Carlo Dariol LA RELATIVITÀ RISTRETTA Dagli appunti del Prof. Mobilio, Università di Roma 3 Sommario Cap. 1 La nascita della relatività ristretta p. 3 1. L’etere luminifero e le problematiche connesse 2. Aberrazione stellare 3. Esperimento di Fizeau 4. Elettromagnetismo e onde elettromagnetiche 5. Esperimento di Michelson e Morley 6. Relatività galileiana ed elettromagnetismo 7. Test ed esercizi Cap. 2 Le ipotesi di Einstein e loro conseguenze p. 23 1. Le ipotesi (assiomi) 2. Rivisitazione del concetto di tempo e di simultaneità 3. Dilatazione dei tempi 4. Contrazione delle lunghezze 5. Verifiche sperimentali 6. Test ed esercizi Cap. 3 Trasformazioni di Lorentz p. 43 1. Trasformazioni di Lorentz 2. L’ invariante relativistico 3. Il cono di luce 4. L’ effetto Doppler relativistico 5. Test ed esercizi Cap. 4 Trasformazioni della velocità p. 62 1. Legge di trasformazione delle velocità 2. Alcuni esempi 3. Interpretazione dell’esperimento di Fizeau 4. Test ed esercizi Cap. 5 I paradossi della relatività p. 70 1. Il serpente relativistico – Scala nel fienile – sciatore 2. Paradosso dei gemelli 3. Test ed esercizi Cap. 6 Dinamica relativistica (A. Einstein 1905) 1. L’approccio di Einstein. Legge di trasformazione dei campi E e B 2. L’equivalenza massa-energia 1 p. 80 3. L’energia, l’impulso e la legge del moto in relatività 4. Conservazione dell’energia in urti elastici e anelastici 5. Conservazione della quantità di moto 6. Legge di azione e reazione. Legge di trasformazione delle forze 7. Test ed esercizi Cap. 7 Elettromagnetismo p. 107 1. Equazioni di Maxwell e trasformazioni di Galileo 2. La conservazione della carica 3. Le trasformazioni della densità di carica e di corrente 4. Campo elettrico e magnetico generato da una corrente elettrica 5. Le trasformazioni del campo elettrico e magnetico osservate in cinque esempi 6. Test ed esercizi Cap. 8 Formalismo Covariante p. 125 1. Quadrivettori e proprietà 2. Quadrivettore velocità 3. Quadrivettore “quantità di moto – energia” (quadrimpluso) 4. Covarianza della conservazione della quantità di moto 5. Particelle a massa nulla: il fotone 6. Effetto Compton 7. Rivisitazione dell’effetto Doppler 8. Equazione del moto e Forze in Relatività. Forza di Minkowsky 9. Trasformazioni del campo elettrico e magnetico 10. Formulazione covariante dell’elettromagnetismo 11. Test ed esercizi Cap. 9 Conclusioni p. 143 1. Cosa abbiamo imparato da Einstein 2. L’inizio di una nuova sfida: il principio di equivalenza e la relatività generale 3. L’impatto della Relatività oggi 2 Capitolo 1: La nascita della relatività ristretta In questo capitolo racconteremo la nascita della Relatività ristretta e ripercorreremo il cammino di due secoli che portò Einstein a formulare le sue leggi. È inevitabile partire dalla tematica dell’etere luminifero, una questione vecchia di due secoli, sulla quale finirono per impattare fortemente le equazioni di Maxwell. Analizzeremo quindi i risultati negativi delle esperienze di Michelson e Morley che portarono a una crisi della fisica classica, che non riusciva a conciliare la relatività galileiana e l’elettromagnetismo. Infine vedremo la sintesi di Einstein, semplice e geniale. Sono due i cammini distinti che portano alla nascita della relatività ristretta, quello della storia della velocità della luce e quello dell’analisi dei vari sistemi di riferimento: i quali furono però destinati a unirsi e fondersi nella sintesi einsteiniana. • Propagazione della luce e l’etere luminifero • Velocità della luce in un mezzo in moto rispetto all’Etere • Mezzo in moto rispetto all’etere: √ aberrazione stellare √ esperimento di Fizeau √ esperimento di Michelson e Morley • Relatività galileiana e sistemi di riferimento inerziali • L’invarianza delle equazioni della meccanica • Sistemi di riferimento ed Elettromagnetismo Relatività di Einstein 1.1. L’etere luminifero e le problematiche connesse La nascita dell’etere Il concetto di etere nasce con Christian Huygens (1629 – 1695) che, in analogia col suono, ipotizzò che la luce fosse un’onda longitudinale e che (come il suono ha bisogno dell’aria) avesse bisogno di un mezzo per propagarsi: l’etere, appunto, un mezzo fluido che sostiene le oscillazioni longitudinali di natura meccanica percepite dall’occhio umano come luce. Questa bella immagine è tratta dagli appunti di Huygens 3 La natura ondulatoria e trasversale della luce si afferma nel corso della prima metà del XIX secolo grazie ai lavori di Thomas Young (1773-1829) sull’interferenza e di Augustin Jean Fresnel (1788-1827) sulla diffrazione. Furono i loro esperimenti che portarono a scalzare il padre della teoria corpuscolare, Newton. Essi arrivarono a determinare che l’etere è un mezzo estremamente rigido capace di sostenere oscillazioni trasversali di frequenza (1014 Hz) molto più alta rispetto alle oscillazioni meccaniche (suono, 103-104 Hz) dei solidi ordinari. L’etere deve avere proprietà meccaniche molto particolari: molto rigido, per consentire quelle frequenze… e molto inconsistente, dato che l’etere deve consentire ai corpi di muoversi al suo interno senza offrire resistenza L’ipotesi dell’etere poneva delle problematiche: - quale è il sistema di riferimento in cui l’etere è in quiete? - Quale è la velocità della Terra rispetto all’etere? - Quale è la velocità di propagazione della luce quando essa si propaga in un mezzo in moto rispetto all’etere? Ovvero: o che interazione c’è tra l’etere e un mezzo che si muove in esso? In particolare, l’etere è perturbato dal mezzo o no? o Se l’etere viene perturbato, acquista localmente la velocità del mezzo? o Oppure acquista una velocità intermedia? Dovendo scegliere un sistema di riferimento privilegiato a un fisico vien da pensare a un sistema solidale alle stelle fisse, dato che la Terra non è certo un sistema di riferimento privilegiato. È questo il sistema rispetto al quale l’etere è in quiete? Queste problematiche affascinarono i fisici dell’epoca. Le questioni sul tavolo sono tante ma la prima è: come possiamo individuare la velocità della terra rispetto all’etere? 1.2. L’aberrazione stellare L’aberrazione stellare fu osservata (e interpretata) per la prima volta da James Bradley (1693 – 1762) nel 1700. È dovuta al moto della terra e alla velocità finita della luce. 4 La direzione verso cui puntare il cannocchiale è il frutto della composizione della velocità della luce e della velocità del pianeta rispetto… all’etere. Succede per la luce un po’ quello che succede quando ci muoviamo con un ombrello sotto la pioggia: se corriamo incontro alla pioggia (che scende verticale), dobbiamo inclinare in avanti l’ombrello per non bagnarci, ovvero per fare in modo che la velocità relativa dell’acqua rispetto a noi risulti perpendicolare all’ombrello Nel caso dell’aberrazione stellare il ragionamento è analogo: una stella si trova esattamente sulla verticale rispetto alla Terra: se lascio il cannocchiale verticale, la luce non raggiunge il cannocchiale. Cosa devo fare per osservare la stella? Devo inclinare il cannocchiale in modo che la direzione del cannocchiale sia la stessa della direzione della luce; il cannocchiale va inclinato nella direzione della velocità della terra di un angolo α tale che vt v tan ct c L’angolo α dipende dunque dalla velocità della Terra e dalla velocità della luce. Tenendo conto che la velocità della terra nel suo moto di rivoluzione attorno al sole è di circa 30 Km/s e che quella della luce è di circa 300.000 Km/s tale angolo è di circa 20’’. Occorre notare però che la velocità della Terra non è costante: la direzione apparente delle stelle varia durante l’anno. Le stelle appaiono compiere orbite ellittiche con • semiasse maggiore pari a ≈ 20’’ eguale per tutte le stelle • semiasse minore che varia in funzione della posizione della stella sull’eclittica L’apertura del cono di osservazione è pari a 2α≈ 40’’ 5 Assumendo che l’etere sia solidale con le stelle fisse e che l’etere non sia influenzato dal moto della Terra e che quindi la velocità della luce relativa alla Terra sia la somma vettoriale della velocità della luce rispetto all’etere e della velocità dell’etere rispetto alla Terra, tutto questo spiega: • l’effetto osservato; • la misura della velocità della luce. Questa spiegazione ci direbbe dunque che l’etere non è influenzato dal moto della Terra. Come può un corpo muoversi nell’etere senza che questo venga disturbato dal moto? Indichiamo con c la velocità di propagazione della luce rispetto all’etere. La velocità della luce vL rispetto al sistema di riferimento S del laboratorio è la stessa di c se il laboratorio è fermo rispetto all’etere. Facciamo passare la luce attraverso l’acqua di una vasca ferma rispetto al laboratorio. 6 La velocità c’ della luce è influenzata dalla presenza dell’acqua attraverso un indice di rifrazione n: c c' n Ora proviamo, con un qualche meccanismo, a mettere in moto l’acqua nella vasca. Qual è la velocità di propagazione quando l’acqua è in moto con velocità vacq. ? Tre sono le possibilità: 1) l’etere non viene perturbato dal moto dell’acqua; 2) l’etere viene completamente trascinato dal moto dell’acqua; 3) l’etere viene solo parzialmente trascinato dall’acqua. Le tre possibilità hanno conseguenze diverse sulla velocità della luce: 1) nel primo caso l’etere non è perturbato dal moto dall’acqua e la velocità della luce c in acqua è c ' , come nell’acqua ferma; n 2) nel secondo caso l’etere si mette in moto rispetto al laboratorio e la velocità della luce rispetto al laboratorio risulterà la somma della velocità c e della velocità vacq.: c c' vacq . ; n 3) nel terzo caso l’etere acquista solo una frazione α della velocità dell’acqua, per cui c la velocità della luce nell’acqua rispetto al laboratorio è c' vacq . n Tutte queste considerazioni servono per introdurre un lavoro famoso di Fresnel per valutare il valore di quell’ α. Ipotesi di Fresnel Augustin-Jean Fresnel (Broglie, 10 maggio 1788 – Ville-d’Avray, 14 luglio 1827) nel 1818 propose un modello di trascinamento parziale dell’etere da parte del mezzo in presenza di moto relativo tra i due. In base alla sua ipotesi, la velocità che l’etere assume è 7 ' ve ' v1 e e Inoltre l’indice di rifrazione dipende dalla densità del mezzo. Per cui concluse che: e ' 1 c 1 2 c' vacq . 1 2 e n n n quest’ultima parentesi corrisponde all’α cercato ed è noto come “Fresnel drag Coefficient” (coefficiente di trascinamento di Fresnel). 2.3. L’ esperimento di H.L. Fizeau (1851) Hippolyte Louis Fizeau (1819-1896) nel 1851 verificò l’ipotesi del trascinamento parziale dell’etere da parte di un mezzo con un famoso esperimento trovando un valore di α = 0.48 da confrontarsi con α = 0.43 atteso dalla formula di Fresnel. Il successo fu interpretato come una conferma del trascinamento parziale dell’etere. Il risultato dell’esperimento fu confermato con maggiore precisione da Michelson e Morley nel 1886. P. Zeeman lo ripeté negli anni 1914 – 1922. Quando Einstein trovò le sue formule delle relatività e provò a testare la validità della formula di Fresnel, trovò che l’effetto di trascinamento previsto da Fresnel e calcolato da Fizeau poteva facilmente essere interpretato come conseguenza della composizione di velocità relativistiche. Sorge però un dubbio: non è in contraddizione il risultato dell’esperimento di Fizeau con il fenomeno dell’aberrazione stellare dove si era osservato che non c’è trascinamento dell’etere da parte del movimento della Terra? Qui infatti osserviamo un trascinamento parziale… Questa contraddizione, evidente in termini logici, non c’è in termini numerici perché nel caso dell’aberrazione stellare nel caso di osservazioni “ordinarie” il mezzo è l’aria, e l’indice di rifrazione dell’aria è praticamente 1, e α=0. E riempiendo il cannocchiale di acqua? L’sperimento di Sir George Airy (1871) Che succede se io riempio il cannocchiale di acqua in modo che α diventi quello dell’esperimento di Fizeau? Dovrei osservare una variazione della posizione. La grande sorpresa fu che non si osservò nessuna variazione, la posizione apparente delle stelle non cambiava. La cosa fece scalpore. La spiegazione che fu data è semplice ed è che… l’esperimento era sbagliato! O piuttosto, l’interpretazione che ne fu data era sbagliata: facendo lavorare un cannocchiale in aria o in acqua (con l’acqua solo da una parte rispetto alla lente) cambiano le proprietà focali della lente e la mancata osservazione di trascinamento dipende dal fatto che la 8 variazione dovuta alla presenza dell’acqua da una parte della lente viene compensata proprio dalla variazione delle proprietà focali della lente. L’analisi dettagliata dell’esperimento mostra che la mancata osservazione di una qualunque variazione è possibile se 1 1 2 . n 1.4. Elettromagnetismo e onde elettromagnetiche Le equazioni di Maxwell (1864) James Clerk Maxwell (1831 – 1879) pubblicò nel 1864 presso la Royal Society il suo celebre trattato “A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field” nel quale presentava le sue quattro celebri equazioni. B E E 0 t E B 0 j 0 0 B 0 t Le equazioni di Maxwell sono espressioni locali di leggi generali famosissime: Q E C (E) i - il teorema di Gauss 0 0 - legge di Faraday-Neumann dell’induzione elettromagnetica B d( B) E f ind t dt - non esistono sorgenti isolate del campo B. Le linee di forza sono chiuse B 0 C ( B) 0 - Il campo B non è conservativo. È generato dalla corrente di conduzione e dalla E B dS 0iconc 0ispost corrente di spostamento B 0 j 0 0 t In maniera abbastanza semplice si ricava l’equazione con cui si propaga il campo elettrico, che è l’equazione di un’onda, in tutto e per tutto simile a quella di un’onda sonora. d 2E d 2E 0 0 2 dx 2 dt 9 La velocità con cui si propaga un’onda elettromagnetica è 1 m c 2.99792458108 s 0 0 e il fatto che questo valore sia quello della velocità della luce ci dice la luce deve essere un’onda elettromagnetica. La cosa straordinaria è che l’etere non serve più: la luce è una vibrazione di un campo E che si autosostiene con B. L’etere, non più necessario come mezzo che sostiene l’onda, diventa semplicemente un sistema di riferimento, quello in cui le equazioni di Maxwell valgono nella loro forma “ordinaria” e in cui la velocità della luce è c. Allora la problematica dell’etere cambia: qual è il sistema in cui la velocità della luce si propaga esattamente con velocità c ? Ovvero: qual è il sistema di riferimento in cui le equazioni di Maxwell assumono esattamente quella forma? Quel sistema di riferimento è quello della Terra? Appare dubbio. Se il sistema di riferimento dell’etere è identificato con le stelle fisse, e la Terra è in moto rispetto a questo sistema di riferimento con una velocità v ≈ 30 Km/s, è possibile misurare la velocità della terra rispetto all’etere con misure “locali”? È questa velocità eguale a quella della Terra rispetto alle stelle fisse? Nasce il problema di misurare la velocità della Terra rispetto all’etere L’idea di come fare venne proprio a Maxwell che propose esperimenti simili a quelli riportati in figura. Abbiamo un carrello in stazione con all’interno una sorgente luminosa che emette un fascio di luce verso la parete destra e un fascio di luce verso il soffitto. Se le due distanze sono uguali e il carrello è fermo rispetto all’etere, il fascio luminoso impiega lo stesso tempo nei due tragitti. 10 Supponiamo che il carrello si muova verso destra rispetto all’etere: in tal caso la velocità della luce nei due cammini non è più la stessa: il fascio luminoso impiega tempi diversi se il carrello è in moto. Il moto delle terra rispetto all’etere è assimilabile al moto del carrello rispetto alla stazione. Maxwell stesso che propose questi esperimenti era però molto scettico sulla loro riuscita perché le variazioni che si sarebbero dovute misurare erano dell’ordine di v2 108 (immaginando che la velocità della Terra sia dell’ordine dei citati 30 km/s, 2 c tale rapporto dà appunto un valore di 10 – 8). Ci vogliono esperimenti estremamente raffinati per mettere in risalto variazioni di quella entità Beh, gli esperimenti di interferometria hanno questa sensibilità; anzi, ce l’avevano già all’epoca. E difatti… 1.5. L’esperimento di Michelson e Morley Gli esperimenti di A. A. Michelson (1852 – 1931) nel 1881 e in collaborazione con E. W. Morley (1838 – 1923) nel 1887 esclusero che la terra fosse in moto rispetto all’etere. I due eseguirono esperimenti del tipo di quelli suggeriti da Maxwell facendo uso dell’interferometria. Essi utilizzarono l’interferometro di Michelson, di cui sotto vediamo uno schema: La luce emessa dalla sorgente giunge su uno specchio M semiargentato (inclinato di 45°) che in parte lascia passare il fascio e in parte lo riflette. I due fasci giungono dunque agli specchi M1 e M2 e tornano di nuovo allo specchio inclinato M. Di nuovo in parte si riflettono e in parte lo attraversano per giungere quindi allo schermo P. I due fasci 11 provenienti dalla sorgente hanno percorso cammini geometrici, e quindi cammini ottici differenti, e provenendo da un’unica sorgente sono coerenti e danno dunque luogo in P a figura di interferenza. La differenza di fase tra i due fasci è 2 2 L2 2 L1 Sullo schermo S si osserva una figura di interferenza, con massimi e minimi a seconda della differenza di fase dei due fasci. Come utilizzò Michelson (nel 1881) questo aggeggio per mettere in evidenza il movimento della Terra rispetto all’etere? L’interferometro, posizionato sulla Terra, ha la stessa velocità della Terra rispetto all’etere. Ipotesi semplificata: la velocità della Terra rispetto all’etere sia verso destra con v, quindi anche lo strumento, solidale alla Terra, si muove con la medesima velocità rispetto all’etere. Terra in moto nella direzione M-M1 con velocità v Nel percorrere il tratto M-M1 la velocità della luce rispetto allo strumento è: vL c v Nel percorrere il tratto M1-M è: vL c v Il tempo totale che la luce impiega a percorrere il tratto M-M1-M è quindi: L L 2cL t1 1 1 2 1 2 cv cv c v Nei segmenti verticali la velocità della luce è la composizione della luce rispetto all’etero 2 2 + la velocità della Terra rispetto all’etere: v L c v 12 Per percorrere il cammino M-M2-M la luce impiega t 2 Per cui otteniamo t t1 t 2 2 L2 c2 v2 2cL1 2 L2 2 2 c v c2 v2 L’osservazione della figura di interferenza sullo schermo P, anche se in linea di principio potrebbe consentire la determinazione di v, in pratica non fornisce informazioni utili allo scopo. Si presentano infatti due problemi: 1) non conosco con sufficiente precisione i valori di L1 e L2 : ma questo è un problema secondario: il vero problema è che … 2) … manca un riferimento di “zero”. L’idea di Michelson fu che per osservare una variazione delle frange di interferenza bastava ruotare l’interferometro di 90°. Perché? 13 Ruotando l’interferometro di 90° il tratto L1 diventa verticale, il tratto L2 diventa orizzontale; le due distanze si scambiano ruolo e anche i tempi di percorrenza si scambiano, per cui si dovrebbe osservare interferenza. 2 L1 2cL 2cL1 2 L2 t ' t1 't 2 ' 2 22 Se t t1 t 2 2 è invece 2 c v c2 v2 c2 v2 c v (t ) 2 L1 2cL1 2 L2 2cL2 c 1 2 2 2 2 c2 v2 c2 v2 c2 v2 c v c v c2 v2 2L1 L2 L’interfrangia corrisponde a una differenza di fase pari a 2π, ossia a una differenza di cammino ottico pari a λ, ossia a una differenza di tempo impiegato pari a T. 14 I corrisponde alla differenza di fase diviso I 2π, ossia alla differenza di cammino ottico diviso λ, ossia alla differenza di tempo impiegato diviso il periodo T. I x (T ) c (T ) I 2 T Lo spostamento frazionale delle frange Lo spostamento frazionale delle frange di interferenza vale dunque: c 1 2L1 L2 c 2 2 2 2 c v c (t ) c v 2 1 2L L 2L1 L2 1 1 2 ( 1) 2 1 1 2 avendo posto, come di consuetudine in Relatività, 1 1 v e . 1 2 v2 c 1 2 c Qualche numero: velocità della Terra = 29.4 Km/s v 2 5 9.8 10 1 4.8 109 da cui c 2 L L2 108 Ltot 108 1 2 Ltot = L1 + L2 è la somma dei bracci dell’interferometro. Nell’esperimento di Michelson del 1881 era Ltot = 2.4 m e λ=5.89 10 – 7 m 0.04 Si sarebbe dovuto osservare lo spostamento di 4/100 di frangia: si 2 era cioè al limite della sensibilità dello strumento pari a 0.02. Michelson non osservò però alcuno spostamento delle frange, e concluse: “The result of the hypothesis of a stazionary aether is thus shown to be incorrect” Michelson, Am. J. Sci., 122, 120 (1881). Ossia: la velocità della Terra rispetto all’etere è nulla. In quel caso il fattore R, ovvero il rapporto tra la sensibilità dello strumento e lo 0.02 5 101 . spostamento relativo atteso, valeva R 0.04 Chiaramente, essendo ai limiti della sensibilità dello strumento, la risposta non poteva essere definitiva. 15 Michelson rifece l’esperimento con Morley nel 1887 aumentando la lunghezza dei bracci dell’interferometro a Ltot = L1+L2 = 22 m e la sensibilità dello strumento a uno I 0.4 , per 0.01 di frangia, a fronte di uno spostamento di frangia atteso pari a I 2 cui il fattore R, rapporto tra la sensibilità dello strumento e lo spostamento relativo 0.01 2.5 102 , e ancora non si osservarono atteso, assumeva adesso il valore R 0 .4 spostamenti di frange superiori a 0.01. Curiosità: in seguito l’esperimento fu rifatto da altri, in particolare da Joos nel 0.75 e il fattore 1930, aumentando ancora la Ltot = L1+L2 = 42 m 2 sensib. 2 sens R I I I atteso I atteso risultava migliorato al valore R 2.7 103 , per cui era possibile 0.002 ossia dell’ordine relativo misurare un possibile spostamento di frangia 2 sens di un “per mille”… (Shankland et al. Rev. Mod. Phys., 27, 167 (1955) e ancora non si osservò nulla. Conclusione: la velocità della Terra rispetto all’etere è nulla. La Terra costituisce dunque un sistema di riferimento privilegiato rispetto al quale le equazioni di Maxwell assumono la loro forma “ordinaria”? Ciò contrasta con il principio di relatività. Ciò contrasta con l’evidenza sperimentale dell’aberrazione stellare. Ai tempi dell’esperimento di Michelson la comunità scientifica reagì con sconcerto e si avanzarono diverse ipotesi per spiegare il risultato negativo dell’esperimento. Si suggerì per esempio che la Terra trascinasse parzialmente l’etere nel suo moto, oppure che lo strumento subisse delle deformazioni diverse nelle due direzioni per effetto del moto della Terra e ciò impedisse la registrazione degli effetti attesi. Michelson ricevette il premio Nobel nel 1907 per la invenzione del suo strumento che, nel frattempo, aveva consentito applicazioni esterne al problema da cui era nato, e la comunità scientifica si accontentò di IPOTESI AD HOC introdotte nella teoria classica per spiegare i risultati degli esperimenti. La contrazione delle lunghezze In particolare George FitzGerald, nel 1889 e indipendentemente Hendrik Antoon Lorentz nel 1892 ipotizzarono che un corpo di lunghezza L in movimento rispetto 16 all’etere subisca una contrazione della sua lunghezza nella direzione del moto pari a: L L' L 1 2 senza però darne alcuna spiegazione o motivazione Questa formula rende identica la velocità di propagazione nei due bracci. Ma il fatto che l’ipotesi ad hoc non fosse sostenuta da alcuna spiegazione rendeva debole l’argomentazione. 1.6. Relatività galileiana ed elettromagnetismo Cerchiamo di inquadrare qual era il clima culturale nel quale si sviluppò il concetto di relatività. E lo facciamo a partire dalla relatività galileiana. Relatività galileiana Sono dati due sistemi di riferimento Oxyz e O’x’y’z’ con assi paralleli. O’ è in moto con velocità vO’ costante rispetto al sistema Oxyz, con gli assi che rimangono paralleli, senza rotazioni, a quelli del sistema Oxyz. OP OO' O' P da cui, derivando a destra e a sinistra rispetto al tempo, e tenendo conto che i versori non mutano direzione vP vO ' vP ' Si è fatta l’ipotesi (la grande ipotesi non giustificata della meccanica classica) che il tempo sia lo stesso nei due sistemi. Da questa relazione, derivando ancora una volta a destra e a sinistra rispetto al tempo aP aP ' In entrambi i sistemi di riferimento l’accelerazione di P è la stessa. 17 Relatività galileiana: Un sistema di riferimento Oxyz è detto inerziale se in esso vale il principio di inerzia. Da quanto visto sopra si deduce che, se Oxyz è inerziale, lo è anche Ox’y’z’ che si muove con velocità costante rispetto ad esso (ciò deriva dalla legge di composizione delle velocità). Nei sistemi di riferimento inerziali valgono le leggi di Newton nella loro forma “ordinaria”: F ma dove F è la risultante delle forze reali F12 F21 Principio di azione e reazione La legge di Newton è invariante per trasformazioni di Galileo (perché l’accelerazione è sempre la stessa) Se una trasformazione di Galileo lascia invariate le forze allora la dipendenza di una forza da parametri fisici può essere solo da grandezze invarianti per trasformazioni di Galileo. La legge di Hooke e la legge della resistenza viscosa, che dipendono dalla posizione e dalla velocità, vanno scritte correttamente perché continuino a valere per trasformazioni di Galileo Espressioni non invarianti per trasformazioni di Galileo Espressioni invarianti per trasformazioni di Galileo F=–kr F=–kv F = – k Δr F = – k vrel Tali leggi non vanno dunque scritte come compaiono nella colonna di sinistra, con r e v, che dipendono dal sistema di riferimento, ma come compaiono nella colonna di destra. L’essenza di questo discorso sta nel fatto che se andiamo ad analizzare fenomeni elettromagnetici, per esempio la forza di Lorentz, o la legge dell’induzione elettromagnetiche, esse presentano criticità rispetto alle trasformazioni di Galileo. F = q (E + vxB) f ind Se una carica è in moto con velocità v in un campo magnetico B, la forza non è invariante per trasformazioni di Galileo (e la mancanza di tale invarianza dipende dal fatto che compare v: se cambio sistema di riferimento cambia v, e quindi cambia anche la forza, laddove la relatività di Galileo prevede invece che la forza rimanga la stessa) d ( B ) dt Se un circuito viene mosso con velocità v in un campo magnetico B, la forza elettromotrice indotta non è invariante per trasformazioni di Galileo. Se cambia il sistema di riferimento, cambia anche la v, e perciò dovrebbe cambiare la forza elettromotrice. Quindi la legge di FaradayNeumann-Lenz non è invariante per trasformazioni di Galileo. Andiamo dunque ad analizzare alcune situazioni classiche, particolarmente semplici. 