1 L'OGGETTO DI STUDIO DELL'ATTO COGNITIVO. 1.2 L'IDEA CHIARA E DISTINTA NEL CRITICISMO DI RENÉ DESCARTES. Con René Descartes (1596-1650) nacque la convinzione che l’oggetto della nostra conoscenza non è l'oggetto esistente indipendente da noi, ma la sua rappresentazione. Le sue opere, considerate fra le più importanti del pensiero occidentale, provocarono una svolta epocale per il sapere filosofico, e furono oltremodo fondamentali per il passaggio dal cosiddetto medioevo al cosiddetto tempo moderno. Tra gli scritti più celebri ricordiamo Il discorso sul metodo (1637) e Le meditazioni metafisiche (1641); ma esistono anche altre opere ugualmente importanti ma meno popolari scritte dal filosofo francese, quali, per esempio, Le regole per la direzione della mente, che risale agli anni 1624-1626, e pubblicato postumo. E' importante sapere che Cartesio si presentava come punto di rottura con la tradizione filosofica che aveva caratterizzato il pensiero precedente, soprattutto per ciò che riguardava l'egemonia data al soggetto cognitivo piuttosto che, come la tradizione faceva, all'oggetto di conoscenza. Fu proprio questa svolta “soggettiva” a permeare il modus operandi di gran parte del pensiero moderno e post-moderno. Una delle preoccupazioni principali di Cartesio era quella circa la nozione di certezza. Come possiamo essere epistemicamente certi di conoscere la realtà come essa è veramente? Dai pensieri scaturiti da questa domanda nasceva in Cartesio il “dubbio metodico”: componente essenziale del metodo Cartesiano che si presenterà come il tentativo di stabilire il fondamento (assolutamente certo) della conoscenza umana. Cartesio avviava le proprie inferenze dubitando di tutto, anche dell’esistenza del mondo esterno inteso come qualcosa di indipendente dall'agente cognitivo. Ciononostante, l'operazione di riflessione sul dubbio metodico pose in luce una palese ed ineludibile certezza: è possibile infatti dubitare di tutto ad esclusione di colui che dubita. Da qui la famosa frase del cogito ergo sum; invero, al dubbio metodico deve venire presupposta con necessità e certezza assoluta l’esistenza del soggetto che pone il dubbio, altrimenti, nemmeno il dubbio in quanto tale potrebbe darsi. L’iter filosofico cartesiano prosegue con l’ipotesi del “genio maligno” (che s’impegna ad ingannarci, falsificando tutte le nostre esperienze). Il fatto è che 1 secondo Cartesio i nostri sensi sono soggetti ad errore, e ciò è causa della condizione caratterizzante l'essere umano circa l'impossibilità di comprendere la distinzione tra lo stato di sogno e lo stato di veglia (idea recentemente trasformata in un film di successo con Leonardo Di Caprio, Inception, uscito nel 2010 con registra Christopher Nolan)1. La necessaria conseguenza di questa asserzione ha condotto il filosofo francese ad ammettere, di riflesso, il dualismo fra anima e corpo, l'esistenza delle idee innate e la prova dell’esistenza di Dio quale garante finale della verità conosciuta. Queste, per l'appunto, sono le principali tematiche analizzate da Descartes. Per quello che ci riguarda il pensiero cartesiano più rilevante ha a che fare con l’epistemologia, ossia con la teoria della conoscenza. Essendo anzitutto un matematico, una tematica che preoccupa Cartesio è la discrepanza fra la contingenza del mondo e dell’esperienza umana e la necessità di certi concetti che annidano nella mente umana. Come è possibile che da un’esperienza puramente contingente (che è ma può non essere) riusciamo a formare concetti di assoluta necessità? Tale problematicità è una domanda perenne nella storia della filosofia (sopratutto moderna); non a caso, anche Immanuel Kant (come avremo modo di vedere nel capitolo a seguire) si occupò di siffatta tematica, dando vita, oltremodo, allo sviluppo della cosiddetta filosofia trascendentale. Tornando all'osservazione posta in essere dal filosofo francese, è curioso notare che l’idea del triangolo è più sicura e più certa che qualsiasi triangolo esistente. «Infatti, poiché ora mi è noto che gli stessi corpi non sono percepiti propriamente dai sensi, o dalla facoltà dell’immaginazione, ma rappresentati dal solo intelletto, e non vengono percepiti per il fatto che sono toccati o veduti, ma soltanto per il fatto che sono