Indice Prefazione

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Indice
Prefazione…………………………………………………… 1
Capitolo 1
Analisi del percorso formativo di Matteo Ricci in Europa
attraverso opere esterne correlate con i suoi studi…………… 6
1.
Status questionis
1.1.
Gli studi cinesi sulla formazione di Ricci…………… 7
Gli studi occidentali sulla formazione di Ricci………11
1.2.
2.
L’influenza degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola…19
3.
La formazione di Ricci nel collegio Romano
3.1.
Ratio studiorum……………………………………… 22
3.2.
Retorica / Dialettica……………………………………24
3.3.
Mnemotecnica……………………………………… 26
3.4.
Corso di Filosofia………………………………………29
3.4.a.
Logica…………………………………………………29
3.4.b.
Matematica e scienze applicate (Astronomia / Cosmologia,
Geografia, Cartografia, scienze e tecniche degli Orologi)…… 31
3.4.c.
Fisica………………………………………………… 38
3.4.d.
Metafisica…………………………………………… 42
Capitolo 2
Fonti occidentali delle dottrine filosofiche e teologiche di
Matteo Ricci e analisi dei motivi che ne hanno giustificato l’introduzione
in Cina………………………………………………………… 45
1.
Logica
1.1.
Successo della logica di Ricci………………………… 45
1.2.
Sostanza e accidente……………………………………48
1.3.
Dialettica…………………………………………………57
1.4.
Nascondimento della logica e imprecisioni…………… 61
1.5.
Geometria di Euclide: una forma precisa della logica… 68
2. Ontologia
2.1.
Quattro elementi……………………………………… 69
2.2. Quattro cause…………………………………………72
2.3.
Definizione di Dio(causa prima)e dimostrazione dell’esistenza di
Dio……………………………………………………74
3. Etica
3.1.
Etica teologica ed etica naturale………………………78
3.2.
Le dottrine etiche derivanti dallo Stoicismo……………… 84
3.2.a.
La tranquillità dell’anima e la conquista della libertà…84
3.2.b.
La morte e lo scorrere del tempo……………………99
3.2.c.
l’amicizia……………………………………………102
3.3.
3.3.a.
Dottrine derivanti dalla Bibbia e dalla filosofia Scolastica…108
Il peccato originale—la natura umana è buona o cattiva? …108
3.3.b.
L’immortalità dell’anima—la virtù è premio a sé stessa o deve
essere premiata in altra vita? ……………………………………110
Capitolo 3
Le innovative interpretazioni di Matteo Ricci riguardo
all’ontologia e cosmologia della filosofica cinese.
L’eco del
Confucianesimo e le critiche al Buddismo e al Taoismo…………115
1.
Conformarsi al Confucianesimo antico………………………120
2.
Critica al Neoconfucianesimo……………………………… 129
3.
Lotta contro il Buddismo e il Taoismo………………………140
Capitolo 4
1.
Il contributo di Matteo Ricci alla filosofia cinese…148
Matteo Ricci ha introdotto in Cina il metodo scientifico occidentale
della logica e della dimostrazione………………………………150
2.
Nuove teorie sulla natura umana e sull’amore universale…160
3.
Il problema di un secondo mondo e di una giustizia assoluta…172
Bibliografia……………………………………………………181
Prefazione
Prima di cominciare a chiarire la struttura della mia tesi, mi permetto di elencare
tre parole chiavi.
1.
la prima parola chiave che vorrei illustrare è equivoco. Di fatto, il motivo per
cui scrivo questa tesi è proprio per chiarire questo equivoco. In Cina il titolo di
missionario in genere non è capace di dare una buona impressione; la maggioranza
dei cinesi è atea; inoltre Confucianesimo, Taoismo e Buddismo affermano che per
realizzare la perfezione e la libertà umana è sufficiente l’uomo stesso con la sua
cultura, mentre nel cristianesimo si ritiene necessario sempre l’aiuto esterno di Dio,
per mezzo della Grazia. La maggioranza degli intelletuali cinesi, me compreso, hanno
sempre creduto e credono ancora che Matteo Ricci sia solo un missionario e che
avrebbe introdotto in Cina soltanto due cose: un po’ di conoscenza scientifica e
qualche pensiero religioso come oppio. Invece il contributo di Ricci nel campo
filosofico sarebbe stato nullo..
In questo caso, uno studio sistematico dell’opera di Ricci ha una grande
importanza per determinare meglio il suo ruolo di Matteo Ricci negli scambi culturali
tra Est e Ovest. Il mio progetto si propone di colmare questa lacuna attraverso una
sistematica ricognizione e interpretazione di tutti i contributi di carattere filosofico
riscontrabili nell’opera di Ricci.
2.
La seconda parola chiave è interno.
L’equivoco è derivato dal fatto che gli
studiosi cinesi non hanno letto direttamente e in modo approfontito gli scritti ricciani.
In Cina vi sono studiosi di Ricci molto pigri che si sono limitati a leggere libri di
alcuni studiosi abbastanza famosi. Ve ne sono invece alcuni più diligenti che, tuttavia,
essendo nati nell’epoca di Mao, distorcono sempre diligentemente i pensieri di Matteo
Ricci aggiungendo di molte annotazioni di carattere ideologico.
1
La peculiarità di questa mia tesì è studiare Matteo Ricci dall’interno: vediamo
cosa ha detto Ricci attraverso la lettura di opera come Vero significato del Signore del
Cielo, Dieci capitoli di un uomo strano, Venticinque sentenze, Dell’amicizia, Otto
canzoni per manicordo occidentale, Dispute contro le sette idolatriche Saggio sui
Quattro elementi, Lettere ed Enttata della Compania di Gesù e Christianità nella Cina.
Insomma, cerco di trarre ogni conclusione direttamente sulla base delle opere ricciane,
anziché sul giudizio degli altri.
3.
La terza parola chiave è filosofia. Questo è un’altra peculiarità della mia tesi,
cioè analizzare le opere ricciane dal punto di vista filosofico. Devo dire che il
presupposto di questo modo di analisi è offerto da Matteo Ricci. Come Tommaso
D’Aquino, quando ricci trasmette dottrine religiose, usa il metodo della deduzione e
della
ragione,
cioè
il
metodo
della
teologia
naturale,
anziché
quello
dell’indottrinamento forzato dei dogmi religiosi. Questo suo metodo mi ha fornito il
presupposto per scrivere questa tesì; ho cercato di analizzare ogni questione e trarre
ogni conclusione dal punto di vista filosofico.
Adesso mi permetto di chiarire un po’ la struttura della mia tesi. Questa è divisa in
quattro capitoli.
Il primo capitolo si intitola Analisi del percorso formativo di Matteo Ricci in
Europa attraverso opere esterne correlate con i suoi studi. Sentito questo titolo forse
qualcuno potrebbe dire che sono già caduto in contraddizione con la seconda parola
chiave—interno, perché ho usato il termine esterno. Infatti, Il motivo per cui l’ho
fatto è il seguente: per comprendere il contributo filosofico di Ricci, dobbiamo
conoscere la struttura del suo sapere, e quindi, il suo percorso formativo, in particolare
il percorso compiuto quando stava in Europa. Ma dalla sola lettura interna delle sue
opera non riusciamo a ricostruire adeguatamente il suo percorso formativo, perché
egli spesso tende a nasconderlo ed offre pochissime
informazione riguardo ai suoi
insegnanti. Di conseguenza, si deve esaminare la questione della formazione di Ricci
ricorrendo anche alle opere di studiosi che hanno cercato di ricostruire il contesto
2
della formazione culturale e scientifica di Ricci, mi riferisco in particolare agli studi di
Ugo Baldini, F.Mignini, Mario Fois, Michela Fontana e di molti altri; il desiderio dei
questi studiosi italiani per il rigore è superiore di molto quello di questi studiosi cinesi
per la pigrizia. Inoltre, ho cercato di scegliere da questi studiosi precise indicazioni,
sperando che attraverso questi contributi esterni possa completare gli risultati
conseguibili con lo studio interno dalle opere esterne.
Il secondo capitolo si intitola Origini occidentali del pensiero filosofico e
teologico di Matteo Ricci e analisi dei motivi che giustificano l’introduzione di tale
pensiero in Cina da parte del gesuita. Infatti, quando parliamo del contributo di
Matteo Ricci alla filosofia cinese, non intendiamo soltanto il contributo del suo
sistema filosofico indipendente, ma sapratutto quello delle dottrine degli altri filosofi
occidentali portati in Cina da Matteo Ricci, che hanno avuto o avranno in futuro una
influenza positiva per la filosofia cinese.
Nel terzo capitolo ho indicato quali correzioni possono essere apportate alla
ontologia e cosmologia cinese a partire dalla logica occidentale. Il terzo capitolo della
mia tesi si intitola Le innovative interpretazioni di Matteo Ricci riguardo
all’ontologia e cosmologia della filosofica cinese—L’eco del Confucianesimo e le
critiche al Buddismo e al Taoismo. In questo titolo non vediamo il termine di logica,
questo capitolo si è sviluppato proprio sulla base della questione logica stabilita nel
capitolo precedente. L’ontologia e la cosmologia sono la base di un sistema filosofico,
ma la filosofia cinesi manca proprio di logica. Le nozione di Dao, Tai ji, Li, non
sembrano avere una base logica. In questo capitolo, io e Matteo Ricci, abbiamo
criticato severamente questa debolezza della filosofia cinese. In questo capitolo, Ricci
ha messo in pratica questa arma e ha manifestato una forza enorme. Infatti, il suo
contributo riguardo alla logica non sta solo nel fatto che egli ha introdotto in Cina
questa teoria, ma anche nell’aver manifestato ai cinesi come la si deve utilizzare in
una disputa concreta.
Il quarto capitolo è intitolato i contributi di Matteo Ricci alla filosofia cinese.
Secondo me, il primo contributo di Ricci alla filosofia è il seguente: Nella storia
3
cinese, Ricci è la prima persona che ha introdotto la logica aristotelica in Cina, questo
è abbastanza importante per la filosofia cinese. Infatti, questo tipo di logica è una
linea principale che attraversa i quattro capitoli della mia tesì. Nel primo capitolo, ho
esaminato quando e per quanto tempo e con chi Ricci ha studiato la logica nel
Collegio Romano; nel secondo capitolo, ho spiegato quali pensieri concreti della
logica aristotelica sono portati in Cina e ho analizzato il motivo per cui egli ha
introdotto proprio questi pensieri in Cina.
Un altro contributo di Ricci alla filosofia cinese consiste nella introduzione della
teoria della natura umana, cioè la teoria della natura umana del Cristianesimo. Tra
tante questioni perché ho proposto proprio questa? poiché questa ha un importante
significato reale. La teoria della natura umana è la base logica dei pensieri e dei
comportamenti degli esseri umani; se perdesse la base logica e giusta, la teoria della
natura umana diventerebbe la scusa per fare il male o almeno per non fare il bene.
Qualche giorno fa è successo un incidente a Canton: una bambina di due anni è stata
colpita da una machina, diciotto persone sono passate, e dal video possiamo scoprire
che quasi tutte hanno visto la bambina, ma nessuno l’ha soccorsa e neppure ha
chiamato il medico. Dopo pochi minuti, questa bambina è stata colpita da un’altra
macchina. Alla fine, è stata soccorsa da una anziana, ma troppo tardi, è morta poco
tempo dopo.
Adesso vediamo che cosa afferma Mencio riguardo alla natura umana. Egli crede
che la natura umana è per sé buona, come la natura dell’acqua è quella di fluire
sempre verso il basso. Per dimostrare che la natura umana è naturalmente buona, egli
offre un esempio; suppone che la gente veda improvvisamente un bambino che sta per
cadere nel pozzo. Tutti provano un sentimento di raccapriccio e di pieta. La
conclusione di Mencio deriva dalla sua osservazione del mondo reale, tuttavia una
dottrina della natura umana dovrebbe avere una base logica dotata di un valore
necessario ed universale. Invece la sua conclusione può essere facilmente demolita.
Al giorno d’oggi noi sappiamo tutti che il fluire verso il basso non è dovuto alla
natura dell'acqua, ma alla gravità terrestre. Dall’assunto del filosofo, potrei concludere
anche che l’uomo è naturalmente non-buono. Inoltre, l’indifferenza di dociotto
4
persone ha risposto chiaramente a Mencio se si provi di un sentimento di raccapriccio
e di pieta oppure no?
Ricci ha ereditato la teoria della natura umana dalla filosofia cristiana, ed ha
evidenziato il rapporto tra la valutazione della natura umana e il libero arbitrio.
Questo può risolvere efficacemente la difficoltà teorica di Mencio.
L’ultimo contributo è che Matteo Ricci ha introdotto in Cina un tipo di pensiero
riguardo all’aldilà. I cinesi sono un popolo tendenzialmente ateo. Ma se non si
credesse niente, ci si potrebbe comportare in qualsiasi modo. Non vorrei affermare
che i cinese debbano credere in un Dio; non sarebbe reale, perché si tratta di una
questione storica; ma vorrei suggerire che dobbiamo sapere quale è il nostro punto
debole. A causa dei limiti di spazio, qui non discuto più dettagliatamente tale
questione.
Alla fine vorrei sottolineare ancora un punto. Anche se Ricci ha introdotto tanti
pensieri riguardo alle questioni dell’etica generale, come giustizia e carità, direi
ancora che questi non sono veri contributi offerti alla filosofia cinese. Anche il
professore F. Mignini condivide questa mia affermazione. Infatti la maggior parte dei
pensieri ricciani è derivato dagli stoici, in particolare da Cicerone e da Seneca; ma
vorrei dire che tutto quello che Cicerone ha affermato, era stato anche affermato da
Confucio. Tutto quello che era stato detto dagli altri stoici, era stato detto anche da
altri confuciani,almeno cose simili. Ora due tipi di pensiero che hanno tutti punti in
commune non possono darsi contributi a vicenda., possono offrire soltanto un po’ di
fiducia l’uno all’altro.
5
Capitolo 1
Analisi del percorso formativo di Matteo Ricci in Europa attraverso opere
esterne correlate con i suoi studi.
Al fine di studiare la filosofia di Matteo Ricci, non può essere tralasciato il suo
percorso di formazione in Italia. Purtroppo non possediamo informazioni precise su
questo aspetto, tranne i nomi di tre suoi insegnanti: Nicolò Bencivegni1, Cristoforo
Clavio2 e Martino di Fornari3. Sembra che dall'inizio Ricci non abbia voluto parlare
della propria esperienza di studio, forse per salvaguardare una certa atmosfera di
mistero attorno alla propria figura di scienziato e religioso, o forse le lacune con cui la
sua corrispondenza ci è pervenuta, oppure perché l’immane lavoro che lo occupava,
gli consentiva di concentrarsi soltanto sul presente, senza avere la possibilità di
tornare alle esperienze passate4. In breve, le informazioni dirette in nostro possesso
sul periodo di formazione di Ricci sono vaghe e incerte. L’intento di questo capitolo è
quello di ricostruire, sulla base di tutti i documenti disponibili, interni all’opera
ricciana, ed esterni, la sua formazione complessiva, con particolare riferimento a
1
Si veda Pietro Tacchi Venturi, Opere storiche del P. Matteo Ricci, Macerata, 1913, p.245.
2
con cui dichiara di aver studiato per “alcuni anni”, Cfr. Della Entrata della Compagnia di Giesù e
Christianità nella Cina, sotto la direzione P. Corradini, a cura di M. Del Gatto, prefazione di F.
Mignini, Macerata 2000, p.143-144, D’ora in poi citato con la sigla E, seguita dal numero della pagina.
3
Ricci ricorda gli studi con Fornari in una lettera indirizzata al docente nel 1580: “in Goa l’anno
passato lessi quel poco che V.R. mi insegnò;” ( Opere storiche del P. Matteo Ricci, cit., II, p.11).
4
Ricci ha scritto una lettera a P. Fabio de Fabij s.j Da Shaozhou 15 Novembre 1594:“Stiamo tanto
lontani che bisogna che passino sei anni et alle volte sette per tener risposta delle lettere che scriviamo
a Europa, nel qual tempo si mutano son solo gli offitii et altre cosa, ma anco ci mutiamo di una vita ad
altra; et molte volte ricordandomi quante lettere assai lunghe ho scritte a morti di costà, mi toglie la
forza e l’animo di scrivere”.(Cfr P. Antonio Sergianni P.I.M.E. Un cristiano fra i cinesi del ‘500
Brani dalle lettere di P. Matteo Ricci, Macerata, p.103).
6
quella filosofica. Intanto ritengo necessario avviare questa ricerca con una
ricognizione dello “status questionis” sull’argomento.
1.
Status questionis
1.1.
Gli studi cinesi sulla formazione di Ricci
Attualmente, nei circoli accademici della Cina, gli studi su tale tematica
presentano una “lacuna”. In numerose monografie su Ricci1, la maggior parte degli
autori, visto che non capiscono bene le linque straniere (latino e italiano), si sono
limitati a ricopiare e ripetere le stesse ricerche dei pochi studiosi occidentali di Ricci.
Ad esempio, per quanto riguarda il periodo di formazione presso il Collegio romano,
la maggior parte degli studiosi si è limitata semplicemente a copiare la dichiarazione
di Henri Bernard presente nel suo libro, intitolato Matteo Ricci, Contributi scientifici
alla Cina2:
《Il corso presso il Collegio Romano era stato formulato da un famoso studioso
dell’Università di Parigi, P. Nadal, e rispecchiava le tendenze del periodo. Partendo
dalle caratteristiche del corso del Collegio Romano, è possibile comprendere
l'educazione di padre Matteo Ricci. Il primo anno del corso di filosofia prevedeva lo
studio della Geometria euclidea, della Matematica Applicata e dei Principi di
Astronomia. Il tempo di studio da dedicare a queste ultime due discipline non doveva
superare il tempo prescritto; al contrario, bisognava dedicare quanto più tempo
possibile allo studio della Geometria euclidea. Il secondo anno del corso di filosofia,
1
Le principali monografie o traduzioni cinesi su P. Matteo Ricci sono le seguenti: Luo guang,
Biografia di Matteo Ricci, TaiWan xueshengshuju, Tai Wan, 1979; Lin jinshui, Zou ping, Matteo
Ricci-un Confuciano occidentale, Guojiwenhua , Pechino, 2000; Zhang Xiaolin, Vero significato del
Signore del Cielo e la tradizione della cultura accademica cinese, Xue lin, Shang Hai, 2005; Sun
Shangyang, Matteo Ricci e Paolo Xu Guang qi, Zhongguoguojiguangbo,Pechino, 2009; Lin Jinshui,
Matteo Ricci e la Cina, Zhongguoshehuikexue, Pechino, 1996; Jiang Zhiwen, Matteo Ricci incontro la
Cina, Zijincheng, 1999; Opere complete cinesi di Ricci, a cura di Zhu Weizheng, Università di Fudan,
Shang Hai, 2001;Opere complete di Ricci, Guangqifuren; TaiWan, 1986.
2
Cfr. Lin Jinshui, Zou ping, Lin jinshui, Zou ping, Matteo Ricci-un Confuciano occidentale,
Guojiwenhua , Pechino, 2000, p.10.
7
invece, prevedeva lo studio della teoria musicale e della prospettiva. Lo studio della
teoria musicale si basava sui libri di Le Fevre d'Etaples, sul lavoro di altri esperti,
sulla teoria di Witelo o di altre teorie musicali generali. In aggiunta, era anche
previsto l’insegnamento, l'applicazione e la misurazione della geometria. Nel terzo
anno del corso di filosofia era previsto lo studio dell’astronomia, in particolare de la
storia del pianeta, scritta da George Burbach, dei Lineamenti di Astronomia di
Johannes Regiomontanus, e delle Tavole alfonsine. Importante era inoltre lo studio
dell’astrolabio. Lo studente doveva completare i corsi sopra citati in tre anni,
impiegando tre quarti d'ora al giorno》1. Tuttavia, quando Ricci frequentò il Collegio a
Roma, il piano di studi del corso era leggermente cambiato:
《Durante il primo anno si studiava la matematica; il secondo anno si dedicavano
quattro mesi circa allo studio dei libri I-IV della Geometria euclidea, un mese e mezzo
alla Matematica applicata, due mesi e mezzo all’Astronomia e due mesi alla
Geografia. Il tempo residuo del semestre era dedicato allo studio dei libri V-VI della
Geometria. Il terzo anno, invece, si dedicavano due mesi allo studio dell’astrolabio,
quattro mesi ai principi dei pianeti e tre mesi alla Prospettiva. Il resto del tempo
veniva impiegato per studiare la Fabbricazione di orologi e il Calendario della
Chiesa》2.
Altri studiosi, invece, hanno citato quanto detto ne Il palazzo della memoria di
Matteo Ricci, tesi di Jonathan D.Spence:
《Gli studenti del primo anno dovrebbero completare i quattro volumi degli scritti
di Euclide nei quattro mesi, dovrebbero studiare l'aritmetica pratica entro un mese e
mezzo e dovrebbero studiare due mesi e mezzo i principi del movimento dei pianeti e
due mesi di geografia. Nel tempo rimasto, essi potrebbero anche studiare il V e il VI
volume di Euclide. Gli studenti del secondo anno potrebbero studiare due mesi di
astrolabio, usato per misurare il movimento dei pianeti e delle stelle, studiare quattro
mesi la teoria dei Pianeti e tre mesi di prospettiva. Nel tempo residuo studiare le teorie
1
2
Lin Jinshui, Matteo Ricci e la Cina, Zhongguoshehuikexue, Pechino, 1996, p. 3.
Lin Jinshui, Matteo Ricci e la Cina, cit., p. 3.
8
di Fabbricazione degli orologi e il Calendario della chiesa. Alcuni studenti potranno
condurre uno studio autonomo al terzo anno sulla più avanzata delle teorie celesti;
potranno studiare e fabbricare il calendario, le tabelle planetario, l'uso del quadrante e
così via1》.
Anche se le due citazioni sono state uno strumento prezioso per la ricerca su Ricci,
non sono tuttavia apprezzabili per tre motivi: Prima di tutto, abbiamo trovato un
errore in questa frase della prima citazione, concernente il secondo anno del corso di
filosofia:《La teoria musicale e la Prospettiva. La prima basata sui libri di Le Fevre
d'Etaples o sul lavoro di altri esperti che fossero più adatti; la seconda basata sulla
teoria di Witelo o sulle altre teorie musicali generali》. Forse a causa di un lapsus
calami o per altri motivi, questa citazione ha erroneamente messo insieme musica e
prospettiva; adesso in Cina quasi tutte le persone che compiono studi su Matteo Ricci
tendono a copiare tale errore.
Inoltre, queste due conclusioni sono problematiche, gli argomenti che sembra
essere troppo assoluto; non vi è alcun dubbio sul fatto che Ricci abbia frequentato
questi corsi presso il Collegio Romano. In effetti, per quanto riguarda la ricerca sulle
materie che egli studiò, possiamo solo adottare l'atteggiamento del ragionamento e del
dubbio e non dobbiamo porre fine a questo problema con un “punto” e un tono
assoluto; abbiamo bisogno di un atteggiamento fermo, ma è ridicolo assumere un
atteggiamento fermo nei confronti di una cosa incerta.
Finora, nonostante la grande quantità di ricerche sulla vita del famoso missionario
maceratese, resta una grande carenza di informazioni precise circa diversi aspetti dei
suoi studi, luoghi, modi, tempi e contenuti, tutte premesse essenziali per capire il
lavoro scientifico che svolse in Cina. Questa scarsità è dovuta a diversi fattori: in
primo luogo alla quasi totale mancanza negli scritti di Ricci di citazioni di opere o
autori che potrebbero essere stati strumenti della sua formazione. È probabile infatti
che, considerando il pubblico non europeo a cui le sue opere erano destinate e il loro
1
Cfr. Jonathan D.Spence, The Memory palace of Matteo Ricci, edizione englese, traduzione cinese:
LiMadoudejiyizhigong, Shanghaiyuandong, Shang Hai, 2005, p.197.
9
carattere manualistico, Ricci decise di mettere in secondo piano tutti i riferimenti
storico-letterari.
Il secondo motivo sta nell’assenza di riferimenti chiari alla cronologia dei suoi
studi e dei suoi docenti, fattore che vede solo rarissime eccezioni: Nicolò Bencivegni,
Cristoforo Clavio e Martino Fornari.
In terzo e ultimo luogo, alla perdita massiccia dei cataloghi di insegnanti e docenti
da parte del Collegio Romano, registrata in misura maggiore proprio negli anni dal
1572 al 1577, esattamente quelli che videro Matteo Ricci come studente.
Queste tre ragioni hanno creato un pigro ripetere a pappagallo. Come i credenti
devoti che citano la Bibbia, gli studiosi di Ricci copiano direttamente le tesi trasmesse
conclusioni, senza domandarsi se siano corrette o meno.
Invece altri noti studiosi hanno adottato un atteggiamento direttamente evasivo.
Ad esempio Luo guang, l’iniziatore della ricerca su Ricci, nel suo libro intitolato
Biografia di Matto Ricci ha dedicato solo una frase agli studi di Ricci presso il
Collegio Romano:
《Nello stesso anno nel mese di settembre, Ricci ha cominciato a studiare
Filosofia e Teologia, non ha smesso per i cinque anni successivi1》.
Questa breve frase di Luo guang è vaga e presenta due errori, infatti, abbiamo
scoperto che le due informazioni contenute nelle frasi《ha cominciato a studiare la
Filosofia e Teologia》 e 《non ha smesso per i cinque anni successivi》non sono esatte.
Spiegheremo in dettaglio il perché nel terzo paragrafo di questo capitolo.
Per quanto riguarda gli insegnanti di Ricci, Luo guang ha solo menzionato Clavio
e Roberto Bellarmino, senza esaminare le fonti. Egli ha svolto una dettagliata
presentazione sulla vita dei due maestri, seguita come modello dagli altri studiosi.
Oltre a Luo guang, altri studiosi cinesi(Sun Shangyang, Zhang Xiping, Fang Hao)
hanno ricavato materiale da La vita di Matteo Ricci scritto da Giulio Aleni2:
1
2
Luo guang, Biografia di Matteo Ricci, TaiWan xueshengshuju, Tai Wan, 1979, p.25.
Giulio Aleni, La vita di Matteo Ricci, a cura di Gianni Criveller, Macerata, 2010, p. 25.
10
《Fu alunno del maestro Nicolò Bencivegni, pure un illustre saggio. Maestro
Ricci accompagnato da genitori virtuosi e da un maestro saggio, fin dall'infanzia
vide e udì cose che corrispondono alla retta via. Inoltre egli manifestò
un'intelligenza eccezionale. Fin da quando aveva poco più di 10 anni decise di
coltivare la propria vita spirituale in segreto. Il padre sperava che Matteo ottenesse
ottimi risultati negli esami statali, per far carriera e dare maggior fama alla famiglia.