18 Supponiamo che q1 e q2, in moto in S con la stessa velocità v lungo l’asse x, siano ferme nel sistema S’ in moto con velocità v rispetto a S: In S’ vale la F 1 q1q2 40 r 2 . La forza di Coulomb è diretta secondo la congiungente le due cariche. Andiamo invece ad analizzare dal punto di vista di S, nel quale le due cariche si muovono solidali al sistema S’. In S le cariche in moto simulano delle correnti, ad esempio q2 muovendosi genera un campo B che agisce su q1; e viceversa; ciascuna carica sente dunque anche (un campo magnetico e quindi) una forza di Lorentz che va ad aggiungersi alla forza di Coulomb. Altra situazione interessante è la seguente. Supponiamo che le due cariche si muovano con direzione non ortogonale alla congiungente ma, ad esempio, secondo la direzione mostrata nella figura sotto. La forza di Lorentz agisce perpendicolarmente alla velocità, come indicato in figura dai vettori tratteggiati. Se la direzione del moto non è ortogonale alla congiungente, le forze di Lorentz che spuntano non sono dirette secondo la congiungente ma formano una coppia che tende a far ruotare le cariche. E la 19 conservazione del momento della quantità di moto? Un sistema non può ruotare in assenza di interazioni esterne ma solo in presenza di azioni interne. La risultante delle forze è lungo la congiungente in S’ ma non lo è in S: ma le trasformazioni di Galileo non modificano le direzioni!!! Le equazioni di Maxwell non sono invarianti per trasformazioni di Galileo. Ma siccome le stesse equazioni di Maxwell prevedono che la luce si propaghi sempre con velocità c, le stesse equazioni prevedono dunque che esista un sistema di riferimento privilegiato nel quale esse valgano nella loro forma “ordinaria”. Quale è questo sistema di riferimento? Se nel sistema privilegiato le equazioni di Maxwell assumono la loro forma ordinaria, esistono altri sistemi nei quali assumono la stessa forma? Tra il 1881 e il 1905 alcuni ricercatori, in particolare H. A. Lorentz e Jules Henri Poincarè (1854-1912), avanzarono ipotesi ad hoc per spiegare il risultato negativo dell’esperimento di Michelson e Morley analizzando a fondo il comportamento del campo elettrico e magnetico in varie situazioni. Essi anticiparono molti dei risultati ottenuti poi da A. Einstein in modo naturale con la formulazione della relatività ristretta. Pur costituendo un contributo fondamentale allo sviluppo della Fisica di quegli anni, questi contributi erano tutti caratterizzati dalla mancanza di un quadro interpretativo coerente che spiegasse le osservazioni sperimentali e giustificasse le ipotesi fatte per spiegare i fenomeni. Tra questi ipotesi/risultati ricordiamo: la già citata contrazione di Lorentz; le trasformazioni di Lorentz determinate come le trasformazioni di coordinate da un sistema di riferimento a un altro che non modificano la forma delle equazioni di Maxwell; poiché le trasformazioni sopra prevedevano un tempo diverso tra i due sistemi, fu avanzata l’ipotesi di un tempo locale, dal significato ignoto, ma necessario per scrivere le equazioni di Maxwell in sistemi di riferimento diversi da quello dell’etere; la dipendenza della massa dalla velocità di un corpo; le problematiche legate alla definizione del tempo e in particolare alla sincronizzazione degli orologi e all’uso della luce per questo scopo. Eppure, proprio in quegli anni, fu affermato il Principio di Relatività, un principio della cui validità tutti i fisici erano convinti. 20 Principio di Relatività Nessun esperimento può discriminare tra uno stato di quiete e uno di moto rettilineo uniforme. Le equazioni fisiche devono avere la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Come si concilia l’Elettromagnetismo con il principio di Relatività valido per la Meccanica Classica? E qui, col senno di poi, spunta la domanda: ma perché doveva essere l’elettromagnetismo a dover adeguarsi al principio di Relatività valido per la Meccanica Classica. Semplice: perché valeva il principio di autorità di Galileo e Newton. Nessuno osava immaginare che potessero essere le leggi di Newton inadeguate e quindi da modificare. La geniale intuizione di Einstein fu proprio questa. 1.7. Quesiti e test La velocità media del moto di rivoluzione di Giove intorno al Sole è di 13,1 Km/s. L’angolo di aberrazione stellare medio è: a. 20'' b. 41'' c. 4,5'' d. 18'' e. 9,0'' [La risposta corretta è la e. Poiché α=arctg(vT/c)=20'' sulla Terra, dove v=29,4 Km/s, su Giove, dove v=13,1 Km/s, tale rapporto, e dunque tale angolo – dato che per angoli piccoli vi è linearità – diventerà i 13,1/29,4 di 20’’] In una riedizione dell’esperimento di Michelson e Morley si utilizza una lunghezza d’onda emessa da un laser ad argon λ=4.88⋅10−7m in un interferometro con braccia di lunghezza L=2,5 m. Lo spostamento frazionale delle frange atteso è: a. 0,1 b. 0,03 c. 0,2 d. 0,05 e. 0,3 [La risposta corretta è la a. La formula da usare è ΔI/I = 10-8 (L1+L2)/λ] Nell’esperimento di Michelson e Morley del 1887, la sensibilità dello strumento era di 0,005. Quale è il limite superiore che tale sensibilità pone alla velocità della Terra rispetto all’etere? a. 0,15 Km/s b. 0,37 Km/s c. 12 Km/s d. 30 Km/s e. 3,5 Km/s 21 Se la sensibilità è 0.005 (di frangia), uno spostamento inferiore non potrei vederlo; quindi devo imporre che sia I x (T ) c (T ) 0,005 I 2 T Con la lunghezza dei bracci dell’interferometro portata a Ltot = L1+L2 = 22 m e la stessa lunghezza d’onda del 1881, deve allora valere la seguente 2L1 L2 44m ( 1) ( 1) 0,005 , disequazione di 2 5.89 107 m secondo grado in γ per poi ricavare β. Si può più convenientemente sviluppare in serie ( 1) 2 1 1 1 1 1 2 1 2 2 : 2 1 2 2 1 2 1 2 2L1 L2 0,005 0,005 v c 2 L1 L2 la risposta esatta è la e.] Nell’ipotesi di Fresnel qual è la differenza della velocità della luce quando si propaga in acqua parallelamente al moto della Terra rispetto a quando si propaga perpendicolarmente al moto della Terra? a. 30 Km/s b. 24 Km/s c. 0 Km/s d. 13 Km/s e. 18 Km/s [La risposta corretta è la d. La formula da usare è c' - c'' =[c/n +v acq(1-1/n2)] - c/n, ricordando che la velocità dell'acqua è la stessa della terra (29,4 km/s) e che l’indice di rifrazione dell’acqua è 1,33] La forza di Lorentz F=q(vxB) non è invariante per trasformazioni di Galileo perché a. il prodotto vettoriale tra due vettori non è invariante per trasformazioni di Galileo b. la forza non è invariante per trasformazioni di Galileo c. la carica non è invariante per trasformazioni di Galileo d. la velocità v non è invariante per trasformazioni di Galileo e. il campo B non è invariante per trasformazioni di Galileo [La risposta corretta è la d.] 22 Cap. 2: Ipotesi di Einstein e loro conseguenze In questa lezione vedremo come Einstein risolse in modo elegante i vari paradossi incontrati nel capitolo precedente e come dalle sue ipotesi (divenute gli assiomi della relatività ristretta) si deducano in maniera del tutto naturale due fenomeni che erano state introdotte come ipotesi ad hoc, ossia la dilatazione dei tempi e la contrazione delle lunghezze. Ripercorrendo in maniera quasi pedissequa il suo lavoro del 1905 arriveremo ad analizzare il concetto di simultaneità, intervenendo in maniera molto pesante su concetti della quotidianità. Nel 1905 Albert Einstein (Ulma, 14 marzo 1879 – Princeton, 18 aprile 1955) aveva 26 anni e quelli che seguono sono i titoli delle sue due pubblicazioni di quell’anno: 1. “Zur Elektrodynamik bewegter Körper” (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento) Annalen der Physik 322 (10) 891-921 (1905) – 30 giugno 1905 2. “Ist die Tragheit eines Korpers von seinen Energieinhalt abhangig?” (È l’inerzia di un corpo dipendente dalla sua energia?) Annalen der Physik 322 (18) 639 (1905) – 21 ottobre 1905. Quali sono i punti fondamentali di questi articoli? Einstein • ribadisce la validità del principio di relatività. Abbiamo visto che le equazioni di Maxwell non erano in accordo col principio di relatività e abbiamo citato gli studi e gli interventi di Poincaré dedicati all’argomento. Einstein invece • assume come valide in tutti i sistemi di riferimento inerziali le equazioni di Maxwell nella loro forma usuale. Einstein capovolge cioè la situazione; e poiché le equazioni di Maxwell prevedono l’esistenza delle onde elettromagnetiche con una certa velocità “La velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali”; questo lo porta ad assumere che • sono le equazioni della meccanica a dover essere modificate per essere compatibili con le equazioni di Maxwell. Interessante è il suo modo (nuovo) di operare: • utilizza il metodo operativo per la definizione delle grandezze fisiche: una grandezza è definita attraverso la procedura non ambigua di operazioni con cui la si misura (protocollo). Questo concetto lo si applica specificatamente al tempo: in precedenza il tempo era considerato uno scorrere incessante nel quale avvengono i fenomeni ma rispetto al quale non facciamo nessuna misura. 23 2.1. Le ipotesi (assiomi) Assioma 1 Le leggi della Natura hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali Assioma 2 La velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi di riferimento L’assioma 1 può essere espresso anche nei seguenti modi: - ogni esperimento fisico fornisce gli stessi risultati in tutti i sistemi di riferimento inerziali; - non è possibile ideare un esperimento che consenta di discernere se un sistema di riferimento è in quiete o in moto. L’assioma 2 può essere espresso anche nel seguente modo: - le equazioni di Maxwell hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali. È interessante notare la sconcertante semplicità con cui introduce i due assiomi: nell’introduzione a uno dei suoi due scritti del 1905 egli scrive: “if a magnet is in motion and the conductor at rest, there arises in the neighbourhood of the magnet an electric field with a certain definite energy, producing a current at the places where parts of the conductor are situated. But if the magnet is stationary and the conductor in motion, no electric field arises in the neighbourhood of the magnet. In the conductor, however, we find an electromotive force, to which in itself there is no corresponding energy, but which gives rise—assuming equality of relative motion in the two cases discussed—to electric currents of the same path and intensity as those produced by the electric forces in the former case.” “Examples of this sort, together with the unsuccessful attempts to discover any motion of the earth relatively to the “light medium”, suggest that the phenomena of electrodynamics as well as of mechanics possess no properties corresponding to the idea of absolute rest. They suggest rather that, as has already been shown to the first order of small quantities, the same laws of electrodynamics and optics will be valid for all frames of reference for which the equations of mechanics hold good.” A questo punto il dado è tratto. “We will raise this conjecture (the purport of which will hereafter be called the “Principle of Relativity”) to the status of a postulate.” 24 Dunque non faremo altro che utilizzare questi principi portandoli alle estreme conseguenze: “and also introduce another postulate, which is only apparently irreconcilable with the former, namely, that light is always propagated in empty space with a definite velocity c which is independent of the state of motion of the emitting body.” La prima osservazione che Einstein è una osservazione (quasi) banale sul concetto di tempo. 2.2. Rivisitazione del concetto di tempo e di simultaneità Il concetto di tempo non è altro che l’applicazione del concetto di simultaneità L’affermazione “il treno arriva alle sette” (detto in maniera esatta) non è altro che “l’arrivo del treno e il puntare delle lancette dell’orologio sulle ore sette sono eventi contemporanei”. La misurazione di un bastone consiste nel far coincidere inizio e fine dello stesso con le tacche di un righello. Einstein fa lo stesso col tempo: il tempo, cioè, “va definito”. Sembra un concetto banale, ma nella fisica classica questo non si fa mai, “il tempo è il tempo”, semplicemente lo si misura con un orologio. Einstein invece si chiede: è possibile definire all’interno di un sistema di riferimento un concetto di tempo che sia lo stesso e vada bene per tutti i punti di uno spazio, che non crei ambiguità tra quello che misura un osservatore e quello che misura un altro osservatore? Definizione di tempo in un sistema di riferimento Alice è in A, Bob è in B. Quando diremo che l’orologio di Alice è sincrono con l’orologio di Bob? L’idea, già sviluppata da Poincaré e utilizzata in altro ambito, è quella di usare la luce per definire il sincronismo tra i due orologi. Immaginiamo che Alice invii un segnale luminoso a Bob nell’istante in cui il suo orologio segna il tempo tA. Quando il segnale arriva a Bob, l’orologio di Bob segnerà il tempo tB. Il segnale viene istantaneamente riflesso e ritorna da Alice, il cui orologio segnerà adesso il tempo tA’. Facciamo l’ipotesi che la luce impieghi lo stesso tempo a percorrere i due tratti AB e BA: se tB – tA = tA’ – tB gli orologi sono sincroni Questa definizione di tempo ha delle proprietà ovvie che conviene però sottolineare: 25 - se l’orologio di Alice è sincrono con quello di Bob, allora anche l’orologio di Bob è sincrono con quello di Alice (proprietà riflessiva); - se l’orologio di Alice è sincrono con quello di Bob, e quello di Bob è sincrono con quello di Tom, allora anche l’orologio di Alice è sincrono con quello di Tom (proprietà transitiva). Una delle conseguenze degli assiomi di Einstein è che la simultaneità di due eventi è relativa, ovvero due eventi possono essere simultanei in un sistema di riferimento e non esserlo in un altro sistema di riferimento. Una sorgente M si trova al centro di un vagone di lunghezza L’. All’istante t’=0 la sorgente emette due fasci di luce dirigendoli verso le pareti A e B del vagone. I due fasci raggiungono contemporaneamente le pareti A e B all’istante t ' A t ' B I due eventi sono simultanei: t ' A t ' B L' 2c L' 2c Immaginiamo ora che i due fasci, giunti in A e in B, vengano riflessi verso la sorgente M 26 Dopo la riflessione i due fasci ritornano contemporaneamente sulla sorgente M, L' al tempo t ' MAM t ' MBM c Riassumendo: per l’osservatore S’ solidale con il treno: - i due fasci arrivano simultaneamente sulle pareti; - i due fasci arrivano simultaneamente sulla sorgente. I due eventi sono differenti per un aspetto: nel primo caso i due fenomeni avvengono in punti diversi, le pareti nel secondo avvengono nello stesso punto, la sorgente. Immaginiamo adesso lo stesso esperimento ma che il treno sia in moto con velocità v rispetto al binario (Osservatore S(xy)) In base al principio di relatività possiamo affermare che per l’osservatore S’ solidale con il treno non cambia nulla: i due fasci arrivano contemporaneamente prima sulle pareti e 27 poi sulla sorgente. Se così non fosse avremmo trovato un modo per stabilire se un sistema di riferimento è “in quiete” o “in movimento” E per l’osservatore S? Supponendo che all’istante t=0 la parete A del vagone sia nell’origine del sistema d’assi di S L xluce ct x pareteA vt 2 L La luce arriva alla parete A quando xluce x pareteA cioè nell’istante t A 2c v Facciamo la stessa operazione per la parete B: L xluce ct x pareteB L vt 2 L : 2c v tA e tB sono diversi tra di loro: i due eventi (che in S’ erano simultanei) in S non lo sono. In S la distanza temporale tra i due eventi è L 1 1 Lv 2 v t t B t A L 2 2 c v c v c v2 c2 La luce arriva alla parete B quando xluce x pareteB cioè nell’istante t B Continuiamo ad analizzare il fenomeno dal punto di vista di S. Dopo la riflessione i due fasci ritornano sulla sorgente M ai tempi tMAM e tMBM Vogliamo verificare che (anche per l’osservatore in S) è tMAM = tMBM Se analizziamo il fascio A dopo la riflessione sulla parete A xluce x A,t t A ct t A vt A ct t A xM vt L 2 Il fascio di luce torna sulla sorgente al tempo t = tMAM quando xluce xM vt A ct MAM t A vtMAM L 2 c vt MAM L 2 c vt A 28 e poiché t A L ricaviamo che 2c v L 1 1 2 L t MAM t MAM 2 cv cv c Se analizziamo il fascio B dopo la riflessione sulla parete B xluce xB,t tB ct t B vtB ct t B xM vt L 2 Il fascio di luce torna sulla sorgente al tempo t = tMBM quando xluce xM L vtB ct MBM t B vtMBM L 2 c v t MBM L 2 c v t B e poiché t B L ricaviamo che 2c v L 1 1 2 L t MBM t MBM 2cv cv c Osserviamo che i due tempi sono uguali: tMAM = tMBM. Anche per S i due fasci ritornano sulla sorgente M simultaneamente. Ricapitoliamo: - due eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento possono non esserlo in un altro sistema di riferimento. Osserviamo anche che - due eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento e avvengono nello stesso punto sono simultanei in tutti i sistemi di riferimento. In base ai postulati di Einstein le misure degli intervalli di tempo e delle distanze spaziali diventano quantità relative, cioè assumono valori diversi in sistemi di riferimento diversi. 29 2.3. Dilatazione dei tempi Orologio a luce Come funziona un orologio a luce? Una sorgente invia un fascio su uno specchio, lo specchio riflette e il fascio ritorna sulla sorgente, determinando l’intervallo di tempo. Nel sistema S’ del carrello il tempo che la luce impiega a tornare sulla sorgente è lo stesso sia se il carrello è fermo sia se è in moto (per il principio di relatività: se così non fosse avremmo trovato un modo per stabilire se il sistema di riferimento è “fermo” o “in moto”. 2 L' (intervallo di tempo proprio) c Se il carrello è in moto qual è l’intervallo Δt che misura l’osservatore S fermo in stazione? Nel sistema S la partenza della luce, la sua riflessione e il ritorno sulla sorgente avvengono in tre punti con coordinata x diversa t ' 30 Per S il cammino della luce è più lungo ed è percorso con velocità c. Essendo la velocità della luce la stessa in tutti i sistemi di riferimento, l’intervallo di tempo Δt misurato da S è maggiore: è il fenomeno della dilatazione dei tempi. 2 vt ct 2 L 2 da cui, con semplici passaggi (ricordando che è L=L’), si ricava 4 L2 4 L2 1 1 2 2 t 2 t ' t t ' c v2 c2 1 2 1 2 2 t t ' Il tempo misurato dall’orologio mobile (tempo proprio) rispetto all’osservatore scorre più lentamente del tempo misurato dall’orologio solidale con l’osservatore L’orologio fermo segna un orario successivo rispetto all’orologio che corre Quesito: che cos’è il tempo proprio? Il tempo proprio è la minima distanza temporale tra due eventi. È la distanza temporale misurata da un osservatore “fermo” rispetto ai due eventi. 31 2.4. Contrazione delle lunghezze La misura della lunghezza di un oggetto in “quiete” consiste nel confronto tra l’oggetto e l’unità (righello), le sotto-unità… La lunghezza di un oggetto misurata nel sistema in cui l’oggetto è fermo è detta “lunghezza propria L0” Cosa succede a questa lunghezza quando l’oggetto è in movimento? Per S’, il carro, la penna e il righello sono in quiete per il principio di relatività il risultato della misura è lo stesso: L’= L0 . Ma se voglio procedere alla misura della lunghezza di un oggetto (una penna) in moto come devo operare? Consideriamo un traguardo fisso T nel sistema S e due orologi posti alle estremità dell’oggetto da misurare. S si posiziona sul traguardo T e misura l’intervallo di tempo Δt tra il passaggio dell’estremo A e dell’estremo B sul traguardo T. Per lui la lunghezza della penna è L = vΔt. Adesso però dobbiamo confrontare questa lunghezza con la lunghezza propria L0 misurata quando la penna era in quiete (o misurata dall’osservatore S’ sul carrello). Come procedere? Per far questo è opportuno definire una procedura di misura sul carrello analoga a quella adottata da chi è fermo alla stazione S. Possiamo prendere due orologi e posizionarli uno in A e uno in B, sincroni tra loro. Per loro (cioè per il sistema S’ del carrello) è il traguardo T che si muove verso di loro con velocità – v. 32 S’ può dunque misurare il tempo t’A e il tempo t’B in cui il traguardo T passa rispettivamente davanti ad A e a B. Per S’ risulta L’ = vΔt’ = L0 (questo per definizione di velocità, definita appunto come spazio percorso fratto tempo impiegato a percorrerlo). Notiamo che Δt’ è un intervallo di tempo proprio in quanto misurato nello stesso punto T. Sappiamo che tra i due intervalli di tempo sussiste la seguente relazione: Δt’= γΔt per cui L = vΔt = v Δt’/γ = L0/γ . La penna misurata nel sistema rispetto al quale essa è in movimento risulta più corta che nel sistema rispetto al quale essa è ferma. L L0 è il fenomeno della contrazione delle lunghezze Ricapitolando: dalle ipotesi principio di relatività & costanza della velocità della luce seguono le seguenti necessità relatività della simultaneità tra due eventi dilatazione dei tempi: Δt = γ Δt0 dove Δt0 è l’intervallo di tempo proprio contrazione delle lunghezze: L = L0 / γ dove L0 è la lunghezza propria 2.5. Verifiche sperimentali Vediamo le basi sperimentali della teoria della relatività, a cominciare dalla misura della velocità di propagazione della luce. Misura della velocità della luce (Km/s) 1638 G. Galilei 1675 O. Rømer 1729 J. Bradley 1849 H. Fizeau 1862 L. Foucault 1907 E. Rosa, N. Dorsey 1926 A. A. Michelson 1950 Essen e Gordon 1958 K.D. Froome 1972 Evenson et al. Lanterne Lune di Giove Aberrazione stellare Ruota dentata Specchi rotanti Costanti EM Specchi rotanti Cavità risonante Radiointerferometria Interferometria laser 33 nessun risultato 220.000 301.000 315.000 298.000±500 299.710±30 299.796±4 299.792,5±3,0 299.792,50±0,10 299.792,4562±0,0011 Il miglioramento della precisione e della sensibilità degli strumenti di misura fino ad arrivare al 1972 a ottenere una misura di c con la precisione di una parte su 1010, insieme con la verifica della costanza della velocità della luce in ogni sistema, ha portato nel 1983 il 17° Congresso dei Pesi e delle Misure a dire che la velocità della luce non è più una grandezza da misurare ma un valore ben definito: 299.792,458 Km/s e a definire la lunghezza del metro basandosi sulla velocità della luce: il metro è lo spazio che la luce percorre in un tempo pari all’inverso di quel numero, cioè in un 299.792.458-esimo di secondo Da quel momento si è continuato ancora a misurare la velocità della luce, non tanto per modificare il suo valore (quel valore ora è considerato esatto)[…ma perché non metterlo uguale a 300.000 Km/s a quel punto… e perché non rinominare gli anni a partire dalla vera nascita di Cristo e non da quando Cristo compì 6 anni?] quanto per definire con maggior precisioni le grandezze che sono definite in funzione della velocità della luce, in particolare il metro. La sperimentazione si è piuttosto spostata su un altro versante, ossia su quello della verifica della costanza di tale velocità in tutti i sistemi, qualunque sia la direzione, qualunque sia il moto o la velocità della sorgente. Questa misura dell’isotropia della velocità della luce risale in fondo agli esperimenti di Michelson Isotropia di c Anno Michelson Michelson, Morley Morley, Miller Miller Illingworth George Joos 1881 1887 1902 1924 1927 1930 L (cm) 120 1100 3220 3220 200 2100 A= 1/R 2 40 80 80 175 375 δc/c 7 2 1 1 7 5 10 – 5 10 – 6 10 – 6 10 – 6 10 – 6 10 – 6 L è la somma dei bracci dell’interferometro Il fattore R definito nella Lezione 1 è il rapporto tra la sensibilità dello strumento e l’effetto atteso (il valore che ci si aspetta di calcolare per lo spostamento delle frange, il ΔI/I) sulla base di una velocità ipotetica della Terra pari a 30 Km/s. Qui preferiamo utilizzare il reciproco di R e chiamarlo A. Michelson, nell’esperimento del 1881, eseguì un esperimento con un fattore 0.04 A=2, ossia si aspettava uno spostamento di frangia pari a 2 34 L L2 108 Ltot 108 1 , Ltot = L1 + L2 è la somma dei bracci 2 dell’interferometro e in quell’esperimento valeva 2.4 m e λ=5.89 10 – 7 m) e la sensibilità dello strumento era pari a 0.02 (due centesimi di frangia). (la formula è Vale la seguente formula: c v c c A v Ac Non aver osservato nessun effetto (nessuno spostamento di frangia) significa sostanzialmente che la velocità della luce nelle due direzioni varia di una quantità δc inferiore alla velocità della Terra diviso A , cioè meno di 21 Km/s e quindi significa aver determinato l’isotropia della velocità della luce nelle due direzioni con un rapporto c v 7 105 , rapporto (già allora) assai “buono” (cioè piccolo), rapporto che poi c Ac è stato migliorato negli anni successivi fino ad arrivare ai risultati di George Joos nel 1930 per cui tale rapporto era sceso a 5 x 10 – 6 . L’interferometro di Michelson non fu l’unico strumento usato. Un altro strumento fu l’interferometro usato nell’ esperimento di Kennedy e Thorndike Physical Review 42, 400–418 (1932) Quello in figura è un interferometro tipo Michelson&Morley con bracci di lunghezza diversa, con ΔL≈ 16cm. Lo strumento è fisso e le frange sono osservate su un periodo di molti mesi, periodo in cui la velocità della Terra cambia. Ma anche in questo caso non fu osservato alcuno shift delle frange dalla sensibilità dello strumento si ottiene che c 106 c Occorre notare che nell’esperimento di KT Il tempo impiegato dalla luce a percorrere il cammino aggiuntivo nel braccio BM2 è lo stesso in sistemi di riferimento diversi. 35 Inoltre MM c non dipende dalla direzione KT c non dipende dalla velocità dell’apparato; per spiegarne il risultato negativo non basta la contrazione delle lunghezze, occorre aggiungere la dilatazione dei tempi. Gli esperimenti di Michelson–Morley e di Kennedy– Thorndike sono stati ripetuti con accuratezza molto maggiore utilizzando laser, maser e risonatori ottici criogenici, raggiungendo limiti di accuratezza molto maggiori. Una accuratezza simile oggi la si ottiene anche nella verifica delle relazioni di dilatazione del tempo e di contrazione delle lunghezze. Verifiche sperimentali recenti Braxmaier, C. et al.: "Tests of Relativity Using a Cryogenic Optical Resonator“, Phys. Rev. Lett. 88 (1) (2002) Hils, Dieter et al.: "Improved Kennedy–Thorndike experiment to test special relativity“, Phys. Rev. Lett. 64 (15): 1697–1700 (1990) Wolf; et al. "Tests of Lorentz Invariance using a Microwave Resonator". Physical Review Letters 90 (6): 060402 (2003) Wolf, P. et al. "Whispering Gallery Resonators and Tests of Lorentz Invariance". General Relativity and Gravitation 36 (10): 2351–2372 (2004) Tobar, M. E. et al: "Testing local Lorentz and position invariance and variation of fundamental constants by searching the derivative of the comparison frequency between a cryogenic sapphire oscillator and hydrogen maser". Physical Review D 81 (2): 022003 (2010) Vorrei segnalare questo articolo Si citano 175.000 rotazioni in 13 mesi, senza osservazione di alcuno spostamento di frangia. 