compresi, conosco apertamente che nulla può essere rappresentato da me in maniera più facile ed evidente della mia mente» 2. Da questa considerazione emerge chiaramente che l’oggetto cognitivo dell’intelletto umano non è più la natura delle cose materiali (conosciuta attraverso il processo astrattivo per mezzo del concetto universale ed espresso mediante la definizione) ma l’idea nella mente. «E quindi quello che pensavo di vedere con gli occhi in realtà lo comprendo con la sola facoltà di giudizio, che è nella mente» 3. Detto ciò, sembra di capire che, a tutti gli effetti, Cartesio concluda sostenendo che l’idea mentale è in un certo qual modo più “reale” dell’oggetto esistente indipendentemente. 1 Cfr. ciò che afferma nella prima meditazione metafisica: «E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da esser quasi capace di persuadermi che io dormo». René DESCARTES, Meditazioni metafisiche, in Opere, Laterza, Bari 1967, Vol. 1, 201. 2 René DESCARTES, Meditazioni metafisiche, a cura di Antonella Lignani, Armando, Roma 2008, Meditazione seconda, §32, 64. 3 Ivi., p. 63. 2 Ma la tesi così come il filosofo francese ci propina è errata. Infatti, nonostante possa sembrare convincente (la forza di ogni errore è la parte di verità che contiene), se analizzata con diligenza è possibile notare l'inconsistenza che la caratterizza. Già con Aristotele (e susseguentemente con Tommaso), possiamo vedere come la conoscenza umana renda gli oggetti conosciuti più “nobili”, in quanto partecipano dell’atto d’essere dell’anima umana. La famosa frase, l’anima umana, in certo modo, diventa tutte le cose 4 sta a significare che quando l’intelletto conosce qualcosa, lo assimila, lo rende presente nell’anima in forma intenzionale, elevandolo con il suo atto d’essere più alto. L’oggetto esistente fuori dell’anima ha il suo atto d’essere (“reale”), mentre lo stesso oggetto conosciuto è presente sì nell’intelletto, ma non come è nella realtà, bensì per mezzo della sua rappresentazione essenziale. Tali oggetti però, pur avendo un atto d’essere inferiore all’atto d’essere dell’anima umana, essendo presenti nell’anima sono appresi come qualcosa di più rispetto all’atto d’essere reale. È in questo senso che “l’idea” nella mente del soggetto è più “reale” dell’oggetto stesso 5. Anche se Cartesio abbandona la nozione aristotelico-tomista di «astrazione» ed «essere come atto», non è del tutto errato concepire il mondo ideale dell’intelletto come più “importante” dello stesso mondo reale6. Ciononostante, la tesi cartesiana risulta in opposizione col realismo classico che stiamo cercando di sviluppare: un realismo che prende avvio non da un approccio ideologico, ma dall’esperienza quotidiana di tutti gli esseri umani. A riguardo, Hilary Putnam fa osservare con grande perspicacia: «Ogni passaggio che Cartesio fece a partire dalla constatazione del fatto che quando guardava dalla finestra gli uomini per la strada non vedeva “gli uomini stessi” ma piuttosto cappotti e cappelli, alla conclusione che non erano neppure i cappotti e i cappelli che vedeva ma un fascio di “qualità secondarie” che non erano “nei” cappotti e cappelli ma nella propria mente, ha alimentato centinaia di corsi di epistemologia, tutti alle prese con l’idea che nessuno ha mai “visto direttamente un oggetto materiale”, e dei problemi ad essa connessi “dell’esistenza del mondo esterno” e “delle altre menti”»7. 4 CfR., fra le numerose citazioni, Tommaso D’AQUINO, Questiones De Anima, 13 c:« Est enim anima quodammodo omnia», http://www.corpusthomisticum.org/qda01.html#64939. 5 È anche vero, però, che l’anima umana “denigra”, conoscendoli, in qualche modo gli oggetti reali superiori ad essa (come, per esempio, gli angeli e Dio), giacché tali oggetti hanno un atto d’essere superiore all’intelletto umano e quindi devono essere conosciuti in modo adeguato per l’anima umana. Per quanto riguarda la conoscenza degli angeli e di Dio, la sfida per Tommaso sarà come produrre una conoscenza umana “veritativa” di tali oggetti. La risposta verrà trovata nella nozione di analogia. Cfr. Santiago RAMIRZ, De analogia, Instituto de filosofía Luis Vives, Madrid 1970. 6 Quanto appena espresso è un punto assai delicato in quanto se non compreso adeguatamente conduce direttamente all'idealismo gnoseologico. 