ALVIN PLANTINGA APPELLO AI FILOSOFI CRISTIANI° Prefazione [rivolta ai cristiani specialisti di altre discipline] Nelle pagine che seguono mi muoverò nella prospettiva del filosofo, e solo di essa, ovviamente, possiedo una conoscenza circostanziata (nella migliore delle ipotesi). Tuttavia sono convinto che molte altre discipline siano assimilabili alla filosofia rispetto a quanto dirò di séguito (sarà poi compito di coloro che esercitano quelle discipline verificare se ho ragione). In primo luogo, non è solo nell'ambito della filosofia che noi cristiani veniamo pesantemente influenzati dal metodo e dalle pratiche dei nostri colleghi non cristiani (va comunque detto che, se si considera la litigiosità dei filosofi e il predominante disaccordo che regna in filosofia, rimanere isolati in questo campo è forse più facile che nella gran parte delle altre discipline). Lo si può dire rispetto a quasi ogni ambito del panorama intellettuale contemporaneo: la storia, la critica artistica e letteraria, la musicologia e le scienze, sia quelle sociali che quelle naturali. In tutti questi campi si danno metodi, assunzioni diffuse circa la natura della disciplina – ad es. la natura della scienza e il suo posto nella generale economia del pensiero –, assunzioni riguardanti come la disciplina dovrebbe essere esercitata e quali proprietà ciascun contributo dovrebbe presentare per essere giudicato valido e così via; noi assorbiamo queste assunzioni, se non con il latte materno per lo meno imparando a praticare le nostre discipline: in tutti questi campi impariamo a praticare le nostre discipline sotto la direzione e l'influenza dei colleghi. Ma in molti casi tali assunzioni e presunzioni non si sposano facilmente con una prospettiva cristiana e teistica. Questo è evidente in molti campi: nella critica letteraria e nella filmologia, dove si scatena l'“anti-realismo creativo” (più avanti spiegherò che cosa intendo con questa espressione); nella sociologia, nella psicologia e nelle altre scienze umane; nella storia e finanche in molta della teologia (liberale) contemporanea. È poi meno evidente ma pur sempre operante nelle cosiddette scienze naturali. Il filosofo australiano J.J.C. Smart ebbe ad osservare che un argomento utile (dal suo punto di vista naturalistico) per convincere dell'errore della loro posizione coloro che credono nella libertà umana consiste nel mostrare che la biologia meccanicistica contemporanea pare non lasciare spazio alla libera volontà umana: per fare un esempio, come avrebbe potuto tale libertà svilupparsi nel processo evoluzionistico? Persino nella fisica e nella matematica, austeri baluardi della ragione ° Pronunciato dall'autore il 4 novembre 1983 all'Università di Notre Dame come allocuzione inaugurale nelle vesti di “John A. O'Brien Professor of Philosophy”, il testo originale compare in «Faith and Philosophy», 1 (1984), 3, pp. 253-271. La Prefazione dedicata agli specialisti di altre discipline non si trova nell'edizione originale dell'articolo né in alcune riedizioni (ad es. in J.F. SENNETT [ed.], The Analytic Theist: an Alvin Plantinga Reader, Eerdmans, Grand Rapids 1998, pp. 296-315); appare invece nella versione online che si può leggere nel sito web della rivista «Faith and Philosophy»: http://www.faithandphilosophy.com/article_advice.php. pura, emergono interrogativi simili. Sono interrogativi che hanno a che fare con i contenuti di queste scienze e il modo in cui esse vengono condotte. Hanno anche a che fare col modo in cui queste discipline – così come sono ordinariamente insegnate e praticate – vengono artificiosamente separate dalle domande riguardanti la natura dell'oggetto di studio, una separazione determinata non da quanto è più consono alla materia in questione ma da una concezione apertamente positivista della natura della conoscenza e della natura dell'attività intellettuale. In terzo luogo, qui, come in filosofia, i cristiani devono mostrare autonomia e integralità. Se davvero la biologia meccanicistica contemporanea non lascia spazio alla libertà umana, va cercato qualcosa di diverso dalla biologia meccanicistica contemporanea, e trovarlo è compito della comunità cristiana. Se la psicologia contemporanea è fondamentalmente naturalistica, è compito degli psicologi cristiani sviluppare un'alternativa che si accordi con la fede cristiana nel soprannaturale, e che muova da verità che dal punto di vista scientifico risultano embrionali, come quella secondo cui Dio ha creato l'umanità a sua immagine. Ovviamente non ho la pretesa di dire ai cristiani specialisti di altre discipline come praticarle correttamente da cristiani: ho già lavoro a sufficienza nel cercare di capire come muovermi correttamente nel mio campo. Tuttavia credo profondamente che il modello mostrato in filosofia vada procurato anche in quasi ogni altro ambito di rigoroso impegno intellettuale. In ciascuno di questi ambiti, le presupposizioni fondamentali e spesso inespresse che governano e dirigono la disciplina non sono neutrali dal punto di vista religioso; sono invece spesso antitetiche a una prospettiva cristiana. In questi ambiti, quindi, come in filosofia, è compito dei cristiani che praticano le discipline in questione sviluppare le alternative che risultano corrette dal punto di vista cristiano. 1. Introduzione Al giorno d'oggi, e nella parte del mondo che abitiamo, il cristianesimo dà segni di vitalità. Molti indizi portano a pensarlo: la crescita di scuole cristiane e di importanti confessioni cristiane conservatrici, l'entusiasmo per la preghiera nelle scuole pubbliche, la disputa tra creazionismo ed evoluzionismo e così via. Anche nell'ambito della filosofia vi è non poca evidenza a sostegno di ciò. Trenta o trentacinque anni fa, la tendenza diffusa negli ambienti filosofici di punta nel mondo di lingua inglese era profondamente non cristiana. Pochi filosofi di rilievo erano cristiani, anche meno erano pronti ad ammettere pubblicamente di esserlo, e ancora meno erano quelli che pensavano che il loro essere cristiani comportasse una reale differenza nella pratica della filosofia. La questione più popolare nella teologia filosofica in quel periodo non era se il cristianesimo o il teismo siano veri ma se abbia senso finanche sostenere che esiste una persona come Dio. In base al positivismo logico allora imperversante, l'affermazione “c'è una persona come Dio” non aveva letteralmente senso, era un nonsenso mascherato, non era in grado di esprimere né un pensiero né una proposizione. L'argomento principale non era se il teismo sia vero ma se davvero ci sia qualcosa come il teismo, un'autentica affermazione relativa a un fatto e che risulti vera o falsa. Ma le cose stanno cambiando. Oggi ci sono molti più cristiani e molti più cristiani addentro nella vita filosofica americana. Ne è un risultato e una testimonianza, per esempio, la nascita della Society for Christian Philosophers, un'organizzazione che offre borse di studio e promuove collaborazione tra filosofi cristiani. Fondata circa sei anni fa, essa è oggi un'affermata organizzazione che dà vita a incontri in ogni parte del Paese e i suoi membri sono fortemente impegnati nella vita filosofica professionale americana. Così il cristianesimo dà segni di vitalità, in filosofia come negli altri ambiti della vita intellettuale. Ma se anche il cristianesimo si sta muovendo, esso ha compiuto solo pochi piccoli passi, e avanza per un territorio che gli risulta largamente estraneo. Ciò poiché il mondo degli intellettuali del nostro tempo è in gran parte profondamente nonteistico e quindi non-cristiano, anzi è addirittura anti-teistico. La maggior parte delle cosiddette scienze umane e molte di quelle non-umane, la gran parte del lavoro intellettuale di ambito non scientifico e finanche una buona parte della teologia presumibilmente cristiana è animata da uno spirito del tutto estraneo a quello del teismo cristiano. Non ho qui lo spazio per elaborare e sviluppare questo punto, e non è neanche necessario farlo giacché risulta familiare a tutti voi. Torniamo dunque alla filosofia: i più dei maggiori dipartimenti di filosofia in America non hanno quasi nulla da offrire allo studente deciso a capire come essere cristiani in filosofia, come valutare ed elaborare il rapporto del cristianesimo con gli argomenti di attuale interesse filosofico, e come riflettere sugli argomenti filosofici che interessano la comunità cristiana. In questo senso, nel tipico dipartimento di filosofia per graduate students ci sarà appena qualcosa di [poco] più di un corso di filosofia della religione nel quale si sostiene che l'evidenza a favore dell'esistenza di Dio – le classiche prove teistiche, insomma – è per lo meno controbilanciata dall'evidenza contraria – magari il problema del male –, e dunque il corso condotto nella maniera più avveduta, in linea con il cosiddetto rasoio di Occam, deve rinunciare all'idea stessa di Dio, per lo meno a scopi filosofici. Il mio obiettivo, in questa sede, è quello di offrire qualche suggerimento ai filosofi che sono cristiani. E sebbene il mio suggerimento sia diretto specificamente ai filosofi cristiani, esso è valido per tutti i filosofi che credono in Dio, siano essi cristiani, ebrei o musulmani. Mi propongo di offrire qualche suggerimento alla comunità filosofica dei cristiani o dei teisti, qualche consiglio riguardante la situazione nella quale ci troviamo. “Chi sei tu – mi si dirà – per dare consigli a noialtri?”