Lo mandò a Roma, la capitale, affinché i più famosi maestri lo istruissero in modo
approfondito nelle varie scienze. Dopo appena tre anni di studio, i suoi pensieri
furono presi dal desiderio della vita religiosa
piuttosto che dal matrimonio, dal
denaro e dalla fama. All'età di diciannove anni [Matteo] chiese di entrare nella santa
Compagnia di Gèsù […] Entrato nella Compagnia, Maestro Ricci mostrò eccellenza
sia nelle lettere che nelle scienze, e per quanto riguarda la sacra dottrina progredì
grandemente ogni giorno e ogni mese e superò sette esami fino al nobile ordine del
sacerdozio》. Da questo passo non possiamo attingere informazioni precise sulle
materie studiate da Ricci; ricaviamo solo una cornice già copiata pazientemente
dagli studiosi cinesi. È pertanto rimasta una lacuna in questo campo.
1.2.
Gli studi occidentali sulla formazione di Ricci
Negli ultimi anni, gli esperti italiani stanno dando sempre più importanza a
questo tema e le loro ricerche accurate stanno producendo risposte sempre più chiare.
Cercheremo di ricostruire la formazione di Ricci seguendo questi preziosi studi.
Prima di tutto, abbiamo bisogno di comprendere come si articolava,
comunemente, il percorso formativo dei gesuiti.
Chi sceglieva di frequentare le scuole dell'Ordine, indipendentemente che facesse
o meno parte della Compagnia di Gesù, doveva avere alle spalle l’esperienza della
scuoletta, nella quale si imparava a leggere, a scrivere e far di conto. Tralasciando il
periodo di noviziato, di un anno prima e di due poi, richiesto solo ai gesuiti, la prima
fase dell’istruzione era dedicata al corso di humanae litterae e consisteva nella
11
frequenza di cinque classi, numerate in modo decrescente dalla quinta classe iniziale
di grammatica alla prima classe di retorica, che potevano impegnare gli studenti da
cinque a sette anni. Le tre classi di “grammatica” (due, nelle situazioni locali meno
organizzate) erano dedicate all’insegnamento della lingua latina. La frequenza della
classe di “umanità” forniva, invece, conoscenze derivanti dagli esercizi di traduzione
delle opere dei maggiori storici, oratori e poeti latini e greci, e dalla lettura di un
manuale classico di retorica. Infine vi era la classe di “retorica”. A questo primo corso
di humanae litterae seguiva quello denominato tradizionalmente corso di "arti" o
“filosofia”; questo includeva tre classi, una di logica, una di fisica o di filosofia
naturale ed infine una di metafisica, per una durata complessiva di tre anni. Nei
collegi maggiori vi era anche una classe di etica, insegnata per un anno
contemporaneamente alla physica o alla metafisica; tuttavia tale classe non era
probabilmente presente nel Collegio Romano quando Ricci ne era studente. Solo dopo
aver ottenuto con un esame il baccellierato in arti, un gesuita era destinato ad
intraprendere una carriera, della durata di due o quattro anni, di docente di
grammatica o umanità, e raramente di retorica. Infine, Il corso di teologia della durata
di quattro anni poteva essere frequentato solo dagli studenti migliori, i quali al terzo
anno di corso giungevano al sacerdozio e alla fine iniziavano la loro vera attività
nell’Ordine.1
Per quanto riguarda la formazione di Matteo Ricci a Macerata, disponiamo di
poche informazioni, sappiamo solo che studiò sotto la guida del sacerdote senese
Nicolò Bencivegni fino all’età di sette anni2, quando il religioso lasciò l’incarico di
tutore per entrare nella compagnia di Gesù3. In seguito l’istruzione del giovane
Matteo fu affidata ad altri precettori. Molti anni dopo, nel 1608, quando era a
1
Cfr. Ugo Baldini, La formazione di Matteo Ricci nelle scienze(1572-1577), Archivum Historicum
Societatis Jesu, 1, 2012, in corso di pubblicazione.
2
F. Mignini sostiene che Ricci compì i primi studi in famiglia sotto la guida del sac.Niccolò
Bencivegni (cfr. F. Mignini, Matteo Ricci.Il chiosco delle fenici, Il lavoro editoriale, Ancona, 2009, p.
260.); anche altri studiosi hanno sottolineato che Ricci studiò privatamente con questo insegnante.
3
Michela Fontana, Matteo Ricci-Un gesuita alla corte dei Ming, Mondadori(collana Oscar storia),
2008, p. 6.
12
Pechino, il missionario Ricci chiese notizie del suo primo insegnante, rivelando così
la profonda influenza che aveva avuto su di lui; inoltre, un riferimento al Serangeli
(altro nome con il quale viene indicato il Bencivegni)in una delle lettere di
Ricci(1599) indica che la decisione di Matteo di entrare nella Compagnia di Gesù fu
ispirata anche dal desiderio di seguire le orme del suo primo precettore1.
Nel 1561 tredici padri gesuiti arrivano a Macerata e aprirono un collegio voluto
dallo stesso Ignazio di Loyola2. Il giovane Matteo, all’età di nove anni, fu uno dei
primi studenti del Collegio gesuitico. Matteo fu allievo del collegio dal 1561 al 1566
e concluse i suoi studi umanistici all’età di quattordici anni. Secondo il primo
biografo di Ricci-Sabatino de Ursis3, missionario gesuita in Cina nonché compagno
dello stesso Ricci, Matteo si distinse per essere uno dei migliori studenti,
dimostrando, già da allora, un’inclinazione alla vocazione religiosa4.
Possiamo dedurre che tra 1561 e 1565, Ricci avesse concluso il triennio di
grammatica. Secondo Bortone, infatti, nel Natale del 1563 Ricci era studente della
terza classe (l’ultima di grammatica)5. Per grammatica si intende la grammatica
latina. Ma De Ursis scrisse che a Macerata Ricci aveva studiato anche “umanità e
retorica”, il che porterebbe al 1566. In realtà vale la pena di discutere l'accuratezza di
questo modo di dire, in particolare per quest’ultimo. Secondo gli studi di U.Baldin,
nel 1565 l’insegnamento della retorica nel collegio fu sospeso per evitare la
concorrenza con un corso comunale avviato in quell’anno. Tuttavia ho notato che vi
è una lieve differenza con il caso descritto da Henri Bernard, il quale, nella prima
1
Si veda La lettera al p. Girolamo Costa S.I. (Matteo Ricci, Lettere (1580-1609), sotto la direzione di
P. Corradini, a cura di F. D’Arelli, Prefazione di F. Mignini, con un saggio di S. Bozzola, Macerata
2001, P. 360. D’ora in poi citato con la sigla L.)
2
Sul complesso processo dell’istituzione di scuole si veda Henri Bernard, il commento e la biografia
di Matteo Ricci, Shangwuyinshu, tradotto da Guan zhenhu, Shang Hai, 1993, p.17.
3
Si veda O.Gentili, p.Matteo Ricci, Roma, 1953, p.19.
4
Cfr. Gianni Criveller, Matteo Ricci
Missione e Ragione, una biografia intellettuale, Milano, 2010, p.
19.
5
Bortone, P. Matteo Ricci S.I., cit., p.16.
13
nota a pagina 17 nella Biografia di Matteo Ricci afferma:
《A causa dell’assenza di studenti, il governatore annullò la classe di retorica
avanzata, la classe di greco avanzato e
la classe di umanità avanzata. In seguito,
questa ultima classe è stata ricostituita dal governatore》.
Emerge una differenza sostanziale; mentre l’uno afferma che la causa della
soppressione del corso di retorica fosse stata la presenza di conflitti tra i corsi stessi,
l’altro sostiene che la causa sia la mancanza di studenti. Altra differenza sostanziale
è che nella seconda ipotesi viene usato il termine “avanzato” per indicare i livelli dei
corsi.
Poiché non sappiamo se Ricci abbia realmente studiato retorica e quale livello
abbia raggiunto, non possiamo escludere questa ipotesi. Infatti, non è possibile
negare che Ricci abbia affrontato gli studi di retorica a Macerata solo perché aveva
in seguito di nuovo studiato la retorica nel Collegio Romano. Lo stesso vale per gli
studi umanistici, egli infatti aveva studiato Umanità non solo nel Collegio di Roma
ma anche a Macerata. Possiamo solo fare delle ipotesi:
La prima possibilità è che la difficoltà e il livello di umanità erano diversi nelle
due fasi di apprendimento. Di fatto, questo si può credere in base al senso comune,
proprio come avviene per gli studenti di oggi che, dalla scuola elementare fino
all'università, studiano le stesse tematiche, ma a livelli diversi.
La seconda e anche la più probabile delle ipotesi è che l’umanità fosse un corso
obbligatorio al Collegio Romano. Prima dell’ingresso nel collegio, il livello delle
conoscenze degli studenti non era uniforme, pertanto, era necessario seguire un corso
obbligatorio di base per raggiungere degli standard comuni.
Inoltre, non è possibile escludere che alcuni insegnanti abbiano messo in guardia
Ricci sulla possibilità che gli studi umanistici avrebbero potuto minare l’autorità di
Dio. Tuttavia, questa ipotesi non sembra avere tanto fondamento, poiché il
funzionamento della scuola gesuita di Macerata era basato sullo spirito di Ignazio di
Loyola. Infatti, fin dall'inizio, Ignazio di Loyola aveva dato importanza all’ umanità e
alla ragione, utili al fine di arricchire l’anima di prospettive multiple.
14
Dei quasi tre anni trascorsi a Roma a studiar legge e a fare pratica
nell’amministrazione dei pubblici affari, dall’autuno 1568 fino alla metà di agosto del
1571, non ci rimane quasi notizia. Nelle memorie degli anni romani, trasmesse in
lettere di vibrante emozione dall’India e dalla Cina ai maestri e agli amici del Collegio
Romano, non si trova alcun cenno al periodo di studio e ai maestri della Sapienza,
quasi che egli avesse vissuto quei tre anni come una sorta di esilio o uno spaesato
intermezzo tra la casa paterna e quella che gli aprirà la Compagnia, preferendo
riservarne il ricordo all’intima privata esperienza1.
Fortunatamente, dagli studi di Gianni Criveller, conosciamo alcuni dettagli dei
corsi offerti alla facoltà di legge della Sapienza di Roma negli anni in cui Ricci la
frequentò. Questi includevano diritto canonico: costituzione, governo, complementari
con il diritto civile, diritto matrimoniale, donazioni. Circa il diritto ordinario:
fondamenti e istituti, le volontà, le obbligazioni, le tutele, i benefici, gli accordi, gli
obblighi verbali ecc..2
Il professor F.Mignini ritiene che si impartissero corsi di filosofia, diritto civile e
canonico, medicina, sacra scrittura3.
Ricci frequentò la facoltà di legge, tuttavia non sembrava affatto interessato alla
giurisprudenza. Sappiamo, infatti, che a partire dal 1569, mentre ancora studiava alla
Sapienza, partecipava ad alcuni incontri di gesuiti della congregazione mariana
dell’Annunziata. Ricci inoltre aveva scelto come suoi confessori i padri della
Compagnia e presto maturò la convinzione che la carriera statale non fosse la sua
strada. Così, prima di aver completato i tre anni di università o appena completati,
prese la decisione di lasciare gli studi di legge e di entrare nella Compagnia di Gesù4.
Ma le esperienze della prima fase di formazione hanno profondamente influenzato
i suoi pensieri filosofici sulla politica; inoltre gli studi di giurisprudenza hanno reso
1
2
3
4
F. Mignini, Matteo ricci.Il chiosco delle fenici,cit., p19.
Gianni Criveller, op. cit., p.22.
F. Mignini, Matteo ricci.Il chiosco delle fenici,cit., p.18.
Si veda Gianni Criveller, op. cit., p.23.
15
Ricci capace e abile nell’instaurare quei rapporti positivi con i funzionari statali e con
le autorità civili, tanto importanti per la sua sopravvivenza in Oriente. Lo studio del
diritto lo aveva infatti reso maggiormente sensibile nei confronti delle prerogative e
dei punti di vista dei funzionari statali1. Il suo pensiero filosofico-politico lo portò ad
ambire, sin dal primo giorno in Cina, l’incontro con l’Imperatore, e a lottare per
questo obiettivo per dieci lunghi anni, senza mai rinunciare. Qui si pensa subito al
confucianesimo e a Confucio. In Cina Taoismo e Buddismo esortano ad abbandonare
il secolo; il Confucianesimo, invece, esorta all’impegno secolare. Questa corrente
sottolinea
le
relazioni
con
imperatore
e
mandarini
importanti,mettono
coraggiosamente in pratica le proprie idee.
Inoltre, la cultura e la storia di Roma ebbero un grande impatto su Ricci. Questo si
evince da due libri che facevano parte del suo patrimonio personale, consegnati alla
Compagnia il giorno dell’ingresso in noviziato. I testi erano una Epitome della storia
romana di Tito Livio, composta sotto l’imperatore Diocleziano da Lucio Anneo Floro
e i Mirabilia Urbis Romae.2 Entrambi descrivono la storia culturale di Roma. Specie
su quest’ultimo, il prof. F. Mignini ha fatto una brillante descrizione:
《La grandezza di Roma poteva essere meglio compresa non limitandosi a un
testo di storia, ma studiando le tracce del passato e ammirando la potenza dispiegata
nelle opere della città medievale, soprattutto in quelle che il secolo in corso stava
erigendo. Con i suoi Mirabilia in mano, Ricci visitò le vie, i fori, gli archi, i teatri di
Roma antica, sui quali gli artisti di gran parte d'Europa erano tornati a imparare e
ispirarsi sin dalla seconda metà del Quattrocento. Entrò nelle basiliche costruite sui
resti dei templi pagani e potè leggere la storia di Roma cristiana nelle pietre e negli
affreschi che si distendevano tra il colle del Quirinale e il colle Vaticano, dove
sorgeva la nuova basilica di San Pietro, simbolo controverso di tutta la cattolicità.
Accompagnato forse da un parente, Matteo salì i gradini che portavano al porticato
della basilica, attraversò con emozione il portone e sostò sotto la cupola che
1
Si veda Gianni Criveller, op. cit., p.23.
2
F. Mignini, Matteo ricci.Il chiosco delle fenici,cit., p.20.
16
Michelangelo, morto quattro anni prima del suo arrivo a Roma, aveva disegnato e
iniziato a costruire. Potè contemplare il ciclo della creazione del mondo sulla volta
della Sistina e si commosse davanti al Giudizio Universale. Non aveva mai visto
prima d'allora le verità fondamentali del cristianesimo rappresentate con tanta potenza
e splendore. Fu accompagnato a visitare anche le Stanze che nel Palazzo Vaticano
Raffaello aveva affrescato. Si soffermò dinanzi alla Scuola di Atene e al compasso
Euclide1》.
Tuttavia è possibile evidenziare qualche incertezza sul terzo libro, il Pantaleon.
F.Mignini, infatti, sostiene che:
《 Si tratta verosimilmente di un ricettario farmaceutico più volte riedito,
composto da Pantaleone di Confienza, autore
di un Pillularium. Non è improbabile
che Matteo lo avesse portato con sé da Macerata, donato da Giovanni Battista per
usarlo all'occorrenza e,al tempo stesso, vincolo simbolico con l'attività e la bottega
paterna. È anche verosimile che il figlio dello speziale si giovasse di quel prontuario
per preparare medicamenti in occasione di attività caritative, di soccorso ai poveri e
agli infermi, alle quali partecipava2》.
Anche se Ricci non ha mai condotto studi in ambito medico, dopo tutto era nato
nella
famiglia di uno speziale, era stato influenzato dall’ambiente circostante e
aveva “assorbito” alcune conoscenze medicinali.
Nel Della Entrata della Compania di Giesù e Christianità nella Cina si racconta
che Ricci andò ad aprire la nuova parrocchia a Jiangxi con la scusa di curare la
malattia di un mandarino:
《Scielou aveva egli un suo figliuolo di età di vintun anno, che puoco prima, in
uno esame del Prefetto delle scuole, non potè ottenere il grado di Siuzai o maestro, e
per questo impazzitte di dolore e di vergogna. Al quale avendo fatto suo Padre molti
rimedij, perché l'amava molto, non lo aveva potuto sanare; e così lo menava seco a
1
F. Mignini, Matteo ricci.Il chiosco delle fenici,cit., p.20.
2
Cfr. F. Mignini, Matteo ricci.Il chiosco delle fenici,cit., p.20.
17
Pacchino. Sino dalla sua terra, che sta vicina a Sciaochino, aveva udito grande cose
della virtù e sapere de' Padri e che adoravano a Dio; perciò gli venne nel pensiero che
forsi, con la loro virtù et orationi, potrebbono guarire suo figliuolo…… venne a
parlare del negocio di suo figliuolo, priegandolo che, se potesse, gli desse qualche
agiuto. Rispose il Padre che non era quel negotio di un giorno o dua, quanto Sua
Signoria si potrebbe detenere in Sciaoceo, ma che era necessario star qualche pezzo di
tempo con lui, e che, se gli dava licentia, egli desiderava andare a vedere la provincia
di Chiansi, e andarebbe con esso lui trattando della salute di suo figliuolo, che sperava
nel suo Dio di dargli qualche agiuto1》.
Tuttavia alcuni sostengono che Ricci conoscesse a menadito la medicina, anche se
tale affermazione sembra eccessiva. In primo luogo, il figlio di Scielou soffriva di
malattia mentale. Siccome Scielou aveva udito grandi cose sulla virtù e il sapere dei
Padri che adoravano Dio, decise di invitare Ricci per fargli curare la malattia del
figlio, e non perché Ricci conoscesse benissimo la medicina e fosse un noto medico.
Inoltre, lo scopo di Ricci era quello di aprire la nuova parrocchia a Jiangxi e
probabilmente egli stesso non aveva la certezza di poter curare la malattia del ragazzo.
Tuttavia non abbiamo alcun dubbio sul fatto che Ricci avesse alcune conoscenze
di medicina; si potrebbe addirittura affermare che la sua conoscenza medica sia
originata principalmente dal Pantaleon. Infatti, Ricci durante la sua giovinezza a
Macerata non aveva avuto occasione di acquisire conoscenze mediche, poiché il padre
sperava che potesse ottenere ottimi risultati agli esami per far carriera e dare maggior
lustro alla famiglia.
Nelle sue lettere e nei diari Ricci non ha mai dichiarato di aver condotto studi
specifici di medicina, ha solo letto pochi libri sul tema al di fuori delle regolari lezioni.
Il Pantaleone è rimasto in possesso di Ricci dall’inizio dell’anno fino all’ingresso nel
noviziato e dovrebbe essere la fonte principale delle sue conoscenze mediche.
Tuttavia questa nostra conclusione è soggettiva e non ben fondata.
1
Cfr. E, p.232.
18
P. Henri Bernard(1889-1975)nel Il commento e la biografia di Matteo Ricci1,
ritengono che il Pantaleone sia un libro di grammatica latina. Tuttavia non cita la
fonte precisa di questa affermazione, pertanto non possiamo sapere se tale
informazione sia effettivamente vera. Tra l’altro, anche se fosse un libro di
grammatica latina, non sarebbe di molto aiuto al fine della nostra ricostruzione,
poiché fin dall'inizio, quando era ancora a Macerata, Ricci ha cominciato a studiare
tale materia. Già dal Medioevo, infatti, la Chiesa cattolica ha usato il latino come
principale lingua liturgica e Ricci, come cattolico devoto, portava una grammatica
latina con sé.
2.
L’influenza degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola
In seguito Ricci entrò nel convento e studiò tutti i corsi spirituali guidato da
p.Fabio de Fabii S.I. Questa esperienza è fondamentale per la sua missione di
evangelizzazione. Nel 1594 Ricci ha scritto a p.Fabio de Fabii S.I:
《Così anco le cose de' primi anni della Compagnia sono quelle che più spesso mi
vengono alla memoria e più profondamente mi stanno radicate nel cuore; quanto più
poi quella charità di V. R. con la quale mi agiutava et drizava nel cammino della virtù;
e gli confesso una verità, che per le cose che mi sono accadute nel mezzo di questi
gentili già tanti anni sono, se non fusse stata la memoria delle cose che Iddio mi aveva
mostrato, quando mi cavò di dentro de' parenti e mi mostrò il monte della religione,
mi sarei ritrovato in molto più grandi pericoli di quelli che mi ritrovai2》.
Quando si parla dei corsi spirituali si fa riferimento principalmente a Esercizi
Spirituali di Ignazio di Loyola. Ignazio di Loyola ha definito così gli Esercizi
Spiritual:
1
Henri Bernard, il commento e la biografia di Matteo Ricci, Shangwuyinshu, tradotto da Guan zhenhu,
Shang Hai, 1993, p.23.
2
Cfr. L, 191.
19
《Con il termine di esercizi spirituali si intende ogni forma di esame di coscienza,
di meditazione, di contemplazione, di preghiera vocale e mentale, e di altre attività
spirituali, come si dirà più avanti. Infatti, come il passeggiare, il camminare e il
correre sono esercizi corporali, così si chiamano esercizi spirituali i diversi modi di
preparare e disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle
eliminate, a cercare e trovare la volontà di Dio nell'organizzazione della propria vita
in ordine alla salvezza dell'anima1》.
In questo libro sottolineava la massima importanza dell’esame di coscienza, della
meditazione e della contemplazione. Su questi tre punti sono presenti istruzioni
specifiche nel [24-26] di Esercizi Spirituali:
《Primo tempo. Al mattino, appena alzati, si deve fare il proposito di evitare con
impegno quel peccato particolare o quel difetto da cui ci si vuole correggere ed
emendare. Secondo tempo. Dopo il pranzo si chiede a Dio nostro Signore quello che
si vuole,cioè la grazia di ricordare quante volte si è caduti in quel peccato particolare
o in quel difetto, e la grazia di emendarsene per l'avvenire. Si fa poi il primo esame,
chiedendo conto alla propria coscienza di quel punto particolare dal quale ci si vuole
correggere ed emendare, passando in rassegna ora per ora, o periodo per periodo, da
quando ci si è alzati fino al momento di questo esame. Sulla prima linea della g = si
segnano tanti punti quante sono le volte che si è caduti in quel peccato particolare o in
quel difetto, e si rinnova il proposito di emendarsene fino al secondo esame che si farà.
Terzo tempo. Dopo la cena si fa il secondo esame allo stesso modo, di ora in ora, a
partire dal primo esame fino a questo secondo. Sulla seconda linea della stessa g = si
segnano tanti punti quante sono le volte che si è caduti in quel peccato particolare o in
quel difetto2》.
Nel Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo è possibile individuare
l’influenza derivata da Esercizi Spiritual:
1
Traduzione pubblicata in Esercizi Spirituali , Edizioni ADP – Roma.
2
Esercizi Spirituali.
20
《Se lei desidera sradicare le molte radici del male e radicarsi nella bontà, farebbe
meglio a seguire le regole della mia Società, ed esaminare se stesso due volte al
giorno, ripercorrendo, ogni mezza giornata, i pensieri, le parole, le azioni per
determinare se siano state buone o cattive. Se le si sia trovate buone, si deve
continuare con esse, e se cattive, ci si deve dare una disciplina per liberarsene. Se
questa pratica è mantenuta per un lungo periodo di tempo, ci si previene dal cadere in
grandi errori, anche se non si ha un insegnante o un protettore che eserciti una più
stretta supervisione.Quando si è lavorato diligentemente per migliorare la propria
condotta morale e si sono raggiunti i più alti livelli di perfezione, si vedrà il Signore
del Cielo nell'occhio della mente, come se lo si avesse veramente di fronte. Quando il
sommamente onorato non abbandona la mente dell'uomo, i pensieri malvagi cessano
naturalmente di mettere ulteriori germogli, e non c'è bisogno di utilizzare alcun'altra
tecnica. I quattro arti dell'uomo cesseranno, spontaneamente, di intraprendere attività
illecite, e non dovranno essere trattenuti. La cosa più essenziale, nell'al lontanarsi dal
male, è un profondo rimorso; si deve determinare che gli errori commessi prima di
pentirsi profondamente non saranno più commessi. Quando la mente sarà pulita, sarà
possibile indossare i preziosi ornamenti della virtù1》.
Sono presenti anche delle descrizioni che riguardano l’esame di coscienza e la
meditazione nel settimo capitolo di Dieci capitoli di un uomo strano(Jiren shipian):
《Dunque sarà meglio che al calar della notte, cessate tutte le attività quotidiane e
spenta la luce, si esamini come sono andate le cose durante la giornata; poi ci si
chieda quale malattia dell'anima sia stata curata in quel giorno, quale desiderio
represso, quale sporcizia lavata, quale comportamento disonorevole corretto, quanti
passi siano stati compiuti verso la virtù e se si è migliorati o no rispetto a ieri. Se si
pratica quest’esercizio, si può diminuire e poi spegnere 1’ira, ridestare l’entusiasmo
1
Matteo Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”, traduzione e cura di Alessandra Chiricosta,
Urbaniana Università Press, 2006, p.265. D’ ora in poi citato con Vero significato.
21
abbandonando la pigrizia, controllare e sciogliere i desideri1》.
Inoltre, I.Loyola sottolineò sempre il ruolo della ragione per la fede e questo punto
ha contribuito a creare l'impatto rivoluzionario di Ricci nelle modalità di trasmissione
del credo2. Approfondiremo questa tematica nella parte successiva.
Grazie alla forza e alla saggezza acquisita attraverso Esercizi Spiritual, Ricci ha
potuto prender piede in Cina e ha ottenuto grandi successi.
3.
La formazione di Ricci nel collegio Romano
3.1.
Ratio studiorum
In seguito Ricci cominciò la carriera di studio presso il Collegio Romano. Prima di
procedere alla ricostruzione bisogna considerare un documento chiave: La Ratio
studiorum. Questo rappresenta il piano di studi e l’insieme delle norme che regolano
l'attività pedagogica e scolastica dei gesuiti. La prima versione della Ratio, apparsa
nel 1566 e formulata compiutamente nel 1599 sotto il generalato di Claudio
Acquaviva, era il prodotto dell'esperienza che i padri gesuiti avevano vissuto nei primi
collegi della Compagnia. La Ratio prendeva le mosse dalla tradizione dell'ideale
letterario umanistico e si basava sul modello universitario parigino, il quale prevedeva
un apprendimento per gradi e una distinzione in classi3. La Ratio era dunque uno
1
Matteo Ricci, Dieci capitoli di un uomo strano, seguito da Otto canzoni per manicordo occidentale, a
cura di Wang suna e Filippo Mignini, pubblicazione dell’Istituto Matteo Ricci, Quodlibet 2010, p.181.
D’ ora in poi citato con Dieci capitoli.
