REPORTAGE www.methodejournal.org Arte: prospettive tra estetica, filosofia e critica DAVIDE DAL SASSO VINCENZO SANTARCANGELO Keywords: Università degli Studi di Torino [email protected] [email protected] Philosophy, Aesthetics, Arts, Museum Pages: 87 – 121 Abstract This article proposes a report of the research activities conducted during the Dialoghi di Estetica (Dialogues on Ethics), a cycle of seminars and conferences dedicated to the relationship between philosophy and art, which was held during the Summer School 2012 at the Rivoli Castle, Museum of Contemporary Art. The text is divided into two parts. In the first one, a brief introduction of the project is followed by a deeper analysis of the single subjects that were dealt with, in order to provide an overview of the activities that took place over the two days within the perspective of aesthetics and philosophy of art. The second part is constituted by contributions, in the form of interviews, by some of the speakers of the conferences. Contributions by: Tiziana Andina, Maurizio Ferraris, Giovanni Matteucci, Stefano Velotti. METHODE ISSN: 2281-0498 87 ISSUE I REPORTAGE 1. Dialoghi di Estetica: lineamenti del progetto e temi affrontati Il progetto dei Dialoghi di Estetica si basa sulla possibilità di indagare il fenomeno arte attraverso una metodologia interdisciplinare, che favorisca il confronto e il dibattito tra filosofi, critici, teorici dell‘arte, artisti ed esperti di rilievo del panorama artistico contemporaneo. In occasione di questa seconda edizione1, incentrata sull‘ontologia dell‘[opera d‘]arte, sono state proposte sei giornate di ricerca. A ciascuna corrisponde un tema specifico ritenuto rilevante sia per l‘evoluzione dell‘arte, sia per la ricerca e gli sviluppi sul piano della produzione teorica contemporanea. 2 Due le principali attività delle giornate: i seminari mattutini e le conferenze pomeridiane. I concetti presi in esame sono stati i seguenti: aisthesis, interpretazione, finzione, arte, esperienza e mondo dell’arte. A un gruppo selezionato di studenti, dottorandi e ricercatori con formazione filosofica e storico-artistica, è stata data l‘opportunità di partecipare attivamente ai seminari mattutini di approfondimento, e alle conferenze pomeridiane durante le quali i relatori invitati hanno esposto le proprie tesi pertinenti ai temi menzionati. Di seguito proponiamo una panoramica delle singole giornate di lavoro, utile anche a delineare il contesto generale delle teorie presentate nel quadro dell‘estetica e della filosofia dell‘arte. 1.1. Aisthesis. La seduta seminariale d‘apertura ai lavori della settimana è stata dedicata a sensibilità e percezione, attività essenziali nel processo esperienziale e conoscitivo in cui è coinvolto l‘essere umano con il mondo 1 La prima edizione dei Dialoghi di Estetica, a cura di Davide Dal Sasso, si è tenuta nel maggio del 2011 nelle sale del Circolo dei Lettori di Torino. Punto di avvio per le quattro conferenze è stata la riedizione di Estetica Razionale ( Raffaello Cortina, 2011), l’importante testo di Maurizio Ferraris che ha contribuito a riaprire il dibattito in merito alla concezione dell’estetica intesa come aisthesis. Attraverso un confronto tra filosofi, critici e artisti, si è tracciato lo spazio della discussione ri spetto alle nuove vie della ricerca in estetica e in filosofia dell’arte. A questa prima edizione hanno partecipato, tra gli altri: Tiziana Andina (filosofa, Università di Torino), Alessandro Arbo (filosofo, Università di Strasburgo), Carola Barbero (filosofa, Università di Torino), Luca Beatrice (curatore e storico dell’arte, Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino), Paolo D’Angelo (filosofo, Università di Roma Tre), Maurizio Ferraris (filosofo, Università di Torino), Pietro Kobau (filosofo, Università di Torino), Jerrold Levinson (filosofo, University of Maryland, College Park) e Alberto Voltolini (filosofo, Università di Torino). 2 La seconda edizione dei Dialoghi di Estetica, la cui direzione scientifica è di Tiziana Andina assistita alla curatela da Davide Dal Sasso, rientra nel progetto generale di Summer School 2012 a cura del Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, coordinato da Anna Pironti. I seminari sono stati coordinati da: Davide Dal Sasso, Vincenzo Santarcangelo, Daniela Tagliafico e Enrico Terrone. Alle conferenze hanno partecipato i seguenti relatori: Valerio Adami (artista), Tiziana Andina (filosofa, Università di Torino), Alessandro Arbo (filosofo, Università di Strasburgo), Stefano Arienti (artista), Carola Barbero (filosofa, Università di Torino), Chiara Cappelletto (filosofa, Università di Milano), Martina Corgnati (storica dell’arte, Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino), Paolo D’Angelo (filosofo, Università di Roma Tre), Gianluca e Massimiliano De Serio (artisti), Fabrizio Desideri (filosofo, Università di Firenze), Giuseppe Di Giacomo (filosofo, Università di Roma “La Sapienza”), Maurizio Ferraris (filosofo, Università di Torino), Massimo Fusillo (critico letterario, Università dell’Aquila), Wolfgang Huemer (filosofo, Università di Parma), Pietro Kobau (filosofo, Università di Torino), Masbedo (artisti), Giovanni Matteucci (filosofo, Università di Bologna), Marzia Migliora (artista), Pietro Montani (filosofo, Università di Roma “La Sapienza”), Demetrio Paparoni (critico d’arte), Andrea Pinotti (filosofo, Università di Milano), Francesco Poli (storico dell’arte, Università di Torino), Francesco Recami (scrittore), Elisa Sighicelli (artista), Stefano Velotti (filosofo, Università di Roma “La Sapienza”), Giorgio Verzotti (curatore e critico d’arte), Alberto Voltolini (filosofo, Università di Torino). METHODE ISSN: 2281-0498 88 ISSUE I REPORTAGE esterno. A questo proposito, ben prima di affrontare le questioni dell‘arte, sono stati presi in esame e discussi: i) la concezione dell‘estetica come aisthesis (Ferraris 1997); ii) la priorità logica tra estetica e arte (Sibley 1992); e iii) il primato della percezione nel processo conoscitivo delle opere rappresentazionali pittoriche (Wollheim 1968, 1998). Nel primo caso, sono state discusse le tesi presentate da Maurizio Ferraris che, mettendo in risalto l‘autonomia della percezione quale insieme di strumenti sensoriali attraverso cui è possibile venire a conoscenza del mondo esterno, di che cosa c’è in esso, torna alla concezione baumgarteniana dell‘estetica definita nel Settecento, «scienza dell‘esperienza sensibile» e «analogo della ragione». Definizione, come noto, elaborata sulla base della distinzione leibniziana tra conoscenze oscure e chiare, distinguibili a loro volta in conoscenze chiare distinte e conoscenze chiare confuse. Queste ultime, preliminari alle prime, sono presenti in maggioranza nel processo di continua esperienza che si fa del mondo esterno. Rispetto alla nascita del sistema delle belle arti e della percezione del bello, l‘estetica viene intesa come una dottrina della sensazione che non raggiunge il suo perfezionamento nell‘annullamento del sensibile. Al contrario, esattamente seguendo Baumgarten, essa riconcilia due vie autonome: quella della percettologia e della psicologia con quella della precettistica sull‘arte e la bellezza. Ferraris indaga la sensibilità affrontando il problema della conoscenza, e dedica particolare attenzione alla finitezza dell‘intelletto umano. La linea di ricerca intorno all‘estetica che si concentra sulle sensazioni, l‘immaginazione e l‘intelletto ha origine in Aristotele, attraversa la Scolastica, passa per Leibniz e Wolff, giungendo fino a Baumgarten. Ossia esattamente fino al momento in cui nasce e si formalizza la disciplina denominata da allora ‗estetica‘. Momento in cui è altrettanto possibile riscontrare che l‘estetica «non è una scienza della sensazione in quanto tale […] bensì una scienza della sensazione iscritta e ritenuta, per esempio nella mente o nella immaginazione come tabula rasa» (Ferraris 1997, p. 49). Menzionando la correlazione tra estetica e logica, Ferraris indica la posizione privilegiata dei sensi, rivelatori di quanto la mente sia intimamente legata al corpo, di fatto, un suo assottigliamento. Viene qui affrontato un problema filosofico di vecchia data: seppure tutte le sensazioni siano vere, non è possibile identificarle con la conoscenza. Oppure, detto altrimenti, e seguendo il monito cartesiano, diffidare dei sensi poiché questi spesso ingannano. La concezione dell‘estetica difesa da Ferraris intende inoltre porsi come un‘interrogazione rivolta direttamente alla teoresi filosofica e al suo rapporto METHODE ISSN: 2281-0498 89 ISSUE I REPORTAGE con l‘azione e il senso comune. La filosofia conferma il senso comune nonostante tenti di allontanarsene, compiendo così quella che l‘autore definisce «fallacia trascendentale», ossia la confusione tra il piano dell‘ontologia e quello dell‘epistemologia. Affinché la filosofia possa realmente prendere distanza dal senso comune, lo studio della sensibilità dovrebbe, nota Ferraris, essere prioritario. La filosofia dovrebbe prima di tutto riconoscere l‘autonomia e l‘inemendabilità della sensibilità rispetto all‘intelletto, a testimonianza dell‘indipendenza del mondo esterno dai nostri schemi e concetti soggettivi. L‘estetica, intesa come analogo della ragione, favorisce una maggiore comprensione del rapporto tra mente e mondo, in quanto determinato dalla sensibilità, valutando inoltre il legame tra immaginazione e registrazione. Con la nascita dell‘estetica subentra anche la difficoltà della sua autonomia, quale «scienza della conoscenza confusa» basata su percetti e non ancora su concetti, discutibile tanto nella psicologia quanto nell‘arte. Proprio per questo, oltre all‘apertura verso l‘evidenza di un mondo sensibile, si palesa anche la necessità di un‘altra scienza che si occupi degli enti, l‘ontologia. Ferraris sottolinea pertanto il nesso tra l‘aisthesis, la ritenzione e l‘accumulo di tracce. E mostra come tale nesso non sia rilevante per una filosofia dell‘arte, ma proprio per la filosofia stessa, che procede nella sua analisi riscontrando che «non si può pensare senza immagini, quanto dire senza la traccia di un percetto» (ivi, p. 55). Il nesso tra estetica e ontologia ha a che fare con la rilevanza della traccia e della registrazione. Per cogliere quanto presente nel mondo esterno, è necessario un atto in cui sensibilità e intelletto si fanno tutt‘uno. Attraverso questo atto si ottiene un sapere grossolano antecedente al linguaggio ma non alla scrittura, proprio perché è una traccia sensibile a essere iscritta in una memoria, e questo può avvenire solo per mezzo della ritenzione. «Una volta incamerata la traccia non è più passiva, anche se nessuna attività sembra averne regolato l‘iscrizione; è, almeno in senso humeano, una idea, che posso liberamente riaggregare, così come da un uomo e da un cavallo si ricava un centauro. […] Non si vuol dire, dunque, che la traccia idealizzata sia lo stesso della sensazione […]. Prima è l‘impressione sensibile, dopo è una idea: ma il prima e il dopo avvengono nello stesso tempo, un tempo che risulta determinato dalla iscrizione» (ivi, p. 468). Di fronte il divario tra filosofia dell‘arte ed estetica, intesa come dottrina della sensibilità, è ancora una volta la posizione baumgarteniana a indicare la via, attraverso il battesimo della disciplina che avviene ben prima della nascita del sistema delle arti. Ma ne sono altrettanto