36 La dilatazione del tempo In questo paragrafo si tratterà della verifica sperimentale della t t ' : la validità di tale legge fu riscontrata per la prima volta da B. Rossi e D.B. Hall nel 1941 Phys. Rev B 59, 223 (1941) Dati da: D.H. Frisch and J.H. Smith (1963) Am J. Phys. 31, 342-355 (1963) osservando il Decadimento dei mesoni μ relativistici prodotti da raggi cosmici e e e e I raggi cosmici incontrano l’atmosfera a circa 10 km di altezza producendo mesoni; questi, viaggiano a una velocità di poco inferiore a quella della luce, impiegando ≈ 30μs secondi per raggiungere la superficie terrestre. I mesoni μ (muoni) decadono però in 2.2 μs, un tempo circa 15 volte inferiore e non dovrebbero quindi raggiungere il suolo. Cosa che invece non succede, dato che si osservano muoni in gran quantità giungere sulla superficie terrestre. Questo perché avviene? Perché il tempo di decadimento proprio del muone (2.2 μs) dilata del fattore γ quando il muone viaggia a velocità relativistiche. Com’è pensato e organizzato l’esperimento? Si misura: l’arrivo di un mesone μ nel rivelatore il ritardo con cui viene prodotto l’elettrone di decadimento La distribuzione degli intervalli di tempo tra l’arrivo del mesone e il suo decadimento ci dà un intervallo medio di τ0 ≈ 2.2 ms Si valuta la frazione di mesoni che decadono nell’attraversare un tratto L di atmosfera in un tempo t=L/c e quindi si ottiene il umero atteso al livello del mare Le misure vengono effettuate al livello del mare e sulla cima di una montagna L≈1900 m I mesoni impiegano Δt ≈ 6.4 μs a raggiungere il livello del mare Valore misurato in cima ≈ 563 mesoni/h Valore atteso al livello del mare sulla base della N N 0 e t / ≈ 30 mesoni/h Valore misurato alla base >400 mesoni/h N 400 t / e 18.7 s Se ne ricava che N 0 563 Se utilizziamo tale valore di τ nella relazione t t ' otteniamo 37 18.7 s 2.2 s 8 .5 ossia 0.994 numeri che ci danno anche una misura dell’energia media dei mesoni. C’è anche un altro modo di analizzare questo fenomeno ed è quello di mettersi nel sistema di riferimento del mesone. Nel sistema di riferimento del mesone la montagna è in moto con velocità ≈ c e quindi è contratta, non è più lunga L ma L’ = L/γ : per giungere alla base occorre un tempo minore pari a: t ' L 0.75 sec c Se inseriamo questo dato nel fattore di decadimento otteniamo e t '/ 0 0.71 dato che va confrontato con N 400 0.71 N 0 563 Esperimenti analoghi sono stati condotti su muoni relativistici in orbita circolare Measurement of relativistic time dilatation for μ in a circular orbit J. Bailey et al., Nature 268, 301-305 (1977) esperimenti condotti al CERN di Ginevra e consistiti nella misura della vita media di muoni relativistici (γ = 29.33). I tempi di decadimento osservati per muoni positivi e per muoni negativi è rispettivamente 64.419 58s 64.368 29s e che corretti del fattore relativistico portano a un tempo di decadimento proprio di 0 2.1948(10) s ma in più consentono anche di determinare l’indeterminazione sul fattore γ che è 10 3 Veniamo a un’ALTRA TIPOLOGIA DI TEST. Oggi quello che si cerca di fare è di verificare che le relazioni che noi normalmente usiamo in relatività – ad esempio quella che lega β con γ, che sappiamo essere 1 1 2 – siano corrette, e di verificare quali conseguenze una minima variazione sulla relazione potrebbe avere sulla teoria della relatività. 38 Ad esempio: quanto vale effettivamente il prodotto 2 (1 2 ) , che per la teoria della relatività deve valere 1? Se faccio degli esperimenti ovviamente troverò un valore vicino a 1 perché la teoria della relatività non è campata in aria… ma quanto è diverso da 1? Con che precisione, con che sensibilità posso affermare che è 1? Verifiche di questo tipo le si fa, ad esempio, andando a studiare lo shift Doppler: quando un osservatore si allontana o si avvicina alla sorgente, la frequenza percepita dall’osservatore (che è poi quella reale del rivelatore) è diversa da quella emessa dalla sorgente. Come mostra l’articolo sopra, lo si fa andando a studiare l’emissione o l’assorbimento di fotoni da parte di ioni di litio relativistici, andando cioè a studiare in particolare una risonanza, cioè una frequenza ben precisa (che è una risonanza per una transizione iperfine… senza entrare nei dettagli della spettroscopia atomica) La transizione da uno stato 3S1 a uno stato 3P2 dà una frequenza ben determinata, misurata quando lo ione di litio è fermo: è cioè una frequenza (l’inverso di un tempo) propria. È chiaro che nel momento in cui io ho un fascio come quello indicato nello schema sotto che si muove all’energia E = 58.6 MeV la frequenza di quella radiazione di transizione cambia perché è emessa da una sorgente in moto. L’effetto Doppler può essere di due tipi, perché gli ioni possono venirci incontro oppure andare dalla parte opposta e allontanarsi da noi (e tra un paio di lezioni saremo in grado di calcolare i diversi effetti). Questa frequenza si può misurare utilizzando dei laser: se si utilizzano dei laser che hanno esattamente la frequenza di risonanza che hanno gli ioni di litio quando sono fermi, quando gli ioni sono relativistici si osserva che la frequenza della radiazione di emissione non è più in grado di eccitare l’emissione laser, perché la frequenza è 39 cambiata; bisogna shiftare il laser della stessa quantità shiftata nel litio per effetto doppler per riosservare l’eccitazione del laser. L’esperimento mostra che il prodotto 2 (1 2 ) non dà esattamente 1 ma vi è una certa incertezza. L’ultimo esperimento che va citato è quello degli Orologi atomici al Cs su aeroplani di linea J.C. Hafele and R. E. Keating, Science 177, 166 (1972) Nell’ottobre del 1971 quattro orologi atomici al Cs furono utilizzati su due voli commerciali attorno alla Terra uno in direzione est e l’altro in direzione ovest. La relatività prevedeva che durante il volo verso est l’orologio avrebbe ritardato di 40±23 ns rispetto all’orologio di riferimento fisso a terra; avrebbe avanzato di 275±21ns durante il volo verso ovest. I dati sperimentali (anche se molto contestati all’epoca) furono: 59±10 ns nel volo verso est, 237±ns durante il volo verso ovest, in discreto accordo con le previsioni. Il fatto rilevante è che questo esperimento costituisce la prima verifica della dilatazione del tempo con orologi macroscopici. Oggi questo effetto è utilizzato nel sistema di localizzazione del GPS. 40 2.6. Test e quesiti Un fascio di mesoni K+ instabili di velocità 0,866 c attraversa due rivelatori distanti 9m uno dall’altro, senza subire perdite significative di alcun tipo. Se il primo rivelatore misura 1000 conteggi e il secondo 250, quale è il tempo di decadimento nel sistema di riferimento dei mesoni? a. 10,8 ns b. 25,0 ns c. 21,6 ns d. 50,0 ns e. 12,5 ns [La risposta corretta è la e. Il tragitto percepito dal mesone è L' = 9m/γ= 4,5m e il tempo necessario a percorrerlo è Δt' = L'/v = 1,733 x 10 – 8 s, e si usa la legge del decadimento, da cui si ricava τ= Δt'/ln4] Una sbarra di lunghezza a riposo L0 = 1,00 m è ferma in S’ e forma un angolo θ=30° con l’asse delle x. Se la velocità di S’ rispetto ad S è: v = 0,600 c quale sarà la lunghezza della sbarra misurata da un osservatore solidale con S? a. 0,85 m b. 0,75 m c. 0,80 m d. 0,95 m e. 1,19 m [La risposta corretta è la a. Se la componente y della sbarra (L0/2) rimane invariata, la componente x (L0 radq(3)/2) si accorcia del fattore radq(1 – β2)] Una sbarra forma in S un angolo θ=45° con l’asse delle x. Quale velocità relativa deve avere un osservatore S’ affinché l’angolo che misura sia θ′=60°? a. 0,816 c b. 0,970 c c. 0,706 c d. 0,603 c e. 0,952 c [La risposta corretta è la a. Per avere un angolo di 60° la componente orizzontale L0 deve ridursi a L0/radq(3). Quindi β = radq(2/3)] Un osservatore S osserva due eventi avvenire in punti diversi dell’asse delle x con un ritardo temporale Δt=30,0 ns tra di essi. Un amico in gita relativistica gli comunica di aver osservato i due eventi avvenire nello stesso punto a distanza Δt′=15,0 ns tra di essi. La velocità dell’amico relativa ad S è: a. 0,707 b. 0,750 c. 0,562 d. 0,500 e. 0,866 [La risposta corretta è la e. Dalla legge della dilatazione dei tempi si ricava γ=2, da cui β= radq(3)/2] 41 Due orologi identici si trovano su due razzi S1 ed S2 in moto rispetto alla terra con velocità relativistica, hanno velocità relativa vr=0,3c uno rispetto all’altro. Quale sarà il periodo dell’orologio del razzo S1 misurato da un osservatore che si trova a bordo del razzo S2? a. 1,05 s b. 1,15 s c. 1,24 s d. 1,40 s e. 1,00 s [La risposta corretta è la a. Il fatto che siano entrambi in moto rispetto alla Terra è fuorviante, vale infatti il principio di relatività. Quindi Δt = γ] 42 Cap. 3: Trasformazioni di Lorentz Dapprima analizzeremo le trasformazioni di Lorentz, formule che in relatività sostituiscono quelle galileiane. E dalle quali si deducono alcune conseguenze. In primo luogo se ne deduce l’esistenza di un invariante, quello che viene detto “lo scalare”, una quantità che ha sempre lo stesso valore in ogni sistema di riferimento. Passeremo quindi alla descrizione di un diagramma, noto come “il cono di luce” che mette in evidenza collegamenti e relazioni tra eventi nello spazio e nel tempo. Infine analizzeremo una delle conseguenze importanti di tali formule: l’effetto Doppler relativistico 3.1. Trasformazioni di Lorentz Le trasformazioni di Lorentz sono trasformazioni di coordinate che, a differenza delle trasformazioni di Galileo, conservano la formulazione delle equazioni di Maxwell. Introducono il concetto di “tempo locale” anticipando in questo Einstein, ma senza giustificarlo o spiegarne il significato. Devono il loro nome a Lorentz, ma “partono” molti anni prima. Il primo tentativo di formulazione risale infatti al 1887 a opera di W. Voigt. Lo scopo era quello di trovare delle trasformazioni che consentissero alle leggi dell’elettromagnetismo, in particolare a quelle di Maxwell, di conservare la loro forma passando da un sistema di riferimento a un altro. La prima formulazione corretta e completa è dovuta a J. Larmor nel 1899, due anni prima di Lorentz. H. A. Lorentz pubblica la sua versione finale nel 1904. Henri Poincarè le battezza come “trasformazioni di Lorentz”, nome che tuttora conservano, e dà loro quella formulazione “simmetrica” particolarmente elegante e semplice che vedremo nel corso del capitolo, oggi in uso; e le corregge, perché le formule di Lorentz del 1904 avevano un errore, piccolo… ma pur sempre un errore. Nel 1905 Einstein le ricava utilizzando i due assiomi, chiarendone il significato. Per arrivare alle trasformazioni di Lorentz e spiegare come si deducano dalle ipotesi di Einstein occorre innanzi tutto chiarire il concetto di evento P In relatività le coordinate spaziali e il tempo non possono essere considerate separatamente Occorre utilizzare le coordinate spazio-temporali, cioè le coordinate spaziali x, y, z di un punto in un particolare istante t considerate in un particolare sistema di riferimento S: E = (x,y,z,t) 43 Un evento può essere misurato in diverse sistemi di riferimento e in ogni sistema di riferimento ha le sue coordinate: E=(x,y,z,t) in S, E =(x’,y’,z’,t’) in S’. Le trasformazioni di Lorentz mettono in relazione le coordinate spazio-temporali di un evento misurato in un sistema con le coordinate spazio-temporali dello stesso evento misurato in un altro sistema. . Evento P misurato da due osservatori inerziali S e S’ Due sistemi di riferimento Oxy e O’x’y’; supponiamo che S sia solidale al primo e S’ solidale al secondo. Ipotizziamo che il sistema O’x’y’ sia in moto con velocità v rispetto a Oxy nella direzione positiva della x (in qualche modo ci sentiamo S). Per l’osservatore S il vettore O’P risulta contratto del fattore di Lorentz. E se sono l’osservatore S’? In questo caso è il vettore OP che risulta contratto del fattore di Lorentz x P OP OO 'O ' P vt x' P O ' P OP OO ' xP x' P vt ' Nota: la velocità relativa è la stessa. Sostituendo nella prima equazione il valore di x’P dato dalla seconda si ottiene: 1 xP vx vt' t ' t 2P e sostituendo c x vx x ' P P v t 2P x' P x P vt c x P vt equazione t’ nella seconda Dunque le relazioni che legano (x, t) a (x’, t’) sono: x' P xP vt 44 vxP t' t 2 c 1 Alcune relazioni utili 2 1 2 2 2 1 2 1 2 2 1 2 1 1 2 2 Trasformazione di Lorentz Trasformazione inversa x' ( x vt ) y' y z' z vx t ' t 2 c x ( x' vt ' ) y y' z z' vx' t t ' 2 c 1 2 2 Le formule della trasformazione inversa si possono ottenere esplicitando x e t dalle formule di partenza oppure grazie all’osservazione banale che discende dal principio di relatività in base al quale se S’ si muove con velocità v rispetto a S allora S si muove con velocità – v rispetto a S’ e le formule non devono variare. Come caso particolare le trasformazioni di Lorentz includono quelle di Galileo, per il quale la velocità della luce è infinita… e il tempo è lo stesso per tutti gli osservatori. Trasformazione di Lorentz x' ( x vt ) y' y z' z vx t ' t 2 c Trasformazione di Galileo c 1 x' x vt y' y z' z t' t Ora cercheremo di usare le trasformazioni di Lorentz per dedurre alcuni risultati che già conosciamo. Trasformazioni di Lorentz – applicazione Abbiamo già analizzato la situazione in cui, se all’istante t=0 una sorgente M fissa al centro di un carrello in movimento fa partire contemporaneamente due fasci luminosi verso le pareti A e B, la luce arriva contemporaneamente in A e in B per un osservatore 45 che stia sul carrello, e invece non arrivi simultaneamente in A e in B per un osservatore che stia in stazione. E abbiamo anche calcolato la differenza dei tempi di arrivo in A e in B che misura l’osservatore in stazione. L’arrivo dei due fasci sulle pareti che è simultaneo per S’ non lo è per S, per il quale Δt≠0 t t B t A L 1 1 Lv 2 v L 2 2 2 2 cv cv c v c Ritroviamo questo risultato utilizzando le trasformazioni di Lorentz. In primo luogo ci dobbiamo chiedere quali sono le coordinate spazio-temporali sul carrello. Evento A = la luce arriva in A Evento B = la luce arriva in B Per S’ (banali) x' A 0 x'B L0 L0 2c L t 'B 0 2c t'A Per S (usiamo le trasformazioni di Lorentz) vx' t A t ' A 2A c vx' t B t 'B 2B c v vL v t t B t A 2 x'B x' A 20 2 2 L c c c e ritroviamo il risultato già noto. Altra situazione interessante da verificare (in quanto presenta degli elementi di sottigliezza) è la verifica della contrazione delle lunghezze. 46 La contrazione di Lorentz La penna è ferma nel carrello S’. I suoi estremi si trovano in ogni istante t’ (poiché la penna è ferma) in 0 (la penna in figura dovrebbe essere un po’ più a sinistra!) e in L0. E usiamo le trasformazioni di Lorentz: x' A L0 x'B 0 x A x' A vt' A xB x'B vt'B xA xB x' A x'B vt ' A t 'B S deve eseguire la misura della posizione dei due estremi allo stesso istante tA=tB x' A x'B L0 L xA xB x' A x'B vt ' A t 'B x A xB L in S devo effettuare la misurazione nello stesso istante, ma nella relazione sopra ho t’ A e t’B: li devo trasformare in tA e in tB e poi imporre che sia tA = tB : vL vL L0 v t A t B 2 L0 v 0 2 L0 2 2 L c c Dunque, se L L0 2 L allora L1 2 2 2 L0 L L0 ovvero N.B. non è una dimostrazione rigorosa perché è basata sulle trasformazioni di Lorentz, e non dobbiamo dimenticare che le trasformazioni di Lorentz le abbiamo dedotte utilizzando appunto questa relazione. Le trasformazioni di Lorentz legano tra loro coordinate spaziali e temporali, e dunque non sono omogene dal punto di vista della dimensionalità. Per ovviare a questa asimmetria si usa moltiplicare la quarta equazione per c. 47 Trasformazioni di Lorentz – forma simmetrica x' ( x vt ) y' y z' z vx t ' t 2 c x' ( x ct ) y' y z' z ct ' ct x Se vogliamo dare a queste variabili lo stesso nome, le trasformazioni diventano x1 x x y 2 x3 z x4 ct x1 ' ( x1 x4 ) x2 ' x2 x3 ' x3 x4 ' x4 x1 Si osservi la profonda simmetria tra la prima e la quarta, dove basta cambiare tra di loro X1 e X4. Non possiamo non citare almeno il caso tridimensionale Trasformazioni di Lorentz – caso 3d In questo caso definiamo le tre costanti x vx c y vy z c vz c Con questa posizione la relazione tra (x,y,z,t) e (x’,y’,z’,t’) diventa x y x2 xz x ' 1 1 x 1 y 1 z x ct 2 2 2 yx y2 yz y ' 1 x 1 1 y 1 z y ct 2 2 2 2 z ' 1 x z x 1 y z y 1 1 z z z ct 2 2 2 ct ' ct x x y y z z formulazione estremamente complicata che mai ci troveremo a dover usare; ma è istruttivo vedere la loro forma e come esse si riducano a quelle note nel caso bidimensionale in cui v è parallela e concorde all’asse x: in tal caso βx=β, βy=0, βz= 0. Nella forma delle X1, X2, X3 e X4 le trasformazioni diventano: 48 x y x2 xz x ' 1 1 x 1 x 1 x3 x x4 1 2 2 1 2 2 yx y2 yz x2 ' 1 2 x1 1 1 2 x2 1 2 x3 y x4 2 y z x z z x3 ' 1 x z x4 x 1 x 1 1 1 2 2 2 2 3 x4 ' x4 x x1 y x2 z x3 3.2. L’ invariante relativistico Le trasformazioni di Lorentz godono di una interessante e importante proprietà: la grandezza s 2 x12 x22 x32 x42 che ricorda il modulo quadro di un vettore (l’ultima componente ha però il segno – ), è invariante per trasformazioni di Lorentz e quindi assume lo stesso valore in tutti i sistemi di riferimento: in S’ è s'2 x1 '2 x2 '2 x3 '2 x4 '2 2 x1 x4 x22 x32 2 x4 x1 ... 2 2 ... 2 2 2 x12 x22 x32 2 2 2 x42 s 2 dato che le parentesi valgono 1. Questa grandezza prende il nome di invariante relativistico e gioca un ruolo importante in molte applicazioni della relatività. La proprietà vale anche per due eventi Ea e Eb : la loro distanza spaziotemporale s 2 xa1 xb1 xa 2 xb 2 xa 3 xb3 xa 4 xb 4 2 2 2 2 è invariante per trasformazioni di Lorentz e quindi assume lo stesso valore in tutti i sistemi di riferimento. 49 3.3. Il cono di luce La rappresentazione degli eventi nello spazio-tempo si avvale di una figura che è detta “cono di luce” Andremo a mettere in luce le relazioni spaziotemporali tra un evento posto nel vertice del cono e tutti gli altri eventi. Diagramma spazio – tempo L’asse delle ascisse rappresenta gli eventi che avvengono nei diversi punti dell’asse x al tempo t=0 L’asse delle ordinate rappresenta gli eventi che avvengono nell’origine a tempi diversi Il punto A rappresenta un evento che avviene nel punto XA al tempo tA La retta disegnata è L1 di equazione x = ct È l’insieme dei punti che vengono raggiunti da un fascio luminoso emesso nell’origine all’istante t = 0 L’evento O (emissione del raggio luminoso) avviene nell’origine al tempo t=0. La linea L1 descrive dunque il moto di un raggio di luce che parte dall’origine all’istante t=0 nella direzione +X. 50 Tale retta si può estendere anche al terzo quadrante. Nel terzo quadrante la stessa linea L1 descrive un fascio di luce proveniente da – ∞ che passa per l’origine a t=0. Tutti i punti per i quali passa un fascio di luce che si propaga nel verso +X e che all’istante t=0 passa per l’origine sono sulla retta L1. L2 è la retta di equazione x = – ct Tutti i punti per i quali passa un fascio di luce che si propaga nel verso –X e che all’istante t=0 passa per l’origine sono sulla retta L2. L’equazione x2 = c2t2 descrive entrambe le rette Qual è l’estensione da due a tre dimensioni? In tre dimensioni, ruotando l’asse x intorno all’asse ct, otteniamo un cono, che viene detto cono di luce. Ovviamente non sarà possibile estendere la visualizzazione alle quattro dimensioni. Accontentiamoci delle tre dimensioni e analizziamo alcune situazioni. 51 Consideriamo l’evento A. Il punto A che si trova all’interno del cono può essere raggiunto da un mobile che parte dall’origine all’istante t=0, perché la velocità necessaria è minore della velocità della luce. Questo è vero per tutti i punti all’interno del cono. Consideriamo l’evento B. Il punto B che si trova all’esterno del cono non può essere raggiunto da un mobile che parte dall’origine all’istante t=0, perché la velocità necessaria è maggiore della velocità della luce. Questo è vero per tutti i punti esterni al cono. I punti all’interno del cono con ct>0 costituiscono il futuro di O, con ct<0 costituiscono il passato di O. L’evento A (che si trova all’interno del cono di luce dell’evento O) segue l’evento O in tutti i sistemi di riferimento. 52 Per dimostrarlo andiamo a calcolare la coordinata temporale di A in un altro sistema di riferimento: in un altro sistema S’ si avrebbe e se fosse ct ' A ct A xA ct ' A 0 dovrebbe essere ct A xA 0 ossia ct A 1 xA Impossibile!!! È sempre β < 1 Una cosa analoga si può verificare per un evento A che si trovi nel cono con ct < 0. L’evento A precede O in tutti i sistemi di riferimento. In un altro sistema S’ si avrebbe infatti ct ' A ct A xA ct A ct ' 0 ct x 0 e se fosse dovrebbe essere ossia A A A xA ossia ct A 1 xA Impossibile!!! Il fatto che nel primo caso A (nel quadrante positivo del tempo) segua sempre O può indurci a pensare che tra O e A ci sia un qualche rapporto di causa ed effetto, così come nel secondo caso (A nel quadrante negativo del tempo, A precede sempre O) può indurci a pensare che tra A e O ci sia un qualche rapporto di causa ed effetto. Questo rapporto di causa-effetto con O non può esserci invece per un punto B che si trovi all’esterno del cono di luce di O. 53 ct B ct x 1 B B In questo caso xB L’evento B non ha relazioni temporali stabilite con O. In un altro sistema S’ si ha: ct 'B 0 se 0 ct 'B ct B xB ct 'B 0 se ct 'B 0 se ct B xB ct B xB ct B 1 xB L’evento B può dunque seguire, essere simultaneo o precedere l’evento O a seconda del sistema S’ scelto. E quindi non ci può essere una relazione causa-effetto tra O e B. Se B non ha una relazione temporale ben definita con O, tuttavia B ha una relazione spaziale ben definita con O: in ogni sistema S’ si ha XB > 0 . Simmetricamente l’evento A, che aveva una relazione temporale ben definita con O, non ha una relazione spaziale ben definita con O: esistono sistemi riferimento S’ in cui XA > 0 sistemi riferimento S’ in cui XA = 0 sistemi riferimento S’ in cui XA > 0. In più dimensioni valgono le stesse relazioni. Il cono divide lo spazio in due parti ben distinte e distinte: i punti che si trovano all’interno del cono di luce hanno relazioni temporali ben definite nei confronti di O, origine del cono di luce, e non hanno relazioni spaziali ben definite con O. Viceversa, i punti che stanno fuori del cono di luce hanno relazioni spaziali ben definite ma non hanno relazioni temporali definite con O. 54 Ogni punto ha il suo cono di luce. I coni di luce possono anche sovrapporsi. L’evento turchese è all’interno di entrambi i coni di luce e quindi è nel futuro sia di P sia di Q L’evento rosso è nel futuro di P ma non di Q 3.4. L’ effetto Doppler relativistico Conosciamo tutti l’effetto Doppler sonoro: se una sorgente sonora si sta avvicinando a noi (un’ambulanza a sirene spiegate) oppure noi ci avviciniamo a una sorgente sonora (la campanella del passaggio a livello) la frequenza che percepiamo è superiore a quella reale, mentre è inferiore se l’ambulanza si sta allontanando da noi o noi ci allontaniamo dalla campanella del passaggio a livello. Tre elementi determinano l’effetto Doppler classico: 1. la velocità dell’onda sonora nel mezzo di propagazione vm 2. la velocità della sorgente rispetto al mezzo vS 3. la velocità dell’osservatore rispetto al mezzo vO La nota formula dell’effetto Doppler è f ' vm vO f vm vS dove i segni sopra vanno considerati in caso di avvicinamento, i segni sotto in caso di allontanamento. In notazione vettoriale, fissato un verso positivo delle x rispetto al quale esprimere tutte le velocità, cioè la velocità dell’onda sonora e le velocità di ascoltatore e sorgente sonora, la formula diventa vm vO f ' f vm vS La luce però non ha un mezzo di propagazione. Inoltre • la velocità è c rispetto alla sorgente • la velocità è c rispetto all’osservatore 55 La relazione sopra perciò non è coerente con il principio di relatività, perché distingue tra osservatore e sorgente: è solo la velocità relativa tra sorgente e osservatore rilevante per il fenomeno. Consideriamo una sorgente luminosa solidale col sistema S: In S, la funzione d’onda è 2 sin x t x x' vt ' vx' t t ' 2 c 2 2 v 2 vx' sin x'vt' t ' 2 sin 2 x' v t ' c c 2 sin x' ' t ' ' Ricaviamo dunque, ricordando che è 2 c 1 1 2 ' v v 1 c 1 1 2 Formula relativistica dell’effetto Doppler ' 1 1 56 Com’era naturale aspettarsi, la formula dipende solo da β, ossia dalla velocità relativa: se S’ si allontana dalla sorgente in S, la frequenza che egli misurerà sarà inferiore (e viceversa se invece si avvicina). Tale fenomeno è chiamato redshift relativistico. Andiamo a vedere anche cosa succede all’altra parte della funzione d’onda valida per S’, quella che moltiplica x’ e che corrisponde al numero d’onda k’: 2 2 2 2 v 2 1 ' c Verifichiamo infine che 1 1 1 ' 1 ' ' 2c Verifichiamo la situazione simmetrica: se un osservatore in S’ misura una certa onda luminosa proveniente da una sorgente S in allontanamento da lui, in realtà la frequenza dev’essere corretta dello stesso fattore. 57 In S’, la funzione d’onda è 2 sin x' ' t ' ' x' x vt vx t' t 2 c 2 2 ' v 2 vx sin x vt ' t 2 sin 2 x ' c ' c ' ' in questo caso è ' v t 1 ' 1 ' 2 ' v ' v 1 ' ' c 1 1 2 2 2 2 2 v 2 1 ' ' ' c ' 1 1 cioè le stesse relazioni di prima. Effetto Doppler trasverso Proviamo a considerare una situazione leggermente diversa rispetto alla situazione che abbiamo sempre considerato: l’osservatore in S’ vede giungere la radiazione da una direzione che forma l’angolo θ’ con la velocità relativa v. 2 x' cos ' y ' sin ' ' t ' sin ' dove x' cos ' y' sin ' esprime lo spazio percorso dall’onda nella direzione specificata 58 2 x vt cos ' y sin ' ' t vx2 sin c ' 2 ' v 2 2 sin cos ' 2 x y sin ' ' v cos ' t c ' ' ' Così come la parentesi quadra deve corrispondere a 2π/λ’, il coefficiente di t nell’argomento della funzione deve essere ω : (e tenendo conto che è ' 2 ' ' c ) 2 v cos ' ' 1 cos ' . ' da cui otteniamo la formula dell’effetto Doppler trasverso ' 1 cos ' che esprime la frequenza percepita da un osservatore che vede arrivare una radiazione da un angolo θ’ col semiasse negativo delle x (direzione opposta della sua velocità v). Tale relazione deve includere come caso particolare quella precedente. In effetti ' 0 ' 1 1 1 3.5. Test ed esercizi La minima distanza temporale Δmin che può esserci in un sistema S’ tra due eventi A e B che in S hanno coordinate spazio-temporali (xA = 300 m; tA = 8,00 μs) e (xB = 800 m; tB= 5,00μs) è: a. 2,67 μs b. 0,00 μs c. 3,00 μs d. 2,49 μs e. 1,00 μs [La risposta corretta è la d. Calcoli rognosissimi: calcoliamo la Δt’ e per comodità poniamo xB – xA = 500m =X > 0 e tA – tB = 3 μs = T > 0. 59 vx vx t ' (v) (t ' A t ' B )(v) t A 2A t B 2B c c v c2 v2 1 2 c TX Facciamo la derivata rispetto a v: X v2 v v 2v 1 2 T X 2 2 2 2 c c c c X v v c2 1 2 T X 2 2 c c c v2 v2 2 1 2 1 2 X Tv c c t ' (v) 2 2 v v v v2 v2 1 2 1 2 c 2 1 2 1 2 c c c c tale derivata ha un minimante per v= – X /T dunque la distanza temporale minima è t 'MIN X /T T 2c 2 X 2 TX 2 2 T 2c 2 X 2 56 c Tc ... s 2,49s c 3 X 2 /T 2 T 2c 2 X 2 1 c2 T 2c 2 Un segnale di frequenza ν = 1,00 KHz nel sistema S viene misurato nel sistema S’ in moto con velocità v = 0,5c lungo l’asse x positivo. La frequenza ν’ misurata in S’ è: a. ν'= 577 Hz b. ν'= 866 Hz c. ν'= 1,15 kHz d. ν'= 333 Hz e. ν'= 1,73 kHz [La risposta corretta è la a. Bisogna usare la formula dell'effetto Doppler relativistico: ν'=radq[(1- β)/(1+ β)]v ] In S l’evento A ha coordinate spazio-temporali (xA = 0,00 m; tA = 1,00 μs); in S’ l’evento è osservato in x’A = 100 m. La velocità di S’ relativa a S è: a. vS’ = 0,351 c b. vS’ = 0,333 c c. vS’ = - 0,316 c d. vS’ = 0,316 c e. vS’ = - 0,333 c [La risposta corretta è la c. La formula da usare è la prima delle formule di Lorentz e osservare, prima di elevare al quadrato, che v è negativo. Ricordarsi di calcolare β, e non v] Dati i due eventi A e B di coordinate spazio-temporali (xA = 300 m; tA = 12,0 μs) e (xB = 900 m; tA = 2,00 μs), l’evento C (xC = 400 m; tA = 3,00 μs): 60 a. è nel passato assoluto di A e nel futuro assoluto di B b. è nel passato assoluto di A e di B c. è nel futuro assoluto di A e nel passato assoluto di B d. è nel passato assoluto di A ma non di B e. è nel passato assoluto di B ma non di A [La risposta corretta è la d. Le rette luce di A hanno equazione (x-xA)2=c2(t-tA) 2 e un evento sta nel cono luce di A se (x-xA) 2<c2(t-tA) 2. Idem per il cono luce di B] Un evento che in S avviene a t = 0, in S’ ha coordinate spazio-temporali (x’A=-260 m; t’A = 0,100 μs). La velocità di S’ rispetto ad S è: a. vS’ = - 0,115 c b. vS’ = - 0,756 c c. vS’ = - 0,967 c d. vS’ = 0,756 c e. vS’ = 0,115 c [La risposta corretta è la e. La formula da usare è la quarta delle formule di Lorentz. Ricordare di calcolare β e non v] Un fotone di energia E = 2,00 eV viene riflesso all’indietro da uno specchio in moto con velocità v = 0,8c collineare e opposta alla direzione di propagazione del fotone. L’ energia E’ del fotone riflesso misurata nel sistema del laboratorio è: a. E’ = 2,00 eV b. E’ = 18,0 eV c. E’ = 6,00 eV d. E’ = 10,8 eV e. E’ = 0,222 eV [Test della verifica finale. L’analisi non è così evidente: non serve a nulla ragionare su conservazioni di energia e quantità di moto; il fotone riflesso dallo specchio deve essere inteso come un fotone emesso da una sorgente in avvicinamento, per cui 1 ... 