2
In tutti gli esercizi spirituali che seguono ci serviamo degli atti dell'intelletto per ragionare e di quelli
della volontà per suscitare gli affetti; perciò teniamo presente che negli atti della volontà, quando
rivolgiamo preghiere vocali o mentali a Dio nostro Signore o ai santi, si richiede da parte nostra un
maggiore rispetto di quando ci serviamo dell'intelletto per ragionare. (Cfr. Esercizi Spirituali).
3
S. Ignazio e i suoi compagni avevano visto gli studenti di Alcalà divisi in “grandi, medii e piccoli”,
cioè in tre gruppi, dai principianti ai provetti. Ciascun gruppo con il proprio professore. Ma sappiamo
già che l'Università complutense era "imago" di quella parigina. A Parigi il primo collegio che
introdusse l'organizzazione degli studenti in classi fu quello di Montaigu nel 1509, dal quale si
estenderà lentamente agli altri collegi. Nel 1537 nel collegio di S. Barbara, un feudo portoghese ma
frequentato anche dagli spagnoli e dove Ignazio ha studiato filosofia, si possono contare 10 classi di
22
strumento che regolava non solo i programmi ed i metodi di insegnamento, ma anche
i compiti di ogni singolo addetto all'attività educativa. Il piano di studi prevedeva un
corso quinquennale ad indirizzo umanistico, con lo studio del latino e dei classici,
spesso opportunamente censurati, ed in particolare dell'opera di Cicerone; tre anni di
filosofia e quattro di teologia. Per quanto riguarda il metodo educativo adottato, si
privilegiavano sia le ripetizioni che le esercitazioni periodiche, mentre gli studenti
venivano sollecitati alla pratica dell’emulazione e venivano stimolati a sostenere gare,
dispute e rappresentazioni teatrali anche di tipo pubblico. In seguito, dopo la
restaurazione della Compagnia seguita agli scioglimenti del Settecento,
nel 1832
venne promulgata una nuova ratio, ulteriormente revisionata durante il Novecento1.
Alcuni studiosi ritengono che la Ratio sia stata formulata compiutamente nel 1599,
quando Ricci aveva già lasciato Roma (1577), quindi la Ratio non può aver
influenzato gli studi di quest’ultimo. Il Collegio Romano fu fondato da Ignazio come
Scuola di grammatica, umanità e dottrina cristiana, gratis nel 1551; la prima versione
della Ratio apparve nel 1566, quindi è possibile affermare che oltre le esperienze degli
anni precedenti, dal 1551 al 1556 le esperienze di insegnamento del Collegio Romano
certamente hanno fornito molti contenuti base per la formazione della Ratio2, così
possiamo determinare dalla direzione opposta le condizioni di collegio romano.
grammatica.Era certamente una esagerazione. Tuttavia la divisione in classi dello studio del latino
rispondeva a una autentica realizzazione dell'insegnamento. Con questa si poteva superare la
confusione e l'inefficienza esistenti ancora in Italia e che si verificavano immancabilmente nell'offrire
con lezioni retoricamente solenni lo stesso insegnamento ai provetti e ai principianti.(Cfr. Mario Fois,
Il Collegio Romano ai tempi degli studi del P. Mateto Ricci, in atti del convegno internazionale di Studi
Ricciani, Macerata-Roma, 22-25 October 1982, a cura di Maria Cigliano, Centro Studi Ricciani,
Macerata 1984, pp. 203-28.).
1
Cfr. Dizionario di storia moderna e
contemporanea,( http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/r/r010.htm).
2
Prima che tutte le opere di ristrutturazione dei locali preesistenti e le nuove costruzioni fossero
condotte a termine, gli alunni fin dall'anno accademico 1561/62 toccavano la bella cifra di 910: 80 in
teologia, 300 in filosofia e 530 in lettere. Questo numero, già notevole, sarà superato. Quando Matteo
Ricci frequentava il suo ultimo anno di lettere (la retorica), nel 1574/75, gli studenti erano 1330 circa,
dei quali 600 erano studenti di lettere, 230 di filosofia, 250 di teologia e altri 250 frequentavano le
lezioni bisettimanali, diventate l'anno seguente quotidiane, di teologia morale o "casi di coscienza". Tra
23
Sono emerse dispute aspre fra i diversi studiosi sul soggiorno di Ricci a Firenze e
sull’inizio e la conclusione dei suoi studi di retorica.
L’esperto cinese Lin jin shui, studioso di Ricci, ritiene che dopo tredici mesi di
studio nel noviziato, Ricci entrò nel Collegio Romano, dopo il giuramento, il 17
settembre 1572 1 . Qui ha studiato due anni di Retorica e tre anni di filosofia 2 .
L’autorevole studioso asserisce, inoltre, che Ricci sia stato inviato nel Collegio dei
Gesuiti a Firenze per un soggiorno di breve durata il 25 maggio 1572.
Michela Fontana ritiene che Matteo Ricci fu ammesso al Collegio Romano il 17
settembre 1572, dopo aver trascorso un breve periodo nel Collegio di Firenze3.
Vi sono altre teorie su questo periodo. Bernard e R.P.Henri affermano che Ricci
sia stato inviato a Firenze per un soggiorno di breve durata, probabilmente senza uno
scopo specifico, forse 《Ricci va in Portogallo via Firenze4》.
F. Mignini invece usa le parole “alcuni mesi”5. Egli, per quanto riguarda il periodo
di inizio degli studi di Ricci e le discipline da questo studiate, ritiene che il giovane
sia stato mandato nel giugno del 15726
in un collegio della Toscana, forse a Firenze,
presso la chiesa di S.Giovannino, per studiare ancora umanità (per quasi un anno) con
padre Martino de Fornari. Ricci citerà talvolta Firenze nelle sue lettere come termine
di paragone per indicare la grandezza di alcune città cinesi. (Ricci paragona Firenze
alla città di Nanchang per la grandezza)7.
questi ultimi "auditores" si potevano vedere diversi dottori e ufficiali della Curia papale. L'anno
seguente gli studenti saranno già 1500 . Gli studenti dell'ordine, ossia gli scolastici gesuiti, oscillavano
durante questi stessi anni tra i 130 e i 140(Cfr. Mario Fois, op. Cit., pp. 203-28.).
1
Il giorno del giuramento dovrebbe essere il 15, entra nel Collegio Romano il 17.
2
Lin jinshui, Zou ping, Matteo Ricci-un Confuciano occidentale, Guojiwenhua , Pechino, 2000 p. 10.
Cfr. Michela Fontana, op. Cit., p.11.
3
4
Henri Bernard, il commento e la biografia di Matteo Ricci, Shangwuyinshu, tradotto da Guan zhenhu,
Shang Hai, 1993, p.24.
5
Cfr. Matteo Ricci, un modello di evangelizzatore: amico della Cina e portatore del Vangelo, in
Quaderni della Segreteria Generale CEI, Quaderno per studenti di teologia, n. 6: Matteo Ricci, dialogo
tra Cina e occidente, Clarhotel, Roma (9-12 luglio 2007), Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il
lavoro, giugno 2008, anno XII, n. 18.
6
Qualche studioso cinese crede che Ricci sia stato inviato a Firenze nell'autunno del 1572.
7
Si veda Appunti di cronologia ricciana (di Filippo Mignini) in L.
24
Invece, per quanto riguarda il ritorno, F.Mignini ritiene che nell’ottobre del 1573,
presso il Collegio Romano, Ricci abbia iniziato il biennio del corso di retorica1.
F. Mignini crede ancora che probabilmente Ricci abbia iniziato il corso di
filosofia nell’autunno del 15742, alludendo al fatto che il giovane Matteo Ricci abbia
studiato solo un anno di retorica presso il Collegio Romano.
3.2.
Retorica / Dialettica
Lo studio della Retorica ha un ruolo significativo nella formazione del
sistema
ricciano. La retorica è l’arte di parlar bene, la disciplina che studia il metodo di
composizione dei discorsi, ovvero come organizzare il linguaggio naturale (non
simbolico) secondo un criterio per il quale ad una proposizione segua una conclusione.
Sotto questo aspetto essa è un metalinguaggio, in quanto cioè un «discorso sul
discorso»3.
Gli studiosi in passato hanno ignorato il ruolo importante della retorica nella
costruzione del sistema filosofico ricciano. Nel De oratore, opera in tre libri sotto
forma di dialogo completata attorno al 55 a.C., Cicerone affronta il tema del rapporto
tra filosofia e retorica, affermando, sulla scorta di Platone, che senza la filosofia la
retorica è vuota, ma che, d’altro canto, la retorica non può essere screditata dai filosofi,
poiché proprio l’eloquenza è il fondamento della società civile. Filosofia e retorica,
dunque, non sono opposte, ma semmai complementari, cosicché il buon retore deve
essere filosofo.
Possiamo infatti affermare che le opere di Aristotele e Tommaso d'Aquino hanno
fornito le basi (materie) per il sistema ricciano, invece Cicerone ha offerto la forma e
1
Cfr., Matteo Ricci , incontro di civiltà nella Cina dei Ming, a cura di Filippo Mignini, Regione
Marche. Per il tempo di ritorno F. Mignini ha scritto ancora:《Vi tornasse per passare l’estate》(F.
Mignini, Matteo Ricci.Il chiosco delle fenici, cit., p.30).
2
. F. Mignini, Matteo Ricci filosofo. Appunti per una ricerca in D. Bosco, R. Garaventa, L. Gentile, C.
Tuozzolo, Logica Ontologia ed Etica, Franco Angeli, Milano 2011, pp 427- 442.
3
Cfr. R. Barthes, La retorica antica, trad. it., Milano 2006, p. 7.
25
struttura per questo palazzo. Quando Ricci studiò la grammatica e la retorica presso il
Collegio Romano, i materiali di consultazione erano le opere di Cicerone.
Quando parla del problema de “il modus del Collegio Romano”, Mario Fois
afferma che lo scopo della classe “infima”, alla quale venivano accettati soltanto i
ragazzi che sapevano leggere e scrivere, era quello di assimilare i “latinae
grammaticae rudimenta” in modo talmente solido che nella classe seguente, oltre a
perfezionare lo studio della grammatica, s'iniziava lo studio della sintassi.
Contemporaneamente l’alunno cominciava a gustare quel modello di stile che era
ritenuto insuperabile nella lingua latina, cioè lo stile di Cicerone, del quale gli
venivano fatte studiare lettere scelte, perché potesse attingere “prima exempla”, i
primi modelli delle proprie composizioni 1 . e “nella seconda, dove si studia
"humanitas” si postula ormai la “elegantia sermonis, copiamque rerum ac verborum”
sia nelle composizioni in prosa, sia in quelle poetiche, che si acquisisce con lo studio
e i continui esercizi pratici su Cicerone e su un poeta scelto”2.
Anche se la lingua usata da Ricci in Cina è il cinese anziché il latino, poiché le
lingue condividono un carattere generale, possiamo asserire che Cicerone ha
influenzato profondamente Ricci. Se non ci fosse stata la base profonda di retorica,
Ricci non avrebbe potuto raggiungere un tale successo nella scrittura cinese. Anche se
vi è polemica su questo problema, quelli che credono che il risultato di retorica hanno
ovviamente accettato la valutazione di suo professore Fulvio Cardulo:
“Risultati mediocri3;buona salute;atto ad insegnare nella seconda classe, ma non
a Roma, e a suo tempo a predicare4”, inoltre,“la ripetizione del programma di
umanità imposta a Ricci l’anno precedente potrebbe indicare che la sua preparazione e
1
Mario Fois, IL Collegio Romano ai tempi degli studi del P.Matto Ricci, Decano della Facoltà di
Storia Ecclesiastica, Pontificia Università Gregoriana.
2
Ibidem.
3
F. Mignini ritiene che il termine mediocri non sia qui usato nella sua accezione negativa, si veda F.
Mignini, Matteo Ricci.Il chiosco delle fenici,cit., p.270.
4
Cfr. Ibidem.
26
profitto non erano ottimali1”, ma ciò contrasta con la sua successiva designazione a
docente di lettere in India e con quanto egli stesso disse a De Ursis circa il proprio
successo negli studi a Macerata. De Ursis scrisse che a Macerata Ricci aveva
conseguito “notevole successo sopra i suoi compagni2”, quindi Baldini crede
che
“Lo potrebbe interpretare come frutto dell’angustia specialistica d’un docente, che lo
portò a valutare una personalità forse esteriormente poco letteraria(nel senso di non
faconda o incline all’esibizione retorica ) come -tout court- intellettualmente
modesta3”.
3.3.
Mnemotecnica
Inoltre, in quel periodo, spinto forse dal desiderio di migliorare il profitto negli
studi, forse dalla naturale curiosità per tutte le scienze o dall’incitamento dei superiori,
Ricci si mise a studiare e a praticare l’arte della memoria4. Egli se ne servì in due
sensi. Anzitutto come strumento attraverso il quale, nella penosa carenza di libri che
spesso lamentava, poteva conservare e sfruttare la miniera del suo sapere. Egli stesso
dichiara che la maggior parte delle cose che aveva stampate erano quelle che
conservava nella memoria5:
《Intanto io mi trovo in tanto mancamento di libri, che il più delle cose che io
stampo sono quelle che ho nella memoria, ed a me manca altresì tempo, per il carico
che ho di questa impresa e per il traffico di questa casa, tralasciando poi di dire della
mia inabilità e poco sapere6》.
In secondo luogo, Ricci sfruttò intenzionalmente la sua prodigiosa potenza
1
Cfr. Ibidem.
2
Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, cit., I, p.CII, pp.551-552.
3
Ugo Baldini, La formazione di Matteo Ricci nelle scienze(1572-1577).
4
Si veda F. Mignini, Matteo ricci.Il chiosco delle fenici, cit., p.31.
5
Si veda un modello di evangelizzatore: amico della Cina e portatore del Vangelo.
6
Lettera al p.Girolamo Costa S.i.-Roma, Pechino, 6 marzo 1608, L. 461.
27
mnemonica per impressionare gli interlocutori cinesi e conquistare la loro ammirata
attenzione, come si evince dalla sua descrizione a P.Dvarte deSande nel 1595:
《Un giorno, invitato da alcuni letterati di primo grado, successe un fatto che mi
diede grande reputazione tra di loro e tra tutti i letterati della città; mi ero fatto una
buona memoria locale delle lettere cinesi, e poiché mi trovavo in gradevole
conversazione con quei letterati volli accrescere ancor più il mio credito presso di loro
mostrando ciò che sapevo delle lettere cinesi, perché comprendevo quanto questo
potesse contribuire al servizio e alla gloria di Nostro Signore e ai nostri scopi, chiesi
loro di scrivere molte lettere cinesi su un pezzo di carta senza alcun ordine preciso, io
le avrei lette una sola volta e ripetute a memoria nell'ordine in cui erano state scritte.
Così fecero e io, dopo averle lette una sola volta riuscii a ripeterle esattamente come
erano state scritte: ne furono ammirati, e sembrò loro una grande impresa; per
accrescere il loro stupore iniziai a recitarle, a memoria e con la stessa facilità,
nell'ordine inverso, iniziando dall'ultima per arrivare alla prima: allora rimasero
sbalorditi1》.
In quel periodo in Cina la cerchia dei dotti bramavano per ottenere fama e
successo attraverso gli esami imperiali2. Questi esami aveva vari requisiti complessi,
per preparare gli esami imperiali, i partecipanti dovevano ricordare bene quattro libri
e cinque dottrine, specie quattro libri, cioè il grande studio , l’invariabile mezzo, i
dialoghi e mencio. Secondo alcune statistiche, per preparare questi esami i
partecipanti dovevano ricordare bene più di cinquecentomila caratteri cinesi.
Ovviamente Mnemotecnica occidentale di Ricci era di grande aiuto per loro,
poiché nell’antica Cina non esisteva la mnemonica in senso scientifico. All’epoca si
sottolineava il modo di ripetere meccanicamente senza capire il significato; in
1
Matteo Ricci, Lettere dalla Cina(1584-1608), introduzione di Jacques Gernet,Transeuropa, Ancona,
1999, p.76.
2
Gli esami imperiali (科舉, kējǔ), nella Cina dinastica, costituivano il sistema con cui venivano
selezionati tra la popolazione dell'impero i funzionari della burocrazia statale. Dalla sua istituzione nel
605 sotto la dinastia Sui il sistema degli esami durò 1300 anni fino alla sua abolizione nel 1905 sotto i
Qing, alla fine dell'età imperiale.
28
Mnemotecnica occidentale, invece, è stato compiuto un ulteriore passo, cioè il
pensiero immaginativo.
Vediamo un po’ le differenze tra loro:
Cina:
Cosa
(qualsiasi
oggetto
esistente) → percepire→leggere
e
recitare
a
memoria→cuore(organo di memoria)
Occidente:
Cosa(qualsiasi oggetto esistente)→i cinque organi ( percepire ) →stabilire
l’immagine(disegnare il punto e l’immagine attraverso il pensare)→l’immagine
nuova→cervello(organo di memoria)1
Attraverso la dimostrazione della mnemonica, Ricci faceva cadere ai suoi piedi
tanti letterati e tanti mandarini importanti:
《Mi pregarono di insegnare loro quella regola divina per avere tanta memoria.
Questa mia fama cominciò a correre in modo tale tra i letterati che non riuscivo a far
fronte alla gente importante che ogni giorno veniva a domandarmi di insegnargli
questa scienza; mi volevano come maestro, e come tale mi avrebbero favorito e
pagato anche in soldi come si fa con i maestri2》.
3.4.
Corso di Filosofia
Secondo gli studi di U. Baldini, Ricci ha iniziato lo studio della filosofia
nell'autunno del 1574. L’istituzione del corso e degli insegnanti del Collegio Romano
all’epoca erano i seguenti3:
1
Wang Jie,l’esperienze storiche e l’ispirazione di Mnemotecnica occidentale nella dinastia Ming e
Qing, Università normale di Shanghai, 2007.
2
Matteo Ricci, Lettere dalla Cina (1584-1608), introduzione di Jacques Gernet, Transeuropa, Ancona,
1999, p.76.
3
Ugo Baldini, La formazione di Matteo Ricci nelle scienze(1572-1577).
29
1574/5
Logica
Matematica
1575/6
Physica
Matematica
1576/7
3.4.a.
Antonio Maria Menù
【Bartolomeo Ricci o C.CLAVIO】
A.M.Menù
【Bartolomeo Ricci o C.CLAVIO】
metafisica
A.M.Menù
Matematica
Ferdinando
Capece
Logica
La logica è l’elemento forse più importante della filosofia occidentale. Certamente
Matteo Ricci dà importanza alla logica, egli afferma in Vera spiegazione (della
dottrina) del Signore del Cielo che 《se le persone vogliono comprendere i principi
profondi delle cose, c’è una sola maniera di farlo, e cioè di inferire ciò che è nascosto
all’interno da ciò che è esterno e facile da vedere1》. in un certo senso, questa logica è
proprio l’arma che attrae i letterati cinesi; tuttavia questo non significa che non ci sia
la logica nella dottrina cinese, ma che sia morale e percettiva2.
Attualmente, gli studiosi cinesi hanno quasi raggiunto un accordo sul fatto che
Ricci sia stata la prima persona ad aver introdotto la logica occidentale in Cina. Per
1
Matteo Ricci, Vero significato.
2
Zhou Y i(Il classico dei mutamenti) come il codice culturale di pre Qin della Cina ha costruito un
sistema logico altamente astratto, ma questa logica ha grandi differenze con quella occidentale; infatti
non segue con attenzione la logica formale e neanche la logica dialettica. Zhou Yi suppone le cose
usando il modo di accostare a forza,questa logica ha caratteristiche di misticismo.Nel Mozi ci sono la
logica formale e la logica dialettica, ma il sistema non è completo né così preciso come la logica
aristotelica; inoltre la politica di ripudiare le cento scuole e rispettare solo il confucianesimo di dinastia
Qin, la scuola di Mozi andava declinando, così non ha avuto influenzato molto la struttura psicologica
dei cinesi.
30
logica occidentale qui si intende la “Geometria di Euclide”. Per la Cina moderna la
Geometria è significativa non solo in matematica, ma anche nella storia della logica.
È la prima volta che viene introdotto un nuovo metodo deduttivo presso gli
intellettuali cinesi.
Il migliore amico di Ricci, Li Zhizao, aveva tradotto Ming litan (L’analisi dei
principi attraverso l’analisi dei nomi) che riflette il pensiero della logica di Aristotele
in collaborazione con il missionario occidentale Francisco Furtado. Questo è il primo
lavoro accademico di logica occidentale introdotto sistematicamente.
La versione originale di Ming litan è quella che viene pubblicata la prima volta
come edizione latina a Colonia in Germania nel 1611 ed è la dispensa filosofica
dell'Università di Coimbra per i gesuiti. Il nome completo di questo libro è la chiosa
della summa di dialettica aristotelica. Anche se questo libro è stato pubblicato dopo
la morte di Ricci, era stato sempre dispensa filosofica dell'Università di Coimbra per i
gesuiti. Ricci aveva studiato presso l'Università di Coimbra, quindi aveva studiato
anche questo testo, come possiamo dedurre dai suoi scritti.
3.4.b.
Matematica e scienze applicate (Astronomia / Cosmologia,
Geografia, Cartografia, scienze e tecniche degli Orologi)
Secondo quanto previsto dal curriculum gesuitico, i gesuiti dovevano cominciare a
studiare la matematica al secondo anno del corso di filosofia, per gettare solide basi
per il successivo studio della metafisica. Se così fosse, Ricci avrebbe dovuto
cominciare a studiare matematica nel 1575/1576. In conformità ai requisiti di corso,
solo il primo anno della classe di matematica era obbligatorio. Nel secondo anno,
contemporaneamente al corso di metafisica, c’era anche il corso di matematica
elettiva, ma non era obbligatorio.
Ricci lasciò Roma il 18 maggio 1577, doveva prepararsi psicologicamente e
fisicamente diversi mesi prima di intraprendere il suo viaggio; così nel corso
dell'ultimo anno egli ha potuto seguire solo una parte del corso di matematica.
31
Secondo questo calcolo, Ricci avrebbe dunque seguito poco più di un anno del
suddetto corso. Questo, tuttavia, non spiegherebbe le ampie conoscenze che Ricci
dimostrò di avere all’arrivo in Cina, ed apparirebbe insufficiente a chiarire la sua
preparazione. Inoltre Ricci ha ammesso francamente di aver studiato alcuni anni con
Clavio, dovrebbero almeno essere più di due anni. Evidentemente il suo corso di studi
non dovette corrispondere a quello previsto dagli ordinamenti ufficiali1.
U.Baldini ritiene possibile che –a seguito di un interesse precedente o per una
scoperta subitanea della disciplina- (Ricci) iniziasse a seguire le lezioni di matematica
fin dall’anno di logica, nel qual caso avrebbe potuto seguire il corso avanzato nel
1575-6 e 1576-7.2
Questa teoria coincide perfettamente con l’idea del ricercatore cinese studioso di
Matteo Ricci. Egli sostiene che Il primo anno si studiava la matematica; il secondo
anno si studiavano quattro mesi circa i libri I-IV della Geometria euclidea, un mese e
mezzo di Matematica Applicata, due mesi e mezzo di Astronomia e due mesi di
Geografia, la parte restante del semestre era impiegata per studiare i libri V-VI della
Geometria; il terzo anno, infine, si studiavano due mesi di astrolabio, quattro mesi di
principi del pianeta e tre mesi di Prospettiva, nel tempo residuo si studiava la
fabbricazione di orologi e il calendario della chiesa3.
Qui non voglio dedicare molto spazio alla descrizione della grandezza di Clavio;
tuttavia è importante considerare i suoi scritti. Molte delle sue opere sono state
introdotte in Cina da Matteo Ricci e da altri gesuiti, la maggior parte sono ancora
conservate nella Biblioteca di Beitang precedente (adesso sono conservati nella
1
Questi infatti contemplavano la possibilità di adattare il curricolo alle capacità e al profitto degli
studenti, specialmente per non penalizzare i migliori. Se un allievo dimostrava di aver conseguito la
preparazione richiesta in un corso di studi, poteva passare anche nel medesimo anno a quello
successivo. Inoltre si concedeva la possibilità di insegnamenti complementari e più avanzati in alcune
discipline, come in quelle matematiche, per studenti dotati di particolare disposizione e interesse.(Cfr.
F. Mignini, Matteo Ricci.Il chiosco delle fenici, cit., p.35).
2
Ugo Baldini, La formazione di Matteo Ricci nelle scienze(1572-1577).
3
Cfr. Lin Jinshui, Matteo Ricci e la Cina, cit., p.3..
32
Biblioteca Nazionale)1:
(1)Opera Mathematics,1612;
(2 ) Algebra,1609;
(3 ) Astrolabivm,Romae ,1593;
(4)Compendium Brevissimvm Describendorvm,1603;
(5)Epitome Arithmeticae Practicae,1585;
(6)Euclidis Elementrum Libri XV,1591,1603;
(7)Fabrica et Vsvs Instrumenti ad Horologiorum Descriptionem Peropportvni,
1586;
(8)Geometriae Practices,1604;
(9)Gnomonices Libri Octo,1581;
(10)Horologiorum Nova Descriptio,1599;
(11)Novi Calendarii Romani Apologia,1588;
(12)Ratio Facilis et Perspicua Conficiendi Omnis Generic Solaria a Meridie et
Media Nocte in Quouis Plano,1595;
(13 ) Romani Calendarii a Gregorio XIII,1603;
(14)In Sphaeram Joannis de Sacro,1585,1602,1606,1607;
(15)Tabvlae Astronomicae Nonnvllae ad Horologiorum Constructionem Maxime
Vtiles,1605.
Tutti questi testi giunsero in Cina prima della morte di Ricci. Come responsabile
della missione della Cina, Ricci era così appassionato di matematica da ritenere che
questa avesse un ruolo importante per l’evangelizzazione, per tale motivo egli avrebbe
1
Cfr. Pan Yining, Il tentativo di amalgama fra la matematica cinese e occidentale, Studies in the
History of Natural Sciences Vol. 25 , No. 3 ( 2006 ).
33
letto la maggior parte dei suddetti libri. Questi dati risultano significativi al fine di
studiare le conoscenze matematiche generali acquisite da Ricci nel corso del tempo di
quello che aveva studiato in collegio a Roma.
Dobbiamo quindi esaminare gli scritti di Clavio studiati da Ricci prima che
lasciasse il Collegio Romano.
Tra i testi composti da Clavio prima di quell'anno per questo livello
d'insegnamento, due (il commento a Sacrobosco e quello a Euclide) erano stati
stampati già prima e, come noto, furono centrali nell'insegnamento di Ricci in Cina;
cinque (la Gnomonica, i Triangula rectilinea, i Triangula sphaerica, il commento alla
Sphaera di Teodosio, l’Arithmetica practica) furono pubblicati dopo, e non è noto se
e quanti di essi Ricci conobbe già a Roma; uno (il Primum mobile), non conservato
nella stesura originaria, passò solo in forma indiretta e parziale nell’Astrolabium,
edito nel 1593; infine uno o due altri (la Cosmographia e la Geographia, già attestati
rispettivame nel 1570 e nel 1580), non furono pubblicati e sembrano perduti1.