conferma le numerose ricerche di autori settecenteschi che attestano il fatto che «anche una estetica che sia METHODE ISSN: 2281-0498 90 ISSUE I REPORTAGE protesa sistematicamente verso le opere, non recide sino in fondo, e per ragioni essenziali, il rapporto con una dottrina (che è sempre più di un appello generico) della sensibilità» (ivi, p. 67). Baumgarten ha il merito di trovare una giustificazione gnoseologica per spiegare l‘assenza di un distacco tra sensibile e intelligibile, divario che è invece determinante per il pensiero filosofico di Kant. Ferraris osserva che proprio ritornando alla posizione baumgarteniana è possibile cogliere l‘emergere della «fisionomia di una episteme che ha poco da fare con le poetiche (e che dunque non autorizza né per sinergia né per allergia la filosofia dell‘arte), rispondendo piuttosto a interrogativi praticati per lo più da altre discipline, siano la gnoseologia, la psicologia, la fenomenologia o la ontologia». I quesiti che ineriscono a un orizzonte come questo non sono quindi che «cosa è l‘arte?» o «come è l‘arte?», ma piuttosto «che cosa c‘è?», «che cosa si produce quando si produce?» o «cosa significa inventare?» (ivi, p. 69). Emerge quindi con chiarezza la tesi realista di Ferraris, che in proposito scrive: «Il volto di una estetica, per nulla paradossalmente, si potrà ben riconoscere senza guardare a una sola opera d‘arte – e avendo di mira piuttosto una sfera che inerisce prioritariamente alla psicologia, alla percettologia e alla ontologia.» (ivi, pp. 69-70). Altrettanto centrale per Ferraris è il rilievo dell‘immaginazione, intesa come ritenzione di materiali percepiti in precedenza dal mondo esterno. Il lavorio dell‘immaginazione ritentiva permette di mostrare la continuità tra mente e corpo, così come i rapporti tra pensiero ed estensione, prendendo in considerazione ciò che determina il nesso tra apriori e aposteriori nella ragione, ossia la traccia. Questa è iscrizione che si pone tra natura e cultura e che rievoca il legame intrinseco che sussiste tra la sensibilità e la possibilità di catalogare che cosa c‘è nel mondo. Diversamente dalla filosofia dell‘arte, radicata nella concezione di un mondo apparente di illusioni e rappresentazioni, il cui metodo ha spesso causato la priorità dell‘interpretazione rispetto al pensiero critico e all‘ontologia, Ferraris difende una rifondazione dell‘estetica che passi attraverso l‘indagine del modo in cui qualcosa esiste. Il dispiegarsi dell‘impianto teoretico che vede nell‘estetica come aisthesis la filosofia stessa, la produzione di pensiero fondata sulla ragione e determinata dalla percezione di quel che c‘è nel mondo esterno, emerge qui con chiarezza. L‘analisi prosegue dunque in direzione dell‘ontologia, aprendo alla produzione delle interpretazioni, quindi all‘ermeneutica, e all‘esperienza del mondo esterno basata sulla filosofia come scienza rigorosa, volgendo quindi il proprio sguardo alla fenomenologia. Sarà infine la dottrina delle tracce, l‘icnologia, a completare il quadro ontologico dell‘estetica, orientato dal rilevante fatto che METHODE ISSN: 2281-0498 91 ISSUE I REPORTAGE «le operazioni ontologiche più numerose e decisive – negli uomini come negli animali – avvengono in assenza di idee chiare e distinte, e più spesso comportano anzi percezioni non accompagnate da appercezioni» (ivi, p. 110). Dalla concezione dell‘estetica come aisthesis le ricerche sono state indirizzate verso un quesito presentato in sede di estetica analitica da Sibley (1992), circa la priorità logica tra il concetto di arte e quello di estetica. Il filosofo si chiede quale sia l‘origine del concetto di estetica, valutando se questo valga solo per le opere d‘arte o anche per altri tipi di oggetti. A differenza di una prospettiva ampiamente diffusa in posizioni teoriche del passato, secondo le quali prima verrebbe l‘arte, poi l‘estetica, Sibley ritiene invece che «il concetto di arte dipenda logicamente da quello di estetica», osservando che «se questo è corretto, segue direttamente che la nozione di estetica ha un‘origine, un‘esistenza indipendente dalle arti e non viceversa, e che l‘esperienza di fenomeni non artistici, come artefatti o oggetti naturali, viene logicamente prima dell‘interesse per le arti e prima della loro esistenza» (Sibley 1992, p. 137). Dichiarare la priorità dell‘estetica rispetto all‘arte non vuol dire comunque fornire una prova del fatto che le persone abbiano un interesse estetico rivolto verso gli oggetti naturali prima di averne uno verso gli oggetti fatti dagli uomini. È ben possibile che un cumulo di sabbia su una spiaggia non sia d‘interesse alcuno in quanto oggetto naturale, ma che risulti invece rilevante per qualcuno che, disponendo del concetto «castello di sabbia», lo usi per chiamare quel tale oggetto esattamente in quel modo. L‘argomento presentato da Sibley riguardo alla priorità dell‘estetica rispetto all‘arte tuttavia non nega che si possa avere acquisito la nozione di «esperienza estetica» anche attraverso un contatto diretto con le opere d‘arte. Alla base di questa posizione sembra esserci una premessa di questo tipo: «niente è arte se non viene fatto con intenzioni estetiche», ma come osserva Sibley, ma tale premessa viene smentita dal fatto che «l‘intenzione di non produrre arte, o di produrre ciò che non è arte, richiede comunque un concetto di arte». Parimenti, la possibilità di riconoscere alcuni lavori moderni e contemporanei come nuove forme d‘arte o meno «presuppone un concetto familiare di arte e quindi di estetica». I ready-made, gli happening, la scrittura automatica o la musica aleatoria, prosegue il filosofo, «senza quest‘ultimo concetto non potrebbero esistere» (ivi, p. 138). Sibley osserva che è possibile riscontrare le basi e le origini dell‘interesse estetico come profondamente radicate nelle reazioni umane agli oggetti ordinari prima ancora che a quelli d‘arte. In questi termini sarebbero dunque l‘interesse e le soddisfazioni per le attività umane, per il lavoro, per le costruzioni o per il giardinaggio, per gli animali, la natura e le attività sportive, o il fascino per ciò che è strano così come la meraviglia e METHODE ISSN: 2281-0498 92 ISSUE I REPORTAGE l‘ammirazione, a essere stati mentali che hanno a che fare con l‘estetica. Tutte queste, osserva Sibley, «sono attività in cui un considerabile numero di persone reagisce in qualche misura secondo un godimento, un compiacimento che è estetico», anche se potrebbe benissimo trattarsi di persone che «non hanno una conoscenza significativa delle arti o delle reazioni ad esse» (ivi, p. 140). L‘ultimo punto, pertinente tanto alle tesi riguardo all‘aisthesis e al suo rapporto con l‘ontologia, quanto al primato logico del concetto di estetica, riguarda la percezione delle opere rappresentazionali pittoriche. Wollheim (1968), presentando la propria ontologia dell‘arte, associa la nozione di rappresentazione a quella di vedere come [seeing as], mutuata dalla seconda filosofia wittgensteiniana (Wittgenstein 1953). Egli osserva che le opere d‘arte sono oggetti materiali che hanno due proprietà che li rendono tali: quelle rappresentative e quelle espressive. La rappresentazione garantisce che l‘opera si distingua da un qualunque oggetto, poiché permette di avanzare attribuzioni e giudizi basati sulla rilevazione di particolari elementi che determinano le sue proprietà rappresentazionali. Wollheim introduce il concetto di «vedere rappresentativo», postulando esattamente che la rappresentazione sia spiegabile con, e intimamente legata a, il vedere come. Una cosa rappresenta un‘altra, nota il filosofo, non per semplici motivi di somiglianza. Quest‘ultima è tipicamente una nozione ellittica, dipendente dal contesto, e che, essendo in sostanza interna alla rappresentazione, non può svolgere una funzione utile per spiegarla. Ancor meno utile per il medesimo scopo è l‘intenzione dell‘artista, di sicuro rilevante ai fini dell‘opera, in quanto relazione tra pensiero e azione, ma non concepibile come condizione necessaria o sufficiente per la rappresentazione. Quest‘ultima è un segno visivo, che ricorda qualcuno o qualcosa, ed è legata alla cultura che determina il modo di creare tale segno e il suo contenuto. Né la rappresentazione nella sua globalità, né l‘oggetto da essa rappresentato possono tuttavia valere come criteri riguardanti le proprietà che vengono percepite. Proprio perché non si percepisce, per esempio, la reale tridimensionalità dell‘oggetto osservando un‘opera pittorica che rappresenta una sfera. Wollheim suggerisce quindi che quanto non può essere sentito o percepito direttamente sia una «sensazione ideata», una sorta di riunione tra percezione diretta e indiretta: osservazione che lo porta a sostenere che l‘arte sia un fenomeno storico. In seguito, Wollheim (1998) ritorna sul nesso rappresentazionepercezione. Attraverso un‘articolata analisi mostra che qualsiasi ipotesi teorica che si occupi della rappresentazione pittorica non può che essere determinata da una analisi della percezione. Giungere a una buona teoria, METHODE ISSN: 2281-0498 93 ISSUE I REPORTAGE afferma il filosofo, implica basarla sul «requisito minimo», ossia porre a suo fondamento il fatto che «la rappresentazione pittorica è un fenomeno percettivo» (ivi, p. 258). A determinare che cosa sia la rappresentazione è la capacità di riconoscimento di ciò che c‘è. Si tratta di una capacità percettiva definita «vedere-in» [seeing in], che è «precedente sia logicamente sia storicamente, alla rappresentazione. Logicamente perché riusciamo a vedere le cose su superfici che non sono rappresentazioni e che neppure prendiamo per rappresentazioni […]. E, storicamente, in quanto è indubbio che i nostri lontani antenati facessero queste cose prima di pensare di decorare le caverne in cui vivevano con immagini degli animali che cacciavano» (ivi, p. 266). Il vedere-in è l‘esperienza appropriata di vedere nella superficie pittorica la rappresentazione. Vale a dire quello di cui il quadro è immagine. Secondo Wollheim a determinare quella che è un‘esperienza fenomenologica del vedere-in sarebbe una singola esperienza che ha due aspetti, definiti «configurativo» e «riconoscitivo», che permettono in sostanza di cogliere la superficie pittorica e ciò che questa rappresenta. L‘oggetto e l‘immagine. Tuttavia il vedere-in non ha niente a che fare con la rassomiglianza, avendo priorità rispetto a questa ed essendo un valore fondante per la rappresentazione. A quest‘ultima è posto un vincolo, quello della visibilità, vincolo prioritariamente percettivo. «La rappresentazione non è tenuta a limitarsi a quello che si può vedere dal vivo: è invece tenuta a limitarsi a quello che si può vedere su una superficie segnata» (ivi, p. 271). L‘osservazione di Wollheim è decisiva: è ben possibile vedere qualcosa che è su una superficie ma che non è visibile dal vivo, ed è esattamente questo a determinare la rappresentazione. In altri termini, è ben possibile vedere un unicorno su una tela dipinta, pur non avendone mai visto uno dal vivo. Nell‘articolare le sue tesi, Wollheim sottolinea sia la permeabilità del vederein al pensiero, sia la permeabilità dell‘immaginazione al pensiero, e riscontra la priorità della percezione in entrambi i processi. La percezione non può essere sostituita neppure nei casi in cui si voglia comprendere un‘opera d‘arte ricorrendo all‘intenzione dell‘artista che l‘ha realizzata, poiché da questo consegue un ulteriore problema: se quel che un osservatore può fare «è rifarsi all‘intenzione dell‘artista e interpretare l‘opera di conseguenza, e non c‘è segno di questo nella sua esperienza del quadro, le condizioni della rappresentazione non saranno state soddisfatte.» Per questo Wollheim conclude osservando che «La rappresentazione è percettiva.» (ivi, p. 276). 