. È una bella domanda, e la tratterò come si trattano le domande cui non si sa rispondere: non ne terrò conto. Il mio consiglio lo si può riassumere in due suggerimenti tra loro connessi, accompagnati da un codicillo. Innanzitutto i filosofi cristiani e gli intellettuali cristiani in genere devono mostrare più autonomia, maggiore indipendenza dal resto del mondo filosofico. In secondo luogo, i filosofi cristiani devono mostrare più integrità, integrità nel senso di totalità integrale o di unione o di unità, di quell'unità della quale tutti sono parte. Forse “integralità” sarebbe qui la parola più adatta. In ogni caso, alle due parole è necessario aggiungere una terza: il coraggio del cristiano o la sua audacia o la sua forza o magari la fiducia che ripone in sé. Noi filosofi cristiani dobbiamo mostrare più fede, più fiducia nel Signore: dobbiamo rivestirci dell'armatura completa di Dio. Mi si consenta di spiegare in breve e in via preliminare che cosa ho in mente; poi considererò alcuni esempi in maniera più dettagliata. Prendiamo in considerazione il caso di una studentessa cristiana del college che viene – diciamo così – da Grand Rapids (Michigan) o da Arkadelphia (Arkansas), e che decide di voler studiare filosofia. Piuttosto comprensibilmente frequenterà un corso universitario a livello graduate per imparare a diventare un filosofo. Forse va a Princeton o a Berkeley o a Pittsburgh o in Arizona, non importa dove. Vi impara come si pratica la filosofia oggigiorno. Le questioni scottanti del nostro tempo sono rappresentate da argomenti come la nuova teoria del riferimento, la disputa tra realismo e anti-realismo, le questioni relative alla probabilità, le affermazioni di Quine circa la radicale indeterminatezza della traduzione, la teoria di Rawls sulla giustizia, la teoria causale della conoscenza, il problema di Gettier, il modello di intelligenza artificiale per capire che cos'è una persona, la questione dello statuto ontologico delle entità non osservabili nella scienza, se è possibile un'autentica oggettività nella scienza o in qualsiasi altro ambito, se la matematica può essere ridotta all'insiemistica e se in generale è possibile fare a meno delle entità astratte – numeri, proposizioni, proprietà –, se i mondi possibili sono astratti o concreti, se le nostre affermazioni sono comprese al meglio come mere mosse di un gioco linguistico o come tentativi di determinare la semplice verità riguardo al mondo, se si può mostrare che l'egoista razionale è irrazionale e così via. Risulta allora naturale per la studentessa in questione, dopo aver conseguito il proprio dottorato, continuare a riflettere e a lavorare intorno a questi argomenti. E risulta naturale inoltre lavorarci seguendo il metodo che le è stato insegnato, riflettendoci alla luce delle assunzioni avanzate dai suoi maestri e nei termini delle idee correntemente accettate per quanto riguarda da dove il filosofo dovrebbe partire nella propria riflessione o che cosa dovrebbe dare per scontato, che cosa richiede argomentazione e difesa e come deve essere una spiegazione filosofica soddisfacente o una risposta appropriata a una domanda filosofica. La studentessa sarà a disagio dinanzi all'ipotesi di abbandonare per buona parte questi argomenti e queste assunzioni, avvertendo istintivamente che qualsiasi scostamento risulterebbe nel migliore dei casi appena accettabile. La filosofia è un'impresa comune, e i nostri criteri e le nostre assunzioni – i parametri in base ai quali mettiamo a frutto la nostra abilità – sono forniti dai nostri mentori e dai grandi centri di filosofia del tempo cui apparteniamo. Da un punto di vista questo è naturale e corretto, ma da un altro punto di vista è profondamente insoddisfacente. Le questioni che ho menzionato sono importanti e interessanti, tuttavia i filosofi cristiani sono i filosofi della comunità cristiana, ed è parte del loro compito in quanto filosofi cristiani servire la comunità cristiana. E questa ha le sue questioni, i suoi interessi, i suoi oggetti di indagine, il suo ordine del giorno e i suoi programmi di ricerca. I filosofi cristiani non devono solo limitarsi a lasciarsi ispirare da quanto accade a Princeton o a Berkeley o a Harvard, per quanto brillante e avvincente possa apparire, perché forse gli argomenti e le questioni che si trattano in quelle sedi non sono quelli, o non sono solo quelli, sui quali dovrebbero riflettere in quanto filosofi appartenenti alla comunità cristiana. Vi sono altri argomenti filosofici sui quali la comunità cristiana deve impegnarsi, altri argomenti ai quali essa deve lavorare. E ovviamente sono i filosofi cristiani quelli che devono svolgere il lavoro filosofico in questione. Se essi dedicano il più dei propri sforzi agli argomenti in voga nel mondo filosofico non-cristiano, avranno tralasciato un aspetto cruciale e decisivo del compito che hanno in quanto filosofi cristiani. Ciò che si richiede qui è più indipendenza, più autonomia rispetto ai progetti e agli interessi del mondo filosofico non-teistico. Ma vi è qualcos'altro che risulta per lo meno altrettanto importante. Supponiamo che la studentessa già menzionata vada a Harvard, dove studia con Willard van Orman Quine. Si ritrova attratta dai programmi e dai metodi di Quine: il suo radicale empirismo, la sua fedeltà alla scienza naturale, la sua propensione al behaviorismo, il suo intransigente naturalismo e il suo gusto per i paesaggi desertici e per la parsimonia ontologica. Sarebbe del tutto naturale per la suddetta studentessa venire totalmente assorbita da questi progetti e da questi programmi, e giungere a ritenere che, solo se fondamentalmente circoscritta da essi, la filosofia risulta fruttuosa e meritevole di essere praticata. Ovviamente essa rileverà certe tensioni tra la propria fede cristiana e il proprio modo di praticare la filosofia, e potrebbe quindi rivolgere i propri sforzi a tenerle assieme, per armonizzarle. Potrebbe dedicare il proprio tempo e le proprie energie a capire come comprendere e interpretare la credenza cristiana in modo da renderla gradita al Quineano. Un filosofo di mia conoscenza, imbarcatosi proprio in un progetto come questo, sosteneva che i cristiani dovessero pensare a Dio come a un insieme (Quine è disposto ad ammettere gli insiemi): magari l'insieme di tutte le proposizioni vere o l'insieme delle azioni giuste o l'unione di quegli insiemi, o forse il loro prodotto cartesiano. Questo è comprensibile, ma è anche profondamente sbagliato. Quine è un filosofo di straordinario talento: un'intelligenza filosofica sottile, originale e potente. Ma i suoi programmi, i suoi progetti e interessi di fondo, sono totalmente diversi da quelli della comunità cristiana, totalmente diversi e, in verità, ad essi antitetici. Il tentativo di innesto del pensiero cristiano nella sua generale visione del mondo risulterà nella migliore delle ipotesi un'accozzaglia di motivi, nel peggiore dei casi comprometterà seriamente o distorcerà o banalizzerà le affermazioni del teismo cristiano. È richiesta dunque più interezza, più integralità. Così il filosofo cristiano ha i suoi propri argomenti e progetti cui dedicarsi, e quando rifletterà sugli argomenti in voga nel più vasto mondo filosofico, egli farà ciò a suo modo, in una maniera che potrebbe essere diversa. Potrebbe dover rifiutare certe assunzioni di moda relative all'impresa filosofica, potrebbe dover rifiutare posizioni largamente condivise circa i punti di partenza e i metodi del lavoro filosofico. Il filosofo cristiano insomma – ciò è di cruciale importanza – ha tutto il diritto al punto di vista e alle assunzioni pre-filosofiche che egli porta con sé nell'opera filosofica; il fatto che queste non siano ampiamente condivise all'esterno della comunità teistica o cristiana è degno di interesse, ma è fondamentalmente irrilevante. Posso ora esporre al meglio il mio pensiero servendomi di alcuni esempi, così scenderò dal livello della generalità a quello dei casi specifici. 