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Dialoghi al Liceo Dante
P.E. BIAGINI - B. BIANCHI - F. BRANDMAYR
F. CREAZZO - M. SERGI - D. STROPPOLO
DIALOGHI
AL LICEO DANTE
pagine di cultura e didattica
Liceo Ginnasio Statale “Dante Alighieri”
Trieste 2010
Prima edizione: ottobre 2010
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge
© 2010 Liceo Ginnasio Statale “Dante Alighieri”
via Giustiniano 3 - 34133 Trieste
www.liceodantets.it
pubblicazione realizzata da:
LINT Editoriale srl - Trieste
www.linteditoriale.com
ISBN 978-88-8190-257-6
Indice
Indice .................................................................................
pag. 5
A mo’ di prefazione. Il significato di queste pagine
di Franz Brandmayr.............................................................
»
Ringraziamenti..................................................................
» 15
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea (Federico Creazzo) ..........................
» 17
La crudeltà invisibile, eppure evidente, dello specismo
(Daniele Stroppolo) ..............................................................
» 57
Che fine ha fatto il futuro? Note a margine di un saggio
di M. Augé (Paolo Emilio Biagini) .....................................
» 65
Tre nomi, mille facce. Un invito al viaggio a Istanbul
(Brigitta Bianchi) .................................................................
» 77
Parlare di islàm. Per una comprensione del concetto
di “sottomissione”. Dalle stereotipie ad un approccio
ermeneutico (Franz Brandmayr) .......................................
» 85
Per una didattica nuova delle lingue classiche. Il latino ed
il greco secondo il “metodo natura” (Marina Sergi) .....
» 133
7
5
A mo’ di prefazione.
Il significato di queste pagine
di Franz Brandmayr
Come diceva Goethe, è bene imparare a fare la
cosa più piccola nella maniera più grande.1
Anelare ed attendere non basta, e ci comporteremo in altra maniera: ci metteremo al nostro
lavoro ed adempiremo al “compito quotidiano”
– nella nostra qualità di uomini e nella nostra
attività professionale. Ciò è semplice e facile,
quando uno abbia trovato e segua il demone che
tiene i fili della sua vita.2
Era proprio necessario questo volume? Siamo stati formati ad
una certa sobrietà, in base alla quale si dovrebbe dare alle stampe
solamente qualora l’umanità, privata dei nostri scritti, venisse in
qualche modo a risentirne. Non ci sono già abbastanza pubblicazioni che raccolgono ricerche di carattere didattico, scientifico e
culturale in genere? Occorre che ci aggiungiamo al numero dei
tanti che, nella pletora comunicativa, fanno sentire la loro voce?
Rispondere a queste domande – formulate in maniera volutamente retorica – potrebbe costituire un esercizio un po’ stucchevole se ci rifacessimo soltanto a motivazioni del tipo: oggi
c’è bisogno di spazi che raccolgano le riflessioni di chi opera
nella scuola secondaria di secondo grado a prescindere dalle
1
GUITTON J., Il lavoro intellettuale, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 198711
(s.d. orig.), p. 7.
2
WEBER M., La scienza come professione, in ID., Il lavoro intellettuale come professione,
Einaudi, Torino 1966 (1918), p. 43.
7
Franz Brandmayr
appartenenze e dagli schieramenti politici o sindacali. Oppure:
c’è la necessità di ambiti di espressione in cui si oda la voce
“della base”, di chi opera nella scuola in “prima linea”, soprattutto in un tempo in cui sulla scuola superiore parlano, scrivono
e (non di rado) agiscono un po’ tutti, compresi i non addetti ai
lavori. Sarebbe già più audace affermare: è opportuno che si dia
il modo di produrre ricerca didattica e finanche scientifica a
quei liberi studiosi (che non mancano nel mondo della scuola),
che non sempre hanno la possibilità di vedere pubblicati i loro
lavori, e spesso semplicemente perché non sono aggregati a istituzioni o a gruppi particolari…
Forse in questa nostra uscita allo scoperto c’è anche qualche
cosa di tutto questo… Tuttavia ciò che ci ha unito come gruppo di insegnanti e ci ha indotti a perseguire un tentativo di questo genere è stata soprattutto la semplice esperienza di una certa riscoperta della nostra professione o – meglio ancora – di una
serie di riscoperte progressive ed ancora in corso d’opera; in ciò
consiste il quid, peraltro, che permette di spostare il nostro discorso dal piano dell’artificio retorico a quello più concreto della pratica lavorativa nella scuola dell’oggi.
Una certa consuetudine con l’ascolto vicendevole, l’accoglienza e la valorizzazione delle altrui conoscenze e competenze sono
venute caratterizzando la nostra collaborazione degli ultimi anni
e ci hanno portato a fare riferimento ai nostri dialoghi anche nel
corso delle lezioni, durante le quali abbiamo provato il piacere
di citare agli studenti gli uni le letture e le riflessioni degli altri
colleghi. Anche una certa disponibilità alla lettura degli altrui
elaborati, come a fornire e a ricevere suggerimenti, a correggere
o rivedere eventuali bozze e via dicendo, tutto ciò ha sicuramente favorito un progressivo affiatamento.
Questo confronto, peraltro, non va idealizzato. Esso ha alternato senz’altro momenti più intensi a periodi in cui i gravami
della didattica quotidiana hanno assorbito quasi ogni nostra energia; pertanto talvolta ci siamo trovati costretti a ridurre di molto
8
A mo’ di prefazione. Il significato di queste pagine
l’intensità dello scambio. Da un’altra angolatura va rammentato
ancora che abbiamo dibattuto tematiche nelle quali le affinità
potevano emergere più evidentemente ed altre in cui una grintosa (quasi mai litigiosa) diversità3 ci ha portato a marcare i rispettivi
confini… il tutto condito non di rado da una certa ironia, ma mai
– ci verrebbe da testimoniare – da un irenismo4 di maniera.
Forse in questo esercizio si è affinata una certa dialettica della ricerca, che ha contribuito a farci apprezzare la peculiarità dei
diversi approcci disciplinari, per cui la filosofia,5 la storia, le scienze religionistiche,6 l’italianistica, le discipline classiche7 etc. …
riservavano percorsi e prospettive nuovi e sorprendenti ai non
addetti che si ponevano in ascolto, ma non di rado anche all’esperto di turno, che nell’esposizione ai colleghi si sentiva formulare richieste più incisive, osservazioni più puntuali e obiezioni più decise. In tutti, poi, parlatori ed ascoltatori, è rimasta
3
Può risultare pertinente segnalare il fatto che presso il Liceo “Dante Alighieri”
le tematiche relative alla differenza culturale (per una introduzione vd. ad es.
COLOMBO E., Crisi della modernità e tema della differenza, in ID., Le società
multiculturali, Carocci, Roma 2002, pp. 13-31 e le indicazioni bibliografiche
riportate alla fine del volume) sono da svariati anni al centro dell’attenzione
di corsi anche specifici [per rifarci a due esempi recentissimi vd. ad es. il Corso
propedeutico di lingua araba (2009) e il corso svolto in una prospettiva antropologico-culturale Lontananze ormai vicine. Incontro con la cultura Baule (Costa d’Avorio) (2010), ambedue promossi dal Laboratorio permanente delle culture].
4
In qualche modo collegabile con l’irenismo il tema del relativismo è stato
fatto oggetto di riflessione in questo volume da CREAZZO F., Il relativismo nella
storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea.
5
In questo ambito disciplinare pubblichiamo nelle pagine che seguono anche
il contributo di STROPPOLO D., La crudeltà invisibile, eppure evidente, dello specismo.
6
L’espressione è ormai invalsa nell’uso degli addetti ai lavori [cfr. FILORAMO
G.-PRANDI C., Le scienze delle religioni, Morcelliana, Brescia 19973 (1987), passim].
7
Fra i contributi riportati all’interno si veda la sintesi elaborata da Marina
Sergi (Per una didattica nuova delle lingue classiche. Il latino ed il greco secondo il “metodo natura”) intorno alla sua esperienza della didattica del latino e del greco
insegnati secondo questo metodo.
9
Franz Brandmayr
sovente la percezione del «carattere relativo dei nostri giudizi,
che è l’origine del lavoro di pensiero»8.
Il piacere derivato dalla collaborazione, dallo scambio delle
esperienze didattiche e da un certo accrescimento delle conoscenze e delle competenze ci ha indotto, infine, a nutrire una
nuova considerazione per le nostre rispettive biografie intellettuali: forse non occorre portare nomi celebri o avere alle spalle
qualche istituzione per riconoscere una certa dignità al proprio
percorso esistenziale visto anche attraverso le proprie esperienze di lettura, eventualmente di indagine scientifica o didattica,
di ricerca personale connessa alla professione, ma – perché no?
– anche orientata in direzioni originali, non finalizzate necessariamente all’attività didattica. In svariati anni di collaborazione
fattiva all’interno del Liceo Ginnasio “Dante Alighieri” ci è sembrato di cogliere anche gli aspetti gratificanti di una professione, che continua ad affascinarci per la ricchezza degli stimoli
umani e culturali che le sono intrinseci.
Abbiamo incominciato a ragionare su un lavoro a volte svalutato nella specificità della sua dimensione didattico-pedagogica,
non sempre socialmente riconosciuta e, talvolta, attaccata al livello dei singoli, ma anche di discorso comune, mediatico e perfino
istituzionale.9 Intorno a queste aggressioni alla figura professionale del docente abbiamo trovato utile incominciare a riflettere,
per cogliere i messaggi ed i significati ad esse sottesi; e tutto ciò –
beninteso – non sempre e non solo in chiave autocritica.
8
GUITTON J., Arte nuova di pensare, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 198611 (s.
d. orig.), p. 18. Queste caratteristiche dialogica e critica della nostra collaborazione ci hanno permesso di configurare il nostro lavoro come
“autoaggiornamento” anche sotto il profilo formale.
9
Sornionamente Paul Valéry scriveva degli intellettuali: «Questa specie si
lamenta, dunque esiste» [cit. in LEPENIES W., Ascesa e declino degli intellettuali,
Laterza, Roma-Bari 1998 (1992), p. 8], ma crediamo si possa agevolmente
constatare come non sia questo lo spirito che anima la presente riflessione.
10
A mo’ di prefazione. Il significato di queste pagine
Ci siamo chiesti anche come mai questa professione venisse
spesso mutilata della sua dimensione euristica e perché essa tendesse a venire ridotta – in buona misura – alle sue funzioni tecnico-didattiche, con riferimento ad esempio alle varie fasi della
programmazione, o ad una ricerca orientata comunque verso
applicazioni di tipo quasi esclusivamente didattico.
Ci interroghiamo sul significato della nostra esperienza di
docenza, iniziata – per alcuni di noi – nell’epoca del mito della
scuola erogatrice di informazioni10 e progressivamente slittata
sul terreno instabile della scuola concepita come luogo dell’educazione, cioè del “trarre alla luce” il “meglio di sé”11 (i cui
contenuti erano – però – assai variamente intesi) per giungere
infine alla “scuola delle competenze”12, nella quale l’allievo
sembra essere chiamato soprattutto a “saper fare”13. Avvertiamo l’esigenza di scambiare le nostre riflessioni anche intorno
a questo nodo problematico e di farlo attingendo ispirazione
ad autori e testi, che possano gettare luce su questa situazione,
in cui potremmo ritrovarci a funzionare come “cinghie di trasmissione” di una burocratizzazione onnipervasiva. L’assolvi-
10
Un genere di scuola nella quale si coltivava una «difficile aspirazione a
un’impossibile neutralità» (CICATELLI S., Conoscere la scuola. Ordinamento didattica legislazione, La Scuola, Brescia 2004, p. 96).
11
Vd. ad es. GANDHI M.K., Antiche come le montagne, Ed. Comunità, Milano
198313 (1958), p. 203.
12
CICATELLI S., op. cit., pp. 114-119.
13
A questo aspetto della discussione ha partecipato con le sue considerazioni anche Giulia Pagani del Liceo scientifico “Guglielmo Oberdan”.
Nonostante l’imprecisione del linguaggio didattico, sembra di poter evincere
dall’insieme dei testi normativi redatti fino all’ultimo progetto di riforma (L.
53/2003: è la “Riforma Moratti”; come è noto, la cosiddetta “riforma
Gelmini” si configura – in realtà – come un riassetto dell’ordinamento scolastico) un complesso di indicazioni cui soggiace una sensibilità di tipo
pragmatistico e in buona misura sintetizzabile nell’espressione “risoluzione
di problemi” (cfr. CICATELLI S., op. cit., p. 117).
11
Franz Brandmayr
mento degli aspetti tecnici, che – indubitabilmente – caratterizzano la funzione del docente, non potrebbe contribuire a
plasmare nel docente una forma mentis da mero esecutore? Chiamato a “formare”14 gli studenti, affinché, a loro volta, “sappiano fare”, l’insegnante non li indurrà a riprodurre in tal modo
quella sindrome da tecnopolio, che Postman ha così bene evidenziato negli anni Novanta15?
Il quesito di fondo, perciò, riguarda direttamente la vitalità e
l’attualità dell’ideale della ricerca e dello studio fini a se stessi.
“Wst’ e‡per di¦ tÕ feÚgein t¾n ¥gnoian ™filosÒfhsan,
fanerÕn Óti di¦ tÕ e„dšnai tÕ ™p…stasqai ™d…wkon kaˆ oÙ
cr»seèj tinoj ›neken (Se [gli uomini] hanno filosofato per
liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo
al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica)16.
14
È possibile che il concetto di “formazione”, proveniente dal “mondo produttivo” [CONTESSA G., s.v. Formazione, in DEMARCHI F.-ELLENA A.-CATTARINUSSI B. (a cura di), Nuovo dizionario di sociologia, Paoline, Cinisello Balsamo (MI)
19943 (1987), p. 886], venga declinato secondo una sensibilità propria di una
certa tradizione tayloristica [cfr. GRANGER G.-G., È necessario confondere conoscenza scientifica e sapere tecnico?, in ID., La scienza e le scienze, Il Mulino, Bologna 1996
(1993), pp. 33-34]. Come osserva Cicatelli, il concetto non viene adoperato
solo per designare la “formazione professionale” (cfr. CICATELLI S., op. cit., pp.
90-93); sussiste la preoccupazione, pertanto, che si voglia improntare la scuola
italiana attuale ad una logica di tipo nettamente aziendale.
15
Cfr. infra il contributo di BIAGINI P.E., Che fine ha fatto il futuro? Note a
margine di un saggio di M. Augé. Cfr. anche i riferimenti di LEPENIES W., op. cit.,
pp. 50-51 in merito al prevalere dei tecnocrati sugli intellettuali nell’Europa occidentale. In questa prefazione si attribuisce la qualifica di “intellettuale”, intesa in un’accezione priva di contenuti snobistici, anche ai lavoratori docenti della scuola. È sicuro, d’altra parte, che ogni soggetto “riempie
questo ruolo” secondo modalità che gli sono peculiari e che possono differire notevolmente da caso a caso.
16
ARISTOTELE, Metafisica, 2, 20. Abbiamo fatto riferimento all’edizione
Bompiani, Milano 20023, pp. 10-11 e alla traduzione proposta da Giovanni
Reale (parentesi quadra nostra); cfr. anche WEBER M., op. cit., p. 18.
12
A mo’ di prefazione. Il significato di queste pagine
Ponendoci in ascolto dei maestri del pensiero europeo e come
lavoratori intellettuali avvertiamo l’importanza di chiederci se e
perché l’atteggiamento di ricerca17 debba lasciare spazio ad «uno
spirito strettamente tecnico che antepone il successo alla spiegazione»18. Nel caso di una (inevitabile?) risposta affermativa, si tratterebbe, però, di stabilire le proporzioni, le modalità, le condizioni alle quali consentire questa reciproca fecondazione fra lo
spirito scientifico ed il sapere tecnico, due realtà ben distinte
che non di rado vengono impropriamente confuse.
Queste e molte altre osservazioni ancora ci inducono quindi a
ritenere che uno dei compiti degli operatori della scuola rimanga,
sempre e comunque, quello di “pensare se stessi”, di porsi come
oggetto di fronte a se stessi. Ci sembra che solo una certa attenzione critica rispetto alla tirannide prescrittiva della ragione strumentale possa preservarci dal venire omologati alla concezione tecnocratica dei terribles semplificateurs preconizzati da Jacob Burckhardt.19
La percezione di una diffusa elementarizzazione del pensiero
e – più in generale – della capacità di interpretare la realtà tutta
non viene certo attenuata dalla pressione di un mondo mediatico
(che parrebbe talvolta fagocitare anche quello degli intellettuali?)
molto invasivo e che risente sempre di più della globalizzazione
(o, secondo qualche autore, della “americanizzazione”20). In questa temperie si propende ad identificare la cultura con l’aggiorna-
17
Parafrasando PLATONE, Apologia di Socrate, 38, A, potremmo chiamarlo
™xštastoj b…oj (exetastos bios), traducibile con “una vita improntata alla ricerca”.
18
GRANGER G.-G., op. cit., pp. 35-36.
19
LEPENIES W., op. cit., p. 65; l’A. scrive anche della «tendenza al livellamento
culturale» e della «routinizzazione del carisma» teorizzata da Weber (ivi, p.
70), che in Europa si sarebbero prodotte dopo la caduta dei regimi del socialismo reale (ivi, p. 66); soprattutto il secondo concetto potrebbe caratterizzare il processo di tecnicizzazione dell’insegnamento.
20
RITZER G., La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumi-
13
Franz Brandmayr
mento rispetto alle mode culturali, secondo i consolidati (e oramai stantii) criteri della tempestività e del sensazionalismo.21
Ciò potrebbe sfavorire la conservazione, l’approfondimento
e la promozione di un sapere critico e non inteso semplicemente a riprodurre se stesso per sopravvivere nella deriva della
«mcdonaldizzazione dei saperi»22. È quanto talvolta si evidenzia
nello sfolgorio pirotecnico di quei “rituali profani” rappresentati da una certa tipologia di open days.23 È probabilmente quest’ultimo, del resto, il bandolo della matassa: è difficile non scorgere svariati segnali in direzione dell’adeguamento della scuola
al modello aziendale, al suo interno e, all’esterno, della funzionalizzazione della scuola stessa ad una civiltà dei consumi sempre più povera di interrogativi e senza più sussulti, nella quale
ogni maieutica risulti inutile, in quanto ogni bisogno primario,
secondario o indotto sarebbe già stato soddisfatto.
smo, Il Mulino, Bologna 2000 (1999), p. 65; del resto già WEBER M., op. cit., p.
8 scriveva nel 1918 della progressiva americanizzazione dell’università e della società tedesca nel suo complesso. Per una interpretazione diversa ed una
critica alla posizione di Ritzer vd. ad es. SASSATELLI R., Consumo, cultura e società, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 215 ss. e SENNETT R., La cultura del nuovo
capitalismo, Il Mulino, Bologna 2006 (2006), p. 12.
21
Tale situazione veniva segnalata già negli anni Sessanta: «La rilevanza e la
tempestività sono determinate dalla società generale e soprattutto da mezzi di
comunicazione di massa, i quali sono afflitti da una fame incurabile di novità.
Orbene, quanto essi proclamano rilevante è, quasi per definizione, estremamente esposto al mutare delle mode» [BERGER P.L., Il brusio degli angeli. Il sacro
nella società contemporanea, Il Mulino, Bologna 19952 (1969), pp. 38-39].
22
Cfr. RITZER G., op. cit., pp. 158-159.
23
Per empatia metodologica con il nostro oggetto di riflessione (la scuola della
“domanda”, dell’“offerta” e del “contratto formativo” etc.) scegliamo di utilizzare la lingua “liturgica” propria di questi rituali di nuovo conio e che certi nostri
dirigenti scolastici (chissà perché poi continuare a chiamarli presidi non andava
bene…) sono costretti (?!) a officiare a beneficio di folle di futuri adepti. La dizione
“giornata aperta” ci sembra, invece, insopportabilmente modesta e feriale…
14
Ringraziamenti
Questa pubblicazione non avrebbe visto la luce senza il sincero interesse del
dirigente scolastico Patrizia Saina e del direttore dei servizi generali amministrativi Lucia Napolitano. Una scuola di piccole dimensioni come il nostro “Dante” può ottenere solo risorse proporzionalmente ridotte: non è
stato uno sforzo da poco impiegarle in una direzione così “gratuita” e il cui
riscontro in termini di restituzione d’immagine potrebbe essere problematico. Crediamo di leggere in questa scelta così anti-economica una lungimiranza ed una carica ideale apprezzabili e meritevoli di gratitudine.
Molti colleghi hanno seguito con simpatia la lunga gestazione di questo volume e alcuni di essi hanno proposto suggerimenti degni di attenzione: di ciò li ringraziamo e ci auguriamo di poter raccogliere in futuro
anche i loro contributi, in particolare quelli afferenti gli ambiti disciplinari (scienze logico-matematiche, scienze sperimentali, lingue e letterature straniere, scienze storiche e storico-artistiche, scienze motorie), che non
figurano in questa raccolta.
15
Il relativismo nella storia della filosofia
e nell’epistemologia contemporanea
di Federico Creazzo*
1. Introduzione
Scopo di questa analisi è quello di indagare e confrontare le più
importanti accezioni nelle quali il termine relativismo si è presentato nei diversi ambiti di ricerca, nonché quello di evidenziare i nessi, le contraddizioni e le analogie che hanno storicamente accompagnato l’uso di questo concetto. Il termine relativismo definisce ogni concezione che nega sia l’esistenza di un
mondo di cose o di verità fuori da ogni relazione con i soggetti
d’esperienza sia l’assolutezza del pensiero. Il soggetto, al quale
sono relativi i giudizi, può essere inteso o come questo o quell’individuo oppure come il soggetto universale. Esso non connota quindi una vera e propria dottrina né un nucleo di pensiero
quanto un eterogeneo insieme di concezioni e atteggiamenti
che variano, anche di molto, a seconda del quadro storico e concettuale di riferimento. Nella storia della filosofia e più in generale del pensiero occidentale, si è parlato in senso lato di relativismo a proposito di autori i cui esiti concettuali sono stati a
volte molto diversi, se non addirittura opposti. In senso ampio,
le concezioni relativiste negano l’esistenza dei principi assoluti,
*
Docente di storia e filosofia.
17
Federico Creazzo
di un soggetto universale e di soggetti sempre identici a se stessi
o di un ente che funga da fondamento dell’essere e del conoscere. Da questa affermazione possono derivare sia posizioni di scetticismo radicale, fino al limite del nichilismo gorgiano, che concezioni che si avvalgono dell’inferenza tra più sistemi di riferimento
per determinare l’oggetto della conoscenza. Nell’ambito della critica operata dagli empiristi inglesi, in particolare da Locke (16321704) e Hume, dei presupposti del razionalismo di derivazione
cartesiana,1 un certo margine di relativismo conoscitivo o di scetticismo è da intendersi come correttivo delle pretese di una ragione che si pone legislatrice della natura e che invece si rivela come
astrazione con fini prevalentemente euristici, all’interno di una
gnoseologia fortemente connotata in senso empiristico.
In senso puramente logico “relativismo” indica il fatto che un
insieme di proposizioni ha senso solo se riferito ad un altro insieme, che lo determina. A riprova dell’estrema variabilità semantica
del concetto, diciamo subito che alcune concezioni relativistiche
approdano invece alla negazione di qualsiasi forma di determinismo e affermano una sostanziale incapacità o impossibilità di
definire un sistema di riferimento dei significati. Tra le varie forme che il relativismo ha storicamente assunto è possibile distinguerne almeno tre principali, e cioè il relativismo gnoseologico, che ha
avuto rilievo soprattutto nell’ambito della teoria della conoscenza
e dell’epistemologia, il relativismo culturale,2 in qualche modo collegato al primo, che ha avuto importanti conseguenze nell’ambito
1
Cfr. LOCKE J., Saggio sull’intelletto umano, Utet, Torino 1971, pp. 622-657.
Per una introduzione al tema in ambito antropologico-culturale si vedano:
MALIGHETTI R., s.v. Relativismo culturale, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di),
in Dizionario di Antropologia. Etnologia, antropologia culturale, antropologia sociale,
Zanichelli, Bologna 1997, pp. 620-621 e DEI F.-SIMONICCA A., Ragione e forme
di vita. Razionalità e relativismo in antropologia, Franco Angeli, Milano 2008, passim.
Per un primo approccio al concetto di cultura vd. ROSSI P. (a cura di), Il
concetto di cultura, Einaudi, Torino 1970, passim.
2
18
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
delle cosiddette scienze della cultura nella storia, nell’antropologia culturale e nella sociologia3 (quelle che Weber chiamava
scienze storico-sociali), e il relativismo etico che ha avuto e continua ad avere importanti effetti sul dibattito filosofico politico.
Questa distinzione è necessariamente approssimativa e in qualche misura arbitraria e deve essere assunta problematicamente.
Essa serve a circoscrivere dei campi d’indagine che altrimenti
risulterebbero spuri e ambigui più di quanto la natura stessa del
termine non consenta. In questo lavoro ci si occuperà prevalentemente di relativismo gnoseologico e solo incidentalmente si
faranno dei riferimenti ai riflessi e alle implicazioni di questo
sulle altre forme di relativismo, con particolare riferimento all’ambito della teoria della scienza e della metodologia storica. In
particolare verranno presi in esame alcuni rilevanti aspetti dello
storicismo tedesco (Dilthey, Windelband, Rickert). Sulla base di
tale punto di vista si affermerà che l’evento storico può essere
spiegato solo in quanto si compie all’interno di un insieme storico di sistemi e di valori nel cui ambito per un certo tempo si
muove la comunità umana e che il giudizio del ricercatore è
condizionato dall’orizzonte culturale e dalla particolare connessione spirituale a cui lo storico stesso appartiene. Le spiegazioni
storiche sono formulate a partire da quelle diverse connessioni
di relazioni che costituiscono le nostre intuizioni del mondo.
Gli eventi del mondo non hanno una consistenza extrastorica
che renda ipostatico il valore delle formule con le quali sono espressi e questo fatto rende relative anche le leggi di natura. Infatti la
scienza, benché si occupi di quei frammenti di esperienza che
persistono facendoli diventare entità assolute fuori da ogni relazione con il soggetto e vada alla ricerca delle loro successioni e
coesistenze immutabili, ha conosciuto il mutamento dei propri
termini, dei propri schemi, dei nessi logici e delle proprie teorie.
3
WEBER M., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1981 (1922), passim.
19
Federico Creazzo
2. Il relativismo nella storia del pensiero filosofico
e scientifico
Da un’analisi storica e comparativa dei modi e delle accezioni in
cui il termine relativismo è stato utilizzato in riferimento alle diverse dottrine filosofiche e scientifiche, emerge, come si è già detto nell’introduzione, una notevole variabilità semantica e concettuale. Essa in parte dipende dal fatto che questo termine non ha
quasi mai qualificato in modo sostanziale una particolare dottrina, ma è servito piuttosto a caratterizzare gli aspetti di quelle dottrine che, in diverso modo, mettevano in discussione i principi di
una gnoseologia fondata in modo assoluto e universale su un entesostanza materiale o ideale o comunque sulla presupposizione
della stabilità del soggetto conoscente. A volte tale termine è stato usato con intenzioni dispregiative nei confronti di quelle posizioni che ad una cultura prevalente sono apparse insostenibili sotto
il profilo etico o politico, oltre che gnoseologico.
A prescindere da questi casi, si può facilmente notare che
esistono almeno cinque diverse accezioni generali del relativismo, che si sono intrecciate e con-fuse lungo l’arco della storia
del pensiero filosofico e scientifico occidentale e una serie di
altre connotazioni secondarie, che dipendono dai particolari
quadri concettuali di riferimento.
1. In generale, le concezioni relativiste negano l’esistenza dei
principi assoluti, di un soggetto universale e di soggetti sempre
identici a se stessi o di un ente che funga da fondamento dell’essere e del conoscere. Talvolta si può quindi intendere per relativismo l’assenza di fondamento unico e assoluto del conoscere.
2. Un secondo modo di intendere il relativismo è logicamente connesso con il primo. Negare un fondamento unico e assoluto
non comporta la necessità logica di negare che la conoscenza
possa fondarsi su una pluralità di principi, posti in relazione reciproca. Quindi il relativismo può essere inteso come determinazione relazionale della verità.
20
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
3. Il termine relativismo è stato talvolta utilizzato per indicare l’impossibilità o l’incapacità di determinare in modo oggettivo e interpersonale una qualsiasi verità, dato che ogni sua rappresentazione è
modificata da una molteplicità inconoscibile di fattori soggettivi ed oggettivi. Quindi il relativismo viene talvolta inteso come scetticismo radicale, per significare l’assoluta impotenza del pensiero.
4. In particolari contesti il termine relativismo può indicare la
natura congetturale e provvisoria di ogni conoscenza, svolgendosi questa per approssimazioni successive, e quindi come relazione della parte con l’intero. Relativa è la parte finita di un processo infinito
o indefinito che è la totalità potenziale della conoscenza.
5. Un’ulteriore accezione di relativismo, che in parte contiene elementi delle precedenti, può riguardare una teoria della conoscenza incentrata sull’attività di significazione o interpretazione del mondo da parte dei vari soggetti, i quali però vengono a
loro volta interpretati, ovvero modificati dalle prospettive presenti nella cultura di cui sono parte. Anche questa è una forma
di relazionalismo simile a quella indicata nel punto 2, ma in questo caso la relazione conoscitiva non avviene tra elementi ma
tra prospettive o orizzonti di significati che si modificano reciprocamente e che si fondono insieme nel circolo ermeneutico che
si stabilisce tra il soggetto e l’oggetto. In questo caso il relativismo indica: A) la pluralità degli orizzonti di significato, nessuno
dei quali è più vero di ogni altro;4 B) che la prospettiva è relativa al
soggetto non meno di quanto il soggetto sia relativo alla prospettiva (orizzonte); C) che la fusione degli orizzonti e delle prospettive
conduce ad un aumento indefinito della conoscenza del mondo, ma in
un modo tale per cui non è possibile indicare una meta o una
strada da percorrere; D) che questo circolo ermeneutico costituisce l’unico modo per stabilire di volta in volta ciò che si considera
4
GADAMER H.G., Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica, Bompiani,
Milano 1983, passim.
21
Federico Creazzo
Verità; E) che questo relativismo prospettico non ha nulla a
che vedere con il soggettivismo solipsistico o con lo scetticismo radicale e agnostico.
Se si esce dall’ambito della gnoseologia generale e si entra
nel campo della metodologia storica, il termine relativismo conferma un notevole margine di indeterminazione. Sono stati considerati relativisti autori molto diversi tra loro come Dilthey, Windelband, Rickert, Simmel e Weber, sulla base di analogie puramente esteriori che nascondono concezioni filosofiche, scientifiche e metodologiche talvolta molto distanti.
La collocazione di Dilthey (1833-1911) nell’ambito del relativismo è assai problematica. Si è creduto di poter considerare
Dilthey relativista in conseguenza della sua contrapposizione
con lo storicismo assoluto di Hegel (1770-1831). Ma, a ben vedere, il suo principio epistemologico dell’Erleben, che è connotato in senso ontologico, costituisce una sorta di criterio metastorico che permette di superare la relatività delle diverse rappresentazioni del mondo storico. Si tratterebbe allora di un relativismo “imperfetto”, perché risente ancora di una forte influenza
romantica. Weber (1864-1920) considerava il principio dell’Erleben troppo vago e suggestivo per costituire la base dell’epistemologia storica. A suo avviso la precomprensione della storia
che si basa sull’Erleben non consente una verosimile imputazione causale dei fenomeni storici individuali e al tempo stesso
ipostatizza un principio metastorico che si pone al di là dell’orizzonte mobile della significazione, la quale è sempre storicamente determinata.
Un equivoco derivante dall’uso corrente del termine relativismo consiste poi nella sua sovrapposizione e confusione con il
concetto di soggettivismo. Si tratta di un errore diffuso talvolta
anche tra alcuni addetti ai lavori i quali trascurano di considerare la plurivocità e l’ambiguità delle nozioni di soggetto e soggettivismo nella storia del pensiero filosofico e scientifico. In questa
sede è sufficiente precisare ad esempio che il soggettivismo kan22
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
tiano non ha relazione con nessuna delle accezioni di relativismo sopra specificate. Se poi ci riferiamo al cogito cartesiano,
anch’esso legato ad una forma di soggettivismo gnoseologico,
risulta chiaro che i due termini devono essere tenuti distinti, a
meno che non si delimiti chiaramente il loro significato.
È abbastanza curioso notare il fatto che dizionari e trattazioni specialistiche sull’argomento relativismo spesso trascurino una
considerazione essenziale (e anche banale), e cioè che di volta in
volta la sua definizione dipende dal significato del concetto di verità e
dal valore di posizione che esso ha all’interno di una filosofia. Dire che le
verità sono relative può significare una tale quantità di cose diverse
da non significare quasi nulla, se noi non precisiamo il quadro
concettuale di riferimento e il valore di posizione dell’idea di
verità di ciascuna dottrina filosofica. Per esempio Platone concepisce la Verità o come l’Idea in se stessa, archetipo immutabile delle cose, o sul piano gnoseologico, come quei giudizi che
danno rappresentazione di tale immutabilità. Affermare qualcosa di diverso significa necessariamente cadere nell’errore. Per
lui nfatti non esiste conoscenza o verità che possa riguardare i
mutamenti del mondo sensibile o dipendere dalla pluralità dei
soggetti conoscenti. In questo senso la doxa di Protagora appare a Platone come l’esatto contrario della verità. Se invece noi
prescindiamo della nozione platonica di verità e dal suo pesante
giudizio sulla scuola sofistica, potremmo interpretare Protagora
positivamente, non come il negatore di qualsiasi verità, ma come
il filosofo che ha ridefinito la verità come pluralità di verità. Soltanto
l’opinione, nel suo accadere fenomenico, ha per Protagora quel
carattere di certezza che altri ricercano nella verità unica e universale.
Per Protagora e per i Sofisti la variabilità della conoscenza (la
sua indecidibilità) dipende dalla indeterminazione del soggetto
e dell’oggetto. A diversi soggetti e in diverse condizioni, la verità appare del tutto diversa e infinitamente variabile.
Il modo in cui le cose ci appaiono dipende dalle nostre sensazioni e questa apparenza è il solo dato che possediamo. L’in23
Federico Creazzo
dividuo è variabile e le sue sensazioni sono ugualmente vere
ciascuna nel momento del suo accadere; l’individuo, in ogni istante
determinato, è quindi l’unica misura possibile di tutte le cose,
“di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in
quanto non sono”. L’unica conoscenza possibile, quindi, non
sarà la verità ma la doxa. Per questo motivo è possibile far risalire
alla riflessione sofistica una delle prime forme di relativismo
gnoseologico, che approderà con Gorgia (485-375 a.C.) ad uno
scetticismo conoscitivo ancora più radicale, culminante nell’affermazione che non è possibile conoscere alcunché.