1.2. Interpretazione. Il rapporto tra arte e interpretazione è stato al centro della seconda giornata di studio. Riconoscendo l‘ampiezza dell‘argomento METHODE ISSN: 2281-0498 94 ISSUE I REPORTAGE trattato, sono stati selezionati materiali di ricerca utili ad approfondire in particolare il dibattito in corso rispetto a: i) il ruolo saliente dell‘interpretazione nella filosofia dell‘arte elaborata da Danto (1973, 1981), ii) la concezione dello «sguardo» dell‘opera d‘arte proposta da Levinson (1979) e infine iii) le critiche all‘ermeneutica in rapporto al quadro offerto da Ferraris (2007) nella sua teoria normalista dell‘arte. In un suo celebre articolo, The Artworld (1964), il filosofo americano Arthur C. Danto propone di definire che cosa è arte non secondo una valutazione delle qualità formali esteriori delle opere, ma cogliendo in esse qualcosa di non percepibile a prima vista. Danto indica il livello della teoria e della conoscenza tanto della storia quanto di quello che definisce «mondo dell‘arte». Il concetto di «arte», in questi termini, corrisponde alla classe delle opere, intese come oggetti ai quali si aggiunge una «teoria», o, come il filosofo indicherà più tardi, una «interpretazione» (Danto 1981, p. 145). Il problema sollevato dall‘autore, e che lo vede impegnato nelle sue ricerche dagli anni Sessanta3, è dunque quello di comprendere come sia possibile che due indiscernibili abbiano uno statuto ontologico diverso: una è un‘opera d‘arte, l‘altra un mero oggetto ordinario. Il filosofo rileva che le proprietà fisiche dell‘opera non coincidano interamente con le proprietà che la rendono tale. È in questo senso che Danto ritiene che le opere d‘arte siano degli embodied meanings, ossia dei veicoli semantici.4 Le opere d‘arte, come le parole, sono a proposito di qualcosa. «Le opere d‘arte come classe si contrappongono alle cose reali nello stesso modo in cui vi si contrappongono le parole, anche se sono reali in ogni altro senso. Poiché si situano alla stessa distanza filosofica dalla realtà in cui si situano le parole, e poiché situano chi le considera come opere d‘arte a un‘analoga distanza – e poiché questa distanza copre lo stesso spazio nel quale i filosofi hanno sempre lavorato – c‘è da aspettarsi che l‘arte abbia una pertinenza filosofica.» (Danto 1981, p. 99). La proprietà essenziale da rilevare al fine di distinguere le opere d‘arte dagli oggetti quotidiani è una caratteristica relazionale non esibita, la proprietà dell‘aboutness, ossia esattamente dell‘essere a proposito di qualcosa. Le opere d‘arte, per essere tali, sono sempre a proposito di qualcosa, anche nel caso in cui siano astratte. 5 Interpretare un dipinto è un‘attività complementare alla sua realizzazione. Un‘attività che vede impegnato un fruitore che si relaziona a un artista, alla 3 Più precisamente dal 1964, quando alla Stable Gallery di Manhattan Danto vede per la prima volta le Brillo Box, ossia le riproduzioni in compensato serigrafato delle scatole di pagliette da cucina, ideate dal noto artista pop Andy Warhol. 4 Come correttamente osservato da Andina (2010), in questo modo Danto individua lo spazio ontologico in cui collocare le opere d’arte: “i veicoli semantici hanno la singolare proprietà di rimandare a significati che trascendono la loro specifica conformazione fisica e, per un verso, sono straordinariamente simili alle parole: la parola “casa”, non è scritta a forma di casa” (Andina 2010, p. 89). 5 Vedi Infra 1.6. METHODE ISSN: 2281-0498 95 ISSUE I REPORTAGE pari di un lettore con uno scrittore, istituendo un rapporto di collaborazione spontanea. Più specificamente, Danto osserva che interpretare un‘opera significa offrire una teoria su ciò a proposito di cui l‘opera è. L‘attività interpretativa deve essere giustificata dall‘identificazione di una struttura narrativa. Una storia che il dipinto non narra, ma che anzi presuppone affinché si possano integrare i suoi elementi in una costruzione generale significante. La struttura dell‘opera, il sistema delle identificazioni artistiche, subisce pertanto trasformazioni per ogni diversa interpretazione. Al contrario, non interpretare un‘opera d‘arte vuol dire non essere capaci di parlare della sua struttura: vederla in modo neutro, per esempio come mera controparte materiale di un‘opera. E questo significa non vederla come arte. L‘interpretazione appartiene analiticamente al concetto di opera d‘arte. Vedere un‘opera d‘arte senza sapere che si tratta di un‘opera d‘arte, secondo il filosofo, è paragonabile in un certo senso, all‘esperienza che si ha delle lettere stampate prima di aver imparato a leggere. Vedere l‘opera d‘arte, attraverso il processo interpretativo, corrisponde quindi a passare dal regno delle cose a quello del significato. In arte ogni nuova interpretazione è considerabile come una rivoluzione copernicana: ogni nuova interpretazione costituisce una nuova opera, anche se l‘oggetto differentemente interpretato resta, come i cieli, un‘invariante. Un oggetto «o» è un‘opera d‘arte solo a condizione di un‘interpretazione «I», dove «I» è una specie di funzione «f» che trasfigura «o» in un‘opera. Quindi, anche se «o» è una costante percettiva, le possibili varianti in «I» costituiscono comunque opere diverse. La forma dell‘opera è quella porzione circoscritta che l‘interpretazione seleziona. Quella porzione circoscritta corrisponde a quel che Danto intende per opera, il cui, parafrasando Berkeley, esse est interpretari. La posizione del filosofo apre quindi alla seguente possibilità: si può essere realisti riguardo agli oggetti e idealisti rispetto alle opere d‘arte. E questo può essere considerato come il nocciolo di verità della tesi secondo cui senza il mondo dell‘arte non c‘è arte. Come ricordato poco sopra, l‘arte è un fenomeno la cui esistenza dipende da teorie. Vedere qualcosa come arte necessita dell‘atmosfera di una teoria artistica, di una conoscenza della storia dell‘arte. Senza le teorie dell‘arte, della vernice nera non sarebbe nient‘altro che semplice vernice nera e niente più. L‘interpretazione è dunque considerabile in qualche misura come una funzione del contesto artistico dell‘opera. Il suo significato varia a seconda della sua posizione storico-artistica, dei suoi antecedenti etc: «Forse si può parlare di com‘è fatto il mondo indipendentemente da ogni nostra teoria riguardo al mondo […] ma è sicuro che senza una teoria un mondo dell‘arte non potrebbe esistere, perché il mondo dell‘arte dipende logicamente da una teoria» (Danto 1981, p. 164). Dunque, sarà essenziale comprendere la natura METHODE ISSN: 2281-0498 96 ISSUE I REPORTAGE di una teoria dell‘arte, data la sua rilevanza e il suo potere di dislocamento degli oggetti dal nostro mondo a un mondo a parte, il mondo dell‘arte, un mondo di cose interpretate. In altra sede, Danto (1973) scrive in proposito: «Non ci può essere arte senza coloro che parlano il linguaggio del mondo dell‘arte, e senza coloro che ne sanno abbastanza sulla differenza tra opere d‘arte e cose reali da riconoscere che chiamare opera d‘arte una cosa reale è una sua interpretazione, e che il senso e la valutazione di un‘opera dipendono dal contrasto tra il mondo dell‘arte e il mondo reale» (Danto 1973, pp. 69-70). Ritorneremo su questo nel paragrafo dedicato al mondo dell‘arte. Un‘alternativa alla teoria istituzionale dell‘arte, a questa comunque ispirata, è quella proposta da Levinson (1979). Qui si sostiene che un‘opera d‘arte sia tale in virtù di una proprietà che dipende da un genere particolare di relazione tra la cosa, l‘attività e il pensiero umano. Levinson propone di analizzare questa relazione soltanto nei termini dell‘intenzione di un individuo indipendente, in opposizione all‘idea di un atto pubblico esercitato da un‘istituzione costituita da più individui (quale sarebbe appunto, nella sua concezione più generale, il mondo dell‘arte).6 Secondo Levinson, l‘intenzione dell‘artista fa riferimento, direttamente o indirettamente, alla storia dell‘arte, in opposizione alle teorie istituzionali classiche che non specificano affatto, o soltanto in termini generalissimi, la questione dell‘apprezzamento dell‘opera d‘arte. È a questo proposito che Levinson introduce la sua tesi, chiedendosi quale genere di sguardo è richiesto allo spettatore rispetto all‘oggetto. Nella storia dell‘estetica, il tentativo di mostrare una modalità di sguardo opportuno, basato su caratteristiche predeterminate (per esempio: con attenzione, con contemplazione, dando un rilievo speciale all‘apparenza, con apertura emotiva etc.) è destinato a fallire. Lo sguardo di cui abbiamo bisogno è un altro, quello che viene chiamato in causa, parafrasando Levinson, affermando che un‘opera d‘arte è un oggetto inteso per essere «guardatocome-opera-d‘-arte», attraverso ciascuno degli sguardi con i quali le opere d‘arte già esistenti sono state correttamente guardate. Quindi interpretare potrebbe essere equivalente a confrontare un oggetto in t con (qualcuno de)gli oggetti che rientra nell'estensione del concetto «opere d'arte» precedente a t. Quello dell'interpretazione diverrebbe così esercizio eminentemente archeologico-storiografico. L‘estensione del concetto «arte ora», impica l‘estensione relativa al concetto di «arte precente» - il significato di «arte in t» va dato in relazione all‘estensione relativa all'arte prima di t (Levinson 1979). 