2. Teismo e verificabilità Innanzitutto il temuto “criterio di verificabilità del significato”. Ai tempi gloriosi del positivismo logico, circa trenta o quarant'anni fa, i positivisti sostenevano che al più degli enunciati che i cristiani pronunciano usualmente – “Dio ci ama”, ad esempio, o “Dio creò il cielo e la terra” – non è concesso neanche di essere falsi; essi sono, così dicevano i positivisti, letteralmente privi di significato. Non che esprimano affermazioni false: essi non esprimono proprio alcuna affermazione. Come quel verso divertente di Alice nel paese delle meraviglie: “Al prepario i svatti marchi, tortellavan per il diano”1, essi non dicono nulla di falso, ma solo perché non dicono proprio nulla, sono “cognitivamente privi di significato”, per usare l'espressione ammaliante del positivista. Le varie affermazioni che teisti e non solo teisti andavano facendo da secoli – dicevano i positivisti – si mostravano ora prive di senso; noi teisti eravamo stati tutti vittime – così sembrava – di una crudele mistificazione, magari perpetrata da preti ambiziosi e favorita dalla nostra creduloneria. Ora, se questo è vero, è certamente decisivo. Ma i positivisti come si erano dotati di una così sorprendente acutezza? La ricavavano dal criterio di verificabilità del significato, stando al quale, fondamentalmente, un giudizio è significativo solo se è analitico oppure se la sua verità o falsità può essere determinata per mezzo dell'indagine scientifica o empirica, per il tramite dei metodi delle scienze empiriche [ma ciò non si applica al principio stesso!]. Su queste basi, non solo il teismo e la teologia ma la gran parte della metafisica e della filosofia tramandate e molto altro ancora fu considerato un nonsenso, completamente privo di ogni significato. Alcuni positivisti concedevano che metafisica e teologia, sebbene in senso stretto prive di significato, potevano ancora avere un qualche limitato valore. Carnap, ad esempio, le pensava come una sorta di musica. Non si sa se si aspettasse che teologia e metafisica rimpiazzassero Bach e Mozart o Wagner, ma, per quanto mi riguarda, credo che avrebbero potuto prendere con soddisfazione il posto del rock. Hegel avrebbe potuto sostituire i Talking Heads, Immanuel Kant i Beach Boys, e al posto dei Grateful Dead avremmo potuto avere – diciamo così – Arthur Schopenhauer. Il positivismo risultava d'avanguardia e alla moda, e molti filosofi lo trovavano estremamente sollecitante. Per di più molti che pure non lo appoggiavano lo accoglievano con grande disponibilità, come se esso fosse per lo meno assai plausibile. La conseguenza di ciò fu che molti filosofi, cristiani e non cristiani, ci videro una sfida reale e un pericolo notevole per il cristianesimo. Nel 1955 J.J.C. Smart sostenne che «il pericolo principale per il teismo al giorno d'oggi viene da chi ritiene che le espressioni “Dio esiste” e “Dio non esiste” sono ugualmente irragionevoli». Nello stesso anno apparve New Essays in Philosophical Theology2, un volume collettaneo che doveva segnare nello stile e nella scelta degli argomenti la filosofia della religione nel decennio successivo e oltre: molto di quel libro era dedicato a discutere l'impatto del verificazionismo sul teismo. Molti cristiani con interessi filosofici rimasero turbati e perplessi, e si avvertirono profondamente minacciati: era possibile che i filosofi del linguaggio avessero in qualche modo scoperto che le convinzioni più care ai cristiani erano proprio senza significato? In tanti si torcevano ansiosamente le mani tra i filosofi, sia teisti che favorevoli al 1 È il primo verso di Jabberwocky, il poemetto nonsense che si legge in Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, séguito di Alice nel paese delle meraviglie pubblicato nel 1871. Lo riporto qui in una delle indefinite possibili traduzioni italiane, quella di A. Valori-Piperno: L. CARROLL, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio, trad. it. Newton Compton, Roma, 2010, III ed., p. 134 (n.d.T.). 2 A. FLEW – A. MACINTYRE (eds.), New Essays in Philosophical Theology, SCM Press, London 1955 (n.d.T.). teismo. Qualcuno suggeriva, dinanzi all'attacco furioso del positivismo, che la comunità cristiana dovesse ripiegare le tende e filare via in silenzio, ammettendo così che probabilmente il criterio di verificabilità era vero. Altri concedevano che a rigor di termini il teismo è davvero un nonsenso, ma che è comunque un nonsenso importante. Altri ancora proponevano che le affermazioni in oggetto dovessero essere reinterpretate in modo da non contravvenire a quanto i positivisti sostenevano; qualcuno ad esempio avanzò seriamente la proposta che i cristiani decidessero per il futuro di usare l'affermazione “Dio esiste” per significare: “alcuni uomini e alcune donne hanno fatto, e quindi tutti potrebbero fare, esperienze chiamate 'incontro con Dio'”; e aggiungeva che quando diciamo: “Dio creò il mondo dal nulla”, ciò che dovremmo intendere è: “qualunque cosa noi chiamiamo 'fisico' può essere usata per contribuire al benessere dell'uomo”. In un altro contesto, ma nel medesimo spirito, Rudolf Bultmann intraprese il suo programma di demitologizzare il cristianesimo. La tradizionale fede cristiana nel soprannaturale – così diceva – è “ormai impossibile nel tempo della luce elettrica e della radio” (ma si potrebbe forse immaginare un villaggio primitivo con un'analoga visione scettica, magari dovuta alla candela di sego e alla macchina tipografica, o alla teda e al papiro di scorrimento). Ovviamente il verificazionismo è ormai passato nel dimenticatoio (era quello che meritava), ma la morale rimane. Quel torcersi le mani e quei tentativi di conciliarsi col positivista erano del tutto fuori luogo. So bene che del senno di poi son piene le fosse, e dunque non riprendo questo pezzo della storia recente del pensiero per criticare chi ci ha preceduto o per insinuare che noi siamo più avveduti dei nostri padri; ciò che voglio mostrare è che possiamo imparare qualcosa dall'insieme di un caso così imbarazzante, poiché i filosofi cristiani avrebbero dovuto adottare un comportamento alquanto diverso nei confronti del positivismo e del suo criterio di verificabilità. Avrebbero dovuto dire ai positivisti: “Il vostro criterio è scorretto, in quanto affermazioni quali 'Dio ci ama' e 'Dio creò i cieli e la terra' possiedono un significato preciso; per cui, se esse non sono verificabili nel vostro senso, allora è falso che tutte e solo le affermazioni verificabili in quel senso possiedono un significato”. Sarebbe occorso un minore compromesso con la moda del momento e una maggiore sicurezza di sé come cristiani: il teismo cristiano è vero, e se il teismo cristiano è vero, allora il criterio di verificabilità è falso; dunque il criterio di verificabilità è falso. Naturalmente se i verificazionisti avessero portato argomenti persuasivi a sostegno del loro criterio, a partire da premesse che pensatori cristiani e teisti potevano legittimamente accogliere, allora questo avrebbe costituito forse un problema per il filosofo cristiano; allora saremmo stati obbligati o a concordare sul fatto che il teismo cristiano è cognitivamente privo di significato oppure a correggere o a rigettare quelle premesse. Ma i verificazionisti non hanno mai dato alcun valido argomento: a dire il vero, argomenti ne hanno forniti raramente. Semplicemente, qualcuno strombazzava questo principio come una scoperta straordinaria e, se trovava opposizione, lo ripeteva a voce più alta e ben scandita; ma perché questo doveva turbare? Qualcun altro lo propose come una definizione, una definizione della parola “significativo”. Ora, i positivisti avevano ovviamente il diritto di usare questa parola come essi ritenevano più opportuno: siamo in un paese libero. Ma come poteva la loro decisione di assumere il termine in un certo significato mostrare qualcosa di così decisivo che tutti coloro i quali si ritenevano credenti in Dio dovessero risultare completamente ingannati? Se io proponessi di usare la parola “Democratico” per significare “mascalzone matricolato”, ne seguirebbe forse che per ogni dove i Democratici dovrebbero abbassare il capo per la vergogna? La mia tesi – per ripetermi – è che i filosofi cristiani avrebbero dovuto esibire maggiore integrità, maggiore indipendenza, minor premura nell'orientare le vele secondo i filosofici venti di dottrina prevalenti, e maggiore sicurezza di sé in quanto cristiani. 