relatività ristretta in briciole (per piccioni)

Carlo Dariol
LA RELATIVITÀ RISTRETTA
Dagli appunti del Prof. Mobilio, Università di Roma 3
Sommario
Cap. 1
La nascita della relatività ristretta
p. 3
1. L’etere luminifero e le problematiche connesse
2. Aberrazione stellare
3. Esperimento di Fizeau
4. Elettromagnetismo e onde elettromagnetiche
5. Esperimento di Michelson e Morley
6. Relatività galileiana ed elettromagnetismo
7. Test ed esercizi
Cap. 2
Le ipotesi di Einstein e loro conseguenze
p. 23
1. Le ipotesi (assiomi)
2. Rivisitazione del concetto di tempo e di simultaneità
3. Dilatazione dei tempi
4. Contrazione delle lunghezze
5. Verifiche sperimentali
6. Test ed esercizi
Cap. 3
Trasformazioni di Lorentz
p. 43
1. Trasformazioni di Lorentz
2. L’ invariante relativistico
3. Il cono di luce
4. L’ effetto Doppler relativistico
5. Test ed esercizi
Cap. 4
Trasformazioni della velocità
p. 62
1. Legge di trasformazione delle velocità
2. Alcuni esempi
3. Interpretazione dell’esperimento di Fizeau
4. Test ed esercizi
Cap. 5
I paradossi della relatività
p. 70
1. Il serpente relativistico – Scala nel fienile – sciatore
2. Paradosso dei gemelli
3. Test ed esercizi
Cap. 6
Dinamica relativistica (A. Einstein 1905)
1. L’approccio di Einstein. Legge di trasformazione dei campi E e B
2. L’equivalenza massa-energia
1
p. 80
3. L’energia, l’impulso e la legge del moto in relatività
4. Conservazione dell’energia in urti elastici e anelastici
5. Conservazione della quantità di moto
6. Legge di azione e reazione. Legge di trasformazione delle forze
7. Test ed esercizi
Cap. 7
Elettromagnetismo
p. 107
1. Equazioni di Maxwell e trasformazioni di Galileo
2. La conservazione della carica
3. Le trasformazioni della densità di carica e di corrente
4. Campo elettrico e magnetico generato da una corrente elettrica
5. Le trasformazioni del campo elettrico e magnetico osservate in cinque esempi
6. Test ed esercizi
Cap. 8
Formalismo Covariante
p. 125
1. Quadrivettori e proprietà
2. Quadrivettore velocità
3. Quadrivettore “quantità di moto – energia” (quadrimpluso)
4. Covarianza della conservazione della quantità di moto
5. Particelle a massa nulla: il fotone
6. Effetto Compton
7. Rivisitazione dell’effetto Doppler
8. Equazione del moto e Forze in Relatività. Forza di Minkowsky
9. Trasformazioni del campo elettrico e magnetico
10. Formulazione covariante dell’elettromagnetismo
11. Test ed esercizi
Cap. 9
Conclusioni
p. 143
1. Cosa abbiamo imparato da Einstein
2. L’inizio di una nuova sfida: il principio di equivalenza e la relatività generale
3. L’impatto della Relatività oggi
2
Capitolo 1: La nascita della relatività ristretta
In questo capitolo racconteremo la nascita della Relatività ristretta e ripercorreremo il
cammino di due secoli che portò Einstein a formulare le sue leggi.
È inevitabile partire dalla tematica dell’etere luminifero, una questione vecchia di
due secoli, sulla quale finirono per impattare fortemente le equazioni di Maxwell.
Analizzeremo quindi i risultati negativi delle esperienze di Michelson e Morley che
portarono a una crisi della fisica classica, che non riusciva a conciliare la relatività
galileiana e l’elettromagnetismo.
Infine vedremo la sintesi di Einstein, semplice e geniale.
Sono due i cammini distinti che portano alla nascita della relatività ristretta, quello
della storia della velocità della luce e quello dell’analisi dei vari sistemi di riferimento: i
quali furono però destinati a unirsi e fondersi nella sintesi einsteiniana.
• Propagazione della luce e l’etere
luminifero
• Velocità della luce in un mezzo in moto
rispetto all’Etere
• Mezzo in moto rispetto all’etere:
√ aberrazione stellare
√ esperimento di Fizeau
√ esperimento di Michelson e Morley
• Relatività galileiana e sistemi di
riferimento inerziali
• L’invarianza delle equazioni della
meccanica
• Sistemi di riferimento ed
Elettromagnetismo
Relatività di Einstein
1.1. L’etere luminifero e le problematiche connesse
La nascita dell’etere
Il concetto di etere nasce con Christian Huygens (1629 – 1695) che, in analogia col
suono, ipotizzò che la luce fosse un’onda longitudinale e che (come il suono ha bisogno
dell’aria) avesse bisogno di un mezzo per propagarsi: l’etere, appunto, un mezzo fluido
che sostiene le oscillazioni longitudinali di natura meccanica percepite dall’occhio umano
come luce.
Questa bella immagine è tratta dagli appunti di Huygens
3
La natura ondulatoria e trasversale della luce si afferma nel corso della prima metà
del XIX secolo grazie ai lavori di Thomas Young (1773-1829) sull’interferenza e di
Augustin Jean Fresnel (1788-1827) sulla diffrazione.
Furono i loro esperimenti che portarono a scalzare il padre della teoria
corpuscolare, Newton.
Essi arrivarono a determinare che l’etere è un mezzo estremamente rigido capace
di sostenere oscillazioni trasversali di frequenza (1014 Hz) molto più alta rispetto alle
oscillazioni meccaniche (suono, 103-104 Hz) dei solidi ordinari.
L’etere deve avere proprietà meccaniche molto particolari: molto rigido, per
consentire quelle frequenze… e molto inconsistente, dato che l’etere deve consentire ai
corpi di muoversi al suo interno senza offrire resistenza
L’ipotesi dell’etere poneva delle problematiche:
- quale è il sistema di riferimento in cui l’etere è in quiete?
- Quale è la velocità della Terra rispetto all’etere?
- Quale è la velocità di propagazione della luce quando essa si propaga in un mezzo
in moto rispetto all’etere? Ovvero:
o che interazione c’è tra l’etere e un mezzo che si muove in esso? In
particolare, l’etere è perturbato dal mezzo o no?
o Se l’etere viene perturbato, acquista localmente la velocità del mezzo?
o Oppure acquista una velocità intermedia?
Dovendo scegliere un sistema di riferimento privilegiato a un fisico vien da
pensare a un sistema solidale alle stelle fisse, dato che la Terra non è certo un sistema di
riferimento privilegiato. È questo il sistema rispetto al quale l’etere è in quiete? Queste
problematiche affascinarono i fisici dell’epoca.
Le questioni sul tavolo sono tante ma la prima è: come possiamo individuare la
velocità della terra rispetto all’etere?
1.2. L’aberrazione stellare
L’aberrazione stellare fu osservata (e interpretata) per la prima volta da James Bradley
(1693 – 1762) nel 1700. È dovuta al moto della terra e alla velocità finita della luce.
4
La direzione verso cui puntare il cannocchiale è il frutto della composizione della
velocità della luce e della velocità del pianeta rispetto… all’etere.
Succede per la luce un po’ quello che succede quando ci muoviamo con un
ombrello sotto la pioggia:
se corriamo incontro alla pioggia (che scende verticale), dobbiamo inclinare in avanti
l’ombrello per non bagnarci, ovvero per fare in modo che la velocità relativa dell’acqua
rispetto a noi risulti perpendicolare all’ombrello
Nel caso dell’aberrazione stellare il ragionamento è analogo:
una stella si trova esattamente sulla verticale
rispetto alla Terra: se lascio il cannocchiale verticale, la luce non raggiunge il
cannocchiale. Cosa devo fare per osservare la stella? Devo inclinare il cannocchiale in
modo che la direzione del cannocchiale sia la stessa della direzione della luce; il
cannocchiale va inclinato nella direzione della velocità della terra di un angolo α tale che
vt v
tan  

ct c
L’angolo α dipende dunque dalla velocità della Terra e dalla velocità della luce.
Tenendo conto che la velocità della terra nel suo moto di rivoluzione attorno al
sole è di circa 30 Km/s e che quella della luce è di circa 300.000 Km/s tale angolo è di
circa 20’’.
Occorre notare però che la velocità della Terra non è costante: la direzione
apparente delle stelle varia durante l’anno.
Le stelle appaiono compiere orbite ellittiche con
• semiasse maggiore pari a ≈ 20’’ eguale per tutte le stelle
• semiasse minore che varia in funzione della posizione della stella sull’eclittica
L’apertura del cono di osservazione è pari a 2α≈ 40’’
5
Assumendo che l’etere sia solidale con le stelle fisse e che l’etere non sia influenzato dal
moto della Terra e che quindi la velocità della luce relativa alla Terra sia la somma
vettoriale della velocità della luce rispetto all’etere e della velocità dell’etere rispetto alla
Terra, tutto questo spiega:
• l’effetto osservato;
• la misura della velocità della luce.
Questa spiegazione ci direbbe dunque che l’etere non è influenzato dal moto della Terra.
Come può un corpo muoversi nell’etere senza che questo venga disturbato dal
moto?
Indichiamo con c la velocità di propagazione della luce rispetto all’etere. La
velocità della luce vL rispetto al sistema di riferimento S del laboratorio è la stessa di c se
il laboratorio è fermo rispetto all’etere.
Facciamo passare la luce attraverso l’acqua di una vasca ferma rispetto al laboratorio.
6
La velocità c’ della luce è influenzata dalla presenza dell’acqua attraverso un indice di
rifrazione n:
c
c' 
n
Ora proviamo, con un qualche meccanismo, a mettere in moto l’acqua nella vasca.
Qual è la velocità di propagazione quando l’acqua è in moto con velocità vacq. ?
Tre sono le possibilità:
1) l’etere non viene perturbato dal moto dell’acqua;
2) l’etere viene completamente trascinato dal moto dell’acqua;
3) l’etere viene solo parzialmente trascinato dall’acqua.
Le tre possibilità hanno conseguenze diverse sulla velocità della luce:
1) nel primo caso l’etere non è perturbato dal moto dall’acqua e la velocità della luce
c
in acqua è c '  , come nell’acqua ferma;
n
2) nel secondo caso l’etere si mette in moto rispetto al laboratorio e la velocità della
luce rispetto al laboratorio risulterà la somma della velocità c e della velocità vacq.:
c
c'   vacq . ;
n
3) nel terzo caso l’etere acquista solo una frazione α della velocità dell’acqua, per cui
c
la velocità della luce nell’acqua rispetto al laboratorio è c'   vacq .
n
Tutte queste considerazioni servono per introdurre un lavoro famoso di Fresnel per
valutare il valore di quell’ α.
Ipotesi di Fresnel
Augustin-Jean Fresnel (Broglie, 10 maggio 1788 – Ville-d’Avray, 14 luglio 1827) nel 1818
propose un modello di trascinamento parziale dell’etere da parte del mezzo in presenza
di moto relativo tra i due. In base alla sua ipotesi, la velocità che l’etere assume è
7
  '
ve '  v1  e 
e 

Inoltre l’indice di rifrazione dipende dalla densità del mezzo. Per cui concluse che:
e ' 1
c
1 

 2  c'   vacq . 1  2 
e n
n
 n 
quest’ultima parentesi corrisponde all’α cercato ed è noto come “Fresnel drag
Coefficient” (coefficiente di trascinamento di Fresnel).
2.3. L’ esperimento di H.L. Fizeau (1851)
Hippolyte Louis Fizeau (1819-1896) nel 1851 verificò l’ipotesi del trascinamento parziale
dell’etere da parte di un mezzo con un famoso esperimento trovando un valore di α =
0.48 da confrontarsi con α = 0.43 atteso dalla formula di Fresnel. Il successo fu
interpretato come una conferma del trascinamento parziale dell’etere.
Il risultato dell’esperimento fu confermato con maggiore precisione da Michelson
e Morley nel 1886. P. Zeeman lo ripeté negli anni 1914 – 1922.
Quando Einstein trovò le sue formule delle relatività e provò a testare la validità
della formula di Fresnel, trovò che l’effetto di trascinamento previsto da Fresnel e
calcolato da Fizeau poteva facilmente essere interpretato come conseguenza della
composizione di velocità relativistiche.
Sorge però un dubbio: non è in contraddizione il risultato dell’esperimento di
Fizeau con il fenomeno dell’aberrazione stellare dove si era osservato che non c’è
trascinamento dell’etere da parte del movimento della Terra? Qui infatti osserviamo un
trascinamento parziale…
Questa contraddizione, evidente in termini logici, non c’è in termini numerici
perché nel caso dell’aberrazione stellare nel caso di osservazioni “ordinarie” il mezzo è
l’aria, e l’indice di rifrazione dell’aria è praticamente 1, e α=0.
E riempiendo il cannocchiale di acqua?
L’sperimento di Sir George Airy (1871)
Che succede se io riempio il cannocchiale di acqua in modo che α diventi quello
dell’esperimento di Fizeau? Dovrei osservare una variazione della posizione. La grande
sorpresa fu che non si osservò nessuna variazione, la posizione apparente delle stelle non
cambiava. La cosa fece scalpore.
La spiegazione che fu data è semplice ed è che… l’esperimento era sbagliato! O
piuttosto, l’interpretazione che ne fu data era sbagliata: facendo lavorare un cannocchiale
in aria o in acqua (con l’acqua solo da una parte rispetto alla lente) cambiano le proprietà
focali della lente e la mancata osservazione di trascinamento dipende dal fatto che la
8
variazione dovuta alla presenza dell’acqua da una parte della lente viene compensata
proprio dalla variazione delle proprietà focali della lente. L’analisi dettagliata
dell’esperimento mostra che la mancata osservazione di una qualunque variazione è
possibile se
1
  1 2 .
n
1.4. Elettromagnetismo e onde elettromagnetiche
Le equazioni di Maxwell (1864)
James Clerk Maxwell (1831 – 1879) pubblicò nel 1864 presso la Royal Society il suo
celebre trattato “A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field” nel quale
presentava le sue quattro celebri equazioni.

 

B
E 
 E  
0
t




E
  B  0 j   0 0
B  0
t
Le equazioni di Maxwell sono espressioni locali di leggi generali famosissime:
 
 Q
E 
 C (E)  i
- il teorema di Gauss
0
0
- legge di Faraday-Neumann dell’induzione elettromagnetica


B
d( B)
 E  
 f ind  
t
dt
- non esistono sorgenti isolate del campo B. Le linee di forza sono chiuse


B  0   C ( B)  0
- Il campo B non è conservativo. È generato dalla corrente di conduzione e dalla


 

E
  B  dS   0iconc   0ispost
corrente di spostamento   B   0 j   0  0
t
In maniera abbastanza semplice si ricava l’equazione con cui si propaga il campo
elettrico, che è l’equazione di un’onda, in tutto e per tutto simile a quella di un’onda
sonora.
d 2E
d 2E
  0 0 2
dx 2
dt
9
La velocità con cui si propaga un’onda elettromagnetica è
1
m
c
 2.99792458108
s
 0 0
e il fatto che questo valore sia quello della velocità della luce ci dice la luce deve essere
un’onda elettromagnetica.
La cosa straordinaria è che l’etere non serve più: la luce è una vibrazione di un
campo E che si autosostiene con B. L’etere, non più necessario come mezzo che
sostiene l’onda, diventa semplicemente un sistema di riferimento, quello in cui le
equazioni di Maxwell valgono nella loro forma “ordinaria” e in cui la velocità
della luce è c.
Allora la problematica dell’etere cambia: qual è il sistema in cui la velocità della
luce si propaga esattamente con velocità c ? Ovvero: qual è il sistema di riferimento in
cui le equazioni di Maxwell assumono esattamente quella forma?
Quel sistema di riferimento è quello della Terra? Appare dubbio.
Se il sistema di riferimento dell’etere è identificato con le stelle fisse, e la Terra è in
moto rispetto a questo sistema di riferimento con una velocità v ≈ 30 Km/s, è possibile
misurare la velocità della terra rispetto all’etere con misure “locali”?
È questa velocità eguale a quella della Terra rispetto alle stelle fisse?
Nasce il problema di misurare la velocità della Terra rispetto all’etere
L’idea di come fare venne proprio a Maxwell che propose esperimenti simili a
quelli riportati in figura.
Abbiamo un carrello in stazione con all’interno una sorgente luminosa che emette un
fascio di luce verso la parete destra e un fascio di luce verso il soffitto. Se le due distanze
sono uguali e il carrello è fermo rispetto all’etere, il fascio luminoso impiega lo stesso
tempo nei due tragitti.
10
Supponiamo che il carrello si muova verso destra rispetto all’etere: in tal caso la velocità
della luce nei due cammini non è più la stessa: il fascio luminoso impiega tempi diversi se
il carrello è in moto.
Il moto delle terra rispetto all’etere è assimilabile al moto del carrello rispetto alla
stazione.
Maxwell stesso che propose questi esperimenti era però molto scettico sulla loro
riuscita perché le variazioni che si sarebbero dovute misurare erano dell’ordine di
v2
 108 (immaginando che la velocità della Terra sia dell’ordine dei citati 30 km/s,
2
c
tale rapporto dà appunto un valore di 10 – 8).
Ci vogliono esperimenti estremamente raffinati per mettere in risalto variazioni di
quella entità
Beh, gli esperimenti di interferometria hanno questa sensibilità; anzi, ce l’avevano
già all’epoca. E difatti…
1.5. L’esperimento di Michelson e Morley
Gli esperimenti di A. A. Michelson (1852 – 1931) nel 1881 e in collaborazione con E.
W. Morley (1838 – 1923) nel 1887 esclusero che la terra fosse in moto rispetto all’etere.
I due eseguirono esperimenti del tipo di quelli suggeriti da Maxwell facendo uso
dell’interferometria.
Essi utilizzarono l’interferometro di Michelson, di cui sotto vediamo uno
schema:
La luce emessa dalla sorgente giunge su uno specchio M semiargentato (inclinato di 45°)
che in parte lascia passare il fascio e in parte lo riflette. I due fasci giungono dunque agli
specchi M1 e M2 e tornano di nuovo allo specchio inclinato M. Di nuovo in parte si
riflettono e in parte lo attraversano per giungere quindi allo schermo P. I due fasci
11
provenienti dalla sorgente hanno percorso cammini geometrici, e quindi cammini ottici
differenti, e provenendo da un’unica sorgente sono coerenti e danno dunque luogo in P
a figura di interferenza.
La differenza di fase tra i due fasci è
  2
2 L2  2 L1

Sullo schermo S si osserva una figura di interferenza, con massimi e minimi a seconda
della differenza di fase dei due fasci.
Come utilizzò Michelson (nel 1881) questo aggeggio per mettere in evidenza il
movimento della Terra rispetto all’etere? L’interferometro, posizionato sulla Terra, ha la
stessa velocità della Terra rispetto all’etere.
Ipotesi semplificata: la velocità della Terra rispetto all’etere sia verso destra con v,
quindi anche lo strumento, solidale alla Terra, si muove con la medesima velocità
rispetto all’etere.
Terra in moto nella direzione M-M1 con velocità v
Nel percorrere il tratto M-M1 la velocità della luce rispetto allo strumento è: vL  c  v
Nel percorrere il tratto M1-M è: vL  c  v
Il tempo totale che la luce impiega a percorrere il tratto M-M1-M è quindi:
L
L
2cL
t1  1  1  2 1 2
cv cv c v
Nei segmenti verticali la velocità della luce è la composizione della luce rispetto all’etero
2
2
+ la velocità della Terra rispetto all’etere: v L  c  v
12
Per percorrere il cammino M-M2-M la luce impiega t 2 
Per cui otteniamo t  t1  t 2 
2 L2
c2  v2
2cL1
2 L2

2
2
c v
c2  v2
L’osservazione della figura di interferenza sullo schermo P, anche se in linea di principio
potrebbe consentire la determinazione di v, in pratica non fornisce informazioni utili allo
scopo. Si presentano infatti due problemi:
1) non conosco con sufficiente precisione i valori di L1 e L2 : ma questo è un
problema secondario: il vero problema è che …
2) … manca un riferimento di “zero”.
L’idea di Michelson fu che per osservare una variazione delle frange di
interferenza bastava ruotare l’interferometro di 90°. Perché?
13
Ruotando l’interferometro di 90° il tratto L1 diventa verticale, il tratto L2 diventa
orizzontale; le due distanze si scambiano ruolo e anche i tempi di percorrenza si
scambiano, per cui si dovrebbe osservare interferenza.
2 L1
2cL
2cL1
2 L2

t '  t1 't 2 ' 
 2 22
Se t  t1  t 2  2
è
invece
2
c v
c2  v2
c2  v2 c  v
 (t ) 
 2 L1
2cL1
2 L2
2cL2   c
1








2
2 
2

 2
c2  v2
c2  v2  c2  v2 c  v   c  v
c2  v2

2L1  L2 


L’interfrangia corrisponde a una differenza di fase pari a 2π, ossia a una differenza di
cammino ottico pari a λ, ossia a una differenza di tempo impiegato pari a T.
14
I
corrisponde alla differenza di fase diviso
I
2π, ossia alla differenza di cammino ottico diviso λ, ossia alla differenza di tempo
impiegato diviso il periodo T.
I  x  (T ) c (T )




I
2

T

Lo spostamento frazionale delle frange
Lo spostamento frazionale delle frange di interferenza vale dunque:
 c

1
2L1  L2 
c 2

2
2
2 
c

v
 c (t )
c

v


 

2


 1
 2L  L 
2L1  L2 
1
1
2



  (  1)
2
1 


1   2 

avendo posto, come di consuetudine in Relatività,
1
1
v




e
.
1  2
v2
c
1 2
c
Qualche numero: velocità della Terra = 29.4 Km/s
v
2
5
   9.8 10   1 
 4.8 109 da cui 
c
2
L  L2   108 Ltot

 108 1
2


Ltot = L1 + L2 è la somma dei bracci dell’interferometro.
Nell’esperimento di Michelson del 1881 era Ltot = 2.4 m e λ=5.89 10 – 7 m

 0.04 Si sarebbe dovuto osservare lo spostamento di 4/100 di frangia: si

2
era cioè al limite della sensibilità dello strumento pari a 0.02. Michelson non osservò
però alcuno spostamento delle frange, e concluse: “The result of the hypothesis of a
stazionary aether is thus shown to be incorrect” Michelson, Am. J. Sci., 122, 120 (1881).
Ossia: la velocità della Terra rispetto all’etere è nulla.
In quel caso il fattore R, ovvero il rapporto tra la sensibilità dello strumento e lo
0.02
 5 101 .
spostamento relativo atteso, valeva R 
0.04
Chiaramente, essendo ai limiti della sensibilità dello strumento, la risposta non
poteva essere definitiva.
15
Michelson rifece l’esperimento con Morley nel 1887 aumentando la lunghezza dei
bracci dell’interferometro a Ltot = L1+L2 = 22 m e la sensibilità dello strumento a uno
I 

 0.4 , per
0.01 di frangia, a fronte di uno spostamento di frangia atteso pari a
I
2
cui il fattore R, rapporto tra la sensibilità dello strumento e lo spostamento relativo
0.01
 2.5 102 , e ancora non si osservarono
atteso, assumeva adesso il valore R 
0 .4
spostamenti di frange superiori a 0.01.
Curiosità: in seguito l’esperimento fu rifatto da altri, in particolare da Joos nel

 0.75 e il fattore
1930, aumentando ancora la Ltot = L1+L2 = 42 m

2
  


sensib.
 2  sens
R

 I 
 I 
 
 
 I  atteso  I  atteso
risultava migliorato al valore R  2.7 103 , per cui era possibile
  
  0.002 ossia dell’ordine relativo
misurare un possibile spostamento di frangia 
 2  sens
di un “per mille”… (Shankland et al. Rev. Mod. Phys., 27, 167 (1955) e ancora non si
osservò nulla.
Conclusione: la velocità della Terra rispetto all’etere è nulla.
La Terra costituisce dunque un sistema di riferimento privilegiato rispetto al quale
le equazioni di Maxwell assumono la loro forma “ordinaria”?
Ciò contrasta con il principio di relatività.
Ciò contrasta con l’evidenza sperimentale dell’aberrazione stellare.
Ai tempi dell’esperimento di Michelson la comunità scientifica reagì con sconcerto e si
avanzarono diverse ipotesi per spiegare il risultato negativo dell’esperimento. Si suggerì
per esempio che la Terra trascinasse parzialmente l’etere nel suo moto, oppure che lo
strumento subisse delle deformazioni diverse nelle due direzioni per effetto del moto
della Terra e ciò impedisse la registrazione degli effetti attesi. Michelson ricevette il
premio Nobel nel 1907 per la invenzione del suo strumento che, nel frattempo, aveva
consentito applicazioni esterne al problema da cui era nato, e la comunità scientifica si
accontentò di IPOTESI AD HOC introdotte nella teoria classica per spiegare i risultati
degli esperimenti.
La contrazione delle lunghezze
In particolare George FitzGerald, nel 1889 e indipendentemente Hendrik Antoon
Lorentz nel 1892 ipotizzarono che un corpo di lunghezza L in movimento rispetto
16
all’etere subisca una contrazione della sua lunghezza nella direzione del moto pari a:
L
L'  L 1   2 
senza però darne alcuna spiegazione o motivazione

Questa formula rende identica la velocità di propagazione nei due bracci. Ma il
fatto che l’ipotesi ad hoc non fosse sostenuta da alcuna spiegazione rendeva debole
l’argomentazione.
1.6. Relatività galileiana ed elettromagnetismo
Cerchiamo di inquadrare qual era il clima culturale nel quale si sviluppò il concetto di
relatività. E lo facciamo a partire dalla relatività galileiana.
Relatività galileiana
Sono dati due sistemi di riferimento Oxyz e O’x’y’z’ con assi paralleli. O’ è in moto con
velocità vO’ costante rispetto al sistema Oxyz, con gli assi che rimangono paralleli, senza
rotazioni, a quelli del sistema Oxyz.
OP  OO'  O' P
da cui, derivando a destra e a sinistra rispetto al tempo, e tenendo conto che i versori
non mutano direzione



vP  vO '  vP '
Si è fatta l’ipotesi (la grande ipotesi non giustificata della meccanica classica) che il tempo
sia lo stesso nei due sistemi. Da questa relazione, derivando ancora una volta a destra e a
sinistra rispetto al tempo


aP  aP '
In entrambi i sistemi di riferimento l’accelerazione di P è la stessa.
17
Relatività galileiana: Un sistema di riferimento Oxyz è detto inerziale se in esso vale il
principio di inerzia.
Da quanto visto sopra si deduce che, se Oxyz è inerziale, lo è anche Ox’y’z’ che si
muove con velocità costante rispetto ad esso (ciò deriva dalla legge di composizione
delle velocità).
Nei sistemi di riferimento inerziali valgono le leggi di Newton nella loro forma
“ordinaria”:


F  ma

 dove F è la risultante delle forze reali
F12  F21
Principio di azione e reazione
La legge di Newton è invariante per trasformazioni di Galileo (perché l’accelerazione è
sempre la stessa)
Se una trasformazione di Galileo lascia invariate le forze allora la dipendenza di
una forza da parametri fisici può essere solo da grandezze invarianti per trasformazioni
di Galileo.
La legge di Hooke e la legge della resistenza viscosa, che dipendono dalla
posizione e dalla velocità, vanno scritte correttamente perché continuino a valere per
trasformazioni di Galileo
Espressioni non invarianti per
trasformazioni di Galileo
Espressioni invarianti per
trasformazioni di Galileo
F=–kr
F=–kv
F = – k Δr
F = – k vrel
Tali leggi non vanno dunque scritte come compaiono nella colonna di sinistra, con r e v,
che dipendono dal sistema di riferimento, ma come compaiono nella colonna di destra.
L’essenza di questo discorso sta nel fatto che se andiamo ad analizzare fenomeni
elettromagnetici, per esempio la forza di Lorentz, o la legge dell’induzione
elettromagnetiche, esse presentano criticità rispetto alle trasformazioni di Galileo.
F = q (E + vxB)
f ind  
Se una carica è in moto con velocità v in un
campo magnetico B, la forza non è invariante per
trasformazioni di Galileo (e la mancanza di tale
invarianza dipende dal fatto che compare v: se
cambio sistema di riferimento cambia v, e quindi
cambia anche la forza, laddove la relatività di
Galileo prevede invece che la forza rimanga la
stessa)
d ( B )
dt
Se un circuito viene mosso con velocità v in un
campo magnetico B, la forza elettromotrice
indotta non è invariante per trasformazioni di
Galileo. Se cambia il sistema di riferimento,
cambia anche la v, e perciò dovrebbe cambiare la
forza elettromotrice. Quindi la legge di FaradayNeumann-Lenz
non
è
invariante
per
trasformazioni di Galileo.
Andiamo dunque ad analizzare alcune situazioni classiche, particolarmente semplici.
18
Supponiamo che q1 e q2, in moto in S con la stessa velocità v lungo l’asse x, siano ferme
nel sistema S’ in moto con velocità v rispetto a S:
In S’ vale la
F
1
q1q2
40 r 2
. La forza di Coulomb è diretta secondo la
congiungente le due cariche. Andiamo invece ad analizzare dal punto di vista di S, nel
quale le due cariche si muovono solidali al sistema S’. In S le cariche in moto simulano
delle correnti, ad esempio q2 muovendosi genera un campo B che agisce su q1; e
viceversa; ciascuna carica sente dunque anche (un campo magnetico e quindi) una forza
di Lorentz che va ad aggiungersi alla forza di Coulomb.
Altra situazione interessante è la seguente. Supponiamo che le due cariche si
muovano con direzione non ortogonale alla congiungente ma, ad esempio, secondo la
direzione mostrata nella figura sotto.
La forza di Lorentz agisce perpendicolarmente alla velocità, come indicato in
figura dai vettori tratteggiati. Se la direzione del moto non è ortogonale alla
congiungente, le forze di Lorentz che spuntano non sono dirette secondo la
congiungente ma formano una coppia che tende a far ruotare le cariche. E la
19
conservazione del momento della quantità di moto? Un sistema non può ruotare in
assenza di interazioni esterne ma solo in presenza di azioni interne.
La risultante delle forze è lungo la congiungente in S’ ma non lo è in S: ma le
trasformazioni di Galileo non modificano le direzioni!!!
Le equazioni di Maxwell non sono invarianti per trasformazioni di Galileo.
Ma siccome le stesse equazioni di Maxwell prevedono che la luce si propaghi
sempre con velocità c, le stesse equazioni prevedono dunque che esista un sistema
di riferimento privilegiato nel quale esse valgano nella loro forma “ordinaria”.
Quale è questo sistema di riferimento?
Se nel sistema privilegiato le equazioni di Maxwell assumono la loro forma
ordinaria, esistono altri sistemi nei quali assumono la stessa forma?
Tra il 1881 e il 1905 alcuni ricercatori, in particolare H. A. Lorentz e Jules Henri
Poincarè (1854-1912), avanzarono ipotesi ad hoc per spiegare il risultato negativo
dell’esperimento di Michelson e Morley analizzando a fondo il comportamento del
campo elettrico e magnetico in varie situazioni. Essi anticiparono molti dei risultati
ottenuti poi da A. Einstein in modo naturale con la formulazione della relatività ristretta.
Pur costituendo un contributo fondamentale allo sviluppo della Fisica di quegli
anni, questi contributi erano tutti caratterizzati dalla mancanza di un quadro
interpretativo coerente che spiegasse le osservazioni sperimentali e giustificasse le
ipotesi fatte per spiegare i fenomeni.