6 Si vedano in proposito: 1.5., 1.6., 2.2. e 2.3. METHODE ISSN: 2281-0498 97 ISSUE I REPORTAGE Il quadro normativo offerto da Ferraris (2007) consiste in un‘ontologia dell‘arte che prende in esame le proprietà intrinseche delle opere, indicando le condizioni necessarie, sebbene non sufficienti, al fine di evitare la dipendenza esclusiva della definizione di arte dal consensus gentium o dall‘apprezzamento dell‘artworld. Evitando concezioni quali quella che viene definita «eccezionalismo», ossia la costruzione teorica che cerca di presentare conclusioni generali sull‘arte basandosi su casi eccezionali se non secondari o marginali e lo «straordinarismo», secondo cui le opere d‘arte sono tanto speciali da essere ognuna un oggetto straordinario che «apre» a mondi possibili e favorisce molteplici interpretazioni, Ferraris propone una teoria normalista e normativa dell‘arte. La tesi centrale è la seguente: «definire l‘arte non come un‘esperienza straordinaria ma – proprio al contrario – come la quintessenza delle esperienze ordinarie, che si basa su un‘umanità media, su una taglia media, su invarianze (cioè su elementi molto più stabili di quanto non avvenga nell‘intima dinamicità della scienza) e sulla percezione (che in un certo senso è quanto c‘è di più medio al mondo)» (Ferraris 2007, p. 17). Il Normalismo è una teoria ontologica che dà conto del senso comune proponendo di considerare l‘opera d‘arte come un ente ordinario. Ferraris, basandosi sulla concezione dell‘estetica intesa come filosofia della sensibilità (Ferraris 1997), presenta una teoria normativa dell‘arte che non solo ne rivendica l‘ordinarietà e la popolarità, ma soprattutto stabilisce una distinzione ontologica tra gli oggetti che possono essere candidati allo statuto di opera. Egli si oppone frontalmente alla possibilità che qualunque x possa diventare un‘opera d‘arte, per cui «mentre un orinatoio può diventare un‘opera d‘arte, una notte insonne, un critico d‘arte, un teorema non possono come tali diventarlo, a nessuna condizione» (ivi, p. 19). Una notte insonne, osserva infatti il filosofo, può diventare un‘opera d‘arte solo se diventa una iscrizione, una rappresentazione di un fatto reale, quale potrebbe essere lo star svegli a causa di un deficit quantitativo e qualitativo del sonno. Ferraris sviluppa la sua teoria ponendo le seguenti condizioni necessarie: (1) l‘arte è la classe delle opere, ossia di oggetti che hanno determinate caratteristiche e che possono assumere lo status di opera; (2) le opere sono oggetti fisici che hanno determinati attributi, cose correlate ad altre cose; (3) le opere sono oggetti sociali come i documenti, ossia dipendono dagli uomini che li considerano come tali – e quindi dalla società – dalle sue convenzioni e istituzioni; (4) le opere forniscono conoscenza in modo strutturalmente accidentale; (5) le opere provocano necessariamente sentimenti che sono veri e disinteressati; (6) le opere sono cose che fingono di essere persone, dato che in quanto oggetti METHODE ISSN: 2281-0498 98 ISSUE I REPORTAGE non possono in alcun modo ricambiare i sentimenti che si provano verso di loro. Ponendo al centro della sua tesi il ruolo dell‘aisthesis, Ferraris osserva che possono essere definiti opere d‘arte oggetti visibilmente ordinari, poiché fisici e sociali e non ideali o naturali. Oggetti che hanno molto a che fare con i documenti e le iscrizioni e che, fornendo conoscenza e sentimenti veri e disinteressati, lasciano emergere l‘analogo della ragione, la conoscenza estetica intesa come sensazione. La sensazione è concepita come la condizione necessaria perché ci sia arte ed è riconosciuta altrettanto determinante per il rapporto tra estetica e conoscenza. Al concetto di «arte» corrisponde la classe delle opere, dato che queste esistono perché ci sono le persone che le riconoscono come tali. Come spiega Ferraris, svelando la base ontologica della sua teoria normativa: «l‘opera è il referente dell‘arte, ciò che, per esprimersi filosoficamente, viene intenzionato dai fruitori di piaceri estetici: l‘arte è sempre qualcosa che si riferisce a un‘opera, proprio come il pensiero è sempre pensiero di qualcosa» (ivi, pp. 38-39). Da questa prospettiva emerge quindi che le opere d‘arte sono definibili come tali esattamente perché collettivamente riconosciute, ossia esistono in quanto «oggetti sociali». 7 1.3. Finzione. Paradossi e quesiti riguardo allo statuto degli oggetti appartenenti ai contesti di finzione, quali per esempio la letteratura o il cinema, sono stati al centro dei lavori della terza giornata. Considerando celebri casi letterari ci si potrebbe chiedere: (1) «Biancaneve aveva delle sorelle?» oppure, (2) «Watson, il fedele compagno di Sherlock Holmes, è stato ferito in guerra a una gamba, al braccio, o a tutt‘e due?». O ancora: (3) «a cosa si riferiscono nomi come ―Ulisse‖, o ―Cenerentola‖, se questi personaggi in realtà non esistono?». Con (1) si pone in risalto il fatto che abbiamo una conoscenza incompleta di personaggi appartenenti per esempio a narrazioni letterarie, seppure siamo abbastanza convinti di conoscerli molto bene. Con (2) si sottolinea, inoltre, che di tali personaggi conosciamo spesso solo alcuni dettagli che li riguardano, tanto generici da favorire dei fraintendimenti. Con (3) si pone un problema che riguarda invece il riferimento dei nomi di tutti quei personaggi che incontriamo, di tanto in tanto, durante le nostre letture. Queste ultime si prestano ad altri quesiti, anch‘essi centrali per il dibattito filosofico attorno alla finzione: (4) «perché vogliamo vedere un film, o uno spettacolo teatrale, se poi soffriamo?» 7 Per approfondire riguardo al concetto di «oggetto sociale» rimandiamo alla teoria della Documentalità presentata in Ferraris (2009), dove si trova anche il ragionamento specifico riguardo al caso delle opere d’arte (Ferraris 2009, pp. 305-318). METHODE ISSN: 2281-0498 99 ISSUE I REPORTAGE e (5) «come possiamo avere paura di qualcosa che non esiste?». Il quesito (4) presenta quello che viene solitamente definito «paradosso della tragedia» - già presente in Aristotele e Hume – mentre (5) sottolinea la questione saliente che caratterizza il cosiddetto «paradosso del terrore». Riguardo a quest‘ultimo, possono essere prese in esame le seguenti affermazioni, che chiamano in causa anche il ruolo delle emozioni e accettabili se prese singolarmente, ma contradditorie se considerate insieme. (I) Tutti quanti abbiamo emozioni verso situazioni o personaggi fittizi; (II) tutti quanti sappiamo che queste situazioni e personaggi sono fittizi, ossia che non esistono nel nostro mondo; (III) le emozioni di una qualunque persona razionale di fronte a uno scenario sono genuine solo se essa crede che la situazione sia reale. Affrontare queste osservazioni vuol dire per alcuni filosofi concentrare il dibattito sulla genuinità e razionalità delle emozioni. Cerchiamo di approfondire. Il filosofo britannico Colin Radford in un suo importante articolo (Radford 1975) insiste sull‘irrazionalità: se le emozioni di X verso uno scenario o un personaggio fittizio sono genuine, allora dobbiamo ammettere che X è irrazionale. Diversamente, il filosofo americano Kendall Walton sostiene invece che se vogliamo salvare la razionalità di X, dobbiamo ammettere che le sue emozioni verso entità fittizie non sono genuine. Se avessimo soltanto un sospetto o una debole credenza che quello che vediamo – poniamo in un film – sia reale, il nostro comportamento ne sarebbe necessariamente influenzato (Walton 1978). Le nostre emozioni verso situazioni e personaggi fittizi possono anche essere identiche – dal punto di vista fisiologico e fenomenologico – alle nostre emozioni verso situazioni reali, ma sono soltanto «quasi-emozioni», osserva Walton, perché queste mancano: (i) dello stato cognitivo-epistemico appropriato, (ii) dell‘appropriato comportamento, che è una loro conseguenza. Presentando il famoso esempio di Charles – che guardando il noto film di fantascienza The Green Slime (1968), suda e rabbrividisce allo stesso tempo, dichiarandosi terrorizzato – Walton afferma che la sua emozione è distinguibile da un‘emozione genuina. Quella di Charles sarebbe solo «quasi-paura», poiché egli non crede che lo slime sia davvero pericolo per lui e, soprattutto: rimane tranquillo sulla sua poltrona, non chiama la polizia, né avverte la sua famiglia del pericolo. A più riprese Walton ritorna con le sue ricerche sulla sua posizione riguardo ai rapporti tra emozione e finzione. Sviluppando la teoria riguardo METHODE ISSN: 2281-0498 100 ISSUE I REPORTAGE alla mimesi in rapporto al «far finta» (Walton 1990), egli nota che il caso di Charles è quello di una partecipazione psicologica a un «gioco di far finta». La sua paura per lo slime è finta, e il fatto di dichiararsi terrorizzato costituisce esattamente la sua partecipazione a questo gioco. Il film, così come definito da Walton, costituisce un prompt, uno spunto per un gioco di finzione. Il comportamento – verbale e corporeo – di Charles è parte della sua adesione al gioco di finzione intrinseco alla struttura narrativa del film. La posizione teorica presentata da Walton poggia su una teoria cognitiva delle emozioni, che tuttavia pone dei vincoli stringenti rispetto a cosa si possa considerare come un‘emozione genuina. Tanto che, numerose nostre reazioni –solitamente consideriamo come emozioni genuine – in realtà potrebbero non esserlo. Di tutt‘altra impostazione è invece la tesi avanzata dai filosofi Tamar Szabó Gendler e Karson Kovakovich, che propongono un parallelo tra le emozioni provate verso scenari futuri (e quindi non attuali) e le emozioni che proviamo verso scenari fittizi (e quindi considerabili ugualmente non attuali). Se riconosciamo che la loro struttura è identica e siamo disposti a considerare le prime come emozioni genuine e razionali, perché non dovremmo considerare tali anche le seconde? (Gendler & Kovakovich 2005). I due filosofi elaborano la loro teoria utilizzando i risultati sperimentali ottenuti da Damasio (1994) riguardo ai marcatori somatici: nel momento in cui facciamo una certa esperienza – positiva o negativa – la reazione emotiva suscitata dall‘esperienza si fissa (marca) in qualche modo al contenuto dell‘esperienza stessa, così che, nel momento in cui immaginiamo – anche inconsciamente – lo stesso scenario o uno scenario analogo, questo suscita la stessa reazione emotiva. Reazione che ha, a sua volta, conseguenze rispetto alle scelte che compiamo. Se lo scenario immaginato è marcato positivamente, siamo indotti a realizzarlo, mentre se è marcato negativamente la sua realizzazione è ostacolata. Secondo Damasio, chi non ha reazioni emotive nel momento in cui si prefigura uno scenario possibile, non compie scelte razionali; le emozioni, anziché contrapporsi alla razionalità pratica di un agente, sono parte integrante di essa. Sulla scorta di queste osservazioni, Gendler e Kovakovich (2005) affermano che: le emozioni simulate, ossia quelle generate dall‘immaginare uno scenario possibile, sono genuine e razionali perché essenziali per compiere scelte adeguate; e le emozioni fittizie, quelle generate da scenari fittizi, sono identiche alle prime poiché anche i loro oggetti sono non-attuali e non sono legate direttamente all‘azione. Dunque, se siamo disposti a considerare le prime genuine e razionali, dovremmo considerare tali anche le seconde. Due le possibili vie che contraddistinguono METHODE ISSN: 2281-0498 101 ISSUE I REPORTAGE le ricerche in merito a finzione ed emozioni: da una parte si può discutere della natura delle emozioni causate dalla finzione – valutando se siano genuine e razionali; dall‘altra, è altrettanto possibile interrogarsi e discutere se si possa affermare di avere un‘emozione verso un personaggio o uno scenario fittizio. Vengono così a delinearsi due potenziale aree di indagine che rimandano a quesiti pertinenti alla filosofia della mente: «come definiamo un‘emozione?», «quali sono i criteri per decidere che cosa è un‘emozione genuina?», e ancora «qual è il rapporto tra emozioni e razionalità?». Quesiti che celano risvolti di pertinenza fenomenologica e ontologica: «quali sono gli oggetti intenzionali delle emozioni?», «che natura hanno le entità fittizie?» e «quali sono le loro condizioni di esistenza?». Concludendo, se torniamo alle tesi di Walton, qui solamente introdotte, potremmo rispondere a taluni di questi interrogativi acquistando una soluzione realista secondo la quale: gli oggetti fittizi non esistono, quindi quando diciamo che «Charles ha paura del green slime», stiamo fingendo. 