Socrate (469-399 a.C.) capovolge i termini posti dai fisici
naturalisti al problema conoscitivo: anziché partire dalle leggi
della natura per spiegare l’uomo, prende come punto di partenza l’uomo per spiegare il mondo. Per comprendere il valore gnoseologico di questo cambiamento bisogna tener conto del mutamento dell’orizzonte filosofico socratico, tutto concentrato
sulla polis e le sue leggi, sull’uomo e la sua ragione, piuttosto che
sulla natura e le sue cause. Egli credeva che la ragione creatrice
del mondo procedesse come la ragione umana e che l’intera
costruzione del mondo andasse spiegata con i principi della finalità razionale. Se prima appare il piano, lo scopo e poi la materia e infine la forza che lo deve mettere in moto, le cause efficienti diventano qualcosa di insignificante, esse sono solo gli
strumenti di una ragione che pensa come una persona. Socrate
affermò l’identità di pensiero ed essere dicendo che la ragione
dell’anima del mondo ha tutto pensato come noi possiamo pensare a nostra volta se facciamo un corretto uso della ragione.
Socrate credeva all’oggettività della scienza e all’essenza universale delle cose in mezzo alla mobilità dei fenomeni, ma non
separò la generalità dall’individualità perché concepiva la relazione del generale con il particolare, dando la priorità al generale. Egli cercava la definizione esatta delle cose perché credeva
che la parola indicasse la loro essenza, cioè riteneva che il termine generale facesse conoscere l’essenza di un’intera classe di
24
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
oggetti ed è per questo che viene comunemente considerato
come lo “scopritore” del concetto. Il procedimento socratico
impiega le definizioni e l’induzione come strumenti della sua
dialettica; l’arte di discutere di Socrate consisteva nel passare dal
caso particolare alla definizione generale, per poi ritornare a
concludere dalla generalità ai fatti particolari: il caso particolare
poteva essere rettamente compreso alla luce della definizione e
non il contrario.
Presupposto di questo procedimento è la negazione del relativismo gnoseologico dei sofisti e la conseguente ridefinizione
della nozione di verità. Mentre per i sofisti la verità si riduce alla
doxa e questa si riferisce all’estrema variabilità del soggetto conoscente, dando luogo ad una sorta di relativismo assoluto, in
Socrate la verità si ripropone non come ente in sé o come principio materiale o razionale, ma come percorso di ricerca intersoggettivo e in quanto tale universale, rivolto all’eliminazione delle false
opinioni. Lo scopo della conoscenza si configura così come un
percorso di approssimazione alla verità che lascia sempre aperta la
strada ad ulteriori sviluppi, in un processo ad indefinitum. Ciò che
lo contrappone ai sofisti e al relativismo gnoseologico è la fiducia nella capacità razionale dell’uomo (di tutti gli uomini) di seguire il medesimo percorso di approssimazione alla verità universale. Rispetto a ciò, la doxa dei sofisti sembra perdere ogni
finalità conoscitiva per rivolgersi alla pura persuasione e alle logiche del potere. Al relativismo gnoseologico si connette anche
il relativismo etico: se manca un sicuro ancoraggio del pensiero
alla verità, non è possibile una nozione comune del bene.
Ai sofisti si può far risalire anche una prima apparizione del
cosiddetto relativismo culturale. L’uomo a cui allude Protagora nella
sua celebre massima può essere inteso sia come individuo che
come umanità, ma anche come la collettività a cui il singolo
appartiene. Ammettere che esistono altri popoli con altri dei ed
altre religioni, altre lingue oltre quella greca e non giudicare questi
fatti in una prospettiva ellenocentrica, apre la strada a quel pre25
Federico Creazzo
supposto dell’antropologia secondo il quale ogni cultura o civiltà ha in se stessa la sua giustificazione e il criterio della propria
spiegazione.
Come si è detto sopra, per Platone i sensi non partecipano
alla scienza, perché testimoniano di un mondo che è in continuo movimento e del mutevole non si dà una vera scienza. Essa è
possibile solo in relazione a ciò che eternamente è, e non può
mutare, cioè alle idee dell’iperuranio, agli archetipi o modelli
perfetti e inalterabili di tutte le cose che esistono, alle cause degli enti corruttibili e imperfetti del mondo sensibile. In tal senso
Platone risulta essere il più fiero nemico di ogni forma di
relativismo: le idee, nella loro eterna e perfetta essenza, costituiscono il punto di partenza e di arrivo dell’essere e del pensiero,
al riparo dal caotico fluire dei fenomeni del mondo sensibile. Le
idee costituiscono il reticolo dei valori su cui si fonda la politica
come una sorta di scienza esatta del bene universale.
A riprova della variabilità (per non dire vaghezza) dei significati del termine relativismo, merita attenzione il fatto che, nella
prospettiva della metafisica materialistica di Lange,5 il pensiero
di Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) viene visto come una forma di
relativismo. In polemica con Platone, Aristotele considera le idee
come appartenenti al piano immanente della realtà e non al piano trascendente del mondo soprasensibile e tuttavia assegna loro
un ruolo preminente rispetto alla materia. Questa è immobile e
priva di ogni movimento proprio. Una delle definizioni della
sostanza afferma che essa è il sinolo di materia e forma, ma la
materia funge da ricettacolo passivo dell’idea espressa attraverso la
forma. Per Lange quindi l’idea aristotelica di materia è relativa in
quanto la materia non esiste in sé, può solo diventare qualche
cosa con l’aggiunta della forma.
5
LANGE F.A., Storia critica del materialismo, Editori Riuniti, Roma 1978 (1866),
passim.
26
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
L’interpretazione di Lange dipende dai presupposti da cui parte
e a cui tende, che lo portano a considerare Aristotele come un
relativista, mentre si può legittimamente affermare che la logica
aristotelica e in modo particolare la sillogistica, con la sua pretesa
di dedurre conoscenze particolari da principi generali e universali, sia stata uno dei pilastri del razionalismo occidentale. Quest’ultimo, affermando l’esistenza di indiscutibili verità di ragione, si colloca sul versante opposto rispetto ad ogni forma di relativismo.
Secondo Epicuro (341-271 a.C.) ogni cosa è regolata secondo un ordine eterno e allo studioso della natura che cerca
la conoscenza delle cause dei fenomeni naturali è sufficiente
dimostrare la possibilità che gli avvenimenti provengano da
leggi generali; la spiegazione dei fenomeni deve restare naturale, cioè deve basarsi sull’osservazione e sulle analogie con i
fatti noti.
Lo stesso Lange annovera Epicuro tra i materialisti “non
relativisti”, ma trascura di considerare la contraddizione prodotta dal concetto di clinamen, e cioè la deviazione casuale degli
atomi dalla loro traiettoria, che introduce un margine di
indeterminazione o casualità nei processi della natura e nella vita
dell’uomo che, a mio avviso, contraddicono il determinismo
meccanicistico degli atomi e aprono, almeno nella sfera etica,
uno spazio al relativo.
Con la dottrina scettica il problema della conoscenza viene
impostato in un modo radicalmente diverso: sia Arcesilao (315240 a.C.) che Pirrone (ca 365-ca 270 a.C.) affermano l’incapacità naturale dell’uomo a dare l’assenso alle proprie rappresentazioni in
quanto, in linea di principio e di fatto, possono essere errate, e l’uomo non
possiede un criterio certo per validarle. Carneade, dal canto suo, afferma che nessuna rappresentazione sensibile può garantire di
essere in accordo con i fatti: che una rappresentazione sia vera è
possibile, ma non è possibile accertare che essa sia vera. Da ciò consegue che l’epochè, la sospensione dell’assenso, sia l’unica via percorribile dal pensiero. È quasi inevitabile che la ricerca assuma
27
Federico Creazzo
forma puramente negativa nei confronti dei dogmata, cioè delle
dottrine filosofiche precedenti (in modo particolare dello stoicismo) e del loro ottimismo conoscitivo. La relatività dei giudizi fu poi il principale argomento degli scettici, ma esso fu
utilizzato non tanto con lo scopo di accreditare una dottrina relativistica
della conoscenza, quanto con quello di dimostrare la fallibilità di ogni
rappresentazione che si presenti come vera in se stessa; Pirrone fondò
a Elide una scuola che fu detta scettica in quanto indicava coloro che abbracciano come sistema lo stato permanente di
dubbio e di ricerca in un atteggiamento di essenziale insoddisfazione. L’ideale di questa scuola è prevalentemente etico (e
non teoretico) e riflette il clima culturale tipico dell’ellenismo,
con un ripiegamento dell’attenzione del filosofo sulla dimensione individuale e privata. L’umanità viene pensata in termini
generali e cosmopolitici, al di là del confine di quella polis che
aveva costituito l’orizzonte della filosofia classica. Lo scopo
della filosofia, come per gli stoici e gli epicurei, è il raggiungimento dell’atarassia, dell’imperturbabilità dell’anima che secondo Pirrone è possibile solo rigettando l’emotività e assumendo un atteggiamento di indifferenza verso le cose e gli uomini.
Se il dogmatismo propone certezze e possibilità di certezze, lo
scetticismo pirroniano afferma l’insuperabilità della condizione di dubbio e di ricerca. Le continue controversie tra i filosofi
sono, per Pirrone, la prova dell’incapacità umana di dare una
rappresentazione obiettiva delle cose e ogni teoria che si pretenda più vera o più fondata dell’altra ha al suo interno una serie
di aporie e di contraddizioni che la rendono equipollente a tutte
le altre. Mentre il relativismo fenomenistico di Protagora non
escludeva per principio la possibilità della conoscenza, il pirronismo si colloca contro la possibilità della conoscenza in generale e a
favore di un atteggiamento prevalentemente etico ed esistenziale.
Anche per Arcesilao, esponente della Media Accademia, l’uomo non è in grado di pervenire alla rappresentazione catalettica, sensi e ragione non possono raggiungere verità certe e nem28
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
meno conoscenze probabili. Alla ragione come principio della verità e della virtù, Arcesilao sostituisce la ragionevolezza, intesa
come criterio della convenienza pratica del pensiero.
Enesidemo6 (ca 80-ca 10 a.C.) raccolse in 10 tropi o modi le
varie specie di relatività che dipendono dalla estrema variabilità
delle nostre percezioni, giungendo a conclusioni sostanzialmente
simili a quelle dei suoi predecessori.
Una svolta gnoseologica all’interno dello scetticismo antico
si ha con Carneade (214-120 a.C.) il quale, pur negando la possibilità di una corrispondenza tra i giudizi e la realtà oggettiva,
attribuisce ai giudizi stessi una capacità conoscitiva fondata sulla relazione con il soggetto che li esprime. Hanno valore conoscitivo
(relativo e probabile) quei giudizi che appaiono plausibili o persuasivi.
Anche per lui tale conoscenza ha uno scopo prevalentemente
pratico, come guida per la condotta della vita e per il raggiungimento della felicità.
Sesto Empirico limita la conoscenza umana a quanto attestato dai sensi e nega l’esistenza e la dimostrabilità di qualsiasi
verità di ragione. La sua attività di medico lo induce a rivalutare
i sensi, l’esperienza e l’analogia tra le diverse esperienze. Egli
ritiene che non sia possibile individuare con certezza la causa
delle malattie, ma che è possibile cercare una cura osservando
meticolosamente i cambiamenti prodotti dal farmaco sull’organismo. Il suo scetticismo, negando ogni dottrina e ogni verità
che si pretenda vera in sé, non nega tuttavia l’utilità della cura e
la possibilità della conoscenza. Per Sesto Empirico lo scetticismo è il mezzo per liberarsi di una medicina costruita su un’impalcatura di tipo logico-speculativo.
Lo scetticismo antico, nonostante il suo agnosticismo di fondo, non può logicamente negare un fondamento in una sia pure
generalissima idea di natura umana. L’accordo pratico o tecnico
6
SESTO EMPIRICO, Schizzi pirroniani, Laterza, Bari 2004, passim.
29
Federico Creazzo
tra gli uomini non sarebbe possibile se non fossero presenti alcuni elementi comuni alla mente umana, che gli uomini riconoscono implicitamente nel loro agire.
In epoca moderna, una delle più radicali formulazioni del
relativismo si deve attribuire a Michel de Montaigne7(15331592). La mutevolezza è per lui la condizione fondamentale
della condizione umana e ciò rende impossibile il conseguimento di verità e certezze definitive. Ciò si traduce in critica
serrata all’arroganza della ragione e alle sue pretese conoscitive, che confluisce poi nel più generale attacco all’antropocentrismo e all’eurocentrismo. L’universo di Montaigne è plurale
e multiforme e non può essere imbrigliato dalle categorie della logica aristotelica fondata sul principio di identità. I sensi e
le passioni degli uomini condizionano e modificano continuamente la nozione di verità, mentre la presunta realtà di cui essi
dovrebbero essere testimonianza varia anch’essa, senza raggiungere mai quel carattere di uniformità e stabilità che la conoscenza richiede.
L’argomentazione di Montaigne è ricca e articolata e, coerentemente con i suoi intenti critici, procede in modo programmaticamente non sistematico. Ciò rende difficile una rappresentazione sintetica del suo pensiero, il quale oltretutto ha
un suo interno sviluppo legato alla iniziale adesione di Montaigne allo stoicismo e all’epicureismo per poi confluire nello
scetticismo pirroniano. Si possono tuttavia individuare alcuni
temi centrali del suo pensiero. Nel passo che segue, si noti il
riferimento alla massima protagorea e al tempo stesso un’interessante anticipazione del concetto humeano di abitudine,
come fondamento della nostra fiducia nella capacità razionale
dell’uomo e come spiegazione della sostanzializzazione delle
nostre idee:
7
MONTAIGNE M., Saggi, Adelphi, Milano 1992, libro I, passim.
30
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
L’ uomo è un soggetto vano e vario, difficile farsene un giudizio
costante ed uniforme8 […] È accaduto che per il lungo uso questa
forma d’uomo si sia trasformata in sostanza, e la sorte in natura.9
Per Protagora l’individuo rimane la misura delle cose, per Montaigne, invece, come fonte di conoscenza esso è del tutto inaffidabile dato che esso non è altro che un insieme eterogeneo di umori e
sensazioni che inseguono il perenne mutare dell’esperienza.
Non soltanto il vento delle circostanze mi agita secondo la sua
direzione, ma in più mi agito e mi turbo io stesso per l’instabilità
della mia posizione. Io do alla mia anima ora un aspetto ora un
altro, secondo da che parte la volgo.10 Il nostro agire, non sono
che frammenti messi insieme.11 Noi siamo fatti tutti di pezzetti, e
di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni
momento va per conto suo12 […] E non vi furono mai al mondo
due opinioni uguali, non più che due peli o due granelli. La loro
più universale caratteristica è la diversità.13
Montaigne critica Protagora per quello che gli sembra un
ingiustificato ottimismo conoscitivo. Questi aveva collocato
nell’individuo se non il criterio della Verità, almeno il criterio
unitario della doxa. Ma neanche questo è possibile: l’individuo
stesso appare a Montaigne come un’astrazione.
Davvero Protagora ce ne raccontava delle belle facendo dell’uomo la misura di tutte le cose, l’uomo che non conobbe mai
8
Ivi, p. 10.
Op. cit., libro III, p. 1349.
10
Ivi, p. 432.
11
Ivi, p. 434.
12
Ivi, p. 435.
13
Ivi, p. 1043.
9
31
Federico Creazzo
neppure la sua. Ora, essendo egli così contraddittorio in se stesso, e un giudizio contrastando l’altro senza posa, questa favorevole proposizione non era che uno scherno che ci portava a
concludere necessariamente la nullità del compasso e del misuratore.14
Montaigne, pur negando la sua conoscibilità, non nega l’esistenza di un mondo di cose, di una natura che però è caratterizzata da incessante movimento e cambiamento. Essa rimane sullo sfondo di ogni presunzione della ragione umana.
L’azione di questa natura sull’uomo passa attraverso un generico fenomenismo che non si lascia imbrigliare dentro concetti e dottrine.
L’avvenimento fa la scienza non la scienza l’avvenimento. I nostri maestri rispondono che vedere che qualcosa avviene, come
noi facciamo, e come fa Dio stesso (di fatto essendogli tutto
presente, egli vede più che non prevede), non vuol dire costringerla ad avvenire; cioè noi vediamo perché le cose avvengono, e
non le cose avvengono perché noi vediamo.15
Si noti lo scetticismo radicale implicito nelle affermazioni
seguenti, il cui esito sembra avvicinare Montaigne all’agnosticismo gorgiano.
Ora, dato che la nostra condizione adatta le cose a sé e le trasforma secondo se stessa, noi non sappiamo più quali esse siano in
verità, poiché niente ci perviene se non falsato e alterato dai nostri sensi.16
14
Ivi, p. 738.
Ivi, p. 941.
16
Op. cit., libro II, p. 799.
15
32
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
Poco oltre Montaigne riassume così la sua posizione:
Insomma, non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere
né di quello degli oggetti […] Così non si può stabilire nulla di
certo dall’uno all’altro, tanto il giudicante quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e movimento.17
Il pensiero di Montaigne contiene un paradosso. Gli stessi sensi,
che costituiscono per l’uomo il più plausibile strumento di conoscenza, falsano e alterano la verità. Ma non è logicamente possibile
decidere intorno all’irrimediabile falsità delle nostre rappresentazioni se non in relazione al permanere di un’idea di verità.
Montaigne fu per Nietzsche molto più di una fonte di ispirazione filosofica. Nietzsche dichiarò di essersi identificato con
Montaigne «nello spirito e nel corpo»18. Altrove lo loda come
un «portatore di coraggioso e lieto scetticismo»19. La dissoluzione del Soggetto inteso come centro unitario della conoscenza e
la radicale critica della ragione sembrano i più rilevanti tratti
comuni ai due pensatori.
Sul piano puramente gnoseologico Montaigne sembra più
scettico-agnostico che relativista, ma sul piano della sua concezione morale e della critica religiosa e dei costumi egli si
pone come una sorta di etnologo relativista. Se i diversi costumi e
le diverse fedi religiose non sono altro che forme illusorie di
adattamento dei popoli, discende come conseguenza l’idea della
tolleranza come unico atteggiamento “saggio”. I cosiddetti
popoli “non civilizzati” appartengono per lui alla nostra stessa natura umana e, in assenza di un criterio veramente universale per giudicarli, dobbiamo accontentarci di considerare la relatività
del nostro punto di vista.
17
Ivi, p. 801.
NIETZSCHE F., Perché sono così accorto, in ID., Ecce Homo, af. 3.
19
ID., Frammenti postumi 1884-1885, fr. 40.
18
33
Federico Creazzo
Un altro importante contributo all’approccio relativista nell’ambito della cultura europea è rappresentato dalla filosofia di
Giordano Bruno (1548-1600). La sua visione dell’universo infinito
e omogeneo in tutte le sue parti implica la distruzione delle coordinate spaziali e delle gerarchie topologiche tradizionali, e della distinzione aristotelico-tolemaica tra terra e cielo, tra sostanze
corruttibili e incorruttibili, tra l’umano e il divino, tra il centro e
la periferia. Dio non è persona e non è trascendente ma coincide con l’universo stesso e le parti di cui si compone, in un tutto
vivente e organico. Questa rivoluzione filosofica, che accompagna il sorgere della nuova cosmologia copernicana, intacca anche il tradizionale criterio di verità. Se l’universo è divino e infinito, il rapporto dell’uomo con la verità non può che svolgersi
nella prospettiva già indicata da Cusano (1401-1464), e cioè per
approssimazione e congettura, essendo il finito incommensurabile con l’infinito. L’universo è inconoscibile nella sua interezza.
Ogni conoscenza, in quanto finita, è relativa perché: 1) indica la
relazione della parte con il tutto (da cui il carattere parziale e provvisorio di ogni conoscenza); 2) coglie la relazione tra le parti; 3) dipende dalla posizione che occupa l’osservatore nell’universo stesso.
Secondo l’empirismo tutte le nostre cognizioni derivano dall’esperienza ed il ripetersi della successione o della coesistenza
di certi stimoli determina il legame associativo delle sensazioni
e delle idee corrispondenti. David Hume (1711-1776) spiegò la
legge di causalità con la legge di associazione per cui, dato un
fenomeno, noi siamo irresistibilmente condotti ad aspettarci l’altro che nel passato avevamo sempre percepito dopo di esso.
Del principio di causa e di connessione razionale Hume nega la
verità sostanziale o logico-razionale. La “causa” è un’idea che si
fonda sulla credenza e quindi può essere utilizzata dalla scienza
per uno scopo euristico, e si regge sulla possibilità che ci conduca ad una conoscenza probabile del fenomeno che stiamo osservando. Le sensazioni non si aggregano meccanicamente, ma è
lo spirito a coglierne i rapporti e a combinarli insieme in vari
34
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
modi. L’esperienza è per noi l’unica realtà e di essa è assurdo
cercare la genesi. Ciò che è vero è l’accordo del pensiero con la
realtà. Lo scienziato costruisce un’ipotesi e agisce lasciandosi
guidare da essa. Il suo scopo è ottenere una coordinazione delle
forze attive umane e non umane operanti nell’universo della
nostra esperienza. Le idee dello scienziato dovranno poi mettersi alla prova con l’esperimento che è un complesso di azioni
suggerite dall’ipotesi. Hume non nega le verità di ragione: la
matematica costituisce un insieme di verità assolute e universali,
ma puramente formali. Non è detto, secondo Hume, che ad
esse corrisponda qualcosa nella realtà esterna.
Hume critica anche il meccanicismo e il finalismo. Nei confronti della totalità della natura la mente umana è impotente. Essa
può solo ricercare di volta in volta una corrispondenza probabile tra
le idee e i fenomeni, e tentare di descrivere i fenomeni naturali
che si presentano in connessioni empiricamente determinate,
rifiutando di pronunciarsi su una presunta verità della natura in
se stessa, sulle sue presunte leggi, sui suoi presunti scopi.
Le nostre idee sono dei semplici strumenti che hanno lo scopo di favorire l’esperienza. Dalla semplice ragione non è possibile dedurre nessuna previsione certa sul corso dei fenomeni e
tanto meno è possibile dimostrare la necessità logico-empirica
dell’esistenza di Dio o del libero arbitrio. Dio e la libertà non
sono per Hume oggetti di una conoscenza possibile. Sulla fede
e sulla libertà, come in genere sulle diverse dottrine morali, la
scienza non ha nulla da dire. La morale dipende dal costume e dalla
coscienza del singolo e non potrà essere ricavata o disciplinata da nessuna
scienza. Hume anticipa il principio dell’avalutatività della scienza, che sarà uno dei principi dell’epistemologia di Max Weber.
Hume può essere considerato un empirista radicale, per il suo
continuo riferirsi all’esperienza come unico criterio di validazione delle nostre conoscenze, e uno scettico moderato, in quanto
la sua forte critica delle presunzioni della ragione non lo conduce a negare la possibilità della conoscenza in generale.
35
Federico Creazzo
In riferimento al suo pensiero si può parlare di relativismo in
un duplice senso:
1. Sul piano gnoseologico, le idee della ragione, come le teorie della scienza hanno un valore relativo e provvisorio, legato
al quadro empirico di cui si occupano. In generale la conoscenza non ha un fondamento certo né nel soggetto né nell’oggetto
ma ha validità solo in relazione al fenomeno.
2. In campo morale Hume è relativista perché esclude la
possibilità di determinare scientificamente il bene, la virtù, la
religione o l’esistenza di Dio. Anticipando l’epistemologia weberiana e il suo principio dell’avalutatività della scienza, Hume
afferma che rispetto ai valori morali e religiosi la scienza non
può e non deve dire nulla. La scelta dei valori non può essere
disciplinata dall’esterno, in quanto dipende dal costume e dalla
coscienza individuale.
A rafforzare la posizione del relativismo, dandogli una particolare connotazione, contribuì nella seconda metà del secolo
XIX la teoria dell’evoluzione, per la quale la conoscenza è, come
tutte le altre funzioni degli organismi viventi, sorta per le esigenze dell’adattamento all’ambiente. Anche l’intelletto, come tutti
gli altri organi, è soggetto a cambiamenti in rapporto ad esso.
Non vi sono, da un tal punto di vista, categorie fisse, concetti e
principi immutabili, né nella scienza né nella vita morale. La
relatività della conoscenza umana secondo Herbert Spencer
(1820-1903) risulta dal processo della sua formazione e dal significato che ha per la vita: essa serve ad assicurare la sua conservazione e ottiene ciò stabilendo una corrispondenza sempre
più perfetta delle condizioni interne dell’organismo all’ambiente. Se questo fosse diverso, il nostro intelletto avrebbe una struttura differente. Esso funziona stabilendo relazioni, classificando i fatti, salendo di generalizzazione in generalizzazione, e in
questo processo arriva a idee ultime (spazio, tempo, movimento, materia, forza) che sono incomprensibili perché non si possono riportare ad altre idee più generali e che, poste come caratteri
36
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
della realtà in se stessa, danno luogo a difficoltà insuperabili dal nostro
intelletto. L’assoluto è nel fondo indefinito della nostra coscienza
ma non possiamo in alcun modo determinarlo e racchiuderlo in
concetti definiti. L’evoluzionismo biologico di Darwin e l’evoluzionismo sociale di Spencer influenzarono sicuramente, anche se in misura variabile, tutto il dibattito filosofico ed epistemologico del tempo e il relativismo che ne consegue ebbe il suo
svolgimento nell’empiriocriticismo e nel pragmatismo.
Un certo riflesso dell’evoluzionismo si può cogliere anche
nell’opera di Georg Simmel (1858-1918), il quale concepisce la
conoscenza come un processo di adattamento del pensiero a
quello che lui chiama sviluppo vitale della specie. Simmel ha collegato l’apriori kantiano alla determinazione inevitabilmente soggettiva del mondo circostante. Rispecchiare fedelmente le cose
è impossibile, e la natura quale ci appare è creazione del soggetto. Ma tale soggetto non ha la stabilità e l’universalità del soggetto trascendentale kantiano ed esso è piuttosto l’onda mobile
in cui ogni essere sussiste solo come essere condizionato.
Per Simmel, noi scegliamo una rappresentazione concettuale con cui cogliamo le parti e i movimenti dell’essere e la facciamo funzionare come il centro reale o come il senso di tutta
l’esistenza. Ma la validità delle conoscenze, non potendo essere
controllata sulla realtà in sé, può solo essere cercata nella loro
capacità di favorire lo sviluppo vitale. Il relativismo di Simmel concepisce come sistema di riferimento delle conoscenze e come
criterio della loro validità la capacità che alcune di esse hanno di
sopravvivere nel corso dell’evoluzione della specie, in quanto
favoriscono gli individui che le seguono, rispetto agli altri che
seguono principi “falsi”, cioè dannosi. Lo sfondo del relativismo gnoseologico di Simmel appare orientato verso un pragmatismo, che sostituisce il principio dell’utilità per la specie al vecchio principio della verità. Esistono altri mondi idealmente obiettivi oltre a quello della scienza, ad esempio l’arte, la religione e la
moralità che si basano su categorie diverse. Tali categorie non
37
Federico Creazzo
sono forme statiche e astratte. Il soggetto sistema per sé il reale
ma non in una configurazione fissa, perché il rapporto del sé
con la realtà, in cui esso vive, muta continuamente per il gioco
dei contrasti e dei rapporti delle diverse reazioni spirituali. Le
categorie sono forme della determinazione reciproca del soggetto e dell’oggetto, che l’attività del pensiero costituisce in sfere indipendenti e autonome. Esse sono i momenti nei quali il
rapporto specifico del soggetto e dell’oggetto è posto come idea
e non pongono il mondo del soggetto in maniera estrinseca
all’oggetto.20 Si può cogliere nel pensiero di Simmel una duplice
accezione del relativismo, inteso sia come relazione del sapere
al soggetto, infinitamente variato a seconda delle costellazioni
spirituali e vitali a cui appartiene, sia come relazione ad un presunto imperativo della specie di cui l’individuo è funzione.
Alcuni autori e storici della filosofia annoverano tra le teorie
relativiste anche l’empiriocriticismo o empirismo critico, che ha
tra i suoi maggiori esponenti Ernst Mach (1838-1916) e Avenarius (1843-1896). Tale collocazione è alquanto discutibile per i
motivi che seguono.
Alla base della conoscenza scientifica l’empiriocriticismo
pone il concetto di esperienza pura come unico criterio di validazione della conoscenza. Ciò porta ad escludere dalla gnoseologia ogni contenuto autonomo della mente o ragione, ogni
concetto o astrazione che non derivi dall’esperienza stessa, riducendo tutta la realtà e la relativa conoscenza a rapporti tra le
sensazioni. È necessario quindi rinunciare a tutti quei concetti
e principi astratti che derivano dall’ambiente, dalla tradizione
filosofica o dalle visioni soggettive (personali) della realtà per
attenersi all’esperienza e alla sua trama di interne relazioni. La
scienza che ne risulta non è un sistema fisso di verità immutabili, ma si trasforma per le nuove esigenze dell’adattamento
20
Op. cit., cfr. pp. 71-76.
38
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
del pensiero ai fatti e delle idee tra di loro. Qui si può parlare
impropriamente di relativismo solo nella misura in cui afferma che la scienza non costituisce un sistema definitivo di leggi
e di formule ma un processo di ricerca aperto e suscettibile di
continue revisioni, concezione che implica il rifiuto del valore
assiomatico dei tradizionali principi della logica e della metafisica. Tuttavia uno sfondo paradossale dell’empiriocriticismo
riemerge nel considerare l’esperienza pura come una struttura
della realtà in se stessa, ricadendo in una sorta di oggettivismo
metafisico. Se uno dei presupposti generali del relativismo
consiste nella negazione della consistenza ontologica dei fatti
che si tradurrà nell’affermazione nietzscheana secondo la quale
non esistono fatti ma solo interpretazioni, l’empiriocriticismo
nega qualsiasi valore all’interpretazione stessa affermando che
esistono solo fatti e non interpretazioni, affermazione che appare
come la negazione del relativismo comunemente inteso.
Una più coerente collocazione all’interno del relativismo
riguarda il pluralismo filosofico di J.H. Rosny (1856-1940). Egli
negò sia l’unicità e la regolarità della natura (presupposto dell’empirismo critico) che la continuità e l’omogeneità dell’esperienza a favore di una visione di una scienza capace di formulare delle leggi basandosi di volta in volta sulla somiglianza
relativa tra classi di fenomeni. Per Rosny la conoscenza è constatazione di analogie tra diversi ordini di fatti. La rappresentazione non fa che scoprire analogie tra il nostro modo di essere e quello delle altre esistenze, analogie che sono capaci di
sviluppi e approssimazioni sempre maggiori. Come giustamente rileva Santino Caramella (1902-1972), «nel complesso, il
pluralismo riesce a formulare un principio per sé legittimo
secondo il quale l’unità del mondo (universo), in cui si concreta l’esperienza (e la conoscenza), non esclude la molteplicità delle prospettive ontologiche e logiche, anzi le genera
analiticamente, ma non riesce a sviluppare realisticamente lo
sfondo unitario che genera la molteplicità delle prospettive
39
Federico Creazzo
postulate, il quale rimane ipotetico o rappresentato da motivi empirici e pratici»21.
Il relativismo in senso filosofico deve essere chiaramente
distinto dalla teoria della relatività di Einstein (1879-1955). Secondo il Principio generale della Relatività, tutti i sistemi di
riferimento sono equivalenti ai fini della descrizione dei fenomeni naturali poiché rispetto alle oggettive leggi naturali un
sistema di riferimento non è altro che uno strumento descrittivo particolare che non intacca il valore assoluto della legge.
In fisica, prima della teoria della relatività, si ammetteva che il
significato di un dato temporale fosse assoluto, indipendente
cioè dallo stato di moto del sistema di riferimento. La meccanica classica riteneva che la distanza di tempo tra due avvenimenti fosse indipendente dallo stato di moto del corpo di riferimento ma in seguito si dimostrò che se un viaggiatore nel
treno percorre nell’unità di tempo, misurata dal treno, lo spazio w, lo stesso spazio, misurato dalla strada, può non essere
uguale a w. A seguito della dimostrazione della relatività della
simultaneità (eventi che si verificano simultaneamente in vari
punti di un sistema di coordinate in movimento non sono simultanei rispetto a un sistema rigido di coordinate) si poté
affermare che ogni sistema di riferimento ha il suo tempo e
che un dato temporale ha senso solo se si determina il corpo
di riferimento al quale esso va riportato.
La teoria di Einstein ha un significato puramente fisico e
non contiene nessuna implicazione che conduca a un relativismo gnoseologico o epistemologico, ma fornisce un’idea della
diversità e della pluralità dei sistemi di riferimento a cui vengono condotti i fenomeni indagati dalla scienza.
Secondo il realismo aritmetico, i numeri, le classi e le funzioni algebriche esistono indipendentemente dalla nostra ana21
S. CARAMELLA, voce Pluralismo, in Enciclopedia Filosofica, Sansoni, Firenze 1957.
40
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
lisi e conoscenza, essi vivono in un infinito inconcepibile per
lo spirito umano ma possono essere scoperti risalendo dalla
loro esistenza logica a quella ontologica. I principi del calcolo
infinitesimale, la classe e il limite, sono definizioni convenzionali che quando furono ipostatizzate in esistenzialità reali ed
indipendenti crearono l’esistenza di due logiche, quella del finito e quella dell’infinito, e antinomie insolubili. J.H. Poincaré
(1854-1912) invece propose un relativismo matematico. Secondo Poincaré, un ente matematico esisterebbe solo se si
potesse definirlo senza contraddittorietà. Anche se noi possiamo costruire una serie infinita di numeri concependo la ripetizione infinita di un’operazione ritenuta possibile e possiamo ottenere una definizione per reiterazione definendo la legge di formazione della serie, ciò non implica l’esistenza della classe
infinita di tali entità, poiché questa vorrebbe dire che lo spirito
può concepire la possibilità di fare un numero infinito di scelte arbitrarie e ciò non è pensabile.
Per il convenzionalismo di Poincaré le proposizioni da cui muove ciascun sistema sono libere costruzioni dell’uomo, ma non
arbitrarie perché vengono escogitate ed accettate in accordo con l’esperienza. Le proposizioni di partenza non possono essere né vere né
false in assoluto; devono essere scelte in base a criteri determinanti, che hanno il compito di garantire la riproponibilità delle
scelte stesse, al fine dello sviluppo deduttivo della ricerca.
I criteri devono essere selezionati sulla base della coerenza,
che deve essere propria di ogni sistema ipotetico-deduttivo: ciò
che importa non è il rapporto con gli oggetti, ma la coerenza
logica e la completezza del sistema.
Da un’attenta analisi condotta sullo sviluppo storico della
scienza, Thomas Kuhn (1922-1996) ha rilevato i notevoli cambiamenti subiti nel tempo dagli ideali conoscitivi, tanto da rendere impossibile parlare di un carattere unitario e progressivo
della ricerca, di identici oggetti di indagine e di uno stesso concetto di verità scientifica.
41
Federico Creazzo
Secondo Kuhn, il corso delle scienze si svolge in due forme:
quella della scienza normale, quando il quadro concettuale tradizionale, cioè l’insieme delle teorie considerate valide, determina la soluzione di problemi, e quella della ricerca straordinaria che sostituisce un modo di fare scienza ad un altro.