7 Hilary PUTNAM, Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bologna 2003, p. 162. Il riferimento a Cartesio è nelle Meditazioni metafisiche, dove afferma: «Che vedo da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero coprir degli spettri o degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle? Ma io giudico che sono veri uomini, e così comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nella mia mente, ciò che credevo di vedere con i miei occhi». René DESCARTES, Opere filosofiche II. Meditazioni metafisiche, Obbiezioni e risposte, ed. it. a cura di 3 La critica che fa Putnam è valida. Situando il nocciolo della conoscenza esclusivamente al interno della mente, Cartesio separa radicalmente l’ontologia degli oggetti dalla conoscenza umana. Ciò che viene a mancare nell'epistemologia cartesiana è proprio l’importanza dell'aspetto sensibile delle cose. Per egli, invero, non c'è la necessità di fondare le rappresentazioni degli oggetti, ovvero la conoscenza che si ha di essi, sulla loro sensibilità. Cartesio sostiene che i sensi esterni sono completamente passivi quando vengono “mutati” dagli oggetti. Scrive: «[Tutti i sensi esterni] sentono propriamente soltanto mediante passione, nello stesso modo in cui la cera riceve la figura dal sigillo. E non si deve ritenere che questo sia detto per analogia; ma, nello stesso identico modo, si deve concepire che la figura esterna del corpo senziente è mutata realmente dall’oggetto proprio come quella che è sulla superficie della cera è mutata dal sigillo»8. La passività della sensibilità garantirebbe per Cartesio l’esattezza nell'apprendimento dei dati sensoriali; ma nella realtà dei fatti è l'esatto opposto ciò che avviene. Nell'approccio aristotelico-tomista, gli oggetti esterni modificano i sensi con rispetto ai loro oggetti propri (termine usato dallo stesso Cartesio), ossia, secondo la loro natura. E la loro natura non è semplicemente passiva, ma anche attiva. I sensi “cercano” continuamente i loro oggetti propri, e una volta prossimi, vengono modificati cosicché l’intelletto passivo possa riprodurne l’immagine al fine della loro conoscenza (grazie all’intelletto attivo). È per questo che Cartesio afferma che non conosciamo gli oggetti stessi, ma l’idea che è nella mente. «[…] non si può conoscere nulla prima dell’intelletto, poiché la conoscenza di tutte le altre cose dipende da ciò, e non il contrario» 9. Cartesio utilizza le classiche nozioni della “scuola” (tradizione scolastica), prendendo però le distanze dalla loro connotazione tradizionale. La messa in discussione di tutto ciò che non può essere approvato con assoluta certezza gli riserverà il titolo di padre della filosofia moderna. In giustapposizione al presunto carattere sterile e dogmatico della scolastica, verrà ricordato come un vero e proprio rivoluzionario nel campo del sapere filosofico grazie all'utilizzo del dubbio metodico (o “criticismo”). Orbene, è giusto osservare che la certezza da egli ricercata gli è offerta dalla scienza matematica, soprattutto dall’aritmetica e dalla geometria «che [...] sono pure da ogni falsità o incertezza» 10. Per realizzare questo nuovo metodo, però, Cartesio deve invertire l’ordine naturale della conoscenza e formazione delle scienze, partendo dall’intelletto, per poi giustificare (per quanto possibile) le funzioni che caratterizzano l'azione cognitiva (fantasia e sensibilità). E scrive: «Bisogna venire poi alle cose stesse, le quali devono essere considerate solo in Eugenio Garin, Laterza, Roma-Bari 1986, 30. 8 René DESCARTES, Regole per la direzione dell’ingegno in Opere Postume. 1650-2009, a cura di Giulia Belgioioso, Bompiani, Milano 2009, 749 (R. 12). 9 Ivi, 727 (R. 8) 10 Ivi, 691. 