Le vaghe informazioni a disposizione hanno causato un’altra grande difficoltà alla
nostra ricostruzione; tuttavia U.baldini ha trovato una prospettiva di ricerca
maggiormente affidabile.
Nel 1580 Clavio propose ai superiori del Collegio tre nuovi programmi di studio
della matematica (minimo, medio e massimo) con lo scopo di potenziare il corso
pubblico della disciplina nei collegi. La domanda non fu accolta, ma si inserisce nel
disegno claviano di istituzionalizzare l’accademia e in una sua più generale volontà di
consolidamento e promozione dello studio della matematica, che non può essere
passata inosservata a Ricci,perché i tre programmi sono uno strumento d’indagine
storica.
I programmi di Clavio si articolavano nel modo seguente2:
PROGRAMMA MINIMO. PRIMO ANNO:
1
Cfr. Ugo Baldini, La formazione di Matteo Ricci nelle scienze(1572-1577).
2
Cfr. Ibidem.
34
1.
Libri I-IV degli Elementi euclidei (da novembre a fine gennaio)
2.
Aritmetica pratica (stesso periodo)
3.
Sfera ed elementi di computo ecclesiastico (dai primi di febbraio alla Pasqua)
4.
Libri V e VI degli Elementi (dalla Pasqua alla Pentecoste)
5. Uso del quadrato geometrico e del quadrante astronomico (stesso periodo)
6.Perspectiva (elementi di ottica geometrica): dalla Pentecoste alla fine dell'anno
scolasti7.
Gnomonica elementare (stesso periodo)
SECONDO ANNO:
8.
Libri XI e XII degli Elementi (da novembre al Natale)
9.
Trigonometria elementare e sue applicazioni alla teorica del primo mobile
(dalle festività d'inizio anno alla Quaresima)
10. Geografia (nozioni essenziali), nello stesso periodo
11. Uso dell'astrolabio, con premesse le propp. I-V dei Conici di Apollonio (dalla
Quaresima alla festa di S. Giovanni Battista, il 24 giugno)
12. Teoria dei pianeti e uso delle tavole astronomiche (nello stesso periodo)
13. Misura del cerchio, ricerca delle medie proporzionali, duplicazione del cubo
(da fine giugno alla fine dell'anno scolastico)
14. Elementi di algebra (nello stesso periodo)
15. Misure di figure (nello stesso periodo)
PROGRAMMA MEDIO (PRIVO DI DIVISIONE IN PERIODI):
1.
Libri I-IV degli Elementi
2.
Aritmetica pratica, proporzioni, proporzionalità, progressioni.
3.
Sfera ed elementi di computo ecclesiastico
4.
Libri V e VI degli Elementi
5.
Uso del quadrato geometrico e del quadrante astronomico
6.
Libri XI e XII degli Elementi
7. Trigonometria elementare
8. Gli Sphaerica di Teodosio
9. Elementi di trigonometria sferica
35
10. Teoria e uso dell'astrolabio
11. teoria e pratica della gnomonica
12. Geografia
13. Misura delle figure geometriche
14. Elementi di prospettiva lineare
15. Fenomeni e problemi di astronomia
16. Moti dei pianeti e dell'ottava sfera, uso delle tavole astronomiche
17. Misura ael cerchio, ricerca delle medie proporzionali, duplicazione del cubo
18. Arimetica superiore e teoria musicale
19. Elementi di algebra
PROGRAMMA MASSIMO (PRIVO DI DIVISIONE IN PERIODI):
1. Libri I-IV degli Elementi di Euclide, con sviluppi successivi e recenti della
geometria piana
2.
Aritmetica pratica, proporzioni, proporzionalità, progressioni
3.
Sfera e computo ecclesiastico
4.
Libri V-VI degli Elementi
5 Uso del Quadrato geometrico del quadrante astronomico e di altri strumenti di
misura
6. Libri VII-X degli Elementi, o opere recenti relative agli stessi argomenti
7.Algebra
8.
Libri XI-XIII degli Elementi e gli pseudo-euclidei libri XIV e XV
9.
Trigonometria piana elementare
10. Sphaerica di Teodosio
9. Elementi di trigono:
11. Elementi di trigonometria sferica
12. Teoria e uso dell'astrolabio
13. Gnomonica teorica e pratica
14. Geografia
15. Misura delle aree di figure e solidi
36
16. Prospettiva lineare e teoria dello specchio ustorio
17. Problemi particolari di astronomia
18. Teorica dei pianeti e dell'ottava sfera, con l'uso delle tavole
19. Teoria musicale
20. Geometria avanzata (soprattutto Archimede)
21. Statica e teoria delle macchine semplici
22. Problemi di geometria delle coniche
Se Matteo Ricci cominciò a studiare la matematica dal 1574/1575 e lasciò Roma
nel mese di maggio del 1577, sottraendo qualche tempo per la preparazione del
viaggio; il tempo totale impiegato da Ricci per studiare la matematica sarebbe di due
anni e mezzo circa. Se così fosse, Ricci avrebbe dovuto studiare due anni di
PROGRAMMA MINIMO e circa la metà del corso di PROGRAMMA MEDIO.
Confrontando i programmi stilati da Clavio con gli
argomenti trattati nei circa
quindici scritti scientifici ricciani, è possibile anche sapere quale matematica egli
studiò con il docente, e per quanto tempo, poiché quello aveva inserito la parte
dell’anno scolastico in cui trattare ciascun argomento.
Emerge così una sostanziale corrispondenza tra le conoscenze del gesuita e il
programma minimo: elementi euclidei, uso del quadrato geometrico e del quadrante
astronomico, geometria, cosmologia, geografia fisica, musica e traduzioni di testi
claviani su aritmetica pratica, sfera, figure isoperimetriche.
Inoltre si può segnalare che l’area delle “non conoscenze” ricciane è in certa
misura corrispondente ai settori che i programmi medio e massimo aggiungevano al
minimo: ottica, geometria superiore (linee, aeree e volumi complessi, coniche e curve
superiori), statica con applicazioni alla teoria delle macchine.
L’ambito della sua produzione scientifica coincide quindi quasi completamente
con quello della scientia claviana, con una sola eccezione: la cartografia.
Negli ultimi anni in Cina,si è sviluppato un acceso dibattito sul perché Matteo
Ricci and Xu Guangqi avessero tradotto solo i primi sei volumi di Elementi di
37
geometria, ma non gli ultimi nove volumi1. Alcuni credono che la diffusione delle
conoscenze scientifiche fosse solo un'esca e, una volta raggiunta una certa efficacia
nell’evangelizzazione, non sarebbe stata più usata. Altri affermano che il motivo per
cui Ricci abbia omesso la traduzione degli altri volumi era quello di mantenere il
mistero. Altri ancora pensano che sia impossibile che i missionari potessero
diffondere, in regime di monopolio, tutte le conoscenze per le persone di un altro
paese. Molti, infine, credono che Ricci non possedesse le conoscenze di geometria
solida.
Dagli studi suddetti, sappiamo che nel secondo anno di MINIMO, Ricci aveva
studiato i Libri XI e XII degli Elementi; inoltre possiamo trovare alcune
testimonianze dalle attività di Matteo Ricci in Cina:
1.
Dopo il 1583, in Cina, Matteo Ricci ha svolto più volte attività di
astronomia e geografia come: disegnare mappe, misurare la latitudine e la
longitudine, dimostrare che il sole è più grande della Terra e la Terra più grande
della luna, e così via. Queste attività devono essere basate sulla conoscenza
profonda della Geometria Solida.
2.
Nel mese di maggio del 1600, Matteo Ricci arrivò a Pechino per
propagandare il pensiero che sia il cielo che la terra sono rotonde. Aveva scritto il
famoso Spiegazioni essenziali di cielo e terra per introdurre la teoria astronomica
occidentale. Nel terzo volume di questo libro, intitolato Yuan rong jiao yi,
egli
utilizzava il metodo corretto per dimostrare che “quando la superficie è certa, il
volume della sfera è il più grande”, una proposizione, questa, abbastanza difficile
nel campo della Geometria Solida.
3.
Nel novembre 1596, Ricci ha ricevuto il nuovo libro pubblicato dal suo
maestro Clavio, Astrolabium. Ricci lo studiò a fondo e la seconda metà del 1600,
dopo l’incontro con Li zhi zao, ne spiegò i contenuti a quest’ultimo. In
collaborazione con Li, Ricci ha anche tradotto alcuni contenuti dell’ Astrolabio e
1
Elementi di geometria consiste in 13 libri: i primi sei riguardanti la geometria piana, i successivi
quattro i rapporti tra grandezze (in particolare il decimo libro riguarda la teoria degli incommensurabili)
e gli ultimi tre la geometria solida. Elementi di geometria è rivisto da C.Clavio quindici volumi.
38
sfera con figure e commento(Hungai tongxian tushuo). Questo libro introduce
principalmente il metodo della fabbricazione dell’astrolabio, illustra la natura di
proiezione e la pittura di una serie di cerchi e contiene numerosi concetti sulla
geometria solida.
Quindi, si può affermare con certezza che Ricci possedesse le conoscenze di
geometria solida, mentre la teoria secondo cui Ricci non conosceva la geometria
solida è insostenibile1. Questo, a sua volta, dimostra che la deduzione di U.baldini è
corretta.
3.4.c.
Fisica
Con la parola fisica si rappresenta una collettiva definizione della scienza naturale
attuale da non confondere con la fisica in senso moderno. Alcuni spiegano la natura
attraverso la metafisica, con questa carattere può essere classificato come filosofia
naturale. Essa comprende Chimica, Fisica, Geologia, Astronomia, Biologia e
cosmologia in senso moderno.
Durante l'epoca di Ricci assistiamo ad un considerevole mutamento nel campo
delle scienze naturali, soprattutto nel campo dell'astronomia. Ne è un esempio la
teoria di Niccolò Copernico, che posiziona il Sole al centro del sistema di orbite dei
pianeti appartenenti al sistema solare, riprendendo l’eliocentrismo di Aristarco di
Samo in opposizione al geocentrismo, che supponeva la Terra al centro del sistema2.
1
Cfr. Yang Zezhong, I motivi per cui Matteo Ricci sospese la traduzione degli Elementi di geometria,
History teaching, No. 2, Tianjing, 2004.
2
Nella seconda metà del 20 ° secolo, Matteo Ricci e altri gesuiti hanno ricevuto il biasimo
dell’opinione pubblica, che li accusava di aver nascosto volutamente gli sviluppi dell’astronomia
europea e di aver introdotto in Cina solo il vecchio sistema tolemaico e Tycho. Così facendo questi
hanno ostacolato l’accettazione dei cinesi della teoria copernicana. Se nel 1543 è stata pubblicata
l’opera di Copernico De Revolutionibus Orbium Coelestiu; perchè, Ricci, già in Cina nel 1582, non ha
introdotto la teoria copernicana?
39
Il nome di Galileo Galilei è associato ad importanti contributi in dinamica e in
astronomia - fra cui il perfezionamento del telescopio, che gli permise importanti
osservazioni astronomiche - e all'introduzione del metodo scientifico (detto anche
metodo galileiano). Sebbene questo abbia rivestito un ruolo di primaria importanza
nella rivoluzione astronomica con il suo sostegno al sistema eliocentrico e alle teorie
copernicane; fu tuttavia accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e
le Sacre Scritture 1 . La formazione della filosofia naturale ricciana è stata
profondamente influenzata dai cambiamenti rivoluzionari anche nel campo della
fisica, della matematica, della geografia, della costruzione di macchine e della
cartografia2. Egli ha creato, introdotto e tradotto un gran numero di opere relative alle
Altri, invece, non accettano questo punto di vista. Per esempio, lo studioso contemporaneo Jiang
xiaoyuan ha scritto un articolo dal titolo Matteo Ricci non ha ostacolato la dottrina copernicana in
Cina, in cui afferma che all’epoca la gente faceva una distinzione tra buona e cattiva dottrina secondo il
livello dell’unanimità tra il valore teorico e quello pratico. Anche se la teoria di Copernico era corretta,
egli non chiedeva troppa precisione nel processo di fabbricazione dell’astrolabio, e non era
particolarmente abile nelle osservazioni astronomiche; quindi sebbene Ricci non abbia adottato il
sistema copernicano per i succitati motivi, non è possibile negare l’impatto che questa riforma
astronomica ha avuto su Matteo Ricci.
1
Matteo Ricci può davvero vantare un rapporto con G. Galileo Galilei. Entrambi sono italiani,
entrambi hanno studiato nella scuola gesuita. Secondo gli studi di Wallance, Galileo Galilei ha citato
indirettamente l’opera di Antonio Maria Menù che è stato insegnante di fisica di Ricci.
2
Si è soliti distinguere tra filosofia e scienza, considerandole due scienze separate. La filosofia
naturale di solito si riferisce al pensiero delle leggi più generali del rapporto tra uomo e natura; invece
le specifiche leggi della natura e del rapporto quantitativo, vengono chiamate scienza naturale. Di fatto,
non vi sono differenze fondamentali tra filosofia naturale e scienze naturali. Non vi è un criterio
assoluto per la classificazione delle cosiddette leggi generali e leggi specifiche.Specie nell'era di
Matteo Ricci, i confini della filosofia e delle scienze non era molto netti. Non solo la scienza naturale è
stata inclusa nella filosofia naturale, ma di solito non vi era alcuna distinzione tra scienze naturali e
filosofia naturale.
40
filosofie naturali o scienze naturali1. Apparentemente, sembra che le conoscenze
introdotte da Ricci siano pure conoscenze scientifiche, poiché contengono la
concezione del mondo e la visione della filosofia occidentale. Infatti, anche se Ricci
ha vissuto dopo il Rinascimento, ma come un gesuita, i difensori del sistema
aristotelico, nel trattare il rapporto tra filosofia e questioni di scienza, aveva
ereditato il modello dell'unità tra scienza e filosofia della grecia antica.
Per quanto concerne le conoscenze di fisica di Matteo Ricci sappiamo solo che
l’insegnante di fisica di Ricci era il sesto insegnante di fisica del Collegio Romano ed
era noto anche a Galileo.
Percorrendo la strada “dal risultato alla ragione” è possibile scoprire l'impatto
delle opere di Aristotele sulla filosofia di Ricci. Negli scritti di Ricci è possibile
ritrovare dottrine e testi riferibili alla tradizione interpretativa dei testi aristotelici
(quadripartizione della materia terrestre e della causalità; distinzione tra materia
terrestre e celeste; circolarità dei moti dei cieli e degli astri; distinzione di natura e
collocazione tra fenomeni astrali e “meteorologici” nell’accezione aristotelica, etc.)2
Ricci ha affermato in una lettera del 1585:
《Non so come mi riuscirà non ho libri; se non la opera del p.Clavio et
Piccolomini》.
1
Yudi shanhai quantu (Completa mappa geografica dei monti e dei mari), Zhaoqing 1584.
Si yuanxing lun (Saggio sui quattro elementi), Nanchino,1599-1600.
Shanhai yudi quantu (Completa mappa geografica dei monti e dei mari), Nanchino 1600.
Jingtian gai (Trattato di costellazioni), Pechino 1601.
Kunyu wanguo quan tu (Completa mappa geografica di tutti i paesi del mondo), Pechino 1602.
Liangyi xuanlan tu (Misteriosa mappa visiva di tutto il mondo), Pechino 1603.
Riqiu dayu diqiu, diqiu dayu yueqiu (Disco solare più grande del globo terrestre e questo più grande
del disco lunare), Pechino dopo 1606-7.
Hungai tongxian tushuo (Astrolabio e sfera con figure e commento), 1607.
Jihe yuanben (Elementi di geometria), Pechino 1607.
Huangrong jiaoyi (Trattato di figure isoperimetriche), Pechino 1609.
2
Cfr. Ugo Baldini, La formazione di Matteo Ricci nelle scienze(1572-1577).
41
Evidentemente l'opera di P. Clavio è la sua edizione della Sfera del Sacrobosco. In
quanto al Piccolomini, si tratta de La Sfera del Mondo, che, malgrado il titolo e la
materia, non è un commentario all'opera classica del Sacrobosco. Piccolomini aveva
pubblicato anche un opuscolo, Le Stelle, un bellissimo atlante delle stelle, pubblicato
insieme alla sua Sfera del Mondo1.
Il trattato della Sfera è diviso in quattro libri. Nel primo si introduce la definizione
della sfera e se ne presentano le proprietà geometriche; si prosegue con la descrizione
delle sfere celesti e dei loro movimenti e della posizione della terra al centro del
mondo. Il primo libro si conclude con il classico catalogo delle stelle. Clavio riporta
quello pubblicato da Copernico che riteneva il più esatto. Nel libro secondo si
definiscono i circoli equinoziale, zodiacale, meridiano e i coluri; inoltre si presentano
le soluzioni di problemi derivanti dall'uso di diverse coordinate eclittiche ed
equatoriali. È inoltre presente una tavola con le posizioni geografiche delle principali
città della terra e una dimostrazione di come determinare la distanza fra diversi punti
geografici. È interessante far notare come negli esempi di Clavio viene proposto il
calcolo delle distanze fra città come Canton, Rio de la Piata e Malacca. Infine il libro
termina con la classica descrizione delle cinque zone della terra e delle loro
peculiarità climatiche. Nel terzo volume è presente uno studio sul sorgere e il
tramontare dei segni zodiacali e del sole e la diversa durata dei giorni e delle notti
durante l'anno per distinti punti della sfera terrestre; inoltre si propongono le tavole
numeriche corrispondenti. Il quarto ed ultimo libro è dedicato allo studio del corso
degli astri, e alle diverse fasi di stazione e di movimento diretto e retrogrado.
Naturalmente la spiegazione si basa sugli eccentrici e epicicli. Il trattato si conclude
con una breve teoria delle eclissi. Nelle ultime edizioni il Clavio aggiungeva la
1
Juan Casanovas, S.J., Il p.C. Clavio professore di matematica del P. M. Ricci nel collegio Romano, in
Atti del convegno internazionale di Studi Ricciani, 229-39, Centro Studi Ricciani, Macerata 1984, pp.
229-39.
42
"Theorica planetarum" cioè tavole con tutti i periodi dei movimenti dei pianeti e i
parametri per la determinazione delle effemeridi1.
Affidandosi alle conoscenze di Astronomia e geografia apprese nel Collegio
Romano, Ricci ha iniziato il suo viaggio di missione scientifica; produceva e
insegnava a produrre numerose versioni della mappa del mondo, per sempio:
Yudi shanhai quantu (Carta geografica completa dei monti e dei mari), Zhaoqing
1584; Shanhai yudi quantu (Carta geografica completa dei monti e
dei mari),
Nanchino 1600; Kunyu wanguo quantu (Carta completa delle miriadi di paesi sulla
terra), Pechino 1602; Liangyi xuanlan tu (misteriosa mappa visiva delle due forme),
Pechino 1603.
Ricci poteva prevedere l'eclissi solare con una precisione maggiore rispetto alle
previsioni dei mandarini e dell’astronomia cinese. Ha calcolato precisamente le
latitudini di Pechino, Nanchino, Datong, Guangzhou e Hangzhou. Ha inoltre
fabbricato una serie di globi celesti e il globo terrestre, meridiana e astrolabio. Ha
importato per la prima volta la teoria della terra rotonda, della maggiore grandezza del
disco solare rispetto al globo terrestre e di questo rispetto al disco lunare. Così ha
ottenuto il titolo di astronomo.
3.4.d.
Metafisica
Per lo studio della metafisica nel Collegio Romano, non è possibile trovare
materiali utili, ma si può affermare con certezza che Ricci abbia affrontato lo studio di
tale materia; infatti sebbene non ci siano espliciti riferimenti a tale studio, questo
risultava propedeutico allo studio successivo della teologia. La paideia della
Compagnia legava lo studio della teologia a quello filosofico mediante l'anello di
congiunzione concettuale della metafisica scolastica, pertanto mancando questa non
poteva esserci il passaggio da un corso all’altro. Siccome Ricci frequentò il primo
1
Cfr. Ibidem.
43
anno di teologia già a Coimbra, nei mesi trascorsi tra l'arrivo dall'Italia(estate 1577) e
la partenza per l’India(primavera 1578), come scrisse al Fabii e come conferma la sua
dichiarazione che vi era stato condiscepolo di Joao Alvares(1548-1623), poi
provinciale e Visitatore del Portogallo, a Roma, doveva aver seguito l'intero corso di
filosofia, con l'eccezione già segnalata per la parte finale del terzo anno1.
Dopo aver letto attentamente i classici cinesi, egli ha sottolineato che non vi è
metafisica in Cina. Non conoscono la distinzione tra sostanza e accidente2. Criticava
non lasciar nulla d’intentato il concetto Li e Tai ji di neo-confucianesimo, afferma che
Li non può essere essenza indipendente:
《Quando giungiamo al Culmine Supremo vediamo che è solo spiegato in termini
di principio. Non può essere dunque la fonte del cielo, della terra e di tutte le cose,
perché il principio cade anch’esso nella categoria dell'accidente. Dal momento che
non è una sostanza come può determinare le altre cose? Quando i letterati e gli eruditi
cinesi discutono dei principi, lo fanno solo in due modi: dicono o che i principi
risiedono nella mente degli uomini,o che devono essere trovati nelle cose. Affermano
solo che queste cose sono reali quando il loro modo di essere si armonizza con i
principi che sono nella mente degli uomini. Quando la mente umana è capace di
studiare, penetrare e comprendere pienamente i principi inerenti alle cose,ciò viene
chiamato: “l’investigazione delle cose”. Risulta chiaro, sulla base di questi due di
parlare riguardo i principi, che il principio è dipendente e non può essere la fonte delle
1
Cfr. Ugo Baldini, La formazione di Matteo Ricci nelle scienze(1572-1577).
2
Il suo è un punto di vista estremo. Il sistema metafisico era già stato sviluppato, vi era stata la
descrizione della cosmologia, come si evince dalla descrizione per Dao nel Il libro della Via e della
Virtù(TAO TE CHING):
Prima della formazione del cielo e della terra c'era qualcosa in stato di fusione. Tranquilla e
immateriale, essa esiste da sola e non muta (carattere); essa circola ovunque senza stancarsi. Si può
considerarla come la Madre di tutto-sotto-il-cielo. Io non ne conosco il (vero) nome, ma la designo con
l'appellativo di «Via». Sforzandomi per quanto possibile di definirla con un nome, la chiamo « grande
». « Grande » significa « procedere »; « procedere » significa « allontanarsi » ; « allontanarsi »
significa « tornare » (al proprio contrario).(Cfr. Libro della Via e della Virtù (TAO TE CHING), a cura
di J.J.L.DUYVENDAK, adelphi edizioni, Milano, 1985, p.74.)
44
cose1》.
Inoltre, durante l'ultimo anno di filosofia, Ricci seguì il nuovo corso sulle
“Controversie” inaugurato da un giovane professore di teologia, Roberto Bellarmino,
futuro cardinale, santo e dottore della Chiesa, nonché una delle più influenti figure
nella storia nella Compagnia di Gesù2. L’eloquenza del dibattimento di Ricci trarrà
beneficio da quest’esercizio. Egli infatti ha tenuto un famoso dibattito con un monaco
San huai a Nanchino e ha vinto attraverso la logica rigorosa e accurata. Inoltre, molti
dei suoi libri sono scritti con il metodo del dibattito, come Vera spiegazione (della
dottrina) del Signore del Cielo,Dieci capitoli di un uomo strano e Dispute contro le
sette idolatriche.
A Lisbona, Ricci intraprese gli studi di teologia che si basavano sull’insegnamento
filosofico di Aristotele e su quello teologico di Tommaso d’Aquino. Il gesuita
maceratese studiò nella città di Coimbra, presso un collegio gesuita noto per la
creazione di manuali per l'apprendimento della filosofia e della teologia chiamati
Commentarij Collegij Conimbricensis. Ricci porterà con sé questi testi che
costituiranno la base per la produzione di un gran numero di opere filosofiche e
teologiche in cinese3. A Goa Ricci completò il secondo e terzo anno degli studi di
teologia, insegnando latino e greco al collegio della Compagnia. Dedicheremo ampio
spazio all’illustrazione delle conoscenze di teologia di Ricci nei capitoli seguenti.
Capitolo 2
1
Matteo Ricci,Vero significato, p. 106.
2
Si veda Gianni Criveller, op. cit., p.30.
3
Gianni Criveller, op. cit., p.42.
45
Fonti occidentali delle dottrine filosofiche e teologiche di Matteo Ricci e
analisi dei motivi che ne hanno giustificato l’introduzione in Cina
1.
Logica
1.1.
Successo della logica di Ricci
In molte sue opere Matteo Ricci ha criticato, in modo diretto o indiretto, il fatto
che i cinesi mancassero di logica1. Egli, infatti, ha sempre dato grande importanza alla
logica e alla ragione.
Ovviamente la cultura cinese è dotata di logica, tuttavia nell’antichità essa fu
raramente studiata come oggetto destinatario d’indagine2: i cinesi erano abituati a
pensare in termini più emotivi e poetici.
I ragionamenti logici che Matteo Ricci portò in Cina penetrarono nella cultura, e
furono considerati nuovi e eccellenti. Si può dire che Ricci riuscì a conquistare tanto i
mandarini bramosi di novità, attraverso regali preziosi, quanto i letterati, attraverso
quei forti pensieri logici.
In ogni capitolo di Vero significato del “Signore del Cielo”, il gesuita cerca di
dimostrare il successo riportato dall’impiego della logica e di seguito riportiamo
alcuni passi del testo da cui ciò si può evincere facilmente.
•
«Il letterato cinese dice: che dottrina ricca! Spiega ciò che l’uomo è
incapace di spiegare e dice esaustivamente ciò che l’uomo non è in grado di dire
esaustivamente. Mentre la ascolto, vedo per la prima volta la Grande Via e il
ritorno alla fonte Suprema di tutti i fenomeni. Ma mi piacerebbe continuare i miei
1
Cfr. E 28: «Ma conciosiacosa che non sappino nessuna dialectica, tutto dicono e scrivono non in
modo scientifico, ma confuso per varie sententie e discorsi, seguendo quanto col lume naturale
potettero intendere».
2
Il termine “raramente”
non significa che la logica non fosse mai stata studiata. Mozi, ad esempio,
ha esaminato accuratamente le conoscenze logiche nel suo libro omonimo: Mozi.
46
studi fino alla fine e non oso disturbarla oltre per oggi. Tornerò ancora un altro
giorno per ricevere il suo insegnamento»1.
