la partecipazione col canto (MS 58). I compositori devono far proprio l’impegno di incanalarsi nella tradizione musicale della Chiesa, tenendo comunque conto delle nuove regole e delle nuove esigenze della liturgia rinnovata (MS 59), evitando di utilizzare i luoghi sacri ed i riti come campo per sperimentazioni (MS 60). Di fondamentale importanza appare poi l’inculturazione, ossia il sapiente connubio tra il senso del sacro e la cultura di determinati popoli, soprattutto nelle missioni, evitando imposizioni arbitrarie (MS 61). Nel capitolo VIII viene analizzata la musica sacra strumentale, anche questa elemento importante nelle celebrazioni. In maniera forse un po’ troppo drastica, viene fatta una distinzione in base agli strumenti adatti o non adatti (MS 62-63), non tenendo conto che uno stesso strumento può essere usato in modi diversi, evocando suggestioni sacre o profane. Il sostegno degli strumenti può senza ombra di dubbio favorire la partecipazione, accompagnando sia il coro che l’assemblea, senza però mai prevalere sulle voci (MS 64); oltre che per l’accompagnamento, gli strumenti possono proporre in determinati momenti della musica sacra esclusivamente strumentale (MS 65), tranne in particolari casi o tempi liturgici (MS 66), proprio per dare un segnale anche sonoro di una situazione non ordinaria. Si raccomanda la perizia nell’uso degli strumenti, nonché una conoscenza della liturgia, al fine di rispettarne le parti e favorendo (ancora una volta) la partecipazione dei fedeli (MS 67). Gli ultimi numeri, poi, disciplinano la creazione e l’attività delle commissioni diocesane di musica sacra, raccomandando che anche a livello nazionale ci sia un ufficio apposito (MS 68-69). Un caso concreto: la celebrazione eucaristica Con la costituzione apostolica “Missale Romanum” del 3 aprile 1969, Paolo VI promulga il Messale Romano, che entra in vigore il 30 novembre dello stesso anno, prima domenica di Avvento del nuovo anno liturgico. A questa prima edizione ne seguiranno poi altre, ciascuna con le relative traduzioni nelle varie lingue nazionali. 8 Come tutti i libri liturgici, anche il Messale è preceduto dai “Praenotanda”, ossia le indicazioni generali che illustrano lo svolgimento e il significato dei riti, sia dal punto di vista liturgico che pastorale. In Italia oggi, pur essendo in attesa della terza edizione italiana del Messale, è già comunque in vigore la terza edizione dell’“Ordinamento Generale del Messale Romano” (OGMR), del 2000. La Chiesa fa suo l’invito rivolto da Cristo ai suoi discepoli di celebrare il memoriale del suo sacrificio (OGMR 1); pertanto, nonostante l’introduzione di alcune modifiche nei riti, essa mantiene immutata la sua fede ed il suo amore verso il grande mistero eucaristico, recependo le istanze promosse a partire da san Pio X, secondo la cosiddetta “ermeneutica della continuità” (OGMR 15). Viene ribadito il concetto che la celebrazione eucaristica è azione non dei soli ministri ordinati, ma di tutta la Chiesa, ossia del suo capo e del suo corpo gerarchicamente ordinato (OGMR 16), dove ciascuno, in funzione del suo posto e del suo ministero, “compie soltanto, ma integralmente, quello che gli compete” (OGMR 5). In tal modo sarà possibile cogliere a pieno i frutti di ciascuna celebrazione (OGMR 17), avendo cura di adattarne per quanto possibile gli elementi alla specifica assemblea che vi prende parte, portandola così ad una partecipazione “consapevole, attiva e piena, esteriore e interiore, ardente di fede, speranza e carità” (OGMR 18). Infatti, una scelta opportuna delle parti che la Chiesa propone può dare maggiore effetto ai segni sensibili presenti nella celebrazione (OGMR 20), che in quanto segni rimandano a significati più alti. Tutto ciò deve essere guidato dal vescovo, liturgo della Chiesa locale (OGMR 22). Un primo esempio concreto di come realizzare la partecipazione attiva viene indicato a proposito delle acclamazioni, dei dialoghi e delle risposte al sacerdote, che “non sono soltanto segni esteriori della celebrazione comunitaria, ma favoriscono e realizzano la comunione tra il sacerdote e il popolo” (OGMR 34-35). Oltre a queste, vengono indicate come spettanti all’intera assemblea anche altre parti, ossia “l’atto penitenziale, la professione di fede, la preghiera universale (detta anche preghiera dei fedeli) e la preghiera del Signore (cioè il Padre nostro)” (OGMR 36). Completano l’elenco altri interventi cantati (anche se non tutti destinati esclusivamente all’assemblea), distinguendo i canti-rito dai canti che accompagnano un rito (OGMR 37). Viene sottolineata l’importanza del canto nei riti, calibrando