Tra questi ipotesi/risultati ricordiamo:
la già citata contrazione di Lorentz;
le trasformazioni di Lorentz determinate come le trasformazioni di coordinate da
un sistema di riferimento a un altro che non modificano la forma delle equazioni
di Maxwell;
poiché le trasformazioni sopra prevedevano un tempo diverso tra i due sistemi, fu
avanzata l’ipotesi di un tempo locale, dal significato ignoto, ma necessario per
scrivere le equazioni di Maxwell in sistemi di riferimento diversi da quello
dell’etere;
la dipendenza della massa dalla velocità di un corpo;
le problematiche legate alla definizione del tempo e in particolare alla
sincronizzazione degli orologi e all’uso della luce per questo scopo.
Eppure, proprio in quegli anni, fu affermato il Principio di Relatività, un principio
della cui validità tutti i fisici erano convinti.
20
Principio di Relatività
Nessun esperimento può discriminare tra uno stato di quiete e uno di moto
rettilineo uniforme.
Le equazioni fisiche devono avere la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento
inerziali.
Come si concilia l’Elettromagnetismo con il principio di Relatività valido per la
Meccanica Classica?
E qui, col senno di poi, spunta la domanda: ma perché doveva essere
l’elettromagnetismo a dover adeguarsi al principio di Relatività valido per la Meccanica
Classica. Semplice: perché valeva il principio di autorità di Galileo e Newton. Nessuno
osava immaginare che potessero essere le leggi di Newton inadeguate e quindi da
modificare.
La geniale intuizione di Einstein fu proprio questa.
1.7. Quesiti e test
La velocità media del moto di rivoluzione di Giove intorno al Sole è di 13,1 Km/s. L’angolo di
aberrazione stellare medio è:
a. 20''
b. 41''
c. 4,5''
d. 18''
e. 9,0''
[La risposta corretta è la e.
Poiché α=arctg(vT/c)=20'' sulla Terra, dove v=29,4 Km/s, su Giove, dove v=13,1 Km/s, tale
rapporto, e dunque tale angolo – dato che per angoli piccoli vi è linearità –
diventerà i 13,1/29,4 di 20’’]
In una riedizione dell’esperimento di Michelson e Morley si utilizza una lunghezza d’onda
emessa da un laser ad argon λ=4.88⋅10−7m in un interferometro con braccia di lunghezza
L=2,5 m. Lo spostamento frazionale delle frange atteso è:
a. 0,1
b. 0,03
c. 0,2
d. 0,05
e. 0,3
[La risposta corretta è la a. La formula da usare è ΔI/I = 10-8 (L1+L2)/λ]
Nell’esperimento di Michelson e Morley del 1887, la sensibilità dello strumento era di 0,005.
Quale è il limite superiore che tale sensibilità pone alla velocità della Terra rispetto all’etere?
a. 0,15 Km/s
b. 0,37 Km/s
c. 12 Km/s
d. 30 Km/s
e. 3,5 Km/s
21
Se la sensibilità è 0.005 (di frangia), uno spostamento inferiore non potrei vederlo; quindi devo
imporre che sia
I  x  (T ) c (T )




 0,005
I
2

T

Con la lunghezza dei bracci dell’interferometro portata a Ltot = L1+L2 = 22 m
e la stessa lunghezza d’onda del 1881, deve allora valere la seguente
2L1  L2 

44m
  (  1)
  (  1)
 0,005 , disequazione di
2

5.89  107 m
secondo grado in γ per poi ricavare β. Si può più convenientemente sviluppare in serie
 (  1)   2   


1
1
 1  1

 1   2  1   2    2 :
2
1 
 2  2
1  2
1 2 2L1  L2 
  0,005

 0,005  v  c
2

L1  L2
la risposta esatta è la e.]
Nell’ipotesi di Fresnel qual è la differenza della velocità della luce quando si propaga in acqua
parallelamente al moto della Terra rispetto a quando si propaga perpendicolarmente al moto
della Terra?
a. 30 Km/s
b. 24 Km/s
c. 0 Km/s
d. 13 Km/s
e. 18 Km/s
[La risposta corretta è la d.
La formula da usare è c' - c'' =[c/n +v acq(1-1/n2)] - c/n, ricordando che la velocità dell'acqua è
la stessa della terra (29,4 km/s) e che l’indice di rifrazione dell’acqua è 1,33]
La forza di Lorentz F=q(vxB) non è invariante per trasformazioni di Galileo perché
a. il prodotto vettoriale tra due vettori non è invariante per trasformazioni di Galileo
b. la forza non è invariante per trasformazioni di Galileo
c. la carica non è invariante per trasformazioni di Galileo
d. la velocità v non è invariante per trasformazioni di Galileo
e. il campo B non è invariante per trasformazioni di Galileo
[La risposta corretta è la d.]
22
Cap. 2: Ipotesi di Einstein e loro conseguenze
In questa lezione vedremo come Einstein risolse in modo elegante i vari paradossi
incontrati nel capitolo precedente e come dalle sue ipotesi (divenute gli assiomi della
relatività ristretta) si deducano in maniera del tutto naturale due fenomeni che erano
state introdotte come ipotesi ad hoc, ossia la dilatazione dei tempi e la contrazione delle
lunghezze.
Ripercorrendo in maniera quasi pedissequa il suo lavoro del 1905 arriveremo ad
analizzare il concetto di simultaneità, intervenendo in maniera molto pesante su concetti
della quotidianità.
Nel 1905 Albert Einstein (Ulma, 14 marzo 1879 – Princeton, 18 aprile 1955) aveva 26
anni e quelli che seguono sono i titoli delle sue due pubblicazioni di quell’anno:
1. “Zur Elektrodynamik bewegter Körper” (Sull’elettrodinamica dei corpi in
movimento) Annalen der Physik 322 (10) 891-921 (1905) – 30 giugno 1905
2. “Ist die Tragheit eines Korpers von seinen Energieinhalt abhangig?” (È
l’inerzia di un corpo dipendente dalla sua energia?) Annalen der Physik 322 (18) 639
(1905) – 21 ottobre 1905.
Quali sono i punti fondamentali di questi articoli? Einstein
• ribadisce la validità del principio di relatività.
Abbiamo visto che le equazioni di Maxwell non erano in accordo col principio di
relatività e abbiamo citato gli studi e gli interventi di Poincaré dedicati all’argomento.
Einstein invece
• assume come valide in tutti i sistemi di riferimento inerziali le equazioni
di Maxwell nella loro forma usuale. Einstein capovolge cioè la situazione; e poiché le
equazioni di Maxwell prevedono l’esistenza delle onde elettromagnetiche con una certa
velocità  “La velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi di riferimento
inerziali”; questo lo porta ad assumere che
• sono le equazioni della meccanica a dover essere modificate per essere
compatibili con le equazioni di Maxwell.
Interessante è il suo modo (nuovo) di operare:
• utilizza il metodo operativo per la definizione delle grandezze fisiche: una
grandezza è definita attraverso la procedura non ambigua di operazioni con cui la si
misura (protocollo). Questo concetto lo si applica specificatamente al tempo: in
precedenza il tempo era considerato uno scorrere incessante nel quale avvengono i
fenomeni ma rispetto al quale non facciamo nessuna misura.
23
2.1. Le ipotesi (assiomi)
Assioma 1
Le leggi della Natura hanno la stessa forma in tutti i sistemi di
riferimento inerziali
Assioma 2
La velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi di riferimento
L’assioma 1 può essere espresso anche nei seguenti modi:
- ogni esperimento fisico fornisce gli stessi risultati in tutti i sistemi di riferimento
inerziali;
- non è possibile ideare un esperimento che consenta di discernere se un sistema di
riferimento è in quiete o in moto.
L’assioma 2 può essere espresso anche nel seguente modo:
- le equazioni di Maxwell hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento
inerziali.
È interessante notare la sconcertante semplicità con cui introduce i due assiomi:
nell’introduzione a uno dei suoi due scritti del 1905 egli scrive:
“if a magnet is in motion and the conductor at rest, there arises in the neighbourhood of the
magnet an electric field with a certain definite energy, producing a current at the places where parts of
the conductor are situated. But if the magnet is stationary and the conductor in motion, no electric field
arises in the neighbourhood of the magnet. In the conductor, however, we find an electromotive force,
to which in itself there is no corresponding energy, but which gives rise—assuming equality of relative
motion in the two cases discussed—to electric currents of the same path and intensity as those
produced by the electric forces in the former case.”
“Examples of this sort, together with the unsuccessful attempts to discover any motion of the
earth relatively to the “light medium”, suggest that the phenomena of electrodynamics as well as of
mechanics possess no properties corresponding to the idea of absolute rest. They suggest rather that, as
has already been shown to the first order of small quantities, the same laws of electrodynamics and
optics will be valid for all frames of reference for which the equations of mechanics hold good.”
A questo punto il dado è tratto.
“We will raise this conjecture (the purport of which will hereafter be called the “Principle of
Relativity”) to the status of a postulate.”
24
Dunque non faremo altro che utilizzare questi principi portandoli alle estreme
conseguenze:
“and also introduce another postulate, which is only apparently irreconcilable with the former,
namely, that light is always propagated in empty space with a definite velocity c which is
independent of the state of motion of the emitting body.”
La prima osservazione che Einstein è una osservazione (quasi) banale sul concetto
di tempo.
2.2. Rivisitazione del concetto di tempo e di simultaneità
Il concetto di tempo non è altro che l’applicazione del concetto di
simultaneità
L’affermazione “il treno arriva alle sette” (detto in maniera esatta) non è altro che
“l’arrivo del treno e il puntare delle lancette dell’orologio sulle ore sette sono eventi
contemporanei”.
La misurazione di un bastone consiste nel far coincidere inizio e fine dello stesso
con le tacche di un righello. Einstein fa lo stesso col tempo: il tempo, cioè, “va definito”.
Sembra un concetto banale, ma nella fisica classica questo non si fa mai, “il tempo è il
tempo”, semplicemente lo si misura con un orologio.
Einstein invece si chiede: è possibile definire all’interno di un sistema di
riferimento un concetto di tempo che sia lo stesso e vada bene per tutti i punti di uno
spazio, che non crei ambiguità tra quello che misura un osservatore e quello che misura
un altro osservatore?
Definizione di tempo in un sistema di riferimento
Alice è in A, Bob è in B. Quando diremo che l’orologio di Alice è sincrono con
l’orologio di Bob?
L’idea, già sviluppata da Poincaré e utilizzata in altro ambito, è quella di usare la
luce per definire il sincronismo tra i due orologi.
Immaginiamo che Alice invii un segnale luminoso a Bob nell’istante in cui il suo
orologio segna il tempo tA. Quando il segnale arriva a Bob, l’orologio di Bob segnerà il
tempo tB. Il segnale viene istantaneamente riflesso e ritorna da Alice, il cui orologio
segnerà adesso il tempo tA’.
Facciamo l’ipotesi che la luce impieghi lo stesso tempo a percorrere i due tratti AB
e BA:
se
tB – tA = tA’ – tB gli orologi sono sincroni
Questa definizione di tempo ha delle proprietà ovvie che conviene però
sottolineare:
25
- se l’orologio di Alice è sincrono con quello di Bob, allora anche l’orologio di Bob
è sincrono con quello di Alice (proprietà riflessiva);
- se l’orologio di Alice è sincrono con quello di Bob, e quello di Bob è sincrono con
quello di Tom, allora anche l’orologio di Alice è sincrono con quello di Tom
(proprietà transitiva).
Una delle conseguenze degli assiomi di Einstein è che la simultaneità di due
eventi è relativa, ovvero due eventi possono essere simultanei in un sistema di
riferimento e non esserlo in un altro sistema di riferimento.
Una sorgente M si trova al centro di un vagone di lunghezza L’. All’istante t’=0 la
sorgente emette due fasci di luce dirigendoli verso le pareti A e B del vagone.
I due fasci raggiungono contemporaneamente le pareti A e B all’istante t ' A  t ' B 
I due eventi sono simultanei: t ' A  t ' B 
L'
2c
L'
2c
Immaginiamo ora che i due fasci, giunti in A e in B, vengano riflessi verso la sorgente M
26
Dopo la riflessione i due fasci ritornano contemporaneamente sulla sorgente M,
L'
al tempo t ' MAM  t ' MBM 
c
Riassumendo: per l’osservatore S’ solidale con il treno:
- i due fasci arrivano simultaneamente sulle pareti;
- i due fasci arrivano simultaneamente sulla sorgente.
I due eventi sono differenti per un aspetto: nel primo caso i due fenomeni
avvengono in punti diversi, le pareti nel secondo avvengono nello stesso punto, la
sorgente.
Immaginiamo adesso lo stesso esperimento ma che il treno sia in moto con
velocità v rispetto al binario (Osservatore S(xy))
In base al principio di relatività possiamo affermare che per l’osservatore S’ solidale con
il treno non cambia nulla: i due fasci arrivano contemporaneamente prima sulle pareti e
27
poi sulla sorgente. Se così non fosse avremmo trovato un modo per stabilire se un
sistema di riferimento è “in quiete” o “in movimento”
E per l’osservatore S?
Supponendo che all’istante t=0 la parete A del vagone sia nell’origine del sistema d’assi
di S
L
xluce   ct
x pareteA  vt
2
L
La luce arriva alla parete A quando xluce  x pareteA cioè nell’istante t A 
2c  v 
Facciamo la stessa operazione per la parete B:
L
xluce   ct
x pareteB  L  vt
2
L
:
2c  v 
tA e tB sono diversi tra di loro: i due eventi (che in S’ erano simultanei) in S non lo sono.
In S la distanza temporale tra i due eventi è
L 1
1 
Lv
2 v
t  t B  t A  



L
 2
2  c  v c  v  c  v2
c2
La luce arriva alla parete B quando xluce  x pareteB cioè nell’istante t B 
Continuiamo ad analizzare il fenomeno dal punto di vista di S. Dopo la riflessione i due
fasci ritornano sulla sorgente M ai tempi tMAM e tMBM
Vogliamo verificare che (anche per l’osservatore in S) è tMAM = tMBM
Se analizziamo il fascio A dopo la riflessione sulla parete A
xluce  x A,t t A  ct  t A   vt A  ct  t A 
xM  vt  L 2
Il fascio di luce torna sulla sorgente al tempo t = tMAM quando xluce  xM
vt A  ct MAM  t A   vtMAM  L 2  c  vt MAM  L 2  c  vt A
28
e poiché t A 
L
ricaviamo che
2c  v 
L 1
1 
2 L
t MAM  

  t MAM  
2 cv cv
c
Se analizziamo il fascio B dopo la riflessione sulla parete B
xluce  xB,t tB  ct  t B   vtB  ct  t B 
xM  vt  L 2
Il fascio di luce torna sulla sorgente al tempo t = tMBM quando xluce  xM
L  vtB  ct MBM  t B   vtMBM  L 2  c  v t MBM  L 2  c  v t B
e poiché t B 
L
ricaviamo che
2c  v 
L 1
1 
2 L
t MBM  

  t MBM  
2cv cv
c
Osserviamo che i due tempi sono uguali: tMAM = tMBM. Anche per S i due fasci
ritornano sulla sorgente M simultaneamente.
Ricapitoliamo:
- due eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento possono non esserlo
in un altro sistema di riferimento.
Osserviamo anche che
- due eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento e avvengono nello
stesso punto sono simultanei in tutti i sistemi di riferimento.
In base ai postulati di Einstein le misure degli intervalli di tempo e delle
distanze spaziali diventano quantità relative, cioè assumono valori diversi in sistemi
di riferimento diversi.
29
2.3. Dilatazione dei tempi
Orologio a luce
Come funziona un orologio a luce? Una sorgente invia un fascio su uno specchio, lo
specchio riflette e il fascio ritorna sulla sorgente, determinando l’intervallo di tempo.
Nel sistema S’ del carrello il tempo che la luce impiega a tornare sulla sorgente è lo
stesso sia se il carrello è fermo sia se è in moto (per il principio di relatività: se così non
fosse avremmo trovato un modo per stabilire se il sistema di riferimento è “fermo” o “in
moto”.
2 L'
(intervallo di tempo proprio)
c
Se il carrello è in moto qual è l’intervallo Δt che misura l’osservatore S fermo in
stazione? Nel sistema S la partenza della luce, la sua riflessione e il ritorno sulla sorgente
avvengono in tre punti con coordinata x diversa
t '
30
Per S il cammino della luce è più lungo ed è percorso con velocità c. Essendo la velocità
della luce la stessa in tutti i sistemi di riferimento, l’intervallo di tempo Δt misurato da S è
maggiore: è il fenomeno della dilatazione dei tempi.
2
 vt 
ct  2 L  

 2 
da cui, con semplici passaggi (ricordando che è L=L’), si ricava
4 L2
4 L2
1
1
2
2
t  2




t
'

 t  t '
c  v2
c2 1  2
1  2
2
t  t '
Il tempo misurato dall’orologio mobile (tempo proprio) rispetto
all’osservatore scorre più lentamente del tempo misurato dall’orologio solidale
con l’osservatore
L’orologio fermo segna un orario successivo rispetto all’orologio che corre
Quesito: che cos’è il tempo proprio?
Il tempo proprio è la minima distanza temporale tra due eventi.
È la distanza temporale misurata da un osservatore “fermo” rispetto ai due eventi.
31
2.4. Contrazione delle lunghezze
La misura della lunghezza di un oggetto in “quiete” consiste nel confronto tra l’oggetto e
l’unità (righello), le sotto-unità…
La lunghezza di un oggetto misurata nel sistema in cui l’oggetto è fermo è
detta “lunghezza propria L0”
Cosa succede a questa lunghezza quando l’oggetto è in movimento?
Per S’, il carro, la penna e il righello sono in quiete  per il principio di relatività il
risultato della misura è lo stesso: L’= L0 .
Ma se voglio procedere alla misura della lunghezza di un oggetto (una penna)
in moto come devo operare?
Consideriamo un traguardo fisso T nel sistema S e due orologi posti alle estremità
dell’oggetto da misurare. S si posiziona sul traguardo T e misura l’intervallo di tempo Δt
tra il passaggio dell’estremo A e dell’estremo B sul traguardo T. Per lui la lunghezza della
penna è L = vΔt.
Adesso però dobbiamo confrontare questa lunghezza con la lunghezza propria L0
misurata quando la penna era in quiete (o misurata dall’osservatore S’ sul carrello). Come
procedere?
Per far questo è opportuno definire una procedura di misura sul carrello analoga a
quella adottata da chi è fermo alla stazione S. Possiamo prendere due orologi e
posizionarli uno in A e uno in B, sincroni tra loro. Per loro (cioè per il sistema S’ del
carrello) è il traguardo T che si muove verso di loro con velocità – v.
32
S’ può dunque misurare il tempo t’A e il tempo t’B in cui il traguardo T passa
rispettivamente davanti ad A e a B.
Per S’ risulta L’ = vΔt’ = L0 (questo per definizione di velocità, definita appunto
come spazio percorso fratto tempo impiegato a percorrerlo).
Notiamo che Δt’ è un intervallo di tempo proprio in quanto misurato nello stesso
punto T.
Sappiamo che tra i due intervalli di tempo sussiste la seguente relazione: Δt’= γΔt
per cui
L = vΔt = v Δt’/γ = L0/γ .
La penna misurata nel sistema rispetto al quale essa è in movimento risulta più
corta che nel sistema rispetto al quale essa è ferma.
L
L0

è il fenomeno della contrazione delle lunghezze
Ricapitolando:
dalle ipotesi
principio di relatività & costanza della velocità della luce
seguono le seguenti necessità
 relatività della simultaneità tra due eventi
 dilatazione dei tempi: Δt = γ Δt0 dove Δt0 è l’intervallo di tempo proprio
 contrazione delle lunghezze: L = L0 / γ
dove L0 è la lunghezza propria
2.5. Verifiche sperimentali
Vediamo le basi sperimentali della teoria della relatività, a cominciare dalla misura della
velocità di propagazione della luce.
Misura della velocità della luce (Km/s)
1638 G. Galilei
1675 O. Rømer
1729 J. Bradley
1849 H. Fizeau
1862 L. Foucault
1907 E. Rosa, N. Dorsey
1926 A. A. Michelson
1950 Essen e Gordon
1958 K.D. Froome
1972 Evenson et al.
Lanterne
Lune di Giove
Aberrazione stellare
Ruota dentata
Specchi rotanti
Costanti EM
Specchi rotanti
Cavità risonante
Radiointerferometria
Interferometria laser
33
nessun risultato
220.000
301.000
315.000
298.000±500
299.710±30
299.796±4
299.792,5±3,0
299.792,50±0,10
299.792,4562±0,0011
Il miglioramento della precisione e della sensibilità degli strumenti di misura fino ad
arrivare al 1972 a ottenere una misura di c con la precisione di una parte su 1010, insieme
con la verifica della costanza della velocità della luce in ogni sistema, ha portato nel 1983
il 17° Congresso dei Pesi e delle Misure a dire che la velocità della luce non è più
una grandezza da misurare ma un valore ben definito:
299.792,458 Km/s
e a definire la lunghezza del metro basandosi sulla velocità della luce: il metro è lo
spazio che la luce percorre in un tempo pari all’inverso di quel numero, cioè in un
299.792.458-esimo di secondo
Da quel momento si è continuato ancora a misurare la velocità della luce, non
tanto per modificare il suo valore (quel valore ora è considerato esatto)[…ma perché
non metterlo uguale a 300.000 Km/s a quel punto… e perché non rinominare gli anni a
partire dalla vera nascita di Cristo e non da quando Cristo compì 6 anni?] quanto per
definire con maggior precisioni le grandezze che sono definite in funzione della velocità
della luce, in particolare il metro.
La sperimentazione si è piuttosto spostata su un altro versante, ossia su quello
della verifica della costanza di tale velocità in tutti i sistemi, qualunque sia la direzione,
qualunque sia il moto o la velocità della sorgente.
Questa misura dell’isotropia della velocità della luce risale in fondo agli
esperimenti di Michelson
Isotropia di c
Anno
Michelson
Michelson, Morley
Morley, Miller
Miller
Illingworth
George Joos
1881
1887
1902
1924
1927
1930
L (cm)
120
1100
3220
3220
200
2100
A= 1/R
2
40
80
80
175
375
δc/c
7
2
1
1
7
5
10 – 5
10 – 6
10 – 6
10 – 6
10 – 6
10 – 6
L è la somma dei bracci dell’interferometro
Il fattore R definito nella Lezione 1 è il rapporto tra la sensibilità dello strumento
e l’effetto atteso (il valore che ci si aspetta di calcolare per lo spostamento delle frange, il
ΔI/I) sulla base di una velocità ipotetica della Terra pari a 30 Km/s.
Qui preferiamo utilizzare il reciproco di R e chiamarlo A.
Michelson, nell’esperimento del 1881, eseguì un esperimento con un fattore

 0.04
A=2, ossia si aspettava uno spostamento di frangia pari a
2
34
L  L2   108 Ltot

 108 1
, Ltot = L1 + L2 è la somma dei bracci
2


dell’interferometro e in quell’esperimento valeva 2.4 m e λ=5.89 10 – 7 m) e la
sensibilità dello strumento era pari a 0.02 (due centesimi di frangia).
(la formula è
Vale la seguente formula:
c 
v
c


c
A
v
Ac
Non aver osservato nessun effetto (nessuno spostamento di frangia) significa
sostanzialmente che la velocità della luce nelle due direzioni varia di una quantità δc
inferiore alla velocità della Terra diviso A , cioè meno di 21 Km/s e quindi significa
aver determinato l’isotropia della velocità della luce nelle due direzioni con un rapporto
c
v

 7 105 , rapporto (già allora) assai “buono” (cioè piccolo), rapporto che poi
c
Ac
è stato migliorato negli anni successivi fino ad arrivare ai risultati di George Joos nel
1930 per cui tale rapporto era sceso a 5 x 10 – 6 .
L’interferometro di Michelson non fu l’unico strumento usato. Un altro strumento fu
l’interferometro usato nell’
esperimento di Kennedy e Thorndike
Physical Review 42, 400–418 (1932)
Quello in figura è un interferometro tipo Michelson&Morley con bracci di lunghezza
diversa, con ΔL≈ 16cm. Lo strumento è fisso e le frange sono osservate su un periodo di
molti mesi, periodo in cui la velocità della Terra cambia. Ma anche in questo caso non fu
osservato alcuno shift delle frange  dalla sensibilità dello strumento si ottiene che
c
 106
c
Occorre notare che nell’esperimento di KT Il tempo impiegato dalla luce a
percorrere il cammino aggiuntivo nel braccio BM2 è lo stesso in sistemi di riferimento
diversi.
35
Inoltre
MM  c non dipende dalla direzione
KT  c non dipende dalla velocità dell’apparato; per spiegarne il risultato
negativo non basta la contrazione delle lunghezze, occorre aggiungere la dilatazione dei
tempi.
Gli esperimenti di Michelson–Morley e di Kennedy– Thorndike sono stati ripetuti
con accuratezza molto maggiore utilizzando laser, maser e risonatori ottici criogenici,
raggiungendo limiti di accuratezza molto maggiori.
Una accuratezza simile oggi la si ottiene anche nella verifica delle relazioni di
dilatazione del tempo e di contrazione delle lunghezze.





Verifiche sperimentali recenti
Braxmaier, C. et al.: "Tests of Relativity Using a Cryogenic Optical Resonator“, Phys. Rev. Lett.
88 (1) (2002)
Hils, Dieter et al.: "Improved Kennedy–Thorndike experiment to test special relativity“, Phys.
Rev. Lett. 64 (15): 1697–1700 (1990)
Wolf; et al. "Tests of Lorentz Invariance using a Microwave Resonator". Physical Review
Letters 90 (6): 060402 (2003)
Wolf, P. et al. "Whispering Gallery Resonators and Tests of Lorentz Invariance". General
Relativity and Gravitation 36 (10): 2351–2372 (2004)
Tobar, M. E. et al: "Testing local Lorentz and position invariance and variation of fundamental
constants by searching the derivative of the comparison frequency between a cryogenic
sapphire oscillator and hydrogen maser". Physical Review D 81 (2): 022003 (2010)
Vorrei segnalare questo articolo
Si citano 175.000 rotazioni in 13 mesi, senza osservazione di alcuno spostamento di frangia.
36
La dilatazione del tempo
In questo paragrafo si tratterà della verifica sperimentale della t  t ' : la validità di
tale legge fu riscontrata per la prima volta da B. Rossi e D.B. Hall nel 1941
Phys. Rev B 59, 223 (1941)
Dati da: D.H. Frisch and J.H. Smith (1963) Am J. Phys. 31, 342-355 (1963)
osservando il
Decadimento dei mesoni μ relativistici prodotti da raggi cosmici
   e   e  
   e   e  
I raggi cosmici incontrano l’atmosfera a circa 10 km di altezza producendo mesoni;
questi, viaggiano a una velocità di poco inferiore a quella della luce, impiegando ≈ 30μs
secondi per raggiungere la superficie terrestre. I mesoni μ (muoni) decadono però in 2.2
μs, un tempo circa 15 volte inferiore e non dovrebbero quindi raggiungere il suolo. Cosa
che invece non succede, dato che si osservano muoni in gran quantità giungere sulla
superficie terrestre. Questo perché avviene? Perché il tempo di decadimento proprio del
muone (2.2 μs) dilata del fattore γ quando il muone viaggia a velocità relativistiche.
Com’è pensato e organizzato l’esperimento?
Si misura:
l’arrivo di un mesone μ nel rivelatore
il ritardo con cui viene prodotto l’elettrone di decadimento
La distribuzione degli intervalli di tempo tra l’arrivo del mesone e il suo
decadimento ci dà un intervallo medio di τ0 ≈ 2.2 ms
Si valuta la frazione di mesoni che decadono nell’attraversare un tratto L di
atmosfera in un tempo t=L/c e quindi si ottiene il umero atteso al livello del mare
Le misure vengono effettuate al livello del mare e sulla cima di una montagna L≈1900 m
I mesoni impiegano Δt ≈ 6.4 μs a raggiungere il livello del mare
 Valore misurato in cima
≈ 563 mesoni/h
 Valore atteso al livello del mare
sulla base della N  N 0 e  t /
≈ 30 mesoni/h
 Valore misurato alla base
>400 mesoni/h
N
400
 t / 
e


   18.7 s
Se ne ricava che
N 0 563
Se utilizziamo tale valore di τ nella relazione t  t ' otteniamo  
37
18.7 s
2.2 s
  8 .5
ossia
  0.994 numeri che ci danno anche una misura dell’energia media dei mesoni.
C’è anche un altro modo di analizzare questo fenomeno ed è quello di mettersi
nel sistema di riferimento del mesone. Nel sistema di riferimento del mesone la
montagna è in moto con velocità ≈ c e quindi è contratta, non è più lunga L ma L’ =
L/γ : per giungere alla base occorre un tempo minore pari a:
t ' 
L
 0.75 sec
c
Se inseriamo questo dato nel fattore di decadimento otteniamo
e  t '/  0  0.71
dato che va confrontato con
N
400

 0.71
N 0 563
Esperimenti analoghi sono stati condotti su muoni relativistici in orbita circolare
Measurement of relativistic time dilatation for μ in a circular orbit
J. Bailey et al., Nature 268, 301-305 (1977)
esperimenti condotti al CERN di Ginevra e consistiti nella misura della vita media di
muoni relativistici (γ = 29.33). I tempi di decadimento osservati per muoni positivi e per
muoni negativi è rispettivamente
   64.419  58s
   64.368  29s
e che corretti del fattore relativistico portano a un tempo di decadimento proprio di
 0  2.1948(10) s
ma in più consentono anche di determinare l’indeterminazione sul fattore γ che è