3 1 . La risposta esatta è la c.] E' / E ' / 61 Cap. 4: Composizione delle velocità In questo capitolo ricaveremo una delle conseguenze delle trasformazioni di Lorentz, la legge di composizione delle velocità; vedremo poi (4.2.) alcuni esempi in cui essa viene applicata e vedremo come, diversamente dal caso classico, nessuna velocità possa superare quella della luce; infine (4.3.) daremo l’interpretazione dell’esperimento di Fizeau descritto nel capitolo 1. 4.1. Legge di trasformazione delle velocità Le coordinare del punto P sono individuate dal vettore r, coordinate che in generale dipendono dal tempo. La velocità di tale punto – per definizione – è la derivata di tale coordinate rispetto al tempo. Se ci mettiamo in un altro sistema di riferimento, la posizione e la velocità saranno definito allo stesso modo ma attraverso le coordinate spazio-temporali di questo nuovo sistema. Dal punto di vista relativistico, invece, ciascuno di questi rapporti va calcolato tenendo conto delle trasformazioni di Lorentz 62 Nell’ultimo passaggio si è messo in evidenza dt. La differenza rispetto alla legge classica è la presenza di quel denominatore riquadrato. Andiamo a calcolare le altre componenti della velocità: Rispetto alla legge classica, che prevede nei due sistemi velocità uguali in direzione y e z, anche qui compare un denominatore che è quello riquadrato nelle formule sopra. Formule inverse Queste trasformazioni possono essere ovviamente invertite per esprimere la velocità nel sistema S(x,y,z,t) nota la velocità nel sistema S’(x’,y’,z’,t’). 63 L’unica cosa che cambia è la velocità relativa dei due sistemi, basta quindi sostituire vΩ con – vΩ . Quesito: la velocità relativa vr con cui si muovono due particelle relativistiche che si muovono con velocità v1 e v2 : a. è maggiore che nel caso classico se le velocità sono concordi; b. è sempre minore che nel caso classico; c. è sempre maggiore che nel caso classico. [La risposta esatta è la a. Infatti, se vr = v2 – v1 nel caso classico, è vr = (v2 – v1)/(1 – v2v1/c2) nel caso relativistico] 4.2. Alcuni esempi di composizione delle velocità Un razzo R in moto con velocità 0.4 c rispetto alla Terra spara in avanti proiettili che hanno velocità pari a 0.7 c rispetto al razzo. Quale è la velocità dei proiettili rispetto alla terra? (N.B. Solo in un caso la legge relativistica di composizione delle velocità fornisce lo stesso risultato di quella classica: quando si compongono due velocità uguali e opposte!!) Un razzo in moto con velocità 0.4c rispetto alla Terra lancia in avanti un segnale luminoso che ha velocità c rispetto al razzo. Quale è la velocità del segnale rispetto alla terra? 64 Ritroviamo il risultato da cui siamo partiti, ovvero che la velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi di riferimento. Il grafico a destra mostra la composizione delle velocità per diversi valori di vΩ vP rispettivamente di 0,2c, 0,4c, 0,6c, 0,8c e 0,9c composta con una velocità v’P : tutte le curve tendono al valore c. Dimostrazioni sperimentali di questo risultato ce ne sono molte. Riportiamo i risultati di due lavori, il primo (a sinistra) del 1964, il secondo (a destra) più recente, del 2009, lavori che vanno sotto il nome di Ultimate speed experiment esperimento che consiste nell’andare a misurare la velocità di una particella quando tale particella ha una certa energia cinetica; l’energia cinetica è abbastanza facile da misurare perché è l’eccesso di energia che una particella accumula quando viene accelerata tra due punti di un acceleratore (vedremo le formule nel capitolo della dinamica relativistica). La velocità classicamente attesa, mostrata dalla retta, è disattesa dalla misurazione. La velocità dapprima cresce come previsto dalla teoria classica, ma poi si appiattisce sull’asintoto v=c. La velocità della luce è quindi la velocità massima raggiungibile da un mobile accelerato e per tale motivo tali esperimenti sono chiamati “ultimate speed experiment”. 65 4.3. Interpretazione dell’esperimento di Fizeau Altra applicazione interessante della formula di composizione delle velocità è quella che ci permette di rispondere alla domanda: qual è la velocità della luce quando si propaga all’interno di un mezzo? L’ottica ondulatoria di Huygens ci ha mostrata che la luce, quando attraversa una c vasca d’acqua ferma, viaggia con velocità c ' , dove n è l’indice di rifrazione del n mezzo. La velocità della luce nel mezzo risulta quindi inferiore alla velocità della luce nel vuoto perché negli altri mezzi è n >1 Che cosa succede quando l’acqua viene messa in moto? Secondo le vecchie ipotesi, quando ancora si credeva all’esistenza dell’etere, quando l’acqua viene messa in moto nella vasca, l’acqua trascina con sé l’etere 66 il quale acquista dunque una frazione α della velocità dell’acqua, per cui la velocità della c luce nell’acqua rispetto al laboratorio è c' vacq . n Fresnel nel 1818 aveva cercato di calcolare quell’α e aveva proposto un modello di trascinamento parziale dell’etere da parte del mezzo in presenza di moto relativo tra i due. In base alla sua ipotesi la velocità che l’etere assumeva era ' ve ' v1 e e Inoltre l’indice di rifrazione dipende dalla densità del mezzo. Per cui Fresnel aveva concluso che: e ' 1 c 1 2 c' vacq . 1 2 e n n n Quest’ultima parentesi corrisponde all’α cercato ed è noto come “Fresnel drag Coefficient” (coefficiente di trascinamento di Fresnel). Fizeau (1819 -1896) nel 1851, con un famosissimo esperimento, aveva poi verificato l’ipotesi del trascinamento parziale dell’etere da parte di un mezzo trovando un valore di α = 0.48 da confrontarsi con α = 0.43 atteso dalla formula di Fresnel. Il successo fu interpretato come una conferma del trascinamento parziale dell’etere. Il risultato dell’esperimento fu confermato con maggiore precisione da Michelson e Morley nel 1886. P. Zeeman lo ripeté negli anni 1914 – 1922. Oggi sappiamo che l’ipotesi del trascinamento dell’etere da parte dell’acqua in movimento era campata in… “aria”, se non in acqua. Come si spiega il coefficiente di Fresnel alla luce delle formule delle relatività? Ricordiamo che Einstein, per verificare la bontà delle sue formule, le testò inizialmente proprio sulla formula di Fresnel e trovò che l’effetto di trascinamento previsto da Fresnel e verificato sperimentalmente da Fizeau poteva facilmente essere interpretato come conseguenza della composizione di velocità relativistiche. La velocità della luce nell’acqua è la somma relativistica delle velocità della luce in acqua ferma e della velocità dell’acqua c v acq . c' n cv acq . 1 nc 2 67 manipolando la formula e applicando lo sviluppo in serie di 1/(1+z) ≈ 1 – z … … ritroviamo la formula di Fresnel. Einstein diede grande importanza a questo risultato perché l’esperimento di Fizeau era considerato uno degli esperimenti cruciali a sostegno della dimostrazione dell’esistenza dell’etere e la teoria della relatività permetteva invece di dimostrare in modo naturale i risultati di Fizeau. 4.4. Test ed esercizi Un cannone in moto relativistico con velocità v = 0,8 c spara un proiettile verticalmente con velocità 0,3 c. L’angolo che la velocità del proiettile forma con l’asse x in S è: a. 10° b. 20° c. 13° d. 17° e. 77° 1 v' vy 0,6 0,3 y [La risposta esatta è la b. arctg arctg ] arctg vx v 0,8 Un cannone in moto con velocità 0.40c rispetto al suolo spara all’istante t=0 un proiettile di velocità 0.50c rispetto a sé contro un bersaglio in moto con velocità 0.70c rispetto al suolo lungo la stessa direzione e lo stesso verso del cannone. La velocità del proiettile rispetto al bersaglio è: a. 0,033 c b. 0,10 c c. 0,20 c d. 0,50 c e. 0,63 c [La risposta esatta è la b. Si calcola facilmente che la velocità del bersaglio rispetto al suolo è 0,75c, dopodiché la velocità relativa del proiettile rispetto al bersaglio diventa la velocità del proiettile rispetto al suolo più la velocità del suolo rispetto al bersaglio, ovvero la somma (o da subito: la differenza) relativistica delle velocità. ] 68 Un aereo relativistico in moto con velocità v = 0,6 c lungo l’asse x, spara un proiettile relativistico di velocità v = 0,8 c nella direzione y’. La componente y della velocità del proiettile in S sarà: a. 0,54 c b. 0,80 c c. 0,64 c d. 0,43 c e. 0,66 c [La risposta esatta è la c. Basta usare la formula corretta: v y 1 v' y 0,8 0,8c ] Nel sistema di riferimento S una particella in moto con velocità Vp=0,7c si trova nel punto di coordinate spazio-temporali (0,0). L’istante in cui l’osservatore S’ in moto con velocità vS’=– 0,6c rispetto a S vede la particella nel punto di coordinate x’= 3,00 108 m è: a. t' = 1,09 s b. t' = 0,276 s c. t' = 0,446 s d. t' = 1,26 s e. t' = 0,615 s [Test della verifica finale. Non è specificato ma si dà per scontato che all’istante t’=0=t le origini di S e S’ coincidano. Mettendosi nell’ottica di S’ la particella si muove con velocità Vp =0,7c nel sistema S che a sua volta si allontana da S’ con velocità vS = 0,6c (principio di relatività). Tale particella ha quindi, rispetto a S’, velocità (formula di composizione delle velocità) v’ =(vS+Vp)/(1+vSVp/c2) e per andare da 0 a x' impiega t'=x'/v'. La risposta corretta è la a. ] Una particella si muove in S’ con velocità v’=–0,33c lungo l’asse delle x’; all’istante t’=1,0 10–7s si trova nel punto di coordinata x’=10m. Nel sistema S in moto con velocità vO=– 0,60c rispetto ad S’, determinare la velocità v della particella e lo spazio percorso nell’intervallo di tempo 1,0 10–7 s <t'<3,0 10–7 s a. v = 0,78c; x = 20 m b. v = 0,33c; x = 35 m c. v = 0,33c; x = 55 m d. v = 0,34c; x = 20 m (corretta) e. v = 0,78c; x = 55 m [Le risposte vanno determinate rispetto a S. Per S è S’ che si muove con velocità vO = 0,60c e la particella si muove in S’ con velocità negativa v’: usando la formula di composizione delle velocità si ottiene v =(vO–v’)/(1–vOv’/c2). L’unica risposta corretta è la d. In ogni caso, per determinare lo spazio percorso in S dobbiamo conoscere x1’, x2’, t1’, t2’. Dunque x x2 x1 x2 'vO t 2 ' x1 'vO t1 ' x2 ' x1 ' vO t 2 't1 ' L’ultima tonda è data, ci manca calcolare x2 ' x1 'v' t 2 't1 ' , ricordando che v’ è negativa. La risposta corretta è la d.] 69 Cap. 5: i paradossi della relatività Esistono due tipologie di paradossi: un primo gruppo di paradossi (il serpente relativistico, la scala nel fienile, lo sciatore) in cui il problema è sempre lo stesso e che nasce dal fatto che presunto “paradosso” è formulato in maniera non corretta; e poi vi è il celeberrimo paradosso dei gemelli. Dall’analisi di quest’ultimo, capiremo come sia possibile risolverlo e soprattutto concludere che non è un paradosso ma una illustrazione delle caratteristiche della relatività. 5.1. La scala nel fienile Si vuole trasportare una scala, facendola viaggiare con velocità costante, attraverso un fienile, entrando dalla porta anteriore (a sinistra) e uscendo dalla porta posteriore (a destra); le porte non sono mai contemporaneamente aperte. Quando si è chiusa la porta anteriore occorre aprire la porta posteriore!!! Come la apriamo? Possiamo immaginare di utilizzare una fotocellula posizionata sulla porta anteriore che, appena non è più interrotta dalla scala, chiude la porta anteriore del fienile aprendo simultaneamente quella posteriore. Se Lscala < Lfienile nessun problema. Se invece Lscala > Lfienile la porta sbatte sulla porta posteriore. Ma se la scala ha la lunghezza del fienile? La situazione è abbastanza complicata. E perciò noi cerchiamo di semplificarla un poco, supponendo che la Lscala sia inferiore ma circa uguale alla Lfienile e che la vscala sia una velocità relativistica. Analizzeremo questa situazione sia dal punto di vista di un osservatore solidale col fienile (sistema S) sia dal punto di vista “della scala” (sistema S’). Nel sistema S del fienile la scala è in movimento e perciò la sua lunghezza subisce la contrazione di Lorentz: essa è lunga solo Lscala/γ, ossia è certamente più corta 70 di Lfienile, lunghezza del fienile, quindi quando l’estremo A non intercetta più la fotocellula la scala è completamente all’interno del fienile, l’estremo B della scala non ha ancora raggiunto la porta posteriore e quindi non avrà problemi nell’uscire in quanto la troverà aperta. Nel sistema S’ della scala, invece, è il fienile in moto e ha quindi ha lunghezza ridotta Lfienile/γ; è cioè più corto della scala e quando l’estremo B raggiunge la porta posteriore la scala intercetta ancora la fotocellula, quindi la porta posteriore non si è ancora aperta e la scala non può uscire. Da dove nasce la contraddizione? Dal fatto che stiamo ragionando come se la contemporaneità di due eventi in S sia valida anche in S’. Consideriamo i due eventi E1 - l’estremo A della scala si trova nel punto di ingresso del fienile E2 - apertura della porta posteriore In S (sistema di riferimento del fienile)… … E1 e E2 sono eventi contemporanei 71 x1 0 x 2 L fienile t1 0 t2 0 … ma in S’ (sistema di riferimento della scala)? NO Usiamo le formule di Lorentz per stabile le coordinate spazio-temporali dei due medesimi eventi nel sistema S’ x1 ' x1 vt1 0 x2 ' x2 vt2 L fienile vL fienile vx vx t1 ' t1 21 0 t 2 ' t 2 22 c c c2 Nel sistema di riferimento della scala, l’evento “apertura della porta posteriore” non è più contemporaneo all’evento “apertura della porta anteriore” ma avviene prima, a un tempo t’< 0, cioè quando la porta posteriore del fienile si trova ancora nella posizione indicata dalla freccia. Perché la scala possa passare liberamente attraverso la porta posteriore è necessario che quando la porta si apre la porta stessa non abbia ancora raggiunto la posizione dell’estremo B della scala, che (nel sistema di riferimento S’ della scala) è fisso nel punto di coordinata Lscala cioè: L L fienile Lscala L fienile scala che è esattamente la relazione che avevamo scritto prima. Non c’è quindi nessuna contraddizione: per entrambi gli osservatori la scala può attraversare il fienile. Occorre però approfondire questa stranezza. vL fienile 0? Che significa t 2 ' c2 Per S’ l’apertura della porta posteriore avviene quando la chiusura della porta anteriore non è ancora scattata, ovvero quando la scala non è ancora completamente entrata nel fienile. Ma l’apertura della porta posteriore non doveva scattare quando scattava la chiusura di quella anteriore? 72 Per come è stato formulato il paradosso, non c’è una relazione di causa ed effetto tra l’apertura della cellula e quella della porta posteriore. Formulazione relativisticamente corretta Riformuliamo il paradosso con relazione di causa–effetto. Se io voglio che ci sia una qualche relazione di causa ed effetto tra i due eventi E1 ed E2 è necessario che il fotodiodo che sovrintende alla chiusura della porta anteriore faccia partire un comando alla porta posteriore, e questo comando, per veloce che possa viaggiare, potrà viaggiare al massimo alla velocità della luce. Dunque, nel sistema di riferimento S, se vogliamo salvare l’ipotesi di causa-effetto tra gli eventi E1 ed E2, è necessario che l’evento E2 ritardi almeno del tempo necessario a che il segnale luminoso percorra la lunghezza del fienile. Graficamente allora la situazione è quella descritta dalle immagini sotto: all’istante t1=0 (figura a sinistra) viene inviato un segnale alla porta posteriore e solo quando il L fienile segnale arriva alla porta posteriore, essa si apre. Ciò avviene nell’istante t 2 e c all’istante t2 la situazione in S deve essere quella nella figura di destra: Dunque, se vogliamo salvaguardare il rapporto causa-effetto tra i nostri due eventi di partenza, le loro coordinate spazio-temporali dovranno essere le seguenti: L fienile x L t x1 0 t1 0 2 fienile 2 c In altri termini, ovvero in termini relativistici, per salvaguardare il rapporto di causa-effetto, è necessario che E2 si trovi nel cono-luce dell’evento E1 (vedi figura sotto). Nella prima ipotesi E1 ed E2 si trovavano entrambe sulla retta ct = 0, ovvero l’evento E2 era fuori del cono di luce di E1, in una regione dello spazio-tempo in cui le relazioni temporali tra E1 ed E2 non sono ben definite, e perciò l’evento E2 non poteva essere “causato” da E1. 73 E1, infatti, può “causare” solo eventi che si trovino nel suo cono di luce (ovviamente dalla parte di t>0). Quindi E2, per essere effetto di E1, deve stare in quel cono di luce: spostiamoci allora dall’E2 sull’asse delle X (primo caso), in verticale (mantenendo cioè invariata la collocazione spaziale di E2), fino a entrare nel cono-luce di E1; lì possiamo piazzare “E2 con ritardo”, e allora ci sarà sempre relazione temporale (e quindi possibile rapporto causa-effetto) tra E1 ed “E2 con ritardo” in tutti i sistemi di riferimento. Andiamo ora ad analizzare il fenomeno così come viene visto dall’osservatore S (il fienile) e dall’osservatore S’ (la scala). In S, per l’estremo B della scala deve valere la seguente disequazione: L fienile Lscala 1 v L fienile Lscala L fienile c 1 relazione diversa da quella trovata in precedenza. In S’ l’apertura della porta posteriore avviene all’istante (ottenuto tramite le trasformazioni di Lorentz): L fienile L fienile 1 0 t 2 ' t 2 L fienile L fienile c c c c Adesso S’ osserva l’apertura della porta posteriore in un istante successivo a quello della chiusura della porta anteriore; abbiamo eliminato la stranezza osservata prima, quando la porta posteriore si apriva prima della chiusura della porta anteriore. 74 Ci rimane da calcolare dove si trova la porta posteriore all’istante t2’. Nell’istante t2’ la coordinata xP’ della porta posteriore del fienile deve essere maggiore di quella dell’estremo B della scala L fienile L fienile xP ' vt' x P ' t 2 ' L fienile 1 Lscala ossia L fienile 1 1 L 2 fienile 2 1 Lscala riotteniamo la stessa relazione di prima: Lscala L fienile 1 1 Le conclusioni a cui arrivano i due osservatori S ed S’ e le loro misurazioni sono assolutamente in accordo tra loro. Ma per far questo bisogna riformulare correttamente il fenomeno. La “scorrettezza” giaceva nell’aver considerato i due eventi simultanei in tutti i sistemi di riferimento. 5.2. Il paradosso dei gemelli Paul Langevin nel 1911 formulò il paradosso dei gemelli nella forma: “un gemello Bob parte per un viaggio con γ = 100 e viaggia per un anno. Al suo ritorno scopre che sulla terra sono trascorsi 200 anni”. Trova quindi il suo gemello, Tom, un po’ …invecchiato!! Il paradosso nasce dall’apparente simmetria della situazione: per ognuno dei due gemelli è l’altro in moto con γ = 100 e quindi è l’altro a dover essere più giovane. Per Tom, che è rimasto sulla terra, tTom t Bob Per Bob, che ha viaggiato, t Bob tTom Chi dei due sarà realmente più anziano? Questa formula vale per due riferimenti inerziali… e laddove uno dei due misuri un tempo proprio. Ma qui la simmetria è solo apparente: i due osservatori non sono equivalenti: Tom è sempre stato sulla Terra in un preciso sistema di riferimento inerziale. Bob invece è stato in due sistemi, il primo in moto con velocità relativistica nella direzione di allontanamento dalla Terra, il secondo con velocità eguale ma di verso opposto. È quindi Tom a poter utilizzare senza remore la relazione della dilatazione del tempo nella forma che abbiamo enunciato perché essa vale quando confrontiamo il tempo trascorso tra due sistemi di riferimento inerziali. 75 Esempio numerico. Un’astronave parte per un viaggio con velocità v=0.995c (cioè γ = 10) verso un pianeta distante L0 = 2 anni-luce dalla Terra e poi ritorna sulla Terra. Determiniamo la durata dei voli per l’equipaggio S’ e per la Terra S. 2 L0 t 4.02 anni In S: v L0 In S’ la distanza da coprire è t ' 2 L 2 L0 0.402 anni v v E ricaviamo quello che ci aspettiamo, ovvero che il gemello in volo invecchia più lentamente t t ' Test: due gemelli partono entrambi in due missioni spaziali diverse. Tom va alla velocità vT = 0.3c verso Alpha Centauri (distanza ~ 4.3 anni luce) mentre Bob va alla velocità vB = 0.6c verso Sirio (distanza ~ 8.6 anni luce). Al rientro sulla Terra: a. Tom e Bob sono coetanei, perché i due viaggi hanno la stessa durata. b. Bob è più giovane perché ha viaggiato con velocità maggiore. c. Tom è più giovane perché ha percorso una distanza minore. [La risposta corretta è la b. La distanza si è accorciata di più, e il tempo si è dilatato di più, per chi ha viaggiato con velocità maggiore] Il paradosso nasce quando si mescolano le carte, ovvero quando si dimentica che solo il gemello sulla Terra è in un riferimento inerziale. Chiediamoci: i gemelli sono condannati a scoprire il diverso invecchiamento all’improvviso, cioè al momento del loro incontro, oppure è possibile misurare in un sistema di riferimento il trascorrere del tempo di un altro sistema di riferimento? Ovvero: può Tom, che sta sulla Terra, rendersi conto di come il tempo trascorre per Bob e viceversa? La risposta è che è possibile farlo se i due gemelli sono dotati entrambi di un emettitore di luce di frequenza propria ben precisa (per semplicità la stessa, sia essa f0) e si inviano segnali. Sia Bob in viaggio sia Tom a Terra possono inviarsi segnali con quella precisa frequenza propria. Bob dall’astronave invia il suo segnale a Terra e Tom misura il numero di creste NC del segnale che arrivano, deducendone che il tempo trascorso sull’astronave sarà: N t ' C f0 76 Simmetricamente, Tom dalla Terra invia il suo segnale e Bob misura il numero di creste N’C del segnale che arrivano sull’astronave, deducendone che il tempo trascorso N 'C sulla Terra sarà: t f0 Che relazione c’è la misura dell’uno e la misura dell’altro? Vediamo cosa misura Bob sull’astronave. Nella PRIMA FASE DEL VOLO (fase 1) per Bob il segnale arriva da una sorgente in allontanamento e quindi per l’effetto Doppler la frequenza che misura sarà: 1 f1 ' f0 frequenza più bassa di quella di emissione 1 L 1 L L f1 ' 0 f 0 0 1 f 0 v v 1 v Supponiamo di poter trascurare il tempo necessario a Bob a invertire il moto dell’astronave. Nella SECONDA FASE DEL VOLO (fase 2) per Bob il segnale arriva da una sorgente in avvicinamento. Per l’effetto Doppler la frequenza misurata sarà: N ' C1 L 1 L 1 L f0 N 'C 2 f 2 ' 0 f 0 0 1 f 0 1 v v 1 v Il numero totale di creste misurate da Bob in volo sarà: L 2L N 'C N 'C1 N 'C 2 0 1 1 f 0 0 f 0 v v Quindi Bob dedurrà che il tempo trascorso sulla Terra durante le due fasi del N 'C 2 L0 suo tragitto sarà t , risultato che noi (sulla Terra) conoscevamo fin f0 v dall’inizio. Ma questo modo di misurare i tempi si rivela efficace perché consente anche a Bob di sapere quanto tempo è passato per Tom. f2 ' Vediamo cosa misura Tom sulla Terra. Nella PRIMA FASE DEL VOLO (fase 1) per Tom il segnale arriva da una sorgente in allontanamento e quindi per l’effetto Doppler la frequenza che misura sarà 1 f1 f0 e il numero di creste che conterà sarà 1 N C1 L0 L 1 f1 0 f0 v v 1 77 Poi Bob inverte il moto ma Tom, per un certo intervallo di tempo, continua a ricevere segnali a frequenza f1 ossia per il tempo che impiega ad arrivare sulla Terra l’ultimo segnale inviato da Bob prima di invertire il moto. Quanto vale questo intervallo L0 di tempo? Si ricava facilmente che tale intervallo di tempo vale . c In questa fase Tom continua allora a ricevere segnali con frequenza L0 L 1 1 f1 0 f0 f1 f0 e allora Tom conta altre creste: N C1r c c 1 1 L0 Trascorso il tempo dall’inversione del moto Tom comincia a ricevere i segnali c 1 f 0 (sorgente in avvicinamento) e li riceve per un tempo pari a: a frequenza f 2 1 L0 L0 ovvero per la durata del suo viaggio di ritorno meno il primo intervallo in cui v c Tom ha continuato a ricevere segnali con la prima frequenza, per cui Tom conterà in questa fase un numero di creste pari a L L 1 L L 1 L L NC2 0 0 f 2 0 0 f 0 0 1 f0 0 f0 c c 1 v 1 v v v Il totale delle creste misurate da Tom sulla Terra è dunque: L 1 L 1 L N C N C1 N C1r N C 2 0 f0 0 f0 0 f0 v 1 c 1 v L L L L L 2L 1 1 1 1 L0 f 0 0 f 0 0 1 f0 0 f0 0 f0 0 f 0 f0 v v 1 v v v v v c 1 da cui ricaviamo t ' N C 2 L0 t f0 v L’intervallo di tempo trascorso sulla terra Δt è maggiore del fattore relativistico γ rispetto all’intervallo di tempo trascorso sulla astronave. Questo è in accordo con la spiegazione data precedentemente basata sul fatto che Tom (a Terra) è un osservatore inerziale durante tutto il volo mentre Bob (astronauta) non lo è. È Tom a poter utilizzare la relazione di dilatazione del tempo senza commettere errori. 78 5.3. Test ed esercizi Un’astronave parte per una missione con velocità relativistica v. Trascorso un intervallo di tempo Δt, invia un segnale che raggiungerà la Terra quando su di essa è trascorso un tempo ΔtT pari a: t 1 1 t T t T t t T t t T t t T t 1 1 [La risposta esatta è la prima: per chi sta sulla Terra sono passati due intervalli, v t il primo pari a t e il secondo pari a ] c Con riferimento al paradosso della scala nel fienile quando si considera la relazione di causa e effetto tra la chiusura e l’apertura delle due porte, se indichiamo con Δt l’intervallo di tempo tra la chiusura della porta anteriore e l’apertura della porta posteriore nel sistema di riferimento del fienile, nel sistema di riferimento della scala l’intervallo di tempo Δt′ è pari a: t 1 1 t ' t ' t t ' t t ' t t ' t 1 1 [la risposta corretta è l’ultima. t 2 't1 ' t ' L fienile c 1 1 t ] 1 Due astronavi compiono un viaggio relativistico verso un pianeta distante L = 3 anni-luce dalla Terra, con velocità relativistica v1 =0,7c e v2=0,5c rispettivamente. Quando la prima astronave torna sulla Terra, quanto tempo è trascorso sulla seconda astronave? a. Δt2= 5,2 anni b. Δt2= 4,3 anni c. Δt2= 7,1 anni d. Δt2= 7,4 anni e. Δt2= 6,1 anni [La risposta esatta è la d. Per chi sta sulla Terra, quando torna l’astronave 1, sono passati 6anni-luce/0,7c =8,57 anni. E per l'astronave 2 sono passati 8,57 anni/γ] 79 Cap. 6: dinamica relativistica In questo capitolo cercheremo di capire come le equazioni del moto classiche – le equazioni di Newton – si trasformano quando i corpi hanno velocità non trascurabili rispetto a quella della luce. Cercheremo quindi di costruire una meccanica che sia coerente con le ipotesi/postulati di Einstein. Arriveremo alle conseguenze di tali postulati, ovvero a concetti rivoluzionari quali l’equivalenza massa-energia che porta con sé la possibilità di trasformare la massa in energia. Infine l’analisi della quantità di moto porterà a una nuova definizione di quantità di moto, necessaria perché venga rispettato il principio di sua conservazione, e vedremo come la conservazione dell’energia relativistica e la conservazione della quantità di moro siano intimamente legati nella formulazione relativistica. Analizzeremo quindi la seconda e la terza legge della dinamica alla luce della dinamica relativistica. Il percorso di Einstein Se si va ad analizzare gli scritti di Einstein del 1905 si scopre che Einstein arrivò alla formulazione delle leggi della dinamica relativistica attraverso un processo abbastanza semplice da seguire, che richiede però un certo formalismo matematico. In particolare egli cominciò a studiare le leggi di trasformazioni dei campi E e B, e una volta nota l’espressione di tali campi in due sistemi di riferimento diversi studiò come variava l’equazione del moto di un elettrone passando da un sistema di riferimento all’altro. Quindi, analizzando il concetto di energia, arrivò a stabilire l’equivalenza tra energia e massa. Il percorso nostro Noi invece seguiremo un approccio leggermente diverso da quello di Einstein, un percorso che ha il vantaggio di richiedere un formalismo matematico più “basso” e che fa uso più di concetti fisici che di “formalismi matematici”. In particolare, attraverso un modellino di trasferimento di energia fra due punti materiali arriveremo a comprendere il concetto di energia a riposo e di massa. Quindi, cercando di estendere il concetto di quantità di moto, arriveremo a determinare la quantità di moto relativistica. Dopodiché applicheremo la II legge di Newton per ottenere la legge del moto in relatività. Quindi estenderemo questo studio a sistemi leggermente più complicati, cioè a sistemi composti da più punti materiali, in particolare cercando di determinare la III legge di Newton in Relatività, la cosiddetta conservazione della quantità di moto, e analizzeremo il principio di azione e reazione in Relatività, che andrà modificato profondamente. Infine arriveremo a determinare la legge di trasformazione delle forze da un sistema di riferimento a un altro mediante l’uso delle trasformazioni di Lorenyz. Tuttavia è utile seguire, seppur minimamente, il percorso fatto da Einstein per arrivare alle sue considerazioni sulla dinamica relativistica. 