1.4. Arte. Una chiarificazione del concetto di «aboutness» introdotto da Danto e l‘introduzione delle linee essenziali dei recentissimi testi di Tiziana Andina e Stefano Velotti, sono stati al centro del quarto seminario dei Dialoghi di Estetica. Da una parte è stato possibile esplorare il nesso tra significato, opera e critica d‘arte, dall‘altra discutere concezioni differenti riguardo all‘estetica e alla filosofia dell‘arte. Approfondiamo seguendo questo ordine. Introdotto da Danto nella sua opera più importante, La trasfigurazione del banale (1981), il concetto di «aboutness» è un costituente teorico fondamentale per l‘intero sviluppo del suo programma di filosofia dell‘arte. La sua definizione dell‘arte, come già anticipato, poggia sulla tesi secondo cui le opere sono veicoli semantici, ossia incorporano un significato, perciò sono sempre a proposito di qualcosa, a differenza dei comuni oggetti ordinari. Di recente il filosofo è tornato sulla proprietà dell‘aboutness. Citando un‘opera del pop artista americano Robert Rauschenberg, Monogram (1955-59), Danto scrive: «una capra imbalsamata cinta dal copertone di un‘automobile, […] rimanda a una risposta interpretativa che solo in modo marginale ha a che fare con la nostra capacità di riconoscere una capra imbalsamata e il copertone di un‘automobile» (Danto 2000, p. 144). Distinguere l‘arte dalla realtà sarebbe possibile riconoscendo il contributo della teoria e della storia dell‘arte. O, più esattamente, del configurarsi della critica d‘arte in relazione ai diversi oggetti che questa indaga. Prendendo in esame il già citato caso di Brillo Box di Warhol, Danto scrive: «Come entra in gioco, allora, la critica d‘arte? Entra, METHODE ISSN: 2281-0498 102 ISSUE I REPORTAGE perché l‘arte di Warhol era in qualche modo a-proposito dell‘arte pubblicitaria. Warhol considerava esteticamente bello il mondo comune e ammirava immensamente le cose che Harvey e i suoi eroi avrebbero ignorato e condannato. […] Le scatole di Warhol sono state una reazione all‘espressionismo astratto, soprattutto perché adoravano quello che l‘espressionismo astratto disprezzava» (ivi, pp. 147-148). Danto riafferma la propria tesi mettendo in primo piano il nesso tra aboutness e critica d‘arte, osservando che: (I) le differenze indicate dalla critica d‘arte sono differenze invisibili; (II) il compito della critica è di esplicitare il significato dell‘opera (ossia cogliere l‘aboutness). Se apparentemente allo stato attuale del progresso artistico, sembra che qualsiasi cosa possa essere un‘opera d‘arte, allora vi sarebbero almeno due conseguenze rilevanti. La prima indicata da Danto (1997) consiste nella fine della storia dell‘arte intesa come ricerca dell‘autocoscienza. La seconda riguarda invece la critica: questa deve adattarsi ai differenti oggetti in modo da distinguere i loro diversi modi di essere-aproposito-di qualcosa, così da poter garantire una valida definizione dell‘arte. Andina (2012) elabora la sua ontologia accentrando il quesito «Che cos‘è un‘opera d‘arte?». Prendendo di mira in particolare i due concetti – quello di «artefatto» e quello di «mondo dell‘arte» – per criticare le teorie istituzionali, Andina presenta una soluzione ontologica che si allinea a, e consolida, le posizioni teoriche della filosofia dell‘arte di Danto. A questo scopo fornisce un‘indicazione affinché una teoria possa coerentemente affrontare il fenomeno arte e tre condizioni per definire che cosa sia opera. Prima di introdurre questi esiti, riassumiamo di seguito i passaggi salienti dell‘analisi di Andina. I concetti di «artefatto» e «mondo dell‘arte» sono centrali ai fini degli sviluppi della nota teoria istituzionale elaborata dal filosofo americano George Dickie. Egli scrive: «il nucleo che compone il mondo dell‘arte è un gruppo di persone organizzate in modo lasco, ma legate da una qualche relazione, direttori di museo, visitatori di musei, giornalisti culturali, critici che lavorano per ogni sorta di pubblicazione, storici dell‘arte, teorici dell‘arte, filosofi dell‘arte e così via. Queste sono le persone che fanno funzionare il mondo dell‘arte e con ciò si occupano di mantenerlo in esistenza. In aggiunta, ciascuna persona che si considera membro del mondo dell‘arte è per questa sola ragione suo membro» (Dickie 1974, p. 754). In proposito Andina osserva che nella teoria di Dickie è l‘istituzione a conferire lo status di opera agli oggetti. In questi termini il mondo dell‘arte somiglierebbe a «un‘istituzione informale (vale a dire a una pratica sociale oppure a un‘organizzazione) che funziona grazie a regole ingenue e condivise che non troviamo scritte da nessun parte» (Andina 2012, p. 68). Arduo è dunque definire che cosa sia METHODE ISSN: 2281-0498 103 ISSUE I REPORTAGE questa particolare istituzione che procede in tal modo. Secondo Andina, Dickie intende il mondo dell‘arte non come una classica istituzione sociale, bensì come una P-Istituzione, vale a dire come una «quasi persona», un agente che produce azioni ed è chiamato a risponderne. Pertanto il filosofo attribuirebbe a tale enigmatica entità la «capacità» di creare i propri oggetti. Andina propone un fruttuoso parallelo tra mondo dell‘arte e «mondo dei tulipani», utile a riscontrare come entrambi assumano gli oggetti e talvolta li modifichino, ma di sicuro non li creino. Tuttavia, il nucleo del problema risiede nel nesso artefatto-mondo dell‘arte. Dickie (1977) sviluppa la sua teoria spiegando che il mondo dell‘arte deve essere inteso come una pratica: «x è un‘opera se e solo se (1) x è un artefatto e (2) è creato e/o presentato da un agente, che comprende ciò che fa, e lo mostra a un pubblico preparato a comprenderne il significato» (Dickie 1977, p. 81). Tre le critiche avanzate da Andina rispetto a questa nuova formulazione di Dickie: (I) non sappiamo da chi è composto il mondo dell‘arte; (II) non abbiamo la possibilità di individuare con chiarezza tutte le regole che lo governano; (III) il mondo dell‘arte sembra essere una «quasi istituzione». La teoria di Dickie non sarebbe dunque sufficientemente articolata in merito agli artefatti, poiché giustificherebbe l‘esistenza delle opere attraverso il potere istituzionale del mondo dell‘arte che, come si è visto, non può essere considerato come un‘entità istituzionale. Secondo Dickie abbiamo un artefatto a parità di due condizioni: x è un artefatto qualora le proprietà di x siano alterate in funzione di uno scopo; e/o se x è utilizzato in funzione di uno scopo. Anche in questo caso Andina mostra una contraddizione intrinseca alla teoria: «Un oggetto naturale a cui, con un atto intenzionale, viene cambiata la collocazione fisica rimane a tutti gli effetti un oggetto naturale giacché: (1) il cambiamento di collocazione è estrinseco all‘oggetto, cioè non muta nessuna delle proprietà che lo definiscono; (2) l‘intenzione del soggetto non intacca permanentemente la natura dell‘oggetto (p.e. il ceppo di legno rimane ceppo di legno etc.)» (Andina 2012, p. 95). Seguendo una concezione alternativa, ossia quella offerta da Dipert (1993) – secondo cui è artefatto un attrezzo che è stato intenzionalmente modificato allo scopo di essere riconosciuto utilizzabile per un altro uso, dunque tutte le opere d‘arte sono artefatti8 – Andina si sofferma sulla 8 Dipert (1993) osserva che un oggetto è un artefatto se alcune sue proprietà sono intenzionalmente modificate in vista di uno scopo (per esempio la sedia invita a sedersi, un semplice ceppo di legno può o meno invitarci al medesimo utilizzo). Accomuna inoltre le opere d’arte agli enunciati linguistici poiché entrambi hanno una proprietà comunicativa, anche se, esibiscono o n on esibiscono, proprietà che sono state modificate o introdotte dai soggetti. Il filosofo presenta una distinzione tra semplici artefatti e artefatti comunicativi. Dei primi fanno parte tutti quegli artefatti che non danno informazioni riguardo a qualcos’altro (per esempio una sedia invita a sedersi) comunicando solo qualcosa a proposito di sé. I secondi sono invece artefatti che informano riguardo al mondo esterno oltre che determinare credenze riguardo a loro stessi. Si prenda come esempio un cartello stradale: METHODE ISSN: 2281-0498 104 ISSUE I REPORTAGE distinzione tra oggetti estetici e oggetti artistici. I primi producono sensazioni, i secondi richiedono una concettualizzazione dell‘oggetto nella sua veste di artefatto. Ossia richiedono di considerarlo come il prodotto di un‘agente. Ora, se qualsiasi oggetto può esibire proprietà estetiche (una montagna, una sonata, un cappuccino etc.) segue però che non tutti gli oggetti estetici sono artefatti o opere d‘arte. Si tratta di una distinzione cruciale ai fini la distanza tra estetica e filosofia dell‘arte. Sebbene queste due discipline potrebbero non incontrarsi mai, proprio perché i rispettivi oggetti non coincidono, Andina mira a una loro possibile convergenza. Una buona filosofia dell‘arte dovrebbe essere un costrutto teorico elaborato prendendo in considerazione prima di tutto una «triplice polarità». Vale a dire: l‘oggetto fisico, il soggetto congiuntamente alla sua realtà sociale e, infine, quella particolare narrazione che è la storia dell‘arte. Nello specifico Andina presenta anche le condizioni per definire che cosa sia opera: (I) x è un‘opera d‘arte se è un veicolo semantico, ossia se veicola rappresentazioni intensionali; (II) x è un‘opera d‘arte solo se il medium di x non è trasparente; infine (III) x è un‘opera d‘arte se i significati che incorpora appartengono a una narrazione storica. 9 Il divario tra estetica e filosofia dell‘arte, è rilevato anche da Velotti (2012) che tuttavia interviene a favore di una difesa della prima, intesa come disciplina imprescindibile ai fini della valutazione e comprensione del fenomeno arte. L‘estetica dovrebbe oggi essere riconsiderata in virtù del suo ruolo di primaria importanza nelle ricerche cognitive, epistemologiche e di filosofia della mente. A maggior ragione la comprensione dell‘arte è possibile esattamente sullo sfondo di una riflessione estetica, poiché: da una parte, determinati prodotti sono diventati «arte» esattamente perché esemplari di condizioni estetiche necessarie per ogni esperienza umana; dall‘altra, non si può trascurare che in arte possano essere esibiti «i modi in cui ci orientiamo nel mondo, in cui tentiamo di dare senso alla nostra esperienza in esso», attraverso un‘attività sensibile e mentale mediata dal lavorio dell‘immaginazione. Proprio per questo, «una riflessione estetica è innanzitutto una riflessione sul lavoro dell‘immaginazione» (Velotti 2012, p. 61). informa di qualcosa oltre che di avere determinate proprietà. Le opere d’arte non sottostanno tuttavia a questa classificazione: «tutte le opere d’arte sono artefatti che hanno la proprietà di comunicare qualcosa a proposito di qualcosa di diverso da loro; facendo questo, esse stimolano alcune particolari facoltà, segnatamente quelle che si occupano di percepire e di interpretare» (Dipert 1993, p. 117). 