Le rivoluzioni scientifiche sono dei mutamenti di paradigma, cioè di quella tradizione di ricerca normale che presuppone
un certo gruppo di problemi, di procedure consentite per risolverli e di risposte possibili. La crisi di un paradigma di ricerca è
determinata dalle molteplici anomalie che esso non riesce a risolvere, per cui alcuni scienziati tentano una soluzione completamente nuova, con la ricerca straordinaria che esce dal quadro
del paradigma normale.
Le nuove teorie scientifiche si fondano su schemi concettuali (configurazioni costituite da un insieme di categorie, le quali
determinano la forma dei dati sensibili) che sono diversi da quelli
delle altre teorie e che tale diversità preclude la possibilità di un
confronto tra teorie. Tali schemi concettuali sarebbero intraducibili in quelli delle teorie precedenti in quanto il cambiamento
di schema comporta un cambiamento del significato delle parole e del modo in cui esse aderiscono alla natura. Anche il tentativo di una teoria di interpretare la catena dei simboli di un’altra
teoria, applicando la propria sintassi ad un codice che postula
una diversa sintassi, dimostrerebbe la discontinuità logica tra le
teorie.
Per Kuhn, la scienza evolve differenziandosi in forme sempre nuove ed il progresso percorre le molteplici direzioni tracciate dai saperi, escludendo ogni forma di monismo e di teleologia.
Egli rileva come anche i fattori e gli interessi sociali hanno
un ruolo nella vita della scienza. Nel corso della scienza normale, infatti, è talvolta necessario scegliere tra due estensioni divergenti delle applicazioni della medesima teoria basandosi su giudizi di valore o pragmatici (tempo e mezzi a disposizione).
42
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
Kuhn ha rifiutato il concetto unitario e metastorico di verità,
inteso come denominatore comune delle rivoluzioni scientifiche. Se la storia della scienza è una successione di paradigmi
incommensurabili e i fatti ed i principi della scienza sono dati e
mantengono la loro validità solo all’interno delle teorie alle quali appartengono, non esiste un criterio che li trascenda in grado
di valutarli. Non esiste neppure un mondo vero che potrebbe
fungere da terreno comune alle diverse teorie dato che la struttura convenzionale dei sistemi del sapere rende impossibile dimostrare un nesso necessario tra gli enunciati teorici e quelli
empirici e osservativi.
I procedimenti di verificazione delle teorie non stabiliscono
nessuna verità assoluta, perché la stessa “prova” è sottodeterminata (cioè pre-determinata) dalla teoria e perché le norme
che guidano la formazione dei test sono convenzioni. Anche la
teoria della falsificazione si riduce ad un accordo sociale per
considerare false certe affermazioni e certe no. Generalmente
condivisa nel mondo scientifico è l’idea che l’attendibilità di una
teoria si possa stabilire sottoponendo la teoria a test sempre più
severi. In tal caso, provare una teoria significherà confrontarla
con quella utilizzata per produrre i test. Ma, dato che le regole
metodologiche seguite nella preparazione della teoria sono diverse da quelle seguite nella preparazione della prova e si basano su teorie che descrivono in modi diversi la costituzione del
mondo e che compiono le proprie osservazioni in dimensioni
spazio-temporali non vicine, una teoria si potrà dimostrare migliore di un’altra rivale solo ammettendo l’esistenza di modelli
standard universali e senza tempo per la valutazione delle convinzioni. In conclusione, secondo il relativismo epistemico, le
regole della prova sono convenzioni che non hanno basi oggettive nella realtà e che servono solo a promuovere un certo tipo
di interesse epistemico, e anche gli scopi della scienza che determinano i giusti metodi della ricerca sono del tutto soggettivi. In
una direzione sostanzialmente simile si muove la problematiz43
Federico Creazzo
zazione della stessa idea di verità scientifica operata da Feyerabend
(1924-1994) nel noto saggio Contro il metodo del 1975. Il sapere
scientifico è evidentemente legato a contenuti pragmatici e “impuri” rispetto ad un ideale di scienza come sistema delle verità
universali. La scienza è un’impresa sempre immersa entro il tessuto sociale della realtà.
Essa deve essere valutata non per i suoi presunti valori di conoscenza e verità “oggettiva” quanto per i contributi che offre e,
in misura non minore, per gli ostacoli che pone al progresso umano. Il progresso deve essere interpretato non già, positivisticamente, come accumulo di certezze o, come affermava il suo maestro Popper (1902-1994), come approssimazione al vero, bensì
come emancipazione sociale ed etico-politica dell’umanità.
Da ciò Feyerabend ricava una concezione plurale e relativistica della verità e della scienza:
Che senso ha, allora, il discorso sulla “verità” della scienza? Che
senso ha parlare della scienza come unità? Per me, si tratta solo
di fantasmi. Mi rendo conto del valore pratico della “verità” nelle pubbliche relazioni: se uno dice che la verità è in un certo
posto, qui affluisce subito il denaro, qui si concentrano gli sforzi
di studio, e così via. Ma a parte questo – e a parte gli usi pratici
della parola verità, come nell’espressione: “Dimmi la verità, davvero hai avuto una relazione mentre ero fuori?” – le questioni
riguardanti la verità della scienza o del mito non hanno per me
molto senso. Per me ha senso, invece, che una società, un gruppo, dedichi tutto se stesso alle scienze – al plurale – o a qualche
mito, poiché di entrambi abbiamo bisogno.22
22
Tratto dall’intervista a P. FEYERABEND, Idee varie, in Enciclopedia multimediale
delle scienze filosofiche, Roma, D.S.E., lunedì 11 ottobre 1993, pp. 138 ss.
44
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
3. Storicismo e relativismo. Il dibattito metodologico
di fine Ottocento sulle scienze dello spirito
e la conoscenza storica
Le condizioni dalle quali sorse lo storicismo del XIX secolo ed
il raffronto di questo con lo storicismo hegeliano ci aiutano a
mettere in luce le sue caratteristiche e ci convincono a collocarlo all’interno del relativismo gnoseologico. Altrettanto interessante risulta un confronto tra le diverse posizioni espresse all’interno di questa scuola, alcune delle quali risentono ancora di
qualche suggestione romantica, anche se ormai autonoma rispetto alla concezione hegeliana della storia. In altri casi, il distacco dall’hegelismo da un lato e dalla scuola positivistica dall’altro risulta netto e senza compromessi, come nel caso della
metodologia storica di Max Weber.
L’Erleben, l’esperienza vissuta, definisce per Dilthey l’autonomia del mondo umano rispetto al determinismo della natura e rende possibile una distinzione sistematica tra le scienze
della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello Spirito (Geistwissenschaften). Nelle scienze dello spirito, l’oggettività conoscitiva è resa possibile dal rapporto particolare (e privilegiato)
che si stabilisce tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza.
L’uomo, infatti, non comprende il mondo umano (storico-sociale) come qualcosa di esterno, ma come ambito in cui riconosce se stesso. Il ricercatore storico, in quanto uomo, ritrova
nell’oggetto della sua ricerca un mondo di uomini, di cui ha una
sorta di precomprensione, che invece gli manca quando si rivolge agli oggetti naturali. L’Erleben, l’immediatezza della vita
vissuta, nel suo essere volontà, libertà e creatività spirituale, è
l’elemento che accomuna il soggetto e l’oggetto della conoscenza. L’Erleben non è solo rappresentazione, né pura volontà o sentimento, ma l’unità di tutto ciò nell’immediatezza dell’esperienza umana. Esso sorge nell’individuo ed è una sorta
di autocoscienza del mondo spirituale.
45
Federico Creazzo
Nel rapporto conoscitivo con il mondo fisico, il ricercatore
coglie i fenomeni dall’esterno e singolarmente. Partendo da questi,
attraverso un’astrazione crescente, perviene alla determinazione
delle leggi generali che spiegano quei fenomeni. Nella conoscenza del mondo umano, invece, ciò che precede è l’esperienza vissuta della
totalità del mondo, e il ricercatore si muove a partire da un principio
generale, l’Erleben, mediante cui è possibile intuire le particolari o
individuali connessioni spirituali, storicamente determinate. Esse
vengono definite da Dilthey come le unità organizzative umane, e
cioè delle oggettivazioni della vita sociale e storica, delle unità
“collettive” che perseguono scopi, hanno interessi e valori particolari e ciascuna di esse esprime una differente intuizione del
mondo. Queste connessioni spirituali si manifestano anche negli
individui, la cui vita, pur nella sua singolarità, è sempre mediata
dall’insieme dei sistemi di cultura a cui appartengono.
La metodologia delle scienze dello spirito può ricostruire la
vita vissuta dall’uomo, in una condizione storicamente determinata, presentandola di volta in volta come il punto di incrocio di
varie connessioni dinamiche. L’individuo è il punto di incrocio
di connessioni che sussistono in lui ma che hanno una loro esistenza autonoma e lo sovrastano.23 Tali connessioni risultano
reciprocamente autonome, in quanto fondate su esperienze e
valori e fini particolari che non sono elementi o stadi di un comune progetto di sviluppo storico. Alla storia, intesa come oggetto totale e unitario, manca, secondo Dilthey, un fine intrinseco, o una interna e metastorica legge di sviluppo.
Nonostante l’assenza di un tale criterio esplicativo, metastorico o teleologico, del divenire storico, il ricercatore ha la possibilità
di conoscere le oggettivazioni storiche e spirituali, grazie all’omologia che sussiste tra queste e l’Erlebnis del ricercatore. Le diverse
23
DILTHEY W., La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Lo storicismo
tedesco, a cura di Pietro Rossi, UTET, Torino 1977, pp. 138 ss.
46
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
connessioni storiche appaiono quindi relativamente autonome ma
non reciprocamente incommensurabili.
Il manifestarsi della vita è interpretato sulla base di un raggruppamento del molteplice, e l’individuale viene appreso sulla base
e attraverso la mediazione di ciò che è universalmente umano (Erleben)24. L’intendere (Verstehen), che è diverso dalla spiegazione delle scienze naturali (Erklären), è la forma specifica dell’atto conoscitivo delle scienze dello spirito. Come si è detto sopra, mediante l’intendere noi intuiamo l’oggetto come interno al soggetto, e ciò
consente al ricercatore di superare quella limitazione alla singolarità, contenuta in ogni singola esperienza della vita.25
Raffaello Franchini26 critica l’impianto logico e metodologico dello storicismo tedesco post-hegeliano, in quanto esso
mancherebbe di fondamento e ricadrebbe proprio in quel dogmatismo che intendeva combattere. A suo avviso, solo mediante lo Storicismo assoluto, in quanto logicità dell’universale, è possibile comprendere l’esistenza singola, collocandola
nel circolo della totalità spirituale. Per Franchini, il relativismo
ottocentesco è una gnoseologia che pone il vero in ciò che
appare al singolo uomo concepito come monade, in un modo
per cui all’assolutezza dello Spirito nel suo sviluppo, si sostituisce l’assoluto della individualità incomunicabile. Conseguenze del relativismo gnoseologico sono, per Franchini, l’agnosticismo metafisico ed il relativismo morale. Dilthey affermava
che il sapere di un’epoca è l’espressione transitoria e soggettiva di una connessione spirituale e che i sistemi metafisici e gli
ideali etici e religiosi variano con il tempo in quanto sono prodotti storicamente condizionati.
24
DILTHEY W., ivi, pp. 154-159.
DILTHEY W., ivi, p. 145.
26
FRANCHINI R., Storicismo e Relativismo, estratto dagli “Atti” dell’Accademia
Pontiana, nuova serie, vol. 1.
25
47
Federico Creazzo
Franchini colloca il relativismo all’interno dei movimenti di
reazione all’hegelismo e all’obiettivismo positivistico che si svilupparono in Germania tra la fine dell’800 e i primi del ’900, portando gli storici a rifugiarsi nel soggettivismo o nella tipologia. A
suo avviso, il relativismo è figlio di una storiografia afilosofica che
pretende di fondarsi unicamente sui documenti e sulle testimonianze e che pretenderebbe parlassero senza che lo Spirito umano, unica condizione della storia, desse loro la parola.
Il giudizio liquidatorio di Franchini sul relativismo storicistico sembra derivare dalla sua collocazione nell’ambito del neoidealismo italiano. Esso non è convincente perché si fonda su
una interpretazione riduttiva della metodologia dello storicismo,
con particolare riferimento a Dilthey.27
Contro la tesi di Franchini si può argomentare che l’orientamento individualizzante della conoscenza storica, e il vincolo che
si stabilisce tra la prospettiva del ricercatore e l’orizzonte finito e
condizionato della connessione storico-spirituale a cui si rivolge,
non è tale da impedire una comprensione di tipo generale della
storia umana, in quanto sia l’osservatore che l’oggetto dell’osservazione ricadono dentro la comune origine spirituale dell’Erleben,
quella particolare configurazione dell’esperienza vissuta degli esseri umani in quanto tali. Esso funge da termine medio o elemento
di mediazione tra le diverse connessioni spirituali e rende la conoscenza storica relativa a ciascuna di esse. In tal senso ogni epoca
storica ha in se stessa una referenzialità di significati, interessi,
valori e forme di conoscenza di cui lo storico deve tener conto
nello sforzo di interpretazione dei fatti storici. In questo senso il
relativismo di Dilthey è tutt’altro che radicale e non compromette la continuità e la trasmissibilità della conoscenza storica.
Una diversa soluzione del problema della conoscenza storica è rappresentato dalla filosofia neokantiana di Wilhelm Win-
27
FRANCHINI R., ivi.
48
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
delband. Fondamentale, secondo lui, è la distinzione epistemologica e metodologica tra le scienze naturali e la scienza storica.
Mentre le prime hanno come scopo la determinazione delle leggi
generali mediante le quali è possibile spiegare i singoli fenomeni, la scienza storica procede in senso inverso, in quanto parte
da leggi generali, aventi valore assiomatico, per giungere alla
comprensione dei fenomeni storici individuali. Le scienze naturali, in quanto generalizzanti, sono nomotetiche e, al contrario, la
conoscenza storica individualizzante è idiografica. Essa può pervenire all’apprendimento individualizzante solo riferendo il proprio oggetto a dei valori sociali universali.
Un’altra fondamentale differenza deriva dall’oggetto conoscitivo delle scienze naturali rispetto alla scienza storica. Le prime si occupano di fatti sussistenti in un mondo puramente obiettivo, invece la storia ha davanti a sé non un mondo di fatti ma
un mondo di valori. Le scienze naturali utilizzano giudizi teoretici,
ovvero proposizioni che stabiliscono la correlazione necessaria
tra i fatti osservati, mentre la scienza storica utilizza giudizi critici,
i quali misurano la divergenza dei fenomeni storici dai valori
universali e assiomatici della coscienza umana. La filosofia indaga le forme di valutazione della coscienza comune, ovvero la struttura trascendentale della coscienza, e ritrova la loro origine nelle
condizioni culturali, storiche ed individuali ma, soprattutto, nella loro appartenenza ad una coscienza normativa universale e
metastorica, cioè la configurazione data dagli uomini agli scopi
e ai valori supremi di tipo logico, etico ed estetico. Tali valori
assiomatici costituiscono il presupposto della conoscenza storica e ci forniscono il criterio per misurare ogni cosa.
Il neokantismo di Windelband è, a mio avviso, non del tutto
conseguente. In sede logico-teoretica, Kant aveva affermato l’esistenza di principi universali formali della coscienza umana, le
categorie, che costituivano la struttura trascendentale della soggettività umana. Tuttavia la validità conoscitiva di questi principi era rigorosamente limitata alla costellazione spazio-tempora49
Federico Creazzo
le dei fenomeni. La normatività formale delle categorie kantiane sembra quindi ben diversa dalla presunta normatività universale dei valori di cui parla Windelband in sede storica. Anche
prendendo a modello la morale kantiana, la filosofia dei valori
di Windelband suscita qualche perplessità. Essa reinterpreta la
legge morale kantiana anch’essa formale, come criterio universale e assoluto della conoscenza storica. Più convincente appare
la critica nei confronti della scuola storica positivistica, la quale
aveva trasferito acriticamente i metodi e la logica delle scienze
naturali nell’ambito della metodologia storica, trascurando la
ineliminabile connotazione valoriale del mondo storico. In conclusione, la filosofia di Windelband, pur distinguendosi dall’idealismo hegeliano e dalla scuola storica positivista, ipostatizza un
criterio di verità assoluto e normativo che appare non del tutto
chiaro e comunque lontano da ogni approccio relativistico.
Rickert (1863-1936) riprende e sviluppa la filosofia dei valori
di Windelband, insistendo sul principio della Wertbeziehung, ovvero della Relazione ai valori come connotazione fondamentale e
specifica del mondo storico. Per Rickert la distinzione tra le scienze naturali e le scienze della cultura non dipende dalla qualità
psicologica dell’intendere (Erleben) come in Dilthey, né dalla differenza dell’ambito oggettuale, ma dalla particolare configurazione metodologica delle scienze della cultura.
L’apprendimento individualizzante del metodo storico mette in relazione la particolarità dell’oggetto con valori che non sono
collegati a nessun altro oggetto e al tempo stesso con dei valori
logico-formali universali, contenuti nella funzione del giudicare.28 Ciò non esclude che un oggetto preso in esame per la sua
significatività individuale possa al tempo stesso essere studiato
nell’ottica generalizzante delle scienze naturali. Lo storico si
occupa solo degli oggetti che ha selezionato sulla base della loro
28
RICKERT H., La filosofia della storia, in Lo storicismo tedesco, cit., p. 367.
50
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
significatività, nel quadro storicamente condizionato degli interessi sociali, che sono parti o momenti della totalità dei valori
universali incorporati nello stato, nella religione, nell’arte. Non
tutti i fatti sociali o umani hanno valore storico, ma solo quelli
che assumono valore all’interno della cultura. Lo storico deve
selezionare i fatti significativi ed estrarli dalla molteplicità infinita del divenire. Questa selezione non dipende dai giudizi di valore soggettivi del ricercatore (ogni forma di relativismo o soggettivismo viene rifiutata da Rickert) ma dal riferimento dei fatti a
valori formali conoscitivi di portata universale o ai valori normativi
della costellazione storica a cui il ricercatore si riferisce. La storia
individualizzante risponde alla domanda su come si realizza l’insieme della cultura attraverso i suoi momenti singolari.29
Un certo riflesso dell’evoluzionismo si può cogliere nell’opera
di Georg Simmel (1858-1918), il quale concepisce la conoscenza
come un processo di adattamento del pensiero a quello che lui
chiama sviluppo vitale della specie. Simmel ha collegato l’apriori
kantiano alla determinazione inevitabilmente soggettiva del mondo
circostante. Rispecchiare fedelmente le cose è impossibile, e la
natura quale ci appare è creazione del soggetto, ma mentre l’apriori
kantiano è costante e costituisce l’impalcatura universale della
conoscenza obbiettiva, per Simmel esso è un apriori psicologico
e mutevole. Il soggetto di Simmel non ha la stabilità e l’universalità del soggetto kantiano ed esso è piuttosto l’onda mobile in cui
ogni essere sussiste solo come essere condizionato. Per Simmel,
noi scegliamo una rappresentazione concettuale con cui cogliamo le parti e i movimenti dell’essere e la facciamo funzionare
come il centro reale o come il senso di tutta l’esistenza. La validità
delle conoscenze, non potendo essere controllata sulla realtà in
sé, può solo essere cercata nella loro capacità di favorire lo sviluppo
vitale. Il relativismo di Simmel concepisce come sistema di riferi-
29
RICKERT H., ivi, cfr. pp. 374-378.
51
Federico Creazzo
mento delle conoscenze e come criterio della loro validità la capacità che alcune di esse hanno di sopravvivere nel corso dell’evoluzione della specie, in quanto favoriscono gli individui che
le seguono, rispetto agli altri che seguono principi “falsi” cioè
dannosi. Lo sfondo del relativismo gnoseologico di Simmel appare orientato verso un pragmatismo, che sostituisce il principio
dell’utilità per la specie al vecchio principio della verità.
La filosofia non può, secondo Simmel, essere separata dalla
psicologia. Ogni visione del mondo è connessa alla vita degli
individui e muta con il mutare di questa. La stessa filosofia non
è oggettiva, ma è piuttosto una risposta dell’individuo ai problemi della comunità di cui fa parte. L’individuo adatta a sé il reale
ma non in una configurazione fissa, perché il rapporto del sé
con la realtà, in cui esso vive, muta continuamente per il gioco
dei contrasti e dei rapporti delle diverse reazioni spirituali. Le
categorie sono forme “mobili” della determinazione reciproca
tra soggetto e oggetto. Non si dà, quindi, una verità assoluta e
occorre abbandonare ogni pretesa di trovare un fondamento
ultimo della scienza. Il relativismo riguarda la storia e la società,
nonché le scienze che le studiano: ogni formazione storica e
sociale costituisce un mondo a sé, regolato dai propri principi e
valori e non commisurabile ad altri. La storia è una specie di
psicologia applicata, perché il suo contenuto umano presuppone che gli eventi siano analizzabili anche come eventi psichici.
Lo storico quindi non può aspirare a una conoscenza oggettiva
del passato ma deve mirare a una “penetrazione psicologica”
(Einfühlung) che gli consenta di rivivere i caratteri dell’epoca che
sta indagando. La comprensione storica rivela allora una molteplicità di mondi (religione, filosofia, arte, scienza) che coesistono, fondandosi ognuno su un proprio principio organizzativo.
Nell’individuo tali mondi si trovano l’uno accanto all’altro, senza richiedere mai una conciliazione definitiva. La pluralità dei
mondi e il loro sviluppo vengono studiati alla luce di una concezione biologica della vita spirituale: in ogni sfera si afferma pro52
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
gressivamente una tendenza organica che è espressione dell’autopotenziarsi della vita, la quale seleziona quelle verità che la favoriscono, mentre accantona come falso ciò che le è dannoso. Esiste
quindi un’identificazione tra verità e utilità vitale.
Si può cogliere nel pensiero di Simmel una duplice accezione del relativismo, inteso sia come relazione del sapere al soggetto, infinitamente variato a seconda delle costellazioni spirituali e vitali a cui appartiene, sia come relazione ad un presunto
imperativo della specie di cui l’individuo è funzione. Come afferma lo stesso Simmel:
Il Relativismo moderno tende a risolvere il singolare ed il sostanziale in azioni reciproche e intende la personalità come il luogo e il
modo particolare in cui si collegano i fili sociali.30 Come la circolazione degli elementi naturali ci pervade e noi non possediamo un
essere per noi, così in quanto esseri sociali siamo in ogni attimo
composti dalle relazioni reciproche con gli altri. Da una parte, noi
ci sappiamo prodotti della società, degli antenati e dello spirito del
passato cristallizzato in forme oggettive, e d’altra parte ci sappiamo membri della società, intessuti con il nostro processo vitale
con il suo senso ed il suo scopo in modo tanto poco indipendente
nella sua prossimità come nella sua successione.31
La reciproca determinazione tra soggetto e oggetto, tra l’individuo come centro della rappresentazione e il mondo storico-sociale di
cui è parte (ed espressione) presenta, a mio avviso, una certa analogia
con la dottrina del prospettivismo nietzschiano. «L’intero contenuto
della vita che può essere spiegato in base agli antecedenti sociali e alle
relazioni reciproche dev’essere contemporaneamente considerato
come esperienza vissuta dell’individuo, come prodotto ed elemento
della vita sociale o come il destino centripeto del suo portatore.»
30
31
SIMMEL G., Il problema della sociologia, in Lo storicismo tedesco, cit., p. 466.
SIMMEL G., ivi, cfr. p. 503.
53
Federico Creazzo
L’individuo di Simmel, nella sua variabile dimensione psicologica, non è il fondamento autonomo della rappresentazione
(Nietzsche direbbe interpretazione) se non in relazione ad una
condizione epocale e in relazione ad una utilità della specie.
Pur con tutte le differenze, Simmel e Nietzsche hanno in
comune uno sfondo di vitalismo e di naturalismo che fungono
da argine ad un relativismo confinante con il caos.
L’epistemologia storica di Max Weber rappresenta sicuramente il più maturo tentativo di sistematizzazione all’interno del cosiddetto storicismo tedesco e ne rappresenta in un certo senso il
superamento. Come storico e come sociologo, Weber escluse sempre che la scienza potesse produrre giudizi sintetici sul divenire
del mondo. Questa limitazione riguardava per lui le cosiddette
scienze della cultura non meno che le scienze naturali. Ugualmente le discipline storico-sociali non erano per lui capaci di esprimere giudizi pratici in grado di vincolare l’azione. E ciò non perché avesse un ideale naturalistico della conoscenza scientifica.
L’oggettivismo positivistico non rientra nella sua epistemologia
se non come bersaglio polemico. La sua epistemologia non si
fonda tanto su un modello esterno esemplare, mutuato magari
dalla fisica o dalla matematica, quanto su una teoria della conoscenza autonomamente elaborata. Molto importante per lo sviluppo del pensiero di Weber fu la sua presa di posizione di fronte
alle risposte che Dilthey, da un lato, e Windelband e Rickert, dall’altro, avevano dato al problema della distinzione tra le scienze
della natura e le scienze dello spirito. Rispetto al primo, Weber
dubita del fatto che la comune radice del ricercatore e dell’oggetto della conoscenza nell’Erleben, nell’esperienza vissuta del mondo umano, possa assicurare l’oggettività conoscitiva nell’ambito
delle scienze della cultura. Dilthey aveva insistito sulla superiorità
conoscitiva del Verstehen (comprendere), come conoscenza dall’interno tipica del mondo storico-sociale, sull’Erklären come spiegazione dei nessi causali (esterni) della natura. Per Weber, invece,
qualsiasi conoscenza che pretenda per sé validità scientifica, deve
54
Il relativismo nella storia della filosofia e nell’epistemologia contemporanea
essere una conoscenza di cause, e rispetto a questo principio epistemologico generale non fanno eccezione neanche le scienze
della cultura. L’esclusione del principio di causalità dalle scienze
dello spirito in Dilthey era dovuta probabilmente ad un’accezione troppo ristretta del concetto di causa, intesa come implicazione necessaria tra i fenomeni. Weber articola questo concetto in
modo del tutto originale e rifiuta un’ermeneutica storica fondata
sul principio dell’Erleben: la ricostruzione del passato nell’Erleben
interiore non ha quel carattere di immediatezza e di assolutezza
che pretenderebbe di avere e lo storico non può evitare di trasferire anche inconsapevolmente sull’oggetto idee di valore e significati appartenenti all’orizzonte della propria cultura e alla sfera etica
individuale. L’Erleben pone l’accento su ciò che è comune a tutte
le manifestazioni spirituali passate, presenti e future, e che si può
genericamente individuare nella qualità creatrice dello spirito. Da ciò
deriverebbe una sorta di con-genialità tra il passato e il suo interprete. Al contrario, Weber insiste sul significato e sui processi di
significazione soggettiva del mondo per sottolineare la qualità differenziale di ogni processo individuale della cultura. Il significato, nella
sua configurazione storicamente determinata, si pone come il
principale operatore della storia e l’orizzonte complessivo dell’ermeneutica storica. Dalla filosofia di Windelband e Rickert, Weber
trae il principio della Relazione ai Valori, modificandone però il
significato e la portata. Anche per Weber, lo storico seleziona
l’oggetto dell’indagine dall’infinità magmatica del divenire sulla base
di un criterio di valore. Diversamente da quanto sostengono Windelband e Rickert, tale criterio non è universale e metastorico, ma
anch’esso funzione delle modificazioni storiche della cultura. «La
cultura è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire
del mondo a cui è attribuito senso e significato dal punto di vista
dell’uomo.»32 L’interesse della scienza resta vincolato a presuppo-
32
WEBER M., op. cit., trad. it. Pietro Rossi, pp. 96 ss.
55
Federico Creazzo
sti che sono soggettivi sia in senso trascendentale che in senso
storico-empirico: sia il soggetto che l’oggetto delle scienze della
cultura sono funzione della significazione soggettiva del mondo.
I significati che gli uomini attribuiscono al proprio agire storico-sociale sono per Weber l’ipotetico movente causale indagato dallo storico. L’imputazione causale non può che avere un
valore ipotetico e congetturale perché non può esistere una rappresentazione storica di fatti esistenti in se stessi, né esiste una
trama logica o un principio di sviluppo a cui il corso storico
debba obbedire e a cui il ricercatore possa fare riferimento. Bisogna resistere alla tentazione di attribuire alla storia uno scopo
metastorico, o un valore assoluto di qualsiasi tipo poiché il corso storico non è altro che il continuo riplasmarsi di tutti i significati e di tutte le mete. Il relativismo di Weber, molto più di
quello di Simmel che risentiva di una sorta di mistica del vitalismo
naturalistico, appare del tutto consono all’epistemologia del XX
secolo. Il relativismo weberiano non ha molto a che vedere con la
tendenza al soggettivismo scettico o agnostico, ma, al contrario,
costituisce una sorta di statuto epistemologico capace di dare rigore e valore alla ricerca. Interessanti sono le possibili analogie e
affinità con il prospettivismo nietzschiano. Nietzsche e Weber
hanno in comune la critica del positivismo, dell’idealismo e di
ogni concezione metafisica della realtà e della storia ed entrambi
mettono al centro dell’analisi i processi di significazione soggettiva della realtà. Per entrambi il soggetto non è l’individuo in quanto tale, ma l’interazione tra gli orizzonti di significati e di interpretazioni con cui è costruita la nostra immagine del mondo.
56
La crudeltà invisibile, eppure evidente,
dello specismo
di Daniele Stroppolo*
L’indagine razionale fa parte della storia del pensiero occidentale sin dalle sue origini: è impensabile, infatti, per l’approccio
occidentale all’esistenza, che l’uomo cerchi di relazionarsi con
l’altro da sé in modo totalmente irrazionale, senza badare ai rapporti di causa ed effetto, senza mettere in relazione un fatto con
la sua origine e le sue conseguenze.
Certamente vi sono ingerenze, nel nostro approccio all’esistente, di altro genere: l’istinto, le pulsioni, le religioni, l’astrologia, le superstizioni sono tutte componenti che concorrono a
creare uno sguardo verso la datità variegato, complesso, finanche complicato e contraddittorio. E se alcuni di questi fattori
sono inscindibili dall’idea di uomo stesso, per altri sarebbe auspicabile un allontanamento, un superamento, se non un rifiuto.
Uno di essi è il pregiudizio.
Il pregiudizio è un elemento culturale di una potenza devastante: razzismo, sessismo ed altre forme ancora di pensiero
pregiudiziale hanno permesso di perpetrare immani violenze
da parte di un gruppo su quello dei “diversi”, appartenessero
essi ad un’altra classe sociale, avessero tratti somatici o fenotipici “altri”, o fossero dell’altro genere (perché per il pregiudi-
*
Docente di italiano e latino.
57
Daniele Stroppolo
zio sessista il maschile, cioè il genere biologicamente in minoranza, è quello principale, dominante, mentre il femminile è
quello secondario). Molte di queste forme deleterie di pensiero un tempo erano riconosciute come corrette ed universalmente valide, presso la nostra civiltà. Oggi tali preconcetti sono
stati smontati dall’indagine razionale ed almeno dal punto di
vista istituzionale non fanno più parte del moderno pensiero
occidentale: vi sono stati movimenti e scuole di pensiero che,
compreso e teorizzato il pregiudizio, l’hanno smantellato grazie ad un approccio razionale, portando in questo modo significative modifiche non solo al nostro modus cogitandi ed al nostro modus operandi, ma anche producendo leggi di tutela, trattati per il riconoscimento di pari diritto e dignità, e così via.
Nonostante tutto questo, sessismo, razzismo ed altre forme di
pregiudizio sono ancora lontani dall’essere definitivamente
eliminati: essi hanno ricadute evidenti sulla società, perché essa
è lenta nell’accogliere il cambiamento, dato che lo svantaggio
di un gruppo il più delle volte si trasforma in privilegio per
quello dominante e quindi vi sono resistenze e reazioni, conclamate o nascoste che siano, ad ogni evoluzione in direzione
paritaria e garantista.
Esistono poi alcune forme di pregiudizio che ancora oggi
per la maggior parte delle persone sono elemento integrante
del loro pensiero e del loro approccio etico e morale all’esistenza. Una di queste è lo specismo. “Specismo” è un termine
coniato nei primi anni ’70 del XX secolo ed indica il pregiudizio nei confronti degli esseri non-umani, ovvero degli esseri
che appartengono ad altre specie. Si tratta di un pregiudizio
fortissimo e tremendamente irrazionale, denunciato per la prima volta attraverso gli scritti di Peter Singer, filosofo di nascita australiana e docente di bioetica presso l’università di Princeton, negli Stati Uniti. Nel suo fondamentale trattato Liberazione animale, egli dimostra come l’uomo abbia un modo di
rapportarsi con gli esseri non-umani estremamente contrad58
La crudeltà invisibile, eppure evidente, dello specismo
dittorio e privo di una qualsiasi base razionale ed in questo
modo finisca per causare gravissime sofferenze in modo assolutamente superfluo.
Comprendere l’esistenza del pregiudizio dello specismo è
un’operazione logica molto semplice, addirittura elementare.
È sufficiente partire da un concetto ben chiaro a tutti, vale a
dire dal dolore, dalla sofferenza fisica. Una vastissima porzione di esseri viventi è in grado di provare dolore. È stato infatti
scientificamente dimostrato che qualsiasi essere fornito di un
sistema nervoso centralizzato possiede anche ricettori del dolore e quindi sfrutta la sua capacità di provare sofferenza per
sopravvivere meglio e più a lungo. Il dolore, infatti, non è altro che uno dei sistemi più semplici ed efficaci messi a punto
dalla natura per tutelare la vita di un animale: la sensazione del
dolore è il più evidente segnale di un danno che sta avvenendo
all’organismo ed induce l’individuo a trovare un modo per far
cessare tale sensazione, istintivamente sgradevole. Sarebbe assurdo immaginare che un sistema così semplice di autoconservazione fosse esclusivo degli esseri umani; esistono peraltro numerosissime prove scientifiche del fatto che tale meccanismo è presente in quasi tutti gli animali,1 umani e non. Infatti gli studi sul dolore umano (ad esempio per testare gli effetti
di anestetici ed antidolorifici), proprio in virtù della stretta
somiglianza tra il sistema di ricezione e trasmissione del dolore degli umani con quello di altre specie, vengono spesso effettuati in laboratorio su cavie non umane. Questa non è forse
una contraddizione, se non addirittura una mostruosità dal
1
Sarebbe complesso e problematico condurre in questo scritto un’accurata
analisi semantica del termine “animale”, a partire dal suo significato originario di “essere dotato di vita” fino alla sua accezione, di fatto specista, comune. Ci si limita quindi a ricordare che, secondo le più basilari classificazioni
tassonomiche, l’homo sapiens sapiens, ovvero la specie umana, fa parte del cosiddetto “regno animale”.
59
Daniele Stroppolo
punto di vista etico? In base a quale logica si può condannare
un essere vivente a provare pene strazianti e del tutto paragonabili a quelle di un essere umano per studiarne la reazione al
dolore? Se il dolore nelle altre specie è simile, allora nessuno
ha il diritto di infliggere sofferenze fisiche volontarie ad alcun
essere e per alcuno scopo, a meno che non si ammetta la legittimità di produrre simili esperimenti anche sugli umani stessi.