80 6.1. Dinamica relativistica: l’approccio di Einstein Punto di partenza sono le Equazioni di Maxwell-Hertz E B t B 0 0 E t ovvero B E z E y x z y t B E x Ez y z y t E y E x B z z y t E Bz By 0 0 x z y t E Bx Bz 0 0 y z y t By Bx E 0 0 z z y t Applichiamo alle equazioni di Maxwell-Hertz le trasformazioni di Lorentz: x' ( x ct ) ct ' (ct x) x' t ' x x' x t ' x x' c t ' Imponiamo che in un qualsiasi S’ la forma delle equazioni sia la stessa. Ricaviamo che tra i campi E e B in S e in S’ sussistono le seguenti relazioni: B' x Bx B' y B y E z c B' z Bz E y c E'x Ex E ' y E y cB z E ' z E z cB y Passando cioè da un sistema di riferimento a un altro, le componenti del campo elettrico sono influenzate da un campo magnetico e viceversa: ovvero, se in un sistema è presente solo un campo elettrico, quando il fenomeno viene analizzato in un altro sistema di riferimento è presente anche un campo magnetico. Dopodiché Einstein va ad analizzare la legge del moto, imponendo che l’espressione della forza (di Lorentz) abbia la medesima forma q E qv B in tutti i sistemi di riferimento. Utilizzando le formule trovate arriva alla formula per cui la forza è data dalla derivata rispetto al tempo del fattore relativistico γ moltiplicato per mv. d mv q E v B dt È come se il punto materiale, la carica in questo caso, si opponesse alla forza di Lorentz come se avesse una MASSA EFFICACE data da γm : 81 meff . A basse velocità m 1 2 Ad alte velocità 2 meff . m1 2 meff . Quindi Einstein calcola l’energia cinetica K acquistata da una carica sotto l’azione di un campo elettrico. Assume valido il teorema dell’energia cinetica (uno dei teoremi fondamentali della meccanica classica): supponendo quindi che la forza abbia l’espressione suddetta (derivata rispetto al tempo di γmv) qE dx x 1 d (mv ) d (mv) dx vdt mc 2 1 1mc 2 1 2 dt dt E poiché nel calcolo dell’integrale abbiamo assunto che la velocità iniziale fosse nulla l’espressione finale è quella dell’ENERGIA CINETICA, che vale dunque K 1mc 2 Questa formula è accettabile se nel limite non relativistico, cioè a basse velocità, ci 2 1 K mv 2 , si restituisce la legge classica; e in effetti, a basse velocità 1 2 2 ottiene cioè l’espressione classica. Quindi Einstein analizza la variazione di energia di un corpo quando emette luce, e cerca di confrontare le conclusioni a cui arrivano due osservatori, uno in S e uno in S’, concludendo che: 1. alla emissione di un’energia Δ corrisponde una variazione della massa Δ /c2 ; 2. la massa è una misura dell’energia posseduta da un corpo. The fact that the energy withdrawn from the body becomes energy of radiation evidently makes no difference, so that we are led to the more general conclusion that: “The mass of a body is a measure of its energy-content; if the energy changes by Δ, the mass changes in the same by Δ/c2. Quest’ultimo aspetto diventa invece il punto di partenza del nostro percorso per arrivare alla formulazione della dinamica relativistica. Cioè mostreremo come l’equivalenza massa-energia è già dentro le leggi dell’elettrodinamica che noi conosciamo. La cosa non deve stupire, perché noi sappiamo che le leggi dell’elettrodinamica sono corrette dal punto di vista della relatività, e quindi devono esserlo anche le loro conseguenze. Del resto, una delle conseguenze delle equazioni di Maxwell (la velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi inerziali) l’abbiamo proprio usata per “fondare” la relatività. 82 Un’altra conseguenza dell’elettromagnetismo “classico” è che un’onda elettromagnetica trasporta non solo energia ma anche quantità di moto e che il rapporto che c’è tra queste due quantità è proprio c, velocità della luce: l’impulso trasportato è uguale all’energia trasportata diviso c, p=U/c, dove questa energia può essere una energia totale trasportata o una intensità di energia trasportata (ovvero un’energia trasportata per unità di tempo e per unità di superficie). 6.2. Equivalenza di massa ed energia Il fenomeno che andiamo ad analizzare fu suggerito dallo stesso Einstein poco tempo dopo i suoi famosi articoli del 1905. Immaginiamo di avere una scatola M con due pareti (quelle nere) con una massa significativa e supponiamo di poter trascurare la massa laterale. La scatola sia lunga L e il centro di massa CM della scatola si trovi al centro geometrico della scatola. Immaginiamo che a un certo istante una delle due pareti emetta una certa quantità di energia: potrebbe essere un atomo in una situazione instabile che emette un fotone di energia δE: poiché l’onda emessa, nel trasportare energia, trasporta anche una quantità di moto data dalla relazione δp = δE/c ne consegue che la scatola deve acquistare esattamente quella quantità di moto che la luce sta portando via; dividendo tale quantità di moto per la massa M della scatola otterremo la velocità v con cui la scatola si muoverà verso sinistra. v p M E Mc dove M è la massa totale della scatola. Durante tutto il tempo di trasferimento dell’onda dalla parete sinistra alla parete destra avremo che la scatola si muove verso sinistra con quella velocità. Quando l’onda colpisce la parete destra della scatola, trasferisce alla scatola la quantità di moto che possedeva e la scatola ritorna ad essere in quiete. Il tempo durante il quale la scatola si sposta verso sinistra è il tempo che l’onda impiega ad attraversare la scatola. 83 In quel frangente la scatola (e dunque anche il suo centro di massa) si è spostato a E L x vt sinistra di una quantità Mc c In meccanica classica in un sistema isolato, in assenza cioè di forze esterne, il centro di massa rimane fermo. Qui invece il centro di massa (centro della scatola) si è spostato in assenza di forze esterne! i xCM L L E f xCM L 2 2 Mc 2 Se vogliamo riaffermare il principio di conservazione della quantità di moto, ovvero che il centro di massa non si sposta in assenza di forze esterne, dobbiamo concludere che il centro di massa non è più al centro della scatola, ovvero che la radiazione ha trasportato con sé da una parete all’altra non solo un’energia δE ma anche una massa δm. Dobbiamo quindi concludere che le due pareti nere non hanno più la stessa massa dato che l’onda elettromagnetica, nell’andare dalla parete sinistra alla parete destra, ha portato con sé anche una certa massa δm. 84 Calcoliamo δm in modo da imporre che il CM non si sposti e che rimanga nello stesso posto che aveva all’inizio. Assumiamo che la massa M sia tutta concentrata nelle due pareti e fissiamo il sistema d’assi come nella figura sotto: il centro di massa CM si deve trovare in L/2: m1 0 m1 L L m1 m1 2 m m x m1 m L x 2m1x m1 L mL 1 m1 m m1 m 2m1 i xCM f xCM f Se imponiamo che xCM L x E ricaviamo m 2m1 : questa è la massa 2 L c2 che è stata trasportata da una parete all’altra. Prima dell’emissione l’energia era immagazzinata nella parete di sinistra sotto forma di massa; parte di questa massa è stata emessa sotto forma di radiazione; quando la radiazione viene riassorbita dalla parete di destra viene immagazzinata di nuovo sotto forma di massa. Essa comunque scalda la parete non solo l’energia elettromagnetica ma qualsiasi forma di energia è equivalente a una massa attraverso la relazione: E mc 2 Perché questa cosa non era mai stata osservata prima? Proviamo a fare qualche calcolo. 85 Proiettile che perde energia in un urto anelastico Qual è la massa che acquista l’auto che perde la sua energia cinetica in seguito a un urto anelastico? 1 E 1 m 1 2 E mv 2 m 2 m 2 2 2 m 2 c Se supponiamo, come in figura, che v 80km / h m 1 2 2.7 1015 , m 2 una variazione per nulla apprezzabile, senza possibilità di essere rilevata. Reazioni chimiche Un’altra situazione in cui si ha trasferimento di energia sono le reazioni chimiche, che possono essere esotermiche o endotermiche Un esempio: l’idrogeno e l’ossigeno si uniscono a formare l’acqua in una reazione esotermica. Stechiometricamente, due moli di idrogeno e una mole di ossigeno danno origine a due moli di acqua e a una certa quantità di energia: 2 H 2 O2 2 H 2O 5.75 105 Joule Calcoliamo il difetto di massa, dividendo l’energia H ottenuta dalla reazione per c2: m H m 6.35 1012 kg 2 1010 2 m c : la variazione percentuale di massa è troppo piccola per essere misurata in questa tipologia di fenomeni. La situazione risulta invece completamente diversa se andiamo ad analizzare le reazioni nucleari. 86 Reazioni nucleari – fusione Consideriamo il fenomeno di fusione nucleare in cui un nucleo di deuterio e uno di trizio si fondono a formare un nucleo di elio, liberando energia: D T 4 He n E Se andiamo a considerare le masse dei quattro costituenti mD 2.014102au mHe 4.002602au mT 3.016049au mn 1.008655au e andiamo quindi a calcolare il difetto di massa m 0.018916au m 0.018884au 1.66 10 27 kg 3.140 10 29 Kg E m c 2 17.6MeV . au La figura sopra ci mostra che, di questi 17.6 MeV che si ottengono da ogni singola fusione, 14.1 MeV se li prende il neutrone e gli altri 3.5 MeV se li prende l’atomo di elio. Tale quantità, non particolarmente significativa se consideriamo una singola fusione, diventa considerevole a livello macroscopico se andiamo a considera una mole di deuterio e una mole di trizio: E m c 2 17.6MeV 1.7 1012 J / mole … un’energia spaventosa! Quesito: l’energia cinetica classica - è sempre minore di quella relativistica - è sempre maggiore di quella relativistica - può essere minore o maggiore di quella relativistica, dipende dalla velocità. [La risposta esatta è la prima delle tre] 87 6.3. L’energia, l’impulso e la legge del moto in relatività Energia ed energia cinetica in Relatività Abbiamo visto che è E mc per una massa ferma. Nel tentativo di riscrivere le leggi della dinamica, l’obiettivo è quello di salvare al massimo le leggi della meccanica classica. 2 In fisica classica p pc 2 2 p mv m E mc v v espressione che non contiene la massa e che quindi ci aspettiamo di (dover) mantenere valida per una massa in quiete, una massa in moto e per la luce. Anche l’equazione del moto di Newton, nota come F = ma, la riscriveremo come dp F , che è poi il modo originale con cui fu scritta da Newton. dt Con tale espressione, calcoliamo la nuova espressione del teorema dell’energia (il lavoro è pari alla variazione di energia) continuando a ritenerlo valido: dp dE Fdx Fvdt vdt vdp Se moltiplichiamo a destra e a sinistra per dt pc 2 vdp pc 2 dp , ossia l’energia E espressa come sopra otteniamo EdE v un’espressione che contiene come uniche variabili l’energia E a sinistra e la quantità di moto p a destra. Integrando: E p c COST p c E0 La costante COST sarà l’energia che il corpo possiede quando la sua quantità di moto è nulla, energia che sappiamo valere mc2. Dunque: 2 2 2 2 2 2 energia di una massa m in moto con quantità di moto p E 2 p 2 c 2 E02 p 2 c 2 mc 2 2 A questo punto trasformiamo l’espressione che contiene p in una che contiene la velocità attraverso la relazione E pc 2 Ev p 2 , per cui la relazione sopra diventa v c energia di una massa m in moto con velocità v E 2v 2 mc 2 2 2 E 2 mc E mc 2 c 1 2 2 88 E siccome l’energia cinetica è l’energia in più che un corpo possiede rispetto a quando è in quiete: energia cinetica di una massa m in moto con velocità v 1 2 EK E E0 mc mc 1mc 1mc 1 2 2 2 2 Nel limite classico di basse velocità: per cui l’energia cinetica diventa E K 1 1 2 1 2 2 1 2 2 2 1 mc 2 mv 2 , espressione classica. 2 2 A questo punto non ci resta che calcolare la quantità di moto relativistica Ev mc 2 v p 2 mv c c2 La definizione della quantità di moto pertanto va modificata. Nel limite non relativistico è γ = 1 si ritrova la definizione classica L’equivalenza massa-energia porta dunque delle modifiche alle leggi classiche, in particolare le porta alla legge del moto, “La II legge di Newton” dp F F ma Per Newton era dt Per Einstein diventa F dp dv m ma dt dt Vediamo due esempi di applicazione della legge del moto così modificata. Equazione del moto: forza costante dp X dt se la forza Fx è costante si può integrare facilmente FX dt dpX FX t p X p0 FX 89 se poi assumiamo che il punto materiale sia partito da fermo, per cui p0 0 , allora la mv legge diventa FX t ed elevando ed esplicitando la velocità otteniamo v2 1 2 c FX t m v 2 da cui ricaviamo, a basse velocità per cui la radice al denominatore FX t 1 mc FX t può essere trascurata la formula classica v . m Mettendo invece in evidenza sopra e sotto il fattore costituito dalla parentesi tonda si ottiene FX t c m v 2 2 FX t mc 1 1 F t mc X Si osserva che, a tempi lunghi, la parentesi tonda tende a zero e v c Nel grafico sotto si vede come varia la velocità al variare del tempo. Equazione del moto: moto in campo magnetico uniforme La forza di Lorentz è data dall’espressione F qv B F v dp p0 dt Conseguenza di ciò è che il modulo del vettore p non varia. Infatti, poiché il modulo quadro di un vettore è il prodotto scalare del vettore per sé stesso, la sua derivata dp 2 dp p p p 2p dt dt 2 è il (doppio del) prodotto scalare del vettore p per la sua derivata. E poiché tale prodotto (vedi riga sopra) è nullo ne deduciamo che p 2 p p 2 m 2 v 2 COST 90 Come in meccanica classica, in presenza di forza di Lorentz la velocità è in modulo costante, cambia solo la direzione della velocità. Qual è il moto che si verifica in questo caso? La traiettoria, almeno localmente, è approssimabile con una circonferenza, e lo spazio percorso è s R vt R vt Qual è la relazione tra Δθ e Δp? Il modulo di p è costante per cui (la figura è un triangolo isoscele) p 2 p sin F p p 2 p dp p p Ft qBvt vt dt qB Sostituendo queste due relazioni nella formula del raggio sopra si ottiene p vt qB p mv R p qB qB p R mv qB … che è la formula classica del RAGGIO DELL’ORBITA, non fosse che la quantità di moto contiene adesso il fattore γ. Ma quello che si conserva è che il raggio di curvatura è costante, dato che quantità di moto non varia, il moto è un moto circolare uniforme. 91 Teorema del lavoro in relatività 2 2 Il punto di partenza è l’espressione relativistica dell’energia: E p c mc : il primo termine è il termine associato alla velocità, il secondo termine è quello associato alla massa. Derivando a destra e a sinistra rispetto al tempo (e dividendo per 2) otteniamo: 2 2 2 dE dp dE c 2 p 2 E c p F , espressione che possiamo esprimere dt dt dt E attraverso il prodotto scalare dei vettori p e F. c 2 p c 2mv dE v F v da cui, moltiplicando a destra e a Essendo E dt mc 2 sinistra per dt, si ottiene l’espressione classica dE F ds Il lavoro è pari alla variazione di energia. In realtà possiamo essere più precisi: E mc 2 mc 2 1mc 2 il primo addendo è l’energia a riposo (e non varia) il secondo è l’energia cinetica: Il lavoro è pari alla variazione di energia cinetica. Esattamente come in meccanica classica. 6.4. Conservazione dell’energia in urti elastici e anelastici Urto elastico tra due masse Un “urto elastico” è, per definizione, un urto in cui l’energia cinetica si conserva. Scriviamo l’energia relativistica completa prima dell’urto e dopo l’urto. ma c 2 K ia mb c 2 K ib ma c 2 K af mb c 2 K bf i Se definiamo la massa totale del sistema M tot ma mb siamo però costretti a f introdurre anche una massa totale finale M tot ma ' mb ' perché non è detto che la massa si conservi. Definiamo l’energia cinetica totale del sistema K i K i K i per cui la relazione a sopra si può scrivere come M tot c K i M tot c K f i 2 f 92 2 b Se l’urto è elastico l’energia cinetica totale si conserva Ki K f M i M f dunque anche la massa totale del sistema si conserva, esattamente come avviene in meccanica classica Urto anelastico tra due masse i M tot c 2 K i M totf c 2 K f Anelastico significa che l’energia cinetica in tutto o in parte non si conserva, ma l’energia totale relativistica si conserva, per cui Ki K f M i M f Se non si conserva l’energia cinetica significa che parte dell’energia si trasforma in massa, secondo la relazione M K c2 6.5. Legge di conservazione della quantità di moto La legge di conservazione della quantità di moto dice che “in un sistema isolato la quantità di moto è costante”. Sappiamo che è valida in un sistema di riferimento inerziale e che è valida in tutti i sistemi inerziali. Ma perché abbia dignità di legge fisica generale bisogna che valga anche in relatività. Intanto: che cosa succede in meccanica classica? Classicamente si utilizzano le trasformazioni di Galileo, e utilizzando le trasformazioni di Galileo cerchiamo la relazione tra la quantità di moto calcolata in S e la quantità di moto calcolata in S’. Per la quantità di moto utilizziamo l’espressione classica p = mv. Calcoliamo la quantità di moto totale iniziale in S’: Qi ' ma va 'mb vb ' ma va vS ' mb vb vS ' Qi ma mb vS ' La differenza tra le quantità di moto calcolate nei due sistemi è data dal termine ma mb vS ' 93 Calcoliamo la quantità di moto totale finale in S’, e facciamolo riferendoci alle velocità finali u a e ub nei due sistemi di riferimento: Q f ' ma u a vS ' mb ub vS ' Q f ma mb vS ' Q Q Q ' Q La differenza è la medesima, per cui, se i f allora anche i f '. Ovvero: se la conservazione della quantità di moto vale in S allora vale anche in S’. La legge di conservazione della quantità di moto è compatibile con le trasformazioni di Lorentz? Ovvero: la legge della conservazione della quantità di moto, così come formulata classicamente, ha dignità di legge fisica? Consideriamo un caso particolare, ovvero quello di un urto anelastico tra due masse. Nel sistema S ma va mbvb Qi La conservazione della quantità impone Qi Q f . ma u a mbub Q f Se la verifichiamo in un sistema di riferimento non è ancora una legge fisica, è semplicemente un’osservazione. Perché diventi legge fisica occorre che sia vera in ogni altro sistema di riferimento inerziale: accade dunque anche in S’ che Qi ' Q f ' ? Consideriamo un caso molto particolare, il caso in cui Qtot = 0, e supponiamo che le due masse siano uguali e che le velocità dunque, uguali e contrarie, siano inclinate allo vb v,v allora la velocità finale di entrambe, dopo l’urto completamente anelastico, è u 0,0 . stesso modo rispetto all’asse orizzontale: se ma mb 94 va v, v Supponiamo che la legge della conservazione della quantità di moto sia verificata in S, e che dunque sia Qi Q f 0 . Supponiamo, a ulteriore semplificazione, che la velocità di S’ rispetto a S sia quella indicata nella figura in alto, ovvero che vS ' v vax . Attraverso la legge di composizione delle velocità dedotta dalle trasformazioni di Lorentz determiniamo le quattro componenti della velocità delle due particelle rispetto al sistema S’: vax v 0 1 2 v v 2v v'bx bx 2 1 1 2 v v 1 2 vay v v'by 2 1 1 2 v'ax v'ay Con la definizione classica di Q otteniamo che la quantità di moto iniziale (basta moltiplicare per m le componenti appena trovate) è 2v v 1 2 Q' in m ; m v m 2 mv ; 2 2 1 2 1 2 1 1 Facciamo lo stesso per la velocità finale: tenendo conto che è u0,0 otteniamo u ' v,0 e troviamo che la quantità di moto finale è: Q ' f 2mv 1;0 Una rapida occhiata mostra che queste due quantità non sono uguali, Q ' f Q 'in , ovvero che la legge di conservazione della quantità di moto (con la definizione classica di quantità di moto), valida in S, non è più valida in S’. Con la definizione classica di quantità di moto la legge di conservazione della quantità di moto non è covariante per trasformazioni di Lorentz Se invece usiamo le trasformazioni di Lorentz con la definizione relativistica di Q p Ev mv c2 la legge di conservazione della quantità di moto continua a valere. Dimostrazione. Per la massa a valgono le seguenti leggi della velocità: v' ax 0 v ' ay v v 1 2 Adesso però ci serve il fattore gamma: 'a 1 1 a2 1 1 v' 2a c2 1 1 2 2 95 1 1 2 2 Per la massa b valgono le seguenti leggi della velocità v'bx 'b vbx v 2v 2 1 1 2 1 1 b2 1 v' b2 1 2 c v'by v ay 1 ........ 2 1 2 v 1 2 1 2 2 La quantità di moto iniziale calcolata in S’ è 2 'b 'b 2v v Q'in 'b m ; ' m v ' m mv ; ' a b a 1 2 1 2 1 2 1 2 2 1 2 v 2mv mv ; ; 0 2 2 2 1 2 2 1 2 1 2 1 2 1 2 Calcoliamo la quantità di moto finale in S’: Q' f m f v 1;0 da confrontare con la precedente. La quantità di moto (che nella direzione y si è certamente conservata, è sempre zero) si conserva anche nella direzione x se imponiamo che la massa finale sia: mf 2m 1 2 2 Questa ipotesi non è così balzana, dato che già sappiamo che una parte dell’energia cinetica dev’essersi trasformata in massa. Ma chi ci assicura che è così e che questa posizione sia coerente? La conservazione dell’energia in S’ imporrebbe che ' a mc 2 'b mc 2 ' f m f c 2 ' a ' b 1 / 2 1 2 2m mf m m 'm 1 2 2 1 2 2 troviamo cioè che la massa finale che deve avere il corpo uscito dall’urto anelastico perché si conservi l’energia totale deve avere la stessa espressione che deve avere perché sia valida la conservazione della quantità di moto. Chiediamoci ora: che cosa vede un osservatore in S? La conservazione dell’energia in S imporrebbe che dato che a b a mc 2 b mc 2 f m f c 2 96 1 1 2 2 e che f 1 a b 2m m che è esattamente l’espressione che abbiamo trovato f 1 2 2 in S’ sia per imporre la conservazione della quantità di moto (in S’), sia per imporre la conservazione dell’energia (sempre in S’). Concludiamo così che la legge di conservazione della quantità di moto (con la nuova definizione (relativistica) di quantità di moto) è valida in tutti i sistemi di riferimento inerziali, cioè è covariante per trasformazioni di Lorentz. mf 6.5. La legge di trasformazione delle forze La legge di azione e reazione L’applicazione della legge del moto alla conservazione della quantità di moto per un sistema di due punti materiali implica che: Q q1 q2 COST dq1 dq2 0 F1 F2 dt dt Ad ogni azione corrisponde una azione eguale e contraria ed entrambe hanno la stessa linea di azione. Ma sono vere entrambe le parti di questa affermazione? È facile vedere con un paio di esempi che questa formulazione non è coerente con la relatività ristretta, né nella prima parte né nella seconda parte. Primo esempio: Supponiamo di avere all’istante t due forze uguali e contrarie, applicate in P1 e P2 distanti D, ma che il punto 2 sia in moto, con velocità, ad esempio, diretta secondo l’asse x, come indicato dal vettore v in figura. Che succede all’istante t+Δt? P1 si accorge che P2 si è mosso dopo un tempo pari a t ' D c P2 si accorge immediatamente che la sua distanza da P1 è cambiata F1 F2 97 Secondo esempio: Supponiamo di avere all’istante t due forze uguali e contrarie, applicate in P1 e P2 distanti D, ma che il punto 2 sia in moto, con velocità, ad esempio, diretta secondo l’asse y, come indicato dal vettore v in figura sotto. Che succede all’istante t+Δt? P1 si accorge che P2 si è mosso dopo un certo intervallo e la direzione della forza che agisce su P1 non cambia in questo intervallo. P2 invece si accorge immediatamente che la direzione che indica P1 è cambiata: Azione e reazione non giacciono sulla stessa retta di azione. Il principio di conservazione del momento della quantità di moto è violato. Vi è tuttavia un altro modo di analizzare il problema. Considero in S i due eventi: misura al tempo t di F1 in x1 e misura al tempo t di F2 in x2. I due eventi sono contemporanei. Che cosa accade in S’? In S’ – poiché le due misure avvengono in posizioni diverse – l’eguaglianza tra le forze vale in tempi diversi. La legge di azione e reazione nella sua formulazione classica non è covariante per trasformazioni di Lorentz. In relatività la legge di azione e reazione non è valida nella sua accezione classica; in particolare il concetto di interazione a distanza non è compatibile con la relatività. 98 In relatività i segnali non possono propagarsi a una velocità superiore a quella della luce, per cui il concetto di azione e reazione, che prevede l’azione istantanea a distanza, perde di significato in relatività. La conservazione della quantità di moto in un urto limitata alle particelle che interagiscono nell’urto vale tra prima e dopo l’urto (quando sostanzialmente le particelle non interagivano ancora e quando non interagiscono più tra di loro) ma non durante l’urto. Durante l’interazione occorre aggiungere un altro termine, una quantità di moto associata all’interazione. Se, per esempio, la forza che interagisce tra punti materiali (due cariche) è la forza elettrica, sappiamo che il campo elettromagnetico trasporta energia e impulso e quindi contribuisce alla conservazione dell’energia e dell’impulso in ogni istante dell’interazione. Solo aggiungendo questo ulteriore termine la legge della conservazione della quantità di moto vale in ogni istante. Per averne una formulazione che valga in ogni istante occorre aggiungere un altro elemento alla interazione tra i due punti materiali: il campo della interazione che media l’interazione tra i due punti. Veniamo all’ultimo punto di questa lezione, ultimo aspetto della dinamica relativistica ovvero la legge della trasformazione delle forze. Abbiamo visto la legge di trasformazione delle coordinate spazio-temporali, delle velocità, della quantità di moto. Trasformazione delle forze Dal punto di vista classico, noi sappiamo che la forza è un invariante per trasformazioni di Galileo: la forza, misurata da qualsiasi sistema di riferimento inerziale, ha sempre lo stesso valore. E in meccanica relativistica? In meccanica relativistica per chi sta in S per chi sta in S’ dp dt dp' F' dt F Poiché sappiamo come sono collegati tra di loro p e p’ e t e t’ possiamo determinare anche il legame tra F e F’. 