9 Per approfondire rimandiamo ad Andina 2012, pp. 193-201. METHODE ISSN: 2281-0498 105 ISSUE I REPORTAGE 1.5. Esperienza. Tre i quesiti che sono stati posti nella quinta seduta seminariale: «che cos‘è l‘esperienza estetica?», «in quale misura questa è rilevante per la definizione o la comprensione dell‘arte?» e «la nozione di ―duplicazione‖ permette di caratterizzare soddisfacentemente l‘esperienza estetica e la sua rilevanza nel campo dell‘arte?». Per rispondere è stata presentata, come modello di riferimento, la classificazione proposta da Carroll (2001, 2002). Mentre, per approfondire, sono stati introdotti alcuni passi salienti dalle teorie riguardanti il rapporto tra esperienza e arte di D‘Angelo (2011) e Montani (2010). Inoltre, è stata discussa la teoria del doppio contenuto della rappresentazione artistica di Dilworth (2005). Introduciamo queste tesi seguendo questo ordine. Con il termine «esperienza» s‘intende in generale quel tipo di conoscenza che richiede l‘intervento diretto della sensibilità (aisthesis). Solitamente si fa riferimento a quella che viene definita esperienza estetica. Al fine di coglierne i tratti salienti, riassumiamo qui di seguito la classificazione delle teorie sull‘esperienza estetica presentata da Carroll (2001, 2002) mediante una suddivisione in tre macro-gruppi: 1) Affect-oriented theories; 2) Valueoriented theories; 3) Content-oriented theories. Iniziamo con le prime. Tali teorie, dell‘orientamento affettivo, mirano a distinguere l‘esperienza estetica in base al modo in cui questa è vissuta dal soggetto. In proposito si fa riferimento a qualità esperite (qualia), tonalità affettive, vissuti fenomenologici. Si tratta di una peculiare esperienza che rimanda al «piacere disinteressato», ossia a un piacere che comporta, come direbbe Schopenhauer, un «senso di libertà» rispetto alla morsa della volontà; o, più modestamente, nelle parole di filosofi come Bell e Beardsley, un senso di libertà dalle incombenze pratiche della vita quotidiana. Rispetto a queste annotazioni introduttive, è lecito osservare che esistono esperienze estetiche (si prenda come esempio la lettura di un romanzo come Germinal di Zola) che non ci sollevano affatto dalla dimensione pratica dell‘esistenza. Inoltre, ci sono esperienze di liberazione dalla dimensione pratica (come per esempio farsi una doccia calda dopo una giornata assai faticosa), che non sembrano essere propriamente, e forse prioritariamente, estetiche. Nelle teorie dell‘orientamento valutativo, l‘esperienza estetica è definita senza fare appello a criteri di valutazione esterni. Il disinteresse in questo caso non va inteso come la qualità vissuta nel corso dell‘esperienza estetica, ma come il valore che attribuiamo a questa esperienza. La concezione dell‘esperienza estetica deriva dunque dal concetto kantiano di «finalità senza scopo». Concezione che, come noto, riceve una formulazione marcatamente politica nell‘estetica della scuola di Francoforte, ossia nelle teorie di METHODE ISSN: 2281-0498 106 ISSUE I REPORTAGE Horkheimer, Adorno e Marcuse, secondo i quali il valore dell‘esperienza estetica risiede nella sua emancipazione dalla «ragione strumentale», caratteristica propria del capitalismo. Secondo le teorie value-oriented, l‘esperienza estetica è dunque fine a se stessa. Diversamente, le teorie content-oriented caratterizzano l‘esperienza estetica in base a un peculiare contenuto intenzionale. Kant caratterizza implicitamente questo contenuto come «universalità e necessità senza concetto», ossia come un contenuto non concettuale. Più specificamente, non sussumibile a un determinato concetto, che tuttavia manifesta comunque tratti di universalità e necessità. Carroll in proposito individua invece i seguenti tratti distintivi del contenuto dell‘esperienza estetica: tratti formali, intendendo il modo in cui un‘opera comunica qualcosa; tratti propriamente estetici, ossia le proprietà terziarie, che dipendono da proprietà mente-dipendenti (si pensi all‘espressività, la simmetria, l‘armonia etc.). Le teorie dell‘esperienza estetica sin qui presentate possono essere applicate tanto all‘esperienza dell‘arte quanto a quella della natura. Carroll ritiene in proposito che l‘esperienza estetica sia soltanto una delle possibili risposte che un‘opera d‘arte può suscitare. Più specificamente, egli la considera come alternativa o complementare alla risposta semiotica o ermeneutica. In questi termini, rispetto all‘opera d‘arte, l‘esperienza estetica non è considerabile né come una condizione necessaria – poiché possono esserci opere d‘arte che non suscitano esperienze estetiche – né come condizione sufficiente, poiché possono benissimo darci esperienze estetiche di oggetti che non sono opere d‘arte. D‘Angelo (2011) propone una concezione dell‘arte incentrata sull‘esperienza estetica, formulata nei termini di un «raddoppiamento dell‘esperienza». È possibile ricondurre la sua proposta al quadro offerto dalle teorie orientate dal contenuto, anche se la caratteristica che egli individua è differente da quelle finora considerate. Il termine «raddoppiamento» è usato da una parte facendo riferimento a una diversa organizzazione e finalizzazione che avrebbe l‘esperienza estetica, pur non essendo pienamente diversa dall‘esperienza comune. Dall‘altra con riferimento a una «duplicazione dell‘esperienza che avviene mediante l‘attività estetica» e che si manifesta come duplicazione di forme e contenuti: «l‘invenzione, la finzione, mi trasportano in un altro mondo, creano un mondo parallelo a quello esistente», «l‘arte elabora un‘esperienza parallela, un raddoppiamento dell‘esperienza» (D‘Angelo 2011, pp. 80-81). Montani (2010) presenta una concezione normativa dell‘arte contrassegnando l‘esperienza estetica come «sdoppiamento» tra una METHODE ISSN: 2281-0498 107 ISSUE I REPORTAGE dimensione referenziale – per cui l‘esperienza estetica ci parla del mondo – e una dimensione riflessiva – per cui l‘esperienza ci parla di se stessa. Montani usa perciò il concetto di «sdoppiamento» per indicare la dimensione referenziale con cui l‘esperienza si apre al mondo arricchendola di una dimensione (auto)riflessiva che le permette altrettanto di ripiegarsi su se stessa. Dilworth (2005) considera invece l‘esperienza estetica come caratterizzata da un doppio contenuto: (CA) contenuto aspettuale, di basso livello e non concettuale, che riguarda il modo in cui il significato si presenta e quindi lo stile e la storia di produzione dell‘opera; (CI) contenuto informativo, di alto livello e concettualizzato, che riguarda entità o stati di cose. Anche se l‘esperienza ordinaria abbia un doppio contenuto, l‘esperienza estetica è comunque contrassegnata da una peculiare ricchezza del contenuto aspettuale in rapporto a quello informativo. La teoria del doppio contenuto afferma che l‘esperienza estetica comporta un‘attività di attribuzione dei vari elementi dell‘esperienza da un contenuto all‘altro. In questo processo si riscontra anche la gerarchia del doppio contenuto: il contenuto informativo è codificato per mezzo del contenuto aspettuale. In altre parole, lo spettatore che fa esperienza, poniamo di un dipinto, deve estrarre il contenuto informativo da quello aspettuale. Tuttavia questo processo comporta un rischio, quello della misinterpretazione. Dilworth fa un esempio: uno spettatore ingenuo che, fatta l‘esperienza estetica di una tra le tante Marilyn serigrafate da Warhol, crede che Marilyn abbia la pelle rossa. L‘estrazione del contenuto informativo dal contenuto aspettuale richiede normalmente conoscenze contestuali sullo stile e la storia della produzione dell‘opera. Nel caso della nota opera di Warhol accade quanto segue: 1) si ipotizza che Marilyn abbia la pelle rossa; 2) questo entra in conflitto con il fatto che sappiamo che Marilyn aveva la pelle rosa; 3) la parte del CA che diverge dal CI viene reinterpretata in termini stilistici ed espressivi. Ad esempio, suggerisce Dilworth, come espressione dell‘azione pervasiva dei media e della pubblicità. 1.6. Mondo dell’arte. La discussione del seminario conclusivo ha permesso di approfondire le diverse concezioni del mondo dell‘arte prendendo in esame sia posizioni filosofiche, quali quelle di Danto (1964) e Dickie (1969, 1974), sia proposte teoriche afferenti alla sociologia, quali quelle di Becker (1982) e Poli (2004), considerando anche utili riflessioni, maturate in sede storiografica, attorno al concetto di «sistema dell‘arte» e al suo valore socio culturale (Shiner 2001). METHODE ISSN: 2281-0498 108 ISSUE I REPORTAGE È il 1964 quando Danto scrive il suo importante saggio The Artworld, che come già anticipato 10 nasce dall‘esigenza di affrontare il problema degli indiscernibili applicato al fenomeno arte. Riprendiamo il filo del suo ragionamento: x e x1 sono oggetti indiscernibili, ossia non possiedono qualità che, scorte dai nostri sensi, ci permettono di affermare di trovarci davanti a due oggetti diversi. In altri termini, accade che il letto, particolare x, istanziazione dell‘universale-letto X, è uguale per forma, materiale, proprietà e utilizzo che ne facciamo (almeno generalmente nella nostra società), al letto particolare x1, istanziazione1 dell‘universale-letto X. Così viene posto il problema: perché allora diciamo che tanto Bed (1955), opera dell‘artista Robert Rauschenberg, quanto Bedroom Ensemble (1963) di Claes Oldenburg – entrambi attualmente facenti parte della collezione del MoMa di New York – oltre che letti, sono anche opere d‘arte? Una prima indicazione riguarda l‘utilizzo del verbo essere. In questi casi va inteso in senso particolare: non come per dire che qualcosa esiste o è bianco o è più grande di qualcos‘altro. Quando si afferma che «x è un‘opera d‘arte», la copula «è» fa qualcosa di più. Il verbo essere, in altri termini, svolge in questa circostanza una particolare funzione: quella dell‘identificazione artistica. Parafrasando Danto, in ciascuno dei casi in cui usiamo l‘«è» dell‘identificazione artistica per affermare che x è un‘opera d‘arte, x sta almeno per certe specifiche proprietà fisiche, o parti fisiche, di un oggetto. Perché x sia un‘opera d‘arte, una condizione necessaria è che almeno alcune delle parti materiali o delle proprietà di x siano designabili dal soggetto mediante una frase che esige questo particolare utilizzo del verbo essere. L‘«è» dell‘identificazione artistica viene dunque a configurarsi come un motore ontologico, un demiurgo di nuove entità prima non esistenti. L‘oggetto è considerabile come opera d‘arte in rapporto a un determinato contesto storico-sociale. Danto, in maniera non del tutto chiara, fa riferimento al «contesto di una certa teoria dell‘arte» e a una non meglio definita «atmosfera di fondo», che sarebbe propria del periodo storico all‘interno del quale siamo situati come filosofi che cercano di definire cos‘è un‘opera d‘arte. Qualcosa che l‘occhio non può vedere: un mondo dell‘arte. Brillo Box, che è del 1964, non poteva essere arte nel 1954 nello stesso senso secondo cui diciamo che nel Medioevo non poteva esistere qualcosa come un‘assicurazione sugli incidenti aerei. L‘argomento di Danto si articola come segue: sia K l‘insieme di tutte le opere d‘arte in un tempo t. Sia «o» la prima e unica opera astratta al mondo, un acquerello che Vasilij Kandinsky realizza nell‘ottobre del 1910. Ad essa non seguirà nessun‘altra opera astratta. Un critico – e questo è un requisito 10 Vedi Supra 1.2. METHODE ISSN: 2281-0498 109 ISSUE I REPORTAGE fondamentale – la definisce, un‘«opera astratta» o meglio, introduce un nuovo predicato, chiamiamolo «F», relativo ad alcune delle sue proprietà, Krilevante, ossia rilevante per tutti gli individui facenti parte dell‘insieme K. Questo significa che, dato t, tutti gli altri individui appartenenti alla classe K (ossia, per definizione, tutte le opere esistenti fino a t) dovranno, d‘ora in poi, essere F o non-F («astratte» o «non astratte»). Tanto F, quanto non-F, predicati che Danto definisce contrari, diventano allora K-rilevanti per tutti gli individui della classe K (vale a dire per tutte le opere d‘arte della storia!). Detto altrimenti: se anche l‘acquerello rimanesse l‘unica opera astratta al mondo, su di esso ricadrebbe comunque la ―responsabilità‖ di aver introdotto nel nostro linguaggio due nuovi predicati («astratto» e «non astratto») con i quali, da quel momento in poi, dover confrontarsi. Oltre che motore ontologico, l‘arte è anche