 10 3

Veniamo a un’ALTRA TIPOLOGIA DI TEST. Oggi quello che si cerca di fare è di
verificare che le relazioni che noi normalmente usiamo in relatività – ad esempio quella
che lega β con γ, che sappiamo essere  
1
1  2
– siano corrette, e di verificare quali
conseguenze una minima variazione sulla relazione potrebbe avere sulla teoria della
relatività.
38
Ad esempio: quanto vale effettivamente il prodotto  2  (1   2 ) , che per la teoria
della relatività deve valere 1? Se faccio degli esperimenti ovviamente troverò un valore
vicino a 1 perché la teoria della relatività non è campata in aria… ma quanto è diverso da
1? Con che precisione, con che sensibilità posso affermare che è 1?
Verifiche di questo tipo le si fa, ad esempio, andando a studiare lo shift Doppler:
quando un osservatore si allontana o si avvicina alla sorgente, la frequenza percepita
dall’osservatore (che è poi quella reale del rivelatore) è diversa da quella emessa dalla
sorgente.
Come mostra l’articolo sopra, lo si fa andando a studiare l’emissione o
l’assorbimento di fotoni da parte di ioni di litio relativistici, andando cioè a studiare in
particolare una risonanza, cioè una frequenza ben precisa (che è una risonanza per una
transizione iperfine… senza entrare nei dettagli della spettroscopia atomica)
La transizione da uno stato 3S1 a uno stato 3P2 dà una frequenza ben determinata,
misurata quando lo ione di litio è fermo: è cioè una frequenza (l’inverso di un tempo)
propria. È chiaro che nel momento in cui io ho un fascio come quello indicato nello
schema sotto che si muove all’energia E = 58.6 MeV la frequenza di quella radiazione di
transizione cambia perché è emessa da una sorgente in moto. L’effetto Doppler può
essere di due tipi, perché gli ioni possono venirci incontro oppure andare dalla parte
opposta e allontanarsi da noi (e tra un paio di lezioni saremo in grado di calcolare i
diversi effetti). Questa frequenza si può misurare utilizzando dei laser: se si utilizzano dei
laser che hanno esattamente la frequenza di risonanza che hanno gli ioni di litio quando
sono fermi, quando gli ioni sono relativistici si osserva che la frequenza della radiazione
di emissione non è più in grado di eccitare l’emissione laser, perché la frequenza è
39
cambiata; bisogna shiftare il laser della stessa quantità shiftata nel litio per effetto doppler
per riosservare l’eccitazione del laser.
L’esperimento mostra che il prodotto  2  (1   2 ) non dà esattamente 1 ma vi è una
certa incertezza.
L’ultimo esperimento che va citato è quello degli
Orologi atomici al Cs su aeroplani di linea
J.C. Hafele and R. E. Keating, Science 177, 166 (1972)
Nell’ottobre del 1971 quattro orologi atomici al Cs furono utilizzati su due voli
commerciali attorno alla Terra uno in direzione est e l’altro in direzione ovest. La
relatività prevedeva che durante il volo verso est l’orologio avrebbe ritardato di 40±23 ns
rispetto all’orologio di riferimento fisso a terra; avrebbe avanzato di 275±21ns durante il
volo verso ovest. I dati sperimentali (anche se molto contestati all’epoca) furono: 59±10
ns nel volo verso est, 237±ns durante il volo verso ovest, in discreto accordo con le
previsioni. Il fatto rilevante è che questo esperimento costituisce la prima verifica
della dilatazione del tempo con orologi macroscopici.
Oggi questo effetto è utilizzato nel sistema di localizzazione del GPS.
40
2.6. Test e quesiti
Un fascio di mesoni K+ instabili di velocità 0,866 c attraversa due rivelatori distanti 9m uno
dall’altro, senza subire perdite significative di alcun tipo. Se il primo rivelatore misura 1000
conteggi e il secondo 250, quale è il tempo di decadimento nel sistema di riferimento dei
mesoni?
a. 10,8 ns
b. 25,0 ns
c. 21,6 ns
d. 50,0 ns
e. 12,5 ns
[La risposta corretta è la e.
Il tragitto percepito dal mesone è L' = 9m/γ= 4,5m
e il tempo necessario a percorrerlo è Δt' = L'/v = 1,733 x 10 – 8 s,
e si usa la legge del decadimento, da cui si ricava τ= Δt'/ln4]
Una sbarra di lunghezza a riposo L0 = 1,00 m è ferma in S’ e forma un angolo θ=30° con l’asse
delle x. Se la velocità di S’ rispetto ad S è: v = 0,600 c quale sarà la lunghezza della sbarra
misurata da un osservatore solidale con S?
a. 0,85 m
b. 0,75 m
c. 0,80 m
d. 0,95 m
e. 1,19 m
[La risposta corretta è la a.
Se la componente y della sbarra (L0/2) rimane invariata, la componente x (L0 radq(3)/2)
si accorcia del fattore radq(1 – β2)]
Una sbarra forma in S un angolo θ=45° con l’asse delle x. Quale velocità relativa deve avere un
osservatore S’ affinché l’angolo che misura sia θ′=60°?
a. 0,816 c
b. 0,970 c
c. 0,706 c
d. 0,603 c
e. 0,952 c
[La risposta corretta è la a.
Per avere un angolo di 60° la componente orizzontale L0 deve ridursi a L0/radq(3).
Quindi β = radq(2/3)]
Un osservatore S osserva due eventi avvenire in punti diversi dell’asse delle x con un ritardo
temporale Δt=30,0 ns tra di essi. Un amico in gita relativistica gli comunica di aver osservato i
due eventi avvenire nello stesso punto a distanza Δt′=15,0 ns tra di essi. La velocità dell’amico
relativa ad S è:
a. 0,707
b. 0,750
c. 0,562
d. 0,500
e. 0,866
[La risposta corretta è la e.
Dalla legge della dilatazione dei tempi si ricava γ=2, da cui β= radq(3)/2]
41
Due orologi identici si trovano su due razzi S1 ed S2 in moto rispetto alla terra con velocità
relativistica, hanno velocità relativa vr=0,3c uno rispetto all’altro. Quale sarà il periodo
dell’orologio del razzo S1 misurato da un osservatore che si trova a bordo del razzo S2?
a. 1,05 s
b. 1,15 s
c. 1,24 s
d. 1,40 s
e. 1,00 s
[La risposta corretta è la a.
Il fatto che siano entrambi in moto rispetto alla Terra è fuorviante,
vale infatti il principio di relatività. Quindi Δt = γ]
42
Cap. 3: Trasformazioni di Lorentz
Dapprima analizzeremo le trasformazioni di Lorentz, formule che in relatività
sostituiscono quelle galileiane. E dalle quali si deducono alcune conseguenze. In primo
luogo se ne deduce l’esistenza di un invariante, quello che viene detto “lo scalare”, una
quantità che ha sempre lo stesso valore in ogni sistema di riferimento.
Passeremo quindi alla descrizione di un diagramma, noto come “il cono di luce”
che mette in evidenza collegamenti e relazioni tra eventi nello spazio e nel tempo.
Infine analizzeremo una delle conseguenze importanti di tali formule: l’effetto
Doppler relativistico
3.1. Trasformazioni di Lorentz
Le trasformazioni di Lorentz sono trasformazioni di coordinate che, a differenza delle
trasformazioni di Galileo, conservano la formulazione delle equazioni di Maxwell.
Introducono il concetto di “tempo locale” anticipando in questo Einstein, ma
senza giustificarlo o spiegarne il significato.
Devono il loro nome a Lorentz, ma “partono” molti anni prima.
 Il primo tentativo di formulazione risale infatti al 1887 a opera di W. Voigt. Lo
scopo era quello di trovare delle trasformazioni che consentissero alle leggi
dell’elettromagnetismo, in particolare a quelle di Maxwell, di conservare la loro
forma passando da un sistema di riferimento a un altro.
 La prima formulazione corretta e completa è dovuta a J. Larmor nel 1899, due
anni prima di Lorentz.
 H. A. Lorentz pubblica la sua versione finale nel 1904.
 Henri Poincarè le battezza come “trasformazioni di Lorentz”, nome che tuttora
conservano, e dà loro quella formulazione “simmetrica” particolarmente elegante
e semplice che vedremo nel corso del capitolo, oggi in uso; e le corregge, perché le
formule di Lorentz del 1904 avevano un errore, piccolo… ma pur sempre un
errore.
 Nel 1905 Einstein le ricava utilizzando i due assiomi, chiarendone il significato.
Per arrivare alle trasformazioni di Lorentz e spiegare come si deducano dalle
ipotesi di Einstein occorre innanzi tutto chiarire il
concetto di evento P
In relatività le coordinate spaziali e il tempo non possono essere considerate
separatamente Occorre utilizzare le coordinate spazio-temporali, cioè le coordinate
spaziali x, y, z di un punto in un particolare istante t considerate in un particolare sistema
di riferimento S:
E = (x,y,z,t)
43
Un evento può essere misurato in diverse sistemi di riferimento e in ogni sistema di
riferimento ha le sue coordinate: E=(x,y,z,t) in S, E =(x’,y’,z’,t’) in S’.
Le trasformazioni di Lorentz mettono in relazione le coordinate spazio-temporali
di un evento misurato in un sistema con le coordinate spazio-temporali dello stesso
evento misurato in un altro sistema.
.
Evento P misurato da due osservatori inerziali S e S’
Due sistemi di riferimento Oxy e O’x’y’; supponiamo che S sia solidale al primo e
S’ solidale al secondo. Ipotizziamo che il sistema O’x’y’ sia in moto con velocità v
rispetto a Oxy nella direzione positiva della x (in qualche modo ci sentiamo S).
Per l’osservatore S il vettore O’P risulta contratto del fattore di Lorentz.
E se sono l’osservatore S’? In questo caso è il vettore OP che risulta contratto del
fattore di Lorentz
x P  OP  OO 'O ' P  vt 
x' P  O ' P  OP  OO ' 
xP
x' P

 vt '

Nota: la velocità relativa è la stessa. Sostituendo nella prima equazione il valore di
x’P dato dalla seconda si ottiene:

1  xP
 vx 

 vt'   t '    t  2P 
e sostituendo

c 


x
 vx 
x ' P  P  v  t  2P   x' P    x P  vt 

c 

x P  vt 
equazione
t’ nella seconda
Dunque le relazioni che legano (x, t) a (x’, t’) sono:
x' P   xP  vt 
44
 vxP 
t'   t  2 
c 

1
Alcune relazioni utili
2
 1 
  2 2
2
1 
2
1

2
 2

1

2
1 
1  2
2
Trasformazione di Lorentz
Trasformazione inversa
 x'   ( x  vt )

y'  y


z'  z

 vx 
t '    t  2 
 c 

 x   ( x' vt ' )

y  y'


z  z'

 vx' 
t    t ' 2 
 c 


1
 2 2
Le formule della trasformazione inversa si possono ottenere esplicitando x e t dalle
formule di partenza oppure grazie all’osservazione banale che discende dal principio di
relatività in base al quale se S’ si muove con velocità v rispetto a S allora S si muove con
velocità – v rispetto a S’ e le formule non devono variare.
Come caso particolare le trasformazioni di Lorentz includono quelle di Galileo,
per il quale la velocità della luce è infinita… e il tempo è lo stesso per tutti gli osservatori.
Trasformazione di Lorentz
 x'   ( x  vt )

y'  y


z'  z

 vx 
t '    t  2 
 c 

Trasformazione di Galileo
c
 1


 x'  x  vt
 y'  y


 z'  z

 t'  t
Ora cercheremo di usare le trasformazioni di Lorentz per dedurre alcuni risultati che già
conosciamo.
Trasformazioni di Lorentz – applicazione
Abbiamo già analizzato la situazione in cui, se all’istante t=0 una sorgente M fissa al
centro di un carrello in movimento fa partire contemporaneamente due fasci luminosi
verso le pareti A e B, la luce arriva contemporaneamente in A e in B per un osservatore
45
che stia sul carrello, e invece non arrivi simultaneamente in A e in B per un osservatore
che stia in stazione. E abbiamo anche calcolato la differenza dei tempi di arrivo in A e in
B che misura l’osservatore in stazione.
L’arrivo dei due fasci sulle pareti che è simultaneo per S’ non lo è per S, per il quale Δt≠0
t  t B  t A 
L 1
1 
Lv
2 v



L

 2
2
2
2 cv cv c v
c
Ritroviamo questo risultato utilizzando le trasformazioni di Lorentz. In primo luogo ci
dobbiamo chiedere quali sono le coordinate spazio-temporali sul carrello.
Evento A = la luce arriva in A
Evento B = la luce arriva in B
Per S’ (banali)
x' A  0
x'B  L0
L0
2c
L
t 'B  0
2c
t'A 
Per S (usiamo le trasformazioni di Lorentz)
vx' 

t A    t ' A  2A 
c 

vx' 

t B    t 'B  2B 
c 

v
vL
v
t  t B  t A   2  x'B  x' A    20   2 2 L
c
c
c
e ritroviamo il risultato già noto.
Altra situazione interessante da verificare (in quanto presenta degli elementi di
sottigliezza) è la verifica della contrazione delle lunghezze.
46
La contrazione di Lorentz
La penna è ferma nel carrello S’. I suoi estremi si trovano in ogni istante t’ (poiché la
penna è ferma) in 0 (la penna in figura dovrebbe essere un po’ più a sinistra!) e in L0. E
usiamo le trasformazioni di Lorentz:
x' A  L0
x'B  0
x A    x' A vt' A 
xB   x'B vt'B   xA  xB   x' A  x'B vt ' A t 'B 
S deve eseguire la misura della posizione dei due estremi allo stesso istante tA=tB
x' A  x'B  L0
L  xA  xB   x' A  x'B vt ' A t 'B  
x A  xB  L
in S devo effettuare la misurazione nello stesso istante, ma nella relazione sopra ho t’ A e
t’B: li devo trasformare in tA e in tB e poi imporre che sia tA = tB :


 vL  
 vL  
 L0  v  t A  t B     2    L0  v 0    2    L0   2  2 L
 c 
 c 


Dunque, se L  L0  
2
 L allora L1   
2
2
2

L0
L

 L0 ovvero

N.B. non è una dimostrazione rigorosa perché è basata sulle trasformazioni di Lorentz, e
non dobbiamo dimenticare che le trasformazioni di Lorentz le abbiamo dedotte
utilizzando appunto questa relazione.
Le trasformazioni di Lorentz legano tra loro coordinate spaziali e temporali, e dunque
non sono omogene dal punto di vista della dimensionalità. Per ovviare a questa
asimmetria si usa moltiplicare la quarta equazione per c.
47
Trasformazioni di Lorentz – forma simmetrica
 x'   ( x  vt )

y'  y


z'  z

 vx 
t '    t  2 
 c 


 x'   ( x  ct )

y'  y


z'  z


ct '   ct  x 
Se vogliamo dare a queste variabili lo stesso nome, le trasformazioni diventano
 x1  x
x  y
 2

 x3  z
 x4  ct
 x1 '   ( x1   x4 )

x2 '  x2


x3 '  x3

 x4 '    x4   x1 

Si osservi la profonda simmetria tra la prima e la quarta, dove basta cambiare tra di loro
X1 e X4.
Non possiamo non citare almeno il caso tridimensionale
Trasformazioni di Lorentz – caso 3d
In questo caso definiamo le tre costanti
x 
vx
c
y 
vy
z 
c
vz
c
Con questa posizione la relazione tra (x,y,z,t) e (x’,y’,z’,t’) diventa

x y

 x2 
xz








x
'

1



1
x



1
y



1
z   x ct

2 
2
2

 






yx
 y2 
yz








y
'



1
x

1



1
y



1
z   y ct

2
2 
2


 




2
 
 z '    1  x  z x    1 y z y  1    1  z  z   z ct


2
2
 2 


ct '  ct   x x   y y   z z

formulazione estremamente complicata che mai ci troveremo a dover usare; ma è
istruttivo vedere la loro forma e come esse si riducano a quelle note nel caso
bidimensionale in cui v è parallela e concorde all’asse x: in tal caso βx=β, βy=0, βz= 0.
Nella forma delle X1, X2, X3 e X4 le trasformazioni diventano:
48

x y

 x2 
xz








x
'

1



1
x



1
x



1
x3   x x4
 1 
2
2  1
2
2








yx
 y2 
 yz
 x2 '    1 2 x1  1    1 2  x2    1 2 x3   y x4

 




2







y
z
x
z
z
 x3 '    1

 x   z x4




x



1
x

1



1
1
2
2
2
2  3




 


x4 '  x4   x x1   y x2   z x3

3.2. L’ invariante relativistico
Le trasformazioni di Lorentz godono di una interessante e importante proprietà: la
grandezza
s 2  x12  x22  x32  x42
che ricorda il modulo quadro di un vettore (l’ultima componente ha però il segno – ), è
invariante per trasformazioni di Lorentz e quindi assume lo stesso valore in tutti i sistemi
di riferimento:
in S’ è
s'2  x1 '2  x2 '2  x3 '2  x4 '2   2 x1  x4   x22  x32   2 x4  x1   ...
2



2

...   2   2  2 x12  x22  x32   2   2  2 x42  s 2
dato che le parentesi valgono 1.
Questa grandezza prende il nome di invariante relativistico e gioca un ruolo
importante in molte applicazioni della relatività.
La proprietà vale anche per due eventi Ea e Eb : la loro distanza spaziotemporale
s 2  xa1  xb1   xa 2  xb 2   xa 3  xb3   xa 4  xb 4 
2
2
2
2
è invariante per trasformazioni di Lorentz e quindi assume lo stesso valore in tutti i
sistemi di riferimento.
49
3.3. Il cono di luce
La rappresentazione degli eventi nello spazio-tempo si avvale di una figura che è detta
“cono di luce”
Andremo a mettere in luce le relazioni spaziotemporali tra un evento posto nel
vertice del cono e tutti gli altri eventi.
Diagramma spazio – tempo
L’asse delle ascisse rappresenta gli eventi
che avvengono nei diversi punti dell’asse x
al tempo t=0
L’asse delle ordinate rappresenta gli eventi
che avvengono nell’origine a tempi diversi
Il punto A rappresenta un evento che
avviene nel punto XA al tempo tA
La retta disegnata è L1 di equazione x = ct
È l’insieme dei punti che vengono
raggiunti da un fascio luminoso emesso
nell’origine all’istante t = 0
L’evento O (emissione del raggio
luminoso) avviene nell’origine al tempo
t=0.
La linea L1 descrive dunque il moto di un
raggio di luce che parte dall’origine
all’istante t=0 nella direzione +X.
50
Tale retta si può estendere anche al terzo
quadrante.
Nel terzo quadrante la stessa linea
L1 descrive un fascio di luce proveniente
da – ∞ che passa per l’origine a t=0.
Tutti i punti per i quali passa un fascio di
luce che si propaga nel verso +X e che
all’istante t=0 passa per l’origine sono sulla
retta L1.
L2 è la retta di equazione x = – ct
Tutti i punti per i quali passa un fascio di
luce che si propaga nel verso –X e che
all’istante t=0 passa per l’origine sono sulla
retta L2.
L’equazione x2 = c2t2 descrive entrambe le
rette
Qual è l’estensione da due a tre dimensioni? In tre dimensioni, ruotando l’asse x intorno
all’asse ct, otteniamo un cono, che viene detto cono di luce.
Ovviamente non sarà possibile estendere la visualizzazione alle quattro
dimensioni. Accontentiamoci delle tre dimensioni e analizziamo alcune situazioni.
51
Consideriamo l’evento A.
Il punto A che si trova all’interno del cono può essere raggiunto da un mobile
che parte dall’origine all’istante t=0, perché la velocità necessaria è minore della velocità
della luce.
Questo è vero per tutti i punti all’interno del cono.
Consideriamo l’evento B.
Il punto B che si trova all’esterno del cono non può essere raggiunto da un
mobile che parte dall’origine all’istante t=0, perché la velocità necessaria è maggiore della
velocità della luce.
Questo è vero per tutti i punti esterni al cono.
I punti all’interno del cono con ct>0 costituiscono il futuro di O,
con ct<0 costituiscono il passato di O.
L’evento A (che si trova all’interno del cono di luce dell’evento O) segue l’evento O in
tutti i sistemi di riferimento.
52
Per dimostrarlo andiamo a calcolare la coordinata temporale di A in un altro sistema di
riferimento:
in un altro sistema S’ si avrebbe
e se fosse
ct ' A   ct A  xA 
ct ' A  0 dovrebbe essere ct A  xA   0 ossia

ct A
1
xA
Impossibile!!! È sempre β < 1
Una cosa analoga si può verificare per un evento A che si trovi nel cono con ct < 0.
L’evento A precede O in tutti i sistemi di riferimento.
In un altro sistema S’ si avrebbe infatti
ct ' A   ct A  xA 
ct A




ct
'

0
ct


x

0
e se fosse
dovrebbe essere
ossia
A
A
A
xA
ossia
 
ct A
1
xA
Impossibile!!!
Il fatto che nel primo caso A (nel quadrante positivo del tempo) segua sempre O può
indurci a pensare che tra O e A ci sia un qualche rapporto di causa ed effetto, così
come nel secondo caso (A nel quadrante negativo del tempo, A precede sempre O) può
indurci a pensare che tra A e O ci sia un qualche rapporto di causa ed effetto.
Questo rapporto di causa-effetto con O non può esserci invece per un punto B
che si trovi all’esterno del cono di luce di O.
53
ct B
ct

x

1
B
B
In questo caso
xB
L’evento B non ha relazioni temporali stabilite con O. In un altro sistema S’ si ha:
ct 'B  0 se 0   
ct 'B   ct B  xB   ct 'B  0 se
ct 'B  0 se

ct B
xB
ct B
xB
ct B
  1
xB
L’evento B può dunque seguire, essere simultaneo o precedere l’evento O a
seconda del sistema S’ scelto.
E quindi non ci può essere una relazione causa-effetto tra O e B.
Se B non ha una relazione temporale ben definita con O, tuttavia B ha una
relazione spaziale ben definita con O: in ogni sistema S’ si ha XB > 0 .
Simmetricamente l’evento A, che aveva una relazione temporale ben definita con O, non
ha una relazione spaziale ben definita con O: esistono
sistemi riferimento S’ in cui XA > 0
sistemi riferimento S’ in cui XA = 0
sistemi riferimento S’ in cui XA > 0.
In più dimensioni valgono le stesse relazioni. Il cono divide lo spazio in due parti ben
distinte e distinte: i punti che si trovano all’interno del cono di luce hanno relazioni
temporali ben definite nei confronti di O, origine del cono di luce, e non hanno relazioni
spaziali ben definite con O. Viceversa, i punti che stanno fuori del cono di luce hanno
relazioni spaziali ben definite ma non hanno relazioni temporali definite con O.
54
Ogni punto ha il suo cono di luce.
I coni di luce possono anche sovrapporsi.
L’evento turchese è all’interno di entrambi i coni di luce e quindi è nel futuro sia di P sia
di Q L’evento rosso è nel futuro di P ma non di Q
3.4. L’ effetto Doppler relativistico
Conosciamo tutti l’effetto Doppler sonoro: se una sorgente sonora si sta avvicinando a
noi (un’ambulanza a sirene spiegate) oppure noi ci avviciniamo a una sorgente sonora (la
campanella del passaggio a livello) la frequenza che percepiamo è superiore a quella reale,
mentre è inferiore se l’ambulanza si sta allontanando da noi o noi ci allontaniamo dalla
campanella del passaggio a livello.
Tre elementi determinano l’effetto Doppler classico:
1. la velocità dell’onda sonora nel mezzo di propagazione vm
2. la velocità della sorgente rispetto al mezzo vS
3. la velocità dell’osservatore rispetto al mezzo vO
La nota formula dell’effetto Doppler è
f '
vm  vO
f
vm  vS
dove i segni sopra vanno considerati in caso di
avvicinamento, i segni sotto in caso di allontanamento.
In notazione vettoriale, fissato un verso positivo delle x rispetto al quale esprimere
tutte le velocità, cioè la velocità dell’onda sonora e le velocità di ascoltatore e sorgente
sonora, la formula diventa
 
vm  vO
f '   f
vm  vS
La luce però non ha un mezzo di propagazione. Inoltre
• la velocità è c rispetto alla sorgente
• la velocità è c rispetto all’osservatore
55
La relazione sopra perciò non è coerente con il principio di relatività, perché
distingue tra osservatore e sorgente: è solo la velocità relativa tra sorgente e osservatore
rilevante per il fenomeno.
Consideriamo una sorgente luminosa solidale col sistema S:
In S, la funzione d’onda è
 2

 sin
x  t 
 

x    x' vt '
 vx' 
t    t ' 2 
 c 
 2
  2 v 
2  
 vx'  

 sin
 x'vt'    t ' 2    sin  
 2  x'   
v t '  

c

c






 



 2

 sin
x' ' t ' 
 '

Ricaviamo dunque, ricordando che è
2



c
1      1   
2 
 


'    
v       v    1    
  
c 
1 

1  2
Formula relativistica dell’effetto Doppler
' 
1 

1 
56
Com’era naturale aspettarsi, la formula dipende solo da β, ossia dalla velocità relativa: se
S’ si allontana dalla sorgente in S, la frequenza che egli misurerà sarà inferiore (e
viceversa se invece si avvicina).
Tale fenomeno è chiamato redshift relativistico.
Andiamo a vedere anche cosa succede all’altra parte della funzione d’onda valida
per S’, quella che moltiplica x’ e che corrisponde al numero d’onda k’:
2
2
 2 2 v  2


 1    

'
 c 

 
Verifichiamo infine che
1 

1 
1 
' 

1 
' '    2c
Verifichiamo la situazione simmetrica: se un osservatore in S’ misura una certa
onda luminosa proveniente da una sorgente S in allontanamento da lui, in realtà la
frequenza dev’essere corretta dello stesso fattore.
57
In S’, la funzione d’onda è
 2

 sin
x' ' t ' 
 '

x'    x  vt 
 vx 
t'   t  2 
 c 
 2
  2  ' v 
2
 vx  

 sin
 x  vt    '   t  2    sin  
 2  x     '
c 
'
 c 

 '
  '
in questo caso è


     '
 
v t 
 
1     '  1    '
2 
' 

v      ' v    1    ' 
'  
c 
1 
1  2
2
2
 2 2 v  2
 

 1    


'
 ' ' c  '
1 
1 
cioè le stesse relazioni di prima.
Effetto Doppler trasverso
Proviamo a considerare una situazione leggermente diversa rispetto alla situazione che
abbiamo sempre considerato:
l’osservatore in S’ vede giungere la radiazione da una direzione che forma l’angolo θ’ con
la velocità relativa v.
 2
x' cos ' y ' sin '   ' t ' 
 sin
 '

dove x' cos ' y' sin ' esprime lo spazio percorso dall’onda nella direzione
specificata
58
 2
 x  vt  cos ' y sin '   '   t  vx2   
 sin
 c 
 '
   2
 
 ' v  2
2
 
 sin  
cos ' 2  x 
y sin '     '
v cos ' t  
c 
'
'
 
 
   '
Così come la parentesi quadra deve corrispondere a 2π/λ’, il coefficiente di t
nell’argomento della funzione deve essere ω :
(e tenendo conto che è


     '
2  '

' c )
2

v cos '    ' 1   cos ' .
'

da cui otteniamo la
formula dell’effetto Doppler trasverso
' 

 1   cos '
che esprime la frequenza percepita da un osservatore che vede arrivare una radiazione da
un angolo θ’ col semiasse negativo delle x (direzione opposta della sua velocità v).
Tale relazione deve includere come caso particolare quella precedente.
In effetti
 '  0  ' 

 1   

1 
1 
3.5. Test ed esercizi
La minima distanza temporale Δmin che può esserci in un sistema S’ tra due eventi A e B che
in S hanno coordinate spazio-temporali (xA = 300 m; tA = 8,00 μs) e (xB = 800 m; tB= 5,00μs) è:
a. 2,67 μs
b. 0,00 μs
c. 3,00 μs
d. 2,49 μs
e. 1,00 μs
[La risposta corretta è la d. Calcoli rognosissimi: calcoliamo la Δt’
e per comodità poniamo xB – xA = 500m =X > 0 e tA – tB = 3 μs = T > 0.
59
vx
vx 

t ' (v)  (t ' A t ' B )(v)    t A  2A  t B  2B  
c
c 

v
c2
v2
1 2
c
TX
Facciamo la derivata rispetto a v:
X  v2  
v  v
 2v
1  2    T  X 2  2
2 
2
c  c  
c c
X
v
v 

c2
1  2  T  X 2 
2
c
c
c 

v2
v2
2 1 2
1 2

X  Tv
c 
c
t ' (v) 

2
2
v
v
v
 v2 
v2
1 2
1 2
c 2 1  2  1  2
c
c
c
 c 
tale derivata ha un minimante per v= – X /T
dunque la distanza temporale minima è
t 'MIN
 X /T
T 2c 2  X 2
TX
2
2
T 2c 2  X 2
56
c
Tc