99 La quantità di moto relativistica è p mv . Ma dobbiamo fare attenzione perché avremo tre gamma diversi: uno è il gamma della trasformazione, che dipende dalla velocità con cui un sistema si muove rispetto all’altro. E sarà 1 1 Il gamma della particella studiata nel sistema di riferimento S: Il gamma della particella studiata nel sistema di riferimento S’: ' 2 1 1 2 1 1 '2 Scriviamo le tre coordinate della velocità nel sistema S’ a partire dalle medesime componenti nel sistema S. Quindi moltiplicheremo tali componenti per mγ’ per trovare le componenti della quantità di moto nel sistema S’ v x v v v p ' x m ' v' x m ' x v v v v 1 x 2 1 x 2 c c vy vy 1 1 v' y p ' y m ' v' y m ' v v v v 1 x 2 1 x 2 c c vz vz 1 1 v' z p ' z m ' v' z m ' v z v vv 1 2 1 z 2 c c v' x Prendiamo la prima di queste tre relazioni: p' x m ' v' x m ' v x v vv 1 x 2 c c2 E v x 2 v p x 2 v m ' ' c c … v v v x x v 1 2 1 2 c c Ci chiediamo: c’è una qualche relazione tra γ’ e γ? ' v v 1 x 2 , per cui l’espressione sopra Sì: si dimostra (vedi sotto) che c diventa ' 1 E E p x 2 v p x 2 v … v x v c c 1 c2 Dimostriamo la seguente relazione: ' v v 1 x 2 c 100 2 v 1 x2 ' c v x '2 1 2 c 2 v 1 x2 c 1 v x v 1 2 v x v c 1 2 c 2 v 1 x2 v v c 1 x 2 2 2 c v x v 1 2 1 2 2 v x v c c 2 v 1 x2 v v c 1 x 2 2 c v x v 1 2 1 2 2 v x v c c 2 v 1 x2 v v c 1 x 2 2 2 2 c v x v v x v vx v x v v 1 2 2 2 2 2 2 2 c c c c c 2 v 1 x2 v v c 1 x 2 2 c v x v 2 1 1 2 c c2 ' v v 1 x 2 c Il risultato, dimostrato nel caso di velocità della particella diretta lungo l’asse x, è valido in generale. E p x ' p x 2 v è la legge di trasformazione della quantità di moto dal c sistema S al sistema S’: si noti che compare anche l’energia nel sistema S. Calcoliamo ora la forza: d E p x 2 v dpx v2 dE dp ' dp ' dt' dt c dt c dt Fx ' x x v dx dt' dt dt v dx 1 2 1 2 c dt c dt dove, per calcolare il denominatore, si è usata la formula di Lorentz che lega t e t’ Fx ' v F v c2 v v 1 2 x c Fx (dE/dt = F ∙ v) La misura di una forza in un sistema di riferimento è determinata anche dalla potenza che la forza stessa eroga in un altro sistema. 101 In meccanica classica la FORZA ha due aspetti: - è una misura della variazione dell’impulso con il tempo - è una misura della variazione dell’energia con lo spazio In relatività questi due aspetti si fondono in un unicum. p y ' m ' v y ' m ' vy mv y p y v x v 1 2 c 1 dove si è usata la solita relazione ' v v 1 x 2 c da cui, derivando rispetto al tempo t’, otteniamo Fy ' dp y ' dt' dp y dt dt' dt Fy 1 v x v c2 Idem per la componente z: p z ' m ' v z ' m ' vz mv z p z v x v 1 2 c 1 da cui, derivando rispetto al tempo t’, otteniamo Fz ' dpz ' dpz dt' dt dt' dt Fz vv 1 x 2 c Riassumendo: la LEGGE DI TRASFORMAZIONE DELLE FORZE è v F v 2 c Fx ' v v 1 2 x c Fy 1 Fy ' v v 1 2 x c F 1 z Fz ' v v 1 2 x c Fx Fx ' Fx Fy Fy ' Se v = 0 (punto di applicazione fermo in S) Fz ' 102 Fz 6.6. Test ed esercizi Un protone (Mp = 0,938 GeV/c2) di velocità iniziale v=0,5c si muove in un campo magnetico B = 1,20 T uniforme e perpendicolare alla velocità; il raggio R dell’orbita risultante è: a. R = 1,13 m b. R = 0,451 m c. R = 1,30 m d. R = 1,80 m e. R = 1,50 m [La risposta corretta è la e. La formula è R= γ mv/qB.] Una particella di massa a riposo m viene accelerata fino a raddoppiare la sua energia; la velocità v della particella sarà: a. v = 0,500 c b. v = 0,707 c c. v = 0,333 c d. v = 0,866 c e. v = 0,577 c [La risposta corretta è la d. La formula da usare E=2E0 γmc2=2mc2 γ = 2] Una particella di massa m1 in moto lungo l’asse x con velocità v1 urta una seconda particella di massa m2 in moto anch’essa lungo l’asse x con velocità v2<v1; a seguito dell’urto si forma un’unica particella di massa M pari a: a. M m1m2 m1 m2 vv m12 m12 2m1m2 1 2 1 1 22 c c. M 1m1 2 m2 b. M d. M e. M m1 m2 2 2m1m2 1 2 1 v1v22 1m1v1 2 m2 v2 c c (errata) [La risposta esatta è la c. La risposta è dedotta dalla conservazione dell’energia totale, osservando che il gamma finale, nel sistema della M, è 1] Una particella di massa M decade in due particelle di massa a riposo m1 = 1,0 GeV/c 2 e m2 = 2,0 GeV/c2 le cui quantità di moto valgono +4,0 GeV/c e +3,0 GeV/c. La massa M è pari a: a. M = 3,50 GeV/c2 b. M = 3,28 GeV/c2 c. M = 1,43 GeV/c2 d. M = 4,93 GeV/c2 e. M = 3,05 GeV/c2 [La risposta corretta è la b.] 103 Il testo dell’esercizio presenta delle ambiguità perché non è chiara la direzione delle partcelle “figlie”. Il quadrimpulso p2 (ovvero l’invariante dinamico) si conserva: Ef2 – pf2c2 = Ei2 – pi2c2 (E1f+E2f)2 – (pf1 + pf2)2c2 = Ei2 – pi2c2 2 4 2 4 2 m1 c +m2 c +2(E1fE2f – p1 ∙ p2 c ) = M2c4 E poi? Possiamo riscrivere la conservazione dell’impulso: pM = p1+ p2 come pM – p1 = p2 o anche come pM – p2 = p1 elevando al quadrato a destra e sinistra (scalare per sé stesso) otteniamo pM2 – 2 pM ∙ p1 + p12 = p22 pM2 – 2 pM ∙ p2 + p22 = p12 e utilizzando la medesima formula del quadrimpulso vista sopra M2c4 +m12 c4 +2(EME1 – pM ∙ p1 c4) = m22c4 M2c4 +m22 c4 +2(EME2 – pM ∙ p2 c4) = m12c4 Se supponiamo la particella “madre” inizialmente ferma: pM = 0 e EM =Mc2 M2c4 +m12 c4 +2Mc2 E1 = m22c4 M2c4 +m22 c4 +2Mc2 E2 = m12c4 2 2 2 2 M +2(E1/c )M + m1 – m2 = 0 M2 + 2(E2/c2)M + m22 – m12 = 0 Si può infine ricavare M… nel sistema di M. Ovviamente da queste formule si ricavano E1 ed E2. Ma pM = 0 comporterebbe p1 = – p2 … e non è il nostro caso! Senonché, a una richiesta di delucidazione… la risposta del tutor è stata la seguente: Caro Carlo, capisco perfettamente la natura del tuo dubbio. Se ci fossimo riferiti solo al modulo del momento avremmo omesso il segno +, essendo il modulo per definizione positivo, perciò si intendeva che entrambe le particelle si muovono collinearmente e con lo stesso verso. In sostanza p= (p1x,0,0) e (p2x,0,0). Concordo comunque sull'ambiguità del testo, perciò provvederemo a riscriverlo chiarificando questo punto. Un caro saluto Danilo Allora è tutto facile: dai dati possiamo ricavare γ1v1 e γ2v2 e quindi γ1, v1, γ2 , v2. La conservazione dell’energia offre: γMMc2=γ1m1c2+γ2m2c2 cioè γMM=γ1m1+γ2m2 mentre la conservazione della quantità di moto offre : γMMvM=γ1m1v1+γ2m2 v2. I due termini di destra sono noti Dal quoziente delle due espressioni si ricava vM, da cui γM, da cui finalmente M. In una ripetizione dell’esperimento di Cockcroft and Walton del 1932 (grazie ai protoni accelerati dal generatore Cockcroft-Walton, fu eseguita la prima disintegrazione nucleare artificiale della storia), si osserva che bombardano 7Li con protoni da 100 keV si producono due particelle α di energia cinetica complessiva finale pari a 14.3 MeV. Sapendo che le masse a riposo del protone e della particella α sono rispettivamente mp = 1,0073 a.u. e mα = 4,0026 a.u., la massa a riposo del 7Li è: a. M = 7,0152 a.u. b. M = 7,0000 a.u. c. M = 7,0131 a.u. d. M= 6,9979 a.u. e. M= 7,0075 a.u. [La formula da usare è Ep +MLic2=2m α c2+Ktot da cui MLi=(2mα c2 + Ktot – Ep )/c2. 104 Conviene convertire tutta l’energia in a.u. utilizzando il fattore di conversione 1eV=1,074*10 – 9 a.u. (sottinteso: “per c2”): così facendo si ottiene la risposta d. (che però è errata, porca puttana!). Se si ipotizza invece che l’energia del protone data dal testo sia solo quella cinetica, per cui bisogna calcolare anche l’energia a riposo del protone e aggiungerla all’ammontare iniziale, allora viene 7,0131 a.u., cioè la risposta c.] Una particella di massa a riposo m1=1,67⋅10−27Kg si muove con velocità v = 0,8 c urta contro una particella di massa a riposo m2=1,99⋅10−26Kg inizialmente ferma; dall’urto fuoriesce una unica particella la cui velocità vf è: a. vf=5,89⋅10−2 c b. vf=1,30⋅10−1 c c. vf=6,04⋅10−1 c d. vf=9,82⋅10−2 c e. vf=1,03⋅10−1 c [La risposta corretta è la a. Si impone la conservazione della quantità di moto e la conservazione dell’energia; dal quoziente delle due si ricava la vf.] Nel decadimento radioattivo 226Ra→222Rn+α la massima energia cinetica Emax dei prodotti di reazione è: (MRa = 226.02536 a.u.; MRn = 222.01753 a.u.; Ma = 4.00260 a.u.) a. Emax = 7,81 MeV b. Emax = 2,43 MeV c. Emax = 4,88 MeV d. Emax = 0,980 MeV e. Emax = 12,5 MeV [La risposta è la c. L’energia cinetica massima è l’energia della particella “madre” (che va pensata a riposo, anche se il testo non lo dice) diminuita dell’energia a riposo delle “figlie”. 1eV=1,074 10–9 a.u. c2]. Una particella di massa m = 1,99 10−26 Kg ha quantità di moto pari a 3,00 GeV/c. La velocità della particella vm è: a. vm = 0,259 c b. vm = 0,243 c c. vm = 0,250 c d. vm = 0,268 c e. vm = 0,0268 c [La risposta corretta è la a. Da p/m si ricava γv e quindi si esplicita v]. In S la forza F agente su una particella è diretta lungo l’asse delle y; per quale valore della velocità vp della particella la componente y della forza ha lo stesso valore nel sistema S’ in moto lungo x con velocità relativa pari a u = 0,80c? a. vp = 0,50 c b. vp = 0,32 c c. vp = 0,75 c d. vp = 0,40 c e. vp = 0,80 c [La risposta corretta è la a. Dalle formule di trasformazione per le forze basta imporre l’uguaglianza di Fy e F’y: l’incognita è vx. Il testo del problema non lo dice ma il vp della particella è vx.] 105 In un recente test della relazione E = mc2 basato sulla cattura di un neutrone da parte di un nucleo di Si e conseguente emissione di un fotone γ secondo la reazione: n+32S→33S+γ il fotone emesso ha una lunghezza d’onda λ=2,29⋅10−13m. Il difetto di massa δm della reazione è: a. δm=3,65⋅10−2 a.u. b. δm=5,81⋅10−3 a.u. c. δm=1,53⋅10−3 a.u. d. δm=3,62⋅10−3 a.u. e. δm=9,24⋅10−4 a.u. [La risposta esatta è la b. δm⋅c = energia del fotone = hf =h⋅c/λ da cui δm = h⋅/cλ Ricordare che 1 kg = 6.02⋅1026 a.u.] 2 Due particelle in moto lungo l’asse x di massa m=100 MeV/c2 con energia E1= 400 MeV e E2=600 MeV e velocità concorde danno luogo in un urto centrale ad un’unica particella finale. Si determini la massa a riposo della particella finale. a. M = 200 MeV b. M = 204 MeV c. M = 267 MeV d. M = 250 MeV e. M = 817 MeV [Test della verifica finale. La particella 2 insegue la particella 1 fino ad attaccarvisi. Dalla conservazione dell’energia: dopo l’urto Etot=1000MeV=γfM=γ1m1+ γ2m2=…= m(γ1+γ2). dalla conservazione della quantità di moto: γfMvf=γ1m1v1+γ2m2v2=…= m(γ1v1+γ2v2). dal quoziente delle due: vf=(γ1v1+γ2v2)/(γ1+γ2) e dal γf si risale a M=Etot/γf . 1 Si osservi che vi c 1 2 i vi c i2 1 e che in questo caso γ1+γ2=10. La risposta esatta è la b.] i Un mesone π0 di massa a 135 MeV/c2 ed energia cinetica Ek=1,0 GeV decade emettendo due fotoni gamma nella direzione del proprio moto. Le energie dei due fotoni sono: a. E1 = 1,13 103 MeV; E2 = 4,03 MeV b. E1 = 412 MeV; E2 = 11,0 MeV c. E1 = 1,27 103 MeV; E2 = 3,60 MeV d. E1 = 860 MeV; E2 = 5,30 MeV e. E1 = 567 MeV; E2 = 567 MeV [L’energia totale del mesone è la somma di energia cinetica e di energia a riposo, ovvero E = 1135MeV/c2. Due sole risposte sono compatibili con i dati, la prima e l’ultima. Se fosse la e. i fotoni dovrebbero viaggiare dalla stessa parte (altrimenti la quantità di moto finale sarebbe nulla, violando il principio della conservazione della quantità di moto. Dunque la risposta corretta è la a., come conferma il calcolo delle quantità di moto: viaggiando in direzioni opposte la differenza delle quantità di moto finali deve eguagliare la quantità di moto iniziale.] 106 Cap. 7: elettromagnetismo e relatività ristretta Vedremo come sia possibile attraverso le trasformazioni di Lorentz costruire le leggi di trasformazioni del campo elettrico e magnetico nel passaggio da un sistema di riferimento a un altro sistema di riferimento e come la classificazione dei fenomeni in elettrici o magnetici dipenda dal sistema di riferimento scelto. Questi gli argomenti del capitolo: 1. Equazioni di Maxwell e loro non invarianza per trasformazioni di Galileo 2. La conservazione della carica 3. Le trasformazioni della densità di carica e di corrente 4. Filo percorso da corrente: campo elettrico e magnetico generati in diversi sistemi di riferimento. 5. Le trasformazioni del campo elettrico e magnetico: cinque esempi 7.1. Equazioni di Maxwell e loro NON INVARIANZA per trasformazioni di Galileo Abbiamo già visto nelle lezioni precedenti che le equazioni di Maxwell non sono invarianti per trasformazioni di Galileo. In particolare lo possiamo vedere nei due esempi seguenti: 1) se consideriamo la forza di Lorentz, compare la velocità, e sappiamo che la velocità dipende dal sistema di riferimento, quindi la forza di Lorentz non è invariante per trasformazioni di Galileo, laddove invece la forza dovrebbe essere invariante per trasformazioni di Galileo; 2) l’altro esempio che possiamo analizzare è quello della forza elettromotrice indotta: possiamo immaginare un circuito in moto, la sua velocità (e quindi la velocità di variazione del flusso di B) dipende dal sistema di riferimento e dunque la forza elettromotrice dipende dal sistema di riferimento. F = q(E+v x B) Carica in moto con velocità v in campo magnetico La forza non è invariante per trasformazioni di Galileo find= – ΔΦ(B)/Δt Circuito in moto con velocità v in campo magnetico La forza elettromotrice indotta non è invariante per trasformazioni di Galileo 107 Anche la forza che due cariche si scambiano non è invariante per trasformazioni di Galileo se misurata in due sistemi di riferimento distinti. Siano q1 e q2, sull’asse y’ del sistema S’, ferme nel sistema S’; in S’ esse si attirano con la forza di Coulomb: 1 q1q 2 F 4 0 r 2 Se S’ si muove con velocità v rispetto a S, allora anche le cariche sono in moto rispetto a S con la stessa velocità v lungo l’asse x. In S le cariche in moto costituiscono una corrente e generano un campo B attorno a loro e “sentono” ciascuna il campo magnetico generato dall’altra “corrente” e quindi sentono una forza di Lorentz che si aggiunge alla forza di Coulomb. Se la direzione del moto non è ortogonale alla congiungente le forze di Lorentz formano una coppia che tende a far ruotare le cariche la risultante delle forze è lungo la congiungente in S’ ma non lo è in S: ma le trasformazioni di Galileo non modificano la direzione della forza !!! Ma veniamo alle equazioni di Maxwell vere e proprie: le equazioni di Maxwell non sono invarianti per trasformazioni di Galileo Che le equazioni di Maxwell non siano invarianti per trasformazioni di Galileo lo si può vedere analizzando le equazioni stesse. La quarta equazione di Maxwell, ad esempio, che si scrive come E B 0 j 0 0 t ovvero, in forma scalare, come B dl i 0 conc 0 0 E 0 iconc 0 i spost t vede comparire il termine densità di corrente j = ρv, cioè di nuovo vediamo comparire la velocità, che dipende dal sistema di riferimento. Le sorgenti del campo magnetico non sono invarianti per trasformazioni di Galileo. 108 Fu proprio questa tipologia di difficoltà e portare all’elaborazione delle trasformazioni di Lorentz, che, nate per cercare qual era la possibile relazione tra due sistemi di riferimento per i quali continuassero a valere le equazioni di Maxwell portarono a una serie di formule che coinvolgevano non solo le coordinate spaziali ma anche quelle temporali. Ripercorriamone la storia. Trasformazioni di Lorentz Il primo tentativo di formulazione risale al 1887 W. Voigt. La prima formulazione corretta e completa è dovuta a J. Larmor nel 1897, due anni prima di Lorentz. H. A. Lorentz pubblica la sua versione finale nel 1904. Henri Poincarè le battezza come “trasformazioni di Lorentz” e sviluppa la loro formulazione “simmetrica”, oggi in uso. Einstein le ricava utilizzando i due assiomi, chiarendone il significato. Forse è opportuno ripercorrere le tappe che hanno portato alla formulazione delle leggi dell’elettromagnetismo e vedere come tali risultati possano confluire nella Relatività. 7.2. Conservazione della carica (Il principio lo si deve a Benjamin Franklin, che lo formulò nel 1747) Dato un volume V, la somma algebrica della carica positiva e della carica negativa contenute nel suo interno cambia solo per la quantità di carica che attraversa la superficie. dQint i La corrente è positiva quanto è uscente dal volume V. dt dQint j d S i dt e poiché dQint j d S 0 dt Qint dV ne segue j 0 t 109 La legge della conservazione della carica è stata da allora sempre verificata con una precisione sempre maggiore, ormai estrema. Quali sono gli esperimenti su cui ci si concentra oggi? Si va a vedere se ci sono decadimenti della materia che vìolino tale principio. Quando analizziamo le cariche all’interno di un volume, le cariche sono particelle, protoni, fotoni… Test of Electric Charge Conservation with Borexino Uno dei decadimenti più usati che si usano per la verifica della conservazione è quello dell’elettrone in un neutrino e un fotone: e e dove il fotone ha energia 256keV Borexino è un rivelatore a scintillatore liquido dei laboratori Nazionali del Gran Sasso. L’estrema purezza dello scintillatore e la completa conoscenza della risposta del rivelatore hanno consentito di fissare un limite inferiore alla stabilità dell’elettrone che decade in un neutrino e un fotone. Si è verificato cioè che l’elettrone decade in un neutrino elettronico e un fotone in un tempo τ > 6.6 1028 anni, 2 ordini di grandezza superiore alle precedenti determinazioni. E poiché sussiste la seguente relazione dQ dt Q anche ammettendo di osservare la situazione per un tempo dt pari un anno o a 10 anni, il rapporto di tale tempo con il succitato tempo τ è davvero trascurabile. Questo ci induce ad affermare con ragionevole certezza che la carica si conserva. La conservazione della carica implica che la carica è uno scalare relativistico, in quanto il suo valore non può dipendere dalla velocità della carica stessa. Se così fosse accelerando una carica all’interno di un volume, ne varierebbe il valore e di conseguenza cambierebbe la carica totale all’interno del volume. Interessante è inoltre quello che scrive Feynman nelle sue lezioni: “la carica non dipende dalla temperatura”. Se io prendo un pezzo di metallo e lo scaldo, ci sono particelle che si agitano poco e particelle che si agitano molto (gli elettroni); se la carica dipendesse dalla temperatura dovrei osservare che un metallo scaldato si carica. E questo non si osserva. (In realtà questa è una schematizzazione molto semplice). La carica dunque non cambia. Vediamo invece quello che succede alla densità. Test. La carica è un invariante relativistico perché: a. l’esperienza mostra che in tutti gli esperimenti il valore della carica totale non cambia, qualunque sia la velocità della carica b. la forza di Coulomb usata per definirla operativamente è invariante per trasformazioni di Lorentz c. la densità di carica è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali [La risposta esatta è la a.] 110 7.3. Le trasformazioni della densità di carica e di corrente Densità di carica dQ' 0 dV ' Il cilindro infinitesimo dV ' è fermo in S’ dL' dL0 ' In S il medesimo cilindretto è in moto con velocità v dL dL' dV dV ' dQ dQ' dQ' ' dV dV ' dV ' la densità di carica cambia! 0 La densità di carica risulta maggiore nel sistema in moto che nel sistema in quiete. Densità di corrente elettrica Consideriamo un cilindretto di cariche in moto con velocità v’ in S’ v ' 0 ;0;0 La densità di corrente in S’ è definita come j ' ' v' ' 0 v' 2 1 v' 2 c Quanto vale la densità di corrente nel sistema S? v' v In S la velocità del cilindretto è v v' v . Calcoliamo la densità di corrente: 1 2 c 111 v'v v'v ' j ' ' v 0 … v ' v v ' v ' v ' v ' 1 2 1 2 1 2 c c c in quest’ultima espressione intendiamo usare la seconda delle j x v 0 ' v v v 1 2 c v v' v 1 2 ' c j ' ' v j ' ' v ' 1 v ' v c2 Relazione e connessione relativistica tra j e ρ 0 ' j x v j ' ' v Una distribuzione di carica statica in S’ (ρ’ ≠ 0; j’=0) dà origine in S’ solo ad un campo elettrico; ma in S la stessa distribuzione da origine anche a una corrente (j≠0) e quindi genera anche un campo magnetico. Il fatto che passando da un riferimento all’altro spunti un campo magnetico ci dice che dobbiamo riformulare le leggi di campo elettrico e campo magnetico per trasformazioni di Lorentz. Quello che in un sistema è solo un campo elettrico in un altro sistema è campo elettrico e magnetico. Ma in che modo? Lo vedremo più sotto. Corrente Per ottenere la corrente dalla densità di corrente è sufficiente moltiplicare per la sezione del filo. Dalla relazione sopra j x v 0 otteniamo v'v j ' ' v j ' ' v v v ' v v 1 2 1 2 c c i i' ' Sv 112 7.4. Campo elettrico e magnetico generato da una corrente elettrica Avendo visto come si trasformano le sorgenti dei campi elettrici e magnetici passando da un sistema di riferimento a un altro siamo in grado di calcolare come variano campo elettrico e magnetico passando da un sistema di riferimento a un altro. E vedremo dunque, con le considerazioni fatte sopra, che la legge F = q (E + v x B) è valida in tutti i sistemi di riferimento. Vedremo che, passando da un sistema di riferimento a un altro sono il campo elettrico e il campo magnetico che cambiano i loro valori e anche si trasformano l’uno nell’altro. Consideriamo UN FILO conduttore, non percorso da corrente. Sappiamo che le cariche si distribuiscono lungo tutto il filo, dando origine a due cilindretti di carica, uno con cariche negative e l’altro con cariche negative che qui abbiamo rappresentati distinti e separati ma che dobbiamo immaginare coassiali. Le cariche non sono propriamente ferme ma è la loro velocità media (velocità di v 0 0 j 0 drift/deriva) che è nulla: v 0 0 j 0 La distribuzione di cariche non genera alcun campo né all’interno né all’esterno del filo. La densità totale è nulla in ogni segmento del cilindretto. La differenza tra i due tipi di cariche è che le cariche positive sono vincolate a stare ferme nel loro posto mentre quelle negative sono sostanzialmente libere. E difatti, se noi applichiamo ai capi di questo filo una differenza di potenziale vediamo fluire una corrente e la corrente è associata al moto dei portatori di carica negativi: il cilindretto negativo si sposterà verso destra e determinerà la corrente. Il cilindretto di carica positiva rimane immobile e per esso valgono le relazioni scritte sopra. Diversamente, per il cilindretto di cariche negative, in moto verso destra, la densità di carica risulta aumentata, cioè moltiplicata per il fattore di Lorentz. v 0 0 v 0 0 (Ricordiamo che se le cariche negative fluiscono verso destra la corrente macroscopica fluisce verso sinistra.) 113 Si osservi che la densità di carica negativa è stata indicata diversamente da prima: 0 . Perché? Perché i portatori di carica negativi hanno la caratteristica di essere liberi e dunque non solo si spostano verso destra ma possono anche cambiare la loro distribuzione all’interno del filo. E in effetti le cariche negative mobili si ridistribuiscono per annullare il campo elettrico all’interno e all’esterno del conduttore: se non cambiassero la loro distribuzione, il filo diventerebbe elettricamente carico e all’interno del filo “nascerebbe” un campo elettrico. Questo ce lo dice il teorema di Gauss: se consideriamo (vedi figura sotto) un cilindretto geometrico coassiale con le due distribuzioni di carica (a loro volta coassiali tra loro, ricordiamolo), se le due densità di carica positiva e negativa fossero diverse tra loro, ci sarebbe una carica totale non nulla all’interno del cilindretto e quindi “spunterebbe” un campo elettrico. Le cariche negative mobili dunque cambiano in qualche modo la loro distanza media e lo fanno in modo da annullare il campo elettrico all’interno e all’esterno del conduttore. 1 1 0 0 0 0 j 0 v 0 v v 0 0 j 0 v Ricapitolando: v 0 0 j 0 Fatte queste considerazioni su densità di carica e di corrente, possiamo analizzare i campi elettrico e magnetico prodotti da tale sorgenti. Sappiamo che un filo percorso da corrente elettrica genera un campo magnetico le cui linee di forza sono circonferenze perpendicolari al filo e con centro sul filo. Nel punto P a distanza r dal filo si crea un campo B diretto secondo la direzione z (le cariche negative vanno verso destra e dunque la corrente va verso sinistra, e questo ci dice che il campo B nel punto P è perpendicolare al piano xy del foglio ed è uscente); campo B che possiamo calcolare col teorema di Ampére: i jdS 0 0 vdS 1 0 vdS Bz 0 0 2r 2r 2r 2 0 r c 2 114 dove si è usta la 0 1 0c 2 Noto B, se nel medesimo punto P si trova una carica q in moto lungo +x, essa subirà una forza di Lorentz diretta verso il basso (come indicato in figura) pari a: qvq 0 vdS 2 0 r c 2 Supponiamo che tale carica si muova verso destra con una velocità pari a quella delle cariche negative del cilindretto ( v q v ) e consideriamo un secondo sistema S’ che si muova anche lui verso destra con la medesima velocità v rispetto a S: Fy qvq Bz Rispetto al sistema S, abbiamo appena calcolato che la carica sente una forza diretta qvq 0 vdS qv 2 0 dS verso il basso pari a Fy qvq Bz … 2 0 r c 2 2 0 rc 2 … ma in S’ la carica q è ferma, e tuttavia in S’ essa sente una forza… che (per non saper né leggere né scrivere) andiamo a calcolare usando le leggi di trasformazione delle forze (avendo scelto le v tutte uguali diventa abbastanza semplice): Fy qv 2 0 dS Fy ' Fy … qual è l’origine di questa forza? 2 0 rc 2 v2 1 2 c Anche se in S’ c’è un campo magnetico, non può essere il campo magnetico l’origine di questa forza perché la carica q in S’ è ferma. È facile immaginare che, siccome dal sistema S al sistema S’ sono cambiate le densità di carica e le densità di corrente, l’origine di questa forza possa essere di tipo elettrico… Per far questo dobbiamo calcolare il campo elettrico in S’ generato dalla distribuzione di carica… e lo facciamo col teorema di Gauss. Ricordiamo intanto quanto valevano le densità di carica misurate nel sistema S: 0 0 115 Nel sistema di riferimento S’ le cariche positive vanno verso sinistra con velocità – v e quelle negative sono ferme, e non hanno motivo di modificare la loro distanza relativa per “impedire” la “nascita” di campi elettrici. ' 0 j 0 v ' 0 0 j 0 Ora prendiamo il solito cilindrico coassiale col filo e calcoliamo il flusso del campo elettrico attraverso la superficie laterale di esso, e usiamo il teorema di Gauss: Q 2rE y ' dx int 0 La carica interna al cilindretto è data dalla densità di carica totale per il volume: dSdx dS 2rE y ' dx 0 0 E y ' 0 0 0 2r 0 2 1 0 dS 2 2 0 dS v 2 0 dS qv 2 0 dS Fy ' E y ' 2 2 r 2 r 2 r c 2r 0 c 2 0 0 0 espressione che, a parte il fattore di Lorentz, coincide con la forza “magnetica” trovata sopra. Conclusione: la forza che, in S’, agisce sulla carica posta in P è generata da un campo elettrico dovuto alle distribuzioni di carica diverse rispetto a quelle misurate in S. Dalle trasformazioni delle sorgenti abbiamo ricavato: in S la forza di Lorentz in S’ la forza elettrica 2 qv 2 0 dS qv 0 dS Fy Fy ' Fy 2 0 rc 2 2 0 rc 2 Dalle trasformazioni di Lorentz delle forze avremmo dedotto la stessa cosa: 1 Fy 1 Fy Fy ' Fy 1 v v v2 1 2 c2 c Conclusione: passando da un sistema di riferimento a un altro campo E e campo B cambiano, si modificano l’uno nell’altro: i valori di tali campi dipendono dal sistema di riferimento. Tuttavia… la forza di Lorentz ha la stessa espressione in tutti i sistemi di riferimento. Sono i campi elettrici e magnetici a trasformarsi uno nell’altro. 