le scelte in base alle capacità dell’assemblea e alle diversità culturali (inculturazione), auspicando anche una “solennizzazione progressiva”, ossia una presenza più o meno importante di interventi in canto in base alla solennità della celebrazione (OGMR 40). In un mondo sempre più globale, dove le distanze si accorciano anche grazie ai mezzi di comunicazione di massa, si ritiene opportuno che i fedeli partecipanti ad una celebrazione, potendo provenire da diverse nazioni, “sappiano cantare insieme, in lingua latina, e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’ordinario della Messa” (OGMR 41). In conclusione, si raccomanda un’armoniosa composizione delle varie parti della celebrazione, facendo in modo che questa “risplenda per decoro e per nobile semplicità, che si colga il vero e pieno significato delle sue diverse parti e si favorisca la partecipazione di tutti” e che non sia solo frutto delle scelte personali di qualcuno (OGMR 42). Segue poi un’analisi dettagliata delle varie parti della Messa; in quelle che prevedono un intervento musicale, vengono specificate le modalità e gli “attori”. Queste indicazioni, con i relativi numeri dell’OGMR ed i riferimenti ai già citati “gradi di partecipazione” di MS 29-31 (opportunamente adattati), possono essere riassunte nella tavola seguente9: 9 D. Sabaino, “Animazione e regia musicale delle celebrazioni”, CLV - Edizioni Liturgiche Roma 9 Tavola sintetica10 Grado Canto Funzione 3 Canto d’inizio [introito] avviare la celebrazione, favorire l’unione, introdurre nel mistero celebrato, accompagnare la processione 1 Segno della croce Saluto manifestare il mistero della Chiesa radunata Dialogo + acclamazione, recitativo (mM) P/A 50 2 Atto penitenziale oppure riconoscersi bisognosi della misericordia di Dio litania quando 3ª formula C o S/A 51 Aspersione dell’acqua fare memoria del Battesimo (acclamazioni +) canto innico o strofico A, C o S/A Ministri antifona e salmo, A; C/A; S/A; innica, strofica S/C/A, C (con o senza rit.), tropario OGMR 47, 48 2 Kyrie acclamare il Signore e implorarne la misericordia acclamazionelitania C o S/A 52 2 Gloria glorificare e supplicare il Padre e l’Agnello innicaacclamatoria A; C/A; C 53 1 Colletta esprimere il carattere della celebrazione recitativo (mM) + acclamazione P/A 54 1 Acclamazione al termine della lettura onorare e accogliere con fede e con gratitudine la Parola dialogoacclamazione (mM) Lettore/A 59 1 Salmo responsoriale interiorizzare la Parola proclamata responsoriale a ritornello (salmodia diretta; ascoltata) Salmista/A 61 Sequenza quando prevista 10 Forma musicale esprimere liricamente il tema del giorno liturgico strofica (propria) A; Salmista (A; C/A; C) 64 accogliere e salutare il acclamazione Signore che sta per parlare; («se non si canta, manifestare la propria fede si può tralasciare») A/C o S 62-63 34-35 2 Acclamazione al Vangelo 1 Dialogo al Vangelo evidenziare il mistero della Chiesa radunata dialogo + acclamazione, recitativo (mM) D o P/A 3 Canto del Vangelo porgere “diversamente” un testo lirico recitativo (mM) DoP 1 Acclamazione al termine del Vangelo evidenziare il mistero della Chiesa radunata dialogoacclamazione (mM) D o P/A 34-35 Abbreviazioni in uso nella tavola: A: Assemblea, C: Coro; D: Diacono; mM: intervento musicale per il quale il Messale Romano italiano (1983) fornisce una melodia ufficiale; P: Presidente; S: Soli; /: in dialogo o in alternanza tra. 10 Grado Canto Funzione Forma musicale Ministri OGMR 2 Professione di fede esprimere il proprio assenso alla Parola, richiamare la regola della fede prima di celebrare l’Eucaristia recitativa A, anche divisa in 2 semicori; A/C 67-68 2 Preghiera universale S/A 69-71 3 Canto alla presentazione dei doni accompagnare la processione di presentazione dei doni innica, strofica, varia C; A/C (musica strumentale) 74 1 Dialogo al prefazio evidenziare il mistero della Chiesa radunata dialogoacclamazione (mM) P/A 34-35 1 Prefazio rendere liricamente grazie per/nel mistero celebrato recitativo (mM) P 79a 1 Santo acclamare Dio acclamazione Tutti 79b Racconto dell’istituzione dire la Parola di Dio diversamente dalla parola umana recitativo (mM) P 1 Anamnesi rendere evidente la continuità del mistero di salvezza acclamazione (anche mM) Tutti 79e 1 Dossologia glorificare Dio (P) e ratificare la preghiera eucaristica (A) recitativo (mM) + acclamazione P/A 79h recitativo (mM) recitativo (mM) acclamazione (anche mM) Tutti P Tutti 81 litania S/A; A/C 83 C; C/A; S/A, S/C/A, (A) 86-87 1 rispondere alla Parola di dialogo (ma anche Dio, offrire preghiera per la silenzio!) salvezza di tutti Preghiera del Signore