4 quanto sono colte dall’intelletto»11. La scuola Il nuovo metodo sensi intelletto fantasia (memoria) sensi fantasia (memoria) intelletto Da qui, l’insistenza sul metodo. «Per metodo, poi, intendo regole certe e facili, tali che chiunque, osservandole esattamente, non supponga mai come vero nulla di falso e, senza aver inutilmente compiuto il minimo sforzo della mente, ma aumentando sempre gradualmente la scienza, pervenga alla vera conoscenza di tutto ciò di cui sarà capace» 12. La vera conoscenza è quella più certa, non mescolata con l’errore, il dubbio, e l'incertezza. Quali, allora, saranno gli oggetti più semplici e certi (le idee chiare e distinte per utilizzare il lessico cartesiano)? Sempre secondo Cartesio è evidente che sono gli oggetti della matematica. Difatti, gli oggetti matematici sono intrinsecamente i più certi ed immediati e ci danno una sicurezza che gli altri oggetti per loro stessa natura non possono fornire. L’ideale per Cartesio è una mathesis universale che comprende tutte le altre scienze che da essa derivano. A questo punto, ciò che dobbiamo domandarci è se davvero gli oggetti della matematica (aritmetica e geometria) sono i più “evidenti”. Come giustificare una simile affermazione? Questa domanda non è da poco conto giacché, per esempio, dalla prospettiva del realismo critico, non è così: gli oggetti più naturali dell’intelletto umano sono le cose quotidiane, del senso comune. «Il senso comune è di per sé incontrovertibile; la sue certezze possono, sì, essere negate dalla filosofia (o da qualche altra forma di conoscenza scientifica), ma con tale intrinseca contraddittorietà che la filosofia stessa, prima o poi, negherà la negazione e ristabilirà la verità del senso comune come proprio presupposto» 13. Ma Cartesio parte da ciò che meglio conosce, la matematica appunto, di cui egli era grande erudita. Essendo poi così impressionato dai successi che il metodo matematico aveva raggiunto, concluse che tutta la conoscenza doveva procedere mediante una simile metodologia. Scriveva che «[…] prima di entrare in determinate questioni occorre prima di tutto raccogliere insieme, come capita, senza fare scelta alcuna, le verità ovvie e poi poco a poco vedere se alcune altre possono essere dedotte da queste, e poi di nuovo altre da queste ultime e così via di conseguenza»14. Ma le “verità ovvie” non sono della matematica, ma dell’esperienza 11 Ivi, 731 (R. 8). 12 Ivi, 699 (R. 4). 13 Antonio LIVI, La ricerca della verità. Dal senso comune alla dialettica, Casa Editrice Leonardo Da Vinci, Roma, 2005, 38. 14 René DESCARTES, Regole per la direzione dell’ingegno, cit., 715 (R. 6). 5 ordinaria e immediata (“Ho messo tutte e due le scarpe?”, “Piove là fuori o c’è il sole?”, “Ho soldi sufficienti per comprare una pizza?”). «Tutti gli uomini sono sufficientemente dotati per il vero, e nella maggior parte dei casi raggiungono la verità»15. L’aspetto preoccupante per Cartesio è quando la conoscenza dell’esperienza fallisce, quando si cade nell’errore, quando si prende atto che i filosofi non si sono mai messi d’accordo sui problemi filosofici. La sua è un’obiezione di non poca importanza. Queste preoccupazioni lo condussero ad abbracciare il metodo matematico poiché, in codesta metodologia, siffatte discrepanze non si danno. La grandezza del metodo matematico è precisamente il suo carattere di universalità, assolutezza, totale chiarezza e certezza. Ma cedere alla tentazione di caratterizzare tutta la conoscenza sulla la conoscenza matematica non risolve il problema. Non soltanto non risolve il problema della conoscenza, ma introduce dei presupposti che attraversano tutta la filosofia moderna, minando il discorso dei fondamenti del pensiero. L’illusione di una forma di conoscenza assolutamente pura e priva di ogni falsità e incertezze sarà rivelata come una specie d’inganno collettivo, partendo dalla distinzione tra le proposizioni analitiche (le cui verità dipendono esclusivamente dal significato dei termini ad essi pre-stabiliti) e le proposizioni sintetiche (le cui verità dipendono dai fatti del mondo) tipiche del pensiero kantiano, passando per la critica di Quine (cfr. §4.2), fino ad arrivare al superamento definitivo di questa dicotomica controversia per mezzo di Davidson (cfr. § 4.3). In epilogo possiamo dire che se le motivazioni cartesiane verso la ricerca dei fondamenti ultimi della conoscenza sono stati ammirevoli, non possiamo dire la stessa cosa riguardo la sua innovativa proposta epistemologica. A causa di ciò, infatti, il realismo critico ha dovuto aspettare molto tempo prima di ri-affermare un solido fondamento per le sue speculazioni; ma come tutte le cose importanti, valeva la pena aspettare. Philip Larrey 15 ARISTOTELE, Retorica, A 1, 1355, a 15-17, in Antonio LIVI, cit., 34. 6