Se, al contrario, la sensibilità fosse diversa, non avrebbe senso
studiarne le reazioni come se un animale fosse un “modello”,
o peggio una “bruttacopia”, dell’essere umano.
Accettato quindi l’assunto di base che gli animali con sistema nervoso centralizzato sono in grado di provare dolore,
non resta che incrociarlo con una delle leggi morali più elementari che vi siano nei rapporti tra esseri umani, vale a dire
che causare volontariamente, con la propria condotta, dolore
non necessario ed evitabile all’altro è un comportamento eticamente sbagliato. Dovrebbe derivarne, secondo un ragionamento piuttosto semplice, che infliggere sofferenza non necessaria ad un qualsiasi essere vivente in grado di provarla sia
riprovevole. Infatti, sono ben poche le persone che deliberatamente prenderebbero a calci un cane o torturerebbero un gatto; ed i pochi che lo fanno compiono tali gesti proprio per un
morboso intento sadico.
Eppure la nostra società accetta che enormi ed evitabili
sofferenze siano inflitte agli animali che sono utilizzati indiscriminatamente nei più diversi campi produttivi: alimentazione, ricerca scientifica, abbigliamento, intrattenimento e
così via. Naturalmente, essendo la sofferenza (anche quella
altrui) istintivamente sgradevole da percepire, essa è confinata ben lontano dagli occhi del cittadino comune, e soprattutto del consumatore, che in questo modo continuerà ad
alimentare il mercato del dolore senza dover sentire sensi
di colpa a riguardo. Così, ben pochi conoscono nel dettaglio le condizioni di vita degli animali negli allevamenti in60
La crudeltà invisibile, eppure evidente, dello specismo
tensivi, 2 ed ancor meno hanno avuto modo di vederle almeno in qualche filmato (per non menzionare l’esperienza diretta: assistere di persona al grido di dolore degli animali in prigionia è appannaggio esclusivo di chi prende parte attiva al
meccanismo di produzione): le galline ovaiole, segregate in
spazi così stretti da non poter neppure muovere le ali, con il
becco mozzato senza alcuna anestesia (somministrare un anestetico ad ogni capo rallenterebbe l’operazione e ne aumenterebbe i costi) affinché non possano ferirsi a causa dello stress;
le mucche da latte, cariche di ormoni ed antibiotici, private dei
loro cuccioli appena nati (e l’istinto materno è un’altra di quelle caratteristiche riscontrate non solo nell’uomo, ma perlomeno in tutti i mammiferi ed in molti altri vertebrati), sottoposte
ad un’esistenza così dura da avere un’aspettativa di vita ridotta
di due terzi rispetto a quello che sarebbe il loro ciclo naturale;
i maiali, la cui intelligenza, secondo esperimenti comprovati, è
paragonabile se non superiore a quella dei cani, trattati come
macchine da ingrasso, privati di ogni spazio che non sia quello
strettamente necessario alla sopravvivenza, piagati nelle carni
a causa della costretta immobilità; le pecore sovente lacerate
dalle macchine industriali per la tosatura e suturate senza alcuna forma di anestesia o disinfezione. Infine, al termine del
ciclo produttivo di ognuno di questi animali, una morte indubbiamente dolorosa, ma sicuramente economica per l’industria della carne. Così mentre l’allevamento è diventato pura
industria, quella che circola (anche attraverso le ingannevoli
pubblicità) nel nostro immaginario è ancora l’immagine della
2
A tale proposito risulta notevole lo sforzo divulgativo espresso dal romanziere americano Jonathan Safran Foer, che nel suo recente scritto Eating
Animals, pubblicato in Italia con il titolo di Se niente importa, Guanda, Milano
2010 (2009), racconta il percorso di progressiva presa di coscienza che l’ha
fatto avvicinare ad uno stile di vita più attento nei confronti degli animali,
innanzitutto rinunciando al consumo di carne.
61
Daniele Stroppolo
fattoria tradizionale, con gli animali semi-liberi e sottoposti ad
una vita apparentemente più adatta ai loro organismi.
Si potrebbe poi pensare che per l’approvvigionamento di
cuoio si utilizzino i resti degli animali uccisi per altri scopi; molto spesso, invece, la pelle proviene da allevamenti ad hoc, per lo
più localizzati in Paesi in via di sviluppo, nei quali non esiste
alcuna regolamentazione per il trattamento degli animali, e questo fa sì che ad essi vengano inflitte sofferenze inimmaginabili:
allevati in condizioni di estrema miseria, vengono poi macellati
in luoghi distanti anche centinaia di chilometri, costretti a marciare senza alcuna possibilità di riposo e di nutrimento fino al
mattatoio, tanto che si rendono necessari pungoli elettrici e percosse nelle zone più sensibili (muso, orecchie, genitali) affinché
non crollino a terra e proseguano nel loro cammino in direzione del mattatoio. Se a ciò si aggiunge che in alcuni Paesi gli
animali da pelliccia vengono addirittura scuoiati vivi, diviene
impossibile rimanere indifferenti.
Esistono campi nei quali è difficile esprimere una visione
unilaterale ed assolutamente netta, come ad esempio quello della sperimentazione medica su cavie di laboratorio. Il dibattito è
troppo complesso e controverso3 per essere affrontato in questa sede, ma sembra indispensabile proporre se non altro il seguente dato: si stima che ogni anno per la ricerca medico-cosmetica vengano uccisi dieci miliardi4 di animali. Si può forse
pensare che un numero di vittime del genere sia ragionevole? E
3
È opportuno a titolo di esempio ricordare che, all’interno di una comune
visione anti-specista, si distinguono le posizioni dello stesso SINGER P., espresse
in Liberazione animale, Mondadori, Milano 1991 (1975), e nel testo nato dalla
collaborazione con CAVALIERI P., Il progetto grande scimmia. Eguaglianza oltre i
confini della specie umana, Theoria, Roma-Napoli 1994, e quelle di REGAN T.,
esposte in I diritti animali, Garzanti, Milano 1990 (1985).
4
Il dato è tratto dall’ottimo documentario di MONSON S., Earthlings, USA
2005, liberamente visibile anche in rete.
62
La crudeltà invisibile, eppure evidente, dello specismo
che ciascuna di esse sia stata sacrificata in nome di un progresso
altrimenti irraggiungibile? Sembra palese che anche in questo
campo abbia maggior peso l’interesse economico (si può solo
immaginare quanto fatturi il mercato degli animali di laboratorio, che annovera individui delle specie più disparate, dai cani
alle scimmie, dalle cavie ai conigli, ai gatti e così via) rispetto alla
visione etica ed al tentativo di minimizzare le sofferenze fino
allo stretto indispensabile, limite sul quale dovrebbe teoricamente
vertere la discussione morale, se si superasse l’evidenza che la
definizione di esso non sembra un parametro di un qualche interesse per la gestione degli animali sfruttati per la ricerca.
Rimane una questione fondamentale da affrontare: se effettivamente, al momento, la nostra società pone regole e restrizioni minime per il benessere (benessere per chi, verrebbe da
chiedersi) degli animali, secondo quali criteri si dovrebbe fornire un impianto legislativo ed etico-morale più solido? In che
modo, insomma, fornire garanzie ad esseri che non sono in grado di esprimere le proprie esigenze in modo inequivocabile?
Peter Singer avanza ancora una volta una proposta condivisibile e razionale: da un lato, prendere in considerazione l’interesse a non soffrire dei senzienti renderebbe moralmente inaccettabile ogni forma di sfruttamento degli animali, umani e nonumani, ed obbligatoria l’applicazione di forme di tutela concrete della loro integrità psico-fisica e relazionale, la cosiddetta “liberazione animale”. Per quel che riguarda gli animali non-umani, per far ciò sarebbe sufficiente basarsi sugli studi etologici
esistenti. Ad esempio, è assolutamente indubbio che interesse
di una mucca sia quello di avere lo spazio per muoversi liberamente e brucare l’erba, avere rapporti sociali con esseri della
sua stessa specie, non essere separata coattamente dalla propria
prole, non essere sottoposta a trattamenti dolorosi o stressanti e
così via. Elenchi analoghi possono essere stilati per ogni specie
allevata dall’uomo, in base alle conoscenze sicuramente approfondite in nostro possesso sul loro comportamento e sulle loro
63
Daniele Stroppolo
necessità biologiche. Dall’altro lato, visto che in virtù di questa
nuova urgenza morale non si potrebbero più sopportare (e quindi supportare economicamente) i soprusi e le violenze insiti in un
sistema di produzione animale industrializzata, si dovrebbe giungere anche ad una sincera riflessione sulle scelte individuali quotidiane che si traduca in azione attraverso un ripensamento su usi e
consumi di determinati prodotti la cui origine, in un’ottica finalmente anti-specista, non potrebbe più trovare giustificazione.
Riferimenti bibliografici:
CAVALIERI P., Quanto contano gli animali?, Animus, Milano 1991.
CAVALIERI P., SINGER P. (a cura di), Il progetto grande scimmia. Eguaglianza oltre i confini della specie umana, Theoria, Roma-Napoli 1994.
FOER J.S., Se niente importa, Guanda, Milano 2010 (2009).
REGAN T., I diritti animali, Garzanti, Milano 1990 (1985).
SINGER P., Liberazione animale, Mondadori, Milano 1991 (1975).
Filmografia:
MONSON S., Earthlings, USA 2005.
64
Che fine ha fatto il futuro?
Note a margine di un saggio di M. Augé *
di Paolo Emilio Biagini **
Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta?
Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una
condizione d’angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni.1
Queste parole, che Ernst Bloch scrisse già sessant’anni fa, rimangono ancora attuali e ritornano alla mente di fronte all’argomento che Marc Augé ha voluto trattare in questo suo ultimo lavoro.
Marc Augé, nato a Poitiers nel 1935, è antropologo ed è stato a lungo Presidente dell’École des Hautes Études en Sciences
Sociales di Parigi. Uno dei suoi lavori precedenti a questo, intitolato Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità,
uscito in Francia nel 1992 e pubblicato in Italia, da Elèuthera
l’anno successivo, lo rese famoso al vasto pubblico. In quel testo Augé individuava alcune trasformazioni intervenute a livello antropologico. Egli le definiva sotto la categoria dell’eccesso,
intesa rispetto al tempo e alla nostra percezione di esso, rispetto
allo spazio, e infine rispetto alla figura dell’ego, dell’individualità. Queste tre caratteristiche davano vita, secondo lui, a quella
*
AUGÉ M., Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Elèuthera, Milano
2009, p. 110.
**
Docente di storia e filosofia.
1
BLOCH E., Il principio speranza, voll. 3, Garzanti, Milano 1994 (1953), vol. I,
p. 5.
65
Paolo Emilio Biagini
che definiva la “surmodernità”. Questa condizione surmoderna è quindi caratterizzata dalla sovrabbondanza degli avvenimenti, dalla sovrabbondanza spaziale e dalla sovrabbondanza
dell’individualizzazione degli avvenimenti.2
La surmodernità a questo punto è produttrice di nonluoghi
che, a differenza dei luoghi antropologici (i quali sono segnati
dalla storia e dalla memoria, e sono creatori di un sociale organico), vanno intesi invece come creatori di una contrattualità
solitaria. Infatti essa non integra in sé i luoghi antichi ma al contrario, questi, nella surmodernità appunto, vengono classificati,
e promossi come “luoghi della memoria”.
I nonluoghi sono i punti di transito, di occupazioni provvisorie, come a dire
le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze,
i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta, in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un
commercio “muto”, un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero.3
È per questo che lo spazio del nonluogo «non crea né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine»4.
2
Cioè della percezione individualizzata degli avvenimenti. Questi sono sempre meno ricondotti ad una loro esistenza oggettiva e sempre più “sentiti” in
forma soggettiva. Confronta a tale proposito il bel saggio di PERNIOLA M.,
Del sentire, Einaudi, Torino 1992, che anche se un po’ datato non ha perso
ancora nulla della sua lucidità interpretativa.
3
AUGÉ M., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera,
Milano 1993, p. 73.
4
Ivi, p. 95. Da tener presente anche la lettura che della postmodernità fa
Zygmunt Bauman. In particolare, a tal proposito vedi La solitudine del cittadino
globale, Feltrinelli, Milano 2000.
66
Che fine ha fatto il futuro?
L’estensione dei nonluoghi, concludeva in quel testo Augé,
«ha già battuto in velocità la riflessione dei politici, i quali hanno
finito con il non chiedersi più dove vanno, perché sanno sempre meno dove si trovano»5.
Si può dire che è da questo punto che Augé riprende la sua
riflessione sulla “condizione surmoderna”. Lo fa a partire dalla
riflessione sul concetto di futuro.
Può esser utile, afferma l’autore, «riprendere la categoria di
tempo per interrogare nuovamente le false evidenze dell’attuale
ideologia del presente»6. Ideologia che egli poco più sopra affermava essere segnata dalla società dei consumi.
Tale società produce ad esempio un effetto perverso che
consiste nel fatto che venga cancellata impercettibilmente la frontiera tra realtà e finzione, infatti
la televisione opera per lo più nel senso di questa cancellazione,
perché crea un mondo artificiale con persone reali... nel quale si
ritrovano indifferentemente, in una specie di Olimpo catodico,
personalità politiche, stelle del varietà, attori, presentatori, campioni sportivi e altre celebrità. Nei telespettatori nasce pian piano la sensazione che apparire sullo schermo sia la prova ultima
di un’esistenza riuscita.7
È in questo senso che «i media svolgono oggi il ruolo che un
tempo spettava alle cosmologie»8, perché i media
strutturano il nostro tempo quotidiano, stagionale e annuale. La
vita politica, artistica, sportiva non è più concepibile senza l’intromissione dei media, che cambiano la nostra relazione con lo
5
AUGÉ M., op. cit., p. 105.
Ivi, p. 12.
7
Ivi, p. 39.
8
Ivi, p. 40.
6
67
Paolo Emilio Biagini
spazio e con il tempo, imponendoci, con la forza delle immagini,
una certa idea del bello, del vero e del bene, e anche una certa
idea dell’abituale, del solito e, a conti fatti, della norma; in altre
parole, un’idea del consumo che continuano a riprodurre essendo essi stessi beni di consumo. Sono totalitari per essenza. La
cosmotecnologia spiega tutto, racconta tutto e si rivolge a tutti.
Come le altre cosmologie, aliena chiunque la prenda alla lettera.9
È per tale motivo che pensare il tempo diventa oggi, oltre
che una sfida, anche una necessità, perché
ogni cosa ci suggerisce o vuole farci credere che viviamo in un
sistema che si colloca definitivamente fuori della storia.10
Oggi ci stiamo sempre più abituando a consumare le immagini, le parole, i messaggi. Secondo Augé, che cita J.-P. Vernant,
siamo sempre più schiavi di quella che può esser definita la “ragione retorica”, «la quale non fa altro che giustificare l’esistente
così com’è», mentre «rinunciamo alla parte migliore della tradizione del paganesimo nella versione greca e più precisamente
ateniese: la capacità di introspezione intellettuale, l’attitudine di
spostare i confini, la vocazione a restare nella storia senza immolarsi alle illusioni del sistema»11.
Questa “ragione retorica” non fa altro che divinizzare il presente dando vita ad una ideologia dell’adesso (Life is now) tutta
tesa a rendere inutili e sorpassati gli insegnamenti del passato e
nel contempo ad annullare qualsiasi desiderio di immaginare il
futuro.
L’eterno presente nel quale l’attuale sistema di produzione,
sistema di produzione dello spettacolo e del consumo, ci ha
9
Ivi, p. 41.
Ivi, p. 45.
11
Ivi, p. 71.
10
68
Che fine ha fatto il futuro?
gettati, ci impedisce di affrontare un qualsiasi argomento che
possa esser svincolato dalla “presentità” del presente. Tutto rimanda al presente, tutto è relativo al presente, il presente va
prodotto continuamente e continuamente consumato, in un
vortice mediatico che, questo sì, sta diventando sempre più totalitario, nella sua forma e nella sua sostanza. Questa ideologia
del presente paralizza ogni sforzo teso a pensare il diverso, la
diversità. Tutto vuole invece assorbire, inglobare, assumere, rendere omogeneo e uni-forme, proprio nel senso di avere una
forma e una soltanto. Augé sostiene che il presente,
da uno o due decenni, è diventato egemonico. Agli occhi del comune mortale, non deriva più dalla lenta maturazione del passato
e non lascia più trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si
impone come un fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso
emergere offusca il passato e satura l’immaginazione del futuro.12
Di “questo” presente, scriveva già Simone Weil quando affermava:
Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole
sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. Solo una parte del male di cui soffriamo è da
attribuire al fatto che il trionfo dei movimenti autoritari e nazionalisti distrugge un po’ dovunque la speranza che uomini onesti
avevano riposto nella democrazia e nel pacifismo; esso è ben più
profondo e ben più vasto. Ci si può chiedere se esista un àmbito
della vita pubblica o privata dove le sorgenti stesse dell’attività e
della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali
viviamo. Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utili, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero
12
Ivi, p. 88.
69
Paolo Emilio Biagini
della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri
umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto. Gli stessi
imprenditori hanno perso quella credenza ingenua in un progresso economico illimitato che faceva loro supporre di avere
una missione. Il progresso tecnico sembra aver fatto fallimento,
poiché ha apportato alle masse, in luogo del benessere, la miseria
fisica e morale in cui le vediamo dibattersi; del resto non sono
più ammesse innovazioni tecniche in nessun campo, o quasi, salvo nelle industrie belliche. Quanto al progresso scientifico, non
si vede bene a che cosa possa servire accatastare ulteriormente
conoscenze su un ammasso già fin troppo vasto per poter essere
abbracciato dal pensiero stesso degli specialisti; e l’esperienza
mostra che i nostri antenati si sono ingannati credendo nella diffusione dei lumi, poiché non si può divulgare fra le masse che
una miserabile caricatura della cultura scientifica moderna, caricatura che, lungi dal formarne la capacità di giudizio, le abitua
alla credulità. L’arte stessa subisce il contraccolpo dello smarrimento generale, che la priva in parte del suo pubblico, e con ciò
stesso lede l’ispirazione. Infine la vita familiare è diventata solo
ansietà, a partire dal momento in cui la società si è chiusa ai
giovani. Proprio quella generazione per la quale l’attesa febbrile
dell’avvenire costituisce la vita intera vegeta in tutto il mondo con
la consapevolezza di non avere alcun avvenire, che per essa non
c’è alcun posto nel nostro universo. Del resto questo male, al giorno d’oggi, se è più acuto per i giovani, è comune a tutta l’umanità.
Viviamo un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è
più speranza, ma angoscia.13
Una delle caratteristiche dominanti di “questo” presente è
per esempio quella della velocità. Anche a questo riguardo appare senz’altro profetica, oltre che carica di significato per l’oggi, la riflessione sul concetto di Veloziferische che Goethe esponeva, in una lettera del 7 giugno 1825 a Zelter, e cioè che:
13
WEIL S., Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1994 (1955), p. 11.
70
Che fine ha fatto il futuro?
Tutto [...] è ora ultra, tutto trascende irresistibilmente, nel pensiero
come nell’azione. Nessuno si conosce più, nessuno afferra più l’elemento in cui si muove e agisce, la sostanza che elabora. [...] I giovani vengono troppo spesso eccitati e travolti in questo vortice: ricchezza e velocità è ciò che desta la meraviglia del mondo e per cui
ciascuno lotta: ferrovie, battelli a vapore e tutte le possibili facilitazioni nelle comunicazioni sono quello a cui le persone di cultura
tendono, per superarsi e superistruirsi, e proprio con ciò persistono nella loro mediocrità. E questo sarà anche il risultato generale,
che una cultura media diverrà comune. Veramente questo è il secolo di uomini pratici che afferrano tutto al volo, che, data una
loro certa disinvoltura, sentono la loro superiorità sulla massa sebbene essi non siano particolarmente dotati.14
Pare allora che questo, e soltanto questo, possa essere il motivo che fa dire a due autori, quali Edgar Morin e Anne Kern,
negli stessi anni di Postman, che:
La nostra civiltà è malata di velocità. Urge prendere coscienza
della corsa folle, del rischio di impazzire. Occorre frenare, rallentare, per fare avvenire un altro divenire.15
Questa particolare forma del presente venne definita con il
termine “tecnopolio” da Postman già negli anni Novanta del
secolo scorso. Il tecnopolio, secondo tale autore, che si rifà al
pensiero di Aldous Huxley del Brave New World, ha contribuito
a rendere
ogni alternativa non illegale, né immorale e nemmeno impopolare, ma semplicemente invisibile, e quindi irrilevante... ridefinendo i nostri concetti di religione, arte, famiglia, politica, storia,
verità, privatezza, intelligenza, in modo da farli coincidere con le
14
15
Cit. in LÖWITH K., Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 163.
MORIN E.-KERN A.B., Terra-Patria, R. Cortina, Milano 1994, p. 155.
71
Paolo Emilio Biagini
nuove esigenze. In altre parole, il tecnopolio è la tecnocrazia totalitaria.16
Il tecnopolio, secondo il Postman, ha ingaggiato già da molto tempo una lotta, anzi una vera e propria guerra con la cultura, vincendola.
Ciò per altro lo possono constatare ogni giorno coloro i quali si trovano, per dovere o per necessità, a confrontarsi con il
mondo della cultura, dell’istruzione e dell’educazione. Molto
significativa appare la descrizione di questa situazione, fatta appunto da questo autore.17
Perché il tecnopolio ha vinto questa guerra e si è imposto?
Perché, risponde Postman, si è spezzato quel legame tra infor-
16
POSTMAN N., Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri,
Torino 1993 (1992), p. 49.
17
«Nella scuola due grandi tecnologie si scontrano, senza possibilità di compromesso, per conseguire il controllo dei cervelli degli studenti. Da una parte sta il mondo della parola stampata che punta sulla logica, i rapporti di
successione, la storia, l’esposizione, l’obiettività, il distacco e la disciplina.
Dall’altra sta il mondo della televisione, imperniato sulla fantasia, il racconto,
la contemporaneità, la simultaneità, l’intimità, la gratifica immediata e la rapida risposta emotiva. I bambini, quando vanno a scuola, sono già profondamente condizionati dalla televisione. A scuola fanno conoscenza con il mondo della parola stampata e si instaura una specie di guerra psichica, in cui i
feriti sono molti: i bambini che non possono o non vogliono imparare a
leggere, i bambini che non riescono a organizzare il pensiero nemmeno nella
struttura logica di una semplice frase, i bambini che non sono capaci di seguire una lezione o una spiegazione verbale per più di pochi minuti. Sono un
disastro, ma non perché sono stupidi. Sono un disastro perché è in corso una
guerra dei media e loro sono dalla parte sbagliata, almeno per il momento.
Chi può dire come saranno le scuole fra venticinque, cinquant’anni? Allora il
tipo di studente che oggi è considerato un disastro sarà probabilmente giudicato un genio, mentre lo studente che oggi studia con profitto sarà giudicato
un allievo handicappato, lento nei riflessi, troppo distaccato, privo di emozioni, incapace di creare immagini mentali della realtà» (ivi, p. 22).
72
Che fine ha fatto il futuro?
mazione e finalità umana. L’informazione è infatti totalmente
indiscriminata, non è diretta a nessuno in particolare, è estremamente veloce e non ha alcun rapporto con nessuna teoria o
significato. Sembra abbia la stessa caratteristica che la tecnica
assume nel pensiero di Emanuele Severino.18 Essa vuole in sostanza soltanto se stessa.
È per questo che, secondo il Postman, l’obiettivo dell’informazione non è
la diminuzione dell’ignoranza, della superstizione e della sofferenza bensì quello di adeguarci ai requisiti delle nuove tecnologie [... perché ...] il tecnopolio è una condizione culturale e
mentale consistente nella deificazione della tecnologia. Il che
significa che la cultura ricerca nella tecnologia la propria giustificazione, trova soddisfazione nella tecnologia e prende ordini
dalla tecnologia.19
Alcune riflessioni di questo autore, nel campo della pedagogia, riflessioni risalenti a circa vent’anni fa, sarebbero per altro
da riprendere ed approfondire.20
18
«Questo infinito incremento è ormai, o ha già incominciato ad essere, il
supremo scopo planetario. Ogni altro scopo è più o meno consapevolmente,
più o meno direttamente subordinato a questo scopo supremo: la crescita
infinita della potenza; che ormai non può più prodursi al di fuori dell’apparato della tecnica. In tale subordinazione consiste la dominazione della tecnica
nel nostro tempo, la sua destinazione al dominio» (SEVERINO E., Il destino della
tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 11). Il problema della tecnica è uno dei temi
centrali della riflessione di questo filosofo.
19
POSTMAN N., op. cit., p. 70. L’inciso in parentesi quadre è di chi scrive.
20
«Prendiamo ad esempio il campo dell’istruzione. Nel tecnopolio si migliora l’istruzione dei giovani migliorando le cosiddette “tecnologie di apprendimento”. Attualmente si considera necessario introdurre nelle classi i computers, così come un tempo si riteneva necessario portarci la televisione a circuito chiuso e il film. Alla domanda: “Perché dobbiamo farlo?” la risposta è:
“Per rendere l’apprendimento più efficiente e interessante”. Tale risposta è
73
Paolo Emilio Biagini
Forse è possibile che noi oggi, anche a causa di ciò, si stia
vivendo quella condizione storica che Koselleck aveva intravisto e commentato un quarto di secolo fa, e cioè che
il futuro proprio di questo progresso è caratterizzato da due
momenti: dall’accelerazione con cui ci arriva addosso, e dal fatto
di essere ignoto. Il tempo accelerato, ossia la nostra storia, abbrevia infatti gli spazi di esperienza, li priva della loro stabilità e
in tal modo mette continuamente in gioco nuovi elementi ignoti;
così, a causa della complessità di questi fattori sconosciuti persino il presente si sottrae alla nostra esperienza.21
A cercare di fare una riflessione sul presente si può infatti
esser d’accordo con ciò che ci ricorda il Koselleck e cioè che
due fenomeni stanno caratterizzando il nostro tempo: un restringimento dell’area dell’esperienza e contemporaneamente un
abbassamento dell’orizzonte delle attese.
Particolarmente significativa è la presenza di queste due condizioni nel mondo della scuola. Lo si rileva continuamente con
le nuove generazioni che paiono vivere sempre più in un mondo nel quale fanno evidente fatica a collocarsi in una dimensione spazio-temporale che non sia quella che il sistema della produzione e del consumo ha già deciso per loro.
Augé, alla fine del suo lavoro, dichiara senza mezzi termini che
considerata pienamente adeguata, visto che nel tecnopolio l’efficienza e l’interesse non hanno bisogno di giustificazione. Ragion per cui di solito non ci
si rende conto del fatto che questa risposta non si riferisce alla domanda:
“Quali sono gli scopi dell’apprendimento?” “Efficienza e interesse” è una
risposta di carattere tecnico, che non riguarda il fine, ma i mezzi, e non lascia
alcuno spazio a considerazioni di filosofia educativa. Anzi, preclude la strada
a tale considerazione in quanto comincia con il chiedersi come, e non perché, dovremmo procedere» (op. cit., p. 157).
21
KOSELLECK R., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986, p. 25.
74
Che fine ha fatto il futuro?
la vera democrazia passa per una chiara definizione delle relazioni
egualitarie tra tutti gli individui, tra tutti gli uni, chiunque siano, e
tutti gli altri, chiunque siano. Oggi ne siamo ancora ben lontani.22
Questo concetto della democrazia nelle relazioni egualitarie,
applicato alla cultura, diventa un contenuto-fine. Bloch, nelle
sue tesi sul progresso, ne aveva scritto, definendolo così:
Non è qualcosa di già definito, ma di non ancora manifesto, un
umano concreto-utopistico. Soltanto così il rapporto al presente, che opera in profondità, in relazione al quale i diversi
corsi storici sono ordinati, diventa rappresentabile come una
profondità tanto ampia che in una cronologia riccamente strutturata trovano posto i processi evolutivi di tutto il mondo. Per
l’umano che erompe dall’interno, ultimo, preminente punto
d’arrivo del progresso, tutte quante le culture della terra, insieme al loro sostrato ereditario sono esperimenti e testimonianze
in vario modo importanti. Esse non convergono perciò in una
cultura già presente in qualche luogo, sia pure una cultura “dominante”, di importanza “classica”, che per la sua qualità (pur
sempre soltanto sperimentale) sarebbe “canonica”. Le passate,
presenti e future civiltà convergono soltanto in un umano in
nessun luogo ancora sufficientemente manifesto, ma certo sufficientemente anticipabile.23
Questa, e soltanto questa, presa di coscienza può riuscire, in
qualche modo, a combattere ciò che ormai appare in tutta evi-
22
AUGÉ M., Che fine, cit., p. 105.
BLOCH E., Sul progresso, Guerini e Associati, Milano 1990 (1963), p. 64. Si
potrebbe riandare con la mente alla famosa frase che Marx scrive a Ruge, e
cioè «apparirà chiaro […] come da tempo il mondo possieda il sogno di una
cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato
e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato» (cfr. MARX K., Un carteggio
del 1843 e altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1954, pp. 40-41).
23
75
Paolo Emilio Biagini
denza, e cioè che, nonostante tutti gli sforzi nel campo della comunicazione e dell’informazione, l’ignoranza sia in crescita. Tale
aumento è evidente analizzando lo scarto tra i saperi specialistici
di chi li possiede e la cultura media di chi non li possiede.
Da sempre l’uomo ricerca per sé e per il prossimo quel qualcosa che lo possa rendere felice. Quel cosiddetto “Etwas fehlt”24,
ovvero “qualcosa manca” che spinge l’uomo ad andare avanti
per terreni inesplorati alla ricerca del posseduto-perduto. Per
Augé, questo “qualcosa” potrebbe essere sicuramente raggiunto attraverso un atteggiamento atto a
governare in vista del sapere, di assegnarsi il sapere come fine
individuale e collettivo. Quindi, finalmente, di ritornare a un pensiero del tempo...25.
24
25
BLOCH E., Il principio speranza, op. cit., vol. I, p. XXVI.
Cit., p. 110.
76
Tre nomi, mille facce. Un invito
al viaggio a Istanbul
di Brigitta Bianchi*
Il modo migliore per calarsi in Istanbul è arrivare per nave a
Karaköy (=villaggio nero), nell’antico quartiere genovese, all’ombra della torre di Galata, come fanno le due protagoniste di
Un film parlato del regista portoghese Manoel de Oliveira. Varcati i mitici (e storici) Dardanelli, si attraversa lentamente il mar di
Marmara e si penetra nell’antica Costantinopoli già percependone le mille sfaccettature.
Oppure giungiamo per terra (a due, a quattro o più ruote)
dalla Turchia “asiatica”: la città si annuncia, a chi arriva in autostrada da Ankara, già ben prima del maestoso ponte sul Bosforo (il ponte sospeso più lungo d’Europa) dove un cartello annuncia: “Benvenuti in Europa”. Europa? Mai, come di questi
tempi, è attuale questa domanda. Siamo in Europa? Siamo in
Asia? Dove siamo? Istanbul si presenta come una variopinta
matrioska russa: tanti corpi autonomi uno dentro all’altro fino a
quello più piccolo, il centro, l’essenza. La definizione proposta
da un abitante di Göreme per la sua regione, la Cappadocia, va
bene anche qui: Istanbul non è Turchia, Istanbul è Istanbul. Tanto è vero che nel 1923 Atatürk volle come capitale la più turca
Ankara, lasciando a Istanbul il ruolo di porta della Turchia, di
emblema turistico, di crocevia commerciale e culturale.
*
Docente di italiano e latino.
77
Brigitta Bianchi
Quest’anno la città è capitale europea della cultura e ha scelto come tema delle celebrazioni la teoria dei quattro elementi
primordiali: terra, aria, acqua e fuoco. Molti sono i punti della
città in cui ci si può calare nei primi tre elementi. Se l’osservatorio “canonico” della metropoli è la caratteristica torre di Galata,
una vista a 360° si può godere anche dal ponte di Atatürk sul
Corno d’Oro, trafficatissimo punto di passaggio per i locali e
noto agli italiani per un determinante scambio di battute tra
Carlo Verdone e Silvio Muccino nel film Il mio miglior nemico.
Istanbul dei turisti e Istanbul dei turchi: percepiamo questo
binomio (non è uno iato, sono due corpi della stessa matrioska)
anche tra le pagine dei libri. C’è la città dei visitatori e dei viaggiatori e c’è la città dei locali. Queste entità si toccano, si fondono, eppure restano autonome. Fino al secolo scorso c’era anche
Istanbul dei greci, che vennero costretti ad andarsene in seguito
all’inasprirsi del conflitto greco-turco, come racconta con poetica levità il film Un tocco di zenzero del regista greco Tassos Boulmetis. Per i greci la città è sempre Costantinopoli e come tale
viene chiamata nel film. Il titolo originale, Politiki Kouzina, sottolinea ancor meglio il rapporto tra città e arte culinaria che il
protagonista Fanis Iakovidis impara ad assaporare fin da piccolo nella bottega di spezie del nonno e nella cucina di casa sua,
vero fulcro della vita familiare.
Il giovane studente Osman, protagonista di La nuova vita del
premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk1, arriva con il
vaporetto a Karaköy, si muove per il quartiere di Taksim, frequenta l’università Tașkișla (di cui un turista e magari pure un
locale possono ignorare anche l’esistenza).
Nell’autobiografico Istanbul 2 Pamuk chiarisce il nesso tra sé
e la città: «Ci sono scrittori come Conrad, Nabokov e Naipaul
1
2
Einaudi, Torino 2000.
Einaudi, Torino 2006.
78
Tre nomi, mille facce. Un invito al viaggio a Istanbul
che hanno scritto con successo pur avendo cambiato lingua,
nazione, cultura, paese, continente, persino civiltà. Io so che la
mia ispirazione trae vigore dall’attaccamento alla stessa casa,
alla stessa strada, allo stesso panorama e alla stessa città, come
l’identità creativa di quegli scrittori ha preso forza dall’esilio e
dall’emigrazione. Questo mio legame con Istanbul significa che
il destino di una città può diventare il carattere di una persona.»3
Più avanti Pamuk si sofferma sul fascino di un luogo per gli
stranieri e per i locali: «Walter Benjamin, in un suo saggio intitolato Il ritorno del flâneur, mentre presenta Passeggiare a Berlino di Franz Hessel afferma: “Se si volessero suddividere in
due gruppi tutte le descrizioni di città esistenti secondo il luogo di nascita dell’autore, risulterebbe certamente che quelle
scritte dalle persone native del luogo sono nettamente in minoranza.” Secondo Benjamin, ciò che entusiasma la maggior
parte degli stranieri in una città sono i panorami esotici e pittoreschi. Invece l’interesse delle persone nei confronti della
città in cui sono nate e cresciute si confonde sempre con i loro
ricordi. Ciò che descrivo potrebbe alla fine non essere prerogativa della sola Istanbul, a causa dell’inevitabile occidentalizzazione di tutto il mondo. Ma è vero che la vita delle generazioni passate della città in cui vivo, cioè il diario della vita di
Istanbul, è stata raccontata dagli stranieri.»4 Il viaggiatore non
musulmano si stupirebbe senz’altro di incontrare, in pieno
centro, nell’imminenza della festa del sacrificio, un’imponente
pecora legata che bruca un’aiuola striminzita. Forse si ricorderebbe, tutt’al più, della sabiana capra dal viso semita.