 ... 
s  2,49s
c
3
X 2 /T 2
T 2c 2  X 2
1
c2
T 2c 2
Un segnale di frequenza ν = 1,00 KHz nel sistema S viene misurato nel sistema S’ in moto con
velocità v = 0,5c lungo l’asse x positivo. La frequenza ν’ misurata in S’ è:
a. ν'= 577 Hz
b. ν'= 866 Hz
c. ν'= 1,15 kHz
d. ν'= 333 Hz
e. ν'= 1,73 kHz
[La risposta corretta è la a.
Bisogna usare la formula dell'effetto Doppler relativistico: ν'=radq[(1- β)/(1+ β)]v ]
In S l’evento A ha coordinate spazio-temporali (xA = 0,00 m; tA = 1,00 μs); in S’ l’evento è
osservato in x’A = 100 m. La velocità di S’ relativa a S è:
a. vS’ = 0,351 c
b. vS’ = 0,333 c
c. vS’ = - 0,316 c
d. vS’ = 0,316 c
e. vS’ = - 0,333 c
[La risposta corretta è la c.
La formula da usare è la prima delle formule di Lorentz e osservare,
prima di elevare al quadrato, che v è negativo. Ricordarsi di calcolare β, e non v]
Dati i due eventi A e B di coordinate spazio-temporali (xA = 300 m; tA = 12,0 μs) e (xB = 900 m;
tA = 2,00 μs), l’evento C (xC = 400 m; tA = 3,00 μs):
60
a. è nel passato assoluto di A e nel futuro assoluto di B
b. è nel passato assoluto di A e di B
c. è nel futuro assoluto di A e nel passato assoluto di B
d. è nel passato assoluto di A ma non di B
e. è nel passato assoluto di B ma non di A
[La risposta corretta è la d. Le rette luce di A hanno equazione (x-xA)2=c2(t-tA) 2
e un evento sta nel cono luce di A se (x-xA) 2<c2(t-tA) 2. Idem per il cono luce di B]
Un evento che in S avviene a t = 0, in S’ ha coordinate spazio-temporali (x’A=-260 m; t’A =
0,100 μs). La velocità di S’ rispetto ad S è:
a. vS’ = - 0,115 c
b. vS’ = - 0,756 c
c. vS’ = - 0,967 c
d. vS’ = 0,756 c
e. vS’ = 0,115 c
[La risposta corretta è la e. La formula da usare è la quarta delle formule di Lorentz.
Ricordare di calcolare β e non v]
Un fotone di energia E = 2,00 eV viene riflesso all’indietro da uno specchio in
moto con velocità v = 0,8c collineare e opposta alla direzione di propagazione del
fotone. L’ energia E’ del fotone riflesso misurata nel sistema del laboratorio è:
a. E’ = 2,00 eV
b. E’ = 18,0 eV
c. E’ = 6,00 eV
d. E’ = 10,8 eV
e. E’ = 0,222 eV
[Test della verifica finale. L’analisi non è così evidente: non serve a nulla ragionare
su conservazioni di energia e quantità di moto; il fotone riflesso dallo specchio deve
essere inteso come un fotone emesso da una sorgente in avvicinamento, per cui
1 
 ...  3
1 
. La risposta esatta è la c.]
E' / E  ' /  
61
Cap. 4: Composizione delle velocità
In questo capitolo ricaveremo una delle conseguenze delle trasformazioni di Lorentz, la
legge di composizione delle velocità; vedremo poi (4.2.) alcuni esempi in cui essa viene
applicata e vedremo come, diversamente dal caso classico, nessuna velocità possa
superare quella della luce; infine (4.3.) daremo l’interpretazione dell’esperimento di
Fizeau descritto nel capitolo 1.
4.1. Legge di trasformazione delle velocità
Le coordinare del punto P sono individuate dal vettore r, coordinate che in generale
dipendono dal tempo. La velocità di tale punto – per definizione – è la derivata di tale
coordinate rispetto al tempo.
Se ci mettiamo in un altro sistema di riferimento, la posizione e la velocità saranno
definito allo stesso modo ma attraverso le coordinate spazio-temporali di questo nuovo
sistema.
Dal punto di vista relativistico, invece, ciascuno di questi rapporti va calcolato tenendo
conto delle trasformazioni di Lorentz
62
Nell’ultimo passaggio si è messo in evidenza dt.
La differenza rispetto alla legge classica è la presenza di quel denominatore
riquadrato.
Andiamo a calcolare le altre componenti della velocità:
Rispetto alla legge classica, che prevede nei due sistemi velocità uguali in direzione y e z,
anche qui compare un denominatore che è quello riquadrato nelle formule sopra.
Formule inverse
Queste trasformazioni possono essere ovviamente invertite per esprimere la velocità nel
sistema S(x,y,z,t) nota la velocità nel sistema S’(x’,y’,z’,t’).
63
L’unica cosa che cambia è la velocità relativa dei due sistemi, basta quindi sostituire vΩ
con – vΩ .
Quesito: la velocità relativa vr con cui si muovono due particelle relativistiche che si muovono con
velocità v1 e v2 :
a. è maggiore che nel caso classico se le velocità sono concordi;
b. è sempre minore che nel caso classico;
c. è sempre maggiore che nel caso classico.
[La risposta esatta è la a. Infatti, se vr = v2 – v1 nel caso classico,
è vr = (v2 – v1)/(1 – v2v1/c2) nel caso relativistico]
4.2. Alcuni esempi di composizione delle velocità
Un razzo R in moto con velocità 0.4 c rispetto alla Terra spara in avanti proiettili che
hanno velocità pari a 0.7 c rispetto al razzo. Quale è la velocità dei proiettili rispetto alla
terra?
(N.B. Solo in un caso la legge relativistica di composizione delle velocità fornisce lo
stesso risultato di quella classica: quando si compongono due velocità uguali e opposte!!)
Un razzo in moto con velocità 0.4c rispetto alla Terra lancia in avanti un segnale
luminoso che ha velocità c rispetto al razzo. Quale è la velocità del segnale rispetto alla
terra?
64
Ritroviamo il risultato da cui siamo partiti, ovvero che la velocità della luce è la
stessa in tutti i sistemi di riferimento.
Il grafico a destra mostra la composizione delle velocità per diversi valori di vΩ
vP rispettivamente di 0,2c, 0,4c, 0,6c, 0,8c e 0,9c composta con una velocità v’P : tutte le
curve tendono al valore c.
Dimostrazioni sperimentali di questo risultato ce ne sono molte. Riportiamo i risultati di
due lavori, il primo (a sinistra) del 1964, il secondo (a destra) più recente, del 2009, lavori
che vanno sotto il nome di
Ultimate speed experiment
esperimento che consiste nell’andare a misurare la velocità di una particella quando tale
particella ha una certa energia cinetica; l’energia cinetica è abbastanza facile da misurare
perché è l’eccesso di energia che una particella accumula quando viene accelerata tra due
punti di un acceleratore (vedremo le formule nel capitolo della dinamica relativistica). La
velocità classicamente attesa, mostrata dalla retta, è disattesa dalla misurazione.
La velocità dapprima cresce come previsto dalla teoria classica, ma poi si
appiattisce sull’asintoto v=c.
La velocità della luce è quindi la velocità massima raggiungibile da un mobile
accelerato e per tale motivo tali esperimenti sono chiamati “ultimate speed experiment”.
65
4.3. Interpretazione dell’esperimento di Fizeau
Altra applicazione interessante della formula di composizione delle velocità è quella che
ci permette di rispondere alla domanda: qual è la velocità della luce quando si
propaga all’interno di un mezzo?
L’ottica ondulatoria di Huygens ci ha mostrata che la luce, quando attraversa una
c
vasca d’acqua ferma, viaggia con velocità c '  , dove n è l’indice di rifrazione del
n
mezzo. La velocità della luce nel mezzo risulta quindi inferiore alla velocità della luce nel
vuoto perché negli altri mezzi è n >1
Che cosa succede quando l’acqua viene messa in moto?
Secondo le vecchie ipotesi, quando ancora si credeva all’esistenza dell’etere,
quando l’acqua viene messa in moto nella vasca, l’acqua trascina con sé l’etere
66
il quale acquista dunque una frazione α della velocità dell’acqua, per cui la velocità della
c
luce nell’acqua rispetto al laboratorio è c'   vacq .
n
Fresnel nel 1818 aveva cercato di calcolare quell’α e aveva proposto un
modello di trascinamento parziale dell’etere da parte del mezzo in presenza di moto
relativo tra i due. In base alla sua ipotesi la velocità che l’etere assumeva era
  '
ve '  v1  e 
 e 
Inoltre l’indice di rifrazione dipende dalla densità del mezzo. Per cui Fresnel aveva
concluso che:
e ' 1
c
1 

 2  c'   vacq . 1  2 
e n
n
 n 
Quest’ultima parentesi corrisponde all’α cercato ed è noto come “Fresnel drag
Coefficient” (coefficiente di trascinamento di Fresnel).
Fizeau (1819 -1896) nel 1851, con un famosissimo esperimento, aveva poi
verificato l’ipotesi del trascinamento parziale dell’etere da parte di un mezzo
trovando un valore di α = 0.48 da confrontarsi con α = 0.43 atteso dalla formula di
Fresnel. Il successo fu interpretato come una conferma del trascinamento parziale
dell’etere.
Il risultato dell’esperimento fu confermato con maggiore precisione da Michelson
e Morley nel 1886. P. Zeeman lo ripeté negli anni 1914 – 1922.
Oggi sappiamo che l’ipotesi del trascinamento dell’etere da parte dell’acqua in
movimento era campata in… “aria”, se non in acqua.
Come si spiega il coefficiente di Fresnel alla luce delle formule delle relatività?
Ricordiamo che Einstein, per verificare la bontà delle sue formule, le testò inizialmente
proprio sulla formula di Fresnel e trovò che l’effetto di trascinamento previsto da
Fresnel e verificato sperimentalmente da Fizeau poteva facilmente essere interpretato
come conseguenza della composizione di velocità relativistiche.
La velocità della luce nell’acqua è la somma relativistica delle velocità della luce
in acqua ferma e della velocità dell’acqua
c
 v acq .
c'  n
cv acq .
1
nc 2
67
manipolando la formula e applicando lo sviluppo in serie di 1/(1+z) ≈ 1 – z …
… ritroviamo la formula di Fresnel.
Einstein diede grande importanza a questo risultato perché l’esperimento di
Fizeau era considerato uno degli esperimenti cruciali a sostegno della dimostrazione
dell’esistenza dell’etere e la teoria della relatività permetteva invece di dimostrare in
modo naturale i risultati di Fizeau.
4.4. Test ed esercizi
Un cannone in moto relativistico con velocità v = 0,8 c spara un proiettile verticalmente con
velocità 0,3 c. L’angolo che la velocità del proiettile forma con l’asse x in S è:
a. 10°
b. 20°
c. 13°
d. 17°
e. 77°
1
v'
vy
0,6  0,3
 y
[La risposta esatta è la b.   arctg  arctg
]
 arctg
vx
v
0,8
Un cannone in moto con velocità 0.40c rispetto al suolo spara all’istante t=0 un proiettile di
velocità 0.50c rispetto a sé contro un bersaglio in moto con velocità 0.70c rispetto al suolo
lungo la stessa direzione e lo stesso verso del cannone. La velocità del proiettile rispetto al
bersaglio è:
a. 0,033 c
b. 0,10 c
c. 0,20 c
d. 0,50 c
e. 0,63 c
[La risposta esatta è la b. Si calcola facilmente che la velocità del bersaglio rispetto al suolo è
0,75c, dopodiché la velocità relativa del proiettile rispetto al bersaglio diventa la velocità del proiettile
rispetto al suolo più la velocità del suolo rispetto al bersaglio, ovvero la somma (o da subito: la
differenza) relativistica delle velocità. ]
68
Un aereo relativistico in moto con velocità v = 0,6 c lungo l’asse x, spara un proiettile
relativistico di velocità v = 0,8 c nella direzione y’. La componente y della velocità del proiettile
in S sarà:
a. 0,54 c
b. 0,80 c
c. 0,64 c
d. 0,43 c
e. 0,66 c
[La risposta esatta è la c. Basta usare la formula corretta: v y 
1

v' y  0,8  0,8c ]
Nel sistema di riferimento S una particella in moto con velocità Vp=0,7c si trova nel punto di
coordinate spazio-temporali (0,0). L’istante in cui l’osservatore S’ in moto con velocità
vS’=– 0,6c rispetto a S vede la particella nel punto di coordinate x’= 3,00 108 m è:
a. t' = 1,09 s
b. t' = 0,276 s
c. t' = 0,446 s
d. t' = 1,26 s
e. t' = 0,615 s
[Test della verifica finale. Non è specificato ma si dà per scontato che all’istante t’=0=t le origini
di S e S’ coincidano. Mettendosi nell’ottica di S’ la particella si muove con velocità Vp =0,7c nel sistema
S che a sua volta si allontana da S’ con velocità vS = 0,6c (principio di relatività). Tale particella ha
quindi, rispetto a S’, velocità (formula di composizione delle velocità) v’ =(vS+Vp)/(1+vSVp/c2) e per
andare da 0 a x' impiega t'=x'/v'.
La risposta corretta è la a. ]
Una particella si muove in S’ con velocità v’=–0,33c lungo l’asse delle x’; all’istante t’=1,0 10–7s
si trova nel punto di coordinata x’=10m. Nel sistema S in moto con velocità vO=– 0,60c rispetto
ad S’, determinare la velocità v della particella e lo spazio percorso nell’intervallo di tempo 1,0
10–7 s <t'<3,0 10–7 s
a. v = 0,78c; x = 20 m
b. v = 0,33c; x = 35 m
c. v = 0,33c; x = 55 m
d. v = 0,34c; x = 20 m (corretta)
e. v = 0,78c; x = 55 m
[Le risposte vanno determinate rispetto a S. Per S è S’ che si muove con velocità vO = 0,60c e la
particella si muove in S’ con velocità negativa v’: usando la formula di composizione delle velocità si
ottiene v =(vO–v’)/(1–vOv’/c2). L’unica risposta corretta è la d. In ogni caso, per determinare lo spazio
percorso in S dobbiamo conoscere x1’, x2’, t1’, t2’.


Dunque x  x2  x1   x2 'vO t 2 '   x1 'vO t1 '   x2 ' x1 '  vO t 2 't1 '
L’ultima tonda è data, ci manca calcolare x2 '  x1 'v' t 2 't1 ' , ricordando che v’ è negativa.
La risposta corretta è la d.]
69
Cap. 5: i paradossi della relatività
Esistono due tipologie di paradossi: un primo gruppo di paradossi (il serpente
relativistico, la scala nel fienile, lo sciatore) in cui il problema è sempre lo stesso e che
nasce dal fatto che presunto “paradosso” è formulato in maniera non corretta; e poi vi è
il celeberrimo paradosso dei gemelli. Dall’analisi di quest’ultimo, capiremo come sia
possibile risolverlo e soprattutto concludere che non è un paradosso ma una illustrazione
delle caratteristiche della relatività.
5.1. La scala nel fienile
Si vuole trasportare una scala, facendola viaggiare con velocità costante, attraverso un
fienile, entrando dalla porta anteriore (a sinistra) e uscendo dalla porta posteriore (a
destra); le porte non sono mai contemporaneamente aperte.
Quando si è chiusa la porta anteriore occorre aprire la porta posteriore!!! Come la
apriamo? Possiamo immaginare di utilizzare una fotocellula posizionata sulla porta
anteriore che, appena non è più interrotta dalla scala, chiude la porta anteriore del fienile
aprendo simultaneamente quella posteriore.
Se Lscala < Lfienile  nessun problema.
Se invece Lscala > Lfienile  la porta sbatte sulla porta posteriore.
Ma se la scala ha la lunghezza del fienile?
La situazione è abbastanza complicata. E perciò noi cerchiamo di semplificarla un
poco, supponendo che la Lscala sia inferiore ma circa uguale alla Lfienile e che la vscala sia
una velocità relativistica.
Analizzeremo questa situazione sia dal punto di vista di un osservatore solidale col
fienile (sistema S) sia dal punto di vista “della scala” (sistema S’).
Nel sistema S del fienile la scala è in movimento e perciò la sua lunghezza
subisce la contrazione di Lorentz: essa è lunga solo Lscala/γ, ossia è certamente più corta
70
di Lfienile, lunghezza del fienile, quindi quando l’estremo A non intercetta più la
fotocellula la scala è completamente all’interno del fienile, l’estremo B della scala non ha
ancora raggiunto la porta posteriore e quindi non avrà problemi nell’uscire in quanto la
troverà aperta.
Nel sistema S’ della scala, invece, è il fienile in moto e ha quindi ha lunghezza
ridotta Lfienile/γ; è cioè più corto della scala e quando l’estremo B raggiunge la porta
posteriore la scala intercetta ancora la fotocellula, quindi la porta posteriore non si è
ancora aperta e la scala non può uscire.
Da dove nasce la contraddizione?
Dal fatto che stiamo ragionando come se la contemporaneità di due eventi
in S sia valida anche in S’.
Consideriamo i due eventi
E1 - l’estremo A della scala si trova nel punto di ingresso del fienile
E2 - apertura della porta posteriore
In S (sistema di riferimento del fienile)…
… E1 e E2 sono eventi contemporanei
71
x1  0 x 2  L fienile
t1  0
t2  0
… ma in S’ (sistema di riferimento della scala)?
NO
Usiamo le formule di Lorentz per stabile le coordinate spazio-temporali dei due
medesimi eventi nel sistema S’
x1 '   x1  vt1   0
x2 '   x2  vt2   L fienile
vL fienile
vx 
vx 


t1 '    t1  21   0 t 2 '    t 2  22   
c 
c 
c2


Nel sistema di riferimento della scala, l’evento “apertura della porta posteriore”
non è più contemporaneo all’evento “apertura della porta anteriore” ma avviene prima, a
un tempo t’< 0, cioè quando la porta posteriore del fienile si trova ancora nella posizione
indicata dalla freccia.
Perché la scala possa passare liberamente attraverso la porta posteriore è
necessario che quando la porta si apre la porta stessa non abbia ancora raggiunto la
posizione dell’estremo B della scala, che (nel sistema di riferimento S’ della scala) è fisso
nel punto di coordinata Lscala cioè:
L
L fienile  Lscala  L fienile  scala che è esattamente la relazione che avevamo

scritto prima. Non c’è quindi nessuna contraddizione: per entrambi gli osservatori la
scala può attraversare il fienile.
Occorre però approfondire questa stranezza.
vL fienile
0?
Che significa t 2 '  
c2
Per S’ l’apertura della porta posteriore avviene quando la chiusura della porta
anteriore non è ancora scattata, ovvero quando la scala non è ancora completamente
entrata nel fienile. Ma l’apertura della porta posteriore non doveva scattare quando
scattava la chiusura di quella anteriore?
72
Per come è stato formulato il paradosso, non c’è una relazione di causa ed effetto
tra l’apertura della cellula e quella della porta posteriore.
Formulazione relativisticamente corretta
Riformuliamo il paradosso con relazione di causa–effetto. Se io voglio che ci sia
una qualche relazione di causa ed effetto tra i due eventi E1 ed E2 è necessario che il
fotodiodo che sovrintende alla chiusura della porta anteriore faccia partire un comando
alla porta posteriore, e questo comando, per veloce che possa viaggiare, potrà viaggiare
al massimo alla velocità della luce. Dunque, nel sistema di riferimento S, se vogliamo
salvare l’ipotesi di causa-effetto tra gli eventi E1 ed E2, è necessario che l’evento E2
ritardi almeno del tempo necessario a che il segnale luminoso percorra la lunghezza del
fienile.
Graficamente allora la situazione è quella descritta dalle immagini sotto: all’istante
t1=0 (figura a sinistra) viene inviato un segnale alla porta posteriore e solo quando il
L fienile
segnale arriva alla porta posteriore, essa si apre. Ciò avviene nell’istante t 2 
e
c
all’istante t2 la situazione in S deve essere quella nella figura di destra:
Dunque, se vogliamo salvaguardare il rapporto causa-effetto tra i nostri due eventi
di partenza, le loro coordinate spazio-temporali dovranno essere le seguenti:
L fienile
x

L
t

x1  0 t1  0
2
fienile
2
c
In altri termini, ovvero in termini relativistici, per salvaguardare il rapporto di
causa-effetto, è necessario che E2 si trovi nel cono-luce dell’evento E1 (vedi figura sotto).
Nella prima ipotesi E1 ed E2 si trovavano entrambe sulla retta ct = 0, ovvero l’evento
E2 era fuori del cono di luce di E1, in una regione dello spazio-tempo in cui le relazioni
temporali tra E1 ed E2 non sono ben definite, e perciò l’evento E2 non poteva essere
“causato” da E1.
73
E1, infatti, può “causare” solo eventi che si trovino nel suo cono di luce (ovviamente
dalla parte di t>0).
Quindi E2, per essere effetto di E1, deve stare in quel cono di luce: spostiamoci
allora dall’E2 sull’asse delle X (primo caso), in verticale (mantenendo cioè invariata la
collocazione spaziale di E2), fino a entrare nel cono-luce di E1; lì possiamo piazzare “E2
con ritardo”, e allora ci sarà sempre relazione temporale (e quindi possibile rapporto
causa-effetto) tra E1 ed “E2 con ritardo” in tutti i sistemi di riferimento.
Andiamo ora ad analizzare il fenomeno così come viene visto dall’osservatore S (il
fienile) e dall’osservatore S’ (la scala).
In S, per l’estremo B della scala deve valere la seguente disequazione:
L fienile Lscala
1 
v

 L fienile  Lscala  L fienile
c

1 
relazione diversa da quella trovata in precedenza.
In S’ l’apertura della porta posteriore avviene all’istante (ottenuto tramite le
trasformazioni di Lorentz):
L fienile
 L fienile 




1     0
t 2 '    t 2  L fienile    
 L fienile   
c
c
c
c




Adesso S’ osserva l’apertura della porta posteriore in un istante successivo a quello
della chiusura della porta anteriore; abbiamo eliminato la stranezza osservata prima,
quando la porta posteriore si apriva prima della chiusura della porta anteriore.
74
Ci rimane da calcolare dove si trova la porta posteriore all’istante t2’.
Nell’istante t2’ la coordinata xP’ della porta posteriore del fienile deve essere
maggiore di quella dell’estremo B della scala
L fienile
L fienile
xP ' 
 vt'  x P ' t 2 ' 
 L fienile 1     Lscala

ossia
L fienile


1    1     L 
2
fienile
 2 1     Lscala 
riotteniamo la stessa relazione di prima: Lscala  L fienile
1 
1 
Le conclusioni a cui arrivano i due osservatori S ed S’ e le loro misurazioni sono
assolutamente in accordo tra loro.
Ma per far questo bisogna riformulare correttamente il fenomeno. La
“scorrettezza” giaceva nell’aver considerato i due eventi simultanei in tutti i sistemi di
riferimento.
5.2. Il paradosso dei gemelli
Paul Langevin nel 1911 formulò il paradosso dei gemelli nella forma: “un gemello Bob
parte per un viaggio con γ = 100 e viaggia per un anno. Al suo ritorno scopre che sulla
terra sono trascorsi 200 anni”. Trova quindi il suo gemello, Tom, un po’ …invecchiato!!
Il paradosso nasce dall’apparente simmetria della situazione: per ognuno dei due
gemelli è l’altro in moto con γ = 100 e quindi è l’altro a dover essere più giovane.
Per Tom, che è rimasto sulla terra,
tTom  t Bob
Per Bob, che ha viaggiato, t Bob  tTom
Chi dei due sarà realmente più anziano?
Questa formula vale per due riferimenti inerziali… e laddove uno dei due misuri
un tempo proprio.
Ma qui la simmetria è solo apparente: i due osservatori non sono equivalenti:
Tom è sempre stato sulla Terra in un preciso sistema di riferimento inerziale.
Bob invece è stato in due sistemi, il primo in moto con velocità relativistica nella
direzione di allontanamento dalla Terra, il secondo con velocità eguale ma di verso
opposto.
È quindi Tom a poter utilizzare senza remore la relazione della dilatazione del
tempo nella forma che abbiamo enunciato perché essa vale quando confrontiamo il
tempo trascorso tra due sistemi di riferimento inerziali.
75
Esempio numerico. Un’astronave parte per un viaggio con velocità v=0.995c
(cioè γ = 10) verso un pianeta distante L0 = 2 anni-luce dalla Terra e poi ritorna sulla
Terra. Determiniamo la durata dei voli per l’equipaggio S’ e per la Terra S.
2 L0

t

 4.02 anni
In S:
v
L0
In S’ la distanza da coprire è
t ' 


2 L 2 L0

 0.402 anni
v
v
E ricaviamo quello che ci aspettiamo, ovvero che il gemello in volo invecchia più
lentamente
t  t '
Test: due gemelli partono entrambi in due missioni spaziali diverse. Tom va alla velocità vT = 0.3c
verso Alpha Centauri (distanza ~ 4.3 anni luce) mentre Bob va alla velocità vB = 0.6c verso Sirio
(distanza ~ 8.6 anni luce). Al rientro sulla Terra:
a.
Tom e Bob sono coetanei, perché i due viaggi hanno la stessa durata.
b.
Bob è più giovane perché ha viaggiato con velocità maggiore.
c.
Tom è più giovane perché ha percorso una distanza minore.
[La risposta corretta è la b. La distanza si è accorciata di più,
e il tempo si è dilatato di più, per chi ha viaggiato con velocità maggiore]
Il paradosso nasce quando si mescolano le carte, ovvero quando si dimentica che solo il
gemello sulla Terra è in un riferimento inerziale.
Chiediamoci: i gemelli sono condannati a scoprire il diverso invecchiamento
all’improvviso, cioè al momento del loro incontro, oppure è possibile misurare in un
sistema di riferimento il trascorrere del tempo di un altro sistema di riferimento?
Ovvero: può Tom, che sta sulla Terra, rendersi conto di come il tempo trascorre per
Bob e viceversa?
La risposta è che è possibile farlo se i due gemelli sono dotati entrambi di un
emettitore di luce di frequenza propria ben precisa (per semplicità la stessa, sia essa f0) e
si inviano segnali. Sia Bob in viaggio sia Tom a Terra possono inviarsi segnali con quella
precisa frequenza propria.
Bob dall’astronave invia il suo segnale a Terra e Tom misura il numero di creste
NC del segnale che arrivano, deducendone che il tempo trascorso sull’astronave sarà:
N
t '  C
f0
76
Simmetricamente, Tom dalla Terra invia il suo segnale e Bob misura il numero di
creste N’C del segnale che arrivano sull’astronave, deducendone che il tempo trascorso
N 'C
sulla Terra sarà: t 
f0
Che relazione c’è la misura dell’uno e la misura dell’altro?
Vediamo cosa misura Bob sull’astronave.
Nella PRIMA FASE DEL VOLO (fase 1) per Bob il segnale arriva da una sorgente in
allontanamento e quindi per l’effetto Doppler la frequenza che misura sarà:
1 
f1 ' 
f0
frequenza più bassa di quella di emissione
1 
L 1 
L
L
f1 '  0
f 0  0 1    f 0
v
v 1  
v
Supponiamo di poter trascurare il tempo necessario a Bob a invertire il moto
dell’astronave. Nella SECONDA FASE DEL VOLO (fase 2) per Bob il segnale arriva
da una sorgente in avvicinamento.
Per l’effetto Doppler la frequenza misurata sarà:

N ' C1 
L 1 
L
1 
L
f0
N 'C 2  f 2 '  0
f 0  0 1    f 0

1 
v
v 1  
v
Il numero totale di creste misurate da Bob in volo sarà:
L
2L
N 'C  N 'C1  N 'C 2  0 1     1    f 0  0 f 0
v
v
Quindi Bob dedurrà che il tempo trascorso sulla Terra durante le due fasi del
N 'C 2 L0

suo tragitto sarà t 
, risultato che noi (sulla Terra) conoscevamo fin
f0
v
dall’inizio. Ma questo modo di misurare i tempi si rivela efficace perché consente anche a
Bob di sapere quanto tempo è passato per Tom.
f2 '
Vediamo cosa misura Tom sulla Terra.
Nella PRIMA FASE DEL VOLO (fase 1) per Tom il segnale arriva da una sorgente in
allontanamento e quindi per l’effetto Doppler la frequenza che misura sarà
1 
f1 
f0
e il numero di creste che conterà sarà
1 
N C1 
L0
L 1 
f1  0
f0
v
v 1 
77
Poi Bob inverte il moto ma Tom, per un certo intervallo di tempo, continua
a ricevere segnali a frequenza f1 ossia per il tempo che impiega ad arrivare sulla Terra
l’ultimo segnale inviato da Bob prima di invertire il moto. Quanto vale questo intervallo
L0
di tempo? Si ricava facilmente che tale intervallo di tempo vale
.
c
In questa fase Tom continua allora a ricevere segnali con frequenza
L0
L 1 
1 
f1  0
f0
f1 
f0
e allora Tom conta altre creste: N C1r 
c
c 1 
1 
L0
Trascorso il tempo
dall’inversione del moto Tom comincia a ricevere i segnali
c
1 
f 0 (sorgente in avvicinamento) e li riceve per un tempo pari a:
a frequenza f 2 
1 
L0 L0

ovvero per la durata del suo viaggio di ritorno meno il primo intervallo in cui
v
c
Tom ha continuato a ricevere segnali con la prima frequenza, per cui Tom conterà in
questa fase un numero di creste pari a
L 
L  1 
L
L
1 
L
L
NC2   0  0  f 2   0  0 
f 0  0 1   
f0  0 f0
c 
c  1 
v
1 
v
 v
 v
Il totale delle creste misurate da Tom sulla Terra è dunque:
L 1 
L 1 
L
N C  N C1  N C1r  N C 2  0
f0  0
f0  0 f0 
v 1 
c 1 
v
L
L
L
L
L
2L
1 
 1 1  1 
 L0   
f 0  0 f 0  0 1   
f0  0 f0  0 f0  0 f  0 f0
v
v
1 
v
v
v
v
 v c  1 
da cui ricaviamo t ' 
N C 2 L0 t


f0
v

L’intervallo di tempo trascorso sulla terra Δt è maggiore del fattore
relativistico γ rispetto all’intervallo di tempo trascorso sulla astronave. Questo è in
accordo con la spiegazione data precedentemente basata sul fatto che Tom (a Terra) è un
osservatore inerziale durante tutto il volo mentre Bob (astronauta) non lo è.
È Tom a poter utilizzare la relazione di dilatazione del tempo senza
commettere errori.
78
5.3. Test ed esercizi
Un’astronave parte per una missione con velocità relativistica v. Trascorso un intervallo di
tempo Δt, invia un segnale che raggiungerà la Terra quando su di essa è trascorso un tempo
ΔtT pari a:
t
1 
1 
t T 
t T 
t
t T 
t
t T  t
t T  t

1 
1 
[La risposta esatta è la prima: per chi sta sulla Terra sono passati due intervalli,
v t
il primo pari a t e il secondo pari a
]
c
Con riferimento al paradosso della scala nel fienile quando si considera la relazione di causa e
effetto tra la chiusura e l’apertura delle due porte, se indichiamo con Δt l’intervallo di tempo tra
la chiusura della porta anteriore e l’apertura della porta posteriore nel sistema di riferimento
del fienile, nel sistema di riferimento della scala l’intervallo di tempo Δt′ è pari a:
t
1 
1 
t ' 
 t '   t
t ' 
t
t ' 
t
t '  t

1 
1 
[la risposta corretta è l’ultima. t 2 't1 '  t '  
L fienile
c
1    
1 
t ]
1 
Due astronavi compiono un viaggio relativistico verso un pianeta distante L = 3 anni-luce dalla
Terra, con velocità relativistica v1 =0,7c e v2=0,5c rispettivamente. Quando la prima astronave
torna sulla Terra, quanto tempo è trascorso sulla seconda astronave?
a. Δt2= 5,2 anni
b. Δt2= 4,3 anni
c. Δt2= 7,1 anni
d. Δt2= 7,4 anni
e. Δt2= 6,1 anni
[La risposta esatta è la d. Per chi sta sulla Terra, quando torna l’astronave 1,
sono passati 6anni-luce/0,7c =8,57 anni. E per l'astronave 2 sono passati 8,57 anni/γ]
79
Cap. 6: dinamica relativistica
In questo capitolo cercheremo di capire come le equazioni del moto classiche – le
equazioni di Newton – si trasformano quando i corpi hanno velocità non trascurabili
rispetto a quella della luce. Cercheremo quindi di costruire una meccanica che sia
coerente con le ipotesi/postulati di Einstein. Arriveremo alle conseguenze di tali
postulati, ovvero a concetti rivoluzionari quali l’equivalenza massa-energia che porta con
sé la possibilità di trasformare la massa in energia.
Infine l’analisi della quantità di moto porterà a una nuova definizione di quantità
di moto, necessaria perché venga rispettato il principio di sua conservazione, e vedremo
come la conservazione dell’energia relativistica e la conservazione della quantità di moro
siano intimamente legati nella formulazione relativistica.
Analizzeremo quindi la seconda e la terza legge della dinamica alla luce della
dinamica relativistica.
Il percorso di Einstein
Se si va ad analizzare gli scritti di Einstein del 1905 si scopre che Einstein arrivò alla
formulazione delle leggi della dinamica relativistica attraverso un processo abbastanza
semplice da seguire, che richiede però un certo formalismo matematico. In particolare
egli cominciò a studiare le  leggi di trasformazioni dei campi E e B, e una volta
nota l’espressione di tali campi in due sistemi di riferimento diversi  studiò come
variava l’equazione del moto di un elettrone passando da un sistema di
riferimento all’altro. Quindi,  analizzando il concetto di energia, arrivò a stabilire
 l’equivalenza tra energia e massa.
Il percorso nostro
Noi invece seguiremo un approccio leggermente diverso da quello di Einstein, un
percorso che ha il vantaggio di richiedere un formalismo matematico più “basso” e che
fa uso più di concetti fisici che di “formalismi matematici”. In particolare, attraverso un
modellino di trasferimento di energia fra due punti materiali arriveremo a comprendere il
concetto di  energia a riposo e di massa. Quindi, cercando di estendere il concetto
di quantità di moto, arriveremo a determinare la  quantità di moto relativistica.
Dopodiché  applicheremo la II legge di Newton per ottenere la legge del moto
in relatività. Quindi estenderemo questo studio a sistemi leggermente più complicati,
cioè a sistemi composti da più punti materiali, in particolare  cercando di
determinare la III legge di Newton in Relatività, la cosiddetta conservazione della
quantità di moto, e analizzeremo il principio di azione e reazione in Relatività, che
andrà modificato profondamente. Infine arriveremo a determinare la  legge di
trasformazione delle forze da un sistema di riferimento a un altro mediante l’uso
delle trasformazioni di Lorenyz.
Tuttavia è utile seguire, seppur minimamente, il percorso fatto da Einstein per
arrivare alle sue considerazioni sulla dinamica relativistica.
80
6.1. Dinamica relativistica: l’approccio di Einstein
Punto di partenza sono le Equazioni di Maxwell-Hertz
 E  
B
t
  B   0 0
E
t
ovvero
B
E z E y

 x
z
y
t
B
E x Ez

 y
z
y
t
E y E x
B

 z
z
y
t
E
Bz By

  0 0 x
z
y
t
E
Bx Bz

  0 0 y
z
y
t
By Bx
E

  0 0 z
z
y
t
Applichiamo alle equazioni di Maxwell-Hertz le trasformazioni di Lorentz:
x'   ( x   ct ) 
ct '   (ct   x)


 x'  t '
  




x x' x t ' x
x' c t '
Imponiamo che in un qualsiasi S’ la forma delle equazioni sia la stessa.
Ricaviamo che tra i campi E e B in S e in S’ sussistono le seguenti relazioni:
B' x  Bx
 