3. Teismo e teoria della conoscenza Il secondo esempio posso affrontarlo al meglio in modo indiretto. Molti filosofi vanno sostenendo di rinvenire un serio problema per il teismo nell'esistenza del male o nella portata e nelle forme del male di cui effettivamente abbiamo esperienza. Molti che pretendono di trovarvi un problema per i teisti adducono l'argomento deduttivo dal male: sostengono che l'esistenza di un Dio onnipotente, onnisciente e assolutamente buono sia logicamente incompatibile con la presenza del male nel mondo, una presenza tuttavia concessa dai testi cristiani e sulla quale peraltro essi stessi insistono. Da parte loro i teisti affermano che non si dà in questo caso alcuna contraddizione. Personalmente ritengo che oggi vi sia consenso, finanche tra coloro che adducono qualche tipo di argomento dal male, sul fatto che esso non risulti vittorioso. Di recente alcuni filosofi hanno sostenuto che l'esistenza di Dio, quantunque non sia forse contraddittoria con la portata e le forme del male di cui abbiamo esperienza, è ad ogni modo improbabile e inverosimile; vale a dire che la probabilità dell'esistenza di Dio rispetto al male che conosciamo è minore della probabilità che sempre rispetto alla medesima evidenza non ci sia un Dio, il Creatore onnipotente, onnisciente e assolutamente buono. Perciò l'esistenza di Dio risulta improbabile in base a quanto conosciamo. Ma se la credenza teistica è improbabile nel confronto con le nostre conoscenze, allora – così procede il ragionamento – essa è irrazionale o in ogni caso accettarla è scelta di second'ordine dal punto di vista intellettuale. Ora, ipotizziamo di esaminare brevemente questa affermazione. L'obiettore sostiene che: 1) Dio è il creatore del mondo, onnipotente, onnisciente e assolutamente buono risulta improbabile e inverosimile in base al fatto che 2) Ci sono 1013 trementine di male (dove la trementina è l'unità di base di male). [Il male è permesso da Dio] Ho sostenuto altrove3 che l'affermazione secondo cui (1) è improbabile o inverosimile una volta dato (2) incontra enormi difficoltà. Chiamiamo quella risposta “replica della via breve”. Qui voglio portarne avanti una più ragionata, che chiamerò “replica della via lunga”. Supponiamo di accordarci, ai fini dell'argomentazione, sul 3 Cfr. The Probabilistic Argument from Evil, «Philosophical Studies», 35 (1979) 1, pp. 1-53. fatto che (1) è effettivamente improbabile una volta dato (2). Conveniamo che risulti inverosimile, data l'esistenza di 1013 trementine di male, che il mondo sia stato creato da Dio il quale è perfetto in potenza, conoscenza e bontà. Che cosa ne deve conseguire? Come deve essere interpretato ciò al fine di costituire un'obiezione alla credenza teistica? Come procede l'argomentazione dell'obiettore? Ovviamente non ne segue che il teismo sia falso. E neanche segue che, se si accettano sia (1) che (2) (e aggiungiamo pure: se si riconosce che [1] è inverosimile dato [2]), si abbia un sistema irrazionale di credenze oppure si commetta in qualche modo una scorrettezza dal punto di vista intellettuale: è manifesto che potrebbero darsi coppie di proposizioni A e B tali che ammettiamo sia A che B nonostante che A sia improbabile una volta dato B. Potrei sapere ad esempio che Feike è un frisiano e che 9 su 10 i Frisiani non nuotano, e anche che Feike nuota; sarei quindi evidentemente nel pieno dei miei diritti dal punto di vista intellettuale di accettare entrambe queste proposizioni, anche se la seconda risultasse improbabile una volta data la prima. Così, anche se costituisse un fatto che (1) è improbabile dato (2), quel fatto, stando a quanto detto finora, non comporterebbe chissà quali conseguenze. Come può dunque essere sviluppata questa obiezione? Presumibilmente ciò che l'obiettore intende sostenere è che (1) è improbabile non proprio in relazione a (2) ma a un'adeguata quantità di evidenza totale, forse tutte le evidenze del teista o forse l'insieme di evidenze che egli è razionalmente tenuto ad avere. L'obiettore deve star supponendo che il teista è in possesso di una notevole quantità di evidenza totale che include (2), e la sua tesi è che (1) risulta improbabile data questa notevole quantità di evidenza totale. Supponiamo che Ts è l'adeguata quantità di evidenza totale per un dato teista T, e supponiamo di essere d'accordo che sia per lui razionalmente accettabile solo quanto non presenta improbabilità nel confronto con Ts. Ora, che tipo di proposizioni devono trovarsi in Ts? Forse quelle che egli sa essere vere, o forse il più ampio sottoinsieme delle sue credenze che egli può razionalmente accettare senza evidenza di altre proposizioni, o forse le proposizioni che egli conosce in modo immediato, che conosce ma non in base ad altre proposizioni. Per quanto esattamente caratterizziamo questo insieme Ts, la domanda su cui intendo insistere rimane questa: perché la credenza in Dio non può essa stessa costituire un membro di Ts? Forse per il teista – per molti teisti sicuramente – la credenza in Dio è un membro di Ts, nel qual caso ovviamente non risulterà improbabile rispetto a Ts. Forse il teista ha il diritto di iniziare dalla credenza in Dio se la considera tale che la sua probabilità determina la razionalità delle altre credenze. Ma se è così, il filosofo cristiano è nel pieno dei propri diritti quando inizia a filosofare dalla credenza in Dio. Egli ha diritto di dare l'esistenza di Dio per scontata e di procedere da lì nel proprio lavoro filosofico, proprio come altri filosofi danno per scontata l'esistenza del passato – diciamo così – o delle altre persone, o le affermazioni di base della fisica contemporanea. E questo mi conduce ora alla mia tesi. Molti filosofi cristiani sembrano vedersi, qua filosofi, impegnati insieme al filosofo ateo e a quello agnostico in una comune ricerca della posizione filosofica corretta rispetto alla questione se c'è una persona come Dio. Il filosofo cristiano naturalmente avrà la sua propria convinzione in merito, egli naturalmente crederà che davvero c'è una persona come Dio. Ma penserà o tenderà a pensare o tenderà almeno in parte a pensare che, come filosofo, non ha diritto ad assumere questa posizione a meno che non sia capace di mostrare che essa segue da o è verosimile o è giustificata in base alle premesse accettate da tutte le parti implicate nella discussione: il teista, l'agnostico e l'ateista in egual misura. Inoltre egli sarà in parte incline a pensare di non avere diritto, in quanto filosofo, a posizioni che presuppongono l'esistenza di Dio se non è in grado di mostrare che una tale credenza è giustificata in questo modo. Ciò che voglio mettere in evidenza è che la comunità filosofica cristiana non deve ritenersi impegnata in uno sforzo comune per determinare la probabilità o la plausibilità filosofica della credenza in Dio. Il filosofo cristiano davvero appropriatamente parte dall'esistenza di Dio e la presuppone nel proprio lavoro filosofico, che possa o che non possa mostrarla come verosimile o plausibile rispetto alle premesse accettate da tutti i filosofi o dalla maggior parte dei filosofi impegnati presso i grandi centri di filosofia contemporanei. Dando per certo, ad esempio, che c'è una persona come Dio e che noi siamo veramente entro i nostri diritti dal punto di vista epistemologico (siamo cioè giustificati in questo senso) nel credere che è così, l'epistemologo cristiano potrebbe chiedere che cos'è che conferisce la giustificazione: il teista in base a che cosa è giustificato? Forse ci sono varie risposte ragionevoli. Una risposta che egli potrebbe dare e provare a sviluppare è quella di Giovanni Calvino (e prima di lui, della tradizione medioevale agostiniana, anselmiana, bonaventuriana): Dio – diceva Calvino – ha impresso nell'umanità una tendenza o un nisus o una disposizione a credere in lui: La conoscenza di Dio è naturalmente radicata nello spirito dell'uomo. Consideriamo fuori dubbio che gli uomini abbiano in sé, per naturale sentimento, una percezione della divinità. Infatti, ad evitare che qualcuno potesse prevalersi dell'ignoranza come di una scusa, Dio ha impresso in tutti una conoscenza di se stesso, di cui rinnova il ricordo, quasi goccia a goccia. […] Poiché dunque fin dal principio del mondo non c'è stato paese né città né casa che abbia potuto far a meno della religione, dobbiamo concludere che tutto il genere umano ha riconosciuto che giaceva nel proprio cuore una qualche idea della divinità 4. La tesi di Calvino è quindi che Dio ci ha creati in modo tale che per natura siamo in possesso di una forte tensione o inclinazione o disposizione a credere in lui. Sebbene tale disposizione a credere in Dio venga in parte soffocata e soppressa dal peccato, tuttavia essa è universalmente presente, ed è stimolata e messa in moto da condizioni ampiamente soddisfatte: Affinché nessuno risultasse privo di questa conoscenza [nel testo riportato da Plantinga: “happiness”; n.d.T.], egli ha non solo posto nello spirito degli uomini quel germe di religione, di cui abbiamo parlato, ma si è anche manifestato a loro nella struttura mirabile del cielo e della terra, e quotidianamente vi si rivela, talché non possono aprire gli occhi senza essere costretti a percepirlo5. Come Kant, Calvino è particolarmente impressionato dalla meravigliosa compagine dei cieli stellati sopra di noi: 4 G. CALVINO, Istituzione della religione cristiana, I, 3 (trad. it. di G. Tourn, Utet, Torino 1971, pp. 143 s.). 