Lo scrittore si domanda poi: «Dove sta il segreto di Istanbul?
Nella miseria che vive accanto alla sua grande storia, nel suo
condurre segretamente una vita chiusa di quartiere e di comuni-
3
4
Ivi, p. 6.
Ivi, p. 237.
79
Brigitta Bianchi
tà, nonostante fosse così aperta agli influssi esterni, oppure nella sua vita quotidiana costituita di rapporti infranti e fragili, dietro la sua chiara bellezza monumentale e naturale? In realtà ogni
frase sulle caratteristiche generali di una città si trasforma in un
discorso sulla nostra vita, e soprattutto sul nostro stato d’animo. La città non ha altro centro che noi stessi.»5 Sembra di sentir parlare il Marco Polo del calviniano Le città invisibili che, nel
descrivere a Kublai Kan i luoghi da lui visitati, ripensa e ripropone sempre la sua città, Venezia. Pamuk individua nella tristezza la cifra significativa di Istanbul.
Diversa è la città, più “classica”, stereotipata e nota al lettore occidentale, che attraversa la narratologa inglese Gillian
Perholt, protagonista del breve romanzo fantastico di Antonia
S. Byatt Il genio nell’occhio d’usignolo6: sfilano davanti agli occhi
del lettore il palazzo del Topkapi, la basilica di Santa Sofia e il
Gran Bazar «più vivace e luminoso dell’immensità cavernosa
di Santa Sofia. Era un dedalo di portici, di grotte d’Aladino
zeppe di lampade e tappeti magici, d’argento e ottone e oro e
ceramiche e piastrelle».7
Un osservatorio ancora diverso ce lo offre Alexia Brue in
Cattedrali del corpo8: l’americana protagonista, avendo deciso di
aprire con un’amica un bagno turco negli Stati Uniti, passa in
rassegna vari luoghi in tutto il mondo famosi per il benessere
del corpo e comincia il suo “pellegrinaggio” proprio da Istanbul, dove però viene disillusa dalla sua guida Kemal: «I turchi
non vanno più all’hammam. È poco igienico. Bisogna stare attenti. [...] I turchi moderni, come me o Baksim, considerano gli
hammam un’abitudine d’altri tempi, una cosa che andava bene
5
Ivi, p. 343.
Einaudi Tascabili, Torino 1995.
7
Ivi, p. 58.
8
Feltrinelli, Milano 2004.
6
80
Tre nomi, mille facce. Un invito al viaggio a Istanbul
per i nostri nonni. La Turchia si è modernizzata sotto la fantastica guida di Atatürk.»9
Un lettore occidentale non potrà non pensare alla Istanbul di
Agatha Christie, che al Pera Palace nel quartiere di Tepebași era di
casa. E il suo spirito poliziesco sembra aleggiare ancora sulla città
e ispirare gli scrittori se guardiamo ai numerosi gialli o noir ambientati tra i viali e i vicoli. Due sono stati recentemente proposti
in Italia da Sellerio: Scandaloso omicidio a Istanbul di Mehmet Murat
Somer e, pochi mesi fa, Hotel Bosforo di Esmahan Aykol.
Forse per attirare lettori ormai sazi di noir ambientati a tutte
le latitudini, la casa editrice palermitana ha pubblicizzato quest’ultimo come un libro la cui protagonista è Istanbul, ma ancora una volta sono i luoghi classici e canonici a sfilare davanti agli
occhi del lettore, che però impara a conoscere meglio gli abitanti con le loro abitudini e le loro manie annotate con un sorriso
dalla protagonista della storia, Kati Hirschel, una quarantenne
tedesca-turca (come l’autrice) che ha aperto una libreria specializzata (guarda caso!) in gialli nel quartiere di Kuledibi.
Le prime frecciatine sono per la propensione turca al fumo:
«All’aeroporto Atatürk, ampliato da poco per tentare di fare
concorrenza ad Atene, trascorsi un’interminabile ora seduta in
un bar. Il fumo delle sigarette era così denso che non si vedeva
a un palmo dal naso. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’agitazione non c’entrava nulla. Le persone che erano venute a prendere o a salutare amici e parenti potevano anche
essere agitate, ma non era per questo che fumavano. I turchi
non hanno bisogno di simili pretesti per accendere una sigaretta
dopo l’altra. Mi bruciavano gli occhi e faticavo a respirare, ma
era una cosa assolutamente normale. Non potendo fare altro,
mi unii alla schiacciante maggioranza dei fumatori.» 10
9
Ivi, p. 26 s.
AYKOL E., Hotel Bosforo, Sellerio, Palermo 2010, p. 26.
10
81
Brigitta Bianchi
Fumo e cura della persona però non sembrano inconciliabili: «Una delle cose che mi piacciono di più di Istanbul è proprio
l’aspetto curato dei suoi abitanti: qui è assolutamente normale
andare dal parrucchiere o dall’estetista. In Germania, invece, le
donne si tagliano e si tingono i capelli da sole.»11
L’intrepida Kati non risparmia neppure le forze dell’ordine e
allude al pluridecennale tentativo della Turchia di entrare a far
parte dell’Unione Europea: «Non capitava tutti i giorni di incontrare un commissario così gentile. Anche il poliziotto di
Ortaküy con cui avevo parlato al telefono, quello con il nome
normale che però non riuscivo a ricordare, mi aveva trattato
con cortesia. Questo poteva significare solo una cosa: che l’Europa doveva tenersi forte. La Turchia si era messa in testa di
entrare nell’Unione e stava facendo di tutto per raggiungere il
suo obiettivo. Ora anche i poliziotti turchi dovevano mostrare
un po’ di rispetto per i diritti umani.»12
Dopo questo excursus nella Istanbul “di carta” torniamo a
quella di pietra, di maioliche e di minareti.
Il turista frettoloso (ma come si può avere fretta in una
città del genere?) limiterà sì la sua visita al Topkapi, a S. Sofia,
alla Moschea Blu dai sei minareti, alla Moschea di Solimano
(capolavoro dell’architetto Sinan) e al Gran Bazar, ma non potrà
dire di conoscere Istanbul. L’avrà soltanto assaggiata. E lo avrà
fatto attorniato da una moltitudine di estimatori, come lui, del
fast food culturale. Il viaggiatore curioso si prenda del tempo
per degustare, sempre restando nei percorsi canonici, il buio
affascinante della sotterranea cisterna Yerebatan dalle trecento colonne: costruita dall’imperatore Costantino e ampliata da
Giustiniano, serviva a raccogliere l’acqua che proveniva dagli
acquedotti di Adriano e Valente e fungeva da serbatoio per il
11
12
Ivi, p. 31.
Ivi, p. 55.
82
Tre nomi, mille facce. Un invito al viaggio a Istanbul
vicino palazzo del Topkapi. Lo stesso viaggiatore curioso assaggi pure, tra S. Sofia e la Moschea Blu, la maestria profusa
dall’architetto Sinan (definito da alcuni, per la smania occidentale di porsi sempre come riferimento, il Brunelleschi orientale) nel realizzare l’hammam detto di Roxelana, ora centro di
vendita di tappeti.
Se vogliamo addentrarci lungo il Corno d’Oro (canale lungo 7 km), fissiamo come meta il rione di Eyüp (che prende il
nome da uno dei compagni di Maometto qui sepolto) con la
retrostante collina cara allo scrittore francese Pierre Loti o, più
vicino, l’ex chiesa di S. Salvatore in Chora (oggi Kariye Camii).
Ciò che colpisce e affascina di questo gioiellino, oltre alla struttura articolata e composita (navata preceduta da nartece ed esonartece e affiancata da parecclesion), è la profusione di mosaici
e affreschi incentrati tutti sulla vita di Maria e di Gesù. Si resta
abbagliati dai mille colori che narrano con dovizia di particolari
scene più o meno note delle Scritture. Il viaggiatore appassionato d’arte non si stancherebbe mai di rovesciare il collo (e la
posizione non è certo delle più comode) per scoprire sempre
nuovi dettagli, sempre nuovi particolari. Sono mosaici e affreschi popolati di figure umane, ma anche di animali, usati sia
come riempitivo sia come parte integrante delle scene.13 Qui un
pavone impettito e colorato, lì una chiocciola bianca, quasi madreperlacea. Figure ieratiche, come Abramo con in braccio Lazzaro, si alternano a personaggi amorevoli, come Giuseppe che
porta sulle spalle il bambino Gesù tornando a Nazaret. Non
solo a chi ha la smania dei paragoni con l’Occidente verranno in
mente i mosaici bizantini di Ravenna (arte come ponte culturale). E in Italia, precisamente in Campania, ci porterà anche la
proprietaria del vicino negozietto di ceramiche tipiche (ma a
quel punto lo possiamo chiamare artigianato turco?). Questa
13
Immagini preziose ed incredibili nell’aniconismo musulmano.
83
Brigitta Bianchi
rimpatriata forzata, ammettiamolo pure, produrrà un lieve fastidio nel viaggiatore curioso che contempla i mosaici beatamente
calato nella Bisanzio del XIV secolo. Egli sentirà allora il bisogno contemporaneamente di spazi aperti e di pura vita locale.
Tornerà verso il centro (la matrioska più piccola) e, vicino al
ponte di Galata, si imbarcherà su un non pulitissimo e affollato
vaporetto. Destinazione: mar Nero. La linea, che tocca alternativamente le due sponde del Bosforo, è fatta, oltre che per i
turisti, per i locali che la usano per lavoro (le prime fermate,
compresa quella dell’università citata da Pamuk) e per svago: il
villaggio di pescatori di Anadolu Kavagi
˘ all’estremità orientale
del Bosforo è meta delle scampagnate domenicali. Il turista
amante dell’Occidente (specie se italiano) con orgoglio scoprirà
la nave scuola Amerigo Vespucci puntare decisa verso la Crimea
(visibile in condizioni di cielo particolarmente terso e limpido
come può essere il cielo turco in autunno) favorita dalle onde di
quello che fu chiamato Ponto Eusino (Mare Accogliente).
Questo carattere ospitale di un mare, che poi diventò inospitale (e ora perciò si chiama Nero), resta alla città, che offre al
viaggiatore la possibilità di calarsi in essa, scrutarla, conoscerla
e, anche, amarla.
84
Parlare di islàm. Per una comprensione
del concetto di “sottomissione”.
Dalle stereotipie ad un approccio ermeneutico
di Franz Brandmayr *
1. Premessa metodologica
In alcuni ambiti della comunità scientifica internazionale viene
avvertita sempre più urgentemente l’esigenza di una presa di distanza critica rispetto ai modelli euristici europei. Nel contesto
accademico, infatti, la storia, la filosofia, le letterature antiche e
moderne, il fatto religioso, il diritto e le stesse scienze sperimentali tendono a venire lette attraverso i paradigmi1 rappresentati dalle
tradizioni disciplinari occidentali, che non possono non darne una
interpretazione eurocentrica.2 Da ciò sembra scaturire una vera e
propria crisi epistemologica, che va prendendo corpo anche all’interno di aree scientifiche sulla cui “oggettività” il tipo ideale3
*
Docente di I. R. c.
Si tiene presente il concetto di “paradigma” elaborato da KUHN TH.S., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 19994 (1962), pp. 29-30 et passim.
2
Vd. ad es. MALIGHETTI R., s.v. Etnocentrismo, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a
cura di), Dizionario di antropologia. Etnologia, antropologia culturale, antropologia
sociale, Zanichelli, Bologna 1997, pp. 273-274.
3
WEBER M., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 19812 (1922),
pp. 107-120.
1
85
Franz Brandmayr
di occidentale sarebbe stato disposto, se non a scommettere,
almeno a investire buona parte della propria fiducia.4 Nel campo delle scienze umane assiomi filosofici, etici e politologici ritenuti pressoché inscalfibili, come, ad esempio, le idee di “democrazia”5, di “progresso”6, di “tolleranza”7, di “Stato”8 e lo
stesso concetto di Illuminismo9 sono ora suscettibili di venire
4
In campo medico, ad es., la medicina occidentale “ufficiale” pare ancora
restia ad accogliere l’ipotesi di un’integrazione delle diverse prospettive mediche, di matrice anche folklorica e tradizionale [in prospettiva antropologico-culturale cfr. ad es. le osservazioni di LANTERNARI V., Patologia psichiatrica,
magia e religione nella società occidentale di massa, in ID., Medicina, magia, religione,
valori, Liguori, Napoli 1994, vol. I, pp. 21-91, passim e ID., Quali terapie contro il
disagio della civiltà?, in DONGHI P. (a cura di), Il sapere della guarigione, Laterza,
Roma-Bari 1996, pp. 93-123, passim].
5
COLOMBO E., Le società multiculturali, Carocci, Roma 2002, p. 91; TOURAINE
A., L’idea democratica è solamente l’autosoddisfacimento dei ricchi?, in CRESPI F.SEGATORI R. (a cura di), Multiculturalismo e democrazia, Donzelli, Roma 1996,
pp. 147-168, passim.
6
CHAKRABARTY D., L’artificio della storia, in PASQUINELLI C. (a cura di),
Occidentalismi, Carocci, Roma 2005, pp. 44-46.
7
PARDI F., Indifferenza e universalismo procedurale, in CRESPI F.-SEGATORI R. (a
cura di), op. cit., p. 22.
8
CLEMENTE P., Lontananze vicine: sui modi di pensare e insegnare l’antropologia nel
mondo globale, in PASQUINELLI C. (a cura di), op. cit., pp. 164-167; GEERTZ C.,
Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Il Mulino,
Bologna 1999 (1995), pp. 28, 30 e 31.
9
Cfr. ad es. CHAKRABARTY D., op. cit., pp. 60 ss.; CHAMBERS I., Cartografia del
progresso, in PASQUINELLI C. (a cura di), op. cit., p. 15; DEI F., Antropologia e
genocidio, in PASQUINELLI C. (a cura di), op. cit., p. 198; MAZZEI F., La violenza
epistemologica nell’Orientalismo, in PASQUINELLI C. (a cura di), op. cit., pp. 94 e
100; EAD., Occidentalismi, in EAD. (a cura di), op. cit., pp. 11-12. Analogamente GEERTZ C., op. cit., p. 73, pur da una posizione filosofica liberal-borghese
e postmoderna [cfr. ID., Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, Il Mulino, Bologna 2001 (2000), p. 91], scrive del liberalismo come
di «un ennesimo tentativo di imporre con la forza al resto del mondo i
valori occidentali: un seguito del colonialismo con altri mezzi» e dell’idea
86
Parlare di Islàm
etichettati come «occidentalismi»10, provocando accesi dibattiti
fra gli studiosi.11
Pare di assistere all’inizio (perché ancora soltanto di un germe si tratta) di un ribaltamento delle posizioni tradizionali: dalla
di modernizzazione come «conveniente ad un tempo agli ex padroni [coloniali] e agli ex soggetti [colonizzati] ansiosi di riformulare le loro
diseguaglianze in un idioma» [ID., Oltre i fatti. Due paesi, quattro decenni, un
antropologo, Il Mulino, Bologna 1995 (1995), p. 168; parentesi quadrate dello
scrivente] che consenta la perpetuazione dei rapporti di egemonia/
subalternità. Per reperire una serie di riflessioni di esponenti
dell’intellettualità italiana o, comunque, partecipi della cultura occidentale,
sulla validità sempre attuale del portato teorico, politico ed etico
dell’Illuminismo vd. SCALFARI E. (a cura di), Attualità dell’Illuminismo, Laterza,
Roma-Bari 2001, passim. Credo non ci sia soverchio bisogno di rilevare
quanto le succitate parole d’ordine della cultura liberale [cfr. anche
KIPPENBERG H.G., La scoperta della storia delle religioni. Scienze delle religioni e
modernità, Brescia, Morcelliana 2002 (1997), pp. 196-197, 253 e 256-257
per le connotazioni “religiose” della modernizzazione, nella quale le nozioni di “individualismo”, “intellettualismo”, “antitradizionalismo” e “nazione” rischiano di assumere significati imperituri e sottratti alla critica
storica] abbiano rappresentato un solido supporto teorico funzionale alla
tesi della missione “civilizzatrice” dell’Occidente nei confronti del resto
del mondo (cfr. infra la nota n. 12). Sulla storia della filosofia occidentale
colta da Habermas come «tentativo delle società democratiche di rassicurare se stesse» circa la bontà del proprio progetto modernistico cfr. anche
le argomentazioni di CHAKRABARTY D., op. cit., pp. 62-63.
10
PASQUINELLI C. (a cura di), op. cit., passim. Per reperire un elenco (certamente
incompleto) degli occidentalismi cfr. ad es. la nota precedente e CHAKRABARTY
D., Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004 (2000), p. 16, che aggiunge «la
visione universale e secolare di ciò che è umano», i «diritti umani», la «democrazia» (cfr. supra la nota n. 5), il pensiero marxista e liberale (ivi, pp. 16-17) e le
«scienze umane» stesse (ivi, p. 17), l’idea del «soggetto-cittadino»,
l’«“immaginazione” quale categoria analitica, le concezioni della società civile…, le diverse distinzioni fra pubblico e privato…, il tempo storico [lineare] e
così via» (ivi, p. 38; parentesi quadrata dello scrivente).
11
PASQUINELLI C., Occidentalismi, cit., pp. 10-12.
87
Franz Brandmayr
indiscussa «missione civilizzatrice»12 a livello planetario, di cui
l’Occidente si è sentito investito dall’alto del suo successo militare, economico e politico colonialistico e neocolonialistico,13
all’emergenza di razionalità “altre”, che mirano a «provincializzare l’Europa». Questo «progetto»14 vede impegnate le letterature terzomondiali, i Cultural Studies e i Postcolonial Studies15, mentre la ricerca etno-antropologica vi dedica le proprie energie per
antico statuto.
Se di crisi si può parlare, tuttavia, essa non viene sempre provocata con l’intenzione di destituire di ogni fondamento scientifico16
12
Cfr. ad es. BASTIDE R., Noi e gli altri. I luoghi di incontro e di separazione culturali
e razziali, Jaca Book, Milano 19902 (1970), pp. 27-28; CHAKRABARTY D., Provincializzare, cit., p. 21; TRIULZIA A., Lo sguardo coloniale, in PASQUINELLI C. (a
cura di), op. cit., p. 106; per una indicazione che concerne direttamente la
presente trattazione cfr. MARLETTI C., Le immagini dell’islam nella narrazione di
eventi e nel dibattito su temi. Analisi qualitativa dei testi e dei generi, in ID. (a cura di),
Televisione e Islam. Immagini e stereotipi dell’islam nella comunicazione italiana, RAINuova ERI, Roma 1995, p. 94. Di questa presunzione egemonica della cultura occidentale scrive magistralmente SAID E.W., Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 20054 (1978), passim. Osservazioni critiche nei confronti della posizione saidiana ed apologetiche rispetto ai meriti
delle discipline orientalistiche sono reperibili in LO JACONO C., La concezione
islamica dell’occidente, in ALLIEVI S. (a cura di), L’occidente di fronte all’islam, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 145-146.
13
Scaturito, come ha dimostrato magistralmente CIPOLLA C.M., Vele e cannoni,
Il Mulino, Bologna 19993 (1965), passim, dalle più progredite tecnologie marinare e balistiche dell’Europa moderna.
14
CHAKRABARTY D., L’idea di provincializzare l’Europa, in ID., Provincializzare,
cit., pp. 15-42.
15
Per un primo approccio in lingua italiana intorno ai Cultural Studies e i
Postcolonial Studies si vedano CHAMBERS I. (a cura di), Esercizi di potere. Gramsci,
Said e il postcoloniale, Meltemi, Roma 2006, passim e PASQUINELLI C. (a cura di),
op. cit., passim con le relative indicazioni bibliografiche.
16
Per delle argomentazioni volte a rispondere alle critiche più radicali
nell’ambito che riguarda questo saggio, cioè quello antropologico-cultu-
88
Parlare di Islàm
le pretese conoscenze del mondo accademico euroamericano.
Essa, inoltre, potrebbe venire colta anche come una salutare
opportunità di mettere in discussione17 e di rivedere le precomprensioni euristiche, i criteri di approccio, gli strumenti concettuali e le aspettative che soggiacciono all’attività degli specialisti
dei vari ambiti scientifici.
Questo sconvolgimento, poi, non può non investire quel campo, tanto profondamente interessato ai contatti interculturali,
agli scambi e alle contaminazioni, che è costituito dalle scienze
religionistiche.18 D’altra parte, discipline come la storia delle religioni, l’antropologia delle religioni, la sociologia delle religioni,
la psicologia delle religioni etc., che pure si sono strutturate ed
approfondite lungo direttrici cronologiche spesso più che secolari, non possono non giovarsi, a loro volta, di questo travaglio
epistemologico. Esso rappresenta un’occasione preziosa per
ampliare ed articolare un discorso scientifico più complesso19 e
più maturo, dove possano trovare espressione e dignità cultura-
rale, si possono consultare, ad es., GEERTZ C., L’io testimoniante. I figli di
Malinowsky, in ID., Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bologna
1995 (1992), pp. 81-109. Si possono rinvenire delle autorevoli (e anche
polemiche) note sulle riserve degli antropologi intorno all’«attacco portato
da sinistra» dai Cultural Studies in CLEMENTE P., op. cit., pp. 180-182; DEI F.,
op. cit., p. 185; GEERTZ C., Antropologia e filosofia, cit., pp. 8 e 29. Il volume di
FABIETTI U. (a cura di), Il sapere dell’antropologia. Pensare, comprendere, descrivere
l’Altro, Mursia, Milano 1983, può risultare utile per una presa di conoscenza delle principali tematiche antropologiche considerate nella revisione
epistemologica in corso.
17
Sul dubbio metodologico cfr. soprattutto la prima regola del metodo in
CARTESIO R., Discorso sul metodo, Editori Riuniti, Roma 19963 (1637), p. 72.
18
Per una introduzione alle scienze delle religioni o religionistiche vd.
FILORAMO G.-PRANDI C., Le scienze delle religioni, Morcelliana, Brescia 19973
(1987), passim.
19
Cfr. ad es. MAZZEI F., La violenza epistemologica nell’Orientalismo, in PASQUINELLI
C. (a cura di), op. cit., pp. 99-100.
89
Franz Brandmayr
le anche le «narrazioni degli altri»20, cioè di quelle culture che nel
tempo hanno elaborato percorsi di civiltà diversi21 da quello/i
occidentale/i.22
In queste riflessioni, che intendono porsi in una linea di
continuità rispetto a precedenti produzioni svolte intorno a
problemi di antropologia dell’islàm23 e che scaturiscono anche
dal costante contrappunto con l’“osservazione sul terreno”24,
si vorrebbe proporre un esempio di rivisitazione critica della
nozione di islàm. L’importanza di un lavoro di questo genere è
difficilmente negabile, se si considera il massiccio uso mediatico e nel discorso comune del lemma islàm; in effetti, la sua
20
Cfr., ad es., l’importante capitolo di CHAKRABARTY D., Storia delle minoranze,
passati subalterni, in ID., Provincializzare, cit., pp. 135-155.
21
Chakrabarty in ivi, p. 35 scrive dell’«incommensurabilità» fra le storie europee e non-europee.
22
Adopero il plurale, perché, evidentemente, anche il contesto culturale euroamericano non si presenta come un monolite privo di una sua differenziazione interna.
23
BRANDMAYR F., L’islàm nelle rappresentazioni collettive degli italiani. Le etichettazioni “orientalistiche”, in “A.N.I.R.”, XXI (2006), nn. 2-3, maggio-dicembre,
pp. 20-22; ID., L’islàm nei media italiani. La comunicazione funzionale al processo
dell’etnicità, in “A.N.I.R.”, XXII (2007), n. 1, gennaio-aprile, pp. 11-15; ID.,
L’islàm nei media italiani. La deriva islamofobica, in “A.N.I.R.”, XXIII (2008),
nn. 2-3, pp. 8-10; ID., L’islàm nei media italiani. La deriva islamofobica (II parte),
in “A.N.I.R.”, XXIV (2009), n. 1, pp. 12-14; ID., Jihad, contributi per un’ermeneutica, in “Cristiani nel Mondo”, XXV (2010), n. 2, aprile/maggio, pp. 8-10.
24
Espressione adoperata dagli scienziati sociali per designare il lavoro di
rilevamento dei dati sperimentali nell’ambito socio-culturale indagato, senza
il quale non si danno concretezza né scientificità [cfr. ad es. BERNARDI B.,
Uomo cultura società. Introduzione agli studi etno-antropologici, Franco Angeli, Milano 19848, p. 114; CIRESE A.M., Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna
degli studi sul mondo popolare tradizionale, Sellerio, Palermo 1973, pp. 244-257;
TULLIO-ALTAN C., Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo, Bompiani,
Milano 1979 (1971), p. 573]. Chi scrive svolge questo lavoro nello specifico
ambito degli “islàm tergestini”.
90
Parlare di Islàm
tematizzazione risulta, talora, approssimativa o, addirittura,
inesistente.25 Inoltre, proprio per la notorietà e per la pregnanza emotiva26 che questo termine ha acquisito al livello della
cultura di massa negli ultimi venticinque anni, la sua presa in
esame pare oltremodo opportuna; la sua traduzione27 immediata ed univoca, infatti, può ingenerare gravi equivoci, le cui
conseguenze negative potrebbero venire contenute, se non
proprio evitate, mediante un approccio di tipo più complesso
come presume di essere quello ermeneutico.28
25
La disamina di questo concetto-chiave della religione musulmana pare
importante anche in quanto l’islàm si configura come una presenza sociologicamente oramai rilevante in Italia e in buona parte del continente (cfr. ALLIEVI S., I nuovi musulmani. I convertiti all’islam, Lavoro, Roma 1999, passim; ID.,
Musulmani d’Occidente. Tendenze dell’islam europeo, Carocci, Roma 2002, passim;
ID., Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, Torino 2003,
passim; ID.-DASSETTO F., Il ritorno dell’islam. I musulmani in Italia, Lavoro, Roma
1993, passim; DASSETTO F., L’islam in Europa, Fondazione Giovanni Agnelli,
Torino 1994, passim).
26
MARLETTI C., op. cit., p. 140 sottolinea l’importanza dell’utilizzo dei termini
arabi «con funzione connotativa» e pregiudiziale nella formazione degli stereotipi circa l’islàm.
27
Sulla difficoltà di traduzione o, addirittura, sull’«intraducibilità del Terzo
Mondo nel linguaggio del Primo Mondo» possono risultare interessanti
le osservazioni di CHOW R., Writing Diaspora. Tactics of Intervention in Contemporary Cultural Studies, Bloomington-Indianapolis, Indiana University
Press, 1993, p. 38. Sulla «opacità» della traduzione di categorie occidentali nella descrizione di realtà storico-sociali “altre” vd. anche CHAKRABARTY D., L’idea, cit., p. 35.
28
Quello ermeneutico è l’approccio all’islàm suggerito, ad es., da MARLETTI
C., op. cit., pp. 144-145 e 157. Nelle scienze etno-antropologiche, tuttavia,
l’iniziatore [MALIGHETTI R., s.v. Antropologia interpretativa, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di), op. cit., pp. 71-72] dell’approccio ermeneutico è Clifford
Geertz [cfr., ad es., ID., Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna 1988
(1983), passim].
91
Franz Brandmayr
2. Stereotipie ed ermeneutica
Il concetto di ermeneutica è sostanzialmente opposto a quello di
stereotipo. Mentre questo si connota come «marchio» o «modello» (typos)29 «solido», «fermo» e «rigido» (stereos)30, atto a semplificare la realtà per renderla più padroneggiabile,31 l’approccio ermeneutico si sforza, invece, di cogliere la differenza32 culturale
come parte di uno habitat di significati33 da conoscere nei suoi
elementi comportamentali, nei suoi aspetti valoriali, nei suoi simbolismi e nelle sue motivazioni.34 La costruzione ermeneutica
configura certamente anch’essa un modello, un’immagine, un’astrazione, che non può mai avanzare pretese di oggettività assoluta e
che, a modo suo, sarà a sua volta fuorviante o riduttiva; essa, però,
al contrario dell’approccio stereotipico, dovrebbe fondarsi: a) sull’osservazione sperimentale del “fatto sociale totale”35 (e non di
«alcuni tratti emergenti»36 soltanto), osservazione mirata ad illuminare, in particolare, i comportamenti, le valutazioni e i sentimenti37 del diverso; b) sulla volontà di “comprendere dal di den29
Cfr. MONTANARI F., s.v. TÚpoj, in ID., Vocabolario della lingua greca, Loescher,
Torino 1995.
30
Vd. s.v. StereÒj, in ivi.
31
Cfr. MAZZARA B.M., Stereotipi e pregiudizi, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 65-72.
32
Cfr. GEERTZ C., Mondo globale, cit., p. 25 et alibi; CHAKRABARTY D., L’idea, cit.,
pp. 35-36; cfr. CLEMENTE P., op. cit., p. 182.
33
HANNERZ U., La diversità culturale, Il Mulino, Bologna 2001 (1996), pp. 28-29.
34
Vd. infra la nota n. 120.
35
Vd. MAUSS M., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965
(1950), pp. 143-279, passim.
36
Cfr. MANDL H., s.v. Alone/effetto, in ARNOLD W.-EYSENCK H.J.-MEILI R.
(a cura di), Dizionario di psicologia, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 19863
(1980), p. 61.
37
Sono, secondo BIANCO C., Dall’evento al documento. Orientamenti etnografici, CISU,
Roma 1988, pp. 162-163, i tre elementi che andrebbero ricavati nel corso del-
92
Parlare di Islàm
tro” la Lebenswelt38 indagata, più che di spiegarla esaustivamente;39
c) su di un’indagine che sia disponibile a riconoscere “empaticamente”40 la coerenza intrinseca del mondo dei valori dell’altro,
delle sue pratiche sociali, dei suoi tratti culturali specifici, delle
differenze che lo caratterizzano. Ciò comporta lo studio teorico
delle credenze, delle narrazioni, delle strutture di attendibilità,41
che rendono “autentici” e credibili quei valori, quei comportamenti, quelle motivazioni e quegli stati d’animo42 espressi dai portatori della cultura fatta oggetto di osservazione; d) su una “ricostruzione” (sempre di questo si tratta, anche se il costrutto teorico viene elaborato dagli scienziati sociali) della realtà osservata,
che viene effettuata con “frammenti”43 di identità e di cultura
attraverso comparazioni contrastive;44 e) il tutto giungendo a for-
l’incontro con l’informatore [cfr. anche le tre “strutture dell’esperienza” di
TURNER V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 1986 (1982), p. 120].
38
La nota espressione husserliana (ABBAGNANO N., s.v. Mondo della vita, in ID.,
Dizionario di filosofia, U.T.E.T., Torino 19712, p. 596) “mondo della vita” viene
frequentemente utilizzata anche nelle scienze sincroniche per indicare la totalità della realtà sociale, colta nella sua complessità simbolica, istituzionale,
economica, relazionale etc.
39
MAZZEI F., op. cit., pp. 99-100 scrive addirittura di una «nuova pietas», basata
sul rispetto dell’altro, che dovrebbe animare la ricerca sulle diversità.
40
Indicazioni sulla “simpatia”-“empatia” metodologica e sull’“osservazione
partecipante” delle culture “altre” si possono trovare, ad es., in BERNARDI B.,
op. cit., pp. 57-58; CIRESE A.M., op. cit., p. 251; FIRTH R., I simboli e le mode,
Laterza, Bari 1977 (1973), p. 40; TULLIO-ALTAN C., Soggetto, simbolo e valore. Per
un’ermeneutica antropologica, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 210-22.
41
Cfr. BERGER P.L., Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea, Il
Mulino, Bologna 19952 (1969), pp. 56-57.
42
Vd. infra la nota n. 120.
43
GEERTZ C., Mondo, cit., pp. 16-17 e 21-24.
44
«Nell’antropologia interpretativa sono in uso comparazioni “contrastive”,
[…] che cercano di ottenere, più che aspetti di verità quantitativa in scala,
effetti di defamiliarizzazione, di comprensione inconsueta dell’identità che
93
Franz Brandmayr
mulare delle “ipotesi plausibili”45 e delle «proposte interpretative
piuttosto che spiegazioni dei fenomeni osservati»46; f) tenendo
conto della cangiante molteplicità delle realtà locali,47 che spesso
si contraddicono a vicenda e che non si lasciano ridurre ad omologazioni concettuali forzate.
A questo punto si possono stabilire gli obiettivi della presente
riflessione: prendere in considerazione il termine-chiave della religione musulmana; esporne la traduzione più corrente; esaminarne le implicazioni semantiche, provare a descrivere l’impatto
culturale e le relative risposte emozionali, che il suddetto lemma
può provocare nel contatto con la sensibilità occidentale come in
quello acculturativo;48 analizzare gli atteggiamenti psico-sociali
che vi sono sottesi, i comportamenti sociali che possono venire
a prodursi, individuare altre interpretazioni integrative del vocabolo studiato, che possano esplicitare una certa contiguità di
significati fra le due o più culture che vengono confrontate;49
abbiamo sotto gli occhi» (CLEMENTE P., op. cit., p. 167); li si potrebbe anche
definire «esercizi di decentramento» (ivi, p. 182).
45
BERTAUX D., I racconti di vita. Una prospettiva etnosociologica, Franco Angeli,
Milano 2003, pp. 39, 43 e 48.
46
Ivi, p. 41.
47
Cfr. GEERTZ C., Mondo, cit., pp. 16-17 et passim. Con riferimento alla realtà
islamica vd. SCHELLENBAUM P., s.v. Islam, antropologia dell’, in FABIETTI U.-REMOTTI
F. (a cura di), op. cit., p. 388; SACCHI P., s.v. Medio Oriente, culture del, in FABIETTI
U.-REMOTTI F. (a cura di), op. cit., p. 454.
48
Cioè nell’incontro/scontro fra culture diverse (cfr. CIRESE A.M., op. cit., pp.
63-83). In queste contaminazioni ed ibridazioni va ricordato che non esiste
chi soltanto eserciti, né chi soltanto subisca l’azione acculturativa [cfr. ad es.
anche CUCHE D., La nozione di cultura nelle scienze sociali, Il Mulino, Bologna
2003 (2001), pp. 67, 75 e 88].
49
Nella presente trattazione si cercherà di operare un confronto fra almeno
tre vasti habitat di significato (cfr. supra la nota n. 33): la tradizione occidentale nella sua duplice ramificazione laica e cristiana e, naturalmente, l’islàm.
94
Parlare di Islàm
infine, nel caso di permanenza di un’alterità irriducibile, cercare di fornire qualche indicazione sull’eziologia della differenza stessa.
3. Il concetto di islàm
L’etimo rinvia al verbo aslàma, che, solitamente, viene tradotto
con “sottomettersi”50; il sostantivo islàm, pertanto, corrisponde
a “sottomissione”51.