B' y    B y  E z 
c 

 

B' z    Bz  E y 
c


E'x  Ex
E ' y   E y  cB z 
E ' z   E z  cB y 
Passando cioè da un sistema di riferimento a un altro, le componenti del campo elettrico
sono influenzate da un campo magnetico e viceversa: ovvero, se in un sistema è presente
solo un campo elettrico, quando il fenomeno viene analizzato in un altro sistema di
riferimento è presente anche un campo magnetico.
Dopodiché Einstein va ad analizzare la legge del moto, imponendo che

 
l’espressione della forza (di Lorentz) abbia la medesima forma q E  qv  B  in tutti i
sistemi di riferimento. Utilizzando le formule trovate arriva alla formula per cui la forza è
data dalla derivata rispetto al tempo del fattore relativistico γ moltiplicato per mv.
  
d
mv  q E  v  B
dt


È come se il punto materiale, la carica in questo caso, si opponesse alla forza di Lorentz
come se avesse una MASSA EFFICACE data da γm :
81
meff . 
A basse velocità
m
1  2
Ad alte velocità
 2 

meff .  m1 
2 

meff .  
Quindi Einstein calcola l’energia cinetica K acquistata da una carica sotto
l’azione di un campo elettrico. Assume valido il teorema dell’energia cinetica (uno
dei teoremi fondamentali della meccanica classica): supponendo quindi che la forza abbia
l’espressione suddetta (derivata rispetto al tempo di γmv)
 qE dx  
x
 1

d (mv )
d (mv)
dx  
vdt  mc 2 
 1    1mc 2
 1  2

dt
dt


E poiché nel calcolo dell’integrale abbiamo assunto che la velocità iniziale fosse
nulla l’espressione finale è quella dell’ENERGIA CINETICA, che vale dunque
K    1mc 2
Questa formula è accettabile se nel limite non relativistico, cioè a basse velocità, ci
2
1
 K  mv 2 , si
restituisce la legge classica; e in effetti, a basse velocità   1 
2
2
ottiene cioè l’espressione classica.
Quindi Einstein analizza la variazione di energia di un corpo quando emette luce,
e cerca di confrontare le conclusioni a cui arrivano due osservatori, uno in S e uno in S’,
concludendo che:
1. alla emissione di un’energia Δ corrisponde una variazione della massa Δ /c2 ;
2. la massa è una misura dell’energia posseduta da un corpo.
The fact that the energy withdrawn from the body becomes energy of radiation
evidently makes no difference, so that we are led to the more general conclusion that:
“The mass of a body is a measure of its energy-content; if the energy changes by Δ, the
mass changes in the same by Δ/c2.
Quest’ultimo aspetto diventa invece il punto di partenza del nostro percorso per
arrivare alla formulazione della dinamica relativistica. Cioè mostreremo come
l’equivalenza massa-energia è già dentro le leggi dell’elettrodinamica che noi conosciamo.
La cosa non deve stupire, perché noi sappiamo che le leggi dell’elettrodinamica sono
corrette dal punto di vista della relatività, e quindi devono esserlo anche le loro
conseguenze. Del resto, una delle conseguenze delle equazioni di Maxwell (la velocità
della luce è la stessa in tutti i sistemi inerziali) l’abbiamo proprio usata per “fondare” la
relatività.
82
Un’altra conseguenza dell’elettromagnetismo “classico” è che un’onda
elettromagnetica trasporta non solo energia ma anche quantità di moto e che il rapporto
che c’è tra queste due quantità è proprio c, velocità della luce: l’impulso trasportato è
uguale all’energia trasportata diviso c, p=U/c, dove questa energia può essere una energia
totale trasportata o una intensità di energia trasportata (ovvero un’energia trasportata per
unità di tempo e per unità di superficie).
6.2. Equivalenza di massa ed energia
Il fenomeno che andiamo ad analizzare fu suggerito dallo stesso Einstein poco tempo
dopo i suoi famosi articoli del 1905.
Immaginiamo di avere una scatola M con due pareti (quelle nere) con una massa
significativa e supponiamo di poter trascurare la massa laterale. La scatola sia lunga L e il
centro di massa CM della scatola si trovi al centro geometrico della scatola.
Immaginiamo che a un certo istante una delle due pareti emetta una certa quantità
di energia: potrebbe essere un atomo in una situazione instabile che emette un fotone di
energia δE:
poiché l’onda emessa, nel trasportare energia, trasporta anche una quantità di moto data
dalla relazione δp = δE/c ne consegue che la scatola deve acquistare esattamente quella
quantità di moto che la luce sta portando via; dividendo tale quantità di moto per la
massa M della scatola otterremo la velocità v con cui la scatola si muoverà verso sinistra.
v
p
M

E
Mc
dove M è la massa totale della scatola.
Durante tutto il tempo di trasferimento dell’onda dalla parete sinistra alla parete
destra avremo che la scatola si muove verso sinistra con quella velocità.
Quando l’onda colpisce la parete destra della scatola, trasferisce alla scatola la
quantità di moto che possedeva e la scatola ritorna ad essere in quiete.
Il tempo durante il quale la scatola si sposta verso sinistra è il tempo che l’onda
impiega ad attraversare la scatola.
83
In quel frangente la scatola (e dunque anche il suo centro di massa) si è spostato a
E L
x  vt  
sinistra di una quantità
Mc c
In meccanica classica in un sistema isolato, in assenza cioè di forze esterne, il centro di
massa rimane fermo.
Qui invece il centro di massa (centro della scatola) si è spostato in assenza di forze
esterne!
i
xCM

L
L E
f
 xCM
 
L
2
2 Mc 2
Se vogliamo riaffermare il principio di conservazione della quantità di moto,
ovvero che il centro di massa non si sposta in assenza di forze esterne, dobbiamo
concludere che  il centro di massa non è più al centro della scatola, ovvero che 
la radiazione ha trasportato con sé da una parete all’altra non solo un’energia δE
ma anche una massa δm.
Dobbiamo quindi concludere che le due pareti nere non hanno più la stessa massa
dato che l’onda elettromagnetica, nell’andare dalla parete sinistra alla parete destra, ha
portato con sé anche una certa massa δm.
84
Calcoliamo δm in modo da imporre che il CM non si sposti e che rimanga
nello stesso posto che aveva all’inizio.
Assumiamo che la massa M sia tutta concentrata nelle due pareti e fissiamo il
sistema d’assi come nella figura sotto: il centro di massa CM si deve trovare in L/2:
m1 0  m1 L L

m1  m1
2
m  m  x   m1  m L  x    2m1x  m1 L  mL
 1
m1  m   m1  m 
2m1
i
xCM

f
xCM
f
Se imponiamo che xCM 
L
x E

ricaviamo m  2m1
: questa è la massa
2
L c2
che è stata trasportata da una parete all’altra.
Prima dell’emissione l’energia era immagazzinata nella parete di sinistra sotto
forma di massa;
parte di questa massa è stata emessa sotto forma di radiazione;
quando la radiazione viene riassorbita dalla parete di destra viene immagazzinata
di nuovo sotto forma di massa.
Essa comunque scalda la parete  non solo l’energia elettromagnetica ma
qualsiasi forma di energia è equivalente a una massa attraverso la relazione:
E  mc 2
Perché questa cosa non era mai stata osservata prima?
Proviamo a fare qualche calcolo.
85
Proiettile che perde energia in un urto anelastico
Qual è la massa che acquista l’auto che perde la sua energia cinetica in seguito a un urto
anelastico?
1
E 1
m 1 2
E  mv 2  m  2  m 2 
 
2
2
m 2
c
Se supponiamo, come in figura, che v  80km / h 
m 1 2
   2.7 1015 ,
m 2
una
variazione per nulla apprezzabile, senza possibilità di essere rilevata.
Reazioni chimiche
Un’altra situazione in cui si ha trasferimento di energia sono le reazioni chimiche, che
possono essere esotermiche o endotermiche
Un esempio: l’idrogeno e l’ossigeno si uniscono a formare l’acqua in una reazione
esotermica. Stechiometricamente, due moli di idrogeno e una mole di ossigeno danno
origine a due moli di acqua e a una certa quantità di energia:
2 H 2  O2  2 H 2O  5.75 105 Joule
Calcoliamo il difetto di massa, dividendo l’energia H ottenuta dalla reazione per c2:
m 
H
m
 6.35 1012 kg 
 2 1010
2
m
c
: la variazione percentuale di massa è
troppo piccola per essere misurata in questa tipologia di fenomeni.
La situazione risulta invece completamente diversa se andiamo ad analizzare le
reazioni nucleari.
86
Reazioni nucleari – fusione
Consideriamo il fenomeno di fusione nucleare in cui un nucleo di deuterio e uno di trizio
si fondono a formare un nucleo di elio, liberando energia:
D  T  4 He  n  E
Se andiamo a considerare le masse dei quattro costituenti
mD  2.014102au
mHe  4.002602au
mT  3.016049au
mn  1.008655au
e andiamo quindi a calcolare il difetto di massa
m  0.018916au 
m  0.018884au 1.66 10  27
kg
 3.140 10  29 Kg  E  m  c 2  17.6MeV .
au
La figura sopra ci mostra che, di questi 17.6 MeV che si ottengono da ogni singola
fusione, 14.1 MeV se li prende il neutrone e gli altri 3.5 MeV se li prende l’atomo di elio.
Tale quantità, non particolarmente significativa se consideriamo una singola fusione,
diventa considerevole a livello macroscopico se andiamo a considera una mole di
deuterio e una mole di trizio:
E  m  c 2  17.6MeV  1.7 1012 J / mole …
un’energia spaventosa!
Quesito: l’energia cinetica classica
- è sempre minore di quella relativistica
- è sempre maggiore di quella relativistica
- può essere minore o maggiore di quella relativistica, dipende dalla velocità.
[La risposta esatta è la prima delle tre]
87
6.3. L’energia, l’impulso e la legge del moto in relatività
Energia ed energia cinetica in Relatività
Abbiamo visto che è E  mc per una massa ferma. Nel tentativo di riscrivere le leggi
della dinamica, l’obiettivo è quello di salvare al massimo le leggi della meccanica classica.
2
In fisica classica
p
pc 2
2
p  mv  m   E  mc 
v
v
espressione che non contiene la
massa e che quindi ci aspettiamo di (dover) mantenere valida per una massa in
quiete, una massa in moto e per la luce.
Anche l’equazione del moto di Newton, nota come F = ma, la riscriveremo come
dp
F
, che è poi il modo originale con cui fu scritta da Newton.
dt
Con tale espressione, calcoliamo la nuova espressione del teorema dell’energia
(il lavoro è pari alla variazione di energia) continuando a ritenerlo valido:
dp
dE  Fdx  Fvdt 
vdt  vdp Se moltiplichiamo a destra e a sinistra per
dt
pc 2
vdp  pc 2 dp , ossia
l’energia E espressa come sopra otteniamo  EdE 
v
un’espressione che contiene come uniche variabili l’energia E a sinistra e la quantità di
moto p a destra.
Integrando: E  p c  COST  p c  E0
La costante COST sarà l’energia che il corpo possiede quando la sua quantità di
moto è nulla, energia che sappiamo valere mc2. Dunque:
2
2 2
2 2
2
energia di una massa m in moto con quantità di moto p
 
E 2  p 2 c 2  E02  p 2 c 2  mc 2
2
A questo punto trasformiamo l’espressione che contiene p in una che contiene la
velocità attraverso la relazione E 
pc 2
Ev
 p  2 , per cui la relazione sopra diventa
v
c
energia di una massa m in moto con velocità v
 
E 2v 2
mc 2
2 2
E  2  mc  E 
 mc 2
c
1  2
2
88
E siccome l’energia cinetica è l’energia in più che un corpo possiede rispetto a quando è
in quiete:
energia cinetica di una massa m in moto con velocità v
 1
 2

EK  E  E0  mc  mc    1mc 
 1mc
 1  2



2
2
2
Nel limite classico di basse velocità:  
per cui l’energia cinetica diventa E K 
1
1  2
 1
2
2
  1 
2
2
2
1
mc 2  mv 2 , espressione classica.
2
2
A questo punto non ci resta che calcolare la
quantità di moto relativistica
Ev mc 2 v
p 2 
 mv
c
c2
La definizione della quantità di moto pertanto va modificata.
Nel limite non relativistico è γ = 1  si ritrova la definizione classica
L’equivalenza massa-energia porta dunque delle modifiche alle leggi classiche, in
particolare le porta alla legge del moto,
“La II legge di Newton”
 dp


F


F
 ma
Per Newton era
dt
Per Einstein diventa
F
dp
dv
m
 ma
dt
dt
Vediamo due esempi di applicazione della legge del moto così modificata.
Equazione del moto: forza costante
dp X
dt
se la forza Fx è costante si può integrare facilmente
FX dt  dpX  FX t  p X  p0
FX 
89
se poi assumiamo che il punto materiale sia partito da fermo, per cui p0  0 , allora la
mv
legge diventa FX t 
ed elevando ed esplicitando la velocità otteniamo
v2
1 2
c
FX t
m
v
2 da cui ricaviamo, a basse velocità per cui la radice al denominatore
 FX t 
1 

 mc 
FX t
può essere trascurata la formula classica v 
.
m
Mettendo invece in evidenza sopra e sotto il fattore costituito dalla parentesi
tonda si ottiene
FX t
c
m
v

2
2
 FX t 
 mc 
1 


1  
F
t
 mc 
 X 
Si osserva che, a tempi lunghi, la parentesi tonda tende a zero e v  c
Nel grafico sotto si vede come varia la velocità al variare del tempo.
Equazione del moto: moto in campo magnetico uniforme
La forza di Lorentz è data dall’espressione
F  qv  B   F  v 
dp
p0
dt
Conseguenza di ciò è che il modulo del vettore p non varia. Infatti, poiché il
modulo quadro di un vettore è il prodotto scalare del vettore per sé stesso, la sua
derivata
dp 2
dp
p  p p 
 2p
dt
dt
2
è il (doppio del) prodotto scalare del vettore p per la sua derivata.
E poiché tale prodotto (vedi riga sopra) è nullo ne deduciamo che
p 2  p  p   2 m 2 v 2  COST
90
Come in meccanica classica, in presenza di forza di Lorentz la velocità è in
modulo costante, cambia solo la direzione della velocità.
Qual è il moto che si verifica in questo caso?
La traiettoria, almeno localmente, è approssimabile con
una circonferenza, e lo spazio percorso è
s  R  vt  R 
vt

Qual è la relazione tra Δθ e Δp?
Il modulo di p è costante per cui (la figura è un triangolo isoscele)
p  2 p sin
F

p
 p   
2
p
dp
p
 p  Ft  qBvt  vt 
dt
qB
Sostituendo queste due relazioni nella formula del raggio sopra si ottiene
p
vt qB
p mv
R



 p qB qB
p
R
mv
qB
… che è la formula classica del RAGGIO DELL’ORBITA, non fosse che la
quantità di moto contiene adesso il fattore γ. Ma quello che si conserva è che il raggio
di curvatura è costante, dato che quantità di moto non varia, il moto è un moto
circolare uniforme.
91
Teorema del lavoro in relatività


2 2
Il punto di partenza è l’espressione relativistica dell’energia: E  p c  mc : il
primo termine è il termine associato alla velocità, il secondo termine è quello associato
alla massa.
Derivando a destra e a sinistra rispetto al tempo (e dividendo per 2) otteniamo:
2
2 2

dE
dp
dE c 2 p 
2
E
 c p


 F , espressione che possiamo esprimere
dt
dt
dt
E
attraverso il prodotto scalare dei vettori p e F.
c 2 p c 2mv
dE


v

 F  v da cui, moltiplicando a destra e a
Essendo
E
dt
mc 2
 
sinistra per dt, si ottiene l’espressione classica dE  F  ds
Il lavoro è pari alla variazione di energia. In realtà possiamo essere più precisi:
E  mc 2  mc 2    1mc 2
il primo addendo è l’energia a riposo (e non varia) il secondo è l’energia cinetica:
Il lavoro è pari alla variazione di energia cinetica. Esattamente come in
meccanica classica.
6.4. Conservazione dell’energia in urti elastici e anelastici
Urto elastico tra due masse
Un “urto elastico” è, per definizione, un urto in cui l’energia cinetica si conserva.
Scriviamo l’energia relativistica completa prima dell’urto e dopo l’urto.
ma c 2  K ia  mb c 2  K ib  ma c 2  K af  mb c 2  K bf
i
Se definiamo la massa totale del sistema M tot  ma  mb siamo però costretti a
f
introdurre anche una massa totale finale M tot  ma ' mb ' perché non è detto che la
massa si conservi.
Definiamo l’energia cinetica totale del sistema K i  K i  K i per cui la relazione
a
sopra si può scrivere come M tot c  K i  M tot c  K f
i
2
f
92
2
b
Se l’urto è elastico l’energia cinetica totale si conserva Ki  K f  M i  M f
dunque anche la massa totale del sistema si conserva, esattamente come avviene in
meccanica classica
Urto anelastico tra due masse
i
M tot
c 2  K i  M totf c 2  K f
Anelastico significa che l’energia cinetica in tutto o in parte non si conserva, ma l’energia
totale relativistica si conserva, per cui Ki  K f  M i  M f
Se non si conserva l’energia cinetica significa che parte dell’energia si trasforma in
massa, secondo la relazione
M  
K
c2
6.5. Legge di conservazione della quantità di moto
La legge di conservazione della quantità di moto dice che “in un sistema isolato la
quantità di moto è costante”. Sappiamo che è valida in un sistema di riferimento inerziale
e che è valida in tutti i sistemi inerziali. Ma perché abbia dignità di legge fisica generale
bisogna che valga anche in relatività.
Intanto: che cosa succede in meccanica classica?
Classicamente si utilizzano le trasformazioni di Galileo, e utilizzando le
trasformazioni di Galileo cerchiamo la relazione tra la quantità di moto calcolata in S e la
quantità di moto calcolata in S’. Per la quantità di moto utilizziamo l’espressione classica
p = mv.
Calcoliamo la quantità di moto totale iniziale in S’:




 
 

Qi '  ma va 'mb vb '  ma va  vS '   mb vb  vS '   Qi  ma  mb vS '
La differenza tra le quantità di moto calcolate nei due sistemi è data dal termine
ma  mb vS '
93
Calcoliamo la quantità di moto totale finale in S’, e facciamolo riferendoci alle


velocità finali u a e ub nei due sistemi di riferimento:


 
 

Q f '  ma u a  vS '   mb ub  vS '   Q f  ma  mb vS '




Q

Q
Q
'

Q
La differenza è la medesima, per cui, se i
f allora anche
i
f '.
Ovvero: se la conservazione della quantità di moto vale in S allora vale anche in S’.
La legge di conservazione della quantità di moto è compatibile con le
trasformazioni di Lorentz? Ovvero: la legge della conservazione della quantità di
moto, così come formulata classicamente, ha dignità di legge fisica?
Consideriamo un caso particolare, ovvero quello di un urto anelastico tra due masse.
Nel sistema S



ma va  mbvb  Qi


La conservazione della quantità impone Qi  Q f .



ma u a  mbub  Q f
Se la verifichiamo in un sistema di riferimento non è ancora una legge fisica, è
semplicemente un’osservazione. Perché diventi legge fisica occorre che sia vera in ogni


altro sistema di riferimento inerziale: accade dunque anche in S’ che Qi '  Q f ' ?
Consideriamo un caso molto particolare, il caso in cui Qtot = 0, e supponiamo che le
due masse siano uguali e che le velocità dunque, uguali e contrarie, siano inclinate allo

vb   v,v 

allora la velocità finale di entrambe, dopo l’urto completamente anelastico, è u  0,0 .
stesso modo rispetto all’asse orizzontale: se
ma  mb
94

va  v, v 
Supponiamo che la legge della conservazione della quantità di moto sia verificata in S, e


che dunque sia Qi  Q f  0 . Supponiamo, a ulteriore semplificazione, che la velocità di
S’ rispetto a S sia quella indicata nella figura in alto, ovvero che

 
vS '  v  vax .
Attraverso la legge di composizione delle velocità dedotta dalle trasformazioni di
Lorentz determiniamo le quattro componenti della velocità delle due particelle rispetto al
sistema S’:
vax  v
0
1  2
v v
2v
v'bx  bx 2  
1 
1  2
v
 v
 1  2
vay
v
v'by  

2
 1 
 1  2
v'ax 
v'ay 






Con la definizione classica di Q otteniamo che la quantità di moto iniziale (basta
moltiplicare per m le componenti appena trovate) è



2v
v
1
 2 


Q' in    m
;
m

v

m

2
mv

;
2
2 
 1   2 1   2 


1



1






Facciamo lo stesso per la velocità finale: tenendo conto che è u0,0 otteniamo
u '  v,0 e troviamo che la quantità di moto finale è:
Q ' f  2mv 1;0 
Una rapida occhiata mostra che queste due quantità non sono uguali, Q ' f  Q 'in ,
ovvero che la legge di conservazione della quantità di moto (con la definizione classica di
quantità di moto), valida in S, non è più valida in S’.
Con la definizione classica di quantità di moto la legge di conservazione
della quantità di moto non è covariante per trasformazioni di Lorentz
Se invece usiamo le trasformazioni di Lorentz con la definizione
relativistica di Q
p
Ev
 mv
c2
la legge di conservazione della quantità di moto continua a valere.
Dimostrazione.
Per la massa a valgono le seguenti leggi della velocità:
v' ax  0 v ' ay 
v
 v
 1  2


Adesso però ci serve il fattore gamma:
 'a 
1
1   a2

1
1
v' 2a
c2

1
1  2 2
95

1
 1  2 2
Per la massa b valgono le seguenti leggi della velocità
v'bx 
 'b 
vbx  v
2v

2
1 
1  2
1
1   b2

1
v' b2
1 2
c
v'by  
v ay
 1  
 ........ 
2


 1   2 
v
 1  2


1  2 2
La quantità di moto iniziale calcolata in S’ è


 2 'b
 'b
2v
v


Q'in     'b m
;

'
m

v


'
m

mv

;

'


a
b
a
 1  2
1  2
 1   2 
 1  2






2

 1   2 
v


  2mv 

 mv 
;

;
0
2
2
2  1   2  
2



1  2  1  2
1  2
1  2









 

Calcoliamo la quantità di moto finale in S’:
Q' f  m f v 1;0 da confrontare con la precedente.
La quantità di moto (che nella direzione y si è certamente conservata, è sempre
zero) si conserva anche nella direzione x se imponiamo che la massa finale sia:
mf 
2m
1  2 2
Questa ipotesi non è così balzana, dato che già sappiamo che una parte
dell’energia cinetica dev’essersi trasformata in massa.
Ma chi ci assicura che è così e che questa posizione sia coerente?
La conservazione dell’energia in S’ imporrebbe che
 ' a mc 2   'b mc 2   ' f m f c 2 
 ' a  ' b
1 /  2  1   2 
2m
mf 
m
m
 'm
1  2 2
1  2 2
troviamo cioè che la massa finale che deve avere il corpo uscito dall’urto anelastico
perché si conservi l’energia totale deve avere la stessa espressione che deve avere
perché sia valida la conservazione della quantità di moto.
Chiediamoci ora: che cosa vede un osservatore in S? La conservazione dell’energia
in S imporrebbe che
dato che  a   b 
 a mc 2   b mc 2   f m f c 2 
96
1
1  2 2
e che  f  1
a b
2m
m
che è esattamente l’espressione che abbiamo trovato
f
1  2 2
in S’ sia per imporre la conservazione della quantità di moto (in S’), sia per imporre la
conservazione dell’energia (sempre in S’).
Concludiamo così che la legge di conservazione della quantità di moto (con la
nuova definizione (relativistica) di quantità di moto) è valida in tutti i sistemi di
riferimento inerziali, cioè è covariante per trasformazioni di Lorentz.
mf 
6.5. La legge di trasformazione delle forze
La legge di azione e reazione
L’applicazione della legge del moto alla conservazione della quantità di moto per un
sistema di due punti materiali implica che:
Q  q1  q2  COST 
dq1 dq2

 0  F1   F2
dt
dt
Ad ogni azione corrisponde una azione eguale e contraria ed entrambe hanno la
stessa linea di azione.
Ma sono vere entrambe le parti di questa affermazione?
È facile vedere con un paio di esempi che questa formulazione non è coerente
con la relatività ristretta, né nella prima parte né nella seconda parte.
Primo esempio:
Supponiamo di avere all’istante t due forze uguali e contrarie, applicate in P1 e P2
distanti D, ma che il punto 2 sia in moto, con velocità, ad esempio, diretta secondo l’asse
x, come indicato dal vettore v in figura.
Che succede all’istante t+Δt?
P1 si accorge che P2 si è mosso dopo un tempo pari a t ' 
D
c
P2 si accorge immediatamente che la sua distanza da P1 è cambiata
F1  F2
97
Secondo esempio:
Supponiamo di avere all’istante t due forze uguali e contrarie, applicate in P1 e P2
distanti D, ma che il punto 2 sia in moto, con velocità, ad esempio, diretta secondo l’asse
y, come indicato dal vettore v in figura sotto.
Che succede all’istante t+Δt?
P1 si accorge che P2 si è mosso dopo un certo intervallo e la direzione della forza
che agisce su P1 non cambia in questo intervallo.
P2 invece si accorge immediatamente che la direzione che indica P1 è cambiata:
Azione e reazione non giacciono sulla stessa retta di azione. Il principio di
conservazione del momento della quantità di moto è violato.
Vi è tuttavia un altro modo di analizzare il problema.
Considero in S i due eventi: misura al tempo t di F1 in x1 e misura al tempo t di
F2 in x2. I due eventi sono contemporanei.
Che cosa accade in S’?
In S’ – poiché le due misure avvengono in posizioni diverse – l’eguaglianza tra le
forze vale in tempi diversi.
La legge di azione e reazione nella sua formulazione classica non è covariante
per trasformazioni di Lorentz.
In relatività la legge di azione e reazione non è valida nella sua accezione classica;
in particolare il concetto di interazione a distanza non è compatibile con la
relatività.
98
In relatività i segnali non possono propagarsi a una velocità superiore a quella della luce,
per cui il concetto di azione e reazione, che prevede l’azione istantanea a distanza, perde
di significato in relatività.
La conservazione della quantità di moto in un urto limitata alle particelle che
interagiscono nell’urto vale tra prima e dopo l’urto (quando sostanzialmente le particelle
non interagivano ancora e quando non interagiscono più tra di loro) ma non durante
l’urto. Durante l’interazione occorre aggiungere un altro termine, una quantità di moto
associata all’interazione.
Se, per esempio, la forza che interagisce tra punti materiali (due cariche) è la forza
elettrica, sappiamo che il campo elettromagnetico trasporta energia e impulso e quindi
contribuisce alla conservazione dell’energia e dell’impulso in ogni istante dell’interazione.
Solo aggiungendo questo ulteriore termine la legge della conservazione della quantità di
moto vale in ogni istante.
Per averne una formulazione che valga in ogni istante occorre aggiungere
un altro elemento alla interazione tra i due punti materiali: il campo della
interazione che media l’interazione tra i due punti.
Veniamo all’ultimo punto di questa lezione, ultimo aspetto della dinamica relativistica
ovvero la legge della trasformazione delle forze. Abbiamo visto la legge di
trasformazione delle coordinate spazio-temporali, delle velocità, della quantità di moto.
Trasformazione delle forze
Dal punto di vista classico, noi sappiamo che la forza è un invariante per trasformazioni
di Galileo: la forza, misurata da qualsiasi sistema di riferimento inerziale, ha sempre lo
stesso valore.
E in meccanica relativistica?
In meccanica relativistica
per chi sta in S
per chi sta in S’
dp
dt
dp'
F'
dt
F
Poiché sappiamo come sono collegati tra di loro p e p’ e t e t’ possiamo
determinare anche il legame tra F e F’.
99
La quantità di moto relativistica è p  mv . Ma dobbiamo fare attenzione perché
avremo tre gamma diversi: uno è il gamma della trasformazione, che dipende dalla
velocità con cui un sistema si muove rispetto all’altro. E sarà   
1
1  
Il gamma della particella studiata nel sistema di riferimento S:  
Il gamma della particella studiata nel sistema di riferimento S’:  ' 
2
1
1  2
1
1   '2
Scriviamo le tre coordinate della velocità nel sistema S’ a partire dalle medesime
componenti nel sistema S. Quindi moltiplicheremo tali componenti per mγ’ per trovare
le componenti della quantità di moto nel sistema S’
v x  v
v  v
p ' x  m ' v' x  m ' x
v v
v v
1  x 2
1  x 2
c
c
vy
vy
1
1
v' y 
 p ' y  m ' v' y  m '
v v
v v


1  x 2
1  x 2
c
c
vz
vz
1
1
v' z 
p ' z  m ' v' z  m '
v z v
vv


1 2
1  z 2
c
c
v' x 
Prendiamo la prima di queste tre relazioni:
p' x  m ' v' x  m '
v x  v
vv
1  x 2
c
c2
E
v x   2 v
p x  2 v
m '
'
c
c


…
v
v
v


x 
x v
1 2
1 2
c
c
Ci chiediamo: c’è una qualche relazione tra γ’ e γ?
'
 v v 
   1  x 2  , per cui l’espressione sopra
Sì: si dimostra (vedi sotto) che

c 

diventa
'
1
E
E




 p x  2 v      p x  2 v 
…
v x v 

c
c



1
c2
Dimostriamo la seguente relazione:
'
 v v 
   1  x 2  

c 

100
2
v
1  x2
'
c 


v x '2
1 2
c
2
v
1  x2
c


1  v x  v
1 2
v x v
c 
1 2
c

2
v
1  x2
 v v 
c
 1  x 2  
2
2
c   v x v 

1

2

1  2   2 v x  v 
c 
c





2
v
1  x2
 v v 
c
 1  x 2  

2
c   v x v 

1
2
1  2   2 v x  v 
c 
c

2
v
1  x2
 v v 
c
 1  x 2  

2
2
2
c 

v x v  v x v 
vx
v x v v
1 2 2   2   2  2 2  2
c
c
c
c
 c 
2
v
1  x2
 v v 
c
 1  x 2  
2
c   v x  v 2

1 
1 
2 

c
c2


'
 v v 
 1  x 2   

c 
 



Il risultato, dimostrato nel caso di velocità della particella diretta lungo l’asse x, è
valido in generale.
E


p x '     p x  2 v   è la legge di trasformazione della quantità di moto dal
c


sistema S al sistema S’: si noti che compare anche l’energia nel sistema S.
Calcoliamo ora la forza:
d
E


   p x  2 v  dpx  v2 dE
dp ' dp ' dt' dt 
c
  dt
c dt 
Fx '  x  x

v dx
dt'
dt
dt
 v dx 
1  2
  1  2

c dt
 c dt 
dove, per calcolare il denominatore, si è usata la formula di Lorentz che lega t e t’
Fx ' 
v  
F v
c2
v v
1 2 x
c
Fx 
(dE/dt = F ∙ v)
La misura di una forza in un sistema di riferimento è determinata anche dalla potenza
che la forza stessa eroga in un altro sistema.
101
In meccanica classica la FORZA ha due aspetti:
- è una misura della variazione dell’impulso con il tempo
- è una misura della variazione dell’energia con lo spazio
In relatività questi due aspetti si fondono in un unicum.
p y '  m ' v y '  m '
vy
 mv y  p y
v x v