116 Test ironico. La forza di Lorentz ha la stessa espressione in tutti i sistemi di riferimento inerziali perché: a. la legge di trasformazione delle forze mostra l’invarianza della sua forma per trasformazioni di Lorentz b. è una ipotesi avanzata da Einstein, coerente con le ipotesi e verificata sperimentalmente c. la carica è un invariante di Lorentz [la risposta esatta è la b.] 7.5. Le trasformazioni del campo elettrico e magnetico In ogni sistema di riferimento la forza agente su una carica ha la forma della forza di Lorentz: F = q (E + v x B) Il campo elettrico E dà origine alla forza agente su una carica ferma Il campo magnetico B dà origine a una forza perpendicolare alla velocità della carica Possiamo determinare come i campi E e B si trasformano l’uno nell’altro nel caso generale, e questo lo faremo quando studieremo il formalismo covariante nella prossima lezione; ma inizialmente lo faremo in maniera diretta studiando casi particolari, per i quali sarà facile determinare come si trasforma la forza di Lorentz passando da un sistema di riferimento all’altro. Di volta in volta chiameremo “forza dovuta al campo elettrico quella che agisce sulla carica quando è ferma”, e “forza dovuta al campo magnetico quella che agisce sulla carica quando è in moto”. Analizzate alcune situazioni di cariche ferme o in moto, e studiato come si trasvormano E e B da un sistema all’altro, invocando il principio di sovrapposizione per le forze potremo dedurre le leggi generali. CASO 1: in S (laboratorio) una carica è in moto lungo x con velocità v in presenza di campo elettrico lungo x e magnetico perpendicolare (lungo y) F qE v B qEx ,0, qv By Calcoliamo la forza di Lorentz in S: Scegliamo un S’ che si muove con velocità vΩ = v e calcoliamo la forza in tale sistema usando la legge di trasformazione delle forze: 117 qv B y qE v qE v x x c2 F ' ,0, v2 v2 1 2 1 2 c c Osserviamo che al numeratore della componente x compare il termine contenente la potenza. Il denominatore delle componenti x e z, che ha quel valore per la particolare 1 scelta di vΩ = v, vale , mentre, per la medesima ragione, il numeratore equivale a 2 qE x . Semplifichiamo: 2 2 qv B y qE v qE x x c2 F' ,0, qEx ,0, qv B y v2 v2 1 2 1 2 c c Quali sono le componenti della forza di Lorentz in S’? La carica risulta ferma in S’, non agisce un B’ su di essa: siamo costretti a dire che su questa carica agiscono due componenti del campo elettrico. F ' qE 'v'B' qEx ' ,0, qEz ' Identificando quindi le componenti trovate sopra con quelle scritte sotto ricaviamo Ex ' Ex Ez ' cB y Se avessi avuto un campo magnetico diretto non lungo y ma lungo z per simmetria è ovvio che avrei trovato in S’ un campo elettrico E’ diretto lungo y pari a E y ' cBz (attenzione al segno – ) CASO 2: in S una carica si muove lungo x con velocità v in presenza di campo elettrico lungo y (o z) e S’ si muove come prima con vΩ = v. F qE v B 0, qEy ,0 Calcoliamo tale forza in S’ usando la legge di trasformazione delle forze e tenendo conto che abbiamo scelto vΩ = v : 118 qE y F ' 0, ,0 0, qE y ,0 2 v 1 2 c Se invece calcoliamo la forza di Lorentz direttamente in S’, tenendo conto che in S’ la carica è ferma e dunque agisce su di essa solo la forza elettrica, troviamo: F ' qE'v'B' 0, qEy ' ,0 E y ' E y Se il campo E anziché diretto lungo y fosse stato diretto lungo z, in S’ avrei trovato Ez ' Ez Campo elettrico e magnetico: CASO 1 & CASO 2 Ex ' Ex E y ' E y cB z E z ' E z cB y CASO 3: carica ferma in S in presenza di campo magnetico lungo y (o z) In S è F qE v B 0,0,0 Trasformiamo questa forza in S’ : otteniamo F ' 0, qEy ,0 0,0,0 essendo E y 0 D’altra parte, in S’, la carica ha velocità v' v e ci aspettiamo una forza di Lorentz su di essa – dovuta al campo elettrico (non c’è in S ma c’è in S’) e magnetico – diretta secondo l’asse z: F ' qE'v'B' 0,0, qEz 'qv By ' E z ' ce lo possiamo calcolare (l’abbiamo fatto prima): Ez ' Ez cB y cB y essendo E z 0 e uguagliando le componenti di F’ trovata nei due modi cB y Ez ' By ricaviamo B y ' ossia B y ' v v 119 e per simmetria, se il campo B in S fosse diretto lungo l’asse z, si avrebbe in S’ un campo Ey ' Bz ' Bz v Concludendo: un campo magnetico B in S genera in S’ non solo un campo elettrico come visto negli esempi precedenti ma anche un campo magnetico. CASO 4: carica ferma in S in presenza di campo magnetico lungo y (o z) e di un campo elettrico lungo z (o y) In S la carica è ferma e dunque sente soltanto la forza elettrica diretta secondo z: F qE v B 0,0, qEz Calcoliamo la medesima forza operando la trasformazione di Lorentz delle forze da S a S’ e otteniamo: qE F ' 0,0, z Se analizziamo invece la situazione in S’, la carica in S’ ha velocità v' v e dunque su di essa agisce sia una forza elettrica diretta secondo z’ sia una forza magnetica diretta secondo il verso negativo di z’ : F ' qE'v'B' 0,0, qEz 'qv By ' uguagliando le terze componenti della forza in S’ con quelle dedotte sopra otteniamo qEz qEz 'qv B y ' ed essendo E z ' E z cB y otteniamo 2 1 q E z cB y qv B y ' da cui, ricordando che è 2 , Ey E B y ' B y z e per simmetria Bz ' Bz qEz c c Dunque il campo elettrico lungo la direzione z in S genera non solo un campo elettrico in S’ lungo la direzione z’ ma anche un campo magnetico lungo la direzione y’. Non abbiamo ancora determinato come si trasforma la componente x del campo magnetico; ed è quello che vedremo nel prossimo e ultimo caso. 120 CASO 5: la carica in S è in moto lungo l’asse y in presenza di un campo magnetico lungo x F qE v B 0,0,qv Bx applichiamo la trasformazione di Lorentz per determinare il valore di tale forza in S’, che si muove con la velocità vΩ scelta opportunamente uguale in modulo alla vy ma diretta secondo l’asse x: qv Bx F ' 0,0, Come nei casi precedenti, andiamo a calcolare ora la forza di Lorentz direttamente nel sistema S’, rispetto al quale la particella ha sia una velocità diretta secondo x’ (facile da calcolare: – vΩ) sia una velocità diretta secondo y’ (che dovrà essere dedotta dalla legge della composizione delle velocità); in ogni caso, la componente z’ della forza magnetica risentirà di entrambe le componenti della velocità (il prodotto vettoriale dà il risultato sotto): F ' qE'v'B' q0,0, Ez 'vx ' By 'v y ' Bx ' Osservando i due risultati e uguagliando le terze componenti, abbiamo v B x E z ' v x ' B y 'v y ' B x ' Ora: - il primo addendo a destra è nullo: Ez ' Ez cB y 0 0 0 (dunque un Bx non comporta un E’z); - il secondo addendo a destra è nullo: By ' By 0 ; v y v - nel terzo addendo a destra è v y ' per le scelte fatte all’inizio. Ricaviamo Bx ' Bx . Dunque le componenti di B (e di E, abbiamo visto prima) lungo l’asse x non vengono perturbate se S’ si muove lungo l’asse x. Sono solo le componenti y e z che cambiano. 121 Ricapitolando, seppur dedotte da alcuni casi particolari, queste sono le più generali Trasformazioni del campo elettrico e del campo magnetico Bx ' Bx E z By ' By c E y Bz ' Bz c Ex ' Ex E y ' E y cB z E z ' E z cB y quando S’ si muove in direzione dell’asse x, e quelle sotto sono le Trasformazioni INVERSE del campo elettrico e del campo magnetico Bx Bx ' E ' B y B y ' z c E y ' Bz Bz ' c Ex Ex ' E y E y ' cBz ' Ez Ez ' cB y ' A questo punto, come esercizio di applicazione delle suddette formule, divertiamoci ad analizzare quello che il prof. Mobilio ama chiamare il paradosso del campo elettrico Supponiamo che in S sia E x 0 Bx 0 In S’ è E y 0 By 0 E y ' E y E z 0 Bz 0 Se torno in S mi aspetto di trovare lo stesso Ey di partenza… ma l’uso simmetrico della trasformazione dà E y E y ' 2 E y Il campo è aumentato? Dov’è l’inghippo?? La risposta è facile: non dobbiamo trascurare che quando da S passiamo a S’, le trasformazioni di Lorentz dei campi E e B ci dicono che un E y 0 produce un Bz ' 0 … In S In S’ Bx ' Bx 0 Ex ' Ex 0 E x 0 Bx 0 E z By ' By 0 E y ' E y cB z E y c E y 0 By 0 E z ' E z cB y 0 E y E y E z 0 Bz 0 Bz ' Bz c c 122 Se teniamo conto delle due componenti che in S’ non valgono 0, vediamo allora che in S, utilizzando la seconda delle formule inverse che riportiamo a destra Ex Ex ' E y E y ' cBz ' Ez Ez ' cB y ' vale la seguente: E y 2 1 2 E y E y E y E y ' cBz ' E y ' c c … e l’inghippo è risolto. Per ulteriore verifica calcoliamo la Bz (che ci aspettiamo essere 0) e utilizziamo la terza delle formule inverse per B, che riportiamo a destra: Bx Bx ' E ' B y B y ' z c E y ' Bz Bz ' c E ' E y Bz Bz ' y E y 0 c c c 7.6. Test ed esercizi In S è presente un campo magnetico diretto lungo l’asse y pari a By = 100 mT. Determinare il valore della forza F’ agente nel sistema di riferimento S’ in moto lungo l’asse +x con velocità v = 0,9c su una carica q = 1,00 μC in moto rispetto ad S’ con velocità ux = 0,2 c. a. F' = 67,9 N b. F' = 88,9 N c. F' = 48,2 N d. F' = 40,8 N e. F' = 75,7 N [La risposta corretta è la e. Utilizzando le formule di trasformazione per E e B si trova F ' qE'v'B' q0,0, Ez 'u xBy q0,0, cBy u xBy qBy 0,0, v u x ] Un protone in moto con velocità vx = 0,80c attraversa una regione di spazio in cui è presente un campo magnetico uniforme perpendicolare diretto lungo l’asse y By = 0,10 T. Nel sistema S’ in moto con la carica stessa la forza agente sulla carica è: a. Fz = 3,8 10 −12 N b. F = 0 N c. Fz = 6,4 10 −12 N d. Fy = 3,8 10 −12 N e. Fy = 6,4 10 −12 N [La risposta corretta è la c. 123 In S’ la velocità del protone è nulla e la forza di Lorentz si riduce a F’ = qE’. L’unica componente non nulla è quella lungo z’: F ' qE' qEz ' ecB y evx By ] In S’ due nuclei di carica q = 10e sono posti sull’asse y’ simmetricamente rispetto all’origine a distanza d=0,10 μm l’uno dall’altro. La forza dovuta al campo elettrico agente su ciascun nucleo nel sistema di riferimento S in moto con velocità relativa v=0,60c rispetto a S’ è: a. 1,4 10 −12 N b. 3,8 10 −12 N c. 2,3 10 −12 N d. 2,9 10 −12 N e. 1,8 10 −12 N q2 [In S’ la forza è quella coulombiana F ' k 2 diretta, come il campo E ' , secondo l’asse y’… d Per calcolare la forza di Lorentz in S si utilizzano le formule dirette con gli apici scambiati Ex Ex ' 0 E y E y ' cB z ' E y ' E z E z ' cB y ' 0 Bx Bx ' 0 E z ' B y B y ' 0 c E y ' E y ' vE y ' B z B z ' 2 c c c F qE y vBz q E y ' 2 E y ' qE y ' 1 2 Fy ' 1 2 Fy ' 1 2 La risposta esatta è la e.] Una densità lineare di carica lambda=1,0 10 – 6 C/m (valore a riposo) infinitamente lunga e disposta lungo l’asse x si muove con velocità vx = 0,8c in S. I valori del campo elettrico E e del campo magnetico B nel punto di coordinate (0;1,0; 0) m in S sono: a. E= 3,0 104 V/m; B = 1,3 10-4 T b. E= 5,0 104 V/m; B = 1,3 10-4 T c. E= 3,0 104 V/m; B = 8,0 10-5 T d. E= 5,0 104 V/m; B = 8,0 10-5 T e. E= 0,0 V/m; B = 8,0 10-4 T [Test della verifica finale. Mettiamoci nel sistema S’ in cui le cariche sono ferme: in S’ è presente solo un . Usando le formule di trasformazione inverse che ci permettono di 2 0 r E y E y ' . La risposta corretta è la c.] ricavare E e B otteniamo E y E y ' e Bz c c campo elettrico E y ' 124 Cap. 8: formalismo covariante Se le prime sette lezioni sono state tenute con un formalismo minimale, formalismo che può esser tenuto tranquillamente in una classe quinta liceo, dobbiamo anche rilevare che un corso di relatività che voglia essere definito tale non può non trattare il formalismo covariante, che è il formalismo che si tiene nelle lezioni universitarie. Con questo formalismo, tutto quanto trattato nelle sette lezioni precedenti diventa facile da trattare a da spiegare matematicamente L’aspetto più complicato è il formalismo covariante che serve per spiegare le leggi dell’elettromagnetismo; e questo è un piccolo paradosso, perché la relatività (ossia le trasformazioni di Lorentz) nasce proprio per spiegare come variano le leggi dell’elettromagnetismo passando da un sistema a un altro, ossia per esprimere le equazioni di Maxwell in tutti i sistemi. Nella meccanica classica è facile osservare che la F = ma resta la stessa passando da un sistema a un altro; ci si aspetterebbe che questo accadesse anche per le equazioni di Maxwell quando si usano le trasformazioni di Lorentz… e invece bisogna formulare in maniera più sofisticata le leggi per mostrare la covarianza delle equazioni di Maxwell. Questi gli argomenti del capitolo: 1. Quadrivettori e proprietà 2. Quadrivettore velocità 3. Quadrivettore quantità di moto–energia (quadrimpluso) 4. Covarianza della conservazione della quantità di moto 5. Particelle a massa nulla: il fotone 6. Effetto Compton 7. Rivisitazione dell’effetto Doppler 8. Equazione del moto e Forze in Relatività 9. Trasformazioni del campo elettrico e magnetico 10. Formulazione covariante dell’elettromagnetismo 8.1. Quadrivettori e proprietà Le coordinate spazio temporali di un evento in S e in S’ si trasformano tra loro secondo le trasformazioni di Lorentz: x1 ' x1 x4 x2 ' x2 x3 ' x3 x4 ' x1 x1 x1 x dove x2 y x3 z x 4 ct Una quaterna di numeri che per trasformazioni di Lorentz si trasformano come le coordinate spazio temporali di un evento definisce un quadrivettore. 125 Un quadrivettore (x soprassegnato) lo indicheremo come x x1 , x2 , x3 , x4 x , x4 : è formato da una parte componente spaziale (x1,x2,x3) o anche x e da una componente temporale (x4). Le trasformazioni di un quadrivettore per trasformazioni di Lorentz possono essere scritte in forma matriciale: x ' x dove xi ' ik x k e dove Λ è la matrice di Lorentz: 0 0 0 0 1 0 0 0 1 0 0 0 Dati due quadrivettori il loro prodotto scalare è definito come: u v u1v1 u2 v2 u3v3 u4 v4 u v u4 v4 Esso generalizza il prodotto scalare usuale tra due vettori, solo che la quarta componente è sottratta. Il prodotto scalare tra due vettori è invariante per trasformazioni di Galileo. Il prodotto scalare tra due quadrivettori è invariante per trasformazioni di Lorentz u v u 'v ' Infatti: u 'v ' u1 u4 v1 v4 u2v2 u3v3 u4 u1 v4 v1 2 1 2 u1v1 u2v2 u3v3 2 1 2 u4v4 1u1v1 u2v2 u3v3 1u4v4 u v Caso particolare u v il prodotto scalare di un quadrivettore per sé stesso è invariante per trasformazioni di Lorentz u u u 2 u1 u2 u3 u4 2 2 2 2 tale grandezza è chiamata il quadrimodulo (quadrato) del quadrivettore. La potenza e l’utilità del formalismo dei quadrivettori risiede nel fatto che se una relazione fisica (legge) è espressa come eguaglianza tra due quadrivettori in un sistema di riferimento inerziale, allora essa è vera in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Se u v allora u ' v ' 126 Infatti u ' u v v ' Sappiamo che le coordinate spazio-temporali costituiscono un quadrivettore. Ci sono altre grandezze che hanno la proprietà di essere quadrivettore, cioè invarianti per trasformazioni di Lorentz? 8.2. Il quadrivettore velocità La velocità, per definizione, è la derivata rispetto al tempo delle componenti spaziali di un quadrivettore. Possiamo aggiungere la quarta componente temporale per analogia: dx dx dx dx v 1 , 2 , 3 , 4 v , c dt dt dt dt Abbiamo ottenuto una “quadrivelocità”. È questa quaterna di numeri un quadrivettore? Per rispondere dobbiamo verificare se, per trasformazioni di Lorentz, si trasforma come le componenti di un quadrivettore. Noi conosciamo la legge di trasformazione delle velocità, possiamo quindi dire che: v v v3 v2 1 1 1 v ' v1 ' , v2 ' , v3 ' , c , , , c 1 v1v 1 v1v 1 v1v c2 c2 c2 Se guardiamo questa quaterna vediamo che non coincide con la quaterna che si otterrebbe utilizzando la matrice di trasformazione Λ: è sufficiente analizzare la prima componente ottenuta tramite Λ v1 ' v1 v4 v1 v 1 2 per osservare che v’ non è dato da una trasformazione di Lorentz applicata alle componenti di v. La “quadrivelocità” non è un quadrivettore. Noi vorremmo però ottenere qualcosa che funzioni come un quadrivettore velocità. Perché quello sopra non funziona? Le componenti della velocità così come le abbiamo definite sopra sono ottenute come rapporto tra la differenza di due valori di una coordinata e un tempo vi dxi dt Il numeratore si trasforma come una coordinata spaziotemporale che si trasforma come un quadrivettore, mentre il denominatore si trasforma come una coordinata temporale: il loro quoziente diventa evidentemente qualcosa di diverso. Se vogliamo che la 127 quadrivelocità si trasformi come un quadrivettore bisognerebbe che il denominatore risultasse una costante. Se dividiamo per qualcosa che sia uno scalare (ovvero che non si trasforma per trasformazioni di Lorentz) otterremmo una grandezza la cui parte spaziale si trasforma come la parte spaziale di un quadrivettore Come fare? Un intervallo di tempo scalare che non si trasforma per trasformazioni di Lorentz è l’intervallo di tempo proprio, cioè l’intervallo di tempo in cui il punto materiale di cui stiamo determinando la velocità è fermo e sono i due punti occupati all’istante t e all’istante t+dt che si muovono (cioè è l’intervallo di tempo che intercorre tra due eventi che avvengono nello stesso punto spaziale). Definiamo quindi la quadrivettore-velocità come il quadrivettore le cui componenti sono date da ui dxi dt0 dx dx ui i i dt0 dt ricordando che è da cui dt dt0 u v , c Ma qual è il sistema di riferimento in cui il tempo coincide con il tempo proprio? Quello in cui i due eventi sulla particella capitano nello stesso punto: mi devo cioè mettere “seduto sulla particella” e vedo il mondo esterno che si muove, che mi viene incontro, devo cioè stare in un sistema solidale con la particella. Verifichiamo che la velocità a quattro dimensioni appena definita è un quadrivettore v v v3 v2 1 1 1 v ' v1 ' , v2 ' , v3 ' , c ' , , , c 1 v1v 1 v1v 1 v1v c2 c2 c2 ' vv 1 1 2 e ricordando che è c v v v v v ' v1 v , 2 , 3 , c1 1 2 ovvero c v v v ' v1 c , v2 , v3 , c1 1 2 c Ancora non ci siamo: ancora non sembra il trasformato di Λ. Ma osserviamo che l’ultima componente di questo quadrivettore vale ' c Se invece pensiamo v ' come il trasformato secondo Λ del quadrivettore v abbiamo 128 v ' ' v1 ' , v2 ' , v3 ' , c v1 , v2 , v3 , c v1 c , v2 , v3 , c v1 l’ultima componente anche qui vale ' c . Quesito facile: in S una particella di massa m è in quiete; la quarta componente della quadrivelocità è: a. v4=c b. v4=c2 c. v4=0 8.3. Il quadrimpluso (quadrivettore quantità di moto – energia) e la conservazione della quantità di moto e dell’energia. Quadrimpulso In relatività il vettore impulso è p=γmv. Definiamo quadrivettore impulso il prodotto della massa per il quadrivettore velocità definito nel paragrafo precedente. La quantità di moto relativistica p=γmv diventa quindi la componente spaziale del quadrivettore impulso p mv mv , mc Osserviamo che la quarta componente non è altro che l’energia divisa per c: p4 = γmc = =E/c. Quelle che in meccanica classica sono due grandezze separate, in meccanica relativistica sono componenti diverse (spaziale e temporale) della stessa grandezza, il quadrimpulso. Ricordando che il quadrimodulo p2 è un invariante (cioè si conserva in ogni sistema riferimento) otteniamo per il quadrimpulso appena definito: 2 E2 p p p p1 p2 p3 p4 p 2 c 2 2 2 2 2 Se facessimo questo calcolo (che è un invariante) nel sistema in cui la particella è ferma, in tale sistema esso vale m c : otteniamo pertanto 2 2 2 2 E 2 mc 2 p c 2 espressione già nota. 129 8.4. Covarianza della conservazione della quantità di moto La generalizzazione della conservazione della quantità di moto ci ha portato alla relazione pin p fin Essendo una eguaglianza tra due quadrivettori, la legge è covariante per trasformazioni di Lorentz (vale cioè in tutti i sistemi inerziali). Nella sua parte spaziale e nella sua parte temporale essa esprime sia la conservazione della quantità di moto sia la conservazione dell’energia. Qin Q fin Ein E fin è la legge “nuova”: l’energia è sempre conservata è la legge classica modificata ponendo Q = γmv Ricordando tutta la fatica che avevamo fatto per dimostrare la conservazione della quantità di moto (nella sua nuova espressione Q = γmv) per trasformazioni di Lorentz, possiamo apprezzare quale sia la potenza e l’eleganza del formalismo covariante. Sappiamo che si conserva perché il quadrimpulso definito come sopra è un quadrivettore. Essa dunque rispetta il principio di relatività. Vediamo un esempio classico: l’urto tra due o più particelle Ein 1m1c 2 2m2c 2 m1c 2 eK1 m2c 2 eK1 Mc2 EK E fin 1 ' m1 ' c 2 2 ' m2 ' c 2 m1 ' c 2 eK 1 'm2 ' c 2 eK1 ' M ' c 2 EK ' La conservazione dell’energia ci porta Mc 2 EK M ' c 2 EK ' Se l’urto è completamente elastico EK EK ' M M ' EK EK ' M M ' e risolvendo l’equazione si trova Se l’urto è anelastico E K M che , ovvero ritroviamo il risultato già noto. c2 130 8.5. Particelle a massa nulla: il fotone Col formalismo dei quadrivettori si può trattare un aspetto della meccanica relativistica previsto dalla teoria della relatività che non ha spazio nella meccanica classica, ovvero quello delle particelle a massa nulla, di cui il fotone è l’esempio più noto. Fino a qualche anno fa anche il neutrino era considerato una particella a massa nulla; oggi invece la sua massa è stata misurata. L’altra particella che si prevede abbia massa nulla (ma che non è ancora stata osservata) è il gravitone, ovvero il quanto di energia del campo gravitazionale. In fisica classica una particella a massa nulla avrebbe quantità di moto ed energia cinetica nulla, non sarebbe in grado di scambiare quantità di moto o energie, cioè di esercitare forze e quindi di interagire in pratica non esiste… e in fisica non interessa perché in fisica interessa solo ciò che si riesce a misurare. In relatività invece l’impulso e l’energia dipendono dal prodotto mγ. Anche nel caso limite che m 0, se mγ valore finito (e questo ovviamente succede quando γ ∞, cosa possibile in relatività) la particella possiede quantità di moto ed energia e quindi interagisce esiste! Occorre però che γ ∞ cioè che v c. Una particella a massa nulla ha velocità eguale alla velocità della luce Al momento, l’unica particella nota a massa nulla è il fotone, e la sua energia è data (Einstein – effetto fotoelettrico) da E h h 6.626096 1034 J s 4.1356671015 eV s 1.054572 1034 J s 6.5821191016 eV s Come si calcola l’impulso? Nell’elettromagnetismo classico un’onda elettromagnetica che trasporta un’energia trasporta anche una quantità di moto E/c nella direzione di propagazione k dell’onda ˆ 2 ˆ p k k k c p k , Dunque il fotone è una particella con quadrimpulso c Il quadrimodulo (quadro) dell’impulso del fotone è sempre nullo: p 2 4 2 2 2 2 2 2 2 2 0 essendo c c 131 8.6. Effetto Compton La prima situazione in cui possiamo utilizzare il fatto che il fotone si comporta come una particella dal quadrimodulo dell’impulso nullo è l’effetto Compton, effetto scoperto e interpretato da Compton nel 1923, che consiste nello scattering elastico della luce da parte di elettroni in quiete Si osserva radiazione diffusa di lunghezza d’onda maggiore di quella incidente (si ha cioè diffusione anelastica della luce), con una dipendenza dall’angolo data dalla relazione: h (1 cos ) mc L’esperimento e la sua interpretazione furono di estrema importanza per l’affermazione della teoria corpuscolare della luce e della meccanica quantistica Compton prese il premio Nobel nel 1927. Interpretazione: urto elastico tra un fotone e un elettrone inizialmente fermo p k , c ' p ' k ' , c prima dell’urto dopo l’urto Deve valere la conservazione del quadrimpulso: p pe p ' p'e pe 0, mc E' p 'e p ' , c p p ' pe p 'e Calcoliamo il quadrimodulo quadro (moltiplichiamo scalarmente il quadrivettore per sé stesso: valgono le stesse regole del prodotto scalare usuale tra vettori): p p ' pe 2 pe p p ' p 'e 2 2 2 Il quadrimpulso dell’elettrone si conserva e perciò lo possiamo cancellare da entrambe le parti. p p ' 2 pe p p ' 0 2 p p ' 2 p p ' 2 pe p p ' 0 2 2 132 Il quadrimpulso del fotone è sempre nullo, per cui cancelliamo i primi due termini. Otteniamo: p p ' pe p p ' A sinistra è un prodotto tra quadrivettori, mentre a destra dell’uguale il calcolo è facile perché pe 0, mc ha solo la componente temporale diversa da zero: 2 ' ' k k ' 2 mc ossia c c c ' k k ' cos 2 m ' c 2 k e tenendo conto che è c 1 cos ' ' mc 2 da cui, dividendo a destra e sinistra per ' 1 1 1 1 cos e ricordando che 2 mc 2c ' 1 cos ' otteniamo 2c mc 2 2 da cui la formula finale e nota: h 1 cos mc 8.7. Rivisitazione dell’effetto Doppler nel formalismo dei quadrivettori Abbiamo già visto che la formula relativistica dell’effetto Doppler è ' (i segni della formula si riferiscono alla situazione in figura sopra). 133 1 1 Reinterpretiamo l’effetto come l’emissione di un fotone in S (sorgente) e la sua osservazione in S’ Il fotone avrà una certa quantità di moto e una certa energia, e quindi avrà il seguente quadrimpulso: p k , c L’osservatore in S’ non fa altro che misurare il quadrimpulso della medesima particella in ' p k ' , ' un altro sistema di riferimento: c Per avere la formulazione di tale grandezza in S’ non dobbiamo far altro che applicare la trasformazione di Lorentz al quadrimpulso misurato in S: p ' p la componente temporale si calcola facilmente: ' 1 k x c c c c c ' 1 1 1 formula nota, già dedotta a suo tempo dalle trasformazioni di Lorentz Effetto Doppler trasverso Supponiamo che la luce in S’ provenga da una direzione che forma un angolo θ’ col semiasse positivo delle x’: p k , c ' p ' k ' , c 134 legati da p ' p Non possiamo sostituire a k x il valore 2 k perché x non è il k del fotone nel sistema S, è semplicemente la sua componente x. La componente x non è data semplicemente da k x k cos ' perché nelle trasformazioni di Lorentz non si conservano gli angoli. Si potrebbe determinare quanto diventa tale angolo in S (cosa che si può fare), ma probabilmente è più semplice determinare le componenti nel sistema S sulla base delle componenti nel sistema S’, che conosciamo. E lo facciamo andando a calcolare la trasformazione inversa: p ' p ' dove 0 se è 0 0 0 1 0 0 0 1 0 0 0 0 è allora ' 0 0 0 1 0 0 0 1 0 0 0 Calcoliamo anzi solo la componente x di questa trasformazione inversa, e per farlo ci serve k x ' k ' cos ' ' c ' ' ' cos ' k x k x ' k ' cos ' c c c k x k x ' e lo andiamo a sostituire nell’espressione ' k x che ci dava la quarta c c compente del quadrivettore nella trasformazione diretta: ' ' cos ' c c c ' 2 2 2 1 2 2 2 cos ' e osservando che 1 c c ' ' 2 1 cos ' 1 cos ' c c che è la formula nota dell’effetto Doppler trasverso nel caso illustrato in figura: sorgente che si allontana osservata all’angolo ' . Se la sorgente si avvicina (o se l’osservatore si avvicina alla sorgente) la formula diventa 1 cos ' Se la sorgente si allontana lungo l’asse x cos ' 1 ' 135 e la formula diventa quella già vista: ' 1 1 1 Quesito: un rivelatore in S’ riceve due segnali luminosi uno proveniente dalla direzione che forma un angolo Θ′=0 con l’asse delle x e l’altro da una direzione che forma un angolo Θ′=π/4 inviati da due sorgenti uguali entrambe in allontanamento. La frequenza misurata del segnale proveniente a Θ=0 sarà: maggiore/uguale/minore/della frequenza del segnale proveniente a Θ′=π/4 ? [Risposta corretta: minore] 8.8. Equazione del moto nel formalismo covariante e le Forze in Relatività. La forza di Minkowski Equazione del moto relativistica (equazione di Newton) dp d F mv dt dt La forza è un vettore tridimensionale (triforza): l’equazione descrive l’equazione del moto in uno specifico sistema di riferimento (e abbiamo già analizzato come le componenti della triforza si trasformano quando passiamo da un sistema di riferimento a un altro); l’equazione del moto non è covariante per trasformazioni di Lorentz. È il limite di questa formulazione; è tuttavia utile averla perché, con tale formulazione, la forza elettromagnetica ha la formulazione della forza di Lorentz, ovvero la somma di una parte elettrica e di una magnetica, come siamo abituati ad avere. Proviamo ad estendere la nozione di triforza a un vettore a quattro dimensioni, cioè a una “quadriforza”, introduciamo una quarta componente, la componente temporale: una scelta naturale è quella di andare a considerare la quarta componente (la componente temporale) del quadrimpulso, e derivare anch’essa rispetto al tempo… e vedere cosa succede. dp4 dmc 1 dE Cerchiamo di riscrivere questa espressione. dt dt c dt 2 2 2 2 Poiché E c p mc , derivando a destra e sinistra rispetto al tempo dE d p 2 2 2 E 2 c p p m v E mc otteniamo e tenendo conto che , e dt dt dp 2 dE 2 F otteniamo 2mc 2c mv F ovvero che dt dt F4 136 dE F v F v F4 che è il risultato classico, se ricordiamo che F v è dt c la potenza erogata dalla triforza. F v , non è però un La forza a quattro dimensioni così definita, F F , c quadrivettore: verifichiamolo! Esprimiamo le componenti della triforza (la parte spaziale della quadriforza) nel nuovo sistema S’ utilizzando le trasformazioni viste a suo tempo: Fx ' v F v c2 v v 1 2 x c Fx Fy ' 1 Fy vv 1 x 2 c Fz ' 1 Fz v x v 1 2 c v F v 2 c Fx F4 Se fosse un quadrivettore dovrebbe essere Fx ' v v x 1 2 c e le componenti y e z non dovrebbero nemmeno cambiare: Fy ' Fy e Fz ' Fz Fx La quadriforza costruita non è un quadrivettore. Perché questo succede? E come possiamo ovviare al problema? Il ragionamento che facciamo (e la soluzione che diamo) è lo stesso che abbiamo dato per la velocità: nello scrivere dp F v F F, dt c osserviamo che il numeratore si trasforma come un quadrivettore, mentre il denominatore non è uno scalare ma una quantità che si trasforma come una componente temporale di un quadrivettore; al denominatore avremmo bisogno di uno scalare relativistico, e abbiamo già visto che lo scalare relativistico che possiamo usare è il tempo proprio (quello misurato nel sistema rispetto a cui la particella è ferma) dt0 Con questa sostituzione otteniamo dp F v FM F , dt c detta FORZA DI MINKOWSKY. La forza FM , di Minkowsky, è un quadrivettore. 