Fin dall’inizio è opportuno chiedersi se il telespettatore e il
lettore italiano (o il giornalista o lo stesso docente)52 siano capaci
Spunti interessanti per un approccio ermeneutico che tenda a cogliere anche
le molteplici differenze interne ai grandi concetti generali dell’antropologia
delle religioni (quello di islàm potrebbe trovarsi fra questi) sono reperibili in
GEERTZ C., Mondo, cit., pp. 25-26 et passim.
50
Trovo anche «arrendersi» (ALLIEVI S., Musulmani d’Occidente, cit., p. 192; cfr.
PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., La spiritualità islamica, Studium, Roma 1986, p. 21),
che, implicando una cessazione della lotta, giustifica il radicale s-l-m, identico a quello del termine salàm (= “pace”). Anche questa accezione, in quanto
richiama un vocabolario bellico, non pare evocare contenuti positivi nella
cultura dominante europea. A complicare ulteriormente il problema della
comprensione della nozione di islàm da parte degli occidentali permangono,
come vedremo oltre, il tema della reticenza – ritenuta “prometeica” dalla
riflessione dei credenti (cfr. infra le note nn. 155 e 157) – della parte egemonica della cultura occidentale a considerarsi subordinata ad una qualsivoglia
forma di trascendenza e, più diffusamente ancora, il motivo della affermazione “egologica” dell’individuo (cfr. infra la nota n. 58).
51
Vd. ad es. DONINI A., Breve storia delle religioni, Newton Compton, Roma
1991, p. 275.
52
Cfr. ALLAM M., L’islam italiano e la sua percezione, in SIGGILLINO I. (a cura di),
I media e l’islam. L’informazione e la sfida del pluralismo religioso, E.M.I., Bologna
2001, pp. 89-90; ALLIEVI S., Parole dell’islam, parole sull’islam. Formazione culturale, comunicazione e ruolo dei mass media, in SIGGILLINO I. (a cura di), op. cit., pp. 38
ss.; MARLETTI C., op. cit., p. 155. Sulle pregiudiziali «logiche del senso comune»
95
Franz Brandmayr
di decodificare una traduzione così letterale del concetto o se siano invece portati ad assimilarlo53 a episodi e fasi della storia europea (ad es.: la schiavitù antica, l’ancien régime, le differenze di classe
sociale nel corso della rivoluzione industriale, i totalitarismi di destra
e di sinistra del Ventesimo secolo etc.) e a comportamenti sociali
(ad es.: i rapporti sociali feudali, il rapporto patrono/cliente,54 l’obbedienza militare55 etc.), che, di primo acchito, sembrerebbero
[DAL LAGO A., Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004 (1999), pp. 50-51], adoperate spesso anche da studiosi
che, più o meno consapevolmente, pongono in atto le cosiddette “retoriche
scientifiche” quando si esprimono circa le culture altre vd. ancora DAL LAGO
A., op. cit., pp. 143-167.
53
Utilizzo il termine nel senso tecnico di «adeguamento dell’oggetto al soggetto» [JUNG C.G., s.v. Assimilazione, in ID., Dizionario di psicologia analitica, Boringhieri, Torino 1977 (1921), p. 31; cfr. WILSON G.D., s.v. Assimilazione, in ARNOLD W.-EYSENCK H.J.-MEILI R. (a cura di), op. cit., pp. 69-70], per non sottacere la dimensione soprattutto inconscia e «prestrutturata» del processo di appropriazione che il lettore, il telespettatore e l’ascoltatore pongono in essere al
momento dell’apprendimento delle informazioni relative all’islàm [cfr. CHELI
E., La realtà mediata. L’influenza dei mass media tra persuasione e costruzione sociale della
realtà, Franco Angeli, Milano 20026 (1992), pp. 138-139].
54
Mi riferisco soprattutto al fenomeno socio-politico, tanto nocivo e inviso nell’ottica della modernizzazione, del clientelismo che connota le vicende della storia contemporanea italiana. Per una disamina antropologico-culturale sul tema
cfr. TULLIO-ALTAN C., La nostra Italia. Arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall’Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 57-66 e 158-163.
55
Ad assicurare il successo europeo nella conquista del mondo ebbe un grosso
peso anche la militarizzazione della società capitalista, già analizzata da Max
Weber [cfr. SENNETT R., La cultura del nuovo capitalismo, Il Mulino, Bologna 2006
(2006), pp. 20-21]. Dopo la contestazione giovanile del 1968 anche questo
valore tradizionale sembra essere stato coinvolto nella critica dell’autorità [cfr.
inter alios MARCUSE H., L’autorità e la famiglia. Introduzione storica al problema, Einaudi, Torino 1970 (1936), passim] già innescata a suo tempo da FREUD S., Il
disagio della civiltà, in ID., Opere. 1924-1929, Boringhieri, Torino 1978 (1929), vol.
X, pp. 553-633. Per un accenno ulteriore alla difficoltà della comprensione
dell’obbedienza nella società postmoderna cfr. infra le note nn. 102-105.
96
Parlare di Islàm
presentare “evidenti” analogie con l’idea islamica di sottomissione. Anche qualora non volesse lasciare spazio ad accostamenti
(quantomeno audaci) di questo tipo, o non avesse la competenza
per effettuarli, chiunque ricevesse queste informazioni si troverebbe di fronte alla problematica comprensione56 di un profondo
divario culturale. Questa differenza consiste soprattutto nella dissonanza57 del significato della sottomissione islamica rispetto alle
pressanti istanze libertarie, individualistiche,58 egualitarie e – più
in generale – democratiche, che per lo più informano le rappresentazioni collettive59 degli occidentali odierni.60
56
MALIGHETTI R., s.v. Verstehen, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di), op. cit., p. 790.
Si tratta di quella che nella psicologia sociale viene definita la «dissonanza
cognitiva» [cfr. TRENTIN R., Gli atteggiamenti sociali, in ARCURI L. (a cura di),
Manuale di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 274-281].
58
Talvolta definito come una vera e propria «egologia» [cfr. LAURENT A.,
Storia dell’individualismo, Il Mulino, Bologna 1994 (1993), p. 119 per un approccio filosofico al problema; da un punto di vista sociologico e storico
può risultare interessante LASCH CH., La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 20014 (1979), passim; per una prospettiva sociologica si rinvia ad es. a
BAUMAN Z., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000 (1999),
passim e ID., La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna 2002 (2001), passim; GIDDENS A., Le conseguenze della modernità.
Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna 1994 (1990), pp. 32 ss. e
tutti i capitoli che trattano in modo particolare il tema della fiducia].
59
Per la nozione di «rappresentazione collettiva» vd. DURKHEIM E., Le regole
del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, Comunità, Torino 20012 (1895), p. 15.
60
Non è detto, peraltro, che ai valori democratici professati nello spazio
pubblico corrisponda una pratica politica e di governo sempre coerente (vd.
ad es. TULLIO-ALTAN C., La nostra Italia, cit., passim); risulta senz’altro problematica e non unanimemente condivisa, ancora, la difesa ideologica dell’iniziativa “democratica” di “esportare la democrazia” mediante gli interventi
militari nell’area del Golfo Persico. La stessa idea di democrazia, secondo
alcuni autori, può diventare funzionale al mantenimento del potere nelle
mani delle culture dominanti occidentali [cfr. ad es. COLOMBO E., op. cit., p.
91; TOURAINE A., op. cit., pp. 166-167].
57
97
Franz Brandmayr
La trattazione dell’islàm, pertanto, per risultare scientificamente valida61 dovrebbe prevedere la decostruzione62 dei contenuti
emozionali, che gli occidentali sono soliti connettere ad
un’espressione così compromessa: si tratta veramente di una
religione autoritaria, praticata da schiavi che si annichiliscono di
fronte al supremo Padrone e, magari, anche davanti a tutti gli
altri padroni? Certamente, sostiene – fra gli altri – Marletti, il
vocabolo è oramai connotato negativamente,63 in quanto il richiamo ai terroristi, alle punizioni corporali64 e al fondamentalismo65 insorge immediatamente, soprattutto a causa dell’ormai
trentennale66 opera di «distorsione dei media»67.
61
In questa sede si vorrebbe fare professione di avalutatività [cfr. WEBER M., op.
cit., pp. 309-375], tenendo distinti il piano scientifico religionistico (FILORAMO
G.-PRANDI C., op. cit., p. 25) e quello morale, i quali, quando si trattano le
tematiche dell’interculturalità, vengono talora indebitamente confusi.
62
Cfr. MARLETTI C., op. cit., p. 156. Per un primo approccio al concetto di
“decostruttivismo” vd. MALIGHETTI R., s.v. Decostruttivismo, in FABIETTI U.REMOTTI F. (a cura di), op. cit., p. 226.
63
Si veda MARLETTI C., op. cit., pp. 92-93 per un’analisi che giunge fino al
1993. Cfr. infra la nota n. 67.
64
Ivi, p. 139.
65
Ivi, pp. 139-140. Sull’eurocentrismo sotteso al termine fondamentalismo
vd. ivi, pp. 143-144 e TAGLIAFERRI F., Islam e comunicazione, cit., pp. 130-131.
Sulla difficoltà di un utilizzo autenticamente scientifico dell’espressione
vd., ancora, PRANDI C., La tradizione religiosa. Saggio storico-sociologico, Borla,
Roma 2000, p. 129.
66
MARLETTI C., op. cit., p. 97.
67
Ivi, p. 139; sul condizionamento politico e commerciale dei media, inclini a
cedere alle logiche del sensazionalismo anche nella “copertura” dell’informazione sul mondo islamico vd. anche ALLAM M., L’islam italiano e la sua
percezione, in SIGGILLINO I. (a cura di), op. cit., p. 88. Più in generale, il quadro
parzialmente datato fornito dal Marletti pare tutto sommato confermato
dalle più recenti indicazioni contenute in SIGGILLINO I. (a cura di), op. cit.,
passim. Il distorcimento ad opera dei media sembra più intenzionale, invece,
se si vuole dare credito all’eziologia che, dell’islamofobia, hanno dato svariati
98
Parlare di Islàm
In questa sede, ancora, interessa sottoporre ad analisi, oltre
che le concrezioni emozionali – che sembrano quasi corrodere il
termine –, il contenuto stesso del concetto o, in altre parole, il
«nucleo cognitivo»68 del pregiudizio veicolato69 dal lemma islàm.
Qualora venisse disattesa l’opera di esplicitazione della diversità dei percorsi storici e culturali dei diversi islàm70 rispetto
alle varie culture occidentali, si potrebbe determinare, oltre
agli accostamenti frettolosi sopra richiamati, una ripugnanza,
che – a incominciare dal nome stesso della religione in questione71 – potrebbe estendersi a tutti i suoi contenuti e forse
anche a tutti i suoi membri… E la repulsione configurerebbe
già il pregiudizio.72
autori (ad es. ALLIEVI S., Parole dell’islam, cit., p. 41; CARDINI F., op. cit., pp. 137
ss.; MARLETTI C., op. cit., p. 94) secondo i quali la costruzione mediatica di un
nemico esterno all’Occidente (che verrebbe a sostituire l’ormai obliterato
spettro del comunismo) sarebbe funzionale alla ricompaginazione dell’Occidente intorno agli interessi delle lobbies americane e del Pentagono. A questi
fini egemonici verrebbe posta in atto la «violenza simbolica», cioè la «rappresentazione negativa costante e sistematica» (COLOMBO E., op. cit., p. 37) delle
culture islamiche ad opera della cultura occidentale. DAL LAGO A., op. cit., p.
50 adopera l’espressione analoga di «ostilità simbolica» per indicare la rappresentazione negativa del migrante nel contesto italiano.
68
MAZZARA B.M., op. cit., p. 16.
69
ARCURI L., Percezione e cognizione sociale, in ID. (a cura di), op. cit., pp. 128-129.
70
Svariati autori suggeriscono di abbandonare l’immagine semplicistica di
un mondo islamico inteso come una realtà monolitica ed uniforme [cfr. ad
es. MARLETTI C., Premessa, in ID. (a cura di), op. cit., pp. 16-17 e supra la nota n.
47].
71
Cfr. ad es. MARLETTI C., Premessa, cit., p. 16; ID., Le immagini dell’islam, cit.,
pp. 93-94, 97 e 139.
72
Che corrisponde a un «giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati
empirici», mentre, a un livello più specifico, esso è costituito dalla «tendenza a
considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale» (MAZZARA B.M., op. cit., p. 14).
99
Franz Brandmayr
Esso, come è noto, è costituito da un atteggiamento complessivo dell’individuo, che ne orienta concretamente l’azione73
sulla base dei suoi valori e delle sue spinte affettive74. Il pregiudizio assume sovente un rivestimento razionale,75 che nasconde, tuttavia, una scelta di valore aprioristica, in realtà operata
secondo motivazioni e modalità che hanno origine e sviluppo
nella dimensione emozionale del soggetto.
Il pregiudizio, ancora, riposa solitamente su stereotipi ben
consolidati e diffusi, i quali tendono a venire accettati da una
gran quantità di persone in virtù della loro “ovvietà”: “i tedeschi sono rigidi”, “gli italiani sono passionali”, “gli ebrei sono
avari”76 e così via. Essi, gli stereotipi, sono «sistemi concettuali
che ci permettono di semplificare le nostre rappresentazioni,
soprattutto quando esse hanno a che fare con la […] sfuggente
e spesso cangiante realtà delle categorie sociali». Sono «sistemi
semplici, altre volte semplificatori, ma non di rado semplicistici»77, che costituiscono il
nucleo cognitivo del pregiudizio, vale a dire l’insieme degli elementi
di informazione e delle credenze circa una certa categoria di
oggetti, rielaborati in un’immagine coerente e tendenzialmente
stabile, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro
confronti.78
73
Ivi.
Cfr. WILSON G.D., s.v. Atteggiamento, in ARNOLD W.-EYSENCK H.J.-MEILI R.
(a cura di), op. cit., p. 118.
75
Affine alla “razionalizzazione” freudiana (cfr. ad es. NITSCH J., s.v.
Razionalizzazione, in ivi, p. 967).
76
ARCURI L., op. cit., p. 128.
77
Ivi, p. 126.
78
MAZZARA B.M., op. cit., p. 16.
74
100
Parlare di Islàm
A questo punto la rappresentazione collettiva pregiudiziale,
per quanto concerne la dimensione emozionale del soggetto
che sente parlare di islàm, e stereotipica, per quanto attiene agli
elementi cognitivi dello stesso discorso, rischia di assumere i
caratteri della massima rigidità, se dall’insufficienza della traduzione non si fa derivare la necessità dell’interpretazione della
parola in questione.79 Per dare qualche spunto in merito si terranno presenti soprattutto i contributi di alcuni importanti studiosi delle religioni (fenomenologi e storici,80 islamologi e psi-
79
In ogni caso, e senza volere scadere in una sorta di nichilismo scientifico
(che nell’antropologia culturale ha già i suoi testimoni: cfr. ad es. GEERTZ C.,
Opere, cit., pp. 90-109), chi scrive concorda con CHAKRABARTY D., Provincializzare, cit., p. 35 sul fatto che tentare di tradurre nei paradigmi del gruppo-noi
un’esperienza, un rituale o un tratto culturale “altro” presenta sempre aspetti
di «opacità», che male si accordano con le idee chiare e distinte di cartesiana
memoria (CARTESIO R., op. cit., p. 72).
80
All’interno del quadro teorico antropologico-culturale, propriamente, lo
statuto epistemologico della fenomenologia delle religioni non viene accettato
a motivo della precomprensione «fideistica, confessionale o metafisica» (cfr.
LANTERNARI V., I movimenti carismatici moderni in Occidente: problemi di approccio e
di metodo, in ID., Festa carisma apocalisse, Sellerio, Palermo 1983, p. 134) che gli
è propria. Lo scrivente, del pari, si muove all’interno dell’«agnosticismo
metodologico» (FILORAMO G.-PRANDI C., op. cit., p. 226) solitamente adottato
dagli antropologi. Pertanto l’uso di materiali fenomenologico-religiosi in questa
riflessione non comporta l’assunzione della prospettiva concettuale che ad
essi è sottesa, bensì prevede una riduzione psicologistica [cfr. ACQUAVIVA S.S.,
L’eclissi del sacro nella civiltà industriale. Una teoria del movimento generale di dissacrazione
e una sintesi della pratica religiosa nel mondo, Edizioni di Comunità, Milano 19815
(1961), pp. 43-46] delle loro suggestioni da adoperarsi in chiave meramente
descrittiva. In direzione di una valorizzazione dell’approccio fenomenologico,
peraltro, si era già mosso autorevolmente Raffaele Pettazzoni [ID., Il metodo
comparativo, in GANDINI M. (a cura di), Religione e società, Ponte Nuovo, Bologna
1966, p. 110; cfr. anche FILORAMO G.-PRANDI C., op. cit., pp. 25, 78-79 e 97-98
alla nota n. 29], cui, nonostante la matrice storicistica del proprio orizzonte
concettuale, non erano sfuggite le importanti ricadute euristiche dell’approccio
fenomenologico, pur da lui avversato nella diatriba con Mirçea Eliade (cfr.
101
Franz Brandmayr
cologi81), che forse permetteranno di cogliere, in qualche modo,
dall’interno l’esperienza del muslim (= “sottomesso”)82.
Nella sua suggestiva tassonomia del fenomeno religioso,
Van der Leeuw inserisce la fede musulmana fra le religioni
nelle quali il senso dell’infinita trascendenza di Dio assumerebbe i caratteri più vividi, anzi, l’islàm sarebbe «la religione
della maestà e dell’umiltà per eccellenza». Esso, pur non differenziandosi sotto molti aspetti dall’ebraismo, avrebbe «questo
di unico: […] il suo Dio possiede un’onnipotenza che non si
diminuisce in nessun punto»; l’uomo «esiste soltanto grazie
all’azione immediata della potenza e della volontà di Dio»83 e
FILORAMO G.-PRANDI C., op. cit., pp. 78-79): alla fine l’esponente di maggior
spicco della scuola romana di Storia delle Religioni non esitò a lumeggiare
possibili percorsi integrativi, nei quali la prospettiva storicistica avrebbe potuto
avvalersi di alcune chiavi di lettura del fatto religioso colto anche alla luce
dell’approccio fenomenologico, pur senza avvalorarne, con ciò, la lettura
«spiritualistica» (LANTERNARI V., I movimenti, cit., p. 137). Tullio-Altan, a sua
volta, prende le distanze dalle posizioni ipercritiche di certa letteratura
antropologica nelle sue osservazioni sul celebre saggio Das Heilige (vd. infra
la nota n. 90) di Rudolf Otto (TULLIO-ALTAN C., Soggetto, cit., pp. 129-136),
nelle quali l’opera del teologo luterano viene vista come un «tentativo di
dare uno statuto proprio all’esperienza simbolica» (ivi, p. 136). Sul
fondamento della letteratura critica ora prodotta, chi scrive crede che
attingere ad alcuni testi fenomenologici possa rinforzare la presa empatica,
tanto raccomandata nell’osservazione partecipante dagli antropologi (cfr.
supra la nota n. 40).
81
Sulla necessità di un approccio interdisciplinare alle tematiche che riguardano l’ambito del «simbolico» cfr. TULLIO-ALTAN C., Sullo specifico del simbolico,
in “Metodi e Ricerche”, IX, 1 (1990), p. 3; ID., Soggetto, cit., pp. 13-15, testo
antropologico fondamentale sulla cui falsariga vengono elaborate le presenti
riflessioni.
82
Vocabolo che, come è noto, viene reso in italiano con “musulmano” (in
realtà derivato direttamente dal plurale arabo muslimùn).
83
VAN DER LEEUW G., Fenomenologia della religione, Bollati Boringhieri, Torino
1975 (1956), p. 500.
102
Parlare di Islàm
«la sovranità di Dio viene presa pienamente sul serio»84. Lo
studioso olandese, da presbitero calvinista qual è, non intende
senz’altro sottovalutare la profondità e la radicalità degli altri
monoteismi e, perciò, spiega meglio la sua affermazione precisando che «il giudaismo ha discusso col suo Dio, mentre l’islamismo non ha mai avuto un Giobbe»85: lo spazio che l’uomo
lascia a Dio nell’islàm, pertanto, sembrerebbe particolarmente
ampio e l’obbedienza86 vi sarebbe praticata con una particolare dedizione.
L’atteggiamento dell’adorazione, cioè del «riconoscimento
dell’infinita differenza di Dio da ogni creatura, della sua santità
e gloria infinita»87, è quello che meglio rende la profonda disposizione d’animo del devoto; esso «è l’akmè del culto; interno ed
esterno vi coincidono in modo assoluto»88. Il gesto esteriore,
84
Ivi, p. 501.
Ivi, p. 502. Se, in linea di massima, questa affermazione è valida, non vanno
dimenticate, peraltro, le esperienze dei maestri sufi, che rivelano talvolta una
confidenza ed una libertà di spirito nei confronti della trascendenza veramente notevoli (vd. ad es. la nota successiva).
86
Un’indicazione in questo senso potrebbe provenire anche dalla reticenza
dell’ortodossia musulmana ad interpretare la relazione con Dio nella cornice
psicologica dell’amicizia, in quanto essa potrebbe contemplare una sorta di
parità fra le parti (cfr. ivi, p. 370). In questo senso il cristianesimo (cfr. ad es.
Gv 15, 13-15) e l’ebraismo stesso [Dio è amico di Abramo (Gn 18, 17-18)]
sembrano concedere assai più spazio al referente antropologico; tuttavia,
anche in questo caso, le differenze non vanno radicalizzate, in quanto il sufismo presenta numerosi esempi di concezione amicale della relazione dell’uomo con Dio [VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 371; cfr. in SHAH I., La strada
del sufi. Le idee, le azioni e i documenti, Ubaldini, Roma 1971 (1968), pp. 51 e 83
due autorevoli esempi forniti da Omar Khayyam e da Jalaludin Rumi; vd. in
particolare la ventottesima maqam (= “stazione”) del percorso sufico in NASR
S.H., Il sufismo, Rusconi, Milano 1994 (1972), pp. 98-99].
87
RAHNER K.-VORGRIMLER H., s.v. Adorazione, in IID., Dizionario di teologia,
Morcelliana-Herder, Roma-Brescia 1968, p. 6.
88
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 416.
85
103
Franz Brandmayr
infatti, la prostrazione (proskynesis)89, lungi dall’essere un mero
atto formale, traduce esattamente il rapporto che intercorre tra
la «majestas»90 divina e l’uomo che tocca la terra, humus, con la
fronte,91 la sua parte più nobile. All’infinita maestà non può non
corrispondere la humilitas.
Chi crede adora, non si limita a pregare. La preghiera procede
dalla preoccupazione; l’angoscia fa pregare, ma […] non insegna
a adorare. Chi adora dimentica la sua preghiera92, e non sa fare
altro che glorificare Dio.93
89
Cfr. ivi, p. 367, dove lo studioso olandese inserisce la proskÚnhsij (vd.
MONTANARI F., op. cit., s.v.) all’interno della trattazione del tema del «servizio».
Vd. anche infra la nota n. 91.
90
OTTO R., Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale,
Feltrinelli, Milano 19872 (1936), pp. 28-32.
91
Un indubbio prestigio sociale circonda il devoto islamico che reca sulla
fronte il “segno della prostrazione”, derivato dalla consuetudine con il salàt
(= “preghiera rituale”) o secondo “pilastro” (rukn; pl.: arkàn) dell’islàm, e
dalla incessante du’a [(= “preghiera supererogatoria”); cfr. anche Colloquio
(d’ora in poi: Coll.) 06/04/2009 e il Corano alla sura XLVIII, 29].
92
In questo come in altri passaggi il fenomenologo calvinista sembra operare una distinzione fra preghiera e adorazione, che può dare adito a confusione. In realtà l’equazione “preghiera” = “richiesta” sembra risentire di posizioni polemiche vetuste, che non sempre risultano superate negli ambienti
riformati odierni; è tanto più comprensibile, perciò, un utilizzo di questo
genere da parte di Van der Leeuw nel 1956. Ai fini analitici sembra assai più
chiara la distinzione tassonomica, all’interno di un’unica categoria indicata
come “preghiera”, delle singole tipologie definite: latreutica (preghiera di
adorazione, talvolta distinta da quella dossologica, cioè di lode o glorificazione), amorosa, gratulatoria (di ringraziamento), catanittica (di richiesta di perdono) e impetratoria (di richiesta di grazie). Per un primo approccio scientifico al tema si suggerisce la lettura di BASTIDE R., L’espressione della preghiera tra
i popoli senza scrittura, in ID., Il sacro selvaggio e altri scritti, Jaca Book, Milano
1979 (1975), pp. 116-138; CIATTINI A., Invocazione e preghiera, in EAD., Antropologia delle religioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, pp. 257-266; MAUSS
M., La preghiera e i riti orali, Morcelliana, Brescia 1997 (1909), passim. In una
104
Parlare di Islàm
Questo senso quasi schiacciante, per un occidentale,94 dell’alterità di Dio (che però – come cercherò di mostrare – sembra
sortire effetti tutt’altro che mortificanti nel fedele) ingenera in lui
«l’assoluta sottomissione, ma anche la disposizione a servire, l’obbedienza»: il devoto non esita a considerarsi un servo.95
L’adorazione, perciò, non è un atto evasionistico,96 sconnesso dalla vita concreta e privo di ricadute sul piano etico personale e collettivo:
prospettiva impegnata confessionalmente, ma di notevole rigore scientifico, si possono consultare OHM TH., L’amore a Dio nelle religioni non cristiane,
Paoline, Roma 1956, passim e soprattutto SPIDLIK T., La spiritualità dell’Oriente
cristiano. Manuale sistematico, Pontificium Institutum Orientale, Roma 1985
(1978), passim.
93
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 416.
94
Si intende “schiacciante”, naturalmente, solo per un occidentale secolarizzato: nel soggetto cristiano la componente latreutica, o “di adorazione”,
non dovrebbe essere meno profonda ed intensa, almeno in teoria (cfr.
AA.VV., Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1992, pp. 522 et alibi). Sarebbe, peraltro, da appurare con gli strumenti della ricerca sociale, caso per caso, quanto il singolo portatore del
tratto religioso cattolico sia effettivamente libero dai condizionamenti socioculturali della cultura dominante, tendenzialmente estranea all’atteggiamento adorante. Uno studio sociologico recente, che cerca di rendere ragione del polimorfismo e della complessità del cosiddetto cattolicesimo
italiano, è rappresentato dal testo di GARELLI F.-GUIZZARDI G.-PACE E. (a
cura di), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli
italiani, Il Mulino, Bologna 2003, passim.
95
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 367. Nella comprensione dell’ islàm la nozione di “servizio” e la connotazione di “servo” del muslìm risultano essere
fondamentali, in quanto «la sintesi della personalità spirituale di Maometto»
(vero «prototipo di tutta la creazione, norma di tutte le perfezioni») consiste,
oltre che nelle sue qualità di rasul e di nabi (“messaggero” e “profeta”), nella
sua identità di ‘abd Allah, di “servo di Dio” (PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., op. cit.,
p. 27; cfr. anche ivi, p. 28).
96
Vd. anche infra la nota n. 133, ove le indicazioni bibliografiche si riferiscono ai concetti, assai vicini fra loro, di “alienazione” e di “evasione”.
105
Franz Brandmayr
Ciò che culmina nell’adorazione non è soltanto la celebrazione,
ma anche il costume, che vi trova il suo supremo compimento e
vi si trasforma in lode e rendimento di grazie. L’unico dovere
della vita consiste nel cantare le lodi di Dio; la condotta morale
ne emana di per se stessa.97
Perciò la moralità del musulmano non pare essere estrinseca:
essa scaturisce, invece, da un “assenso intimo” (tasdìq)98, che può
essere profondo e sentito e che deve poi tradursi in comportamenti concreti. «La via della fede – continua Van der Leeuw – è
soltanto obbedienza»99 e «l’obbedienza consiste nell’udire la parola decisiva di Dio. La vita è considerata compimento di quella
parola: il suo [della vita] significato sta nella decisione»100 di compiere la volontà di Dio. La stessa «via di accesso al mondo passa
per Dio»; esso, il mondo, assume significato nella misura in cui la
realtà viene colta «con gli occhi di Dio» e vissuta «come se Dio
agisse per mezzo dell’uomo». L’essere umano deve perseguire
«dunque necessariamente una via di obbedienza»101.
Ma, ancora una volta, si è richiamato un concetto, quello di
obbedienza, che costituisce motivo di scandalo per il tipo ideale
di occidentale odierno: essa, come si è già scritto sopra, in Europa «non è più una virtù»102 già da svariati decenni. A ciò non
97
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 417.
Coll. 06/04/2009.
99
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 434.
100
Ivi, p. 367; la parentesi quadra è dello scrivente.
101
Ivi, p. 436.
102
MILANI L., L’obbedienza non è più una virtù e gli altri scritti pubblici, Nuovi
Equilibri, passim. Secondo JAMES W., Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno
studio sulla natura umana, Morcelliana, Brescia 1998 (1902), pp. 272-275 già a
cavallo fra l’Ottocento e il Novecento la società americana lasciava trasparire
una notevole disaffezione rispetto a questo contenuto morale.
98
106
Parlare di Islàm
ha concorso soltanto la progressiva individualizzazione,103 che
ha pervaso profondamente i comportamenti sociali di tutto l’Occidente dal secondo dopoguerra in poi e soprattutto dopo la
contestazione giovanile,104 ma probabilmente anche l’esperienza devastante dei totalitarismi.105
Esplorare dall’interno i significati dell’obbedienza nel contesto dei molti e diversificati islàm è un compito che senz’altro esorbita dai limiti della presente riflessione; in questa sede, piuttosto,
si vorrebbe provare a scoprire in quale senso la sottomissione, la
conseguente obbedienza e lo spirito di servizio alla divinità che
ne deriva possano venire compresi in una luce umanizzante e
antropo-poietica106 anche secondo una sensibilità euroamericana
e, ulteriore distinzione, non necessariamente credente.
103
Cfr. supra le note nn. 9, 10 e 58. Ad aumentare le difficoltà di comprensione di una concezione sociale di tipo olistico, per il contesto socioculturale
italiano non va dimenticato il tratto culturale peculiare del «ribellismo», storicamente radicato nel Paese e del quale discute Tullio-Altan nel suo La nostra Italia, cit., pp. 85-92.
104
TOMASI L., s.v. Contestazione, in DEMARCHI F.-ELLENA A.-CATTARINUSSI B. (a
cura di), Nuovo dizionario di sociologia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 19943
(1987), p. 574.
105
Le «religioni della politica» (cfr. GENTILE E., Le religioni della politica. Fra
democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2001, passim), infatti, si sono rette
e si reggono tuttora sul cosiddetto «consenso» (vd. ad es. ivi, pp. 8ss), cioè su
di una versione massificata dell’antica virtù morale dell’obbedienza. Vale forse
la pena di ricordare i celebri studi svolti da un gruppo di studiosi della Scuola
di Francoforte in merito alla «personalità autoritaria», che avrebbe caratterizzato le masse plagiate dai totalitarismi della prima metà del Novecento [ADORNO TH.W., FRENKEL-BRUNSWICK E.-LEVINSON D.J.-NEVITT SANFORD R., La
personalità autoritaria, Comunità, Milano 1982 (1950), 4 voll., passim].
106
Utilizzo l’espressione di ALLOVIO S.-FAVOLE A. (a cura di), Le fucine rituali.
Temi di antropo-poiesi, Segnalibro, Torino 1996, passim. Essa configura la funzione, tipica di ogni specifica cultura, di costruire, di formare, di educare gli
individui, uomini e donne, in conformità ai modelli, ai paradigmi pedagogici
ritenuti esemplari in una determinata cultura.
107
Franz Brandmayr
Se insistere sull’obbedienza suona alle orecchie dell’occidentale come un attentato alla libertà personale, Van der Leeuw
assicura, al contrario, che l’atteggiamento obbediente porta il
soggetto al livello massimo delle «potenzialità storiche»107, cioè
di incidenza operativa nella vita reale.
Si potrebbe essere tentati di riconoscere in questo asserto un
cedimento dello studioso ad una certa parzialità, che lo indurrebbe a solidarizzare con altri credenti, per quanto di religione
diversa. Tuttavia, sono anche le ricerche antropologico-culturali
applicate all’ambito del simbolico a confortare l’analisi del fenomenologo olandese. Soprattutto la splendida sintesi condensata da Tullio-Altan in due testi del 1990 e del 1992108 illustra
quel processo di “identificazione” del soggetto con il referente
simbolico (per il musulmano è, naturalmente, Dio), che ci consente di penetrare analiticamente l’esperienza del devoto. L’immedesimazione fervente del fedele con il suo Dio, realizzata
attraverso le mediazioni rappresentate dalla pratica dei cinque
pilastri (arkàn)109, dallo studio delle Scritture sante [soprattutto
Qur’an e Ahadith = Corano e Detti (del Profeta)]110, dai contenuti
della fede (imàn) sui quali egli medita111, dalla comunità dei cre-
107
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 436.
TULLIO-ALTAN C., Soggetto, cit., passim; si tratta, a parere dello scrivente, di
un contributo decisivo per la comprensione degli ambiti «specifici del simbolico» (cfr. ID., Sullo specifico, cit., passim), fra i quali sono compresi i complessi religiosi, ma, nondimeno, le «religioni della politica» (cfr. GENTILE E., op.
cit., passim), quali i nazifascismi, i comunismi e le varie forme storiche della
democrazia.
109
PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., op. cit., pp. 63-64 e 104-113. Come nel caso dei
nostri islamologi il jihàd viene spesso considerato come una sorta di sesto
pilastro [FAHD T., Islam e sette islamiche, in PUECH H.-CH. (a cura di), Storia
dell’islamismo, Mondadori, Milano 1993 (1970-1976), p. 190].
110
FAHD T., op. cit., p. 55; PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., op. cit., p. 26.
111
Cfr. ivi, p. 58.
108
108
Parlare di Islàm
denti (umma)112 in cui è inserito, dai giurisperiti (fuqaha)113 che lo
orientano nell’interpretazione delle scritture114, dalla guida (imàm)
che conduce la preghiera comune115 etc., lo porterebbe a trascendere se stesso116 fino a divenire una cosa sola con il valore
agognato e perseguito.
Questo accade, in quanto l’obbedienza consiste nel “porre il
fine del mondo in Dio solo”117 e nel farne derivare la fedele
corrispondenza dell’uomo alla “volontà di Dio”118. Ciò non sembra rappresentare un peso per il devoto: «La vita intera, nell’obbedienza, si integra dal punto di vista della riconoscenza: eseguire i comandamenti di Dio non è un onere, è una lode»119, cui
il fedele può aderire anche entusiasticamente.120
Probabilmente un certo tipo di soggetto secolarizzato e allevato secondo gli etnostili121 della postmodernità stenterebbe a
112
PACE E., Sociologia dell’islam, Carocci, Roma 20042 (1999), p. 119.
Ivi, p. 85.
114
FAHD T., op. cit., p. 171.
115
Ib.
116
Vd. infra la nota n. 135.
117
Cfr. VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 438.
118
Ivi, p. 499.
119
Ivi, p. 336. L’Autore rimarca l’importanza della preghiera dossologica: «Il
servizio consiste quasi esclusivamente nell’offrire lodi a Dio» (ivi, p. 335).