1 2
c
1
dove si è usata la solita relazione
'
 v v 
   1  x 2  

c 

da cui, derivando rispetto al tempo t’, otteniamo
Fy ' 
dp y '
dt'

dp y
dt
dt'

dt
Fy

  1 

v x v 

c2 
Idem per la componente z:
p z '  m ' v z '  m '
vz
 mv z  p z
v x v

1 2
c
1
da cui, derivando rispetto al tempo t’, otteniamo
Fz ' 
dpz ' dpz

dt'
dt
dt'

dt
Fz
 vv 
  1  x 2 
c 

Riassumendo: la LEGGE DI TRASFORMAZIONE DELLE FORZE è
v
F v
2
c
Fx ' 
v v
1 2 x
c
Fy
1
Fy ' 
v v

1 2 x
c
F
1
z
Fz ' 
v v

1 2 x
c
Fx 
Fx '  Fx
Fy
Fy ' 

Se v = 0 (punto di applicazione fermo in S)
Fz ' 
102
Fz

6.6. Test ed esercizi
Un protone (Mp = 0,938 GeV/c2) di velocità iniziale v=0,5c si muove in un campo magnetico
B = 1,20 T uniforme e perpendicolare alla velocità; il raggio R dell’orbita risultante è:
a. R = 1,13 m
b. R = 0,451 m
c. R = 1,30 m
d. R = 1,80 m
e. R = 1,50 m
[La risposta corretta è la e. La formula è R= γ mv/qB.]
Una particella di massa a riposo m viene accelerata fino a raddoppiare la sua energia; la
velocità v della particella sarà:
a. v = 0,500 c
b. v = 0,707 c
c. v = 0,333 c
d. v = 0,866 c
e. v = 0,577 c
[La risposta corretta è la d.
La formula da usare E=2E0 γmc2=2mc2  γ = 2]
Una particella di massa m1 in moto lungo l’asse x con velocità v1 urta una seconda particella di
massa m2 in moto anch’essa lungo l’asse x con velocità v2<v1; a seguito dell’urto si forma
un’unica particella di massa M pari a:
a. M 
m1m2
m1  m2
 vv 
m12  m12  2m1m2 1 2 1  1 22 
c 

c. M   1m1   2 m2
b. M 
d. M 
e. M 
m1  m2 2  2m1m2 1 2 1  v1v22 

 1m1v1   2 m2 v2
c
c 
(errata)
[La risposta esatta è la c. La risposta è dedotta dalla conservazione dell’energia totale,
osservando che il gamma finale, nel sistema della M, è 1]
Una particella di massa M decade in due particelle di massa a riposo m1 = 1,0 GeV/c 2 e m2 =
2,0 GeV/c2 le cui quantità di moto valgono +4,0 GeV/c e +3,0 GeV/c. La massa M è pari a:
a. M = 3,50 GeV/c2
b. M = 3,28 GeV/c2
c. M = 1,43 GeV/c2
d. M = 4,93 GeV/c2
e. M = 3,05 GeV/c2
[La risposta corretta è la b.]
103
Il testo dell’esercizio presenta delle ambiguità perché non è chiara la direzione delle partcelle “figlie”. Il
quadrimpulso p2 (ovvero l’invariante dinamico) si conserva:
Ef2 – pf2c2 = Ei2 – pi2c2 
(E1f+E2f)2 – (pf1 + pf2)2c2 = Ei2 – pi2c2 
2 4
2 4
2
m1 c +m2 c +2(E1fE2f – p1 ∙ p2 c ) = M2c4
E poi?
Possiamo riscrivere la conservazione dell’impulso: pM = p1+ p2 come
pM – p1 = p2 o anche come pM – p2 = p1
elevando al quadrato a destra e sinistra (scalare per sé stesso) otteniamo
pM2 – 2 pM ∙ p1 + p12 = p22
pM2 – 2 pM ∙ p2 + p22 = p12
e utilizzando la medesima formula del quadrimpulso vista sopra
M2c4 +m12 c4 +2(EME1 – pM ∙ p1 c4) = m22c4
M2c4 +m22 c4 +2(EME2 – pM ∙ p2 c4) = m12c4
Se supponiamo la particella “madre” inizialmente ferma: pM = 0 e EM =Mc2
M2c4 +m12 c4 +2Mc2 E1 = m22c4
M2c4 +m22 c4 +2Mc2 E2 = m12c4
2
2
2
2
M +2(E1/c )M + m1 – m2 = 0
M2 + 2(E2/c2)M + m22 – m12 = 0
Si può infine ricavare M… nel sistema di M. Ovviamente da queste formule si ricavano E1 ed E2.
Ma pM = 0 comporterebbe p1 = – p2 … e non è il nostro caso! Senonché, a una richiesta di
delucidazione… la risposta del tutor è stata la seguente:
Caro Carlo,
capisco perfettamente la natura del tuo dubbio. Se ci fossimo riferiti solo al modulo del
momento avremmo omesso il segno +, essendo il modulo per definizione positivo, perciò si
intendeva che entrambe le particelle si muovono collinearmente e con lo stesso verso. In
sostanza p= (p1x,0,0) e (p2x,0,0).
Concordo comunque sull'ambiguità del testo, perciò provvederemo a riscriverlo
chiarificando questo punto.
Un caro saluto
Danilo
Allora è tutto facile: dai dati possiamo ricavare γ1v1 e γ2v2 e quindi γ1, v1, γ2 , v2. La conservazione
dell’energia offre: γMMc2=γ1m1c2+γ2m2c2 cioè γMM=γ1m1+γ2m2 mentre la conservazione della quantità
di moto offre : γMMvM=γ1m1v1+γ2m2 v2. I due termini di destra sono noti  Dal quoziente delle due
espressioni si ricava vM, da cui γM, da cui finalmente M.
In una ripetizione dell’esperimento di Cockcroft and Walton del 1932 (grazie ai protoni accelerati
dal generatore Cockcroft-Walton, fu eseguita la prima disintegrazione nucleare artificiale della storia), si
osserva che bombardano 7Li con protoni da 100 keV si producono due particelle α di energia
cinetica complessiva finale pari a 14.3 MeV. Sapendo che le masse a riposo del protone e della
particella α sono rispettivamente mp = 1,0073 a.u. e mα = 4,0026 a.u., la massa a riposo del 7Li
è:
a. M = 7,0152 a.u.
b. M = 7,0000 a.u.
c. M = 7,0131 a.u.
d. M= 6,9979 a.u.
e. M= 7,0075 a.u.
[La formula da usare è Ep +MLic2=2m α c2+Ktot da cui MLi=(2mα c2 + Ktot – Ep )/c2.
104
Conviene convertire tutta l’energia in a.u. utilizzando il fattore di conversione 1eV=1,074*10 – 9 a.u.
(sottinteso: “per c2”): così facendo si ottiene la risposta d. (che però è errata, porca puttana!). Se si
ipotizza invece che l’energia del protone data dal testo sia solo quella cinetica, per cui bisogna calcolare
anche l’energia a riposo del protone e aggiungerla all’ammontare iniziale,
allora viene 7,0131 a.u., cioè la risposta c.]
Una particella di massa a riposo m1=1,67⋅10−27Kg si muove con velocità v = 0,8 c urta contro
una particella di massa a riposo m2=1,99⋅10−26Kg inizialmente ferma; dall’urto fuoriesce una
unica particella la cui velocità vf è:
a. vf=5,89⋅10−2 c
b. vf=1,30⋅10−1 c
c. vf=6,04⋅10−1 c
d. vf=9,82⋅10−2 c
e. vf=1,03⋅10−1 c
[La risposta corretta è la a.
Si impone la conservazione della quantità di moto
e la conservazione dell’energia; dal quoziente delle due si ricava la vf.]
Nel decadimento radioattivo 226Ra→222Rn+α la massima energia cinetica Emax dei prodotti
di reazione è: (MRa = 226.02536 a.u.; MRn = 222.01753 a.u.; Ma = 4.00260 a.u.)
a. Emax = 7,81 MeV
b. Emax = 2,43 MeV
c. Emax = 4,88 MeV
d. Emax = 0,980 MeV
e. Emax = 12,5 MeV
[La risposta è la c.
L’energia cinetica massima è l’energia della particella “madre”
(che va pensata a riposo, anche se il testo non lo dice)
diminuita dell’energia a riposo delle “figlie”. 1eV=1,074 10–9 a.u. c2].
Una particella di massa m = 1,99 10−26 Kg ha quantità di moto pari a 3,00 GeV/c. La velocità
della particella vm è:
a. vm = 0,259 c
b. vm = 0,243 c
c. vm = 0,250 c
d. vm = 0,268 c
e. vm = 0,0268 c
[La risposta corretta è la a. Da p/m si ricava γv e quindi si esplicita v].
In S la forza F agente su una particella è diretta lungo l’asse delle y; per quale valore della
velocità vp della particella la componente y della forza ha lo stesso valore nel sistema S’ in
moto lungo x con velocità relativa pari a u = 0,80c?
a. vp = 0,50 c
b. vp = 0,32 c
c. vp = 0,75 c
d. vp = 0,40 c
e. vp = 0,80 c
[La risposta corretta è la a.
Dalle formule di trasformazione per le forze
basta imporre l’uguaglianza di Fy e F’y: l’incognita è vx.
Il testo del problema non lo dice ma il vp della particella è vx.]
105
In un recente test della relazione E = mc2 basato sulla cattura di un neutrone da parte di un
nucleo di Si e conseguente emissione di un fotone γ secondo la reazione: n+32S→33S+γ il fotone
emesso ha una lunghezza d’onda λ=2,29⋅10−13m. Il difetto di massa δm della reazione è:
a. δm=3,65⋅10−2 a.u.
b. δm=5,81⋅10−3 a.u.
c. δm=1,53⋅10−3 a.u.
d. δm=3,62⋅10−3 a.u.
e. δm=9,24⋅10−4 a.u.
[La risposta esatta è la b.
δm⋅c = energia del fotone = hf =h⋅c/λ da cui δm = h⋅/cλ
Ricordare che 1 kg = 6.02⋅1026 a.u.]
2
Due particelle in moto lungo l’asse x di massa m=100 MeV/c2 con energia E1= 400 MeV e
E2=600 MeV e velocità concorde danno luogo in un urto centrale ad un’unica particella finale.
Si determini la massa a riposo della particella finale.
a. M = 200 MeV
b. M = 204 MeV
c. M = 267 MeV
d. M = 250 MeV
e. M = 817 MeV
[Test della verifica finale. La particella 2 insegue la particella 1 fino ad attaccarvisi.
Dalla conservazione dell’energia: dopo l’urto Etot=1000MeV=γfM=γ1m1+ γ2m2=…= m(γ1+γ2).
dalla conservazione della quantità di moto: γfMvf=γ1m1v1+γ2m2v2=…= m(γ1v1+γ2v2).
dal quoziente delle due: vf=(γ1v1+γ2v2)/(γ1+γ2) e dal γf si risale a M=Etot/γf .
1
Si osservi che vi  c 1  2   i vi  c  i2  1 e che in questo caso γ1+γ2=10. La risposta esatta è la b.]
i
Un mesone π0 di massa a 135 MeV/c2 ed energia cinetica Ek=1,0 GeV decade emettendo due
fotoni gamma nella direzione del proprio moto. Le energie dei due fotoni sono:
a. E1 = 1,13 103 MeV; E2 = 4,03 MeV
b. E1 = 412 MeV; E2 = 11,0 MeV
c. E1 = 1,27 103 MeV; E2 = 3,60 MeV
d. E1 = 860 MeV; E2 = 5,30 MeV
e. E1 = 567 MeV; E2 = 567 MeV
[L’energia totale del mesone è la somma di energia cinetica e di energia a riposo, ovvero E =
1135MeV/c2. Due sole risposte sono compatibili con i dati, la prima e l’ultima. Se fosse la e. i fotoni
dovrebbero viaggiare dalla stessa parte (altrimenti la quantità di moto finale sarebbe nulla, violando il
principio della conservazione della quantità di moto. Dunque la risposta corretta è la a., come conferma
il calcolo delle quantità di moto: viaggiando in direzioni opposte la differenza delle quantità di moto
finali deve eguagliare la quantità di moto iniziale.]
106
Cap. 7: elettromagnetismo e relatività ristretta
Vedremo come sia possibile attraverso le trasformazioni di Lorentz costruire le leggi di
trasformazioni del campo elettrico e magnetico nel passaggio da un sistema di
riferimento a un altro sistema di riferimento e come la classificazione dei fenomeni in
elettrici o magnetici dipenda dal sistema di riferimento scelto.
Questi gli argomenti del capitolo:
1. Equazioni di Maxwell e loro non invarianza per trasformazioni di Galileo
2. La conservazione della carica
3. Le trasformazioni della densità di carica e di corrente
4. Filo percorso da corrente: campo elettrico e magnetico generati in diversi
sistemi di riferimento.
5. Le trasformazioni del campo elettrico e magnetico: cinque esempi
7.1. Equazioni di Maxwell e loro NON INVARIANZA per
trasformazioni di Galileo
Abbiamo già visto nelle lezioni precedenti che le equazioni di Maxwell non sono
invarianti per trasformazioni di Galileo. In particolare lo possiamo vedere nei due
esempi seguenti: 1) se consideriamo la forza di Lorentz, compare la velocità, e sappiamo
che la velocità dipende dal sistema di riferimento, quindi la forza di Lorentz non è
invariante per trasformazioni di Galileo, laddove invece la forza dovrebbe essere
invariante per trasformazioni di Galileo; 2) l’altro esempio che possiamo analizzare è
quello della forza elettromotrice indotta: possiamo immaginare un circuito in moto, la
sua velocità (e quindi la velocità di variazione del flusso di B) dipende dal sistema di
riferimento e dunque la forza elettromotrice dipende dal sistema di riferimento.
F = q(E+v x B)
Carica in moto con velocità v in campo
magnetico La forza non è invariante per
trasformazioni di Galileo
find= – ΔΦ(B)/Δt
Circuito in moto con velocità v in campo
magnetico La forza elettromotrice indotta
non è invariante per trasformazioni di
Galileo
107
Anche la forza che due cariche si scambiano non è invariante per trasformazioni
di Galileo se misurata in due sistemi di riferimento distinti. Siano q1 e q2, sull’asse y’ del
sistema S’, ferme nel sistema S’; in S’ esse si attirano con la forza di Coulomb:
1 q1q 2
F
4 0 r 2
Se S’ si muove con velocità v rispetto a S, allora anche le cariche sono in moto rispetto a
S con la stessa velocità v lungo l’asse x.
In S le cariche in moto costituiscono una corrente e generano un campo B attorno a loro
e “sentono” ciascuna il campo magnetico generato dall’altra “corrente” e quindi sentono
una forza di Lorentz che si aggiunge alla forza di Coulomb.
Se la direzione del moto non è ortogonale alla congiungente le forze di Lorentz
formano una coppia che tende a far ruotare le cariche
 la risultante delle forze è lungo la congiungente in S’ ma non lo è in S: ma le
trasformazioni di Galileo non modificano la direzione della forza !!!
Ma veniamo alle equazioni di Maxwell vere e proprie:
le equazioni di Maxwell non sono invarianti per trasformazioni di Galileo
Che le equazioni di Maxwell non siano invarianti per trasformazioni di Galileo lo si può
vedere analizzando le equazioni stesse.
La quarta equazione di Maxwell, ad esempio, che si scrive come



E
  B  0 j   0 0
t
ovvero, in forma scalare, come
 B  dl   i
0 conc
  0 0
E
  0 iconc   0 i spost
t
vede comparire il termine densità di corrente j = ρv, cioè di nuovo vediamo
comparire la velocità, che dipende dal sistema di riferimento.
Le sorgenti del campo magnetico non sono invarianti per trasformazioni di
Galileo.
108
Fu proprio questa tipologia di difficoltà e portare all’elaborazione delle
trasformazioni di Lorentz, che, nate per cercare qual era la possibile relazione tra due
sistemi di riferimento per i quali continuassero a valere le equazioni di Maxwell
portarono a una serie di formule che coinvolgevano non solo le coordinate spaziali ma
anche quelle temporali.
Ripercorriamone la storia.
Trasformazioni di Lorentz
 Il primo tentativo di formulazione risale al 1887 W. Voigt.
 La prima formulazione corretta e completa è dovuta a J. Larmor nel 1897, due
anni prima di Lorentz.
 H. A. Lorentz pubblica la sua versione finale nel 1904.
 Henri Poincarè le battezza come “trasformazioni di Lorentz” e sviluppa la loro
formulazione “simmetrica”, oggi in uso.
 Einstein le ricava utilizzando i due assiomi, chiarendone il significato.
Forse è opportuno ripercorrere le tappe che hanno portato alla formulazione delle leggi
dell’elettromagnetismo e vedere come tali risultati possano confluire nella Relatività.
7.2. Conservazione della carica
(Il principio lo si deve a Benjamin Franklin, che lo formulò nel 1747)
Dato un volume V, la somma algebrica della carica positiva e della carica negativa
contenute nel suo interno cambia solo per la quantità di carica che attraversa la
superficie.
dQint
 i La corrente è positiva quanto è uscente dal volume V.
dt
dQint
  j  d S   i
dt
e poiché
dQint
  j  d S 0
dt
Qint   dV ne segue

 j  0
t
109
La legge della conservazione della carica è stata da allora sempre verificata con una
precisione sempre maggiore, ormai estrema. Quali sono gli esperimenti su cui ci si
concentra oggi? Si va a vedere se ci sono decadimenti della materia che vìolino tale
principio.
Quando analizziamo le cariche all’interno di un volume, le cariche sono particelle,
protoni, fotoni…
Test of Electric Charge Conservation with Borexino
Uno dei decadimenti più usati che si usano per la verifica della conservazione è quello
dell’elettrone in un neutrino e un fotone:
e   e   dove il fotone ha energia   256keV
Borexino è un rivelatore a scintillatore liquido dei laboratori Nazionali del Gran Sasso.
L’estrema purezza dello scintillatore e la completa conoscenza della risposta del
rivelatore hanno consentito di fissare un limite inferiore alla stabilità dell’elettrone che
decade in un neutrino e un fotone.
Si è verificato cioè che l’elettrone decade in un neutrino elettronico e un fotone in
un tempo τ > 6.6 1028 anni, 2 ordini di grandezza superiore alle precedenti
determinazioni.
E poiché sussiste la seguente relazione
dQ dt

Q

anche ammettendo di osservare la situazione per un tempo dt pari un anno o a 10 anni, il
rapporto di tale tempo con il succitato tempo τ è davvero trascurabile.
Questo ci induce ad affermare con ragionevole certezza che la carica si conserva.
La conservazione della carica implica che la carica è uno scalare relativistico, in
quanto il suo valore non può dipendere dalla velocità della carica stessa.
Se così fosse accelerando una carica all’interno di un volume, ne varierebbe il
valore e di conseguenza cambierebbe la carica totale all’interno del volume.
Interessante è inoltre quello che scrive Feynman nelle sue lezioni: “la carica
non dipende dalla temperatura”. Se io prendo un pezzo di metallo e lo scaldo, ci sono
particelle che si agitano poco e particelle che si agitano molto (gli elettroni); se la carica
dipendesse dalla temperatura dovrei osservare che un metallo scaldato si carica. E questo
non si osserva. (In realtà questa è una schematizzazione molto semplice).
La carica dunque non cambia.
Vediamo invece quello che succede alla densità.
Test. La carica è un invariante relativistico perché:
a. l’esperienza mostra che in tutti gli esperimenti il valore della carica totale non cambia, qualunque sia
la velocità della carica
b. la forza di Coulomb usata per definirla operativamente è invariante per trasformazioni di Lorentz
c. la densità di carica è la stessa in tutti i sistemi di riferimento inerziali
[La risposta esatta è la a.]
110
7.3. Le trasformazioni della densità di carica e di corrente
Densità di carica
dQ'
 0
dV '
Il cilindro infinitesimo dV ' è fermo in S’  dL'  dL0
' 
In S il medesimo cilindretto è in moto con velocità v  dL 
dL'

 dV 
dV '
dQ
dQ'
dQ'


  ' 
dV dV ' 
dV '
la densità di carica cambia!

   0
La densità di carica risulta maggiore nel sistema in moto
che nel sistema in quiete.
Densità di corrente elettrica
Consideriamo un cilindretto di cariche in moto con velocità v’ in S’





v
'


0
;0;0 
La densità di corrente in S’ è definita come j '   ' v'   '  0 v'  
2
 1  v'

2
c


Quanto vale la densità di corrente nel sistema S?
v' v
In S la velocità del cilindretto è v 
v' v . Calcoliamo la densità di corrente:
1  2
c
111

v'v
v'v
'
 j '  ' v
  0

 …
v ' v
v ' v  '
v ' v

'
1 2
1 2
1 2
c
c
c
in quest’ultima espressione intendiamo usare la seconda delle
j x  v   0

'
 v v
 v 1  2 

c 


 v v' 
 v 1  2 
'
c 

 j '  ' v
    j '  ' v 
 ' 1  v ' v
c2
Relazione e connessione relativistica tra j e ρ
    0     '
j x  v     j '  ' v 
Una distribuzione di carica statica in S’ (ρ’ ≠ 0; j’=0) dà origine in S’ solo ad un
campo elettrico; ma in S la stessa distribuzione da origine anche a una corrente
(j≠0) e quindi genera anche un campo magnetico.
Il fatto che passando da un riferimento all’altro spunti un campo magnetico ci dice che
dobbiamo riformulare le leggi di campo elettrico e campo magnetico per trasformazioni
di Lorentz. Quello che in un sistema è solo un campo elettrico in un altro sistema è
campo elettrico e magnetico. Ma in che modo? Lo vedremo più sotto.
Corrente
Per ottenere la corrente dalla densità di corrente è sufficiente moltiplicare per la sezione
del filo.
Dalla relazione sopra j x  v   0
otteniamo
v'v
 j '  ' v

    j '  ' v 
v v  '
v v
1 2
1 2
c
c
i    i'  ' Sv 
112
7.4. Campo elettrico e magnetico generato da una corrente
elettrica
Avendo visto come si trasformano le sorgenti dei campi elettrici e magnetici passando da
un sistema di riferimento a un altro siamo in grado di calcolare come variano campo
elettrico e magnetico passando da un sistema di riferimento a un altro. E vedremo
dunque, con le considerazioni fatte sopra, che la legge F = q (E + v x B) è valida in tutti
i sistemi di riferimento. Vedremo che, passando da un sistema di riferimento a un altro
sono il campo elettrico e il campo magnetico che cambiano i loro valori e anche si
trasformano l’uno nell’altro.
Consideriamo UN FILO conduttore, non percorso da corrente.
Sappiamo che le cariche si distribuiscono lungo tutto il filo, dando origine a due
cilindretti di carica, uno con cariche negative e l’altro con cariche negative che qui
abbiamo rappresentati distinti e separati ma che dobbiamo immaginare coassiali.
Le cariche non sono propriamente ferme ma è la loro velocità media (velocità di
v  0      0 j  0
drift/deriva) che è nulla:
v  0     0 j  0
La distribuzione di cariche non genera alcun campo né all’interno né all’esterno del filo.
La densità totale è nulla in ogni segmento del cilindretto.
La differenza tra i due tipi di cariche è che le cariche positive sono vincolate a stare
ferme nel loro posto mentre quelle negative sono sostanzialmente libere.
E difatti, se noi applichiamo ai capi di questo filo una differenza di potenziale vediamo
fluire una corrente e la corrente è associata al moto dei portatori di carica negativi: il
cilindretto negativo si sposterà verso destra e determinerà la corrente.
Il cilindretto di carica positiva rimane immobile e per esso
valgono le relazioni scritte sopra. Diversamente, per il cilindretto di cariche negative, in
moto verso destra, la densità di carica risulta aumentata, cioè moltiplicata per il fattore di
Lorentz.
v  0     0
v  0     0
(Ricordiamo che se le cariche negative fluiscono verso destra la corrente macroscopica
fluisce verso sinistra.)
113
Si osservi che la densità di carica negativa è stata indicata diversamente da prima:
    0 . Perché? Perché i portatori di carica negativi hanno la caratteristica di essere
liberi e dunque non solo si spostano verso destra ma possono anche cambiare la loro
distribuzione all’interno del filo. E in effetti le cariche negative mobili si
ridistribuiscono per annullare il campo elettrico all’interno e all’esterno del
conduttore: se non cambiassero la loro distribuzione, il filo diventerebbe elettricamente
carico e all’interno del filo “nascerebbe” un campo elettrico.
Questo ce lo dice il teorema di Gauss: se consideriamo (vedi figura sotto) un cilindretto
geometrico coassiale con le due distribuzioni di carica (a loro volta coassiali tra loro,
ricordiamolo), se le due densità di carica positiva e negativa fossero diverse tra loro, ci
sarebbe una carica totale non nulla all’interno del cilindretto e quindi “spunterebbe” un
campo elettrico.
Le cariche negative mobili dunque cambiano in qualche modo la loro distanza media e lo
fanno in modo da annullare il campo elettrico all’interno e all’esterno del conduttore.
1
1
    0  0   0        0
j    0 v   0 v



v  0     0 j   0 v
Ricapitolando:
v  0     0 j  0
Fatte queste considerazioni su densità di carica e di corrente, possiamo analizzare i campi
elettrico e magnetico prodotti da tale sorgenti.
Sappiamo che un filo percorso da corrente elettrica genera un campo magnetico le cui
linee di forza sono circonferenze perpendicolari al filo e con centro sul filo.
Nel punto P a distanza r dal filo si crea un campo B diretto secondo la direzione z (le
cariche negative vanno verso destra e dunque la corrente va verso sinistra, e questo ci
dice che il campo B nel punto P è perpendicolare al piano xy del foglio ed è uscente);
campo B che possiamo calcolare col teorema di Ampére:
 i  jdS  0  0 vdS
1   0 vdS 
Bz  0  0




2r
2r
2r
2 0 r  c 2 
114
dove si è usta la  0 
1
 0c 2
Noto B, se nel medesimo punto P si trova una carica q in moto lungo +x, essa subirà
una forza di Lorentz diretta verso il basso (come indicato in figura) pari a:
qvq   0 vdS 


2 0 r  c 2 
Supponiamo che tale carica si muova verso destra con una velocità pari a quella delle
cariche negative del cilindretto ( v q  v ) e consideriamo un secondo sistema S’ che si
muova anche lui verso destra con la medesima velocità v rispetto a S:
Fy  qvq Bz 
Rispetto al sistema S, abbiamo appena calcolato che la carica sente una forza diretta
qvq   0 vdS  qv 2  0 dS


verso il basso pari a Fy  qvq Bz 
…
2 0 r  c 2  2 0 rc 2
… ma in S’ la carica q è ferma, e tuttavia in S’ essa sente una forza… che (per non saper
né leggere né scrivere) andiamo a calcolare usando le leggi di trasformazione delle forze
(avendo scelto le v tutte uguali diventa abbastanza semplice):
Fy
qv 2  0 dS
Fy ' 
 Fy  
… qual è l’origine di questa forza?
2 0 rc 2
 v2 
 1  2 
 c 
Anche se in S’ c’è un campo magnetico, non può essere il campo magnetico l’origine di
questa forza perché la carica q in S’ è ferma.
È facile immaginare che, siccome dal sistema S al sistema S’ sono cambiate le densità di
carica e le densità di corrente, l’origine di questa forza possa essere di tipo elettrico…
Per far questo dobbiamo calcolare il campo elettrico in S’ generato dalla distribuzione di
carica… e lo facciamo col teorema di Gauss.
Ricordiamo intanto quanto valevano le densità di carica misurate nel sistema S:
    0
  0
115
Nel sistema di riferimento S’ le cariche positive vanno
verso sinistra con velocità – v e quelle negative sono ferme, e non hanno motivo di
modificare la loro distanza relativa per “impedire” la “nascita” di campi elettrici.
  '   0
j   0 v
  '   0 
0

j  0
Ora prendiamo il solito cilindrico coassiale col filo e calcoliamo il flusso del campo
elettrico attraverso la superficie laterale di esso, e usiamo il teorema di Gauss:
Q
2rE y ' dx  int
0
La carica interna al cilindretto è data dalla densità di carica totale per il volume:

  dSdx

  dS
2rE y ' dx    0  0 
E y '    0  0 

  0
  2r 0


  2  1   0 dS   2  2   0 dS
v 2  0 dS
qv 2  0 dS


 

Fy '  
 E y '  
2 

2

r


2

r

2

r

c
2r 0 c 2




0
0
0
espressione che, a parte il fattore di Lorentz, coincide con la forza “magnetica” trovata
sopra. Conclusione: la forza che, in S’, agisce sulla carica posta in P è generata da un
campo elettrico dovuto alle distribuzioni di carica diverse rispetto a quelle misurate in S.
Dalle trasformazioni delle sorgenti abbiamo ricavato:
in S la forza di Lorentz
in S’ la forza elettrica
2
qv 2  0 dS
qv  0 dS
Fy 
Fy '  
 Fy
2 0 rc 2
2 0 rc 2
Dalle trasformazioni di Lorentz delle forze avremmo dedotto la stessa cosa:
1 Fy
1 Fy
Fy ' 

 Fy
 1  v v 
v2
1 2
c2
c
Conclusione: passando da un sistema di riferimento a un altro campo E e campo B
cambiano, si modificano l’uno nell’altro: i valori di tali campi dipendono dal sistema di
riferimento. Tuttavia…
la forza di Lorentz ha la stessa espressione in tutti i sistemi di riferimento.
Sono i campi elettrici e magnetici a trasformarsi uno nell’altro.
116
Test ironico. La forza di Lorentz ha la stessa espressione in tutti i sistemi di riferimento
inerziali perché:
a. la legge di trasformazione delle forze mostra l’invarianza della sua forma per trasformazioni di
Lorentz
b. è una ipotesi avanzata da Einstein, coerente con le ipotesi e verificata sperimentalmente
c. la carica è un invariante di Lorentz
[la risposta esatta è la b.]
7.5. Le trasformazioni del campo elettrico e magnetico
In ogni sistema di riferimento la forza agente su una carica ha la forma della forza di
Lorentz: F = q (E + v x B)
 Il campo elettrico E dà origine alla forza agente su una carica ferma
 Il campo magnetico B dà origine a una forza perpendicolare alla velocità della
carica
Possiamo determinare come i campi E e B si trasformano l’uno nell’altro nel caso
generale, e questo lo faremo quando studieremo il formalismo covariante nella prossima
lezione; ma inizialmente lo faremo in maniera diretta studiando casi particolari, per i
quali sarà facile determinare come si trasforma la forza di Lorentz passando da un
sistema di riferimento all’altro. Di volta in volta chiameremo “forza dovuta al campo
elettrico quella che agisce sulla carica quando è ferma”, e “forza dovuta al campo
magnetico quella che agisce sulla carica quando è in moto”.
Analizzate alcune situazioni di cariche ferme o in moto, e studiato come si
trasvormano E e B da un sistema all’altro, invocando il principio di sovrapposizione per
le forze potremo dedurre le leggi generali.
CASO 1: in S (laboratorio) una carica è in moto lungo x con velocità v in presenza
di campo elettrico lungo x e magnetico perpendicolare (lungo y)