5 Ibi, I, 5 (trad. it. cit., p. 152). Finanche i semplici e i più ignoranti, i quali conoscono unicamente per l'aiuto della loro vista, non possono ignorare l'eccellenza dell'arte divina, perché essa si rivela nella varietà innumerevole eppure ben ordinata delle stelle6. Le parole di Calvino suggeriscono che, se si segue questa tendenza e si accetta in queste circostanze la credenza secondo cui Dio ha creato il mondo – forse in base al fatto di mirare i cieli stellati o la splendida imponenza delle montagne o l'intricata, articolata bellezza di un minuscolo fiore –, si è razionali e giustificati quanto chi crede di vedere un albero in base al fatto di avere l'esperienza dell'apparire tipico dell'albero. Non vi sono dubbi che una simile proposta non convincerà lo scettico: se assunta come un tentativo di convincerlo, essa è circolare. La mia tesi è solo questa: che il cristiano ha le sue proprie domande cui rispondere, e i suoi progetti; questi progetti potrebbero non andare d'accordo con quelli del filosofo scettico o non credente. Egli ha le sue proprie questioni e il suo proprio punto di partenza da cui muovere per investigarle. Naturalmente non intendo sostenere che il filosofo cristiano debba accettare la risposta di Calvino alla domanda menzionata sopra; voglio solo affermare che per lui è del tutto appropriato dare alla domanda una risposta che presuppone precisamente ciò intorno a cui lo scettico è appunto scettico, anche se questo scetticismo risulta quasi unanime nella gran parte dei prestigiosi dipartimenti di filosofia dei nostri giorni. È vero, il filosofo cristiano ha una responsabilità dinanzi al mondo filosofico in generale, ma la sua responsabilità è fondamentalmente nei confronti della comunità cristiana e, in definitiva, nei confronti di Dio. Inoltre un filosofo cristiano potrebbe essere interessato alla relazione tra fede e ragione e tra fede e conoscenza: ammesso che noi sosteniamo alcune cose per fede mentre altre le conosciamo, ammesso che noi crediamo che c'è una persona come Dio e che questa credenza è vera; che Dio esiste lo sappiamo anche? Accettiamo tale credenza per fede o per ragione? Un teista potrebbe propendere per una teoria affidabilista della conoscenza; potrebbe essere inclinato a pensare che una credenza vera costituisce conoscenza se deriva da un meccanismo affidabile di produzione delle credenze (qui emergono problemi di difficile soluzione, ma supponiamo per ora di ignorarli). Se il teista ritiene che Dio ci ha creati con il sensus divinitatis di cui parla Calvino, sosterrà che vi è davvero un meccanismo affidabile di produzione delle credenze all'origine della credenza teistica; egli dunque riterrà che noi sappiamo che Dio esiste. Chi segue Calvino riguardo a ciò sosterrà anche che la capacità di comprendere l'esistenza di Dio è parte del nostro equipaggiamento noetico o intellettuale esattamente quanto lo è la capacità di comprendere verità della logica, verità della percezione, verità circa il passato e verità circa le altre menti. La credenza nell'esistenza di Dio è dunque sulla stessa barca della credenza circa le verità concernenti la logica, le altre menti, il passato e gli oggetti della percezione; in ciascuno di questi casi Dio ci ha fatti in modo tale che nelle circostanze giuste noi acquisiamo la credenza in questione. Ma allora la credenza secondo cui c'è una 6 Ibidem (non ho seguito in questo caso la traduzione italiana sopracitata, perché non congruente col testo riportato da Plantinga). persona come Dio è tra i dettami delle nostre naturali facoltà cognitive tanto quanto lo sono quelle altre credenze. Da qui noi sappiamo che c'è una persona come Dio e non lo crediamo soltanto; non è per fede che apprendiamo l'esistenza di Dio ma per ragione, e questo indipendentemente dal fatto che un qualsiasi argomento teistico classico risulti vittorioso. Ora, la mia tesi non è che i filosofi cristiani debbano seguire Calvino in questo. Io sostengo che il filosofo cristiano ha il diritto – dovrei dire il dovere – di impegnarsi sui suoi propri progetti, i progetti posti dalle credenze della comunità cristiana di cui egli fa parte. La comunità filosofica cristiana deve trovare le risposte alle proprie domande, e queste, come pure le vie appropriate per trovare le risposte, potrebbero presupporre le credenze rigettate presso la gran parte dei centri filosofici di punta. Ma il cristiano procede del tutto appropriatamente nel partire da queste credenze, anche se esse vengono appunto rigettate. Egli non ha alcun obbligo di confinare i propri progetti di ricerca nell'ambito di quelli perseguiti presso i centri cui mi sono riferito, né è obbligato a condurre le sue proprie ricerche sulla base delle assunzioni che là prevalgono. Può darsi che possa ulteriormente chiarire quanto voglio dire per contrasto con una prospettiva completamente differente. Secondo il teologo David Tracy, di fatto il teologo cristiano moderno da un punto di vista etico non può fare altro che sfidare la tradizionale autocomprensione del teologo. Non vede più il proprio compito come una semplice difesa o almeno una reinterpretazione ortodossa della credenza tradizionale. Egli trova piuttosto che il proprio impegno nei confronti della moralità della conoscenza scientifica lo costringe ad assumere una posizione critica verso le proprie credenze e verso le credenze della propria tradizione... In principio, la fondamentale lealtà del teologo qua teologo è verso quella moralità della conoscenza scientifica che egli condivide con i propri colleghi, i filosofi, gli storici, i cultori delle scienze sociali. Egli non può – non più di quanto lo facciano loro – permettere alle credenze tradizionali o alle sue proprie credenze di servire da garanzia per i suoi argomenti. Infatti, in ogni indagine propriamente teologica, l'analisi dovrebbe essere caratterizzata da quelle medesime posizioni etiche di giudizio autonomo e critico e da quella severa rettitudine propriamente scettica che caratterizza l'analisi negli altri campi7. Inoltre questa «moralità della conoscenza scientifica sostiene che ogni ricercatore inizi dai metodi correnti e dai contenuti del campo in questione, a meno che non sia in possesso di evidenze dello stesso tipo dal punto di vista logico utili a giustificare l'abbandono di quei metodi e di quei contenuti». Ancora, «per la nuova moralità scientifica, la lealtà fondamentale di un analista di questa o quella posizione deve essere rivolta unicamente a quelle procedure metodologiche sviluppate dalla comunità scientifica in questione »8. Io direi: caveat lector. Sono pronto a scommettere che questa “nuova moralità scientifica” è come il Sacro Romano Impero: non è né nuova né scientifica né moralmente obbligatoria. Inoltre la “nuova moralità scientifica” mi sembra del tutto infausta per un teologo cristiano, moderno o non moderno. Se anche vi fosse un insieme di procedure metodologiche seguite in comune dalla gran parte dei filosofi, degli storici e degli scienziati sociali, o dalla gran parte dei filosofi, degli storici e 7 D. TRACY, Blessed Rage for Order, Seabury Press, New York 1978, p. 7. 