domandare il pane Embolismo quotidiano in riferimento al Acclamazione pane eucaristico 2 Litania alla frazione del pane accompagnare il gesto simbolico della frazione 3 Canto di comunione 3 Canto dopo la comunione lodare e ringraziare Dio; portare l’eucaristia nella vita 1 Saluto Benedizione Congedo evidenziare il mistero della Chiesa radunata esprimere l’unione innica, strofica spirituale di coloro che si (con o senza rit.), comunicano; manifestare la ecc. gioia del cuore; porre maggiormente in luce il carattere comunitario della processione 11 innica (più o meno A; (S o C/A) strofica), salmica dialogoacclamazione (mM) P/A P/A D/A 88 89 Nel capitolo III, che analizza gli uffici e i ministeri nella Messa, viene ancora una volta richiamata l’ecclesialità della celebrazione eucaristica, poiché tutto il popolo di Dio offre “la vittima immacolata non soltanto per le mani del sacerdote ma anche insieme con lui”; pertanto i fedeli evitino “ogni forma di individualismo e di divisione, tenendo presente che hanno un unico Padre nei cieli, e perciò tutti sono tra loro fratelli” (OGMR 95). “Formino invece un solo corpo” nell’ascolto, nella preghiera, nel canto, nella comune offerta del sacrificio e nel partecipare insieme alla mensa del Signore, affinché appaia chiaramente la loro unità (OGMR 96). Inoltre, tutti i fedeli, ciascuno secondo i propri carismi, sono chiamati a servire il popolo di Dio, compiendo “qualche ministero o compito particolare nella celebrazione” (OGMR 97). Vengono poi analizzati alcuni ministeri particolari, tra cui “la schola cantorum o coro, il cui compito è quello di eseguire a dovere le parti che le sono proprie, secondo i vari generi di canto, e promuovere la partecipazione attiva dei fedeli nel canto” (OGMR 103). Inoltre viene evidenziata, soprattutto in mancanza di un coro, l’indispensabilità dell’ufficio del cantore (OGMR 104) inteso come “guida del canto dell’assemblea” (MS 21). Come ultima raccomandazione, riprendo l’auspicio che conclude il capitolo III: “La preparazione pratica di ogni celebrazione liturgica si faccia di comune e diligente intesa, secondo il Messale e gli altri libri liturgici, fra tutti coloro che sono interessati rispettivamente alla parte rituale, pastorale e musicale, sotto la direzione del rettore della chiesa e sentito anche il parere dei fedeli per quelle cose che li riguardano direttamente. Al sacerdote che presiede la celebrazione spetta però sempre il diritto di disporre ciò che a lui compete.”11 Conclusioni ed errate interpretazioni Negli ultimi decenni, con la scusa della riforma liturgica e facendosi scudo con i documenti del Concilio Vaticano II (magari mai letti), in tanti hanno compiuto dei veri e propri abusi; magari in buona fede, ma sempre abusi. Questo ha ovviamente giovato ai detrattori della riforma liturgica, ma in realtà noi comprendiamo bene le ottime intenzioni che hanno avviato questo processo di riforma, e se questo non è stato ben recepito ed attuato, non è colpa della riforma, ma della sua errata applicazione. Con questo lungo percorso, non ancora completato ma comunque “irreversibile”12, la Chiesa ha voluto eliminare la clericalizzazione dei riti, ricomponendo la frattura creatasi con l’assemblea, coinvolgendola e facendola sentire parte attiva del meraviglioso atto liturgico. Bisogna far innamorare i fedeli della liturgia non attirandoli con ciò possono trovare fuori, ma aiutandoli a comprendere meglio i riti, invitandoli a godere dei benefici di una celebrazione che nutre la fede, facendo loro gustare i frutti che una celebrazione ben preparata e ben vissuta può dare. Per raggiungere questi scopi, è necessario anche puntare su un’adeguata ministerialità, poiché “l’arte di celebrare non si risolve in una capacità individuale (come se fosse “l’arte del celebrante”) ma riguarda la capacità di coinvolgere e accordare adeguatamente tutti nell’unica azione celebrativa, valorizzando il contributo che ciascuno può dare.”13 Concludo con una citazione del card. Biffi, che a sua volta cita S. Ambrogio: “La vera ragione dell’apprezzamento estetico della musica nella liturgia è ecclesiologica: cantando la Chiesa manifesta la sua natura di sposa, affettuosamente rapita nella contemplazione di Colui che é la verità; «non solo trattiene il Verbo nel segreto del suo cuore mediante la preghiera, ma anche Lo bacia con voci di coro salmodiante come con i baci del suo amore».” 11 OGMR n. 111 Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti alla 68ma Settimana Liturgica Nazionale, 24 agosto 2017 13 L. Girardi, “Riscoprire e accogliere il dono della liturgia per la vita della Chiesa” 12 12