•
«Il letterato cinese dice: oh, Insegnante perspicace, nel suo discorso
sull'origine delle cose non ha solo raggiunto la verità, ma anche chiarificato la
terminologia. Da ciò si può evincere che, nel suo stimato paese, le discussioni sui
principi delle cose non sono discorsi superflui e superficiali, ma, piuttosto, aprono
il cuore degli stolti, liberandoli dal dubbio. Lei si è applicato in uno studio e con
una fede profonda alla questione e ai principi relativi al Signore del Cielo. Mi
vergogno del fatto che noi confuciani non siamo stati in grado di vedere
chiaramente le questioni importanti della vita「…」I suoi insegnamenti non
possono essere compresi pienamente tutti in una volta,e vorrei,quindi,ascoltare il
resto un altro giorno»2.
•
«Il letterato cinese dice: bene! Ora, per la prima volta, comprendo che
non sono poche le cose in cui l'uomo differisce dagli uccelli e dagli animali.
L'insegnamento che concerne l'indistruttibilità dell'anima è giusto e molto
chiaro»3.
•
«Il letterato cinese dice: la sua grandiosa esposizione è molto chiara e in
grado di dissipare dubbi e di spiegare la natura di strane teorie. È un
insegnamento corretto「…」Sono certo che lei ha punti di vista interessanti
riguardo a ciò,dei quali spero mi faccia partecipe un altro giorno»4.
•
«Il letterato cinese dice: è una fortuna che io sia stato in grado di
ascoltare il suo eccelso insegnamento. Mi piacerebbe continuare ad apprendere da
lei»5.
•
«Queste sue parole sono gli insegnamenti di una madre compassionevole.
So, ora, che gli esseri umani hanno una vera casa, e vorrei conoscere il sentiero
1
Vero significato, p.94.
2
Vero significato, p.118.
3
Vero significato, p.145.
4
Vero significato, p.184.
5
Vero significato, p.210.
47
che vi conduce»1.
•
«Il letterato cinese dice: le sue parole, per come le ho udite, sono state
come un colpo di tuono, facendo sì che mi destassi dal mio sonno. Ciononostante,
spero ancora che alla fine lei mi aiuterà per mezzo della giusta Via»2.
•
«Il letterato cinese dice: questo mio corpo viene dal Signore del Cielo,
ma io sono stato a lungo ignorante riguardo alla sua dottrina. Ora, per grazia
divina, lei ha viaggiato senza paura per ottomila li, sfidato il vento e l'acqua per
giungere in questa terra distante, per trasmettere questi sacri insegnamenti e
indicare le somiglianze e le differenze, in modo che possa apprendere di essi,
comprendere in che modo abbia sbagliato in passato ed ottenere numerosi
benefìci. Inoltre, lei ha fatto in modo che, in quest'epoca della grande dinastia
Ming, ricevessimo la volontà sacra del nostro grande Padre e la potessimo
custodire»3.
La prima persona che introdusse il concetto di logica occidentale in Cina durante
la dinastia Ming (1368-1644 d.C.) fu Matteo Ricci4. Ad eccezione di alcune citazioni
prese dagli scritti di Tommaso d'Aquino, possiamo dire che quasi tutti i pensieri di
Matteo Ricci derivano dalle opere di Aristotele, soprattutto dalla sua opera Organon.
Organon è il nome dato dai seguaci di Aristotele, i Peripatetici, all'edizione
unificata delle sue sei opere di logica. Queste opere sono: le Categorie, il De
Interpretazione, gli Analitici primi, gli Analitici secondi, i Topici e le Confutazioni
sofistiche.
Le Categorie espone la classificazione aristotelica in dieci predicamenti di tutto
ciò che esiste. Il De Interpretatione mette in mostra la teoria aristotelica della
proposizione e del giudizio e le varie relazioni tra proposizioni affermative, negative,
1
Vero significato, p.247.
2
Vero significato, p.282.
3
Vero significato, p.313.
4
Zhang xi ping, la storia degli scambi filosofici e religiosi tra Cina e occidentale, Dongfang, Pechino,
2001, p.18.
48
particolari e universali. Contiene il principale contributo di Aristotele alla filosofia del
linguaggio. Inoltre discute il problema delle caratteristiche accidentali. Gli Analitici
primi introducono il metodo sillogistico, argomenta in favore della sua correttezza e
discute l'inferenza induttiva. Gli Analitici Secondi si occupano della dimostrazione e
della conoscenza scientifica. I Topici trattano questioni concernenti la costruzione di
argomenti validi e l'inferenza probabile (in opposizione a quella certa). In questo
trattato Aristotele menziona i predicamenti, poi discussi da Porfirio e dai logici
scolastici. Nel Confutazioni sofistiche si trattano le logiche ingannevoli e si fornisce
un collegamento all'opera di Aristotele sulla retorica.
Ricci ha successo di introdurre questi pensieri di Aristotele in Cina, Il motivo per
cui la diffusione della dottrina cattolica in Cina ha avuto un discreto successo è
principalmente dovuto al fatto, spesso trascurato, che Ricci fece conoscere agli
intellettuali cinesi le nuove armi della dialettica: la logica e la ragione. Egli fu
apprezzato anche per la profonda conoscenza degli antichi classici cinesi e per aver
fatto scoprire a quel popolo curiosi e sconosciuti oggetti meccanici, frutto
dell’ingegno occidentale.
1.2.
Sostanza e accidente
Nel secondo capitolo del Vero significato del “Signore del Cielo”, intitolato
Spiegazione delle errate teorie umane riguardo al Signore del Cielo, Ricci respinge la
visione del letterato riguardo al Tai Ji1 come origine del mondo: «Ci sono due
categorie di cose: sostanze e accidenti. Le cose che non dipendono per la propria
esistenza da altre cose, come cielo e terra, fantasmi e spiriti, uomini, uccelli e animali,
vegetali,metalli, pietre, i quattro elementi, e cose simili, sono classificati come
sostanze. Le cose che non esistono di per sé, e che sono soggetti ad altro, come, per
esempio, le Cinque Virtù, i Cinque Colori, le Cinque Note, i Cinque Sapori, le Sette
1
Culmine Supremo
49
Passioni, sono classificati come accidenti. Prendiamo come esempio un cavallo
bianco. Qui ci sono due cose: la bianchezza e il cavallo. Il cavallo è la sostanza. La
bianchezza l'accidente, poiché anche senza la bianchezza il cavallo continuerebbe ad
esistere. Se non ci fossero cavalli, in ogni caso, la bianchezza del cavallo non sarebbe
assolutamente in grado di continuare ad esistere. Perciò noi la definiamo accidente.
Quando paragoniamo queste due categorie, troviamo che la sostanza ha un'esistenza
prioritaria ed è di valore, laddove l'accidente è secondario e di poche conseguenze. Ci
può essere solo una sostanza in ogni cosa, laddove possono esserci molti accidenti.
Ad esempio, un uomo ha solo un corpo, che è la sua sostanza; ma il suo corpo
contiene molti accidenti, come le emozioni, i suoni, l'aspetto, i colori, i doveri morali,
ecc. Quando giungiamo al Culmine Supremo, vediamo che è solo spiegato in termini
di principio. Non può essere dunque la fonte del cielo, della terra e di tutte le cose,
perché il principio cade anch'esso nella categoria dell'accidente. Dal momento che
non è una sostanza come può determinare le altre cose?1».
Queste idee derivano completamente da quelle espresse da Aristotele sia nel
Categorie, all’interno dell’Organon, sia nel “L’importanza della sostanza”,
all’interno della Metafisica.
Nel Categorie Aristotele propone dieci categorie (cioè sostanza, quantità, qualità,
luogo, tempo, giacere, avere, agire e patire) e la loro spiegazione tramite degli esempi:
«sostanza è, ad esempio, 'uomo', 'cavallo'; quantità è ‘lunghezza di due cubiti ',
‘ lunghezza di tre cubiti '; qualità è ‘bianco ', ‘grammatico '; relazione è ‘doppio ',
‘
maggiore '; luogo è ‘nel Liceo ', ‘ in piazza '; tempo è ‘ieri ', ‘l'anno scorso ' ; essere in
una situazione è ‘si trova disteso ', ‘sta seduto ' ; avere è ‘porta le scarpe ', ‘si è armato
' ; agire è ‘tagliare ', ‘bruciare’; patire è ‘venir tagliato’, ‘venir bruciato’2.
Il quarto capitolo di Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo,
1
Vero significato, p.105.
2
Aristotele, Organon, traduzioni di Marcello Gigante e Giorgio Colli, Editori Laterza 1991, p.7-8.
50
intitolato “Disputa sugli esseri spirituali e l’anima dell’uomo e una spiegazione sul
motivo per cui i fenomeni del mondo non possono essere descritti come se formassero
un’unità organica”, Ricci, attraverso un grafico che riportiamo di seguito, spiega
dettagliatamente la propria teoria sulla classificazione dello scibile secondo la dottrina
delle Categorie aristoteliche1:
1
Cfr. Vero significato, p.161.
51
E’ la prima volta, nella storia della Cina, che viene introdotta la dottrina
aristotelica delle categorie. Poiché essa costituisce la base del sistema aristotelico e
della logica occidentale, si può capire come quest’introduzione da parte di Ricci sia
stata di enorme importanza ed influenza sulla filosofia cinese. Di questo argomento
parleremo dettagliatamente nell’ultimo capitolo.
Per quanto riguarda il grafico riportato sopra, la parte di maggiore interesse ai fini
52
della nostra ricerca è la seguente:
Essa corrisponde infatti alla nove categorie aristoteliche1, vale a dire gli accidenti2:
quantità (due, tre, pollici, piedi), relazione (re/ministro, padre/figlio), qualità (nero,
bianco, freddo, caldo), attività (creare, ferire, camminare, parlare), passività (essere
creato, ferito), tempo (giorno, notte, anno, secolo), luogo (paese, casa, palazzo, posto),
postura (stare in piedi, seduto, giacere), vestito (toga, abito talare).
Matteo Ricci li tradotti con nove parole cinesi: 几何(ji he),相视 (xiang shi),
何如 (he ru),作为 (zuo wei),抵受 (di shou),何时 (he shi),何所 (he suo),体
势 (ti shi),穿得 (chuan de).
Il fatto, spesso sostenuto, che Ricci si adeguò alle opinioni dei confuciani antichi e
fu contrario a quelle dei confuciani nuovi, è dimostrato anche quando introduce questi
nove accidenti.
Ad esempio, il gesuita ha tradotto l’accidente della relazione usando la parola
cinese相视 (xiang shi). Tuttavia nel periodo in cui egli si trovava in Cina, cioè alla
fine della dinastia Ming, il significato principale del termine相视 (xiang shi) non era
affatto quello di relazione, ma intendeva il guardarsi reciprocamente3. Il motivo per
cui Ricci fece questa scelta era che nei libri di Confucio, di Mencio e di altri saggi
1
Tranne la sostanza.
2
Ricci lo chiama “依赖者”(yi lai zhe).
3
Il carattere相 (xiang) significa “reciproco”
53
antichi, il carattere 视 (shi) ha proprio il significato di trattare, considerare.
Vediamone qualche esempio:
Nei Dialoghi, Confucio disse: «Hui mi teneva come padre ed io non ho potuto
trattarlo da figlio1».
E Mencio ha detto: «Quando il principe considera i ministri come mani e piedi, i
ministri considerano il principe come cuore e ventre. Quando il principe tratta i
ministri come cani e cavalli, i ministri lo trattano come uno qualsiasi. Quando il
principe fa conto dei ministri come dell'erba dei campi (che si calpesta), i ministri lo
tengono per tiranno e nemico2».
Un altro esempio della predilezione di Ricci di prendere a modello gli antichi
confuciani è nella traduzione del termine何如 (he ru). Alla fine della dinastia Ming何
如 (he ru) significava “come va?”, quindi non corrispondeva completamente alla
qualità; ma nei classici antichi del Confucianesimo aveva proprio il significato di
“chiedere la qualità delle cose”.
Risulta evidente che tutte le parole usate da Ricci vennero scelte tramite
un’accurata consederazione. Inoltre c’è da dire che i confuciani antichi credevano in
un Dio3 e, dato che i cinesi avevano fiducia e ammirazione nei loro confronti, Ricci
capì che la strada giusta per introdurre il concetto di Dio in Cina era avvalersi dei
termini da loro usati.
Secondo Aristotele, tra queste dieci categorie, la sostanza è la più importante.
Nella sua Metafisica Aristotele afferma: «now there are several senses in which a
thing is said to be first; yet substance is first in every sense-(1) in definition, (2) in
order of knowledge, (3) in time. For (3) of the other categories none can exist
1
Testi confuciani, Traduzione dal cinese di Fausto Tomassini, introduzione di Lionello Lanciotti,
Torino, 1977, p. 189.
2
Testi confuciani, p.362.
3
Specie prima delle Primavere e Autunni (dal 770 al 476 a.C.)
54
independently, but only substance. And (1) in definition also this is first; for in the
definition of each term the definition of its substance must be present. And (2) we
think we know each thing most fully, when we know what it is, e.g. what man is or
what fire is, rather than when we know its quality, its quantity, or its place; since we
know each of these predicates also, only when we know what the quantity or the
quality is1».
Ricci ha ereditato completamente questa teoria di Aristotele e ha anche
sottolineato l’importanza della sostanza rispetto agli accidenti: «quando paragoniamo
queste due categorie, troviamo che la sostanza ha un'esistenza prioritaria ed è di
valore, laddove l'accidente è secondario e di poche conseguenze».
Poi Ricci ha continuato dimostrando che il Li2 è solo un accidente e dipende dalla
sostanza, mentre Dio è la sostanza suprema e domina tutto.
C’è anche un altro problema che dobbiamo spiegare, cioè la scelta di una parola
che può sembrare un po’ strana,自立者 (zi li zhe), per tradurre l’accidente della
sostanza, che Ricci considerava molto importante. Alla fine della dinastia Ming, 自立
者 (zi li zhe) significava colui che si ribella ed era un termine che non solo non
corrispondeva affatto a sostanza, ma che aveva anche un’accezione dispregiativa.
Come per gli altri termini sopracitati, Ricci lo scelse perché aveva un altro significato
per i saggi confuciani antichi: esso significava colui che possiede l’indipendenza e la
nobiltà della virtù3.
Nell’antichità cinese, infatti, la cosa a cui si dava più importanza era la virtù. La
prima frase di Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo è: «Il letterato
cinese afferma: lo studio della perfezione del sé è un obbiettivo che tutti gli uomini
considerano di importanza suprema. Chiunque non desideri mostrare ingratitudine per
1
Aristotele, Metafisica, translated by W. D. Ross, p. 92, 350 BC.
2
Principio.
3
Cfr. Kong Qian, studio sulla traduzione delle dieci categorie della logica occidentale, tesi di master
dell’università di Shan dong, Shandong, 2010.
55
la vita che gli è stata donata, ed essere classificato alla stregua di un animale, deve
sforzarsi al massimo. Solo grazie a questo esercizio assiduo un uomo può essere
considerato Nobile; altrimenti, sebbene possa avere altre doti, sarà comunque un
uomo da poco; la virtù è la vera felicità e la vera ricchezza; la fortuna priva di virtù
non è una reale fortuna, ma ha le sue fondamenta nella sventura1».
Ricci ha scelto自立者 (zi li zhe) perché simboleggiava la persona che possiede
l’indipendenza e la nobiltà della virtù.
È ancora una volta evidente la volontà di Ricci di prediligere la visione dei
confuciani antichi al fine di una più proficua evangelizzazione della Cina.
Il nome che Ricci ha dato alle nove categorie è依赖者 (yi lai zhe) che significa
ciò che non esiste di per sé, che è soggetto ad altro. Qui la sua interpretazione è
evidentemente quasi del tutto corrispondente a quella aristotelica degli accidenti.
Tuttavia, nella sua interpretazione della sostanza, vediamo una con quella di
Aristotele: la definizione del gesuita per la sostanza è «le cose che non dipendono per
la propria esistenza da altre cose, come cielo e terra, fantasmi e spiriti, uomini, uccelli
e animali, vegetali,metalli, pietre, i quattro elementi, e cose simili, sono classificati
come sostanze». Aristotele, invece, ha usato le parole della logica occidentale per
definirla: «sostanza, nel senso più proprio, in primo luogo e nella più grande misura, è
quella che non si dice di un qualche sostrato, né è in un qualche sostrato2; alle
sostanze spetta altresì il non avere alcun contrario3; pare inoltre che la sostanza non
debba essere suscettibile di una misura maggiore o minore4; d'altra parte, il carattere
proprio in sommo grado della sostanza sembra consistere, per quanto essa risulti
identica e numericamente una, nell'essere costituita per accogliere i contrari5».
1
Vero significato, p. 75.
2
Aristotele, Organon, a cura di Giorgio colli, Adelphi Edizioni, Milano, 2003, p. 8.
3
Aristotele, Organon, cit., p. 13.
4
Aristotele, Organon, cit., p. 13.
5
Aristotele, Organon, cit., p. 14.
56
Ricci sapeva che i cinesi avrebbero respinto quest’interpretazione aristotelica
troppo logica. Aveva anche capito che la loro abitudine era di interpretare qualcosa
paragonandola con un’altra, non definendola. Ciò causava sicuramente una grande
soggettività e nel terzo capitolo di Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del
Cielo, Ricci ha sottolineato particolarmente l’astrazione del concetto -che ha chiamato
“eliminare le forme delle cose e ridurle a spirito”- e ha usato degli esempi per
dimostrarla: «se ci fosse un bue giallo qui, e io volessi pensare alla natura del bue
osservando il suo essere giallo, direi: “questo non è un bue, è meramente un colore”.
Ascoltando il suo verso, direi: “questo non è un bue; è solo il muggito di un bue”.
Mangiando la sua carne, direi: “questo non è un bue, è il sapore della carne di un
bue”. Da ciò risulta ovvio che il bue può essere astratto da simili dettagli fisici quali il
suono, il colore, il sapore, ed essere spiritualizzato1».
Nel quarto capitolo del Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo,
intitolato “Disputa sugli esseri spirituali e l’anima dell’uomo, e spiegazione sul perché
i fenomeni del mondo non possono essere descritti come se formassero un’unità
organica” ha respinto il modo cinese della classificazione delle cose.
«Il letterato cinese dice: sebbene sia detto che il cielo, la terra e tutti i fenomeni
condividano il Qi, le forme e le immagini delle cose sono, nonostante tutto, differenti,
e per questa ragione sono divise in una varietà di categorie… È come un pesce
nell'acqua: l'acqua al di fuori del pesce è come quella presente nel suo stomaco;
l'acqua nello stomaco di un pesce mandarino è la stessa che riempie lo stomaco di una
carpa. E la sola apparenza del pesce che persiste nell'essere differente, cosicché i pesci
ricadono in categorie differenti. Si devono solo considerare le differenti forme e
apparenze di tutte le cose al mondo per essere in grado di conoscere ciascuna delle
differenti categorie2».
1
Vero significato, p.135.
2
Vero significato, p.164.
57
Ricci, contrario a questo modo cinese che classifica le cose secondo le apparenze
esterne, affermava: «Il distinguere le cose in base all'apparenza non è uguale al
distinguere le varie categorie delle cose, ma solo la loro apparenza esterna.
L'apparenza esterna non è la cosa in sé. Se si distinguono le cose in base alla loro
apparenza, piuttosto che in base alla loro natura, allora non dovrebbe la natura del
cane essere considerata analoga a quella dei buoi, e le nature dei cani e dei buoi uguali
a quella dell'uomo? Se così fosse, staremmo assistendo alla comparsa di un nuovo
Filosofo Gao. Se si plasmano una tigre e un uomo con l'argilla, è appropriato asserire
che solo le loro apparenze esterne sono dissimili; ma è decisamente inappropriato
sostenere che solo nell'apparenza una tigre vivente e un uomo vivente sono dissimili.
Se si distingue tra le cose in base alla loro apparenza, e questa è simile in molti tratti,
non è possibile separarle in differenti categorie. Se si continua nell'esempio della tigre
d'argilla e dell'uomo di argilla, invece, sebbene le loro apparenze esterne siano molto
differenti l'una dall'altra, devono comunque essere classificati come argilla1».
Nel Categorie Aristotele ha definito rispettivamente la sostanza, il genere e la
specie. Secondo lui, la prima sostanza è la base ed è più importante, il genere e la
specie costituiscono la seconda sostanza e sono usati per esprimere la prima sostanza.
Egli ha anche discusso la qualità delle cose e, nel Topici, ha dissertato accuratamente
riguardo alle proprietà e alle accidentalità delle cose.
Ha sostenuto, infine, che ogni
cosa ha tante qualità ma, tra queste, molte sono le accidentalità. Infatti solo la
proprietà può decidere a quale genere e specie appartiene una cosa. Proprio sotto
l'influenza della dottrina aristotelica, Ricci è riuscito a disegnare scientificamente il
grafico delle classificazioni delle cose. Questa classificazione ha un enorme
significato ed è su questa base che si possono poi studiare scientificamente gli altri
aspetti delle cose.
1.3.
1
Dialettica
Vero significato, p. 164.
58
Aristotele scrisse l’Organon per soddisfare l’esigenza popolare del discorso e del
dibattimento nell’epoca greca antica. Alla fine dalla dinastia Ming in Cina fiorivano
stimolanti discussioni fra gli intellettuali e due erano le correnti principali che si
fronteggiavano: una che si proponeva di fondere il pensiero confuciano con quello
buddista; l’altra che si opponeva a questa idea. Quasi ogni giorno si svolgevano
animati dibattiti.
L’impiego della logica nelle controversie tra Ricci e gli studiosi cinesi suscitò
grande curiosità prima e un vivace interesse poi, fornendo un nuovo mezzo per
argomentare i discorsi e renderli convincenti.
Sappiamo che in Cina Matteo Ricci ha dibattuto con tanti intelletuali cinesi e ha
avuto grande successo. Tra questi i più famosi sono San Huai e Yu Chunxi. La sua
opera rappresentativa “Vero significato del Signore del cielo” è piena di dispute, nelle
quali Ricci ha utilizzato ovviamente tante tecniche delle dialettiche di Aristotele.
C’è un esempio che può illustrare precisamente che Ricci ha usato le dottrine
logiche pensieri della dialettica di Aristotele. Più esatto è dire che sono derivati dalle
Confutazione sofistiche nell’ Organon. Nel quarto capitolo di vero significato del
“Signore del Cielo”, Ricci cercò di contrapporsi all’idea dei letterati cinesi che
credevano che le cose in questo mondo formano un’unità organica. Il gesuita dice: «ci
sono cose che sono simili nel senso che condividono lo stesso corpo, come, ad
esempio, i quattro arti in relazione ad un corpo - tutti analogamente appartenenti a un
corpo. O si ha una situazione in cui i nomi sono dissimili, ma ciò a cui si riferiscono è,
nei fatti, la stessa cosa, come, ad esempio, i due nomi Fang Xun e Di Yao, che
denotano una sola persona. Questi due generi di cose possono essere considerati
esempi di una vera similarità1». Quindi aggiunge una domanda: «a quali dei tre tipi di
similarità succitati l'affermazione "tutte le cose al mondo sono la stessa cosa" si
riferisce?2»
1
Anche questo pensiero è derivato da Aristotele. Cfr. Aristotele, Organon, cit., p. 415.
2
Vero significato, p. 179.
59
Questo modo equivale a tendere una trappola all’avversario e poi attrarlo a caderci.
Nel confutazione sofistiche Aristotele promuove spesso questo modo, affermando:
«d'altronde tali risposte a casaccio si dànno appunto quando non si scorge il fine della
domanda. Del pari, anche se il fine della discussione è stato determinato, il porre
frequenti domande, ed il pretendere che l'interlocutore dica ciò di cui è convinto,
offrono una certa facilità di dedurre dalle sue asserzioni alcunché di paradossale o di
falso1».
Il letterato, cadendo immediatamente nella trappola, rispose: «la "similarità" a cui
questa affermazione fa riferimento è la "similarità dell'appartenere ad un solo corpo".
L'uomo superiore vede tutte le cose al mondo come se fossero organicamente una sola
realtà. È l'uomo inferiore che distingue tra le forme corporee e divide lei da me.
Quando l'uomo superiore afferma che tutte le cose sono una sola, non sta parlando nei
termini di creazione; vuol dire che sta mostrando considerazione per tutte le cose con
il suo senso di umanità. Ciò accade non solo con gli uomini superiori, ma anche con
quelli inferiori2».
Matteo Ricci, contrapponendosi a questa visione, sostiene: «i confuciani dei tempi
antichi utilizzavano l'argomento secondo il quale tutte le cose sono organicamente una
per incoraggiare le persone comuni a mettere in opera il loro senso di umanità. Ciò
che intendevano nell'uso dell'espressione "organicamente uno" era semplicemente che
le cose derivano da una fonte. Ma, se lei crede che tutte le cose siano veramente
organicamente una, questo avrà come risultato la distruzione della grande Via
dell'umanità e della rettitudine. E perché dovrebbe essere così? Perché per far sì che
l'umanità e la rettitudine operino ci devono essere almeno due persone. Se tutte le
cose devono essere considerate come organicamente una, ciò significa che devono
essere trattate come se fossero una cosa sola, e che le differenze tra di esse sono mere
immagini. Se sono solo immagini vuote, come ci può essere tra loro amore mutuo e
rispetto? Perciò è detto che chi intraprende il sentiero dell'umanità lo estende da se
1
Aristotele, Organon, cit., p. 415.
2
Vero significato, p. 179.
60
stesso agli altri. L'umanità è l'estensione dei propri sentimenti in direzione degli altri;
la rettitudine è il trattare gli anziani con rispetto e onore; ma in ciascuno dei due casi
ci deve essere una distinzione tra se stessi e gli altri. Senza di questa non ci possono
essere i principi di umanità e rettitudine. Se si dice che tutte le cose sono "io", allora
l'umanità e la rettitudine sono equivalenti all'amore di sé e alla cura di sé; si
diventerebbe, così, uomini inferiori, consapevoli sono di sé e ignoranti di qualsiasi
cosa circa gli altri, e coscienti solo di nome dell'umanità e della rettitudine1».
È evidente che questa tecnica della confutazione è derivata dalle Confutazioni
sofistiche. Aristotele afferma infatti: «come nei discorsi retorici, cosi anche nei
discorsi che tendono a confutare, si dovrà prendere in considerazione, attraverso le
risposte dell'avversario, tutto quanto contrasta o alle sue stesse affermazioni, o al
modo di pensare delle persone che, secondo quanto egli riconosce, parlano ed
agiscono bene, come pure, delle persone che dànno l'impressione di parlare e di agire
bene, o di quelle che sono simili allo stesso interlocutore…2».