8 Ibi, p. 6. degli scienziati sociali laici, perché mai un teologo cristiano dovrebbe riconoscere massima devozione ad essi anziché – per dire – a Dio o alle verità fondamentali del cristianesimo? La proposta di Tracy riguardo a come i teologi cristiani dovrebbero procedere sembra nel migliore dei casi ben poco promettente. Ovviamente io sono solo un filosofo, non un teologo moderno: senza dubbio mi sto arrischiando oltre il mio campo. Quindi non presumo di parlare a nome dei teologi moderni. Tuttavia, comunque stiano le cose per loro, il filosofo cristiano moderno ha ogni diritto, come filosofo, di muovere dalla propria credenza in Dio. Ha il diritto di assumerla, di darla per certa nel proprio lavoro filosofico, sia che possa sia che non possa convincere i propri colleghi non credenti del fatto che questa credenza è vera oppure del fatto che essa risulta ratificata da quelle “procedure metodologiche” menzionate da Tracy. La comunità filosofica cristiana deve procedere con le questioni filosofiche che la riguardano. Deve andare avanti con il progetto di esplorare e sviluppare le implicazioni del teismo cristiano rispetto a tutta la gamma dei problemi che i filosofi pongono e risolvono. Deve fare questo sia che possa sia che non possa convincere la comunità filosofica in generale che esiste davvero una persona come Dio oppure che è razionale o ragionevole credere che esiste. Può darsi che il filosofo cristiano possa convincere il filosofo scettico o non credente che davvero esiste una persona come Dio; può darsi che questo sia possibile per lo meno in alcuni casi. In altri casi, ovviamente, potrebbe essere impossibile. Anche se lo scettico di fatto accetta premesse dalle quali la credenza teistica consegue mediante forme dell'argomento che anche lui accetta, egli potrebbe, una volta resosi conto di ciò, rinunciare a quelle premesse piuttosto che alla sua non credenza (in questo modo è possibile ridurre qualcuno dalla conoscenza all'ignoranza fornendogli un argomento che egli sa essere valido a partire da premesse che egli sa essere vere). Ma che questo sia possibile oppure no, il filosofo cristiano ha altro pesce da friggere e altre questioni cui pensare. Naturalmente egli deve ascoltare, capire e imparare dalla comunità filosofica in generale, e deve prendere posto in essa; ma il suo lavoro come filosofo non è circoscritto da ciò che lo scettico o il resto del mondo filosofico pensano del teismo. Giustificare o tentare di giustificare la credenza teistica agli occhi della più vasta comunità filosofica non è il solo compito della comunità filosofica cristiana, forse non è neanche tra i compiti più importanti. La filosofia è un impegno comune. Il filosofo cristiano che guarda esclusivamente al mondo filosofico in generale e che si ritiene innanzitutto appartenente a quel mondo, corre un doppio rischio: potrebbe trascurare una parte essenziale del suo compito come filosofo cristiano e potrebbe trovarsi ad adottare principi e metodi che non si armonizzano con le credenze di cui è in possesso in quanto cristiano. Ciò che è richiesto, ancora una volta, è autonomia e integralità. 4. Teismo e persone Il mio terzo esempio riguarda l'antropologia filosofica: come dovremmo riflettere sulle persone umane? Che tipo di oggetti sono? Come va intesa una persona, come va intesa una persona umana, come rifletteremo sulla personalità? Più in particolare, come dovrebbero i cristiani, i filosofi cristiani, riflettere circa questi oggetti? Il primo punto da rilevare è che nella visione delle cose tipicamente cristiana, Dio è la persona principale, il primo e il più elevato esemplare della personalità. Dio inoltre ha creato l'uomo a sua immagine, noi uomini e donne siamo portatori dell'immagine di Dio, e le proprietà più importanti per una comprensione della nostra personalità sono proprietà che condividiamo con lui. Come riflettiamo su Dio, quindi, comporterà un'influenza diretta e immediata su come riflettiamo riguardo all'umanità. Ovviamente noi impariamo molto su noi stessi da altre fonti, dall'osservazione quotidiana, dall'introspezione e dall'auto-riflessione, dall'investigazione scientifica e così via. Ma è anche del tutto appropriato iniziare da ciò che sappiamo in quanto cristiani. Non è vero che la razionalità o il metodo filosofico corretto o la responsabilità intellettuale o la nuova moralità scientifica o qualsiasi altra cosa richiedano che iniziamo da credenze condivise con tutti – ciò che ad esempio il senso comune e la scienza d'oggi insegnano – e che cerchiamo di ragionare o di giustificare quelle credenze che possediamo in quanto cristiani. Tentando di fornire ragioni filosoficamente soddisfacenti di alcuni fenomeni, potremmo propriamente ricorrere a qualsiasi altra cosa che già crediamo dal punto di vista razionale, che si tratti della scienza oggi in voga o della dottrina cristiana. Procediamo di nuovo con esempi puntuali. In antropologia filosofica si dà una fondamentale linea di demarcazione tra quelli che ritengono gli esseri umani liberi – liberi in senso libertario – e quelli che sposano il determinismo. Secondo questi ultimi, ogni azione umana è una conseguenza di circostanze che sfuggono al nostro controllo, dalle quali deriva mediante leggi causali che sono anch'esse fuori dal nostro controllo. Talvolta sottolineare una siffatta posizione produce una visione dell'universo come di una grande macchina nella quale, per lo meno a un livello macroscopico, tutti gli eventi, azioni umane incluse, sono determinati da eventi precedenti e da leggi causali. In questa prospettiva ogni azione io abbia effettivamente compiuto era tale da non essere in mio potere trattenermi dal compierla, e se in una data occasione io non ho compiuto una data azione, vuol dire che non era in mio potere compierla. Quindi se alzo un braccio, in base alla prospettiva appena richiamata, non era proprio in mio potere fare altrimenti. Ora, il pensatore cristiano ha un interesse in questa disputa proprio in virtù del fatto di essere cristiano. Perché egli senza dubbio crede che Dio ritiene noi esseri umani responsabili per molto di ciò che facciamo, responsabili e quindi giustamente soggetti a lode o a biasimo, ad approvazione o a disapprovazione. Ma come posso essere responsabile delle mie azioni se non è mai stato in mio potere compiere nessuna di quelle azioni che difatti io non ho compiuto né è mai stato in mio potere astenermi dal compiere nessuna di quelle che effettivamente ho compiuto? Se le mie azioni sono così determinate, di esse io non vengo ritenuto responsabile, e ciò è corretto e giusto; ma Dio mi ritiene responsabile per alcune delle mie azioni, e Dio non fa nulla di sbagliato o di ingiusto; quindi non è vero che tutte le mie azioni sono così determinate. Il cristiano ha dapprincipio una solida motivazione per respingere la tesi secondo cui tutte le nostre azioni sono determinate causalmente, una motivazione molto più solida degli argomenti smunti e anemici che il determinista può mettere assieme da parte sua. Naturalmente, se dall'altra parte vi fossero ragioni solide, allora potrebbe emergere un problema. Ma non ve ne sono, e dunque non sussiste alcuna difficoltà. Ora, il determinista potrebbe replicare che la libertà e il determinismo causale, contrariamente alle prime apparenze, sono di fatto compatibili. Potrebbe sostenere per esempio che il mio essere libero rispetto a un'azione da me compiuta in un tempo t non implica che fosse in mio potere trattenermi dal compierla, ma solo qualcosa di più debole, magari qualcosa come questo: che se io avessi scelto di non compierla, non l'avrei compiuta. In verità, il compatibilista rigoroso andrà oltre. Egli sosterrà non solo che la libertà è compatibile col determinismo, ma che addirittura lo richiede. Sosterrà con Hume che la proposizione “S è libero quanto all'azione A” oppure “S compie A liberamente” implica che S sia causalmente determinato rispetto ad A, che vi sono leggi causali e condizioni antecedenti che insieme implicano o che “S compia A” o che “S non compia A”. Ed egli sosterrà questa tesi insistendo sul fatto che se S non è così determinato rispetto ad A, allora è solo questione di casualità – dovuta forse agli effetti quantistici nel cervello di S – che S compia A. Ma se è solo per caso che S compie A, allora o S non compie affatto A o per lo meno S non è responsabile di compiere A. Se il compiere A da parte di S è solo questione di casualità, esso è qualcosa che gli accade; ma allora non è affatto vero che egli compie A, per lo meno non è vero che ne è responsabile. E quindi la libertà, nel senso richiesto per la responsabilità, essa stessa richiede il determinismo. Ma il pensatore cristiano troverà una simile tesi del tutto implausibile. Presumibilmente il determinista intende caratterizzare le azioni in generale, non solo quelle degli esseri umani. Egli sosterrà che è una verità necessaria che se un agente non è causato a compiere un'azione, allora è una mera questione di casualità che l'agente in questione compia l'azione in questione. In ogni caso, da una prospettiva cristiana questo non è per nulla credibile, poiché Dio compie azioni e lo fa liberamente, e non è affatto vero che ci sono leggi causali e condizioni antecedenti fuori dal suo controllo e che determinano quello che egli fa. Al contrario, Dio è l'autore delle leggi causali che di fatto sono in vigore; forse il modo migliore di pensare a queste leggi causali è ritenerle testimonianze di come Dio tratta