motore semantico. Seppure la teoria di Danto sembra funzionare alla perfezione, estendendola dalle avanguardie a tutta la storia dell‘arte, ci si potrebbe chiedere se l‘«è» dell‘identificazione artistica avesse la stessa ―potenza ontologica‖ per esempio durante il Rinascimento. Inoltre, con la sua teoria, Danto introduce per la prima volta il lemma, senza tuttavia spiegare nel dettaglio cosa sia il «mondo dell‘arte». La nozione resta pertanto all‘ombra di quella che l‘autore chiama «atmosfera» di un determinato periodo storicoculturale. Dickie (1969) presenta un argomento diverso. Quando andiamo alla ricerca della definizione di «opera d‘arte» stiamo parlando di essa in senso descrittivo e non certo metaforico, come quando esclamiamo in situazioni ordinarie in un qualche museo: «quel mucchio di rami mi sembra una scultura!». Dire questo, significa che quando parliamo di opera d‘arte stiamo parlando di una cosa che fa parte dell‘insieme degli artefatti. L‘artefattualità sembra dunque essere la prima condizione necessaria per parlare di opera d‘arte. La seconda condizione necessaria va invece rintracciata nel suo essere oggetto definibile in termini relazionali. Dickie ritiene quello di mondo dell‘arte, così come formulato da Danto nei termini di un‘atmosfera, un concetto vago, ma con un contenuto sostanziale. La definizione di opera d‘arte è una procedura descrittiva e non valutativa, per cui: è opera d‘arte (I) un artefatto, (II) a un insieme dei cui aspetti è stato conferito lo status di candidato all‘apprezzamento estetico da parte di una o più persone che agiscono come intermediari di una determinata istituzione sociale, il mondo dell‘arte. La definizione presenta una concezione vaga del tema dell‘apprezzamento. Possono darsi opere d‘arte che, pur entrando a far parte del mondo dell‘arte, per un motivo o per un altro, non vengono METHODE ISSN: 2281-0498 110 ISSUE I REPORTAGE effettivamente apprezzate da chicchessia. Per Dickie «essere candidato all‘apprezzamento» significa che l‘artefatto si trovi «nella collocazione ideale» per essere esperita come solitamente possiamo esperire «quadri, poesie, romanzi, brani musicali». La definizione potrebbe sembrare circolare ma in realtà non lo è perché «opera d‘arte» (il definiendum) non appare nella definizione di «apprezzamento». Come cercherà di chiarire Dickie (1977) negli sviluppi della sua teoria, questa pratica di collocazione dell‘artefatto nella posizione ideale per essere apprezzato è messa in atto di fatto dall‘artista stesso. Tuttavia, all‘origine di questa pratica vi sono sempre una o più istituzioni sociali, piuttosto informali, uno o più mondi dell‘arte. Il che significa che l‘artista, per collocare l‘artefatto, deve già essere inserito nelle maglie larghe di quella quasi-istituzione che chiamiamo mondo dell‘arte. Becker (1982) propone con il suo testo, un locus classicus della nuova sociologia dell‘arte, di concentrarsi sul lavoro attraverso cui si produce l‘opera, il romanzo o la sinfonia, piuttosto che sui prodotti stessi intesi come oggetti a se stanti. Saremo in grado di comprendere i meccanismi dei «mondi dell‘arte» – nozione utilizzata in senso tecnico per indicare la rete di individui la cui collaborazione produce quel genere di cose che dà il nome al mondo dell‘arte stesso – solo se li osserviamo attraverso il punto di vista delle persone che lavorano al loro interno. Le relazioni tra persone e organizzazioni influenzano le attività degli artisti, e tali influenze hanno la loro ricaduta sulle opere stesse. Becker si interroga non seguendo intenti definitori e neppure chiedendosi come l‘arte possa incarnare i valori della società, come d‘altro canto faceva la vecchia sociologia dell‘arte. Egli è interessato piuttosto a comprendere come funziona il mercato dell‘arte, come vengono comprati e venduti sculture o dipinti, come gli artisti si adattano alle condizioni in cui il loro lavoro viene venduto. Prospettiva simile a quella di Poli (2004) che si propone di prendere in esame quello che definisce «sistema dell‘arte». Uno studio incentrato per un verso sulle strutture e sui circuiti di produzione, circolazione, vendita e valorizzazione culturale delle opere d‘arte (gallerie, case d‘asta, fiere, musei, editoria d‘arte); per l‘altro, attento all‘esame del ruolo specifico che svolgono i principali attori sulla scena: artisti, mercanti, critici, direttori di musei e collezionisti. Il termine «sistema dell‘arte» – introdotto da Lawrence Alloway in un articolo apparso su Artforum nel 1972 – è da preferire a quello di «mondo dell‘arte», che tenta di mantenere relativamente separata, nell‘ambito della produzione artistica, la dimensione economica da quella culturale, spesso evitando di dichiararne l‘organica interconnessione. METHODE ISSN: 2281-0498 111 ISSUE I REPORTAGE Rispetto a queste posizioni, Shiner (2001) usa invece la locuzione «sistema delle arti», al fine di descrivere quello che forse avrebbe più senso chiamare «sistema sociale dell‘arte». Un complesso di pratiche artistiche, di istituzioni, di comportamenti e di divisioni sociali e di classe che incarnano le idee di belle arti, di artista e di estetica. In questo senso, si può parlare tanto di un sistema sociale dell‘arte premoderno, quanto di uno moderno. Quest‘ultimo, così come lo conosciamo attualmente, non è un elemento naturale, né l‘emanazione di un destino immutabile, bensì qualcosa di lentamente edificato dagli esseri umani. L‘arte, come la intendiamo normalmente, è un‘invenzione europea vecchia appena due secoli. Il sistema moderno delle arti è stato preceduto da un altro sistema, più ampio e più utilitaristico, durato oltre due millenni e prevedibilmente sarà seguito da un terzo sistema delle arti. Ciò che alcuni critici temono o invocano come morte dell‘arte, della letteratura, o della musica classica, può essere visto semplicemente come la fine di una certa istituzione sociale che ha iniziato a prendere forma durante il Settecento. Come molti altri concetti chiave dell‘Illuminismo, l‘idea europea di Belle Arti fu ritenuta universale: questo ha lasciato che si radicasse nel senso comune la convinzione che esista un‘unica e lineare storia dell‘arte «dalle magnifiche sorti, e progressive» basata sulla continuità e sull‘inevitabilità. 2. Contributi dei relatori In questa seconda parte dell‘articolo presentiamo gli interventi di quattro tra i relatori che hanno preso parte alle conferenze pomeridiane di Dialoghi di Estetica. Le interviste sono state realizzate successivamente all‘evento tenutosi al Castello di Rivoli. Le domande qui presentate sono pertanto state scelte appositamente poiché utili a chiarire alcuni dei temi trattati nella precedente sezione. 2.1. Maurizio Ferraris: arte e realtà sociale D.D.S.: Con La fidanzata automatica (2007), Lei ha presentato una teoria normalista dell‘arte, basata sul nesso tra l‘ontologia, il primato della percezione in rapporto all‘inemendabilità del mondo esterno e il realismo. Crede che l‘arte se presa in esame in stretto rapporto con la realtà sociale, METHODE ISSN: 2281-0498 112 ISSUE I REPORTAGE possa favorire utili riflessioni in queste direzioni? E rispetto alla possibilità di poter comprendere appieno l‘arte mantenendola sullo sfondo di una riflessione estetica qual è la sua posizione? M.F.: Non c‘è dubbio che per capire fino in fondo un‘opera è necessaria una competenza (anche se non credo che questa competenza debba essere per forza estetica). Ma qui vorrei osservare due cose. Primo, che (almeno secondo la prospettiva che difendo nella Fidanzata automatica) abbiamo da comprendere cose più importanti dell‘arte, la cui quintessenza non è una comprensione, ma una capacità di suscitare emozioni. Secondo, che c‘è un livello di fruizione delle opere che dovrebbe risultare accessibile anche al di fuori di speciali competenze, estetiche o d‘altro tipo, che diventano spesso degli alibi. Mi è capitato una volta di discutere con un direttore di museo che mi diceva ―Certo, per comprendere fino in fondo queste opere bisogna far parte del mondo dell‘arte‖. Gli ho fatto notare che non era molto diverso dal dire che per comprendere certe opere bisogna essere ariani. Questo è un aspetto su cui normalmente, che io sappia, non si ragiona, se non a bassa voce, mentre a mio avviso è centrale. Per quale motivo dobbiamo condannare il plusvalore nella produzione industriale, perché dobbiamo biasimare il capitale finanziario, perché dobbiamo trovare futile l‘aspirazione alla griffe - e accettare esattamente tutto questo quando si tratta di arte? Dunque, riesaminare i rapporti tra arte e realtà sociale non significa (Dio ne scampi) difendere una qualche forma di realismo. Significa piuttosto esaminare realisticamente che cosa può star dietro a certi fenomeni sconcertanti, che riguardano non solo la produzione delle opere, ma il mondo dell‘arte nel suo insieme. Come è possibile che un architetto come Alvaro Siza abbia potuto, al Madre di Napoli, realizzare dei luoghi espositivi anche belli ma non mettere le prese e gli interruttori? Certo Bernini non sarebbe stato così trascurato. Che cosa è successo tra Bernini e Siza? Ecco una buona domanda, a mio avviso. Credo che la risposta sia molto semplice. Una borghesia non necessariamente molto acculturata (diversamente dalla committenza curiale e aristocratica che l‘aveva preceduta) ha visto nell‘arte uno strumento di ascesa sociale e di arricchimento. A questo punto, è iniziata una produzione industriale di opere anche molto mediocri (basti pensare a Jeff Koons), per riempire le gallerie e i musei che proliferavano attraverso l‘istituzione di una spesa pubblica in cui funzionari compravano con soldi non loro. In effetti, il proliferare dei musei è uno dei fenomeni più singolari del mondo METHODE ISSN: 2281-0498 113 ISSUE I REPORTAGE contemporaneo, tutti sono più o meno uguali e tutti hanno più o meno le stesse opere. E non sono affatto convinto che i loro direttori si metterebbero in casa tante delle opere che espongono, né men che mai le comprerebbero se dovessero pagarle di tasca loro. Un ultimo punto a questo proposito. Non tanto per non apparire un passatista (mi importa fino a un certo punto, e comunque l‘arte contemporanea trabocca dell‘estetica romantica del genio, cose di duecento anni fa), ma per non essere frainteso. Di opere brutte ce ne sono sempre state, il Louvre o la Alte Pinakothek sono piene di croste, come chiunque può constatare. L‘uomo non è perfetto e, soprattutto, la perfezione è cosa rara. Ma quello che il Novecento è riuscito a fare è la loro legittimazione ideologica. Mi chiedo che cosa penseranno gli archeologi del futuro, se e quando troveranno le opere d‘arte del Novecento. 