Vediamo qui come Ricci ha usato una tecnica ben precisa: prima fa illustrare al
letterato cinese cosa significhi “la similarità di tutte le cose” e poi, dopo la sua vaga
risposta, afferma subito la propria teoria, cioè che similarità significa che tutte le cose
del mondo sono le stesse e non ci sono differenze. Il letterato non riesce a confutare
l’affermazione di Ricci poiché anche secondo la teoria confuciana tutte le cose sono
composte dallo stesso qi3 e allora non è sbagliato credere che tutte le cose siano
uguali. Tuttavia Confucio ha affermato chiaramente che l’umanità può essere
realizzata soltanto tra cose diverse o tra persone diverse: Ricci riesce in questo modo a
far cadere nel paradosso il letterato. Se lui affermasse che tutte le cose sono uguali,
allora non si potrebbe attuare l’umanità, ma, come confuciano, sa che non può essere
permesso non attuarla. Dall’altro lato, però, se crede che l’umanità può essere
realizzata solo tra cose e persone diverse, allora sarebbe la teoria sull’uguaglianza di
1
Vero significato, p. 179.
2
Aristotele, Organon, cit., p. 686.
3
Soffio vitale o energia vitale.
61
tutte le cose ad essere evidentemente sbagliata.
Ancora molti sono gli esempi che possono dimostrare che Ricci usava la logica di
Aristotele per confutare i letterati cinesi.
Per esempio:
• «il letterato occidentale dice: nonostante quello che lei ha detto, la
dottrina riguardante il fatto che il Cielo e la Terra siano le due cose più onorate,
non è affatto semplice da spiegare, poiché ciò che è sommamente degno di
onore è unico e incomparabile. Se parliamo di "cielo" e "terra" ci stiamo
riferendo a due cose1».
• Nel Classico dei Mutamenti è scritto: «il Sovrano proviene da Chen, a
Est. Le parole "Sovrano" e "Imperatore" non denotano il cielo materiale.
Poiché il cielo azzurro abbraccia le otto direzioni, come può emergere da una
sola?2» […] «Il termine Sovrano dall'Alto è molto chiaro e non necessita di
esposizioni ulteriori, ancora di meno di una fuorviante esplicazione. Il cielo
azzurro, che possiede forma, si compone di nove livelli, dal superiore
all'inferiore. Come, dunque, può essere la stessa cosa di Colui che è unico e
supremamente onorato?3»
• Il letterato occidentale dice: impiegherò quattro o cinque valide ragioni
per fornire prova della fallacia contenuta in essa. In primo luogo, le Tre
Religioni sono o tutte vere e complete o tutte false e incomplete; o una di esse
è vera e completa e le altre due sono false e incomplete. Se una di esse è vera e
completa, allora è sufficiente perché si creda ad essa; perché si dovrebbero
praticare le altre due? Se sono tutte false e incomplete, dovrebbero essere tutte
rifiutate. A che serve abbracciare tutte e tre? Far sì che un uomo pratichi una
falsa religione è già un errore sufficientemente grave; quanto più grande,
dunque, sarà l'errore se è fatto per far praticare tre false religioni? Se solo una
è la religione vera e completa e le altre due sono false e incomplete, allora
1
Vero significato, p 112.
2
Vero significato, p. 114.
3
Vero significato, p. 116.
62
bisogna seguire solo quella vera. A cosa servono le religioni false?1»
1.4.
Nascondimento della logica e imprecisioni
Sapendo che i cinesi non avevano conoscenze approfondite di logica formale,
Ricci rinunciò all’analisi per morfema e condizione necessaria e, nelle sue opere
filosofiche, decise di non utilizzare parole come “sillogismo” o “logica formale”, né
spiegò i loro elementi costitutivi e le loro funzioni. Si servì invece dei modelli del
sillogismo in segreto, nascondendoli nei suoi scritti; in tale situazione, il sillogismo
divenne frammentario.
Tuttavia, l’usare “nell’ombra” il sillogismo gli comportò una difficoltà nella sua
dimostrazione che il Signore del Cielo è l’essenza più alta dell’universo, cioè il
problema della “premessa di ragionamento”.
Nel Topici Aristotele dà una definizione del sillogismo. Egli afferma che è un
discorso in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità e attraverso gli elementi
stabiliti che non esiste nulla di differente da essi. Si ha così da un lato una
dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi cosiddetti veri e
primi (o da elementi tali che assumano il principio della conoscenza che li riguarda
attraverso certi elementi veri e primi). D'altro lato vi è il sillogismo dialettico che trae
conclusione da elementi fondati sull'opinione. Elementi veri e primi, sostiene il
filosofo, sono inoltre quelli che traggono la loro credibilità non da altri elementi, ma
da se stessi, come i principi delle scienze, per esempio. Al contrario, gli elementi che
appaiono accettabili a tutti («o alla grande maggioranza, o ai sapienti, e tra questi o a
tutti, o alla grande maggioranza, o a quelli oltremodo noti ed illustri») sono fondati
sull’opinione.
Aristotele aggiunge poi che esiste il sillogismo eristico, che può avere due forme: uno
è costituito da elementi che sembrano fondati sull'opinione ma non lo sono; l’altro,
1
Vero significato, p. 281.
63
all'apparenza, deriva da elementi fondati sull'opinione o presentatisi come tali.
«Invero», scrive il filosofo, «non tutto ciò che sembra fondato sull'opinione lo è
anche». In effetti, nessuno degli elementi che si dicono fondati sull'opinione si
riconosce immediatamente come avviene rispetto ai presupposti dei discorsi eristici:
subito e quasi sempre infatti, chi è in grado di dominare e di scorgere anche le
piccolezze, riesce a notare subito in tali discorsi la radice della falsità. La prima delle
due forme dei suddetti sillogismi eristici si può, quindi, chiamare anche sillogismo;
l'altra invece si può definire come sillogismo eristico ma non come sillogismo, poiché
«ha l'apparenza di concludere, ma non conclude1».
Per Matteo Ricci, però, risultava difficile, durante le discussioni con i letterati
cinesi, trovare una premessa derivata da elementi veri e primi per stabilire una
dimostrazione e
creare sillogismi seri e precisi. La prova dell’esistenza di Dio è un
argomento metafisico e per questo tipo di dimostrazione, di solito, non c’è
presupposto: un uomo che vuole dimostrare l’esistenza di Dio prende come punto di
partenza la sua mente e la sua fede, e si viene a creare una vacuità tra metafisica e
mondo reale. Ricci dovette rivolgersi al sillogismo dialettico, ma purtroppo non
risultava facile neanche trovare i presupposti per quest’ultimo poiché, secondo
Aristotele, i presupposti del sillogismo dialettico devono basarsi su opinioni accettate
«dalla grande maggioranza o da quelli oltremodo noti ed illustri». Ma dal momento
che Matteo Ricci era in Cina, in un contesto culturale diverso, era molto difficile
trovare di queste opinioni.
Quando, per esempio, discusse il problema della vacuità, dalla quale non è
possibile originare l’universo, Ricci si trovò a dover ricorrere a mere congetture:
«se si desidera ottenere un'esaustiva comprensione, bisogna iniziare a gettare le
fondamenta di conoscenze elementari. Coloro che vivono sotto il cielo danno valore
al reale e all'esistente e disdegnano il non-esistente. Quando si giunge a parlare della
1
Aristotele, Organon, cit., p. 407.
64
fonte di ogni fenomeno, si tratta chiaramente di ciò, il cui valore oltrepassa ogni
paragone. Come, quindi, possono essere impiegate parole spregevoli come "vacuità" e
"nulla" per rappresentarlo? Inoltre, non si può dare ad altri ciò che non si possiede.
Questo è un principio ovvio. Ciò che si definisce ora "vacuità" o "nulla" non possiede
assolutamente niente in sé. Come può quindi dare natura e forma a qualcos'altro e, di
conseguenza, determinarne la venuta all'esistenza? Una cosa deve esistere
autenticamente prima di poter dire che esista. Ciò che non esiste autenticamente, non
esiste. Se la fonte di ogni cosa non fosse reale o non esistesse, allora, di conseguenza,
le cose prodotte da essa non esisterebbero anch’esse. Anche i più santi tra gli uomini
sulla terra non sono in grado di rendere qualcosa vivente. Come possono cose che
sono essenzialmente nulla o vacue utilizzare la propria vacuità, o nullità, affinché tutte
le cose giungano all'essere e continuino nella propria esistenza?1»
Il gesuita era certo che dal nulla e dalla vacuità non potesse nascere l’esistenza,
ma i letterati cinesi trovavano la sua visione priva di fondamento. Il confucianesimo
era diventato il pensiero dominante dalla dinastia Han in poi, e mantenne questa
ortodossia fino alla moderna Cina. Ma a proposito del tempo di apparizione, bisogna
riconoscere che il Taoismo era apparso prima del confucianesimo2,
nel Chuang-tzu
si narra che Confucio andò a consultare l’opera di Lao Zi: Tao (la via).
Per mantenere la stabilità sociale, l’imperatore Han Wu Di cominciò a dare peso al
Taoismo. La metafisica di Wei Jin e il neoconfucianesimo delle dinastie Song e Ming,
furono debitrici dei pensieri del Taoismo.
Anche se il buddismo nacque in India, suscitò grande interesse e vitalità fin da
subito in Cina, al punto che, dalla dinastia Tang in poi, si cominciò ad armonizzare il
pensiero confuciano con il taoismo e il buddismo. Queste tre scuole tuttora convivono
insieme nella struttura profonda delle menti cinesi: essi usano il confucianesimo per
gestire le cose della vita, il taoismo per mantenersi in buona salute e le teorie del
buddismo per mantenere la tranquillità dell’anima.
Per questa ragione, il pensiero che dal nulla o dalla vacuità potesse nascere
1
Vero significato, p.100.
2
Qualche studioso cinese pensa che i Taoisti derivino dagli eremiti antichi.
65
l’esistenza era accettato dai cinesi, secondo i quali nulla e vacuità non hanno lo stesso
significato che gli occidentali attribuiscono a questi termini.
Il letterato rispose quindi a Matteo Ricci:
«avendo ascoltato i suoi insegnamenti, li trovo senza dubbio corretti e appropriati;
ma forse c'è del vero nell'affermare che le cose prima non siano e che solo dopo
giungano ad essere?1»
Ricci trovava enormi difficoltà nel tentativo di far capire questo ragionamento.
Tentò anche di usare dei sillogismi imprecisi, servendosi cioè dell’analogismo, per
avere un base per il ragionamento.
Aristotele affermava però che un ragionamento attraverso l’analogia non può
garantire assolutamente la precisione di una conclusione, poiché diverso dalle prove
scientifiche che perseguano conclusioni precise. Negli Analitici primi il filosofo ha
discusso la struttura e la funzione dell’analogismo dell’attributo singolo e ha previsto
l’esistenza dell’analogismo degli attributi molteplici. Secondo la sua visione,
l’analogismo è composto dal ragionamento induttivo e dal sillogismo, ed è un tipo di
prova problematica la cui conclusione non è precisa.
Però è anche il modo migliore per stabilire i presupposti delle prove usando
l’esperienza di vita, e si può notare questo suo sforzo nella Vera spiegazione (della
dottrina) del Signore del Cielo. Ne riportiamo tre passi:
«ad esempio, quando una barca attraversa un fiume o il mare, ed è assediata dal
vento e dalle onde, se non c'è pericolo che affondi, e il suo tragitto è compiuto in
sicurezza, si può essere sicuri che ci sia qualcuno al timone che conosca l'arte della
navigazione, anche se non lo si è visto.
Ad esempio, se vedo coi miei occhi migliaia e migliaia di frecce in aria e ciascuna
colpisce un bersaglio, anche se non ho visto un arco teso, immediatamente riconosco
il fatto che ci debba essere un abile arciere che scocca le frecce in modo che non
1
Vero significato, p.100.
66
manchino il bersaglio.
Prendiamo, ad esempio, un piccolo globo di bronzo. Il sole, la luna, le stelle, i
pianeti, le montagne e i mari appaiono tutti completi in esso. Ora, se un abile artigiano
non l'avesse forgiato, sarebbe stato il bronzo in grado di prendere tutte queste forme
da solo?1»
«Il mio secondo argomento è che, se gli oggetti privi di intelligenza possiedono
comunque un ordine, ci deve essere qualcuno che lo impone loro. Se osserviamo un
palazzo signorile, vediamo che è provvisto di porte sul davanti, per facilitare l'entrata
e l'uscita; dietro ci sono giardini, in cui crescono fiori e alberi da frutto. Un atrio è
costruito al centro, per ricevere gli ospiti, e le camere per dormire sono poste a sinistra
e a destra. Le colonne sono costruite sotto, per sostenere le travi del tetto, e la
copertura del tetto è posta sopra, per tenere lontani vento e pioggia.
Quando tutte queste cose sono state ordinate armoniosamente, il padrone di casa
può abitare in sicurezza tra di esse. Ma perché un simile edificio sia portato a
compimento, deve essere costruito da un abile artigiano. Se poi ci volgiamo ai singoli
caratteri forgiati nel metallo, troviamo che, se devono essere uniti per formare frasi e
costituire un saggio, devono essere stati incisi da un uomo istruito, che capisca come
realizzare questo compito. È poco probabile che essi siano in grado di comporsi per
caso. Così risulta ovvio che il cielo, la terra e tutte le cose abbiano una ragione
definita per il loro ordine2».
«È come una composizione musicale: anche se i musicisti volessero eseguire la
musica, senza un direttore non ci sarebbe musica. Quindi, ogni famiglia ha solo un
capo, e ogni nazione ha un sovrano. Se ce ne fossero due, la nazione si troverebbe in
uno stato di anarchia. L'uomo ha solo un corpo; il corpo ha solo una testa. Se avesse
due teste l'uomo sarebbe un mostro. Noi sappiamo, dunque, che sebbene ci siano
molti tipi di esseri spirituali nell'universo, c'è solo un Signore del Cielo, il primo
1
Vero significato, pp. 80, 81, 82.
2
Vero significato, pp. 82-83.
67
creatore del cielo e della terra, del genere umano e di tutti i fenomeni, che li controlla
e li sostiene. Che adito resta a dubbi, signore?1»
Molte sono le prove in cui “accosta forzatamente cose non paragonabili”, cose che
derivano dal campo dell’esperienza, ma Ricci le usa comunque per dimostrare
l’esistenza di Dio. Anche se non si tratta di un metodo scientifico, non si può dire che
siano sbagliate e in molti casi si rivelavano anche molto convincenti; per questo il
gesuita ricorse a loro più e più volte. Leggendo le opere ricciane, scopriamo che
quando Ricci non usa questo metodo cade spesso in degli errori, e di certo non è
scientifico.
Per esempio, nel terzo capitolo di Vero significato, per dimostrare il fatto che
l’anima dell’uomo non è mortale, la prova usata da Ricci è che la distruzione del
corpo e dello spirito non dipende da noi, ma sempre dal Signore del Cielo. Se il
Signore del Cielo comanda che il corpo di un uomo sia distrutto in un certo anno, esso
sarà distrutto in quell'anno, e noi non potremmo farlo esistere per sempre. Se vuole
che l'anima di un uomo continui ad esistere e non muoia, noi non potremmo
distruggerla2: se il Signore del Cielo non fa morire l’anima, l’anima dell’uomo non è
mortale.
Il problema di queste affermazioni è che l’esistenza del Signore del Cielo è di per
sé una proposizione trascendentale. Anche se Ricci ha dimostrato l’esistenza del
Signore del Cielo usando il metodo di Tommaso d’Aquino, le prove derivano dal
campo dell’esperienza e non risultano molto convincenti. È la proposizione
sull’esistenza del Signore del cielo stessa ad essere insicura e ovviamente questo non
è un metodo che possa definirsi scientifico.
Nel quarto capitolo dello stesso testo leggiamo:
«Il letterato cinese crede che il qi3 corrisponda ai gui shen4».
1
Vero significato, pp. 89.
2
Vero significato, p. 144.
3
Soffio o energia.
4
Gli esseri spirituali.
68
Ricci ha confutato quest’idea. La sua prova è che chi cerca di fondare il proprio
insegnamento come guida all’insegnamento degli altri, deve fornire dei nomi
appropriati per ogni cosa. Negli scritti canonici dei tempi antichi, nomi differenti sono
usati per definire qi e gui shen. I loro significati, quindi, possono essere considerati
differenti.1
Dal momento che i termini di qi e gui shen sono diversi, Ricci sostiene che i due
concetti non sono la stessa cosa. Sembra che questa conclusione sia giusta, ma, nello
stesso capitolo, per confutare la visione del letterato cinese riguardo al problema
dell’uguaglianza di tutte le cose, il gesuita ha voluto definire il concetto di identità,
facendo anche degli esempi. Dichiara che si può avere una situazione in cui i nomi
sono dissimili, ma ciò a cui si riferiscono è, nei fatti, la stessa cosa. Ad esempio,
scrive, i due nomi Fang Xun e Di Yao, denotano una sola persona: «Questi due generi
di cose possono essere considerati esempi di una vera similarità2».
La contraddizione in cui Ricci cade è palese: qui, sebbene i nomi siano differenti,
si può trattare di una stessa cosa.
Nonostante ciò, tuttavia, seppure qualche volta il motodo delle dimostrazioni di
Ricci possa sembrare problematico, la maggioranza delle sue prove risultano
comunque convincenti. La logica aristotelica introdotta da Ricci in Cina ha
influenzato molto la cultura cinese, e su questo punto ci soffermeremo nell’ultimo
capitolo.
1.5.
Geometria di Euclide: una forma precisa della logica
Si deve inoltre fare riferimento all’opera intitolata Libro elementare di geometria,
tradotto da Ricci e Xu Guangqi. Sebbene si tratti di un libro sulla matematica, la sua
utilità è risultata chiara in ogni campo, specie in quello filosofico. Attraverso questo
libro, infatti, i filosofi potevano imparare come arrivare a una conclusione giusta
1
Vero significato, p. 157.
2
Vero significato, p. 179.
69
partendo da un presupposto ed avendo una base, non utilizzando le parole o i
pregiudizi dei saggi come presupposto.
Ricci ha nascosto la forma logica nelle sue opere principali, fu un grande peccato
per i cinesi all’epoca. Ma allo stesso tempo Ricci ha introdotto in Cina il testo
Geometria di Euclide; questo libro rivelò ai cinesi il processo della deduzione logica
in senso preciso e come arrivare a una conclusione giusta partendo da un presupposto
ed avendo una base.
2.
Ontologia
2.1.
Quattro elementi
Per un missionario il compito primario è quello di dimostrare che Dio è l’origine e
la causa di tutte le cose, e anche Ricci era desideroso di introdurre il concetto di Dio e
di dimostrarne l’esistenza usando le cinque vie di Tommaso d’Aquino. Questa volontà
appare chiara fin dal primo capitolo di Vero Significato. Ma per spiegare che Dio è la
prima sostanza, egli dovette prima illustrare i modi della formazione delle cose.
Secondo l’antica filosofia cinese, tutte le cose nell’ universo sono composte da
cinque elementi (gli Wu Xing). Essi sono Fuoco, Terra, Metallo, Acqua e Legno1. Non
si tratta solo di cinque materie in sé, ma anche delle loro molteplici relazioni, e della
formazione delle cose attraverso i loro movimenti combinati e costanti.
Ricci ha criticato con applicazione la teoria degli Wu Xing nel suo Saggio Sui
1
Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Wu_Xing e il grafico sotto riportato
70
quattro elementi1.
Confrontiamo di seguito i cinque elementi e i quattro elementi attraverso un
grafico:
Metallo
Legno
Qi (soffio o energia)
Acqua
Fuoco
Terra
Acqua
Fuoco
Terra
In questo modo possiamo chiaramente vedere le loro uguaglianze e
differenze: nei quattro elementi non ci sono il metallo e legno, al loro posto c’è
il Qi. Ricci non crede che metallo e legno siano elementi di base. Secondo lui,
gli elementi di base devono essere assolutamente puri 2, mentre legno e metallo
non lo sono, poiché al loro interno sono spesso presenti acqua, fuoco e terra.
Il gesuita, inoltre, aveva notato che i cinesi credevano che ogni elemento
fosse generato da un altro (per esempio che il legno fosse generato dall’acqua) e
che, per ordine di generazione, prima fosse stata generata l’acqua, poi l’acqua
avesse generato il legno, il legno il fuoco, il fuoco la terra e che, infine, la terra
avesse a sua volta generato il metallo.
Matteo Ricci non era d’accordo; si chiedeva dove il legno avrebbe potuto
crescere senza l’esistenza della Terra e come avrebbe potuto l’acqua generare il
1
La dottrina dei quattro elementi deriva anche da Aristotele. Prima di lui, infatti, i diversi pensatori
hanno creduto che l’universo si fosse formato da un qualche elemento di base: «si ammette che siano o
il fuoco, o la terra, o l’acqua, o alcuni fra questi oppure tutti». In base a queste dottrine, Aristotele ha
proposto una conclusione sistematica e la teoria dei quattro elementi. (Cfr. Aristotele, La metafisica,
tradotta da Pietro Eusebietti, a cura di Emilio Oggioni, Cedam-Casa editrice Dott. Antonio Milani,
Padova, 1950, p.505)
2
Nella Metafisica Aristotele ha affermato: «[alcuni] chiamano elemento ciò che è uno, piccolo e
indispensabile a molte cose e perciò anche quello che è piccolo, puro e indivisibile. Quindi si giunse a
considerare come elementi i principi più universali, perché ciascuno di essi, essendo uno e puro, si
ritrova in molte cose, o in tutte o nella maggior parte di esse; anzi per alcuni anche l'unità e il punto
sono principi elementari» (Cfr. Aristotele, La metafisica, tradotta da Pietro Eusebietti, a cura di Emilio
Oggioni, Cedam-Casa editrice Dott.Antonio Milani, Padova, 1950, p.504).
71
legno: secondo esperienza, infatti, il legno riesce a far sviluppare il fuoco, ed è
per natura un elemento caldo. L’acqua invece diventa ghiaccio; la natura
dell’acqua è fredda, e al gesuita non sembrava che una cosa più fredda potesse
generarne una più calda. E si chiedeva ancora, qualora il fuoco fosse generato
dal legno e il legno dall’acqua, cioè qualora il fuoco fosse nipote dell’acqua,
come potesse mai essere possibile che un “nonno” fosse tanto crudele da voler
uccidere il proprio “nipote”.
Dopo aver criticato la teoria cinese dei cinque elementi, Ricci ha introdotto
la teoria dei quattro elementi che erano stati stabiliti da Aristotele sulla base dei
pensieri dei pensatori precedenti.
Ricci credeva che Qi fosse sicuramente un elemento di base. Per questo
cercò di dimostrarne l’esistenza: il motivo per cui gli uccelli riescono a volare
in cielo è che c’è Qi 1; la respirazione dipende da Qi; quando si agita il bastone
si può sentire il rumore prodotto dall’attrito tra bastone e Qi.
Il gesuita ha anche affermato che tutte le cose dell’universo derivano dai
quattro elementi: le costellazioni in cielo, le quattro stagioni, i fluidi corporei e
i caratteri delle diverse persone, tutti corrispondono ai quattro elementi.
Infatti, dal punto di vista scientifico, il livello dei quattro elementi (acqua,
aria, terra, fuoco) è più basso di quello dei Wu Xing. Possiamo vedere dal
grafico che i quattro elementi compongono un quadrato, mentre i cinque elementi
compongono un grafico spirale. Il quadrato persegue un movimento nello stato
di quiete, la spirale persegue l’equilibrio nello stato di movimento eterno; il
primo sottolinea un’analisi microscopica, l’altro considera la sua interezza; il
primo divide l’immagine concreta e astratta, l’altro tenta di unire la concretezza
e l’astrazione per analizzare un fenomeno. Ciò equivale a quanto indicato da
Joseph Terence Montgomery Needham: la mente occidentale tenta di capire l’essenza
1
Nella Fisica Aristotele afferma che nella vacuità nessuna cosa riesca a muoversi.
72
di una cosa, invece la teoria dei Wu Xing cerca di spiegare la relazione tra le cose
nelle loro fasi iniziali, medie e conclusive, e anche quali reazioni aspettarci di fronte a
questi fenomeni.
Con l’aiuto della teoria dei Wu Xing, le scienze cinesi come botanica,
zoologia, farmacologia, medicina tradizionale, meccanica, chimica, mineralogia,
metallurgia, magnetismo e geografia, hanno ottenuto grandi successi e
raggiunto un livello ragguardevole per quell’epoca nel mondo1. Al contrario, la
teoria dei quattro elementi è stata sempre messa in dubbio, e nel XVII secolo gli
europei l’hanno rigettata completamente 2.
2.2.
Quattro cause
Quando Matteo Ricci spiegò la formazione della materia del mondo usando la
teoria dei quattro elementi, si rese conto del suo svantaggio, quindi per alcuni anni
utilizzò la teoria delle “quattro cause” di Aristotele3 per sostituire quella dei quattro
1
Cfr. Zhang Yongwei e Zhen Shuping, Il confronto tra i Quattro elementi e gli Wu Xing,
Hanzhongshifanxueyuanxuebao, no, 2, Hanzhong, 1996.
2
Questo non significa che tutti gli aspetti della teoria dei Wu xing sono più alti di quelli della teoria dei
quattro elementi; anche se la teoria dei Wu Xing ha svolto una funzione positiva nell’antica storia
cinese, non è tuttavia favorevole al differenziamento delle scienze. Di conseguenza ha causato la
scientifica arretratezza cinese, il diffondersi di alchimia, divinazione, fisiognomia e geomanzia; come
ha indicato Joseph Terence Montgomery Needham:« il difetto unico della teoria cinese è che si diffuse
per un tempo troppo lungo: nel I secolo d.C. fu molto avanzata, nel XI fu anche passabile, ma nel
XVIII secolo divenne ridicola».
3
Nella Metafisica Aristotele ha affermato: «causa in un senso si dice ciò che è insito in una cosa e da
cui questa si genera, come il rame è causa della statua, l'argento della fiala, e i generi di queste cose; ma
in altro senso [sono causa] la specie e l'esemplare, cioè il concetto dell'essenza [di una cosa] e i suoi
elementi generali, come per esempio dell'[accordo di] ottava [il rapporto di] due ad uno, e in generale il
numero [che lo esprime] e le parti che sono in tale rapporto. Ancora, causa è il principio primo del
mutamento e della quiete, come chi delibera è causa [della cosa deliberata] e il padre [è causa] del
73
elementi,
considerata rigida e isolata.
Disse:
«quando tentiamo di discutere sul perché le cose siano come sono, troviamo che
esistono quattro cause. E quali sono? Sono la "causa agente", la "causa formale", la
"causa materiale" e la "causa finale". La causa agente è quella che pone in essere la
cosa. La causa formale dà la forma alla cosa e la pone nella sua classe, distinguendola,
in tal modo, da altre classi di oggetti. La causa materiale è la materia originaria di una
cosa, a cui dà la forma. La causa finale determina il fine e lo scopo di una cosa.