ordinariamente gli esseri che ha creato. È ovvio che non è solo questione di casualità se Dio fa ciò che fa, crea e sostiene il mondo – diciamo così –, e offre redenzione e opportunità di rinnovamento ai suoi figli. In tal modo un filosofo cristiano ha un'ottima ragione per rifiutare questa premessa, insieme col determinismo e il compatibilismo che essa sostiene. Ciò che è davvero in questione qui è la nozione di causalità agente: la persona come prima origine dell'azione. Secondo i sostenitori della causalità agente, alcuni eventi sono causati non da altri eventi ma da sostanze, da oggetti, da agenti personali. Almeno dal tempo di David Hume, l'idea di causalità agente si è andata infiacchendo. Penso sia corretto dire che la gran parte dei filosofi contemporanei che operano in quest'area rifiutano del tutto la causalità agente o per lo meno sono estremamente diffidenti nei suoi riguardi. Essi vedono nella causalità una relazione tra eventi; possono comprendere come un evento causi un altro evento, o come eventi di un tipo causino eventi di un altro tipo, ma l'idea di una persona – diciamo così – che causa un evento sembra loro del tutto incomprensibile, a meno che essa possa analizzarsi, in qualche modo, in termini di causalità dell'evento. È questa devozione alla causalità dell'evento che spiega la tesi secondo cui se compi un'azione ma non sei causato a compierla, il tuo atto è casuale. Perché se sostengo che ogni causalità in fondo è causalità dell'evento, io supporrò che, se tu compi un'azione ma non sei causato a compierla da parte di eventi precedenti, il tuo compiere quell'azione non è affatto causato ed è dunque una mera questione di casualità. Il devoto della causalità dell'evento magari argomenterà questa posizione così: se degli agenti, da intendere come persone, causano effetti che avvengono nel mondo fisico, per esempio il muoversi del mio corpo in un certo modo, questi effetti in definitiva dovranno essere causati da un atto della volontà o dall'assunzione di un impegno, cose che sono manifestamente immateriali, eventi non fisici. Egli sosterrà allora che l'idea che un evento immateriale abbia causalità efficace nel mondo fisico è confusa o dubbia o peggio ancora. Ma un filosofo cristiano avvertirà che quest'argomento non fa colpo su di lui e che questa devozione alla causalità dell'evento non gli è congeniale. Il cristiano già per proprio conto crede che degli atti di volontà abbiano efficacia causale; egli crede che davvero l'universo fisico deve l'esistenza proprio a tali atti di volontà, all'impegno di Dio a crearlo. E quanto alla devozione alla causalità dell'evento, il cristiano sarà sin dall'inizio per lo meno fortemente incline a rigettare l'idea che la causalità dell'evento sia primaria e che in base ad essa vada spiegata la causalità agente, perché egli crede che Dio ha fatto e fa molte cose: ha creato il mondo, lo mantiene nell'essere, comunica con i suoi figli. È straordinariamente arduo comprendere come queste verità possano essere analizzate in termini di relazioni causali tra eventi. Quali eventi potrebbero in alcun modo causare la creazione del mondo o l'impegno a crearlo da parte di Dio? Dio stesso dà principio e stabilisce le leggi causali che effettivamente reggono il mondo; come possiamo allora intendere tutti gli eventi costituiti dalle sue azioni in quanto connessi da leggi causali ai primi eventi? Come potrebbe essere che proposizioni che a lui attribuiscono delle azioni vadano spiegate nei termini della causalità dell'evento? Alcuni pensatori teisti hanno rilevato questo problema e hanno reagito o mettendo la sordina all'attività causale di Dio o seguendo precipitosamente Kant nel dichiarare che tale materia appartiene a un ordine del tutto diverso da quello nel quale noi operiamo, a un ordine che oltrepassa la nostra capacità di comprensione. Io ritengo che questa risposta sia errata. Perché mai un filosofo cristiano dovrebbe prendere parte all'omaggio generalizzato che viene tributato alla causalità dell'evento? Non si può certo dire che ci siano argomenti stringenti. La vera forza che li sostiene è una certa visione filosofica delle persone e del mondo, ma essa di primo acchito non ha plausibilità in una prospettiva cristiana né presenta argomenti convincenti a proprio favore. Così, riguardo a tutte queste questioni discusse in antropologia filosofica, il teista avrà fin dall'inizio una salda predilezione a risolverle in un modo anziché in un altro. Egli sarà incline a rifiutare il compatibilismo, sarà incline a sostenere che la causalità dell'evento (ammesso che una simile cosa esista davvero) sia da spiegare nei termini della causalità agente, tenderà a rigettare l'idea che se un evento non è causato da altri eventi allora accade per caso, e a rigettare l'idea che gli eventi nel mondo fisico non possano essere causati dall'impegno di un agente a fare qualcosa. La mia tesi è questa: che il filosofo cristiano è nel proprio diritto a mantenere queste posizioni, sia che riesca sia che non riesca a convincere il resto del mondo filosofico, in qualunque posizione consista il consenso filosofico del momento (sempre che detto consenso vi sia per davvero). Ma è forse un tale appello a Dio e alle sue qualità, in questo contesto filosofico, un disonorevole ricorso a un deus ex machina? Senz'altro no. La filosofia, come ebbe a dire Hegel in un raro momento di lucidità, “è riflessione”. La filosofia è in larga parte una chiarificazione, una sistematizzazione, un'articolazione che connette e approfondisce le opinioni pre-filosofiche. Giungiamo alla filosofia con una serie di opinioni sul mondo e sull'uomo, e sul posto che il secondo ha nel primo; in filosofia riflettiamo su questi argomenti, articoliamo sistematicamente le nostre vedute, le riuniamo e le connettiamo in merito a diverse questioni, approfondiamo le nostre prospettive scoprendo interconnessioni inaspettate e rispondendo a domande nuove. Naturalmente potremmo giungere a cambiare idea grazie alla riflessione filosofica, potremmo scoprire incompatibilità e altre inconvenienze. Ma certo giungiamo alla filosofia con opinioni prefilosofiche: non possiamo fare altro. E il punto è che il cristiano ha diritto alle sue opinioni prefilosofiche quanto gli altri hanno diritto alle loro. Non ha bisogno di tentare previamente di “provarle” a partire da proposizioni accettate – diciamo così – dal grosso della comunità filosofica non-cristiana; e se esse vengono ampiamente rifiutate in quanto naif o pre-scientifiche o primitive o indegne dell'uomo “adulto”, ciò non dice nulla a loro sfavore. Ovviamente se si dessero autentici e solidi argomenti contro di esse a partire da premesse che possono essere legittimamente rivendicate presso il filosofo cristiano, ciò costituirebbe un problema per lui, ed egli dovrebbe conseguentemente apportare qualche cambiamento da qualche parte. Ma in assenza di tali argomenti – assenza che è evidente – la comunità filosofica cristiana inizia a svolgere la filosofia del tutto correttamente da quanto essa già crede. Questo significa che la comunità filosofica cristiana necessita di non dedicare tutti i propri sforzi a rifiutare le posizioni che le si oppongono e/o ad argomentare a favore delle proprie tesi a partire da premesse accettate dalla più ampia comunità filosofica. Essa deve fare questo, sì, ma deve fare ancora di più, perché se si limita a questo trascurerà un ineludibile dovere filosofico: sistematizzare, approfondire, chiarificare il pensiero cristiano su questi argomenti. Perciò – lo ripeto – il mio appello è al filosofo cristiano, alla comunità filosofica cristiana, affinché mostri in primo luogo più indipendenza e autonomia: non abbiamo bisogno di impegnarci sui progetti di ricerca che al momento riscuotono ampio favore; abbiamo i nostri argomenti e di quelli dobbiamo occuparci. In secondo luogo, dobbiamo mostrare più integrità. Quanto al momento riscuote consenso non dobbiamo assimilarlo automaticamente a titolo di procedure e opinioni filosofiche, perché molte di quelle posizioni mal si accordano con il modo di pensare cristiano. E dobbiamo infine mostrare maggiormente l'audacia, il coraggio e la sicurezza di sé dei cristiani. Abbiamo ogni diritto ai nostri pareri pre-filosofici: perché quindi dovremmo farci intimidire da quanto il resto del mondo filosofico ritiene plausibile o implausibile? Questi sono quindi i miei esempi; potrei averne scelto altri. Si pensi all'ambito della riflessione etica: l'interesse maggiore, dal punto di vista teistico, non riguarda forse la questione di quanto siano giusti o sbagliati, buoni o cattivi il dovere, la permissione e l'obbligazione connessi