137 dt dp dp F v è la forma covariante FM F , Riassumendo: dt0 dt c dp F v F F , dell’equazione del moto. Invece dt c , dove la prima componente (tre componenti) costituisce la triforza, è la forma non covariante dell’equazione del moto. Si può usare sia un approccio che l’altro: quando sono in un sistema di riferimento ben preciso e voglio analizzare l’equazione del moto mi conviene utilizzare il concetto di triforza (ad esempio la forza elettromagnetica, in tutti i sistemi di riferimento vale dp F qE qv B ) e usare il concetto di forza di Minkowsky quando devo passare dt da un sistema di riferimento a un altro. 8.9. Trasformazioni del campo elettrico e magnetico A questo punto ci possiamo chiedere come ricostruire le trasformazioni del campo E e del campo B nel formalismo covariante. Qual è la procedura? • Noti i campi E e B in S posso sempre calcolare la forza di Lorentz (triforza); • poi determino la forza di Minkowsky (moltiplicando per γ); • la trasformo in S’; • determino la triforza in S’ (dividendo per γ); • determino i campi assumendo che la triforza sia della forma di Lorentz anche in S’. Questa procedura, fatta su un numero sufficiente di casi, è in grado di darci tutte le formule di trasformazione dei campi E e B. Cinque erano i casi che avevano visto in uno dei capitoli precedente. Vediamone solo uno: 138 Caso 1: carica in moto lungo x con velocità vΩ in presenza di campo elettrico lungo x e magnetico perpendicolare (lungo y) FL qEx ,0, qv By Dalla triforza ricaviamo la quadriforza di Minkowsky: Ev FM qEx ,0, qv B y , q x c Applichiamo la trasformazione di Lorentz qv B qE v Ev 2 FM ' qEx q x ,0, y , x qEx c c Consideriamo solo le componenti spaziali e ricaviamo la forza di Lorentz in S’ FL ' 2 qv B Ev qEx q x ,0, y c qE ' (dovrei dividere per γ’ ma in S’ la particella è ferma e dunque γ’=1: in questo caso la parte spaziale della forza di Minkowsky è proprio la forza di Lorentz, che sulla particella ferma è data solo dalla forza elettrica). L’ultima identità implica Ev 2 2 E x ' E x x E x 1 2 E x c Ey ' 0 2 v B E z ' y cB y La componente x del campo elettrico nella direzione del moto relativo della particella si conserva; la componente y della forza di Lorentz è zero e questo ci dice che non c’è campo elettrico nella direzione y; la componente z è diversa da zero e questo ci dice che ci sarà anche una componente z del campo elettrico che ottengo imponendo l’uguaglianza delle due terze componenti. Quella che in direzione z in S era forza dovuta al campo B, in S’ diventa forza dovuta al campo E. 139 8.10. Formulazione covariante dell’elettromagnetismo Le equazioni di Maxwell sono covarianti per trasformazioni di Lorentz “per definizione”, potremmo dire, dal momento che le trasformazioni di Lorentz sono state determinate proprio come le trasformazioni che lasciano le equazioni di Maxwell valide nella loro forma ordinaria in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Tuttavia, se le scriviamo nella forma usuale, questo non è immediato da vedere. Occorre riscriverle nel formalismo dei quadrivettori per rendere questo aspetto evidente in sé. Come si procede? Si scrive una equazione tra due quadrivettori di cui il primo esprime i campi (elettrico e magnetico) e il secondo le sorgenti (la densità di corrente e la densità di carica). Il quadrivettore dei campi non è formato da una combinazione opportuna di E e B, ma dal potenziale scalare e dal potenziale vettore dei campi E e B. V A A, c Campo E e campo B si deducono dal potenziale vettore A e dal potenziale scalare V mediante le seguenti: A E V t B A La prima delle due, se trascuriamo la derivata rispetto al tempo, è l’usuale relazione che lega campo elettrico e potenziale; il secondo termine ci ricorda che un campo elettrico può anche nascere da un campo B variabile. Il potenziale vettore A è invece definito tramite la seconda: il campo B è cioè deducibile dal potenziale vettore A. (L’equazione di Maxwell divB=0 è identicamente soddisfatta se B è scritto come il rotore di A: la divergenza di un rotore, infatti, è sempre nulla). Potenziale vettore A e potenziale scalare V obbediscono entrambi a un’equazione che è quella scritta sotto: 2 A 2 A 0 0 2 0 j t 2V V 0 0 2 t 0 2 (*) Se ad esempio in quella di destra si ponesse ρ=0 si riconoscerebbe subito l’equazione di un’onda che si propaga con velocità c, ovvero l’onda elettromagnetica (ma non essendo l’equazione omogenea la soluzione non è così ovvia). Non andiamo a risolvere tali equazioni; osserviamo solamente che a secondo membro troviamo le densità di corrente e di carica. 140 j j , c 0v , 0c 0v ha le Abbiamo visto che il vettore proprietà di un quadrivettore in quanto prodotto del quadrivettore velocità per lo scalare 0 , e lo chiameremo il QUADRIVETTORE DELLE SORGENTI. Prendiamo le due equazioni sopra e andiamo a riscriverle in modo tale che a secondo membro compaiano le componenti del quadrivettore delle sorgenti: 2 A 2 A 0 0 2 0 j t 2V 2 V 0 0 2 t 0 rimane uguale V 2 V 0 0 2 0 c c t c 2 Se ora andiamo consideriamo il quadrivettore potenziale elettromagnetico che ha come parte spaziale il potenziale vettore e come parte temporale il potenziale scalare diviso per c V A A, c j j , c le due equazioni (*) di pagina precedente si riducono a un’unica equazione per il quadrivettore A : 2 2 0 0 2 A 0 j t Come sappiamo che A è un quadrivettore? La parentesi tonda è un operatore scalare, cioè ha la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento legati tra loro da trasformazioni di Lorentz (come avviene, ad esempio, per la carica); poiché operando su A dà un quadrivettore ne deduciamo che A stesso è un quadrivettore. Quanto visto ci dà la possibilità di passare da un sistema di riferimento a un altro per descrivere lo stesso fenomeno elettromagnetico: noti i campi E e B (o le sorgenti) in S si calcola il quadrivettore A A (bisogna cioè invertire le due equazioni: E V e B A ); t noto A nel sistema S si calcola A ' A con la matrice di Lorentz; da A ' si determinano i campi E’ e B’ (ottenendo così le espressioni già determinate per altra via). 141 8.11. Quesiti ed esercizi In S un quadrivettore ha componenti (1,0; 0; 0; 3,0); se in S’, in moto lungo l’asse x, la componente x1' è x1’ = 3,0 la componente x4’ sarà: a. x4' = 4,1 b. x4' = 4,8 c. x4' = 6,8 d. x4' = 2,1 e. x4' = 7,4 [La risposta corretta è la a. 2 2 2 Il modulo (quadro) del quadrivettore si conserva: (1.0) (3.0) (3.0) x4 ] 2 Un cilindretto carico con densità di carica a riposo ρ0=1,8⋅102 C/m3 è in moto con velocità v = 0,7c. L’invariante s2 del quadrivettore densità di corrente è pari a: a. s2=−1,6⋅104 A2/m4 b. s2=−2,9⋅1021 A2/m4 c. s2=−3,2⋅104 A2/m4 d. s2=−9,7⋅1012 A2/m4 e. s2=−1,4⋅1021 A2/m4 [La risposta corretta è la b. Il modulo (quadro) del vettore densità j j , c 0v , 0c si conserva s 2 0 v 0 c 2 2 In un esperimento di scattering Compton con fotoni di energia E = 200 keV, la massima energia cinetica Ek che l’elettrone di rinculo può acquistare è: a. Ek = 87, 8 keV b. Ek = 92,1 keV c. Ek = 72,0 keV d. Ek = 112 keV e. Ek = 128 keV [La risposta corretta è la a.] L’energia dell’elettrone di rinculo è massima quando quella del fotone che rimbalza è minima, cioè quando l’angolo di rimbalzo è 180°. La formula da usare, ' E K , può essere scritta in funzione dei dati iniziali nel modo seguente: 1 2h 2h ' E K 1 1 2h ' mc ' mc mc 2h h 1 E 87,8keV mc 2 2c 2h mc 2 2h mc 1 h mc 2 E 2 h 142 Una sorgente posta nell’origine del sistema di riferimento S emette fotoni di energia E = 200 keV nella direzione +x; l’impulso dei fotoni misurato da un osservatore S’ che si muove verso la sorgente nella direzione –x con velocità vΩ = 0,6c è: a. px′=1,50⋅105 eV/c b. px′=4,00⋅105 eV/c c. px′=3,21⋅105 eV/c d. px′=2,50⋅105 eV/c e. px′=9,99⋅104 eV/c [La risposta corretta è la b.] px ' E ' ' 1 E 1 c c c 1 c 1 Su una particella inizialmente ferma agisce una triforza F costante diretta lungo l’asse x; le componenti F1 e F4 della forza di Minkowki in funzione del tempo hanno l’espressione: … dp F v Fv F ,0,0, F , Risposta: ricordiamo che è FM . Se F costante e dp=Fdt dt c c F 2t allora p = Ft; inoltre: p=γmv: dal confronto delle due ricaviamo γv=Ft/m e dunque F4 . mc Per determinare F1 occorre invece ricavare prima v e quindi γ dalla γv=Ft/m (elevando al quadrato): si 2 Ft . ottiene F1 F 1 mc 143 Cap. 9: Conclusioni In questo capitolo vedremo come lo sviluppo della Relatività ristretta abbia termine con la teoria della Relatività generale (di 10 anni dopo); daremo alcuni cenni sui problemi e sulle questioni che portarono Einstein a formulare i principi della Relatività generale (9.2. L’inizio di una nuova sfida). Spiegheremo cos’è il principio di equivalenza e quali sono le sue conseguenze. Concluderemo (9.3. L’impatto della Relatività oggi) con le applicazioni: oggi la RR e la RG sono utilizzate in tutti i momenti della nostra vita, ad esempio quando utilizziamo un telefono. 9.1. Cosa abbiamo imparato da Einstein Abbiamo imparato moltissimo. Che cosa gli dobbiamo? Tantissimo. Teoria del moto browniano: “Sulla teoria cinetico-molecolare del movimento di particelle sospese in liquidi a riposo dovuto al calore (1905) Effetto fotoelettrico e concetto di quanto di luce (1905) Teoria della Relatività Ristretta (1905) Teoria della Relatività Generale (1915-1916) Basi teoriche del funzionamento dei laser (1917): “Zur Quantentheorie der Strahlung” (1917) Ognuno di questi contributi avrebbe meritato il Nobel. Eppure solo con grande difficoltà e ritrosia gli accademici di Stoccolma si risolsero a dargli il premio. Del resto, un personaggio in grado di rivoluzionare in maniera così profonda i concetti della fisica non poteva non suscitare controversie di varia natura. The Nobel Prize in Physics 1921 was awarded to A. Einstein "for his services to Theoretical Physics, and especially for his discovery of the law of the photoelectric effect". Albert Einstein received his Nobel Prize one year later, in 1922. During the selection process in 1921, the Nobel Committee for Physics decided that none of the year’s nominations met the criteria as outlined in the will of Alfred Nobel. According to the Nobel Foundation’s statutes, the Nobel Prize can in such a case be reserved until the following year, and this statute was then applied. Albert Einstein therefore received his Nobel Prize for 1921 one year later, in 1922… … insieme con Bohr: Bohr per il 1922, Einstein per il 1921. 144 Un altro grande contributo che dobbiamo ad Einstein è quello che chiamiamo Contributo metodologico La metodologia che è alla base della relatività ristretta è alla base di quello che fu chiamato l’ “operazionismo” (o critica operativa) da Percy Williams Bridgman (18821961) ne “La logica della Fisica Moderna” (The logic of modern physics, New York 1927): “nella fisica devono entrare in gioco solo quelle grandezze che si possono definire in base al metodo con il quale possono essere osservate o misurate sperimentalmente”. Il merito di Einstein (che ispirò l’opera di Bridgman) fu quello di aver applicato questo metodo in maniera rigorosa su tutti i concetti, anche e soprattutto su quelli di tempo e di spazio, che invece erano considerati “self-evident” e sembravano non necessitare di analisi e definizione. Quello dell’operazionismo era in realtà di un punto di vista più o meno implicito in tutta la prassi scientifica moderna, da Galileo in poi, come pure nelle tesi di filosofi empiristi, positivisti e pragmatisti della stessa epoca; tuttavia una diffusa consapevolezza al riguardo risulta acquisita da meno di un secolo. L’idea-base dell’operazionismo, chiaramente esemplificata, secondo Bridgman, dalla relatività einsteiniana e dalle nuove definizioni (“operative”) ivi suggerite delle nozioni di lunghezza, durata, simultaneità, nonché da analoghi aspetti della meccanica quantistica e della termodinamica, è che “i concetti scientifici sono sinonimi dei corrispondenti insiemi di operazioni”. È proprio nella natura di questo sviluppo metodologico, alla fine della relatività, farsi la seguente domanda: perché i sistemi di riferimento inerziali sono privilegiati? Di conseguenza: è possibile scrivere le leggi della natura anche nei sistemi accelerati? Infine spunta inevitabile una terza domanda: come si concilia l’azione a distanza con la velocità finita della luce? La meccanica classica (Meccanica newtoniana) in un certo senso questi problemi li aveva risolti. Infatti F ma è una legge universale che vale in tutti i sistemi di riferimento sia inerziali sia non inerziali Nei sistemi inerziali le forze originano solo da interazioni tra corpi Nei sistemi non inerziali le forze originano anche dal moto accelerato. Nei sistemi non inerziali non vale il terzo principio. Questo è il punto di partenza di Einstein: come cambiano le leggi della fisica quando passiamo da un sistema di riferimento inerziale a uno non inerziale? 145 9.2. L’inizio di una nuova sfida PRINCIPIO DI EQUIVALENZA Un sistema di riferimento accelerato è equivalente a un sistema inerziale soggetto a un campo gravitazionale. Il fatto era già noto prima di Einstein, solo che non aveva ricevuto sufficiente attenzione. Da dove nasce questo principio? Da una coincidenza numerica, sostanzialmente, ovvero dal fatto che sperimentalmente si osserva che vi è equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale MASSA INERZIALE: proprietà di un corpo che misura la sua capacità a opporsi all’azione di una forza F mi a MASSA GRAVITAZIONALE: proprietà di un corpo che misura la sua capacità di attrarre un altro corpo secondo la legge di gravitazione universale F G F G mg M r2 mg M r2 mi a a G M mg r 2 mi Se mg mi l’accelerazione di caduta è la stessa per tutti i corpi. Ed è quello che si verifica sperimentalmente! Con precisione sempre maggiore. Verifiche sperimentali e relativa precisione con cui è stata verificata l’equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale: Loránd von Eötvös 1885: 10-7; 1909-1922: 5x10-9 J. Renner 1935: 2x10-9 Robert H. Dicke 1964: 3x10-11 Adelberger 2008: 3x10-14 146 Equivalenza tra inerzia e gravità Einstein studia le conseguenze dell’eguaglianza della massa inerziale e gravitazionale mediante il seguente esperimento mentale: A sinistra un osservatore in un campo gravitazionale che misura l’accelerazione di un oggetto in caduta libera. A destra un osservatore in un ascensore accelerato (nello spazio siderale) in assenza di gravità Nessuno dei due è in grado di distinguere con certezza in quale situazione si trova. La forza misurata è la stessa nei due casi. L’accelerazione di caduta è la stessa nei due casi Cosa analoga si verifica se un osservatore si trova in caduta libera e lascia cadere un oggetto o se si trova in un ascensore nello spazio siderale in assenza di gravità: in entrambi casi l’osservatore non vedrà cadere l’oggetto. 147 Effetto Doppler gravitazionale Conseguenza di quanto affermato nel paragrafo precedente è che la frequenza della luce aumenta quando la luce “cade” sotto l’azione di una forza gravitazionale Immaginiamo dapprima che la sorgente posta sul soffitto di un ascensore fermo invii un segnale verso il basso. Il segnale viene rivelato dal rivelatore posto sul pavimento dell’ascensore (fermo) e non essendoci moto relativo la frequenza misurata è la stessa: ' . Immaginiamo (figura a destra) che la sorgente si trovi ferma “in alto” e che invece il pavimento col rivelatore si muova verso il basso con velocità vΩ: sappiamo (effetto Doppler relativistico) che la frequenza misurata è minore, proporzionale a quella inviata 1 1 Per piccoli β (velocità non relativistiche) la radice quadrata si può sviluppare in serie e si 1 1 trova che si può approssimare come ' 1 secondo la legge: ' Ora teniamo presente il principio di equivalenza (equivalenza tra inerzia e gravità) e analizziamo le seguenti due situazioni: 148 La situazione di destra (ascensore in accelerazione verso l’alto con accelerazione g) può essere analizzata matematicamente (in termini di effetto Doppler)… dopodiché potremo estendere le conclusioni cui arriveremo anche al caso di presenza di gravità. Immaginiamo dunque l’ascensore in salita rispetto a S’ con a g . A un certo istante la sorgente (che in quel momento avrà velocità v0) invia un segnale di frequenza ω verso il pavimento dell’ascensore. Per il rilevatore sul pavimento la sorgente luminosa sul soffitto è una sorgente in avvicinamento: Quando il segnale raggiunge il pavimento sia il pavimento sia la sorgente avranno una velocità diversa, che dipende dal tempo (molto breve) che il segnale luminoso impiega ad arrivare al pavimento: h h vrel v v0 g c c 1 gh ' 1 1 2 1 c v v0 g utilizzando allora il principio di equivalenza possiamo concludere che questo è quello che accade anche a un fascio di luce che si muove in presenza di un campo gravitazionale equivalente: la frequenza della luce aumenta quando la luce “cade” sotto l’azione di una forza gravitazionale C’è un altro modo per arrivare alle stesse conclusioni ed è quello di utilizzare il principio di conservazione dell’energia. 149 Supponiamo di avere una scatola di massa M, ferma, cioè con quantità di moto p 0e immaginiamo che nello stesso istante due fotoni con la stessa energia e opposta quantità di moto colpiscano la scatola e vengano assorbiti dalla scatola stessa. Secondo quanto abbiamo visto in una lezione precedente questo assorbimento di energia equivale a un aumento della massa inerziale della scatola. Immaginiamo ora di spostare questa scatola di una certa quantità h verso il basso: la forza peso compie un lavoro come indicato in figura: L = M’gh. Raggiunta questa quota più bassa immaginiamo che per un processo inverso, senza interventi esterni, la scatola liberi due fotoni con uguale energia (non necessariamente la stessa dei due fotoni di prima) in due direzioni opposte. La massa della scatola ritorna M. Adesso riportiamo la scatola all’altezza iniziale e per far questo dobbiamo spendere un lavoro L = mgh. Al termine di questo processo ci ritroviamo con la scatola di nuovo con massa M e p =0 nella stessa posizione iniziale: abbiamo cioè compiuto un ciclo. In questo ciclo i due lavori compiuti dalla forza gravitazionale durante le fasi di discesa e di risalita ammontano a un totale di Ltot M ' M gh Durante il ciclo c’è stato anche uno scambio di energia con l’esterno pari a E fotoni 2' I due (quattro) fotoni non possono avere la stessa frequenza, altrimenti l’energia non si conserverebbe. Se l’energia si conserva, deve valere e poiché M ' M M 'M gh 2' 2 2 gh 2 ' gh ' ricaviamo , ossia c2 c2 c2 ' 1 cioè deve essere gh c 2 , che è la stessa formula di prima. I due fotoni, per non alterare l’equilibrio energetico, se emessi ad altezza diversa devono avere una energia diversa: la frequenza della luce aumenta quando la luce “cade” sotto l’azione di una forza gravitazionale. 150 La formula precisa è la seguente: 2GM R h c 2 2GM 1 Rc 2 1 ' Questo fenomeno prende il nome di redshift (blueshift nel caso sopra, redshift se la luce si allontana dal campo gravitazionale): è stato verificato sperimentalmente da Pound, R. V.; Rebka Jr. G. A. "Gravitational Red-Shift in Nuclear Resonance" Physical Review Letters 3 (9): 439–441. sfruttando il fenomeno di risonanza tra due oscillatori nucleari di 57Fe (ħω=14.4 keV) posti uno sul tetto e l’altro alla base dell’edificio della Jefferson Tower del campus di Harvard, distanti 22,5 metri in verticale. Non si ha risonanza se entrambi gli oscillatori sono in quiete. Si ha risonanza se la sorgente viene fatta oscillare. La frequenza di assorbimento e di emissione di un fotone dipende da una proprietà interna agli atomi che cambia in presenza di un campo gravitazionale Effetto Doppler gravitazionale e curvatura del tempo Il fatto che questi oscillatori cambino frequenza se spostati verso zone del campo gravitazionale più intenso o meno intenso ha effetti sul tempo: questi oscillatori potrebbero essere proprio quelli di cesio con cui vengono costruiti gli orologi atomici e sulla cui base misuriamo il tempo: il tempo segnato da un orologio atomico cambia in presenza di un campo gravitazionale. Vi è un altro fenomeno influenzato dalla presenza di campi gravitazionali ed è quello della propagazione della luce: i campi gravitazionali attraggono i raggi di luce. Immaginiamo di avere un tizio con una torcia fuori di un ascensore che punta la luce contro le pareti (trasparenti) dell’ascensore. Tre sono le situazioni possibili: se l’ascensore è fermo un osservatore dentro l’ascensore vede la luce propagarsi in linea retta; se l’ascensore sale con velocità costante, l’osservatore dentro l’ascensore vede la luce propagarsi in linea retta verso il basso; se l’ascensore sale verso l’alto con moto accelerato, l’osservatore vede che il raggio di luce compie una parabola verso il basso. 151 Detta x la larghezza dell’ascensore, il tratto verticale percorso dalla luce nel terzo caso è 1 2 1 x2 gt g 2 . pari a 2 2 c Il principio di equivalenza ci permette di affermare che in presenza di un campo gravitazionale diretto verso il basso avverrebbe la stessa cosa: la luce non procede secondo una linea retta ma devia verso il basso secondo una traiettoria parabolica. La curvatura dello spazio-tempo L’intervallo di tempo proprio tra due eventi t0 relativistico: t0 1 x1A x1B c x 2 A 2 x2B x 2 1 x A xB c A 3 x3B è un invariante x 2 A 4 x4B 2 t0 dipende però dal potenziale gravitazionale in cui si trova l’osservatore. Il quadri-modulo dipende dalla presenza di un campo gravitazionale. Occorre modificarne la definizione: la gravità modifica la metrica dello spazio-tempo r ds 2 dx 2 dy 2 dz 2 1 0 c 2 dt 2 r dove r0 2GM c2 Consideriamo infine due punti su una superficie nello spazio di Minkosky. Se la superficie è piana il percorso più breve tra i due punti è una retta Se la superficie è curvata il percorso più breve dipende da come la superficie è curvata. 152 Se la distanza tra due punti dipende dal campo gravitazionale equivale a dire che lo spazio quadrimensionale è curvo e che la sua curvatura dipende dalla intensità del campo gravitazionale. Lo spazio-tempo non è piatto e la distanza tra due eventi non è data dal quadrimodulo dello spazio di Minkowsky, ma deve tener conto del campo gravitazionale In assenza di altre forze i corpi seguono le geodetiche dello spazio-tempo curvo. Quale è la metrica corretta? Einstein impiegò dieci anni per trovare la risposta: Equazione di campo di Einstein: R 1 8G g R g 4 T 2 c 9.3. L’impatto della Relatività oggi In molti campi della Fisica Moderna occorre considerare gli effetti relativistici per avere una determinazione esatta delle proprietà del sistema: questo avviene in Fisica nucleare (fissione, fusione…) Fisica delle particelle elementari Un ambito dove l’equivalenza massa-energia è una relazione fondamentale è quello riguardante gli acceleratori di particelle fisica delle particelle fisica medica radiazione di sincrotrone Più di 15.000 acceleratori sono oggi operanti nel mondo e solo un centinaio sono dedicati alle ricerche sperimentali sulle alte energie. La stragrande maggioranza di essi trova svariate applicazioni nel campo della medicina, dell’industria, dell’ambiente, della sicurezza. Negli acceleratori le particelle hanno velocità relativistiche e per mantenere tali particelle confinate nella loro sede occorre usare le formule della dinamica relativistica. 153 Molte proprietà degli atomi dipendono da proprietà relativistiche, in particolare lo spin degli elettroni, ma in generale tutto ciò che ha a che vedere con il magnetismo (anche se non sempre in misura significativa) dipende dalla relatività. Ma è nella vita quotidiana che, senza saperlo, abbiamo a che fare continuamente con la relatività. Se non vogliamo parlare dei vecchi televisori a tubo catodico, dove bisognava tener conto di piccoli effetti relativistici per il corretto funzionamento dell’apparecchio, non possiamo però fare a meno di citare un’applicazione che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: il GPS. Il Global Positioning System (GPS) è formato da 24 satelliti in orbita circolare intorno alla terra con periodo di 12 ore, distribuiti in sei piani orbitali equispaziati in angolo; (in modo che da ogni punto della Terra un certo numero di questi satelliti sia sempre visibile, un numero non piccolo, sei o sette). Ciascun satellite ha a bordo un orologio atomico che emette segnali con un codice che dà il tempo e la posizione del satellite. Analizzando i segnali, un ricevitore sulla terra mediante un microprocessore può determinare la posizione (latitudine, longitudine e altezza) del ricevitore. L’attuale precisione per uso civile è intorno ai tre metri. (Per l’uso militare la precisione è dell’ordine delle decine centimetri!!). Che c’entra la relatività col GPS? Il satellite si trova a una certa altezza. Gli orologi atomici a bordo dei satelliti si trovano in un campo gravitazionale che è diverso da quello sulla Terra i due orologi sfasano di un tempo t2 45.7s / d (più veloce sul satellite), tempo che, moltiplicato per la velocità della luce dà differenze dell’ordine dei chilometri. Inoltre il satellite è in moto con velocità di circa 14x103 Km/hr rispetto alla Terra t1 7.1s / d (più lento sul satellite). L’effetto globale è uno sfasamento t 38.6 s / d (corrispondente a circa 10 Km/d !!!) Gli orologi vengono corretti in modo da compensare gli effetti relativistici. E come si fa? Tutto sommato in maniera semplice, ossia cambiando la definizione di tempo sul satellite rispetto alla Terra. 154 Carlo Dariol : Sono relativamente soddisfatto. EDIZIONI DEL CUBO Ultima revisione: dicembre 2016 155