Queste cause possono essere viste operare in ogni evento e in ogni fenomeno.
Ad esempio, l'artefice di una carrozza è la causa agente, la somma totale delle
caratteristiche specifiche di una carrozza è la causa formale, il legname è la sua causa
materiale, la causa finale, per cui una carrozza è costruita, è il portare passeggeri. Si
possono osservare queste cause all'opera in ogni cosa che sia prodotta. Fatemi
prendere ad esempio il fuoco. Il fuoco originario, che dà vita ad un fuoco, è la causa
figlio, e in genere ciò che produce è causa della cosa prodotta e ciò che muta, della cosa mutata. Inoltre
la causa è intesa come fine, e questo è ciò in vista di cui [si opera], come del passeggiare [è fine] la
salute». (Aristotele, La metafisica, tradotta da Pietro Eusebietti, a cura di Emilio oggioni, Cedam-Casa
editrice Dott.Antonio Milani, Padova, 1950, p. 502); nella
Fisica Aristotele ha anche espresso
l’opinione seguente: «So clearly we too must do this as regards both coming to be and passing away
and every kind-nf physical change, in order that, knowing their principles, we may try to refer to these
principles each of our problems. In one sense, then, (1) that out of which a thing comes to be and which
persists, is called ‘cause’, e.g. the bronze of the statue, the silver of the bowl, and the genera of which
the bronze and the silver are species. In another sense (2) the form of the archetype, i. e. the statement
of the essence, and its genera, are called 'causes' (e.g. of the octave the relation of 2:1, and generally
number), and the parts in the definition. Again (3) the primary source of the change or coming to rest; e.
g. the man who gave advice is a cause, the father is cause of the child, and generally what makes of
what is made and what causes change of what is changed. Again (4) in the sense of end or 'that for the
sake of which' a thing is done, e.g. health is the cause of walking about». (Aristotele, Fisica by R.P.
Hardie,
M.A. and R.K. Gaye, M.A, Oxford at the Clarendon Press 1930, p. 50.)
74
agente. Il calore, la secchezza e l'aria sono la causa formale. Il combustibile è la causa
materiale; e l'usare il fuoco per bruciare e cucinare le cose è la causa finale. Non esiste
nulla al mondo che non comprenda in sé queste quattro cause1».
Il vantaggio della teoria delle quattro cause nei confronti di quella dei quattro
elementi è che essa è il risultato dell’unione di esperienza e logica, mentre i quattro
elementi risultano essere soltanto un’ipotesi nella formazione delle cose. Questo tipo
di ipotesi, non riuscendo a reggere alla prova delle tante esperienze della vita, causa
molti errori.
2.3.
Definizione di Dio(causa prima)e dimostrazione dell’esistenza di
Dio
Aristotele credeva che nel rapporto tra forma e materia, la forma fosse positiva e
la materia negativa; che la forma decidesse l’essenza di una cosa, cioè decidesse il che
cos’è. Egli sosteneva anche che la forma fosse la prima sostanza in quanto veniva
prima non solo della materia ma anche di una cosa in particolare; dal punto di vista
del movimento e del cambiamento, la materia, per il filosofo, costituiva la potenzialità,
la forma la realtà, e la realtà il presupposto per la materia che volesse divenire una
cosa reale, quindi la realtà era la prima della potenzialità. Aristotele affermava che ci
fosse una forma pura o una realtà pura usando questo metodo deduttivo: questa forma
pura era l’essenza e il modello più alto di tutte le cose nel mondo, lo scopo ultimo
perseguito da tutto, la causa del movimento di tutte le cose. Egli indica che proprio
questo fosse Dio. Secondo quest’opinione, la prima sostanza non è una cosa speciale,
né
una forma in generale, ma è Dio, il perfetto.
Nel primo capitolo del Vera spiegazione, Ricci parla direttamente di Dio:
«Lei, signore, desidera per prima cosa informarsi su Colui che, si sostiene, abbia
creato il cielo, la terra e tutte le cose e che esercita un'autorità costante su di esse. Io
1
Vero significato, p. 87.
75
affermo, dunque, che non ci sia nulla sotto il cielo che sia più evidente della verità
della Sua esistenza. C'è qualcuno che non abbia alzato gli occhi e osservato il cielo, e
che non abbia silenziosamente sospirato dentro di sé, fissando la volta celeste,
dicendo: «Deve esserci sicuramente Qualcuno nel mezzo di esso che vi eserciti il suo
controllo». Ora questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo, che le nostre
nazioni occidentali chiamano Deus1».
Matteo Ricci cerca poi di dimostrare l’esistenza di Dio utilizzando le prove
enunciate da San Tommaso d’Aquino.
Tommaso d'Aquino aveva dimostrato l'esistenza di Dio mediante la razionalità,
facendo ricorso alle cinque prove.
Nella prima prova, egli sostiene che le cose di questo mondo siano soggette a
mutamento e che questo processo, descritto come di trasformazione dalla potenza
all’atto, si verifichi grazie all’interazione tra diversi enti. Di essi, alcuni sono quelli
che vengono modificati ed altri quelli che sono gli artefici del mutamento. Tuttavia
anche questi ultimi cambiano grazie all’interazione con altri enti, modificati, a loro
volta, da altri ancora. Poiché, secondo d’Aquino, questo processo non può avvenire
all’infinito, deve esistere una «prima ragione del mutamento che non muti affatto»,
cioè Dio.
Ricci, invece, afferma:
«Gli oggetti che sono privi di anima e percezione, non possono muoversi dal loro
luogo naturale autonomamente in maniera regolare e ordinata, ma è necessario che
un'intelligenza esterna ad essi venga in loro aiuto»2.
Rispetto a quella di San Tommaso, la spiegazione di Ricci è molto più semplice,
in essa manca la parte finale riguardante la “prima ragione del mutamento che non
muti affatto”. Anche se questa conclusione è carente di forza logica, Ricci l’ha scelta
apposta: poiché capiva che la logica occidentale era di difficile comprensione per i
cinesi, egli scelse esempi tratti dalla vita quotidiana, come i sassi che si muovono a
1
Vero significato, p. 79.
2
Vero significato, p. 80.
76
causa del vento, e i movimenti delle stelle causati da una forza esteriore. Ricci prova
l’esistenza di Dio attraverso queste semplici dimostrazioni, alla portata dei suoi
ascoltatori. Apprezzabili perciò, sono gli sforzi e l’inventiva che Ricci ha messo in
atto per adattare le sue idee alla cultura cinese.
Ricci continua poi la sua dimostrazione servendosi di alcune immagini molto
significative: la prima è quella degli animali che sono capaci di sopravvivere e
soddisfare i propri bisogni pur non essendo dotati di intelligenza. Essi sanno dove
trovare acqua e cibo, sanno dove e da chi nascondersi, e sanno riprodursi. In questo,
sostiene il gesuita, non differiscono dalle creature intelligenti e quindi deve esserci un
Dio che, segretamente, insegna loro come comportarsi. La seconda immagine è quella
delle migliaia e migliaia di frecce che colpiscono un bersaglio: anche quando non si
riesce a vedere l’arciere, egli c’è ed è molto abile.
Questa dimostrazione corrisponde al quinta prova di Tommaso d’Aquino, cioè
quella dell’ordine incontestabile che regola le leggi dell’universo, tesa anch’essa a
dimostrare l’esistenza di Dio.
Anche il filosofo si serve della metafora delle frecce e dell’arciere, sostenendo che
se gli enti privi di conoscenza, così come fanno quelli dotati di intelligenza, sono
sempre orientati in modo da raggiungere uno scopo e conseguire ciò che è il loro
meglio, ciò è opera di un «principio intelligente» che ordina tutte le cose ad un fine,
ed Egli è Dio.
Questa affermazione è difficile da comprendere e da accettare per i cinesi. Sia gli
occidentali che cinesi credevano che le attività degli uomini mirassero a degli obiettivi,
ma per quanto riguarda cose inanimate, come animali e vegetali, la maggior parte dei
cinesi sosteneva che i loro movimenti fossero determinati dalle leggi della natura, e
non che seguissero indicazioni di divinità soprannaturali. Una piccola parte di cinesi
credeva che ci fosse un Tao o Cielo che dominasse l’universo, ma non si pensava che
questi guidassero tutte le cose. Il letterato cinese non sapeva più in che modo
rispondere, poiché le logiche della filosofia scolastica erano molto convincenti.
Matteo Ricci continuò la sua dimostrazione, cercando di spiegare ancora che il
fenomeno della creazione non può avvenire se non grazie all’esistenza di un creatore.
77
Ciò vale sia per le cose umane, come un piccolo globo di bronzo che non può esistere
se non grazie al lavoro di un artigiano, sia e soprattutto per i corpi delle dimensioni
del Cielo e della Terra e per i fenomeni che vi avvengono: il susseguirsi del giorno e
della notte, i cicli stagionali, le catene alimentari e così via, il cui motore è il «Signore
del Cielo». Per il gesuita, se ci fosse qualcosa in grado di auto crearsi dovrebbe
innanzitutto «essere un Sé per poter creare», ma il Sé c’è già ed è Dio, perciò non c’è
la necessità di un'auto creazione. E se il Sé non ci fosse, il creatore dell'essere
dovrebbe essere qualcuno di diverso dal Sé stesso. «Da ciò –conclude Ricci- i
fenomeni non possono giungere da sé all'esistenza»1.
La seconda prova enunciata da San Tommaso, cioè la prova del principio di
causalità,
si basa sul concetto che sia evidente un ordine di cause efficienti riguardo
ai fenomeni che cadono sotto i sensi, ma che sia impossibile che una causa sia
efficiente si se stessa. Se questo potesse accadere, essa dovrebbe esistere prima di se
stessa, cioè essere propria causa e conseguenza. Come nella sua prima prova, il
filosofo sostiene che non si possa procedere all’infinito nella ricerca delle cause e
quindi ci deve essere una causa efficiente prima, cioè Dio.
Le parole di San Tommaso costituiscono una deduzione della logica in sé, ma si
tratta di una deduzione problematica: egli considera la causalità come un sistema
limitato e lineare che parte da una causa assoluta e giunge all’effetto finale, senza
tener conto del fatto che la causalità è una manifestazione dei rapporti generali delle
cose. Ricci non ha ripetuto completamente la prova di San Tommaso, ma ha adottato
una forma più sensibile e intuitiva per adattarla alla cultura cinese.
Per dimostrare che Dio è unico ed è l’origine di tutte le cose, usò anzitutto
l’esperienza e la visione dei sapienti.
Scrisse, infatti: «i sapienti dei tempi antichi lo considerarono come la prima di
tutte le cause2. Le cose in questo mondo sono estremamente numerose e se non ci
fosse un Signore supremo a tenere e mantenere l'ordine tra di esse, inevitabilmente si
disperderebbero e sarebbero distrutte. È come un'esecuzione musicale: anche se i
1
Vero significato, p. 81.
2
Vero significato, p. 88.
78
musicisti volessero eseguire la musica, senza un direttore non ci sarebbe musica.
Quindi, ogni famiglia ha solo un capo, e ogni nazione ha un sovrano. Se ce ne fossero
due, la nazione si troverebbe in uno stato di anarchia. L'uomo ha solo un corpo; il
corpo ha solo una testa. Se avesse due teste l'uomo sarebbe un mostro. Noi sappiamo,
dunque, che sebbene ci siano molti tipi di esseri spirituali nell'universo, c'è solo un
Signore del Cielo, il primo creatore del cielo e della terra, del genere umano e di tutti i
fenomeni, che li controlla e li sostiene. Che adito resta a dubbi, signore?1»
Tuttavia, le prove dettate dall’esperienza risultavano prive di forza convincente,
perché l’esperienza non sembrava raggiungere il campo della metafisica in quanto il
ponte che unisce esperienza e metafisica è la congettura. Nell’antica filosofia cinese,
comunque, non mancano questo tipo di ipotesi.
Ad esempio, per quanto riguarda la formazione dell’universo, nel suo Dao de jing,
Laozi espresse un’ormai famosissima teoria: «uno ha prodotto due; due hanno
prodotto tre; tre hanno prodotto i diecimila esseri. I diecimila esseri si scostano
dall’elemento Yin e abbracciano l’elemento Yang2».
Anche la teoria neoconfuciana del Tai Ji si basa sulla congettura.
Visto che questo tipo di affermazione mancava di forza, Ricci si servì nuovamente
dello strumento della logica aristotelica, e disse: «se qualcuno supponesse che ci
fossero due signori a fondamento dei fenomeni in cielo e in terra, sarebbe difficile
sapere se questi due presunti signori fossero paritetici o meno. Se no, uno sarebbe
inferiore all'altro, e l'inferiore non potrebbe essere definito "universale" e "supremo".
Chi è universale e supremo è per natura
perfetto, al punto che nulla gli può essere
aggiunto. Se affermassimo che sono uguali, allora uno sarebbe sufficiente. Da cosa la
necessita di due? Sarebbe anche difficile sapere se i due signori, a cui lei si riferisce,
fossero in grado di distruggersi l'un l'altro. Se non fossero capaci di distruggersi a
vicenda, ciò dimostrerebbe che il potere di ciascuno dei due è limitato e che nessuno
dei due potrebbe essere definito un tutto, o essere dotato delle più alte virtù attribuibili
1
Vero significato, p. 89.
2
Tao Te Ching, p. 107.
79
ad un signore supremo. Se fossero in grado di distruggersi l'un l'altro, ciò proverebbe
che, chi può essere distrutto, non è il Signore del Cielo1».
3.
Etica
3.1.
Etica teologica ed etica naturale
Il pensiero etico di Ricci si può dividere principalmente in due parti: l’etica
naturale e l’etica teologica. Nel sistema ricciano, l’etica teologica è fondamentale e
l’etica naturale è posta al suo servizio. Ciò ovviamente non significa che l’etica
naturale non sia importante nel sistema filosofico di Ricci.
Nell’antica filosofia cinese, forse più che in qualsiasi altro Paese, si è sempre data
grande importanza all’etica.
Mencio credeva che la differenza tra l’uomo e la bestia fosse evidente solo se
l’uomo si indirizzava alla carità e ai riti e che questa differenza venisse a mancare
nell’uomo che persegue solo interessi materialistici senza dar peso all’educazione e
alla morale.
Il traguardo importante nello studio per gli antichi cinesi non è quello di ampliare
la propria conoscenza, ma quella di nutrire la virtù. La prima frase del Grande Studio
è che la Via consiste nel far rifulgere la virtù luminosa, nel rinnovare il popolo,
permanere nel più alto grado del bene2. In genere, un libro pieno di sole nozioni
poteva anche essere trascurato e considerato senza valore.
Confrontiamo, per fare un esempio di quanto affermato, l’interesse suscitato dalle
opere di Ricci intitolate Dell’amicizia e Metodo mnemonico dell’Occidente.
Entrambe furono scritte nel 1595, ma i loro destini risultarono diversi. Il primo
ebbe grande successo: «[Il padre] fece un'opra che sino adesso fa stupire a tutto
questo regno», scrisse Ricci nella Entrata3. In pochi anni il saggio conobbe varie
1
Vero significato, p. 89.
2
Testi Confuciani, p. 87.
3
E, p. 253.
80
edizioni, alcune parti furono riportate in libri di autori cinesi «assai gravi», vastissima
fu la diffusione manoscritta: «erano tanti i letterati che mi chiedevano per vederli e
trascriverli, che sempre ne avevo alcune copie apparecchiate per mostrare1».
Il testo Metodo mnemonico dell’Occidente, invece, fu pubblicato postumo,
conservato nella casa di Alohonsus Vagnon (1566-1640) per quindici anni e
trascurato completamente dal circolo accademico dei curatori di Tutti i libri dei
Quattro Repositori (raccolta del 1772-1782, ordinata dell’imperatore Qianlong). Fu
un’opera abbandonata per molti anni senza trovare una casa editrice disposta a
pubblicarlo. Solo nel 2001 il Metodo mnemonico dell’Occidente è stato inserito nel
Raccolta di scritti e traduzioni in cinese di Matteo Ricci (la cui edizione più
autorevole in Cina è curata da Zhu Weizheng).
Leggendo le opere di Ricci non si può fare a meno di notare quanto sia difficile
trovare una pura opera teologica: i suoi pensieri teologici si intrecciano sempre con
quelli dell’etica naturale. Questo fenomeno è molto evidente soprattutto nelle sue
opere iniziali, dove è quasi assente la figura di Dio e predominano i temi generali
dell’etica confuciana, come quando si riferisce alla fedeltà, riguardo alla quale il
gesuita ebbe a dire:
«l’amico verso l’amico è sempre lo stesso. In verità, né le parole né i sentimenti
devono essere diversi a seconda che si stia vicini o lontani, dentro o fuori, di fronte o
dietro2».
Anche ne I dialoghi si dà molto peso alla fedeltà:
«Tseng-tzu disse: ogni giorno mi esamino su tre punti: non sono stato leale
nell’operare per gli altri? Non sono stato sincero nei rapporto con gli amici? Non ho
messo in pratica ciò che mi è stato insegnato?»3
1
L, p. 337.
2
Matteo Ricci, Dell’amicizia, a cura di Filippo Mignini, Pubblicazione dell’Istituto Matteo Ricci,
2005, p.71.
3
Confucio, Dialoghi,
in Testi Confuciani, Traduzione dal cinese di Fausto Tomassini, introduzione
di Lionello Lanciotti, p.129
81
Quando si riferisce alla rettitudine, Ricci scrive:
«Se due sono vissuti solitamente da buoni amici e un giorno diventano nemici per
un piccolo interesse o una piccora perdita, la ragione della loro amicizia non era retta.
Quando la ragione dell’amicizia è retta, i profitti si possono suddividere e le perdite si
possono condividere1».
Nei suoi Dialoghi, Confucio insegnava quali amicizie fossero utili e quali nocive:
(«tre specie di amicizia avvantaggiano, tre specie danneggiano. L’amicizia con
uomini giusti, l’amicizia con uomini sinceri, l’amicizia con uomini eruditi
avvantaggiano. L’amicizia con uomini pratici nell’inganno, l’amicizia con uomini
abili nel servilismo, l’amicizia con uomini pronti ai raggiri, danneggiano»), Matteo
Ricci, riferendosi al beneficio da trarre nei rapporti di amicizia, scrisse:
«Il fine dell’amicizia non è altro che questo: se l’amico mi è superiore, lo imito e
apprendo, se io sono superiore, lo migiloro. Impara e insegna, insegna e impara:
ambedue si aiutano. Se egli mi è di troppo superiore per imitarlo e appredere o se egli
è di troppo inferiore per esser cambiato, perché dovremmo stare insieme, giocando
ogni giorno e perdendo inutilmente tempo?»2
Confucio sosteneva ancora: «se viaggiassimo in tre, io, un uomo buono e un
uomo cattivo, di sicuro avrei dei maestri: dall’uno prederei ciò che ha di buono e lo
seguirei, dall’altro ciò che ha di cattivo e mi emenderei3».
Fino al secondo periodo di evangelizzazione, Ricci fu restio a discutere su temi
dell’etica naturale. Nello primo capitolo del testo Otto canzoni per manicordo
occidentale, intitolato La mia aspirazione è verso l'alto, si nota un tono diverso dal
solito: il gesuita va subito al punto presentando Dio direttamente:
«Il sapere dei savi consiste nel conoscere il Signore dell'Alto;
il loro studio consiste nello studiare il Signore dell'Alto.
Perciò, con il loro sapere possono educare le masse che sono sotto di loro.
1
Matteo Ricci, Dell’amicizia, cit., p.83.
2
Matteo Ricci, Dell’amicizia, cit., p.85.
3
Testi Confuciani, p.166.
82
Il Signore dell'Alto nutre nel cuore grande compassione per i popoli:
raramente punisce l'uomo colpendolo col fulmine.
Fa splendere sempre il sole e la luna:
essi illuminano tutti i luoghi senza eccezione!
Fa cadere spesso la pioggia e la neve:
esse bagnano tutti i campi senza eccezione!1»
Nel terzo capitolo della stessa opera Ricci esamina la relazione tra la distanza
della vita di un uomo e Dio:
«Ogni giorno concessomi da Dio
Mi serve per correggere gli errori commessi nei giorni precedenti,
in modo che possa fare un passo in avanti verso la virtù.
Se sciupassi questo giorno, breve ma prezioso,
aumenterebbero le mie colpe
con il passare del tempo,
e ciò deluderebbe la misericorde intenzione di Dio»2.
Nel capitolo successivo crede che «la voce della virtù può allietare la divinità e
ottenere la grazie del Signore del Cielo»3 e nel sesto scrive:
«Il Creatore mi ha creato e messo in questo mondo
perché io diventi la più nobile tra tutte le creature.
Purtroppo, mi sono abbassato sotto tutte le creature
Facendomi servo di esse.
Che tristezza! Che tristezza!4»
Tuttavia, allo stesso tempo Ricci capiva bene che era difficile commuovere i
letterati cinesi presentando direttamente Dio ed elogiandolo in modo così palese.
1
Dieci capitoli, p.329.
2
Dieci capitoli, p.331.
3
Dieci capitoli, p.333.
4
Dieci capitoli, p.337.
83
Poiché all’epoca il concetto di Dio era vago per i cinesi, addiritura la maggior parte di
loro pensava che Egli fosse sprovvisto di personalità. Credevano inoltre che anche
qualora esistesse una divinità, non vi fosse comunque alcuna barriera tra divinità e
umanità. In Cina, Dio non era affatto lontano dall’uomo, né non poteva discostarsi
dall’etica naturale. Ecco perché nel suo Otto canzoni per manicordo occidentale Ricci
dedicò tanto spazio alla discussione delle categorie dell’etica naturale.
Ne riportiamo alcuni passi come esemplificazione:
«Sai come si calcola bene la longevità?
Non si devono contare gli anni trascorsi.
Si misura la lunghezza della propria vita
soltanto con l'abbondanza della virtù accumulata.
Come si potrebbero paragonare cento anni vissuti da uno stolto
con una sola giornata vissuta da un savio!
Coloro che hanno compiuto grandi imprese,
anche se non hanno vissuto una vita lunga,
sono degni di essere considerati come uomini che ne hanno goduto1».
«I suoni degli strumenti musicali, benché gradevoli,
si limitano solo a riempire il grande palazzo,
ad accompagnare gli amici,
ad attraversare le mura e a raggiungere i vicini.
Come possono essere paragonati alla voce della virtù che non è limitata neanche
dai confini del mondo?
Può forse la voce della virtù essere chiusa dall'universo
e non estendersi fino al nono cielo,
sopra il sole, la luna e le stelle2».
«Non mi lamento per il volare del tempo:
1
Dieci capitoli, p. 331.
2
Dieci capitoli, p.333.
84
mi pento solo della mia indolenza.
Ahimè!
Ormai la vecchiaia sta per raggiungermi, ma io non sono ancora arrivato alla
perfezione della virtù1».
«Chi è colui che è talmente virtuoso, coraggioso e intelligente
da non aspettare che le cose lo abbandonino,
ma da abbandonarle egli per primo
sollevandosi al di sopra di esse e dicendo:
«Nudo son venuto e nudo me ne andrò.
Solo la virtù resterà dopo la mia morte:
quali altre cose potranno accompagnarmi per sempre?2».
In Dieci capitoli di un uomo strano, Vera spiegazione (della dottrina) del Signore
del Cielo e Venticinque Sentenze, Ricci riesce a fare incontrare teologia ed etica
naturale.
3.2
Le dottrine etiche derivanti dallo Stoicismo
3.2.a.
La tranquillità dell’anima e la conquista della libertà
Esaminiamo ora l’origine principale dei pensieri di Ricci, cioè quelli dell’etica
dello stoicismo.
Innanzitutto Matteo Ricci pone in risalto le aspirazioni di libertà dello stoicismo
che afferma che si può conquistare la libertà conformandosi alla ragione e alla natura.
L'etica stoica si fonda sul principio che l'uomo è partecipe del lógos e portatore di
una "scintilla" di fuoco eterno. L'essere umano è l'unica creatura, fra tutti i viventi, in
cui il lógos si rispecchia perfettamente: egli è un microcosmo, una totalità nel quale
1
Dieci capitoli, p.335.
2
Dieci capitoli, p.337.
85
tutto l'universo è riprodotto. La virtù consiste nel vivere in modo conforme alla natura
del mondo, secondo il principio di conservazione. Mentre gli animali tendono a
preservare se stessi obbedendo agli impulsi, gli uomini devono scegliere sempre ciò
che conviene alla nostra natura di esseri razionali. La saggezza stoica consiste nella
capacità di raggiungere la felicità, ed è per questo incentrata sull'atarassia, o
imperturbabilità dell'animo, concetto derivante in gran parte dalla scuola cinica. Ad
essa si arriva anzitutto diventando padroni di se stessi. Secondo gli stoici, la volontà
del saggio aderisce perfettamente al suo dovere, obbedendo a una forza che non
agisce esteriormente su di lui, bensì dall'interno. Egli vuole quello che deve, e deve
quello che la sua stessa ragione gli impone.
Tutti i pensatori dello stoicismo danno peso alla tranquillità dell’animo: Seneca ha
scritto La tranquillità dell’animo, in cui si è dedicato allo studio dei fattori che
causano sempre l’inquietudine dell’animo, inclusi solitudine, insoddisfazione per lo
stato di non aver nulla da fare, perdita della speranza, desiderio per la proprietà e per
la fama, pressione del lavoro e della vita in generale, i conflitti con gli altri e i dolori
causati dalla morte delle persone care, ecc. Ha fornito poi, per ogni punto, delle
“regole”, come la riduzione lei desideri, il partecipare alle attività positive, far
amicizia, non amare troppo la proprietà, dare peso alla ragione, rendere tranquillo
l’animo.
Altro rappresentante importante del tardo stoicismo è l’imperatore Marco Aurelio,
coi suoi Collogui con se stesso, testo in cui ha espresso i seguenti pensieri: conoscere
il rapporto tra l’umanità e l’universo e conoscere anche che uomo è una parte
dell’universo1; tutto è destinato, non c’è nulla che sia accidentale, l’uomo deve
1
All things are implicated with one another, and the bond is holy; and there is hardly anything
unconnected with any other thing. For things have been co-ordinated, and they combine to form the
same universe(order). For there is one universe made up of all things, and one God who pervades all
things, and one substance, and one law, one common reason in all intelligent animals, and one truth; if
indeed there is also one perfection for all animals which are of the same stock and participate in the
same reason(The Meditations, By Marcus Aurelius, Translated by George Long, Book seven)
86
obbidire alla propria natura, accettare positivamente quanto dato dal destino1; deve
distinguere le cose controllabili e quelle non si possono controllare, e deve poi
verificare quelle controllate2; deve capire che la sostanza è immobile mentre tutti gli
aspetti fenomenici cambiano continuamente e costantemente: tutto sparisce in un
baleno, la fama è transitoria3.