a Dio, alla sua volontà e alla sua attività creatrice? Abbastanza naturalmente questo tema non emerge in una prospettiva non teistica; e perciò, altrettanto naturalmente, gli eticisti non teisti non se ne preoccupano. Eppure, per un eticista cristiano, è forse il tema più importante da affrontare. Con riguardo all'epistemologia mi sono già espresso, ma mi si lasci portare un altro esempio da questo ambito. Gli epistemologi talora si preoccupano della convergenza o della mancanza di convergenza della giustificazione epistemica da un lato e della verità o affidabilità dall'altro. Supponiamo di fare il massimo che ci si possa aspettare da noi quanto al punto di vista noetico; supponiamo di compiere i nostri doveri intellettuali e di soddisfare i nostri obblighi intellettuali: quale garanzia abbiamo che nel far ciò arriveremo alla verità? C'è almeno una qualche ragione per supporre che, se soddisfacciamo così i nostri obblighi, avremo maggiori probabilità di raggiungere la verità che se li respingiamo impudentemente? E da dove provengono tali obblighi intellettuali? In che modo ce li ritroviamo? Qui il teista è in possesso, se non di un chiaro insieme di risposte, per lo meno di indizi illuminanti. Un altro esempio: l'anti-realismo creativo al momento è in voga presso i filosofi. Si tratta della prospettiva in base alla quale è il comportamento umano – in particolare il pensiero e il linguaggio dell'uomo – che risulta in qualche modo responsabile delle strutture fondamentali del mondo e dei tipi fondamentali di cose che in esso vi sono. Da un punto di vista teistico, tuttavia, l'anti-realismo creativo generalizzato è nel migliore dei casi una mera insolenza, un caso di ridicola spacconeria. Poiché Dio, naturalmente, non deve a noi e al nostro modo di pensare né la propria esistenza né le proprie qualità: la verità è l'esatto contrario. E per quanto riguarda l'universo creato, finché esso deve davvero la propria esistenza e le proprie qualità all'opera di una persona, quella persona non è certamente una persona umana. Un esempio finale, questa volta relativo alla filosofia della matematica. Molti che riflettono sugli insiemi e sulla loro natura sono inclini ad accettare le seguenti posizioni. Primo, nessun insieme è membro di se stesso. Secondo, mentre per la proprietà l'estensione è contingente, per l'insieme l'appartenenza è essenziale. Questo vuol dire che nessun insieme potrebbe esistere se non si desse uno dei suoi membri, e che nessun insieme potrebbe avere meno o diversi membri di quelli che in effetti ha. Questo significa inoltre che gli insiemi sono esseri contingenti; se Ronald Reagan non fosse mai esistito, non sarebbe esistito neanche il suo insieme unitario. Terzo, gli insiemi costituiscono una sorta di struttura iterativa: al primo livello ci sono insiemi i cui membri sono non-insiemi, al secondo livello insiemi i cui membri sono noninsiemi o insiemi del primo livello; al terzo livello gli insiemi i cui membri sono noninsiemi o insiemi dei primi due livelli e così via. Molti anche propendono, con Georg Cantor, a guardare agli insiemi come a collezioni – come a oggetti la cui esistenza dipende da un certo tipo di attività intellettuale – un collezionare o “pensare insieme”, seguendo Cantor. Se gli insiemi fossero collezioni di questo tipo, ciò spiegherebbe il fatto che essi mostrano le prime tre caratteristiche da me menzionate. Ma se il collezionare o il pensare insieme deve esser fatto da pensatori umani, o da qualsivoglia pensatore finito, quasi non potrebbero esserci insiemi sufficienti, sicuramente non tanti quanti noi pensiamo di fatto ce ne siano. Da un punto di vista teistico, la conclusione naturale è che gli insiemi devono la propria esistenza al pensare insieme le cose da parte di Dio. La naturale spiegazione di quelle tre caratteristiche è proprio che gli insiemi sono per davvero collezioni, collezioni collezionate da Dio: essi sono o risultano dal pensare insieme le cose da parte di Dio. Questa posizione potrebbe non risultare gradita nei centri odierni della riflessione sugli insiemi, ma il punto è che non lo risulta neanche altrove. I cristiani, i teisti, sono loro che dovrebbero comprendere gli insiemi da un punto di vista cristiano e teistico. Ciò che essi credono in quanto teisti offre loro una risorsa per comprendere gli insiemi che non è disponibile al non-teista. Ora, perché essi dovrebbero impiegarla? Forse qui potremmo procedere senza ricorrere a ciò che crediamo come teisti, ma perché dovremmo se queste credenze sono utili ed esplicative? Io potrei tornare a casa stasera saltando su una gamba, ed è ipotizzabile che possa scalare la Torre del Diavolo a piedi legati. Ma perché dovrei volerlo fare? Il filosofo cristiano o teista quindi ha il suo modo di lavorare nel proprio campo. In alcuni casi si danno voci nella sua agenda – voci pressanti – che non appartengono all'agenda della comunità filosofica non-teista. In altri casi, voci che al momento godono di grande risalto appaiono di minore interesse nella prospettiva cristiana. In altri casi ancora, il teista rigetterà assunzioni e punti di vista diffusi su come iniziare, come procedere, in che cosa consiste una risposta buona o soddisfacente; il cristiano darà per acquisite e inizierà da assunzioni e premesse rifiutate dalla comunità filosofica in generale. Naturalmente non intendo suggerire neanche per un istante che i filosofi cristiani non abbiano nulla da imparare dai colleghi non-cristiani e non-teisti: questa costituirebbe solo una folle arroganza, senz'altro smentita dalla realtà delle cose. E neanche intendo suggerire che i filosofi cristiani dovrebbero ritirarsi nella loro propria enclave, avendo il meno possibile a che fare con i filosofi non-teisti. Naturalmente no! I cristiani hanno molto da imparare, molto e di notevole importanza, grazie al dialogo e al confronto con i colleghi non-teisti. I filosofi cristiani devono essere intimamente coinvolti nella vita professionale della comunità filosofica in generale, sia per ciò che possono imparare sia per ciò con cui possono contribuire. Inoltre, mentre i filosofi cristiani non hanno bisogno e non devono vedersi coinvolti, per esempio, in uno sforzo comune per determinare se c'è una persona come Dio, noi siamo tutti, teisti e non-teisti in ugual misura, impegnati nel comune sforzo umano di comprendere noi stessi e il mondo nel quale ci troviamo. Se la comunità filosofica cristiana farà bene il proprio lavoro, essa sarà impegnata in una discussione complessa e molteplice, dando il suo proprio contributo al comune impegno umano. Deve essere portata scrupolosa attenzione agli altri contributi, bisogna comprenderli in profondità, bisogna imparare da essi quello che si può e bisogna prendere la non-credenza con profonda serietà. Tutto questo è vero e importante, ma nulla di esso è contrario a quanto sono andato dicendo fin qui. La filosofia è molte cose. Ho detto prima che consiste nel sistematizzare, sviluppare e approfondire le proprie opinioni pre-filosofiche. È questo, ma è anche l'ambito dialettico adatto all'articolazione e all'interazione in natura di un impegno e di una fedeltà fondamentalmente religiosi, è un'espressione di prospettive fondamentali e profonde, modi di vedere se stessi, il mondo e Dio. La comunità filosofica cristiana, in quanto cristiana, è impegnata in un'ampia ma specifica e propria maniera di guardare all'umanità, al mondo e a Dio. Tra i suoi progetti più importanti e urgenti vi è la sistematizzazione, l'approfondimento, l'esplorazione e l'articolazione di questa prospettiva, e l'indagine circa la sua influenza sul resto di ciò che pensiamo e facciamo. Ma allora la comunità filosofica cristiana ha la propria agenda, non ha bisogno e non dovrebbe assumere automaticamente i propri progetti dalla lista di quelli favoriti correntemente dai grandi centri di filosofia d'oggi. Inoltre i filosofi cristiani devono guardarsi dall'assimilare o dall'accettare idee e procedure filosofiche al momento in voga, perché molte di esse hanno radici che sono profondamente anti-cristiane. Infine la comunità filosofica cristiana ha diritto alle proprie prospettive, non è nell'obbligo di mostrare che esse sono plausibili in base a ciò che è dato per scontato da tutti i filosofi o dai più di loro o da quelli di loro che appaiono dominanti nel nostro tempo. In sintesi, noi che siamo cristiani e intendiamo fare i filosofi non dobbiamo accontentarci di essere filosofi cui capita incidentalmente di essere cristiani: dobbiamo sforzarci di essere filosofi cristiani. Dobbiamo quindi perseguire i nostri progetti con l'integrità, l'indipendenza e l'audacia del cristiano.