2.2. Giovanni Matteucci: «campo» e «mondo dell‘arte» D.D.S.: Durante la conferenza che si è tenuta in occasione dei Dialoghi di Estetica al Castello di Rivoli, Lei ha avanzato la proposta di sostituire al concetto di «mondo dell‘arte» quello di «campo dell‘arte», mostrando anche una corrispondenza con il campo di forze e di vettori, seguendo la concezione scientifica della fisica. Le chiederei un approfondimento esattamente in merito al concetto di «campo» e a questa possibile sostituzione. G.M.: In un recente saggio apparso sulla ―Rivista di estetica‖ (n. 48, 2011) mi sono soffermato proprio su questa alternativa tra mondo e campo, e ho creduto di poter evidenziare alcune differenze di fondo che ho riassunto così. Un mondo dell‘arte – si pensi a come lo concepiscono le teorie istituzionali – si struttura attraverso una decisione teorica che assume la funzione di un decreto sui flussi di ingresso. Per ciascun nuovo mondo dell‘arte, resta decisivo il fatto che è una tale decisione teorica a costituirne l‘apriori. Il mondo dell‘arte prevede, dunque, un apriori normativo, che può sì essere considerato storico, ma che resta tuttavia sempre formale. Non è marginale, credo, che le teorie istituzionali dell‘arte siano quelle più sconsolatamente allineate al cognitivismo in tema di teoria della percezione. Un campo artistico, al contrario, è costantemente esposto alla ricompaginazione in virtù del sapere estetico che vi si esprime come prassi antropologica e come esercizio concreto di un habitus. Il suo apriori è storicomateriale e ha carattere regolativo anziché normativo. Vivendo di processi sempre dinamicamente interattivi, il campo artistico è infatti l‘istituirsi di un METHODE ISSN: 2281-0498 114 ISSUE I REPORTAGE ambito regolato che sussiste e si incarna nelle modalità in cui viene declinata, plasmata, la correlazione tra l‘ambiente e un organismo peculiare – l‘uomo – che agisce di necessità anche quando effettua i più elementari atti percettivi. Seguendo l‘idea fisica di campo, si può dire che sappiamo qualcosa di un campo nella misura in cui analizziamo il comportamento interattivo dei fenomeni che si verificano al suo interno. Quindi, se posso sempre confondere il ―mondo‖ con una porzione di esso, esponendomi al pericolo della definizione essenzialista che sclerotizza un fenomeno e lo rende paradigmatico per l‘intera dimensione, il campo appare per principio indefinibile da qualunque suo singolo e isolato vettore. Mentre poi il concetto di mondo obbedisce tendenzialmente alla logica dell‘esclusività, quello di campo è congenitamente inclusivo: l‘interattività non esclude de iure alcun vettore. Inoltre, se all‘interno di un mondo sembra che si possa occupare qualsiasi posizione che si sceglie una volta che si sia riusciti a entrarvi, nello spazio d‘azione di un campo si occupano solo le posizioni che sono permesse dalle linee di forza che lo innervano con intensità digradante, sicché in periferia ci sarà sempre un‘instabile osmosi tra ―dentro‖ e ―fuori‖ fino a configurare situazioni ove l‘appartenenza al campo appare una questione effettivamente indecidibile. Il mondo è uno spazio continuo che ha vincoli solo ai propri margini, in virtù di frontiere che ne regolano l‘accesso; il campo è uno spazio discreto e densamente vincolato, senza sostanziali delimitazioni in ingresso. 2.3. Tiziana Andina: estetica, filosofia dell‘arte e «mondo dell‘arte» D.D.S.: Nel corso delle sue ricerche si è soffermata sia sull‘estetica, affrontando i problemi dell‘arte attraverso l‘analisi dei problemi legati alla percezione (Andina 2009) sia sulla filosofia dell‘arte. Nel suo ultimo libro afferma che «la filosofia dell‘arte e l‘estetica potrebbero non incontrarsi mai, dal momento che i rispettivi oggetti non coincidono» (Andina 2012, pp. 105106). In proposito Le chiederei una nota utile a approfondire i motivi di questo divario. T.A.: Gli oggetti artistici e gli oggetti estetici non coincidono o, almeno, non coincidono necessariamente. In altre parole, possiamo benissimo avere opere d‘arte che non esibiscono alcuna proprietà estetica e oggetti naturali oppure artefatti che ne esibiscono moltissime. Spesso un tramonto è bellissimo, mentre opere come Tibidabo di Diether Roth non esibiscono nessuna proprietà estetica a meno di non considerare il ―nervoso‖ che prende METHODE ISSN: 2281-0498 115 ISSUE I REPORTAGE chiunque ascolti l‘abbaiare di un cane per ore come qualcosa di simile alla bellezza. Perciò dico che l‘estetica non si occupa necessariamente di opere d‘arte, mentre l‘arte è il dominio di interesse specifico della filosofia dell‘arte. D.D.S.: Al centro del suo ultimo libro (Andina 2012) Lei pone un quesito importante – che cos‘è un‘opera d‘arte? – e per affrontarlo prende in esame, insieme al concetto di «artefatto», quello di «mondo dell‘arte». Dalla sua analisi sembra considerare quest‘ultimo come un costituente teorico utile a dare stabilità ad alcune posizioni filosofiche sull‘arte (per esempio la nota teoria istituzionale di Dickie), piuttosto che come una vera e propria istituzione appartenente alla nostra realtà sociale. Qual è la sua posizione in proposito? T.A.: Sì, è proprio così. Anzi, per la verità considero il mondo dell‘arte come un costrutto teorico poco utile anche per la fondazione delle teorie istituzionali che, infatti, sono messe in crisi proprio dal fatto che scambiano una quasi-istituzione – il mondo dell‘arte – per una istituzione vera e propria. Non è il mondo dell‘arte a poterci dire che cos‘è un‘opera d‘arte; quello che il mondo dell‘arte fa e può fare è gestire il mercato che gravita intoro all‘arte. 2.4. Stefano Velotti: estetica, immaginazione e arte contemporanea D.D.S.: Nel suo libro, Estetica analitica, Lei scriveva pochi anni orsono: «non è possibile comprendere appieno l‘arte se non sullo sfondo di una riflessione estetica». Ossia, se non considerandola come parte «di una dimensione dell‘esperienza, della sensibilità e della discorsività umana, che eccede l‘arte stessa […] e che ha ricadute importanti sul giudizio politico, sull‘etica, sulla legittimità del dialogo tra culture, sulla ragionevolezza umana» (Velotti 2008, pp. 27-28), sottolineando quindi il suo stretto rapporto con il sentire comune e le relazioni intersoggettive di senso nell‘intero ambito della esperienza umana. Recentemente è ritornato su questa riflessione, osservando di nuovo che «nell‘arte si esibiscono esemplarmente diversi modi in cui ci orientiamo nel mondo, in cui tentiamo di dare senso alla nostra esperienza in esso» (Velotti 2012, p. 61). Crede che l‘evoluzione dell‘arte nel Novecento, soprattutto dopo quella che forse potremmo definire come la sua «svolta concettuale», possa confermare in termini pratici e progettuali questo forte legame con l‘estetica? METHODE ISSN: 2281-0498 116 ISSUE I REPORTAGE S.V.: La cosiddetta «arte concettuale» (ma quale arte, poi, non è in qualche modo anche «concettuale»?) è la croce che viene solitamente buttata addosso all‘estetica, almeno da quando Duchamp ha ripudiato un‘arte ―retinica‖ (e poi Adorno un‘arte ―culinaria‖) schierandosi per una sorta di antiarte ―anestetica‖. Ormai, però, dovremmo tutti sapere che queste contrapposizioni sono abbastanza oziose: non è forse vero (come avevano capito a modo loro già nel passato Vico, Spinoza, Kant, tanto per fare qualche nome) che anche l‘attività concettuale più astratta e apparentemente anestetica girerebbe a vuoto se non fosse sostenuta da un sentire? Oggi sono le neuroscienze che ribadiscono continuamente che un pensiero senza ―sentimento‖ è un pensiero inefficiente e non adattivo, che ci porterebbe rapidamente all‘estinzione. Mi piace ricordare – contro i noiosi ripetitori della tiritera secondo cui l‘estetica kantiana, per esempio, verrebbe messa in scacco dall‘arte concettuale – che per Kant – come dice esplicitamente fin dal primo paragrafo della sua Critica della facoltà di giudizio – il giudizio estetico può essere esercitato in relazione a qualsiasi cosa, anche un concetto e un‘idea. La questione dirimente – in linea di principio, non di fatto – non è la natura di quel che ci troviamo davanti (un quadro o una scultura cinquecenteschi, un concetto o una performance, etc.), ma il modo in cui ci poniamo, l‘uso che facciamo delle nostre capacità sensoriali, immaginative, intellettuali. In linea di fatto, poi, sarà decisivo se quella ―cosa‖ (quadro o performance, ‗evento‘ o installazione etc.) sarà abbastanza ricca da sostenere, impegnare, rilanciare, sfidare, riconfigurare la nostra esperienza (in tal caso la consideriamo solitamente un‘opera d‘arte ―riuscita‖), o se invece – magari dopo un primo impatto ―sensazionalmente scioccante‖ – resterà inerte e verrà dimenticata. Faccio brevemente un esempio che avrebbe bisogno di un‘analisi più complessa: a Kassel, all‘ultima Documenta, a molti visitatori è piaciuta un‘opera (installazione-performance) di Tino Sehgal. Nella casa degli Ugonotti, sulla Friedrichsstrasse, si entrava titubanti in una stanza buissima, non capendo bene che cosa bisognasse fare (vedere, sentire, ascoltare, toccare etc.). Piano piano, alla cieca, uno veniva attratto da un canto a cappella, proveniente da persone invisibili, e che si muovevano imprevedibilmente all‘interno della stanza, forse danzando. Queste voci, questa musica, che ci attraevano, diventavano via via più insistenti e invadenti, in una sorta di assedio sempre più stretto, affollato, opprimente. Finché il visitatore non veniva letteralmente spinto fuori, respinto da dove era venuto, da mani, spalle, corpi, aliti invisibili e ostili. L‘impatto era forte, e la breve esperienza poteva essere ripetuta con più o meno disagio, a distanza di qualche tempo. METHODE ISSN: 2281-0498 117 ISSUE I REPORTAGE Ma al di là dell‘impatto, riconosciuto da quasi tutti i visitatori, che cosa restava? In che modo questo ―esperimento-evento-performance‖ si è fatto strada nella mia vita, lasciando una traccia significativa? Me lo sono chiesto più volte e ho pensato – a titolo di ipotesi, forse azzardata – che in quella stanza, rimasta legata nella memoria della città al tragico destino degli Ugonotti, il visitatore veniva attratto da voci sireniche, sedotto dalla promessa di qualcosa di ignoto o di immaginato. E poi gradualmente quelle stesse voci seducenti e misteriose lo respingevano fuori da dove era venuto, senza tanti complimenti, lasciandolo interdetto e quasi deluso. Per me è stato inevitabile pensare a una metafora, a una messa-in-opera di quello che i paesi occidentali fanno sistematicamente con i migranti: li attraggono con le loro voci sireniche e armoniose (democrazia, libertà, sicurezza, diritto, benessere…), poi li sfruttano, li respingono, e li cacciano via come corpi estranei. Certo, tutto questo, per noi, nella distanza di sicurezza di una manifestazione artistica, dove sappiamo che non ci accadrà nulla. Ma l‘arte non può fare molto di più, non è ―azione politica‖, né può pretendere di esserlo. Può esercitare ―il diritto di visita‖ (di cui parlava Kant, ripreso da Arendt) solo nell‘immaginazione, invitandoci a metterci nella posizione di un altro. Solo in quella distanza abbiamo infatti la possibilità di sperimentare il senso dell‘insensatezza della seduzione che esercitiamo, e della violenza e crudeltà con cui respingiamo chi abbiamo sedotto. Se fossimo noi stessi sui barconi che naufragano, penseremmo solo, e giustamente, a salvarci la vita. Ma forse quell‘esperienza ―artistica‖ non è stata inutile e può prefigurare (anticipare, orientare) azioni e atteggiamenti che potremmo intraprendere in ambiti più diretti ed efficaci rispetto ai nostri obiettivi concreti (giuridici, politici, sociali, economici etc.). METHODE ISSN: 2281-0498 118 ISSUE I REPORTAGE RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ANDINA, T. (2009), Confini sfumati. I problemi dell’arte, le soluzioni della percezione, Mimesis, Milano. —— (2010), Arthur Danto: un filosofo pop, Carocci, Roma. —— (2012), Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto, Carocci, Roma. BECKER, H.S. (1982), Art Worlds, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, California. CARROLL, N. 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