120
Ciò avviene sicuramente nei soggetti più motivati; cfr. PEIRONE F.J.RIZZARDI G., op. cit., p. 64, che scrivono della sottomissione gioiosa alla
divinità. Per le nozioni di «motivazione» e di «stato d’animo» religiosi, centrali nell’ermeneutica delle religioni, si rinvia al classico GEERTZ C., La religione come sistema culturale, in ID., Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna
19932 (1973), pp. 121-124.
121
Sono i «modi singolari o specifici della cultura, che tanto negli aspetti
teorici e ideologici (ideo-etnemi) quanto negli aspetti pratici (socio-etnemi),
concorrono a caratterizzare una varietà particolare di cultura, nel suo insieme e in un determinato momento o epoca» (BERNARDI B., op. cit., p. 81). Ai fini del
113
109
Franz Brandmayr
non definire patologica122 una tale congerie di sentimenti, di atteggiamenti e di valutazioni: comprensibilmente, anzi, le sue
difese psicologiche, a livello individuale e, al livello collettivo
che qui interessa, i temi culturali123 modernistici124, ai quali avesse improntato la propria esistenza, potrebbero indurlo a voler
esorcizzare125 una diversità tanto marcata e negativamente connotata. Definire “pazzo”, “strano” ciò che è “e-straneo” e “straniero” solitamente semplifica e facilita una vigorosa presa di
distanza. Sempre, in tutte le civiltà, il contatto con una differenza troppo accentuata ha suscitato nelle collettività l’erezione di
tutte le difese simboliche disponibili, nel tentativo di preservare, a seconda dei casi, la “purezza”, i valori, l’identità o il patri-
nostro discorso si potrebbero inserire gli occidentalismi già richiamati (cfr.
supra le note nn. 9 e 10) fra gli etnostili della società postmoderna.
122
Come è noto, il pensatore occidentale che forse ha maggiormente contribuito a far interpretare la religione come una «nevrosi ossessiva universale
dell’umanità» è FREUD S., L’avvenire di una illusione, in ID., Il disagio della civiltà e
altri saggi, Boringhieri, Torino 1971, pp. 182-184.
123
Utilizzo qui la nozione di «tema culturale» (cfr. LOMBARDI-SATRIANI L.M.,
Antropologia culturale ed analisi della cultura subalterna, Guaraldi, Firenze 1976, p.
52) come sinonimo di etnostile.
124
Temi culturali che supra (vd. la nota n. 121) abbiamo definito
“occidentalismi”.
125
Buona parte dell’attuale “produzione sociale del significato” della Civiltà
occidentale, anche quella che presume di trattare l’islàm in una certa
pubblicistica, andrebbe colta, a parere di chi scrive, oltre che come un complesso di testimonianze della “sacralizzazione dei simboli” dell’Occidente,
che si percepisce minacciato (cfr. infra le conclusioni del saggio), anche come
una messa in funzione di quei «riti profani» [cfr. RIVIERE C., I riti profani,
Armando, Roma 2000 (1995), pp. 15 et passim], cioè convegni, tavole rotonde
sulla democrazia, sui diritti umani etc., nei quali viene impiegato un consolidato formulario apotropaico della negatività rappresentata dai musulmani
“maschilisti”, “antidemocratici”, “intolleranti”, “terroristi” etc. Per una trattazione equilibrata circa i diritti umani in seno all’islàm si veda PACE E., Islam
e diritti umani, in ID., Sociologia, cit., pp. 219-241.
110
Parlare di Islàm
monio culturale “minacciato”, nella convinzione di difendere,
sempre e comunque, l’“educazione propria”, cioè la migliore
esistente126. In ciò la condotta dell’Occidente attuale non sembra differire da quella di tutte le altre civiltà esposte al rischio
dell’“apocalissi culturale”127.
Un aiuto alla comprensione di questa alterità adorante ed
obbediente può provenire, forse, da William James, pragmatico
indagatore dell’esperienza religiosa e autore di un testo magistrale ed attualissimo; pur dalla propria posizione agnostica, egli
sostiene che
non si può mai scandagliare un’emozione [religiosa] o indovinarne gli impulsi rimanendone fuori. Nell’ora ardente dell’eccitazione […] ogni incomprensione si dissolve, e ciò che era
così enigmatico dall’esterno diventa ovvio e trasparente. Ogni
emozione obbedisce ad una logica sua propria, e opera deduzioni che nessun’altra logica può trarre. La pietà e la carità vivono in un universo differente da quello dei piaceri e dei timori
mondani, e costituiscono un centro d’energia completamente
diverso […] un amore supremo può trasformare sacrifici in
guadagno; una superiore verità può rendere odiose le difese
abituali [dell’ego], e in certe effervescenze di eccitazione generosa può apparire inspiegabilmente modesto mantenere qualcosa dei possessi personali. Quando noi stessi siamo al di fuori
del campo di simili emozioni, l’unico progetto valido è quello
di osservare quanto meglio possibile quelli che le provano, e
registrare fedelmente ciò che osserviamo.128
126
BERNARDI B., op. cit., p. 44; si tratta di un passo in cui il compianto africanista
definisce il concetto di etnocentrismo.
127
Cfr. DE MARTINO E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi
culturali, Einaudi, Torino 1977, passim.
128
JAMES W., op. cit., p. 283; le parentesi quadrate sono dello scrivente. Sui
limiti interpretativi dell’opera del medico, psicologo e filosofo statunitense
vd. GEERTZ C., Mondo, cit., pp. 101-126, che ne sottolinea l’ottica individualistica ed intimistica. Comprendere le problematiche religiose odierne, invece,
111
Franz Brandmayr
Il sentimento dell’“infinita dipendenza”129, che insorge nell’uomo che sperimenta la majestas, non sembrerebbe, perciò,
mortificarlo, né annichilirlo, né impedirne un’autentica autorealizzazione130, perché, nell’identificazione con il referente
sacrale, il soggetto «raggiunge la sua vera potenzialità solo abbandonando ogni potenza»131. Van der Leeuw continua la sua
descrizione:
Nella lode la dimenticanza di sé si solleva più in alto della
vita, nella potenzialità di chi viene lodato […] l’uomo si disfà
di se stesso e della propria potenzialità, per rimettersi interamente alla potenza di Dio. Si rifugge da se stessi e ci si volge
verso Dio.132
Questo distacco da sé, lungi dal determinare necessariamente l’alienazione133 teorizzata da Feuerbach134, può configurarsi
richiederebbe la messa in discussione degli assiomi, decisamente eurocentrici,
secondo i quali la religione sarebbe un fatto meramente “interiore” e “privato” (cfr. supra le note nn. 9 e 10).
129
OTTO R., op. cit., p. 29.
130
Cfr. infra la nota n. 154.
131
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 335. «La potenza viene così trovata in una
volontaria riduzione all’impotenza, cosa che del resto non è né debolezza né
ostilità verso la vita – consiste semplicemente nel riconoscere la validità della
parola percepita» come divina (ivi, pp. 367-368).
132
Ivi, p. 335.
133
L’alienazione è soltanto uno degli esiti possibili della pratica religiosa. L’analisi dei casi di alienazione religiosa è oggetto di studio di alcune specifiche
scienze delle religioni e, in particolare, della psicologia delle religioni [per un
primo approccio al problema vd., ad es., ALLPORT G.W., La religione della maturità, in ID., L’individuo e la sua religione, La Scuola, Brescia 1972 (1950), pp. 111139] e dell’antropologia culturale (vd. ad es. LANTERNARI V., Festa, cit., pp. 119124, con un’abbondante bibliografia riportata nelle note e TULLIO-ALTAN C.,
Soggetto, cit., pp. 65-75). Sul riduzionismo applicato allo studio del fatto religioso nelle scienze religionistiche Tullio-Altan (ivi, p. 123) esclude che dell’espe-
112
Parlare di Islàm
come un esercizio di «trascendimento nel valore»135, per il quale
il soggetto, impegnato nell’agone esistenziale, si identifica con
l’oggetto della sua adorazione fino a “gettarsi alle spalle” i pesi e
le limitazioni che gli derivano dalla sua lotta quotidiana. L’autotrascendimento è, anzi, un perfezionamento della sua azione
profana, perché «la vita trova il suo compimento soltanto nel
darsi»136, in quel donarsi a Dio, che improntando la vicenda lavorativa, familiare e sociale del soggetto, si corona nell’atto cultuale del salàt (preghiera rituale), integrandone tutte le dimensioni esistenziali;137 a queste, a ciascuna di esse, viene conferito
rienza religiosa si possa «dare un’interpretazione riduttiva, come accade quando la si consideri in una ristretta prospettiva psicologica, se non addirittura
psicopatologica, o quando la si guardi unicamente sotto l’angolo delle sue ricadute politico-sociali, o quando la si giudichi sbrigativamente come un equivoco epistemologico, e cioè come una falsa conoscenza, confinandola nel puro e
semplice campo dell’irrazionale e degli affetti». Poco oltre, lo stesso Autore
menziona la precomprensione razionalistica e storicistica di Croce, che vincolò De Martino a un’idea di religione intesa come «errore» (ivi, pp. 123-124). Per
analoghe osservazioni, sempre nell’ambito antropologico-culturale, cfr. anche
LEWIS I.M., Le religioni estatiche. Studio antropologico sulla possessione spiritica e sullo
sciamanismo, Ubaldini, Roma 1972 (1971), p. 28.
134
FEUERBACH L.A., L’essenza del cristianesimo, in ID., Opere, Laterza, Bari 1965,
pp. 194, 210 et circa.
135
Concetto elaborato, sulla scorta di suggestioni esistenzialistiche, dal marxista
DE MARTINO E., op. cit., pp. 668-669; cfr. anche TULLIO-ALTAN C., Sullo specifico, cit., pp. 42-43; ID., Soggetto, cit., p. 45.
136
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 336. Cfr. infra la nota n. 163.
137
Sull’islàm inteso come religione dell’«integralità» e della «ricomposizione» vd., sotto il profilo storico (ma con molta cautela per quanto riguarda
la comparazione con il cristianesimo), SCARCIA AMORETTI B., Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, Carocci, Roma 1998, pp. 15-18. Da un punto di
vista psicologico-sociale CARRIER H., Psicosociologia dell’appartenenza religiosa,
Elledici, Leumann (TO) 1965, scriveva nel suo celebre studio del «ruolo
unificatore dei sentimenti religiosi nell’individuo» (ivi, p. 159), nel quale «il
sapere religioso non genererà un atteggiamento comprensivo o stabile se
113
Franz Brandmayr
un alto significato,138 un significato sacrale che le rende, in certo
modo, delle ripetizioni umane di un modello divino.139
Questa “uscita dalla storia” per mezzo del rito, definita «destorificazione rituale»140 dall’etnologo neomarxista Ernesto De
Martino, non è che il preludio di quella reintegrazione nella storia e di quella restituzione del soggetto ai suoi compiti ordinari,141 che costituiscono il suo impegno di uomo e di fedele.142
Dopo la preghiera egli non è più identico a prima; ciò che sembrava essere solo un peso gravoso o intollerabile, il fardello esistenziale, ora ha assunto un’altra sembianza. Identificarsi con il
modello divino, addirittura trasformarsi in esso,143 infatti, può
non unificando progressivamente tutti i livelli di comportamento. L’appartenenza religiosa non sarà psicologicamente significativa e durevole se non
viene integrata armoniosamente nel sistema di valori che forniscono alla
personalità i suoi orientamenti maggiori» (ivi, p. 162). Dal che si evince il
significato della religione come potenza integratrice [ivi, p. 286; peraltro la
funzione di «polo integratore» (ivi, p. 287) sarebbe assolta anche dalle «filosofie di vita» ateistiche (cfr. supra la nota n. 108 e infra la nota n. 158)].
Pertanto l’orientamento del soggetto al polo religioso, se scelto consapevolmente e con una certa costanza, ne determinerebbe l’unificazione delle
motivazioni e del comportamento (ivi, pp. 313 e 320).
138
Sul «conferimento di senso» che deriva dall’«identificazione con il valore»
vd. TULLIO-ALTAN C., Soggetto, cit., pp. 50-51.
139
ELIADE M., Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 19843 (1956), pp. 64-65.
140
TULLIO-ALTAN C., Soggetto, cit., pp. 44-45.
141
È qui che emerge il significato della religione intesa come «modello per»
l’edificazione di un modello di uomo, o di una società, o di una economia etc.
più aderenti al paradigma sacrale (GEERTZ C., La religione, cit., pp. 118-120).
142
Si tratta di un «innesto concreto operativo nella società e nella storia» (DE
MARTINO E., op. cit., p. 666).
143
Va chiarito che queste espressioni, che riecheggiano evidenti motivi eliadiani (cfr. supra la nota n. 139), probabilmente non sarebbero fra quelle più adoperate da un musulmano comune, il quale preferirebbe quasi certamente riferirsi
alla propria «adeguazione alla volontà di Dio» (PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., op.
cit., p. 21). Ciononostante sono di matrice prettamente coranica il riferimento
114
Parlare di Islàm
rendere più affrontabili anche le prove più severe, quelle con le
quali solo un dio potrebbe cimentarsi. Esse non rappresentano
più un motivo di angoscia, perché hanno assunto una forma:144
sono diventate, appunto, “prove”, mentre, prima dell’autotrascendimento del soggetto nel valore, costituivano una realtà
oscura, angosciosa e “senza nome”, il cui significato profondo
non era ancora decifrabile. In altre parole, svolgere il lavoro
quotidiano, o aiutare la propria consorte a fare le compere, o
praticare lo jogging con lei145 possono diventare “azioni sacre”,
piene di bellezza e di “incanto”146, se il soggetto le intraprende
con una somma cura di niyya147, cioè con la retta “intenzione” di
adeguarsi al modello coranico o a quello dei Detti del Profeta (in
all’infusione dello spirito di Dio nell’uomo (Cor XIX, 29; XXXII, 9 s.) e il
conferimento allo stesso uomo della “forma più perfetta” (Cor XCI, 4).
144
Mi rifaccio alla distinzione psicologica fra angoscia e paura (cfr. REBER A.
S., s.v. Angoscia, in ID., Dizionario di psicologia, Pagine, Roma 1996, p. 41). Vd. le
importanti osservazioni antropologico-culturali di GEERTZ C., La religione,
cit., pp. 130-132 intorno alle religioni intese come sistemi di significato fondamentali nell’elaborazione di risposte teoriche ed esistenziali allo scacco
della malattia, della sofferenza e della morte.
145
Vd. Coll. 06/04/2009, in cui il presidente del Centro culturale islamico di
Trieste e della Venezia Giulia, Saleh Igbaria, richiamava il noto hadìth nel
quale il Profeta si cimenta nella corsa gareggiando con la giovane moglie
Aishà. Chi scrive coglie l’occasione per ringraziare cordialmente l’amico Saleh e tutti i membri del Centro che, in questi diciotto anni, si sono prestati a
collaborare a tutte le iniziative sempre con grande prontezza e generosità.
146
Adopero l’espressione con un esplicito riferimento al concetto weberiano
di «disincantamento del mondo» [cfr. ad es. ARON R., Max Weber, in ID., Le
tappe del pensiero sociologico. Montesquieu, Comte, Marx, Tocqueville, Durkheim, Pareto, Weber, Mondadori, Milano 19785 (1965), p. 497].
147
PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., op. cit., pp. 68-71 e 114.
148
Non sussistono differenze fondamentali fra le accezioni islamica e cristiana dell’intenzionalità morale [cfr. HAERING B., Liberi e fedeli in Cristo. Teologia
morale per preti e laici. I. Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi (Gal 5, 1), Paoline, Roma 19802 (1978), p. 241].
115
Franz Brandmayr
termini teologico-morali148 si potrebbe scrivere: orientando a
Dio ogni finalità spirituale e morale dell’atto).
Il devoto, con questo, viene reintegrato nella dimensione storica nella sua autentica veste di “servitore”149, di creatura che ha
ridefinito la sua relazione con il Creatore, creatura per la quale,
solo ora, dopo l’Incontro, ogni vicenda, ogni situazione ha preso il suo senso, cioè “la” giusta direzione. Da ciò scaturisce l’equilibrio150 psicologico, la sicurezza, la convinzione e la «fiera coscienza di essere servo di tale padrone»151; da ciò un impegno
familiare, sociale ed eventualmente politico, che, contrariamente a quanto sostiene il luogo comune occidentalista, trae discernimento ed energia operativi proprio dall’evento rituale.152 Da
quanto scritto sembra possibile inferire che Peirone e Rizzardi
si riferiscano a questo genere di esperienza, o a qualche cosa di
simile, quando definiscono l’islàm come una profonda «accettazione della natura teomorfica dell’uomo»153.
Si è chiamati qui a porre una particolare attenzione, in quanto pare possibile cogliere una palese istanza di valorizzazione
antropologico-filosofica, proprio là dove il punto di vista occidentale moderno potrebbe invece riconoscere la mortificazio-
149
Cfr. supra la nota n. 95.
VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 298.
151
Ivi, p. 367.
152
Cfr. supra le note nn. 128 e 141.
153
PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., op. cit., pp. 21 e 113. Anche in ciò, pur senza
indebite confusioni, può venire riconosciuta una certa affinità fra i tre grandi
monoteismi: il tema biblico dell’uomo-imago Dei (Gn 1, 27), infatti, è tanto
familiare agli ebrei quanto ai cristiani, al punto che i cristiani d’Oriente
sono soliti indicare nella qšwsij (theosis = “deificazione”) la meta dell’itinerario cristiano (SPIDLIK T., op. cit., p. 42). A conferma del significato di
accettazione sotteso al concetto di islàm concorre anche la traduzione dello stesso con «abbandono [confidente a Dio]» (cfr. PEIRONE F.J.-RIZZARDI
G., op. cit., p. 104).
150
116
Parlare di Islàm
ne di ogni autorealizzazione154 e l’asservimento alienante ad una
volontà eteronoma.155
Sembra plausibile, ancora, accostare la dimensione teomorfica sottesa all’islàm anche alla concezione dei grandi umanesimi
atei, i quali, anche quando non propongono una visione deificata156 dell’uomo, sembrano, in ogni caso, avanzare una pretesa
“prometeica”157, una “sostituzione”158 di Dio con istanze puramente antropologico-filosofiche, tese a innalzare il valore dell’uomo alla misura più elevata.
154
Cfr. REBER A.S., s.v. Realizzazione, motivazione alla, in ID., Dizionario, cit., p. 672.
Scriveva in un’ottica filosofica e da un punto di vista cristiano (che, nella
prospettiva avalutativa del presente contributo, viene accolto per il suo valore di testimonianza significativa per la comparazione interculturale fra cattolicesimo, pensiero occidentale secolarizzato e islàm) Zelindo Trenti: «Circa il
problema di Dio gioca molto, a mio parere, una rivendicazione esasperata di
libertà, che sembra forzare l’uomo contemporaneo ad una sconcertante alternativa: o accogliere Dio, svilendo la dignità dell’uomo, o pronunciarsi per
l’uomo, rifiutando – come necessaria conseguenza – Dio» [TRENTI Z., Esperienza e trascendenza, Elledici, Leumann (TO) 1982, p. 108]. Nel soggetto
islamico solitamente non è attivo (non ancora?) questo dualismo uomo/
Dio, tipicamente europeo e laicista, che è andato producendosi nel corso
degli ultimi tre secoli nella storia della filosofia occidentale. Van der Leeuw
sembra confermare la contrapposizione fra le sensibilità monoteistica e
laicista: «La servitù verso Dio sta agli antipodi dell’opposizione titanica»
(cfr. VAN DER LEEUW G., op. cit., p. 367). Per una trattazione filosofica di
ampio respiro, nella quale emergano in tutta la loro evidenza le implicazioni di questa dicotomia vd. ad es. VANNINI M., Mistica e filosofia, Piemme,
Casale Monferrato (AL) 1996, passim.
156
Cfr. ad es. FEUERBACH L.A., L’essenza del cristianesimo, in ID., Opere, Laterza,
Bari 1965, pp. 180-181.
157
TRENTI Z., op. cit., pp. 123-127.
158
Vale richiamare il concetto di “religioni di sostituzione”, che gli psicologi
delle religioni hanno spesso applicato alle grandi ideologie sorte successivamente alla rivoluzione francese [cfr., ad es., CARRIER H., op. cit., pp. 287-289;
VERGOTE A., Psicologia religiosa, Borla, Roma 1979 (1967), p. 263].
155
117
Franz Brandmayr
In comune alle due visioni è ancora verosimile individuare
un valore caro alla tradizione ebraico-cristiana159 e, certamente
con un’accezione diversa, liberale: la libertà. Si è visto che la
natura teomorfica dell’uomo si realizzerebbe nell’adeguazione
alla volontà di Dio, manifestata nella sua Parola (rivelata nel
Corano). In questa sede interessa soprattutto rimarcare il fatto
che questa adeguazione parte da un “assenso intimo” (tasdìq)
alla parola di Dio, libera adesione ad un “progetto”, direbbero i
cristiani influenzati da Heidegger,160 e risposta ad una chiamata
alla completa realizzazione del Sé161 in Dio. Il tasdìq, pertanto,
sembra configurarsi come garanzia di una dimensione fondamentale per la coscienza dell’occidentale: la libertà. Solo da essa
deriverebbe la sottomissione, l’islàm.
La libera scelta, inoltre, non pare esaurirsi in un atto di ligia e
fredda obbedienza. Al contrario, i gesti più importanti che il
muslìm viene invitato a compiere sembrano derivare dal suo
amore per Dio:
Non è pietà (= “[autentico] bene religioso”) volgere il volto a
oriente o a occidente…
È pietà impoverirsi per suo amore – e largheggiare in beni verso
159
Non volendo appesantire ulteriormente l’apparato delle note richiamo
soltanto due autori significativi e, sicuramente, non sospetti di cristianocentrismo, nelle cui opere emerge nitidamente la valenza di liberazione delle
tradizioni scritturistiche ebraica e cristiana: BLOCH E., Ateismo nel cristianesimo.
Per la religione dell’Esodo e del Regno, Feltrinelli, Milano 19836 (1968), passim;
FROMM E., Voi sarete come dei. Un’interpretazione radicale del Vecchio Testamento e
della sua tradizione, Ubaldini, Roma 1970 (1966), passim.
160
Cfr. ad es. HEIDEGGER M., Essere e tempo, Longanesi, Milano 19765 (1927),
pp. 316-324.
161
Cioè, per dirla con Jung, della «unità e della totalità della persona» (ID., op.
cit., p. 100). Il linguaggio della psicologia analitica presenta, notoriamente,
interessanti analogie con quello filosofico utilizzato da svariati mistici (cfr.
VANNINI M., op. cit., passim).
118
Parlare di Islàm
i parenti, gli orfani, gli emarginati, i pellegrini, i mendicanti.
È pietà sciogliere le catene ai prigionieri…162
Gli aspetti rituali, come l’orientamento verso la qibla (= “direzione”) della Mecca, vengono, dunque, in subordine: pare centrale, piuttosto, l’esigenza di un amore, di una dedizione devota
all’Altissimo, tale da indurre il fedele a donare e a donarsi ai suoi
fratelli. È questo uno dei motivi che inducono certi addetti ai
lavori a tradurre, preferibilmente, con “oblato”163 [= “donato”
(a Dio)] il lemma “musulmano”.
Mettendo ulteriormente a fuoco la dimensione del servizio, c’è appena da ricordare che per il cristiano consapevole
dovrebbe essere meno difficile riconoscere nella sottomissione una riproposizione del modello del “servo del Signore”164,
l’obbediente,165 dell’ebèd Adonài del profeta Isaia166. Di questa
figura misteriosa di redentore sofferente, nella quale la tradizione evangelica ha voluto scorgere, non a caso, una prefigurazione del Cristo,167 nel VII secolo a.C. si scrive che sarebbe
stata «onorata, esaltata e molto innalzata»168, fino a presentare
(naturalmente solo per i cristiani)169 dei caratteri divini. Gesù
di Nazaret stesso, secondo i cristiani «vero uomo e vero
162
Cor II, 177; la parentesi quadra è dello scrivente.
Cfr. ad es. TAGLIAFERRI F., Islam e informazione, in SIGGILLINO I. (a cura di),
op. cit., p. 125. Cfr. supra la nota n. 136.
164
Cfr. AMATO A., Gesù il Signore. Saggio di cristologia, Dehoniane, Bologna
19912 (1988), pp. 78-85.
165
VAN DER LEEUW G., op. cit., pp. 368 e 370.
166
Is 42, 1-7; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-53, 12.
167
Mt 12, 15-21.
168
Is 52, 13.
169
Per gli ebrei, ovviamente, il “servo del Signore” non può avere prerogative divine, ma, senz’altro, messianiche.
163
119
Franz Brandmayr
Dio»170, si sarebbe definito: «colui che serve»171. Ciò vale a confermare, pare, una compresenza dell’elemento “diaconale”172,
del servizio, e, al contempo, della qualità “divina” del medesimo modello.
Dopo questo modesto esercizio ermeneutico, quindi, sembra di potere rispondere negativamente alla domanda di partenza: l’islàm non pare configurarsi come una religione di schiavi.
Meglio, se vissuto coerentemente con le valenze sottese al concetto di tasdìq (= “assenso intimo”), esso potrebbe contenere
degli elementi di grande valorizzazione, da un lato, della persona umana e, dall’altro, dei principi etici del servizio e della responsabilità, ideali, in fondo, che l’Occidente attuale in parte
ancora condivide.173
Dopo esserci soffermati su alcune delle sfumature semantiche
sottese al concetto di islàm, si pone il problema di abbozzare
un’eziologia della comprensione lacunosa del concetto di islàm
170
Cfr. il Simbolo niceno-costantinopolitano in AMATO A., op. cit., p. 185.
Lc 22, 27.
172
Diakon…a-diakonia = “servizio” (MONTANARI F., op. cit., s.v.). È termine
adoperato solitamente nel contesto teologico cristiano per designare l’atteggiamento di fondo del battezzato (cfr. Lumen Gentium, 32).
173
Può risultare interessante constatare come Lutero, considerato da certuni
uno dei grandi profeti della modernità (cfr. ad es. KANTZENBACH F.W., Lutero.
Il riformatore borghese, Paoline, Roma 1973, pp. 11-15), coniughi in un suo
celebre testo le figure del servo e del dominus come stigmi complementari ed
indivisibili del cristiano: «Ein Christenmensch ist ein freier Herr ueber alle Dinge und
niemand untertan. / Ein Christenmensch ist ein dienstbarer Knecht aller Dinge und
jedermann untertan» [Un cristiano è un libero signore di tutte le cose ed a nessuno sottomesso. / Un cristiano è un servitore premuroso in ogni cosa e
sottomesso ad ognuno]. (LUTHER M., Von der Freiheit eines Christenmenschen.
Fuenf Schriften aus den Anfaengen der Reformation, Calwer Verlag, Stuttgart 1982,
p. 162; traduzione dello scrivente).
171
120
Parlare di Islàm
da parte dell’Occidente.174 Fra le tante opzioni possibili chi scrive
ritiene che un contributo sintetico in questo senso possa
provenire soprattutto dalla constatazione di come, in molti casi,
l’approccio euroamericano all’islàm sia affetto da un limite
sostanziale: la sua forma mentis liberale,175 portata ad enfatizzare,
talvolta radicalmente,176 il valore della libertà (secondo qualche
autore la fraternità e l’eguaglianza non sembrerebbero stare
altrettanto a cuore all’Occidente)177, le cui interpretazione e
pratica vengono declinate, come è comprensibile, secondo una
sensibilità individualistica178 squisitamente occidentale.179
È possibile, perciò, che il punto di forza (o presunto tale)180
174
Le considerazioni che seguono prescindono consapevolmente dalla triplice
stratificazione in cui si sedimentano gli antichi e i nuovi stereotipi e pregiudizi
nei confronti dell’islàm che informano l’occidentale ideal-tipico (per queste
tematiche mi permetto di rinviare ai contributi elencati supra alla nota n. 23).
175
Si vedano supra, ad es., le note nn. 9 e 10 sugli occidentalismi, ciascuno dei
quali costituisce una sfida teoretica, ma soprattutto etico-sociale ed eticopolitica, lanciata alle organizzazioni internazionali, ai governi come pure alle
amministrazioni locali dei singoli Stati. Sul concetto di libertà inteso come
punto di appoggio archimedeo delle eurocentriche idee-forza di “civilizzazione”, “progresso” e “sviluppo” vd. ad es. CHAKRABARTY D., L’artificio, cit., p. 63.
176
Cfr. supra la nota n. 58.
177
Sotto il profilo filosofico vd. CICCHESE G., I percorsi dell’altro. Antropologia e
storia, Città Nuova, Roma 1999, pp. 252-257; da una prospettiva sociologica
TOURAINE A., op. cit., p. 159 sottolineava come la tendenza degli anni Novanta (forse anche quella attuale?) fosse quella di far coincidere la democrazia
con la tutela del «principio di libertà», lasciando in ombra la fratellanza e
l’eguaglianza, a suo parere altrettanto necessarie alla costruzione di una società democratica.
178
Cfr. supra la nota n. 58.
179
Strettamente connessa all’affermazione degli “occidentalismi” (cfr. supra
le note nn. 9 e 10).
180
Secondo svariati autori il neo-capitalismo (cfr. ad es. SENNETT R., op. cit., p. 18)
non sembrerebbe favorire uno sviluppo sociale e politico in senso autenticamente liberale; più in generale si veda la bibliografia richiamata supra alla nota n. 58.
121
Franz Brandmayr
della cultura dominante dell’Occidente, la libertà, rappresenti,
anche paradossalmente, il maggiore impedimento alla comprensione del concetto di islàm. Non si tratta qui, naturalmente, di
misconoscere le conquiste della Civiltà occidentale181 in fatto di
diritti civili, bensì della necessità di un confronto serio con i
punti di vista “altri”.182
Il fatto che, per limitarci a qualche esempio tratto dagli
islàm del Medio Oriente,183 in essi venga dato un grande rilievo agli “idiomi di rappresentanza”184 costituiti dalla famiglia185
allargata, dal clan,186 dalla tribù187 e dalla comunità di villaggio, e che la genealogia comune al gruppo,188 il patronato e il
rapporto clientelare189 e che il senso dell’onore e della vergogna190 ricoprano una funzione decisiva nelle relazioni socia-
181
Per un ambito di civiltà più ampio di quello musulmano, ma che può includere l’islàm cfr. ad es. le osservazioni di CHAKRABARTY D., L’artificio, cit., p. 60.
182
GEERTZ C., Mondo, cit., pp. 74-75; MARLETTI C., Le immagini, cit., pp. 149
e 155.
183
Espressione che, nel linguaggio antropologico, designa anche l’Africa
musulmana [FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di), op. cit., p. 453].
184
DAVIS J., Antropologia delle società mediterranee, Rosenberg & Sellier, Torino
1980, p. 141.
185
La stessa famiglia nucleare è influenzata da modelli profondamente diversi da quelli europei [MACIOTI M.I.-PUGLIESE E., Gli immigrati in Italia, Laterza,
Roma-Bari 19985 (1991), p. 192].
186
PEIRONE F.J.-RIZZARDI G., op. cit., p. 58.
187
SCHMIDT DI FRIEDBERG O., s.v. Islamizzazione, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a
cura di), op. cit., p. 389.
188
SACCHI P., s.v. Medio Oriente, culture del, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di),
op. cit., p. 454.
189
SACCHI P., s.v. Antropologia mediterranea, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura
di), op. cit., p. 73.
190
DAVIS J., op. cit., pp. 101-114; SACCHI P., s.v. Antropologia mediterranea, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di), op. cit., p. 73; EAD., s.v. Medio Oriente, cit., p. 455.
122
Parlare di Islàm
li,191 tutto ciò sembra poter mettere in profonda e ulteriore
crisi un assetto, quello occidentale, che, peraltro, con questi
cosiddetti retaggi premoderni non ha cessato di misurarsi e
non sempre vittoriosamente.192
Tutto ciò va ad aggiungersi agli attacchi, storicamente recentissimi, portati da Ovest e da Est: l’americanizzazione o la religione dei consumi,193 infatti, e, rispettivamente, le minacciose
versioni estremo-orientali della “via alla crescita”194 economica
hanno già complicato e sovvertito il quadro sociale e culturale
di quell’Occidente che – reduce dallo sconvolgimento del secondo conflitto mondiale – per decenni era andato facendosi
paladino dei valori democratici in contrapposizione ai totalitarismi di vario conio. Tuttavia, nonostante queste profonde modificazioni intervenute nello scenario globale, una certa riflessione politologica195 sembra insistere nel volere interpretare la real-
191
Sono le cosiddette «lealtà primordiali» (GEERTZ C., Mondo, cit., pp. 85-86),
fenomeni socioculturali che vanno studiati con somma cura prima di operare un indebito riduzionismo degli stessi ai corrispettivi fenomeni italiani ed
europei, storicamente e culturalmente collocati in tutt’altro contesto; vd. anche
la nota ultra.
192
Per quanto concerne il caso italiano cfr. supra le note nn. 54 e 60.
193
RITZER G., La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Il Mulino, Bologna 2000 (1999), pp. 65 et passim; per una posizione sociologica differente, nella quale viene messa in discussione la visione della
globalizzazione come esito dell’influenza imperialistica americana, vd. SASSATELLI R., Consumo, cultura e società, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 213-223.
194
SENNETT R., op. cit., p. 12.
195
Vd. ad es. RUSCONI G.E., Possiamo fare a meno di una religione civile?, Laterza,
Roma-Bari 1999, passim e SARTORI G., Pluralismo, multiculturalismo e estranei,
Rizzoli, Milano 2002, passim. Per una analisi sintetica della differente posizione teorica dei due politologi vd. GUOLO R., Xenofobi e xenofili. Gli italiani e
l’islam, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 101-108. Pur avendolo trovato partecipe di una certa lettura occidentalista, ho apprezzato invece in SAMIR KH.S.,
Islam. Dall’apostasia alla violenza, Cantagalli, Siena, 2008, passim uno spessore
123
Franz Brandmayr
tà odierna alla luce pressoché esclusiva degli strumenti concettuali tradizionali196 della filosofia politica liberale, non riuscendo, a mio avviso, a decifrare compiutamente il novum che – con
evidenza crescente – va affacciandosi e prendendo piede negli
ultimi decenni soprattutto sotto le forme le più molteplici della
“voglia di comunità”197.
Ancora, in un ambito diverso198 da quello delle formazioni
sociali, cioè in quello dei rapporti fra il potere politico e le istanze
religiose, l’islàm ha dato un’interpretazione «di circolarità e di scambio reciproco»199 e di ricomposizione e di «integralità»200, che sovente viene bollato semplicisticamente come “integralismo”201
interpretativo non comune; le pur pesanti critiche portate all’islàm nel suo
testo divulgativo (si tratta di una raccolta di articoli scritti per l’Agenzia AsiaNews), lasciano trasparire, oltre ad una grande profondità nelle conoscenze
islamologiche, una illuminante lucidità analitica delle problematiche in gioco
ed una sincera empatia con l’oggetto di studio.
196
Cfr. supra le note nn. 9 e 10 e infra la nota n. 207.