F  qE  v  B  qEx ,0, qv By
Calcoliamo la forza di Lorentz in S:
Scegliamo un S’ che si muove con velocità vΩ = v e calcoliamo la forza in tale sistema
usando la legge di trasformazione delle forze:
117
qv B y 

 qE  v qE v

x
 
 x c2
F ' 
,0,
v2
v2 

1 2
1  2 
c
c 

Osserviamo che al numeratore della componente x compare il termine contenente la
potenza. Il denominatore delle componenti x e z, che ha quel valore per la particolare
1
scelta di vΩ = v, vale
, mentre, per la medesima ragione, il numeratore equivale a
 2
qE x
. Semplifichiamo:
 2
2
qv B y 

 qE  v qE

x
 
 x c2
F' 
,0,
 qEx ,0,   qv B y 
v2
v2 

1 2
1  2 
c
c 

Quali sono le componenti della forza di Lorentz in S’?
La carica risulta ferma in S’, non agisce un B’ su di essa: siamo costretti a dire che su
questa carica agiscono due componenti del campo elettrico.
F '  qE 'v'B'  qEx ' ,0, qEz '
Identificando quindi le componenti trovate sopra con quelle scritte sotto ricaviamo
Ex '  Ex
Ez '      cB y

Se avessi avuto un campo magnetico diretto non lungo y ma lungo z per simmetria è
ovvio che avrei trovato in S’ un campo elettrico E’ diretto lungo y pari a
E y '      cBz (attenzione al segno – )
CASO 2: in S una carica si muove lungo x con velocità v in presenza di campo
elettrico lungo y (o z) e S’ si muove come prima con vΩ = v.
F  qE  v  B  0, qEy ,0
Calcoliamo tale forza in S’ usando la legge di trasformazione delle forze e tenendo conto
che abbiamo scelto vΩ = v :
118
 qE y






F '   0,
,0   0,   qE y ,0
2
v
 1  2 
c


Se invece calcoliamo la forza di Lorentz direttamente in S’, tenendo conto che in S’ la
carica è ferma e dunque agisce su di essa solo la forza elettrica, troviamo:
F '  qE'v'B'  0, qEy ' ,0  E y '    E y
Se il campo E anziché diretto lungo y fosse stato diretto lungo z, in S’ avrei trovato
Ez '    Ez
Campo elettrico e magnetico: CASO 1 & CASO 2
Ex '  Ex
E y '    E y    cB z 
E z '    E z    cB y 
CASO 3: carica ferma in S in presenza di campo magnetico lungo y (o z)
In S è F  qE  v  B  0,0,0
Trasformiamo questa forza in S’ : otteniamo
F '  0,   qEy ,0  0,0,0


essendo E y  0
D’altra parte, in S’, la carica ha velocità v'  v e ci aspettiamo una forza di Lorentz su
di essa – dovuta al campo elettrico (non c’è in S ma c’è in S’) e magnetico – diretta
secondo l’asse z:
F '  qE'v'B'  0,0, qEz 'qv By '

E z ' ce lo possiamo calcolare (l’abbiamo fatto prima):
Ez '    Ez    cB y       cB y essendo E z  0
e uguagliando le componenti di F’ trovata nei due modi
    cB y
Ez '
   By
ricaviamo B y ' 
ossia B y ' 
v
v
119

e per simmetria, se il campo B in S fosse diretto lungo l’asse z, si avrebbe in S’ un campo
Ey '
Bz ' 
   Bz
v
Concludendo: un campo magnetico B in S genera in S’ non solo un campo elettrico
come visto negli esempi precedenti ma anche un campo magnetico.
CASO 4: carica ferma in S in presenza di campo magnetico lungo y (o z) e di un
campo elettrico lungo z (o y)
In S la carica è ferma e dunque sente soltanto la forza elettrica diretta secondo z:
F  qE  v  B  0,0, qEz 
Calcoliamo la medesima forza operando la trasformazione di Lorentz delle forze da S a
S’ e otteniamo:

qE 
F '   0,0, z 
 

Se analizziamo invece la situazione in S’, la carica in S’ ha velocità v'  v e dunque su
di essa agisce sia una forza elettrica diretta secondo z’ sia una forza magnetica diretta
secondo il verso negativo di z’ :
F '  qE'v'B'  0,0, qEz 'qv By '
uguagliando le terze componenti della forza in S’ con quelle dedotte sopra otteniamo
qEz
 qEz 'qv B y '
ed essendo E z '   E z    cB y otteniamo





 2 1
 q E z    cB y   qv B y ' da cui, ricordando che è
  2 ,


 Ey 

 E 


B y '    B y   z  e per simmetria Bz '    Bz 
qEz
c 
c 


Dunque il campo elettrico lungo la direzione z in S genera non solo un campo elettrico
in S’ lungo la direzione z’ ma anche un campo magnetico lungo la direzione y’.
Non abbiamo ancora determinato come si trasforma la componente x del campo
magnetico; ed è quello che vedremo nel prossimo e ultimo caso.
120
CASO 5: la carica in S è in moto lungo l’asse y in presenza di un campo
magnetico lungo x
F  qE  v  B   0,0,qv Bx 
applichiamo la trasformazione di Lorentz per determinare il valore di tale forza in S’, che
si muove con la velocità vΩ scelta opportunamente uguale in modulo alla vy ma diretta
secondo l’asse x:

 qv Bx 

F '   0,0,




Come nei casi precedenti, andiamo a calcolare ora la forza di Lorentz direttamente nel
sistema S’, rispetto al quale la particella ha sia una velocità diretta secondo x’ (facile da
calcolare: – vΩ) sia una velocità diretta secondo y’ (che dovrà essere dedotta dalla legge
della composizione delle velocità); in ogni caso, la componente z’ della forza magnetica
risentirà di entrambe le componenti della velocità (il prodotto vettoriale dà il risultato
sotto):
F '  qE'v'B'  q0,0, Ez 'vx ' By 'v y ' Bx '
Osservando i due risultati e uguagliando le terze componenti, abbiamo
 v B x
 E z ' v x ' B y 'v y ' B x '

Ora:
- il primo addendo a destra è nullo: Ez '    Ez    cB y     0  0  0
(dunque un Bx non comporta un E’z);
- il secondo addendo a destra è nullo: By '    By  0 ;
v y v

- nel terzo addendo a destra è v y ' 
per le scelte fatte all’inizio.
 
Ricaviamo Bx '  Bx . Dunque le componenti di B (e di E, abbiamo visto prima) lungo
l’asse x non vengono perturbate se S’ si muove lungo l’asse x. Sono solo le componenti y
e z che cambiano.
121
Ricapitolando, seppur dedotte da alcuni casi particolari, queste sono le più generali
Trasformazioni del campo elettrico e del campo magnetico
Bx '  Bx
E z 

By '    By 

c


E y 


Bz '    Bz 
c 

Ex '  Ex
E y '   E y  cB z 
E z '   E z  cB y 
quando S’ si muove in direzione dell’asse x, e quelle sotto sono le
Trasformazioni INVERSE del campo elettrico e del campo magnetico
Bx  Bx '
E ' 

B y    B y ' z 
c 

E y ' 


Bz    Bz '
c 

Ex  Ex '
E y   E y ' cBz '
Ez   Ez ' cB y '
A questo punto, come esercizio di applicazione delle suddette formule, divertiamoci ad
analizzare quello che il prof. Mobilio ama chiamare
il paradosso del campo elettrico
Supponiamo che in S sia
E x  0 Bx  0
In S’ è
E y  0 By  0
E y '  E y
E z  0 Bz  0
Se torno in S mi aspetto di
trovare lo stesso Ey di
partenza… ma l’uso
simmetrico della
trasformazione dà
E y  E y '   2 E y
Il campo è aumentato? Dov’è l’inghippo??
La risposta è facile: non dobbiamo trascurare che quando da S passiamo a S’, le
trasformazioni di Lorentz dei campi E e B ci dicono che un E y  0 produce un Bz ' 0 …
In S
In S’
Bx '  Bx  0
Ex '  Ex  0
E x  0 Bx  0
E z 

By '    By 
0
E y '   E y  cB z  E y
c


E y  0 By  0
E z '   E z  cB y  0
E y 
E y

E z  0 Bz  0
  
Bz '    Bz 
c 
c

122




Se teniamo conto delle due componenti che in S’ non valgono 0, vediamo allora che in S,
utilizzando la seconda delle formule inverse che riportiamo a destra
Ex  Ex '
E y   E y ' cBz '
Ez   Ez ' cB y '
vale la seguente:
E y 

   2 1   2 E y  E y
E y   E y ' cBz '    E y ' c
c 

… e l’inghippo è risolto.
Per ulteriore verifica calcoliamo la Bz (che ci aspettiamo essere 0) e utilizziamo la
terza delle formule inverse per B, che riportiamo a destra:




Bx  Bx '
E ' 

B y    B y ' z 
c 

E y ' 


Bz    Bz '
c 

E '   E y 


Bz    Bz ' y     
 E y   0
c 
c
c



7.6. Test ed esercizi
In S è presente un campo magnetico diretto lungo l’asse y pari a By = 100 mT. Determinare il
valore della forza F’ agente nel sistema di riferimento S’ in moto lungo l’asse +x con velocità v
= 0,9c su una carica q = 1,00 μC in moto rispetto ad S’ con velocità ux = 0,2 c.
a. F' = 67,9 N
b. F' = 88,9 N
c. F' = 48,2 N
d. F' = 40,8 N
e. F' = 75,7 N
[La risposta corretta è la e.
Utilizzando le formule di trasformazione per E e B si trova
F '  qE'v'B'  q0,0, Ez 'u xBy   q0,0, cBy  u xBy   qBy 0,0, v  u x  ]
Un protone in moto con velocità vx = 0,80c attraversa una regione di spazio in cui è presente
un campo magnetico uniforme perpendicolare diretto lungo l’asse y By = 0,10 T. Nel sistema S’
in moto con la carica stessa la forza agente sulla carica è:
a. Fz = 3,8 10 −12 N
b. F = 0 N
c. Fz = 6,4 10 −12 N
d. Fy = 3,8 10 −12 N
e. Fy = 6,4 10 −12 N
[La risposta corretta è la c.
123
In S’ la velocità del protone è nulla e la forza di Lorentz si riduce a F’ = qE’.
L’unica componente non nulla è quella lungo z’: F '  qE'  qEz '  ecB y  evx By ]
In S’ due nuclei di carica q = 10e sono posti sull’asse y’ simmetricamente rispetto all’origine a
distanza d=0,10 μm l’uno dall’altro. La forza dovuta al campo elettrico agente su ciascun
nucleo nel sistema di riferimento S in moto con velocità relativa v=0,60c rispetto a S’ è:
a. 1,4 10 −12 N
b. 3,8 10 −12 N
c. 2,3 10 −12 N
d. 2,9 10 −12 N
e. 1,8 10 −12 N
q2
[In S’ la forza è quella coulombiana F '  k 2 diretta, come il campo E ' , secondo l’asse y’…
d
Per calcolare la forza di Lorentz in S si utilizzano le formule dirette con gli apici scambiati
Ex  Ex '  0
E y   E y ' cB z '  E y '
E z   E z ' cB y '  0


Bx  Bx '  0
E z ' 

B y    B y '
0
c 

E y ' 
E y '
vE y '

  
B z    B z '
  2
c 
c
c





F  qE y  vBz   q E y ' 2 E y '  qE y ' 1   2  Fy ' 1   2  Fy ' 1   2
La risposta esatta è la e.]
Una densità lineare di carica lambda=1,0 10 – 6 C/m (valore a riposo) infinitamente lunga e
disposta lungo l’asse x si muove con velocità vx = 0,8c in S. I valori del campo elettrico E e del
campo magnetico B nel punto di coordinate (0;1,0; 0) m in S sono:
a. E= 3,0 104 V/m; B = 1,3 10-4 T
b. E= 5,0 104 V/m; B = 1,3 10-4 T
c. E= 3,0 104 V/m; B = 8,0 10-5 T
d. E= 5,0 104 V/m; B = 8,0 10-5 T
e. E= 0,0 V/m; B = 8,0 10-4 T
[Test della verifica finale. Mettiamoci nel sistema S’ in cui le cariche sono ferme: in S’ è presente solo un

. Usando le formule di trasformazione inverse che ci permettono di
2 0 r
E y

 E y ' . La risposta corretta è la c.]
ricavare E e B otteniamo E y  E y ' e Bz 
c
c
campo elettrico E y ' 
124
Cap. 8: formalismo covariante
Se le prime sette lezioni sono state tenute con un formalismo minimale, formalismo che
può esser tenuto tranquillamente in una classe quinta liceo, dobbiamo anche rilevare che
un corso di relatività che voglia essere definito tale non può non trattare il formalismo
covariante, che è il formalismo che si tiene nelle lezioni universitarie.
Con questo formalismo, tutto quanto trattato nelle sette lezioni precedenti diventa
facile da trattare a da spiegare matematicamente
L’aspetto più complicato è il formalismo covariante che serve per spiegare le leggi
dell’elettromagnetismo; e questo è un piccolo paradosso, perché la relatività (ossia le
trasformazioni di Lorentz) nasce proprio per spiegare come variano le leggi
dell’elettromagnetismo passando da un sistema a un altro, ossia per esprimere le
equazioni di Maxwell in tutti i sistemi.
Nella meccanica classica è facile osservare che la F = ma resta la stessa passando
da un sistema a un altro; ci si aspetterebbe che questo accadesse anche per le equazioni
di Maxwell quando si usano le trasformazioni di Lorentz… e invece bisogna formulare
in maniera più sofisticata le leggi per mostrare la covarianza delle equazioni di Maxwell.
Questi gli argomenti del capitolo:
1. Quadrivettori e proprietà
2. Quadrivettore velocità
3. Quadrivettore quantità di moto–energia (quadrimpluso)
4. Covarianza della conservazione della quantità di moto
5. Particelle a massa nulla: il fotone
6. Effetto Compton
7. Rivisitazione dell’effetto Doppler
8. Equazione del moto e Forze in Relatività
9. Trasformazioni del campo elettrico e magnetico
10. Formulazione covariante dell’elettromagnetismo
8.1. Quadrivettori e proprietà
Le coordinate spazio temporali di un evento in S e in S’ si trasformano tra loro secondo
le trasformazioni di Lorentz:
x1 '   x1  x4 
x2 '  x2
x3 '  x3
x4 '   x1  x1 
x1  x
dove
x2  y
x3  z
x 4  ct
Una quaterna di numeri che per trasformazioni di Lorentz si trasformano come le
coordinate spazio temporali di un evento definisce un quadrivettore.
125
Un quadrivettore (x soprassegnato) lo indicheremo come

x  x1 , x2 , x3 , x4   x , x4 
:

è formato da una parte componente spaziale (x1,x2,x3) o anche x
e da una componente temporale (x4).
Le trasformazioni di un quadrivettore per trasformazioni di Lorentz possono essere
scritte in forma matriciale:
x '  x
dove xi '   ik x k e dove Λ è la matrice di Lorentz:
 

 0

0

  

0 0   

1 0
0 
0 1
0 

0 0
 
Dati due quadrivettori il loro prodotto scalare è definito come:
 
u  v  u1v1  u2 v2  u3v3  u4 v4   u  v  u4 v4 
Esso generalizza il prodotto scalare usuale tra due vettori, solo che la quarta componente
è sottratta.
Il prodotto scalare tra due vettori è invariante per trasformazioni di Galileo.
Il prodotto scalare tra due quadrivettori è invariante per trasformazioni di Lorentz
u  v  u 'v '
Infatti:
u 'v '   u1  u4  v1  v4   u2v2  u3v3   u4  u1  v4  v1  




  2 1   2 u1v1  u2v2  u3v3   2 1   2 u4v4 
 1u1v1  u2v2  u3v3  1u4v4  u  v
Caso particolare
u v
il prodotto scalare di un quadrivettore per sé stesso è invariante per
trasformazioni di Lorentz
u  u  u 2  u1  u2  u3  u4
2
2
2
2
tale grandezza è chiamata il quadrimodulo (quadrato) del quadrivettore.
La potenza e l’utilità del formalismo dei quadrivettori risiede nel fatto che se una
relazione fisica (legge) è espressa come eguaglianza tra due quadrivettori in un sistema di
riferimento inerziale, allora essa è vera in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
Se
u  v allora u '  v '
126
Infatti
u '  u  v  v '
Sappiamo che le coordinate spazio-temporali costituiscono un quadrivettore. Ci sono
altre grandezze che hanno la proprietà di essere quadrivettore, cioè invarianti per
trasformazioni di Lorentz?
8.2. Il quadrivettore velocità
La velocità, per definizione, è la derivata rispetto al tempo delle componenti spaziali di
un quadrivettore. Possiamo aggiungere la quarta componente temporale per analogia:
 dx dx dx dx  
v   1 , 2 , 3 , 4   v , c 
 dt dt dt dt 
Abbiamo ottenuto una “quadrivelocità”. È questa quaterna di numeri un quadrivettore?
Per rispondere dobbiamo verificare se, per trasformazioni di Lorentz, si trasforma
come le componenti di un quadrivettore. Noi conosciamo la legge di trasformazione
delle velocità, possiamo quindi dire che:


 v v

v3
v2
1
1
1

v '  v1 ' , v2 ' , v3 ' , c   
,
,
, c 
 1  v1v   1  v1v   1  v1v 


c2
c2
c2


Se guardiamo questa quaterna vediamo che non coincide con la quaterna che si
otterrebbe utilizzando la matrice di trasformazione Λ: è sufficiente analizzare la prima
componente ottenuta tramite Λ
v1 '    v1    v4  
v1  v
1  
2
per osservare che v’ non è dato da una trasformazione di Lorentz applicata alle
componenti di v. La “quadrivelocità” non è un quadrivettore.
Noi vorremmo però ottenere qualcosa che funzioni come un quadrivettore velocità.
Perché quello sopra non funziona? Le componenti della velocità così come le abbiamo
definite sopra sono ottenute come rapporto tra la differenza di due valori di una
coordinata e un tempo
vi 
dxi
dt
Il numeratore si trasforma come una coordinata spaziotemporale che si trasforma come
un quadrivettore, mentre il denominatore si trasforma come una coordinata temporale: il
loro quoziente diventa evidentemente qualcosa di diverso. Se vogliamo che la
127
quadrivelocità si trasformi come un quadrivettore bisognerebbe che il denominatore
risultasse una costante.
Se dividiamo per qualcosa che sia uno scalare (ovvero che non si trasforma
per trasformazioni di Lorentz) otterremmo una grandezza la cui parte spaziale si
trasforma come la parte spaziale di un quadrivettore
Come fare? Un intervallo di tempo scalare che non si trasforma per
trasformazioni di Lorentz è l’intervallo di tempo proprio, cioè l’intervallo di tempo in
cui il punto materiale di cui stiamo determinando la velocità è fermo e sono i due punti
occupati all’istante t e all’istante t+dt che si muovono (cioè è l’intervallo di tempo che
intercorre tra due eventi che avvengono nello stesso punto spaziale).
Definiamo quindi la quadrivettore-velocità come il quadrivettore le cui
componenti sono date da
ui 
dxi
dt0
dx
dx
ui  i   i
dt0
dt
ricordando che è
da cui
dt  dt0

u   v , c 
Ma qual è il sistema di riferimento in cui il tempo coincide con il tempo proprio?
Quello in cui i due eventi sulla particella capitano nello stesso punto: mi devo cioè
mettere “seduto sulla particella” e vedo il mondo esterno che si muove, che mi viene
incontro, devo cioè stare in un sistema solidale con la particella.
Verifichiamo che la velocità a quattro dimensioni appena definita è un
quadrivettore


 v v

v3
v2
1
1
1

v '  v1 ' , v2 ' , v3 ' , c    ' 
,
,
, c 
 1  v1v   1  v1v   1  v1v 


c2
c2
c2


'
 vv 
   1  1 2 
e ricordando che è

c 


v v
 v v 
v '     v1  v , 2 , 3 , c1  1 2   ovvero
  
c 


 v v 
v '     v1    c , v2 , v3 ,   c1  1 2  
c 


Ancora non ci siamo: ancora non sembra il trasformato di Λ. Ma osserviamo che
l’ultima componente di questo quadrivettore vale  ' c
Se invece pensiamo v ' come il trasformato secondo Λ del quadrivettore v abbiamo
128
v '   ' v1 ' , v2 ' , v3 ' , c   v1 , v2 , v3 , c  
   v1   c , v2 , v3 ,   c   v1 
l’ultima componente anche qui vale  ' c .
Quesito facile: in S una particella di massa m è in quiete; la quarta componente della quadrivelocità è:
a. v4=c
b. v4=c2
c. v4=0
8.3. Il quadrimpluso (quadrivettore quantità di moto – energia)
e la conservazione della quantità di moto e dell’energia.
Quadrimpulso
In relatività il vettore impulso è p=γmv. Definiamo quadrivettore impulso il prodotto
della massa per il quadrivettore velocità definito nel paragrafo precedente. La quantità di
moto relativistica p=γmv diventa quindi la componente spaziale del quadrivettore
impulso

p  mv  mv , mc 
Osserviamo che la quarta componente non è altro che l’energia divisa per c: p4 = γmc =
=E/c. Quelle che in meccanica classica sono due grandezze separate, in meccanica
relativistica sono componenti diverse (spaziale e temporale) della stessa grandezza, il
quadrimpulso.
Ricordando che il quadrimodulo p2 è un invariante (cioè si conserva in ogni sistema
riferimento) otteniamo per il quadrimpulso appena definito:
 2 E2
p  p  p  p1  p2  p3  p4  p  2
c
2
2
2
2
2
Se facessimo questo calcolo (che è un invariante) nel sistema in cui la particella è
ferma, in tale sistema esso vale  m c : otteniamo pertanto
2 2


2
2
E 2  mc 2  p c 2
espressione già nota.
129
8.4. Covarianza della conservazione della quantità di moto
La generalizzazione della conservazione della quantità di moto ci ha portato alla
relazione
pin  p fin
Essendo una eguaglianza tra due quadrivettori, la legge è covariante per trasformazioni
di Lorentz (vale cioè in tutti i sistemi inerziali). Nella sua parte spaziale e nella sua parte
temporale essa esprime sia la conservazione della quantità di moto sia la conservazione
dell’energia.


Qin  Q fin
Ein  E fin
è la legge “nuova”:
l’energia è sempre conservata
è la legge classica modificata
ponendo Q = γmv
Ricordando tutta la fatica che avevamo fatto per dimostrare la conservazione della
quantità di moto (nella sua nuova espressione Q = γmv) per trasformazioni di Lorentz,
possiamo apprezzare quale sia la potenza e l’eleganza del formalismo covariante.
Sappiamo che si conserva perché il quadrimpulso definito come sopra è un
quadrivettore.
Essa dunque rispetta il principio di relatività.
Vediamo un esempio classico: l’urto tra due o più particelle
Ein   1m1c 2   2m2c 2  m1c 2  eK1  m2c 2  eK1  Mc2  EK
E fin   1 ' m1 ' c 2   2 ' m2 ' c 2  m1 ' c 2  eK 1 'm2 ' c 2  eK1 '  M ' c 2  EK '
La conservazione dell’energia ci porta
Mc 2  EK  M ' c 2  EK '
Se l’urto è completamente elastico EK  EK '  M  M '
EK  EK '  M  M ' e risolvendo l’equazione si trova
Se l’urto è anelastico
E K

M

che
, ovvero ritroviamo il risultato già noto.
c2
130
8.5. Particelle a massa nulla: il fotone
Col formalismo dei quadrivettori si può trattare un aspetto della meccanica relativistica
previsto dalla teoria della relatività che non ha spazio nella meccanica classica, ovvero
quello delle particelle a massa nulla, di cui il fotone è l’esempio più noto.
Fino a qualche anno fa anche il neutrino era considerato una particella a massa
nulla; oggi invece la sua massa è stata misurata.
L’altra particella che si prevede abbia massa nulla (ma che non è ancora stata
osservata) è il gravitone, ovvero il quanto di energia del campo gravitazionale.
In fisica classica una particella a massa nulla avrebbe quantità di moto ed energia
cinetica nulla, non sarebbe in grado di scambiare quantità di moto o energie, cioè di
esercitare forze e quindi di interagire  in pratica non esiste… e in fisica non interessa
perché in fisica interessa solo ciò che si riesce a misurare.
In relatività invece l’impulso e l’energia dipendono dal prodotto mγ.
Anche nel caso limite che m  0, se mγ  valore finito (e questo ovviamente succede
quando γ  ∞, cosa possibile in relatività) la particella possiede quantità di moto ed
energia e quindi interagisce  esiste!
Occorre però che γ  ∞ cioè che v  c.
Una particella a massa nulla ha velocità eguale alla velocità della luce
Al momento, l’unica particella nota a massa nulla è il fotone, e la sua energia è
data (Einstein – effetto fotoelettrico) da
E  h  
h  6.626096 1034 J  s  4.1356671015 eV  s
  1.054572 1034 J  s  6.5821191016 eV  s
Come si calcola l’impulso? Nell’elettromagnetismo classico un’onda
elettromagnetica che trasporta un’energia trasporta anche una quantità di moto E/c nella
direzione di propagazione k dell’onda

  ˆ
2 ˆ
p
k 
k  k
c

 

p


k
,


Dunque il fotone è una particella con quadrimpulso
c 

Il quadrimodulo (quadro) dell’impulso del fotone è sempre nullo:
p 
2
4 2  2
2
2 2 
 2 2


 2  0 essendo


c
c
131
8.6. Effetto Compton
La prima situazione in cui possiamo utilizzare il fatto che il fotone si comporta come una
particella dal quadrimodulo dell’impulso nullo è l’effetto Compton, effetto scoperto e
interpretato da Compton nel 1923, che consiste nello scattering elastico della luce da
parte di elettroni in quiete
Si osserva radiazione diffusa di lunghezza d’onda maggiore di quella incidente (si ha cioè
diffusione anelastica della luce), con una dipendenza dall’angolo data dalla relazione:
 
h
(1  cos )
mc
L’esperimento e la sua interpretazione furono di estrema importanza per l’affermazione
della teoria corpuscolare della luce e della meccanica quantistica  Compton prese il
premio Nobel nel 1927.
Interpretazione: urto elastico tra un fotone e un elettrone inizialmente fermo
 

p    k ,

c 

 ' 

p '    k ' ,

c 

prima dell’urto
dopo l’urto
Deve valere la conservazione del quadrimpulso:
p  pe  p '  p'e

pe  0, mc 
E' 

p 'e   p ' , 
c


p  p '  pe  p 'e

Calcoliamo il quadrimodulo quadro (moltiplichiamo scalarmente il quadrivettore per sé
stesso: valgono le stesse regole del prodotto scalare usuale tra vettori):
p
 p '   pe  2 pe   p  p '   p 'e
2

2
2
Il quadrimpulso dell’elettrone si conserva e perciò lo possiamo cancellare da entrambe le
parti.
p
 p '   2 pe   p  p '   0
2

p  p '  2 p  p '  2 pe   p  p '   0
2
2
132
Il quadrimpulso del fotone è sempre nullo, per cui cancelliamo i primi due termini.
Otteniamo:
p  p '  pe   p  p ' 
A sinistra è un prodotto tra quadrivettori, mentre a destra dell’uguale il calcolo è facile
perché pe  0, mc  ha solo la componente temporale diversa da zero:
   2 '
   ' 
 k  k ' 2  mc


ossia
c
c 
 c
 '
k  k ' cos  2  m   '
c
2 
k


e tenendo conto che è

c

1  cos  '     '
mc 2
da cui, dividendo a destra e sinistra per  '

1

 1 1


1

cos


   e ricordando che 
2
mc
 2c
 '  

1  cos    '  
otteniamo 2c
mc 2
2
da cui la formula finale e nota:
 
h
1 cos 
mc
8.7. Rivisitazione dell’effetto Doppler nel formalismo dei
quadrivettori
Abbiamo già visto che la formula relativistica dell’effetto Doppler è  ' 
(i segni della formula si riferiscono alla situazione in figura sopra).
133
1 

1 
Reinterpretiamo l’effetto come l’emissione di un fotone in S (sorgente) e la sua
osservazione in S’
Il fotone avrà una certa quantità di moto e una certa energia, e quindi avrà il seguente


quadrimpulso: p    k ,
 

c 
L’osservatore in S’ non fa altro che misurare il quadrimpulso della medesima particella in
 ' 

p


k
'
,



'
un altro sistema di riferimento:
c 

Per avere la formulazione di tale grandezza in S’ non dobbiamo far altro che applicare la
trasformazione di Lorentz al quadrimpulso misurato in S:
p '  p  la componente temporale si calcola facilmente:
 '


 

 
1    

  k x    
    
c
c
c
c
c




 '   1    
1 

1 
formula nota, già dedotta a suo tempo dalle trasformazioni di Lorentz
Effetto Doppler trasverso
Supponiamo che la luce in S’ provenga da una direzione che forma un angolo θ’ col
semiasse positivo delle x’:
 

p    k ,

c 

 ' 

p '    k ' ,

c 

134
legati da p '  p
Non possiamo sostituire a k x il valore
2
k
 perché x non è il k del fotone nel sistema
S, è semplicemente la sua componente x.
La componente x non è data semplicemente da k x  k cos ' perché nelle
trasformazioni di Lorentz non si conservano gli angoli.
Si potrebbe determinare quanto diventa tale angolo in S (cosa che si può fare), ma
probabilmente è più semplice determinare le componenti nel sistema S sulla base delle
componenti nel sistema S’, che conosciamo. E lo facciamo andando a calcolare la
trasformazione inversa: p  ' p ' dove
 

 0
se è   
0

  

0 0   

1 0
0 
0 1
0 

0 0
 
 

 0
è allora '  
0

  

0 0   

1 0
0 
0 1
0 

0 0
 
Calcoliamo anzi solo la componente x di questa trasformazione inversa, e per farlo ci
serve k x '  k ' cos '
 '
c
 '
 '
 '
cos '  
k x  k x '
 k ' cos '

c
c
c
k x  k x '
e lo andiamo a sostituire nell’espressione
 '
 


  k x  che ci dava la quarta
c
 c

compente del quadrivettore nella trasformazione diretta:
 '
 '
 
cos '   

 
c
c
 c

 '

2 2
2
1   2  2   2  cos '

e osservando che 1     
c
c

 '


'

 2 1   cos '


 1   cos '
c
c





che è la formula nota dell’effetto Doppler trasverso nel caso illustrato in figura: sorgente
che si allontana osservata all’angolo  ' .
Se la sorgente si avvicina (o se l’osservatore si avvicina alla sorgente) la formula diventa

 1   cos '
Se la sorgente si allontana lungo l’asse x  cos '  1
' 
135
e la formula diventa quella già vista:  ' 

 1   

1 

1 
Quesito: un rivelatore in S’ riceve due segnali luminosi uno proveniente dalla direzione che forma un
angolo Θ′=0 con l’asse delle x e l’altro da una direzione che forma un angolo Θ′=π/4 inviati da due
sorgenti uguali entrambe in allontanamento. La frequenza misurata del segnale proveniente a Θ=0 sarà:
maggiore/uguale/minore/della frequenza del segnale proveniente a Θ′=π/4 ?
[Risposta corretta: minore]
8.8. Equazione del moto nel formalismo covariante e le Forze
in Relatività. La forza di Minkowski
Equazione del moto relativistica (equazione di Newton)
 dp d

F
 mv
dt dt
La forza è un vettore tridimensionale (triforza):
 l’equazione descrive l’equazione del moto in uno specifico sistema di riferimento
(e abbiamo già analizzato come le componenti della triforza si trasformano
quando passiamo da un sistema di riferimento a un altro);
 l’equazione del moto non è covariante per trasformazioni di Lorentz. È il limite di
questa formulazione; è tuttavia utile averla perché, con tale formulazione, la forza
elettromagnetica ha la formulazione della forza di Lorentz, ovvero la somma di
una parte elettrica e di una magnetica, come siamo abituati ad avere.
Proviamo ad estendere la nozione di triforza a un vettore a quattro dimensioni,
cioè a una “quadriforza”, introduciamo una quarta componente, la componente
temporale: una scelta naturale è quella di andare a considerare la quarta componente (la
componente temporale) del quadrimpulso, e derivare anch’essa rispetto al tempo… e
vedere cosa succede.
dp4 dmc 1 dE


Cerchiamo di riscrivere questa espressione.
dt
dt
c dt
 2
2
2 2
Poiché E  c p   mc , derivando a destra e sinistra rispetto al tempo


dE
d
p


2
2
2
E

2
c
p

p


m
v
E


mc
otteniamo
e tenendo conto che
,
e
dt
dt

 
dp 
2 dE
2
 F otteniamo 2mc
 2c mv  F ovvero
che
dt
dt
F4 


136
 

 

dE
F v
 F  v  F4 
che è il risultato classico, se ricordiamo che F  v è
dt
c
la potenza erogata dalla triforza.
 
  F v 
 , non è però un
La forza a quattro dimensioni così definita, F   F ,
c 

quadrivettore: verifichiamolo!
Esprimiamo le componenti della triforza (la parte spaziale della quadriforza) nel
nuovo sistema S’ utilizzando le trasformazioni viste a suo tempo:
Fx ' 
v  
F v
c2
v v
1 2 x
c
Fx 
Fy ' 
1

Fy
 
vv 
1  x 2 
c 

Fz ' 
1


Fz
 v x v 
1  2 
c 

v  
F v
2
c
   Fx  F4 
Se fosse un quadrivettore dovrebbe essere Fx ' 
v v x
1 2
c
e le componenti y e z non dovrebbero nemmeno cambiare: Fy '  Fy e Fz '  Fz
Fx 
La quadriforza costruita non è un quadrivettore. Perché questo succede? E come
possiamo ovviare al problema? Il ragionamento che facciamo (e la soluzione che diamo)
è lo stesso che abbiamo dato per la velocità: nello scrivere
 
dp   F  v 

F
  F,
dt 
c 
osserviamo che il numeratore si trasforma come un quadrivettore, mentre il
denominatore non è uno scalare ma una quantità che si trasforma come una
componente temporale di un quadrivettore; al denominatore avremmo bisogno di uno
scalare relativistico, e abbiamo già visto che lo scalare relativistico che possiamo usare è il
tempo proprio (quello misurato nel sistema rispetto a cui la particella è ferma) dt0 
Con questa sostituzione otteniamo
 
dp   F  v 

FM  
  F , 
dt 
c 
detta FORZA DI MINKOWSKY.
La forza FM , di Minkowsky, è un quadrivettore.
137
dt

 
dp
dp   F  v 
 è la forma covariante
FM 

  F , 
Riassumendo:
dt0
dt 
c 
 


dp
F v 


F


F
,
dell’equazione del moto. Invece
dt 
c  , dove la prima componente
(tre componenti) costituisce la triforza, è la forma non covariante dell’equazione del
moto.
Si può usare sia un approccio che l’altro: quando sono in un sistema di riferimento
ben preciso e voglio analizzare l’equazione del moto mi conviene utilizzare il concetto di
triforza (ad esempio la forza elettromagnetica, in tutti i sistemi di riferimento vale



  dp
F  qE  qv  B 
) e usare il concetto di forza di Minkowsky quando devo passare
dt
da un sistema di riferimento a un altro.
8.9. Trasformazioni del campo elettrico e magnetico
A questo punto ci possiamo chiedere come ricostruire le trasformazioni del campo E e
del campo B nel formalismo covariante.
Qual è la procedura?
• Noti i campi E e B in S posso sempre calcolare la forza di Lorentz (triforza);
• poi determino la forza di Minkowsky (moltiplicando per γ);
• la trasformo in S’;
• determino la triforza in S’ (dividendo per γ);
• determino i campi assumendo che la triforza sia della forma di Lorentz anche in S’.
Questa procedura, fatta su un numero sufficiente di casi, è in grado di darci tutte le
formule di trasformazione dei campi E e B.
Cinque erano i casi che avevano visto in uno dei capitoli precedente. Vediamone
solo uno:
138
Caso 1: carica in moto lungo x con velocità vΩ in presenza di campo elettrico
lungo x e magnetico perpendicolare (lungo y)

FL  qEx ,0, qv By 
Dalla triforza ricaviamo la quadriforza di Minkowsky:
Ev 

FM     qEx ,0, qv B y , q x  
c 

Applichiamo la trasformazione di Lorentz
qv B qE v

Ev
2
FM '     qEx    q x  ,0,  y , x     qEx 
c

c


Consideriamo solo le componenti spaziali e ricaviamo la forza di Lorentz in S’
FL '   
2
qv B

Ev
 qEx    q x  ,0,  y
c




  qE '

(dovrei dividere per γ’ ma in S’ la particella è ferma e dunque γ’=1: in questo caso la
parte spaziale della forza di Minkowsky è proprio la forza di Lorentz, che sulla particella
ferma è data solo dalla forza elettrica).
L’ultima identità implica


Ev 
2
2
E x '     E x    x    E x  1   2  E x
c 

Ey '  0
2 v B
E z '     y  cB y

La componente x del campo elettrico nella direzione del moto relativo della particella si
conserva; la componente y della forza di Lorentz è zero e questo ci dice che non c’è
campo elettrico nella direzione y; la componente z è diversa da zero e questo ci dice che
ci sarà anche una componente z del campo elettrico che ottengo imponendo
l’uguaglianza delle due terze componenti. Quella che in direzione z in S era forza dovuta
al campo B, in S’ diventa forza dovuta al campo E.
139
8.10. Formulazione covariante dell’elettromagnetismo
Le equazioni di Maxwell sono covarianti per trasformazioni di Lorentz “per
definizione”, potremmo dire, dal momento che le trasformazioni di Lorentz sono state
determinate proprio come le trasformazioni che lasciano le equazioni di Maxwell valide
nella loro forma ordinaria in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Tuttavia, se le
scriviamo nella forma usuale, questo non è immediato da vedere.
Occorre riscriverle nel formalismo dei quadrivettori per rendere questo aspetto
evidente in sé. Come si procede?
Si scrive una equazione tra due quadrivettori di cui il primo esprime i
campi (elettrico e magnetico) e il secondo le sorgenti (la densità di corrente e la
densità di carica).
Il quadrivettore dei campi non è formato da una combinazione opportuna di E e
B, ma dal potenziale scalare e dal potenziale vettore dei campi E e B.
 V
A   A, 
 c
Campo E e campo B si deducono dal potenziale vettore A e dal potenziale scalare V
mediante le seguenti:



A
E  V 
t
  
B   A
La prima delle due, se trascuriamo la derivata rispetto al tempo, è l’usuale relazione che
lega campo elettrico e potenziale; il secondo termine ci ricorda che un campo elettrico
può anche nascere da un campo B variabile.
Il potenziale vettore A è invece definito tramite la seconda: il campo B è cioè
deducibile dal potenziale vettore A. (L’equazione di Maxwell divB=0 è identicamente
soddisfatta se B è scritto come il rotore di A: la divergenza di un rotore, infatti, è sempre
nulla).
Potenziale vettore A e potenziale scalare V obbediscono entrambi a un’equazione
che è quella scritta sotto:

2


 A
 2 A   0 0 2   0 j
t
 2V

 V   0 0 2  
t
0
2
(*)
Se ad esempio in quella di destra si ponesse ρ=0 si riconoscerebbe subito l’equazione di
un’onda che si propaga con velocità c, ovvero l’onda elettromagnetica (ma non essendo
l’equazione omogenea la soluzione non è così ovvia).
Non andiamo a risolvere tali equazioni; osserviamo solamente che a secondo membro
troviamo le densità di corrente e di carica.
140


j   j , c  0v , 0c  0v ha le
Abbiamo visto che il vettore
proprietà di un quadrivettore in quanto prodotto del quadrivettore velocità per lo
scalare  0 , e lo chiameremo il QUADRIVETTORE DELLE SORGENTI.
Prendiamo le due equazioni sopra e andiamo a riscriverle in modo tale che a secondo
membro compaiano le componenti del quadrivettore delle sorgenti:

2


 A
 2 A   0 0 2   0 j
t
 2V

2
 V   0 0 2  
t
0

rimane uguale

V
2 V

  0 0 2   0 c
c
t c
2
Se ora andiamo consideriamo il quadrivettore potenziale elettromagnetico che ha
come parte spaziale il potenziale vettore e come parte temporale il potenziale
scalare diviso per c
 V
A   A, 
 c

j   j , c 
le due equazioni (*) di pagina precedente si riducono a un’unica equazione per il
quadrivettore A :
 2
2 
    0  0 2  A    0 j
t 

Come sappiamo che A è un quadrivettore? La parentesi tonda è un operatore scalare,
cioè ha la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento legati tra loro da trasformazioni di
Lorentz (come avviene, ad esempio, per la carica); poiché operando su A dà un
quadrivettore  ne deduciamo che A stesso è un quadrivettore.
Quanto visto ci dà la possibilità di passare da un sistema di riferimento a un altro per
descrivere lo stesso fenomeno elettromagnetico:
 noti i campi E e B (o le sorgenti) in S si calcola il quadrivettore A



A   
(bisogna cioè invertire le due equazioni: E  V 
e B   A );
t
 noto A nel sistema S si calcola A '  A con la matrice di Lorentz;
 da A ' si determinano i campi E’ e B’ (ottenendo così le espressioni già
determinate per altra via).
141
8.11. Quesiti ed esercizi
In S un quadrivettore ha componenti (1,0; 0; 0; 3,0); se in S’, in moto lungo l’asse x, la
componente x1' è x1’ = 3,0 la componente x4’ sarà:
a. x4' = 4,1
b. x4' = 4,8
c. x4' = 6,8
d. x4' = 2,1
e. x4' = 7,4
[La risposta corretta è la a.
2
2
2
Il modulo (quadro) del quadrivettore si conserva: (1.0)  (3.0)  (3.0)  x4 ]
2
Un cilindretto carico con densità di carica a riposo ρ0=1,8⋅102 C/m3 è in moto con velocità v =
0,7c. L’invariante s2 del quadrivettore densità di corrente è pari a:
a. s2=−1,6⋅104 A2/m4
b. s2=−2,9⋅1021 A2/m4
c. s2=−3,2⋅104 A2/m4
d. s2=−9,7⋅1012 A2/m4
e. s2=−1,4⋅1021 A2/m4
[La risposta corretta è la b.
Il modulo (quadro) del vettore densità


j   j , c  0v , 0c
si conserva 
s 2  0 v   0 c 
2
2
In un esperimento di scattering Compton con fotoni di energia E = 200 keV, la massima
energia cinetica Ek che l’elettrone di rinculo può acquistare è:
a. Ek = 87, 8 keV
b. Ek = 92,1 keV
c. Ek = 72,0 keV
d. Ek = 112 keV
e. Ek = 128 keV
[La risposta corretta è la a.]
L’energia dell’elettrone di rinculo è massima quando quella del fotone che rimbalza è minima, cioè
quando l’angolo di rimbalzo è 180°. La formula da usare,    '  E K , può essere scritta in
funzione dei dati iniziali nel modo seguente:

1 2h
2h
 ' 

E K   1     1    
 

2h 
 ' mc

 
 ' 
mc  

mc 

2h
h
1

 

E
 87,8keV
mc 2
 2c 2h 
 mc 2 2h

mc

1


 h 
mc 
2
E
 

2
h


142
Una sorgente posta nell’origine del sistema di riferimento S emette fotoni di energia E = 200
keV nella direzione +x; l’impulso dei fotoni misurato da un osservatore S’ che si muove verso la
sorgente nella direzione –x con velocità vΩ = 0,6c è:
a. px′=1,50⋅105 eV/c
b. px′=4,00⋅105 eV/c
c. px′=3,21⋅105 eV/c
d. px′=2,50⋅105 eV/c
e. px′=9,99⋅104 eV/c
[La risposta corretta è la b.]
px ' 
E '  '  1  
E 1 



c
c
c 1 
c 1 
Su una particella inizialmente ferma agisce una triforza F costante diretta lungo l’asse x; le
componenti F1 e F4 della forza di Minkowki in funzione del tempo hanno l’espressione: …
 
dp   F  v  
Fv 
   F ,0,0,
  F , 
Risposta: ricordiamo che è FM  
 . Se F costante e dp=Fdt

dt 
c  
c 
F 2t
allora p = Ft; inoltre: p=γmv: dal confronto delle due ricaviamo γv=Ft/m e dunque F4 
.
mc
Per determinare F1 occorre invece ricavare prima v e quindi γ dalla γv=Ft/m (elevando al quadrato): si
2
 Ft 
 .
ottiene F1  F 1  
 mc 
143
Cap. 9: Conclusioni
In questo capitolo vedremo come lo sviluppo della Relatività ristretta abbia termine con
la teoria della Relatività generale (di 10 anni dopo); daremo alcuni cenni sui problemi e
sulle questioni che portarono Einstein a formulare i principi della Relatività generale (9.2.
L’inizio di una nuova sfida). Spiegheremo cos’è il principio di equivalenza e quali sono le
sue conseguenze. Concluderemo (9.3. L’impatto della Relatività oggi) con le applicazioni:
oggi la RR e la RG sono utilizzate in tutti i momenti della nostra vita, ad esempio
quando utilizziamo un telefono.
9.1. Cosa abbiamo imparato da Einstein
Abbiamo imparato moltissimo. Che cosa gli dobbiamo? Tantissimo.
 Teoria del moto browniano: “Sulla teoria cinetico-molecolare del movimento di
particelle sospese in liquidi a riposo dovuto al calore (1905)
 Effetto fotoelettrico e concetto di quanto di luce (1905)
 Teoria della Relatività Ristretta (1905)
 Teoria della Relatività Generale (1915-1916)
 Basi teoriche del funzionamento dei laser (1917): “Zur Quantentheorie der
Strahlung” (1917)
Ognuno di questi contributi avrebbe meritato il Nobel. Eppure solo con grande
difficoltà e ritrosia gli accademici di Stoccolma si risolsero a dargli il premio. Del resto,
un personaggio in grado di rivoluzionare in maniera così profonda i concetti della fisica
non poteva non suscitare controversie di varia natura.
The Nobel Prize in Physics 1921 was awarded to A. Einstein "for his services to
Theoretical Physics, and especially for his discovery of the law of the photoelectric
effect".
Albert Einstein received his Nobel Prize one year later, in 1922. During the selection
process in 1921, the Nobel Committee for Physics decided that none of the year’s
nominations met the criteria as outlined in the will of Alfred Nobel. According to the
Nobel Foundation’s statutes, the Nobel Prize can in such a case be reserved until the
following year, and this statute was then applied. Albert Einstein therefore received his
Nobel Prize for 1921 one year later, in 1922…
… insieme con Bohr: Bohr per il 1922, Einstein per il 1921.
144
Un altro grande contributo che dobbiamo ad Einstein è quello che chiamiamo
Contributo metodologico
La metodologia che è alla base della relatività ristretta è alla base di quello che fu
chiamato l’ “operazionismo” (o critica operativa) da Percy Williams Bridgman (18821961) ne “La logica della Fisica Moderna” (The logic of modern physics, New York
1927): “nella fisica devono entrare in gioco solo quelle grandezze che si possono definire
in base al metodo con il quale possono essere osservate o misurate sperimentalmente”.
Il merito di Einstein (che ispirò l’opera di Bridgman) fu quello di aver applicato
questo metodo in maniera rigorosa su tutti i concetti, anche e soprattutto su quelli di
tempo e di spazio, che invece erano considerati “self-evident” e sembravano non
necessitare di analisi e definizione.
Quello dell’operazionismo era in realtà di un punto di vista più o meno implicito
in tutta la prassi scientifica moderna, da Galileo in poi, come pure nelle tesi di filosofi
empiristi, positivisti e pragmatisti della stessa epoca; tuttavia una diffusa consapevolezza
al riguardo risulta acquisita da meno di un secolo. L’idea-base dell’operazionismo,
chiaramente esemplificata, secondo Bridgman, dalla relatività einsteiniana e dalle nuove
definizioni (“operative”) ivi suggerite delle nozioni di lunghezza, durata, simultaneità,
nonché da analoghi aspetti della meccanica quantistica e della termodinamica, è che “i
concetti scientifici sono sinonimi dei corrispondenti insiemi di operazioni”.
È proprio nella natura di questo sviluppo metodologico, alla fine della relatività,
farsi la seguente domanda:
 perché i sistemi di riferimento inerziali sono privilegiati?
Di conseguenza:
 è possibile scrivere le leggi della natura anche nei sistemi accelerati?
Infine spunta inevitabile una terza domanda:
 come si concilia l’azione a distanza con la velocità finita della luce?
La meccanica classica (Meccanica newtoniana) in un certo senso questi problemi li aveva
risolti. Infatti


F  ma
è una legge universale che vale in tutti i sistemi di riferimento sia inerziali sia non inerziali
Nei sistemi inerziali le forze originano solo da interazioni tra corpi
Nei sistemi non inerziali le forze originano anche dal moto accelerato.
Nei sistemi non inerziali non vale il terzo principio.
Questo è il punto di partenza di Einstein: come cambiano le leggi della fisica quando
passiamo da un sistema di riferimento inerziale a uno non inerziale?
145
9.2. L’inizio di una nuova sfida
PRINCIPIO DI EQUIVALENZA  Un sistema di riferimento accelerato è
equivalente a un sistema inerziale soggetto a un campo gravitazionale.
Il fatto era già noto prima di Einstein, solo che non aveva ricevuto sufficiente attenzione.
Da dove nasce questo principio? Da una coincidenza numerica, sostanzialmente, ovvero
dal fatto che sperimentalmente si osserva che vi è
equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale
MASSA INERZIALE: proprietà di un corpo che misura la sua capacità a opporsi
all’azione di una forza


F  mi a
MASSA GRAVITAZIONALE: proprietà di un corpo che misura la sua capacità di
attrarre un altro corpo secondo la legge di gravitazione universale
F G
F G
mg M
r2
mg M
r2
 mi a  a  G
M mg
r 2 mi
Se mg  mi l’accelerazione di caduta è la stessa per tutti i corpi. Ed è quello che si
verifica sperimentalmente! Con precisione sempre maggiore.
Verifiche sperimentali e relativa precisione con cui è stata verificata
l’equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale:




Loránd von Eötvös 1885: 10-7; 1909-1922: 5x10-9
J. Renner 1935: 2x10-9
Robert H. Dicke 1964: 3x10-11
Adelberger 2008: 3x10-14
146
Equivalenza tra inerzia e gravità
Einstein studia le conseguenze dell’eguaglianza della massa inerziale e gravitazionale
mediante il seguente esperimento mentale:
A sinistra un osservatore in un campo gravitazionale che misura l’accelerazione di un
oggetto in caduta libera.
A destra un osservatore in un ascensore accelerato
(nello spazio siderale) in assenza di gravità
Nessuno dei due è in grado di distinguere con certezza in quale situazione si trova.
La forza misurata è la stessa nei due casi. L’accelerazione di caduta è la stessa nei due casi
Cosa analoga si verifica se un osservatore si trova in caduta libera e lascia cadere
un oggetto o se si trova in un ascensore nello spazio siderale in assenza di gravità: in
entrambi casi l’osservatore non vedrà cadere l’oggetto.
147
Effetto Doppler gravitazionale
Conseguenza di quanto affermato nel paragrafo precedente è che la frequenza della
luce aumenta quando la luce “cade” sotto l’azione di una forza gravitazionale
Immaginiamo dapprima che la sorgente posta sul soffitto di un ascensore fermo invii un
segnale verso il basso. Il segnale viene rivelato dal rivelatore posto sul pavimento
dell’ascensore (fermo) e non essendoci moto relativo la frequenza misurata è la stessa:
'   .
Immaginiamo (figura a destra) che la sorgente si trovi ferma “in alto” e che invece
il pavimento col rivelatore si muova verso il basso con velocità vΩ: sappiamo (effetto
Doppler relativistico) che la frequenza misurata è minore, proporzionale a quella inviata
1 
1 
Per piccoli β (velocità non relativistiche) la radice quadrata si può sviluppare in serie e si
1 
  1   
trova che si può approssimare come  '  
1 
secondo la legge:  '  
Ora teniamo presente il principio di equivalenza (equivalenza tra inerzia e gravità) e
analizziamo le seguenti due situazioni:
148
La situazione di destra (ascensore in accelerazione verso l’alto con accelerazione g) può
essere analizzata matematicamente (in termini di effetto Doppler)… dopodiché potremo
estendere le conclusioni cui arriveremo anche al caso di presenza di gravità.
Immaginiamo dunque l’ascensore in salita rispetto a S’ con a  g . A un certo
istante la sorgente (che in quel momento avrà velocità v0) invia un segnale di frequenza ω
verso il pavimento dell’ascensore. Per il rilevatore sul pavimento la sorgente luminosa sul
soffitto è una sorgente in avvicinamento:
Quando il segnale raggiunge il pavimento sia il pavimento sia la sorgente avranno una
velocità diversa, che dipende dal tempo (molto breve) che il segnale luminoso impiega ad
arrivare al pavimento:
h
h
 vrel  v  v0  g
c
c
1 
gh 

' 
  1      1  2 
1 
c 

v  v0  g
utilizzando allora il principio di equivalenza possiamo concludere che questo è quello
che accade anche a un fascio di luce che si muove in presenza di un campo
gravitazionale equivalente:
la frequenza della luce aumenta quando la luce “cade” sotto l’azione di una forza
gravitazionale
C’è un altro modo per arrivare alle stesse conclusioni ed è quello di utilizzare il principio
di conservazione dell’energia.
149
Supponiamo di avere una scatola di massa M, ferma, cioè con quantità di moto

p 0e
immaginiamo che nello stesso istante due fotoni con la stessa energia e
opposta quantità di moto colpiscano la scatola e vengano assorbiti dalla scatola stessa.
Secondo quanto abbiamo visto in una lezione precedente questo assorbimento di energia
equivale a un aumento della massa inerziale della scatola.
Immaginiamo ora di spostare questa scatola di una certa quantità h verso il basso: la
forza peso compie un lavoro come indicato in figura: L = M’gh.
Raggiunta questa quota più bassa immaginiamo che per un processo inverso, senza
interventi esterni, la scatola liberi due fotoni con uguale energia (non necessariamente la
stessa dei due fotoni di prima) in due direzioni opposte. La massa della scatola ritorna M.
Adesso riportiamo la scatola all’altezza iniziale e per far questo dobbiamo spendere un
lavoro L = mgh.
Al termine di questo processo ci ritroviamo con la scatola di nuovo con massa M e p =0
nella stessa posizione iniziale: abbiamo cioè compiuto un ciclo. In questo ciclo i due
lavori compiuti dalla forza gravitazionale durante le fasi di discesa e di risalita
ammontano a un totale di
Ltot  M ' M gh
Durante il ciclo c’è stato anche uno scambio di energia con l’esterno pari a
E fotoni  2' 
I due (quattro) fotoni non possono avere la stessa frequenza, altrimenti l’energia non si
conserverebbe.
Se l’energia si conserva, deve valere
e poiché M ' M  
M 'M gh  2' 

2 
2


gh

2


'


gh   '
ricaviamo
,
ossia
c2
c2
c2


 '   1 
cioè deve essere
gh 

c 2  , che è la stessa formula di prima.
I due fotoni, per non alterare l’equilibrio energetico, se emessi ad altezza diversa devono
avere una energia diversa: la frequenza della luce aumenta quando la luce “cade”
sotto l’azione di una forza gravitazionale.
150
La formula precisa è la seguente:
2GM
R  h c 2
2GM
1
Rc 2
1
' 
Questo fenomeno prende il nome di redshift (blueshift nel caso sopra, redshift se la luce
si allontana dal campo gravitazionale): è stato verificato sperimentalmente da
Pound, R. V.; Rebka Jr. G. A.
"Gravitational Red-Shift in Nuclear Resonance"
Physical Review Letters 3 (9): 439–441.
sfruttando il fenomeno di risonanza tra due oscillatori nucleari di 57Fe (ħω=14.4 keV)
posti uno sul tetto e l’altro alla base dell’edificio della Jefferson Tower del campus di
Harvard, distanti 22,5 metri in verticale. Non si ha risonanza se entrambi gli oscillatori
sono in quiete. Si ha risonanza se la sorgente viene fatta oscillare.
La frequenza di assorbimento e di emissione di un fotone dipende da una
proprietà interna agli atomi che cambia in presenza di un campo gravitazionale
Effetto Doppler gravitazionale e curvatura del tempo
Il fatto che questi oscillatori cambino frequenza se spostati verso zone del campo
gravitazionale più intenso o meno intenso ha effetti sul tempo: questi oscillatori
potrebbero essere proprio quelli di cesio con cui vengono costruiti gli orologi atomici e
sulla cui base misuriamo il tempo: il tempo segnato da un orologio atomico cambia
in presenza di un campo gravitazionale.
Vi è un altro fenomeno influenzato dalla presenza di campi gravitazionali ed è
quello della propagazione della luce: i campi gravitazionali attraggono i raggi di luce.
Immaginiamo di avere un tizio con una torcia fuori di un ascensore che punta la luce
contro le pareti (trasparenti) dell’ascensore. Tre sono le situazioni possibili:
 se l’ascensore è fermo un osservatore dentro l’ascensore vede la luce propagarsi in
linea retta;
 se l’ascensore sale con velocità costante, l’osservatore dentro l’ascensore vede la
luce propagarsi in linea retta verso il basso;
 se l’ascensore sale verso l’alto con moto accelerato, l’osservatore vede che il raggio
di luce compie una parabola verso il basso.
151
Detta x la larghezza dell’ascensore, il tratto verticale percorso dalla luce nel terzo caso è
1 2 1 x2
gt  g 2 .
pari a
2
2 c
Il principio di equivalenza ci permette di affermare che in presenza di un campo
gravitazionale diretto verso il basso avverrebbe la stessa cosa: la luce non procede
secondo una linea retta ma devia verso il basso secondo una traiettoria parabolica.
La curvatura dello spazio-tempo
L’intervallo di tempo proprio tra due eventi t0 
relativistico:
t0 

1
 x1A  x1B
c
  x
2
A
2
 x2B
  x
2
1
x A  xB
c
A
3
 x3B
è un invariante
  x
2
A
4
 x4B

2
t0 dipende però dal potenziale gravitazionale in cui si trova l’osservatore.
Il quadri-modulo dipende dalla presenza di un campo gravitazionale.
Occorre modificarne la definizione: la gravità modifica la metrica dello spazio-tempo
r 

ds 2  dx 2  dy 2  dz 2  1  0 c 2 dt 2
r

dove r0 
2GM
c2
Consideriamo infine due punti su una superficie nello spazio di Minkosky. Se la
superficie è piana il percorso più breve tra i due punti è una retta Se la superficie è
curvata il percorso più breve dipende da come la superficie è curvata.
152
Se la distanza tra due punti dipende dal campo gravitazionale equivale a dire che lo
spazio quadrimensionale è curvo e che la sua curvatura dipende dalla intensità del campo
gravitazionale.
Lo spazio-tempo non è piatto e la distanza tra due eventi non è data dal
quadrimodulo dello spazio di Minkowsky, ma deve tener conto del campo gravitazionale
In assenza di altre forze i corpi seguono le geodetiche dello spazio-tempo curvo.
Quale è la metrica corretta?
Einstein impiegò dieci anni per trovare la risposta:
Equazione di campo di Einstein:
R 
1
8G
g  R  g   4 T
2
c
9.3. L’impatto della Relatività oggi
In molti campi della Fisica Moderna occorre considerare gli effetti relativistici per avere
una determinazione esatta delle proprietà del sistema: questo avviene in
Fisica nucleare (fissione, fusione…)
Fisica delle particelle elementari
Un ambito dove l’equivalenza massa-energia è una relazione fondamentale è quello
riguardante gli acceleratori di particelle  fisica delle particelle
fisica medica
radiazione di sincrotrone
Più di 15.000 acceleratori sono oggi operanti nel mondo e solo un centinaio sono
dedicati alle ricerche sperimentali sulle alte energie. La stragrande maggioranza di essi
trova svariate applicazioni nel campo della medicina, dell’industria, dell’ambiente, della
sicurezza. Negli acceleratori le particelle hanno velocità relativistiche e per mantenere tali
particelle confinate nella loro sede occorre usare le formule della dinamica relativistica.
153
Molte proprietà degli atomi dipendono da proprietà relativistiche, in particolare lo spin
degli elettroni, ma in generale tutto ciò che ha a che vedere con il magnetismo (anche se
non sempre in misura significativa) dipende dalla relatività.
Ma è nella vita quotidiana che, senza saperlo, abbiamo a che fare continuamente
con la relatività. Se non vogliamo parlare dei vecchi televisori a tubo catodico, dove
bisognava tener conto di piccoli effetti relativistici per il corretto funzionamento
dell’apparecchio, non possiamo però fare a meno di citare un’applicazione che abbiamo
sotto gli occhi tutti i giorni: il GPS.
Il Global Positioning System (GPS) è formato da 24 satelliti in orbita circolare intorno
alla terra con periodo di 12 ore, distribuiti in sei piani orbitali equispaziati in angolo; (in
modo che da ogni punto della Terra un certo numero di questi satelliti sia sempre
visibile, un numero non piccolo, sei o sette). Ciascun satellite ha a bordo un orologio
atomico che emette segnali con un codice che dà il tempo e la posizione del satellite.
Analizzando i segnali, un ricevitore sulla terra mediante un microprocessore può
determinare la posizione (latitudine, longitudine e altezza) del ricevitore.
L’attuale precisione per uso civile è intorno ai tre metri. (Per l’uso militare la
precisione è dell’ordine delle decine centimetri!!).
Che c’entra la relatività col GPS?
Il satellite si trova a una certa altezza. Gli orologi atomici a bordo dei satelliti si trovano
in un campo gravitazionale che è diverso da quello sulla Terra  i due orologi sfasano
di un tempo t2  45.7s / d (più veloce sul satellite), tempo che, moltiplicato per la
velocità della luce dà differenze dell’ordine dei chilometri.
Inoltre il satellite è in moto con velocità di circa 14x103 Km/hr rispetto alla Terra 
t1  7.1s / d (più lento sul satellite). L’effetto globale è uno sfasamento
t  38.6 s / d (corrispondente a circa 10 Km/d !!!)
Gli orologi vengono corretti in modo da compensare gli effetti relativistici. E come si fa?
Tutto sommato in maniera semplice, ossia cambiando la definizione di tempo sul
satellite rispetto alla Terra.
154
Carlo Dariol : Sono relativamente soddisfatto.
EDIZIONI DEL CUBO
Ultima revisione: dicembre 2016
155