197
BAUMAN Z., Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001, passim; cfr. anche ARDIGÒ
A., Prefazione, in PARSONS T., Comunità societaria e pluralismo. Le differenze etniche e
religiose nel complesso della cittadinanza, Franco Angeli, Milano 1994, p. 12.
198
Diverso, ciò va rimarcato, soprattutto per l’occidentale secolarizzato (cfr.
infra le note nn. 200 e 201).
199
MARLETTI C., Le immagini, cit., p. 143.
200
Cfr. supra la nota n. 137. È noto che il modello del protestantesimo battista, al pari di quello laicista, peraltro, propugni un regime di totale separazione (MARLETTI C., ib.) fra lo Stato e le organizzazioni religiose, modello che
sarebbe in grado di garantire l’esercizio dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini [per un primo approccio alle tematiche della laicità dello Stato si vedano
da un punto di vista filosofico, ad es.: POSSENTI V., Le ragioni della laicità, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007, passim e, da una prospettiva storica,
REMOND R., La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2003 (1998), passim].
201
Per una definizione argomentata di integralismo vd. PACE E.-GUOLO R., I
fondamentalismi, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 9-11. Per una critica antropolo-
124
Parlare di Islàm
religioso202. Da ultimo, per porre fine a questo breve elenco di
nodi tematici controversi, lo stesso concetto di persona,203 che
ha influito come pochi altri sugli sviluppi storici della Civiltà
occidentale, pur potendo rappresentare un utile tramite fra le
istanze individualistica e comunitaristica che sembrano collidere nel contatto fra l’Occidente e i mondi “Altri”, la stessa
idea di persona, si diceva, non è certo immediatamente assimilabile alla concezione della soggettività così come essa emerge, ad esempio, dalla forma linguistica araba nisba studiata da
Geertz nel Marocco verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso.204
gico-culturale dell’assioma liberale della religione intesa come fatto “interiore” e privato vd., ad es., supra la nota n. 128.
202
Meriterebbero una trattazione a sé stante le splendide riflessioni di
CHAKRABARTY D., Storia, cit., pp. 146 et passim, ove emerge nitidamente
l’aporia fra l’esigenza storicistica (e occidentale) dell’analisi storiografica
democratico-marxista e le narrazioni dei contadini-rivoluzionari santal,
che dichiaravano di essersi ribellati agli inglesi solo perché il dio Thakur
li aveva spinti a farlo. La riduzione al piano filosofico dell’immanenza di
quella che – per i rivoluzionari – era un’esperienza “sacra”, che integrava
i piani soprannaturale/naturale (mai avvertiti come opposti o escludentisi a vicenda), risulta essere, in questo modo, eurocentrica e, da un punto
di vista scientifico [cioè non segnato dal fondamentalismo occidentalista
(cfr. infra la nota n. 219)], esposta al dubbio metodologico e suscettibile
di discussione.
203
Nozione di matrice essenzialmente cristiana e che va accuratamente distinta dal concetto di “individuo” (da un punto di vista filosofico cfr., da
diverse angolature prospettiche, ad es., CICCHESE G., op. cit., soprattutto alle
pp. 143-144 et passim; LAURENT A., op. cit., pp. 31-32 et alibi).
204
Dalle sue osservazioni l’Autore ricava una concezione del soggetto nella
quale la relazionalità e l’individualità sembrano armonizzarsi (GEERTZ C.,
Antropologia interpretativa, cit., pp. 75-76 e 83-88): «La società marocchina non
affronta la propria diversità separandosi in caste, isolandosi in tribù, dividendosi in gruppi etnici, o coprendosi con qualche concetto comune a tutti
come quello di nazionalità […] La affronta distinguendo, con elaborata pre-
125
Franz Brandmayr
Le dinamiche sociali, che coinvolgono un po’ tutte le «strutture di attendibilità»205 or ora menzionate, vengono sovente analizzate attraverso categorie (nazione, etnia, intolleranza, religione,
fanatismo, l’opposizione comunitarismo vs. individualità etc.) elaborate entro quadri concettuali – assai triti – tutti di matrice prettamente euroamericana.206 Le cause della conflittualità, che talvolta si verifica nell’incontro/scontro tra diversi sistemi di significato (per quanto qui interessa: fra Occidente e islàm), vengono
così semplicisticamente ricondotte agli “atavismi”207, con un riduzionismo che spesso risulta essere funzionale all’universalismo
liberale fatto proprio dalla sinistra riformista.208
Nel confronto con l’islàm, invece, potrebbe essere insita
un’«occasione»: quella di «superare le troppo facili generalizza-
cisione, i contesti – matrimonio, religiosità, entro certi limiti anche la dieta, il
diritto, e l’educazione – all’interno dei quali gli uomini sono separati da coloro che sono dissimili, e i contesti – lavoro, amicizia, politica, commercio –
dove sebbene con cautela e in modo condizionato, essi sono collegati agli
altri» (ivi, pp. 86-87). Secondo l’Autore questa filosofia della soggettività sarebbe comune a tutto il Medio Oriente (ivi, p. 86). Per uno studio comparativo sulle diverse concezioni dell’individualità concepite all’interno di differenti culture si veda DOUGLAS M., Un esempio di stile di pensiero: l’idea del sé, in
EAD., Credere e pensare, Il Mulino, Bologna 1994 (1992), pp. 75-103.
205
«Se mettiamo insieme tutti questi fattori – concezioni della realtà accolte
dalla società, rapporti sociali in cui si assumono tali concezioni come indiscutibili, terapie e legittimazioni che le salvaguardano e le accreditano – abbiamo tutta la struttura di attendibilità che sorregge la convinzione suddetta» (BERGER P.L., op. cit., p. 56).
206
È per questo motivo che va affermandosi una corrente di studi antropologico-culturali denominata antropologia islamica, la quale, differenziandosi
dall’antropologia dell’islàm, si propone di studiare la realtà socioculturale dei
paesi di tradizione musulmana attraverso strumenti concettuali e metodiche
elaborate all’interno dell’islàm stesso [SCHELLENBAUM P., s.v. Islam, antropologia
dell’, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di), op. cit., p. 388].
207
GEERTZ C., Mondo, cit., p. 82.
208
Cfr. ad es. GUOLO R., op. cit., pp. 37-38.
126
Parlare di Islàm
zioni… [e di] tornare a problematizzare il rapporto fra politica,
società e valori»209. In altre parole, il liberalismo andrebbe riconosciuto, secondo alcuni, nella sua origine culturale determinata210 e relativa ad uno specifico contesto storico, non estensibile
ad altri ambiti senza un previo Sitz im Leben.211
È possibile, ad esempio mediare fra i diritti dei singoli ed i
cosiddetti “diritti delle collettività”? O, al contrario, è indispensabile che lo spazio pubblico debba rimanere cieco alle differenze
culturali212 e alle singole “identità” etniche e religiose? Esistono
soluzioni intermedie?213 Certo, le risposte a queste domande non
sono sempre semplici e il fatto che i mondi accademico e politico
europei preferiscano porle, fra gli intellettuali di cultura islamica,
ai non-religiosi214 sembra testimoniare la difficoltà di un Verstehen
autentico da parte “laica”, comprensione che sembra decisamente più agevole, pur fra tante difficoltà, per i cristiani.215 Il dialogo,
209
MARLETTI C., Premessa, cit., p. 17.
GEERTZ C., Mondo, cit., ib.
211
Richiamo questa nozione dal contesto esegetico biblico [FUSCO V., s.v.
Vangeli, in AA.VV. (a cura di), Nuovo dizionario di teologia biblica, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI), pp. 1613-1614], nel quale ha dato risultati importanti proprio in quanto modo di procedere analitico per «piccole unità letterarie» e teso alla ricostruzione del quadro storico e culturale d’insieme dell’ambiente che ha prodotto la letteratura neotestamentaria.
212
Cfr. COLOMBO E., op. cit., p. 64.
213
Per un approfondimento delle questioni sollevate si veda, ad es., HABERMAS J.-TAYLOR CH., Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2008 (1996), passim e, più in generale, la bibliografia ragionata proposta da
COLOMBO E., op. cit., pp. 123-127.
214
ALLIEVI S., Parole, cit., p. 60; cfr. anche MARLETTI C., Le immagini, cit., p. 155.
215
Coll. 06/04/2009. Cfr. supra la nota n. 195. Si veda anche, ad es., la lettera
che i «Centotrentotto saggi» hanno inviato alle Chiese cristiane nel 2007 e si
confronti Cor XXX, 1-3 la celebre Sura dei Romani. Certamente non vanno
dimenticate quelle componenti cristiane o, talvolta, sedicenti tali, che si collocano in una prospettiva di scontro con l’islàm, in nome di istanze spesso
210
127
Franz Brandmayr
inoltre, sembra schiudere prospettive più favorevoli particolarmente nei contatti con i musulmani europei, fra i quali sembra
venire a prodursi “un nuovo discorso islamico”,216 determinato
dalla necessità di adattamento dei credenti alle condizioni di vita
occidentali.
Se venisse, al contrario, disattesa l’istanza di una seria messa
in discussione degli occidentalismi, l’affermazione acritica (perché decontestualizzata rispetto alle nuove emergenze) dei caratteristici valori legati alla concezione liberale dello Stato, all’individualismo, al libero mercato,217 alla democrazia e ai diritti dell’uomo e della donna, che non di rado si accompagnano all’islamofobia,218 rischierebbe di dare vita ad un vero e proprio “fondamentalismo culturalista occidentale”219, intorno al quale gli
studiosi scrivono da svariati anni. I gruppi di interesse che si
fanno portatori di questo complesso di valori, istituzioni ed ethoi
sembrano talvolta presumere di attraversare senza adattamento
alcuno l’ineluttabile esperienza dell’”insalatiera etnica”220, “sacralizzando”221 la propria Weltanschauung, quasi in difesa radicale
diversificate (per il cattolicesimo italiano una sintesi svolta dal punto di vista
“laico” è reperibile in GUOLO R., op. cit., pp. 72-76, 81-99 e 108-120; cfr.
anche infra la nota n. 221).
216
ALLIEVI S., Parole, cit., p. 59.
217
ARDIGÒ A., op. cit., pp. 13-14.
218
Cfr. ad es. SARTORI G., Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Rizzoli, Milano
2002, passim e la valutazione critica che del volume del politologo fiorentino
riporta GUOLO R., op. cit., pp. 101-105; vd. anche ivi, pp. 120-125.
219
ALLIEVI S., Parole, cit., p. 61.
220
Cfr. BERNARDI U., La nuova insalatiera etnica. Società multiculturale e relazioni
interetniche nell’era della globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2000, passim.
221
Sottraendo, cioè, alla discussione (cfr. REMOTTI F., Noi, primitivi. Lo specchio
dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 156-157) i valori propri
della concezione occidentale del mondo. Una versione italiana di questa difesa strenua degli occidentalismi sembra reperibile anche in un sociologo
128
Parlare di Islàm
ed estrema di un assetto sociale e politico, che avvertono come
esposto al rischio di venire progressivamente meno.
Porsi in una posizione autenticamente democratica e liberale potrebbe voler significare anche cogliere i limiti, forse, di
certe pur anche felici esperienze storiche occidentali, che si
ricollegano al pensiero liberale, operando una valutazione in
misurato e profondo come GUOLO R., op. cit., p. 154, quando, trattando dell’integrazione dei musulmani nella società italiana, scrive che «la “difesa”
dell’identità italiana avviene […] a partire dai principi costituzionali, di matrice universalistica; non a partire dagli orientamenti religiosi ed etnici inevitabilmente legati alla specifica identità culturale del paese». In questo passaggio si dà per scontata una serie di assiomi tutti, a parere di chi scrive, da
discutere: a) che i principi costituzionali siano “universali” e super partes e non
rispondano, invece, alle esigenze storicamente e culturalmente condizionate
di una certa porzione di umanità (cfr. ad es. supra le note nn. 9 e 10); b) che i
soggetti e le aggregazioni che si identificano con i contenuti della Costituzione
della Repubblica italiana non configurino un ethnos inteso nel senso tecnico di
«collettività» (BERNARDI B., op. cit., p. 58) caratterizzata da un complesso di
valori, istituzioni, modalità relazionali etc. specifici e qualificabile come “gruppo di interesse”; c) che i gruppi che si fanno promotori dei valori costituzionali non siano portatori del tratto “religioso” tipico delle «ierofanie politiche» (cfr. GENTILE E., op. cit., pp. 16-24), che ne qualificano l’“appartenenza”
anche in contesti democratici (cfr. ID., Religioni civili e religioni politiche, in ID.,
Le religioni della politica, cit., pp. 25-67); d) che gli «orientamenti religiosi […]
legati alla specifica identità culturale del paese» (= i cattolici) non siano interpreti anch’essi di un loro peculiare universalismo (cfr. ad es. DAL LAGO A., op.
cit., p. 10), che, non a caso, li fa essere protagonisti «significativi» dell’attività
di accoglienza degli immigrati [cfr. ad es. ivi, p. 19, nota n. 12; GARELLI F., La
Chiesa in Italia, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 125-126; MACIOTI M.I.-PUGLIESE
E., op. cit., pp. 104-113, 156, 161-162], a qualsiasi cultura/religione essi appartengano; e) che l’islàm non sia anch’esso un universalismo (cfr. ad es. lo
stesso GUOLO R., op. cit., p. 10) di pari dignità rispetto all’universalismo costituzionale. In testi di questo tenore non si fatica a riconoscere, a parere dello
scrivente, una sorta di ingenuità teoretica, che suffraga apoditticamente posizioni di marca schiettamente occidentalista (vd. supra il paragrafo Premessa
metodologica) e secolaristica (cfr. anche GUOLO R., op. cit., p. 105), pure se articolate in una riflessione senz’altro pacata ed intellettualmente onesta.
129
Franz Brandmayr
termini meno assoluti e secondo un’ottica critica autenticamente laica.222
Un’alta concezione dell’uomo, in qualche modo comune a
laici, a cristiani e a musulmani, infatti, quand’anche connotata
da riferimenti ultimi differenti (nel caso dei laici), non esige necessariamente il conflitto fra le parti. L’ostilità insorge inevitabilmente, invece, quando una o due di esse, o tutte assieme convoglino l’attenzione degli attori culturali esclusivamente verso
le differenze, verso ciò che c’è di “unico e irripetibile” nei diversi complessi culturali rimarcandone, magari, l’assoluta alterità
ed inconciliabilità con la dotazione culturale altrui. Quando
questa costruzione sociale della realtà, che – come è noto – si
verifica soprattutto attraverso i media, viene intrapresa in maniera sistematica ed autoreferenziale, può risultarne intensificato il
processo dell’etnicità223 e della contrapposizione fra ghetti culturali. Se queste dinamiche sociali possono essere fonte e fondamento – secondo certuni – di una salutare “persistenza culturale”224 dei singoli gruppi, quando venissero esasperate e comportassero una rinuncia ad una piattaforma di valori e di prati-
222
Cfr. BOBBIO N., Perché non ho firmato il “Manifesto laico”, in MARZO E.-OCONE
C. (a cura di), Manifesto laico, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 127 et passim. Sul
«liberalismo autoritario» nei confronti degli immigrati si esprime, da posizioni di estrema sinistra, DAL LAGO A., op. cit., pp. 10 e 19. Sul liberalismo inteso
come tentativo violento di europeizzazione dell’altro vd., fra i tanti, GEERTZ
C., Mondo, cit., p. 73. Sull’importanza della costante negoziazione e di una
dialettica sociale che non escluda neanche un certo spazio al conflitto vd.
COLOMBO E., op. cit., p. 119.
223
CUCHE D., op. cit., pp. 120-121; SACCHI P., s.v. Etnicità, in FABIETTI U.-REMOTTI F. (a cura di), op. cit., pp. 271-272.
224
BERNARDI U., op. cit., pp. 44-45.
130
Parlare di Islàm
che socio-politiche condivise,225 potrebbero anche produrre una
radicalizzazione dello scontro culturale, quand’anche non una
vera e propria conflittualità civile.
225
È in questo senso che SCIORTINO G., Introduzione, in PARSONS T., op. cit., pp.
15-52 ripropone all’attenzione degli studiosi il «modello a rete» della concezione societaria parsonsiana, nella quale si intende «dimostrare il carattere
non necessario di ogni opposizione tra reti di solidarietà diffusa, anche di
origine ascrittiva [etnie, religioni], e società moderna» (ivi, p. 24; parentesi
quadrata dello scrivente).
131
Per una didattica nuova delle lingue classiche.
Il latino ed il greco secondo il “metodo natura”
di Marina Sergi*
Il cosiddetto “metodo tradizionale” per l’insegnamento del latino e del greco si basa su morfologia e sintassi nonché sulla traduzione di frasi e di brani opportunamente scelti. Solo in una
fase più avanzata, infatti, si affrontano le opere degli autori.
La forma mentis che sta alla base di questa didattica delle lingue
classiche segue un sistema grammaticale-traduttivo perché considera la traduzione come il momento necessario e indispensabile
per la comprensione di un testo: cioè si trasportano semplicemente le frasi latine e greche in italiano. E ciò probabilmente perché nel profondo del nostro sentire alle parole latine e greche non
corrispondono cose e concetti, ma solo altre parole italiane.
Eppure questo sistema, al quale la maggior parte dei docenti
vuole rimanere tenacemente legata, è di introduzione piuttosto
recente, in quanto non risale più indietro del XIX secolo: è il
metodo d’importazione germanica, contro il quale il Pascoli nel
1894, invitato dall’allora ministro Ferdinando Martini «a indagare cause e accennare rimedi di mali» riguardo all’insegnamento del latino nelle scuole, scriveva:1
*
Docente di greco e latino.
Vd. MIRAGLIA L., L’insegnamento del latino nei secoli, in Nova via. Latine doceo,
Accademia Vivarium Novum, Montella (AV) 2009, p. 11.
1
133
Marina Sergi
Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello
scrittore sotto la grammatica, la linguistica. I più volonterosi si
svogliano, si annoiano, si intorpidiscono; e ricorrono a traduttori, non ostinandosi più contro difficoltà che, spesso a torto, credono più forti della loro pazienza. E l’alunno, andando innanzi,
si trova avanti ostacoli sempre più grandi e numerosi; a mano a
che la via si fa più erta e malagevole cresce il peso sulle spalle del
piccolo viatore. Le materie di studio si moltiplicano, e l’arte classica e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane
stanco pur un lampo del loro divino sorriso. Anche nei Licei, in
qualche Liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li adduggia…
A molti, condizionati dalla finalità traduttiva, risulta difficile
immaginare una grammatica diversa da quella che hanno conosciuto personalmente e a cui sono abituati. Una grammatica che
tenta di dare, nella lingua dei discenti, esatte corrispondenze di
forme e strutture residenti nella lingua di partenza.
Fino ad una decina di anni fa non credevo fosse possibile
adottare una didattica diversa da quella grammaticale-traduttiva, quella sulla quale si erano basate la mia formazione, dalla
scuola media al liceo, e la mia lunga attività di insegnamento.
Ma il caso volle che nel 2000 mi venisse offerta l’opportunità
di partecipare ad un interessantissimo convegno sulla didattica
del Latino, convegno che si tenne a Cividale per iniziativa del
prof. Miraglia. Va ascritto a suo merito l’aver divulgato in Italia il
metodo di approccio allo studio del latino denominato “Ørberg”
(dal nome dello studioso danese che lo ha ideato) e di aver scritto
in italiano e diffuso una guida per i docenti, Latine doceo, che è
anche il resoconto della sua esperienza di utilizzo del corso Lingua Latina per se illustrata al Liceo Calamandrei di Napoli.
Il latino è notoriamente considerato una materia “ostica”.
Spesso gli studenti che vi si accostano, appena usciti dalla Scuola Secondaria di Primo Grado, provano una sensazione di smarrimento di fronte alle conoscenze, alle abilità ed alle competen134
Per una didattica nuova delle lingue classiche
ze che si chiede loro di raggiungere in un tempo relativamente
breve: il metodo di lavoro richiesto è del tutto diverso da quello
adottato fino ad allora nello studio della lingua italiana e delle
lingue straniere. In particolare, lo sforzo mnemonico di assimilazione di vocaboli e regole risulta spesso molto pesante e difficile da gestire; al momento, poi, di affrontare i primi testi complessi e di acquisire una tecnica di traduzione, gli studenti sembrano di frequente non trovare negli insegnanti e nei testi di
sussidio didattico una guida adeguata a sviluppare le capacità di
interpretazione e formalizzazione richieste.
Ancora più rilevante è il fatto che anche studenti motivati e
che si accostano con entusiasmo allo studio della nuova materia, spesso spinti da un genuino interesse personale, risultano
frustrati da quella che, nell’insegnamento della lingua, percepiscono come aridità e mancanza di concretezza culturale.
Purtroppo, infatti, gli aspetti più accattivanti dello studio del
latino, consistenti nell’esplorazione della civiltà e della realtà storica e sociale del popolo latino e di tutti quelli che furono riuniti
nell’ecumene romano, vengono tradizionalmente accantonati durante la prima fase di studio, secondo un approccio che antepone,
come indispensabile prerequisito dell’ampliamento culturale, una
conoscenza linguistica (che peraltro mai raggiunge un adeguato
livello) all’analisi delle testimonianze storiche e letterarie.
Così quando, secondo le scansioni tradizionali della programmazione, arriva (talvolta già alla fine del biennio, ma più spesso
all’inizio del triennio) il momento di dedicarsi proprio ad una
conoscenza di prima mano dei documenti e dei testi della cultura latina, gli studenti molto spesso risultano carenti proprio di
quegli strumenti linguistici, effettivamente necessari, che si era
tentato di costruire negli anni precedenti.
Sulla base delle mie esperienze ritengo che ciò sia in larga
misura ascrivibile ad una serie di errori che frequentemente vengono compiuti nelle fasi iniziali dell’insegnamento, soprattutto
quanto alle motivazioni. È mia opinione che tali motivazioni
135
Marina Sergi
possano essere recuperate solo con una maggiore attenzione
alla centralità della persona e, in particolare, ai diversi stili cognitivi
che coesistono all’interno di un “gruppo classe”.
Quello della centralità della persona e della individualizzazione dell’insegnamento è, del resto, un principio ampiamente
accettato. Soprattutto in questi ultimi anni si è ribadito che «lo
studente deve essere posto al centro dell’azione educativa in
tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, estetici, etici,
spirituali. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e
realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui
astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano
precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti
di significato»2.
E tuttavia questi fondamentali principi pedagogici vengono
spesso disattesi nella quotidiana pratica didattica. Ciò per lo più
accade non per cattiva volontà, ma, piuttosto, per l’incapacità di
abbandonare abitudini consolidate e per la convinzione che,
soprattutto nel caso di materie dai contenuti “fermi”, come il
latino e il greco, la “vecchia maniera”, con cui gli insegnanti
stessi si sono formati, sia l’unica in grado di garantire un percorso completo e adeguato agli obiettivi formativi.
Tale concezione, va detto, lascia però dietro di sé troppe “vittime”: sono gli studenti che non raggiungono, alla fine del loro
percorso, una conoscenza soddisfacente delle lingue della cultura classica e che perdono, nel corso degli anni, ogni genuino
interesse per queste discipline.
2
Vd. Indicazioni orientative della Commissione nominata dal Ministro Fioroni
in “Cultura, Scuola, Persona” 2007.
136
Per una didattica nuova delle lingue classiche
Il metodo Ørberg: una possibile alternativa
Una possibile via di uscita dai dilemmi e dai problemi che affliggono la didattica del latino nella scuola contemporanea è offerta, a parere di molti, dal metodo Ørberg, definito anche “metodo natura”.
Necessari per l’applicazione del metodo sono l’adozione ed
il costante utilizzo del libro di testo Lingua Latina per se illustrata.3
Il testo è diviso in due volumi fondamentali, Familia Romana +
Latine disco ( per il livello di base) e Roma Aeterna (per il livello avanzato).4 Esistono poi una serie di strumenti ausiliari, come un Quaderno di esercizi per Lingua latina per se illustrata5 ed il testo aggiuntivo
Latine disco, in edizione compatta, che contiene esercizi, riadattamenti dei brani letti sotto forma di dialogo (Colloquia personarum),
spiegazioni in italiano dei costrutti grammaticali incontrati e commento contenutistico dei vari brani (Enchiridion discipulorum), nonché un vero e proprio compendio grammaticale della struttura
tradizionale, con fonetica, morfologia e sintassi.6 Mentre il testo
base è interamente in latino, i testi ausiliari sono in italiano.
Vi è anche una guida per l’insegnante, Nova via. Latine doceo,
sempre a cura di L. Miraglia, quasi interamente consultabile sul
sito dell’editore.7
In questo compendio sono contenute una lunga prefazione,
che espone la filosofia di azione che sta alla base del metodo, ed
3
Accademia Vivarium Novum 2009, la cui prima edizione risale al 1954.
ØRBERG H.H., Lingua latina per se illustrata. Pars I Familia Romana + Latine
disco; Pars II Roma Aeterna, Accademia Vivarium Novum, Montella (AV)
2009.
5
COOSEMAN P., JANSSENS H., PIJLS D., MAES P., MATHEUSEN L., SELDESLACHTS
H., VANDESSELS R., VANGILBERGEN A., Accademia Vivarium Novum 2003.
6
ØRBERG H.H., op. cit.
7
Vd. http://www.vivariumnovum.it/guida_orberg.htm.
4
137
Marina Sergi
una guida alla strutturazione del corso, all’utilizzo delle diverse
sue parti e alla pianificazione di una lezione tipo.
Nel volume base Familia Romana è contenuta, in trentaquattro capitoli, la storia di una famiglia romana del II secolo d.C.
Fin dalle prime pagine ci si immerge nella lettura di un testo che
ha un intreccio, dei personaggi e uno svolgimento vivace. Questa caratteristica è fondamentale per il coinvolgimento degli alunni, che non avranno l’odiosa impressione di leggere un testo
costruito solo allo scopo di far apprendere regole di grammatica ed eseguire esercizi. Si tratta di un vero romanzo, scritto esclusivamente in latino, che tuttavia può essere letto e capito dalla
prima all’ultima pagina anche da chi all’inizio non conosce nemmeno una parola di latino. Il testo è congegnato in modo che il
significato di tutte le parole e delle forme grammaticali nuove
risulti chiaro dall’insieme del discorso. Così si evita la tortura di
dover consultare continuamente grammatica e dizionario, e si
ha la soddisfazione di poter risolvere tutto da sé, col proprio
ragionamento, mediante un’attività che è anche un’utile ginnastica mentale. E siccome il testo da leggere è istruttivo e piacevole, l’apprendimento del latino si risolve in un lavoro attraente,
anzi, affascinante. Non si deve far credere ai discenti, tuttavia,
che si possa imparare senza nessuna fatica. Per seguire il corso
con profitto bisogna che lavorino con perseveranza e continuità sia l’alunno che l’insegnante.
All’inizio le frasi sono estremamente semplici e la struttura
del periodo è paratattica; a mano a mano che si procede l’ipotassi aumenta, s’introducono nuove forme e strutture, nuovi
vocaboli, sempre ripetendo ciò che è stato studiato nei capitoli
precedenti affinché tutto venga acquisito e fatto proprio. Dopo
l’introduzione del congiuntivo, il periodare si fa gradualmente
più complesso e, alla fine, si perviene anche alla lettura di Catullo, Ovidio e Marziale.
In ogni capitolo abbondano carte geografiche e figure che
hanno il compito di illustrare in modo vivo l’ambiente, i costu138
Per una didattica nuova delle lingue classiche
mi e gli oggetti d’uso comune, edifici d’uso pubblico e privato,
mobilio. Tutto viene ricostruito secondo i dati dell’archeologia.
L’immagine, di solito accompagnata da una dicitura in latino,
conferisce così un significato preciso e vivo alla parola.
Le ultime due sezioni di Latine disco comprendono, oltre ad
una sintesi organica della morfologia, con schemi e tavole illustrate, anche una sistematica trattazione, piuttosto tradizionale,
dei principali temi di sintassi dei casi, del verbo e del periodo.
Ciò non è in contraddizione con un’opera innovativa come Lingua Latina, in cui viene ribaltato il processo di apprendimento e
la norma grammaticale viene prima incontrata nel testo e induttivamente ricavata dal contesto e poi sistematicamente ordinata
e schematizzata.
Fin dall’inizio gli alunni devono abituarsi a collegare direttamente le parole latine con ciò che esse designano; devono insomma capire il latino con il latino ed abituarsi a pensare in
latino. La traduzione in questo corso è intesa come momento di
approdo finale e non come momento necessario per la comprensione del testo: non si deve tradurre per capire, ma capire
per poi eventualmente tradurre. Grazie a questo metodo, dopo
tre anni di lavoro intenso, gli allievi sono in grado di leggere Livio,
Nepote, Sallustio e Cicerone con scorrevolezza, senza annaspare affannosamente nel tentativo di decifrare, vocabolario alla
mano, dieci righe estrapolate da un contesto. Lo scopo del “metodo natura” è che il discente si adusi, senza sforzo eccessivo,
alla lettura intensiva di più pagine, persino di opere intere.
L’insegnante dovrà accertarsi dell’avvenuta comprensione
attraverso specifiche domande contenutistiche (chi ha fatto questo? che cosa fa il personaggio? dove va? con chi parla? che cosa
dice? e così via) e poi chiederà l’equivalente italiano di singoli
vocaboli.
Uno dei primi risultati è che, in un’ora di lezione, invece di
leggere 10-12 righe, come nei corsi tradizionali, si leggono due
o più pagine! Questo evita, nei ragazzi, la noia di dover ragiona139
Marina Sergi
re troppo a lungo su pochi elementi, perdendo di vista la motivazione, e favorisce un’abitudine alla naturalità della lingua latina.
Gli studenti leggono perché vogliono realmente sapere come
va a finire la storia, costruita con artifici narrativi semplici ma
capaci di creare, in ragazzi adolescenti, una certa aspettativa.
Attraverso la lettura divertente si introducono argomenti di civiltà (l’estensione dell’impero romano, la famiglia, la città, le
abitazioni, il calendario, la scuola, le attività produttive, l’esercito), arricchendo in questo modo il bagaglio lessicale: conclusa la
lettura e lo studio del testo Familia Romana, ho potuto appurare
che il vocabolario di base dei miei studenti conteneva all’incirca
2000 parole. Questo mi è sembrato davvero uno dei risultati più
sorprendenti, alla luce della conoscenza media degli studenti di
corsi tradizionali che, spesso anche quasi giunti alla fine del loro
percorso scolastico, non possono rinunciare al vocabolario per
nessuna attività di traduzione e lo usano anche per cercare parole
funzionali, congiunzioni e pronomi di uso comunissimo.
L’insegnamento del greco antico: gli sviluppi
del corso Athenaze
L’entusiastica accoglienza ricevuta dal corso di Hans H. Ørberg
Lingua Latina per se illustrata, e la pressante richiesta da parte di
molti docenti di liceo classico, di poter disporre di un parallelo
corso di greco, ha indotto Luigi Miraglia e Tommaso Francesco
Borri ad impegnarsi per la pubblicazione di uno strumento didattico che potesse realmente condurre i ragazzi a leggere con
la massima scorrevolezza possibile anche la lingua greca.
Il risultato di questo lavoro è il corso Athenaze.8
8
BALME M., LAWALL G., MIRAGLIA L., BORRI T.F., Athenaze. Introduzione al greco
antico, Accademia Vivarium Novum, Montella (AV) 1999.
140
Per una didattica nuova delle lingue classiche
Esso è un adattamento ed ampliamento di AJhenaze. An introduction to ancient Greek, scritto da Maurice Balme, professore
emerito della Harrow school di Harrow-on-the-Hill, in Inghilterra, e da Gilbert Lawall, ordinario di Classics nell’università di
Amherst, del Massachussets, da sempre impegnato nella didattica delle lingue classiche.
Lo scopo del corso è di insegnare a leggere il greco antico
colla maggior rapidità, completezza e diletto possibili, e questo entro il contesto della cultura antica, ossia entro il contesto della vita quotidiana dei greci antichi, com’essa ricevette la
sua forma grazie agli sviluppi storici, ai fatti politici e alla vita
dello spirito.
Anche in questo caso, come per il latino, ci troviamo di fronte ad una storia unitaria, interamente narrata in greco, che si
può capire immediatamente, dopo aver fatto pratica con l’alfabeto e la pronunzia. È la storia di Diceòpoli, un contadino ateniese, e della sua famiglia, in un contesto storico ben preciso, tra
il 432 ed il 431 a.C., durante la guerra del Peloponneso. La storia
è intrecciata con racconti mitologici e inframmezzata dalla narrazione delle grandi battaglie delle guerre persiane, fondata sul
resoconto erodoteo; si apre così la strada per l’accesso ai testi
originali di Erodoto, Platone, Tucidide, che costituiscono il grosso del secondo volume.
Nei capitoli iniziali le letture sono semplici quanto al contenuto e alla struttura grammaticale e sono costruite in maniera
tale che, con l’aiuto del contesto, delle glosse e delle immagini,
si possa leggere e capire il greco secondo un procedimento induttivo, prima di studiare gli aspetti formali della grammatica.
Solo dopo aver letto tutta la storia ed averla capita, si passa
allo studio formale di regole di grammatica e di sintassi, con
esempi presi di solito dal brano letto.
Schemi a margine del testo aiutano a fissare nella memoria le
norme e la flessione nominale e verbale. Seguono esercizi di
vario tipo, che servono a consolidare la comprensione della gram141
Marina Sergi
matica e ad acquisire la capacità di manipolare le forme e le
strutture nuove della lingua mentre le si impara.
In ogni pagina ci sono delle immagini, realizzate da esperti
disegnatori con un’attenzione ai minimi particolari della ricostruzione storica fedele, non per puro scopo esornativo, ma per
dedurre il significato delle didascalie che le accompagnano. Si
perviene così alla comprensione diretta del testo, passando il
meno possibile per la lingua materna del discente, unendo con
immediatezza parole e cose.
Va bene inteso che il vocabolario, che è dato nelle liste alla
fine di ogni capitolo, deve essere imparato tutto quanto, perché la capacità di leggere scorrevolmente e di comprendere dipende dall’acquisizione, la più veloce possibile, di un vasto vocabolario attivo.
Uno degli scopi che vengono per lo più attribuiti allo studio
delle lingue classiche è il miglioramento della comprensione
dell’italiano. Per quel che riguarda lo studio del greco, si tratta di
conoscere le radici, i prefissi e i suffissi greci che compaiono in
parole italiane, nella terminologia scientifica e medica, ma anche nella lingua della politica, della filosofia, della letteratura e
delle arti. Per questo sono state incluse nei capitoli del corso
delle sezioni dedicate allo studio delle parole italiane composte
con elementi di derivazione greca.
In conclusione posso dire di aver verificato, anche in questo
ambito, la bontà del metodo induttivo: per quanto riguarda il
latino, con una classe nel biennio ginnasiale e per quanto riguarda il greco, con la medesima classe, in orario extracurricolare:
gli alunni avevano espresso il desiderio di “provare” il metodo
induttivo anche per l’apprendimento del greco, vista la soddisfazione con cui studiavano il latino con il metodo Ørberg.
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