Matteo Ricci, come la dottrina dello stoicismo, ha dato molta importanza alla
tranquillità dell’animo. Il fatto che possedere la tranquillità equivalesse a possedere la
libertà concordava con il pensiero di molti letterati cinesi che frequentavano Ricci, tra
i quali Xu Guangqi. Il raggiungimento della libertà esercitò grande fascino su questi
letterati, e alcuni confuciani, per conquistare questa libertà derivante dalla tranquillità,
si interessarono al Buddismo e al Taoismo, senza però trovarvi ciò che cercavano. Per
questa ragione, infine, si rivolsero al Cattolicesimo. Ricci intuì il significato della loro
richiesta e tentò di soddisfarli citando molti dei pensieri espressi nel Manuale di
Epitteto e ha scritto in cinese il testo Venticinque sentenze.
Le citazioni avvenivano in tre modi: o direttamente e completamente, senza che
1
Every nature is contented with itself when it goes on its way well; and a rational nature goes on its
way well, when in its thoughts it assents to nothing false or uncertain, and when it directs its
movements to social acts only, and when it confines its desires and aversions to the things which are in
its power, and when it is satisfied with everything that is assigned to it by the common nature (The
Meditations, By Marcus Aurelius, Translated by George Long, Book eight).
2
I can have that opinion about anything, which I ought to have. If I can, why am I disturbed? The
things which are external to my mind have no relation at all to my mind (The Meditations, By Marcus
Aurelius, Translated by George Long, Book seven)
3
Some things are hurrying into existence, and others are hurrying out of it; and of that which is
coming into existence part is already extinguished. Motions and changes are continually renewing the
world, just as the uninterrupted course of time is always renewing the infinite duration of ages. In this
flowing stream then, on which there is no abiding, what is there of the things which hurry by on which
a man would set a high price? (The Meditations, By Marcus Aurelius, Translated by George Long,
Book six)
87
Ricci le cambiasse (se non per piccoli particolari); o cercando di adattare il testo alla
mentalità cinese, lasciando però i contenuti immutati; o deliberatamente eliminandone
alcune frasi. Ne spieghiamo di seguito il motivo.
Parliamo, per prima cosa, delle parti che riguardano il primo caso, cioè quelle
citate direttamente dal gesuita. Ricci decise di riproporre quasi completamente tutti i
pensieri relativi ai modi per mantenere la tranquillità dell’anima. Nel Manuale di
Epitteto, questi modi includono:
A. Esaminare solo le parti che si possono controllare1.
1. «Alcune cose dipendono da me, le altre no. Tra le prime vi sono gli
appetiti, le ambizioni, gli impegni, le avversioni, tra le seconde vi sono invece la
fortuna, i titoli, la reputazione, la vita e cosi via. Le cose che dipendono da me
sono facili da tenere, le altre che non dipendono da me sono difficili da
conquistare. Se si pretendono le cose che non ci appartengono e si mettono le
proprie cose da parte, si è destinati a diventare turbati, a infrangere la natura
delle cose, a portare rancore verso la gente, soprattutto verso gli Dei. Viceversa,
se si tratta di quelle cose la cui proprietà appartiene a se stessi e ugualmente si
trattano le cose non di proprietà da cose che non gli appartengono, si sarebbe
capaci di essere pacifici e matenersi in buona salute senza incontrare alcuna
contraddizione né provare avversione, e in tal modo non si riceverebbe danno
alcuno2».
«Le cose sono di due specie; alcune in nostro potere, altre no. Sono in poter
nostro l'opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'avversione. In breve
tutte quelle cose che fanno parte dei nostri propri atti. Non sono in poter nostro
1
Si è deciso, per maggiore chiarezza nell’esposizione, di riportare sia alcune parti del Manuale di
Epitteto, sia i testi in cui Ricci ha rielaborato quelle parti del Manuale. I testi di Ricci qui trascritti sono
frutto di una traduzione letterale dal cinese all’italiano che permette di confrontare chiaramente
analogie e differenze tra Manuale e rielaborazione ricciana.
2
Matteo Ricci, Venticinque Sentenze, trad. di Yandong Xu
88
il corpo, gli averi, la reputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non
sono nostri atti
Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere
impedite nè attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere
impedimento, e per ultimo sono cose altrui.
Ricórdati adunque che se tu reputerai per libero quelle cose che sono di
natura schiave, e per proprio quelle che sono altrui, t'interverrà di trovare
quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini
e degli Dei. Per lo contrario se tu non istimerai proprio tuo se non quello che è
tuo veramente, e se terrai che sia d'altri quello che è veramente d'altri, nessuno
mai ti potrà sforzare , nessuno impedire, tu non ti dorrai di niuno, non incolperai
chicchessia, non avrai nessuno inimico, niuno ti nocerà, essendo che in effetto
tu non riceverai nocumento veruno1».
2.
«Ti sovvenga che l'intento del desiderare è il conseguire ciò che
desideri, e l'intento dell'avversione è il non incorrere in ciò che fugge. Colui che
non ottiene quel che desidera, è senza fortuna; colui che incorre in quel ch'egli
non desidera, ha cattiva fortuna. Ora, se l'animo tuo non desidererà altro se non
solo le cose che sono in nostro potere, quelle tali che saranno contro natura, non
ti avverrà d’incorrere in cosa alcuna alla quale tu abbia contrarietà. Ma se tu
persegui sempre le reputazioni, i beni, l’agio, la longevità e nel mentre temi la
povertà, la malattia naturale e la morte, tu avrai cattiva fortuna e riceverai
spesso danni2».
«Sovvengati che l'intento dell'appetizione si è il conseguire ciò che ella
appetisce, e l'intento dell'aversione il non incorrere in ciò che ella fugge. E colui
che non ottiene quel che appetisce, è senza fortuna; colui che incorre in quel
ch'egli schifa, ha cattiva fortuna. Ora se l'animo tuo non ischiferà se non
1
Manuale di Epitteto, volgarizzato da G. Leopardi, introduzione e commento di Mario Ruffini,
Società Editrice Internazionale, Torino, 1925. pp. 7-8.
2
Venticinque sentenze.
89
solamente, delle cose che sono in nostro potere, quelle tali che saranno contro
natura, non ti avverrà d’incorrere in cosa alcuna alla quale tu abbi contrarietà.
Ma se egli sarà vólto a schifare i morbi, la povertà, la morte, tu avrai cattiva
fortuna1».
B. Non ci si deve lasciare ingannare dalle apparenze o dalle impressioni sbagliate:
1. «Ogni cosa posseduta da te è quella che hai preso in prestito
temporaneamente, quindi quando l’hai persa, non dire mai di cosa veruna: io
l'ho perduta, ma bene: io l'ho restituita.Ti è morta la moglie? Tu l'hai restituita.
Morti i tuoi figli?Tu li hai restituiti. Ti è stato tolto un terreno? Ora non è egli
renduto anche questo? Sebbene colui che me ne ha spogliato sia un non buono,
anche lui stesso ha il suo padrone. Facciamo una metafora: il padrone designa
un messaggero a reclamare la cosa prestata, in questo caso, è appropriato per me
giuticare la bontà o la cattiveria di questo messaggero? Insomma, Quando stai
usando una cosa, devi conservarla bene come se fosse una cosa altrui2».
«Non dire mai di cosa veruna: io l'ho perduta, ma bene: io l'ho restituita. Ti
è morto per avvent un figliuolo? tu l'hai renduto. Morta la tua donna?tu l'hai
renduta. Ti è stato tolto un podere? or non è egli renduto anche questo? Ma
colui che me ne ha spogliato è un ribaldo. Che fa egli a te che quegli che ti
aveva dato il podere te lo abbia richiesto per via di tale o di tal altra persona?
Fino a tanto poi che egli ti lascia tenere o il terreno o che che altro si sia,
pigliane quel pensiero che tu prenderesti di una cosa che fosse d'altri, come
fanno dell'albergo i viandanti3».
2. «Abbi cura di ricordare a te stesso il vero essere di ciascuna cosa che ti
diletta o che tu ami o che ti serve ad qualche uso, incominciando dalle più
piccole.
1
Manuale di Epitteto, p. 10.
2
Venticinque sentenze.
3
Manuale di Epitteto, p, 16.
90
Se tu ami un vaso, devi dire a te stesso: io amo un vaso; ma se quello si
spezzerà, tu non avrai l'animo alterato. Se tu ami tua moglie e tuo figlio, dirai a
te stesso: io amo soltanto la persona; dunque morendo quella donna o quel
fanciullino, tu non abbi perciò turbamento. Perché la distruzione del vaso e la
morte della persona sono le cose destinate e naturali1».
«Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che
ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcuno uso, incominciando dalle più
picciole. Se tu ami una pentola, devi dire a te stesso: io amo una pentola;
perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai
per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un
mortale; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbi
perciò a turbarti2».
C. si deve gettare via il punto di vista dei laici;
1. «Se uno vuole possedere la tranquillità dell’anima, dovrebbe prima
lasciarsi alle spalle la preoccupazione laica. Secondo quest’ultima, se io non
cercassi sempre di perseguire i beni e denari,
non avrei di che vivere; se io non
castigassi il mio schiavo, egli sarebbe di certo pure un furfante. Io, invece,
preferisco essere un morto di fame, non vorrei essere affaticato e stanco per
ottenere cibi buoni; preferisco che il mio servitore diventi un furfante, piuttosto
che io diventi una persona malvagia. Tu incomincerai dunque dalle cose piccole.
Ti si versa un po’ d’olio? Ti si è distrutto un vaso? Qualora accadano queste
cose, chiediti cos’è più importante tra la tranquillità dell’anima e le cose
esteriori. Certamente la tranquillità dell’anima è più importante, e allora perché
non compri la tranquillità dell’anima spendendo un po’ d’olio e un piccolo vaso?
Ciò che avrai avuto sarà così prezioso, ciò che avrai speso così poco, perché non
lo fai? Quando chiami il tuo fante, pensa che può accadere che non t’oda, o che,
udendoti, non faccia però nulla di quel che tu vuoi. Anche se fosse così,
1
Venticinque sentenze.
2
Manuale di Epitteto, p. 11.
91
sceglierai di essere arrabiato e distruggere la tua tranquillità per colpa altrui?1»
«Se tu vuoi far progresso nella sapienza, lascia da parte questi cotali discorsi:
se io non avrò cura della mia roba, non avrò di che vivere; se io non gastigherò
il mio schiavo, egli sarà pure un furfante. Meglio è morirsi di fame dopo una
vita libera da travagli e timori, che vivere inquieto in grande abbondanza di ogni
cosa. Meglio è che il tuo schiavo sia tristo che non tu infelice.Tu incomincerai
dunque dalle cose picciole. Ti si versa un poco di olio? ti è rubato un poco di
vino? tu dirai: a tanto si vende la tranquillità dell' animo, la costanza: niente si
può avere gratis. Quando chiami il tuo fante, pensa ch'egli può accadere che
colui non t'oda, e che ancora udendoti, non faccia però nulla di quel che tu vuoi.
Ora tu non voler tanto concedere al tuo fante, che egli abbia in sua mano da
poterti turbare la quiete dell'animo2».
D. non si devono fare sempre confronti con gli altri:
1. «Egli è sempre invitato a una cena abbondante. È sempre regalato con
belle sete, ma tu non le hai ricevute. Non devi farci caso, perché? Ciò che ha
fatto non lo hai fatto, quindi ciò che ha ricevuto non lo hai ricevuto. Ha ottenuto
il beneficio con l’aiuto d’adulazione. È un errore se non vuoi adulare i ricchi,
mentre vuoi ottenere i regali. Se non paghi, come puoi ottenere le merci? Per
esempio nel mercato c’è un verduraio, egli paga, tu non paghi, ci fai caso perché
egli ha ottenuto di più? È lo stesso che ha delle verdure mentre hai la moneta
nella mano. I ricchi non ti ha regalato cene e sete perché non hai pagato loro con
lo stesso valore. La sua adulazione è anche un pagamento. Se vuoi acquistare
qualcosa non risparmiare soldi. Però, che cosa ho ottenuto invece di cene e sete?
Non ho bisogno di adulare. Sono un uomo retto e onesto3».
«Ti è egli stato anteposto di onore il tale o il tale banchetto, o nel saluto, o
nell'essere cerco di consiglio! se questi cotali onori sono beni, egli ti debbe
1
Venticinque sentenze.
2
Manuale di Epitteto, p. 16.
3
Venticinque sentenze.
92
essere caro che colui gli abbia avuti; se mali, non ti dee dispiacere che non sieno
toccati a te. Poi considera che non facendo tu per amore delle cose esterne quel
medesimo che gli altri fanno, tu non puoi nel conseguimento di quelle andare a
paro cogli altri. Come può, per modo d'esempio, colui che non frequenta le
soglie de' grandi, che non gli accompagna, che non gli loda, andare del pari a
coloro che fanno tutte queste cose? Egli sarebbe ingiustizia e ingordigia che non
pagando tu quel prezzo a che si comperano i favori e i benefizi de' potenti e dei
ricchi, tu gli volessi avere gratis. A quanto si vendono le lattughe oggi?
Ponghiamo caso, a un obolo. Ora facciamo che uno, spendendo un obolo abbia
tolto delle lattughe, e tu, non ispendendo, non ne abbia tolto: tu non dèi però
pensare di aver punto meno che si abbia colui. Perocché se egli avrà le lattughe,
e tu avrai l'obolo che non avrai speso. Il simile nel caso nostro. Tu non sei stato
invitato a cena dal tale. Ma nè anche hai dato a lui quello a che egli vende la sua
cena. Ora egli la vende a prezzo di lodi, di osservanza, di ossequi. Paga dunque
il prezzo se la mercanzia fa per te. Ma se tu vuoi non pagare il prezzo e avere la
merce, questa si è ingordigia e furfanteria. Forse che in cambio della cena tu
non hai nulla? Sì che tu hai ben questo, che tu non ha lodato chi non volevi, che
non sei stato ad aspettati in sull'uscio1.
Seguendo lo stesso metodo precedente, cioè quello della traduzione letterale
seguita dal passo del Manuale corrispondente, analizziamo ora le citazioni che Ricci
modificò per adattarle alla mentalità cinese. Esse si possono dividere in:
A. traduzioni in cinese di alcuni titoli e termini che, nei libri occidentali, erano
diversi, con lo scopo di concordare con la cultura cinese:
1. «Quando alcuno si vanterà o si terrà d'assai per sapere intendere e poter
dichiarare i libri di Crisippo, di' teco stesso: se Crisippo non avesse scritto
oscuro, costui non avrebbe di che gloriarsi. Ma che è poi veramente quel che io
1
Manuale di Epitteto, p. 11.
1
Manuale di Epitteto, p. 27.
93
desidero? intender la natura e seguirla. Cerco dunque chi sia quello che me la
interpreti. E sentendo essere Crisippo, vo a lui. Ma non intendo il suo scrivere.
Cerco dunque uno che me lo esponga. E fin qui non ci ha materia veruna di
gloriarsi. Trovato lo spositore di Crisippo, resta ch'io metta in pratica gli
ammaestramenti ch'io ricevo. E in ciò solo consiste quel che fa onore. Ma se io
invaghirò della facoltà medesima della interpretazione, che altro mi verrà fatto
se non io diventerò un grammatico anzi che un filosofo? Salvo che invece di
Omero chioserò Crisippo. Piuttosto dunque, se uno mi dirà, leggimi Crisippo,
egli mi conviene arrossire, quando io non possa mostrare i fatti concordi e
somiglievoli alle parole1».
«Quando qualcuno è orgoglioso e si vanta delle proprie conoscenze sul
Classico dei Mutamenti, ascoltalo e di’ in silenzio: “se Fu Xi non avesse scritto
in modo oscuro sul principio della natura e della vita, non si fosse espresso
tramite trigrammi ed esagrammi, costui non avrebbe di che inorgoglirsi”. Così,
se uno vuol apprendere gli studi filosofici, dovrebbe cercare i principi della
natura e della vita, allora il suo cuore sarà illuminato, e poi, metterli in pratica.
Soprattutto deve rivolgersi agli antichi saggi cinesi che hanno spiegato questi
principi della natura e della vita nel modo migliore. Tra i saggi più noti vi sono
il re Wen, il Duca di Zhou, Confucio; e tra i libri nessuno è migliore del
Classico dei Mutamenti, quando lo legge, ma non lo comprende, dovrebbe
cercare uno che saprà espormelo in modo approfondito. E fin qui non ci ha nulla
di eccellente. Se riesce a comprenderlo, e metterlo in pratica, è allora,
veramente una cosa eccellente. Ma quando legge il testo, dopo di che può solo
esporre l’interpretazione di una parte minima del libro, che altro gli verrà fatto
se non di diventare un attore anzi che un filosofo? Ha preso Classico dei
Mutamenti per Gli Yue Fu. Se uno mi chiedesse di illustrargli il libro Classico
dei Mutamenti, allora quando io non potendo mostrare i fatti conformi alle
parole pronunciate, dovrei arrossire di vergogna, come potrei vantarmene?2»
1
Manuale di Epitteto, pp. 48-49.
2
Venticinque sentenze.
94
Confrontando i due testi, notiamo subito che Ricci ha trasformato Crisippo in Fu
Xi1, ha modificato il libro di Crisippo nel Classico dei Mutamenti e ha aggiunto tre
saggi cinesi: il re Wen2, il Duca di Zhou3 e Confucio. Inoltre, ha cambiato le poesie
di Omero negli Yue Fu4.
B. Nel testo Ricci ha aggiunto qualche esempio per aumentare la forza di
convinzione o per rendere i pensieri in maniera più attraente:
1.
«Chi ti riportasse che il tale o il tal altro dicesse male di te, non pigliare a
scusarti e difenderti, ma rispondi che egli si vede bene che questi non ha contezza
degli altri difetti che io ho, perocché, sapendogli, ei non avrebbe tocco solo
questi5».
«Se ci fosse una persona che ti direbbe: “Quel tale parla male di te riferendo
qualche tua manchevolezza”. Rispondi lui: “Ho altri peccati che egli non conosce;
altrimenti non avrebbe menzionato solo questi”. Chi riconosce i suoi peccati, non
avrà tempo di stare a discuterne con i suoi critici. Francesco, un santo
dell’Occidente, diceva sempre di sé: “Sono il più grande peccatore tra tutti gli
uomini”. E i suoi discepoli non gli credevano e domandavano: “Tu hai detto
1
Fu Xi fu uno dei tre mitici sovrani cinesi detti I Tre Augusti, vissuto, secondo la tradizione, tra il
2952 e il 2836 a.C. Difatti, Fu Xi, è considerato il primo eroe civilizzatore cinese, in quanto a lui
vengono attribuite l'invenzione del sistema divinatorio Yi Jing, della metallurgia, della scrittura, del
calendario, oltre ad essere stato anche l'iniziatore di varie attività umane, tra cui l'allevamento degli
animali, la pesca, la musica. Viene ricordato anche per il suo celebre diagramma, detto Diagramma di
Fu Xi .(cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Fu_Hsi)
2
Noto imperatore della dinastia Zhou
3
Zhou Gong, noto anche come il Duca di Zhou (... – 1032 a.C. circa), è stato un condottiero e scrittore
cinese fratello del Re dell'Antica Cina, Wu di Zhou che perì tre anni dopo la caduta della Dinastia
Shang lasciando il disegno di consolidazione della nuova famiglia al Duca di Zhou che regnò in qualità
di reggente. (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Zhou_Gong)
4
Gli yue fu (cinese tradizionale: 樂府; cinese semplificato: 乐府; pinyin: yuèfŭ; letteralmente:
"ufficio musicale, canto musicale o canto arcaico") sono poemi cantati della letteratura cinese,
sviluppatisi nel periodo Han. (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Yue_fu ).
5
Manuale di Epitteto, p. 38.
95
sempre che sebbene la parola falsa è molto insignificante, ma l’uomo nobile non
ne dice mai. Come mai solo per umiliarsi si può essere falso? Nel mondo ci sono
gli assassini, i ladri, le persone adultere, e tutte queste cose non le hai fatte mai,
perché ti chiami in tal modo?”. Rispondeva: “Non sono umile, perché è la parola
vera. Se quelle persone che uccidono, rubano, compiono adulterio e fanno il male,
potessero ricevere la grazia del Signore del Cielo come me, ricevere anche gli
insegnamenti e aiuti dagli uomini come me, allora, certamente la loro virtù mi
supererebbe, perciò i miei peccati sono maggiori di quelli loro!”. Il santo si
considera così, come possiamo essere presuntuosi di affermarci senza difetti, per
discuterne con chi ci critica?1»
Possiamo notare, in questo confronto, l’abilità mostrata da Ricci: aggiungendo
questa piccola storia, rese il suo pensiero più interessante e più convicente, stimolò la
riflessione della gente e, allo stesso tempo, non solo riuscì a parlare di un tema che
attrae i letterati cinese, cioè il riflettere sui propri difetti, ma anche ad introdurre
misteriosamente il Signore del cielo.
2.
«Qualora alcuno o con parole o con fatti ti offende, sovvengati che egli
opera ovvero parla in quel cotal modo, stimando che di così fare ovvero parlare
appartenga e stia bene. Ora è di necessità che egli si governi, non conforme a
quello che pare a te, ma secondo che pare a lui. Sicché se a lui pare il falso, esso
si ha il danno e non altri, cioè a dire, il danno è di colui che s'inganna. Pigliamo
una verità di quelle che chiamano connesse: se uno la si crederà falsa, non la
verità, ma questo tale, ingannandosi, porterà il danno. Per sì fatta guisa
discorrendo, tu comporterai mansuetamente colui che ti oltraggerà; perocché ogni
volta tu hai da dire: così gli è paruto che convenisse2».
«Quando qualcuno ti calunnia, pensa che fa ciò perché lo tiene giusto.
Ognuno ha le proprie intenzioni, come possibile che le intenzioni altrui siano
1
Venticinque sentenze.
2
Manuale di Epitteto, p. 44.
96
conformi con le tue? Perciò se qualcuno si è sbagliato da solo ed inganna se
stesso, non centra con te. Ad esempio, se qualcuno pensa che io sia sposato,
mentre invece non lo sono, si sbaglia nella sua ignoranza, forse che ciò mi
offende? Se incontri una persona ribelle, ti dici: “Questi fa ciò perché lo tiene
giusto”, allora non ne sarai turbato e sarai indulgente verso gli altri. Nel tempo
passato, nel mio paese c’erano tre uomini di bontà che sedevano lungo la strada,
all’improvviso venivano presi in giro e derisi maliziosamente. Uno di loro era
disinteressato, l’altro era gioioso e l’ultimo era angosciato perfino a piangere.
Quello disinteressato perché aveva già un cuore stabile, nulla gli poteva dare il
peso. Quello gioioso perché riflettendo la propria condotta che forse c’era
qualche trasgressione, era contento di quella conoscenza altrui, ma rimproverava
se tesso. Quello angosciato fino a piangere perché visto il peccato di quell’uomo
che gli ingiuriava, provava compassione e pietà verso di lui.1
Ricci ha aggiunto qui la storia di Hui Neng2 per dimostrare che solo la mente può
decidere il nostro modo di pensare. Se l’uomo vuole perfezionarsi, prima deve
imparare a controllare la propria mente, cioè cambiare la mentalità senza farsi
influenzare dagli altri.
I pensieri occidentali e la storia cinese vengono fusi perfettamente da Ricci in
questa parte.
C. Omette o trascura appositamente i nomi di famosi filosofi occidentali:
1. «Tieni a mente che tu ti dèi governare in tutta la vita come a un banchetto.
Portasi attorno una vivanda. Ti si ferma ella innanzi? stendi la mano, e pigliane
costumatamente. Passa oltre! non la ritenere. Ancora non viene? non ti scagliar
però in là collo appetito: aspetta che ella venga. Il simile in ciò che appartiene ai
figliuoli, alla moglie, alla roba, alle dignità; e tu sarai degno di sedere una volta a
1
Venticinque sentenze.
2
Hui Neng è stato un monaco buddhista cinese, VI patriarca della scuola Chan secondo la tradizione
della scuola del Sud (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Hu%C3%ACn%C3%A9ng#La_dottrina).
97
mensa cogli Dei. Che se tu non toccherai pur quello che ti sarà posto innanzi, e
non ne farai conto; allora tu sarai degno non solo di sedere cogli Dei a mensa, ma
eziandio di regnare con esso loro. Per sì fatta guisa operando Diogene, Eraclito e
gli altri simili, venivano chiamati divini, e tali erano veramente1».
«È conveniente considerare che tu stia nel mondo, il tuo vivere è come essere
ospite di un banchetto. Devi render conto che la vivanda, la posizione degli
invitati e la posateria bella o meno, dipendono dal patrone di casa. Non
rimproverare i servi che si rivolgono a te solo in un secondo memento, stendi
lentamente la mano, e pigliane costumatamente; quando passano oltre, non
richiamare la loro attenzione; quando non ti arrivano ancora, non ti scagliare però
fino al loro posto. Lo stesso devi fare con la Maestà del re, con tua moglie e tuoi
figli, con le ricchezze e i beni, con le autorità e il potere, così sarai degno di
essere invitato al banchetto che il Signore del Cielo prepara nel Paradiso. In tal
modo i servi arrivano a te, e ti fanno la preferenza o no, di conseguenza, sei
grazioso no meno negli occhi dei servi, non ti importa perché sei ormai ospite del
Paradiso, come mai vuoi essere ancora l’uomo di questa terra?2»
Nelle sue opere, Ricci ha citato diversi nomi occidentali, ma pochi di filosofi
occidentali: bisogna riflettere su questo fenomeno particolare. Egli ha riferito solo i
nomi dei teologi, come Agostino, e ne ha inventati altri. Nel testo qui sopra, vediamo
che Ricci ha omesso Diogene e Eraclito, in quello che segue, invece, ha omesso
Socrate.
2. «Non darti mai il titolo di filosofo, e tra gente comunale non volere, se non
fosse alcune poche volte, entrare in ragionamenti di dottrina speculativa, ma in
quella vece opera secondo cotal dottrina. A cagione d'esempio, in un convito non
istare a discorrere come si debba mangiare, ma sì bene mangia come si dee. Nè ti
esca di mente che in sì fatto modo anche Socrate rimosse da sè ogni ostentazione.
Venivano a lui quando uno e quando un altro, chiedendo ch'ei li dovesse
1
Manuale di Epitteto, p. 19.
2
Venticinque sentenze.
98
introdurre ora a questo ora a quel mae di filosofia, ed esso menavagli dove
volevano. Tanto ben sopportava di essere non curato e lasciato to dietro.
Adunque, ponghiamo eziandio che tra uomini comunali il favellare cadesse
per avventura sopra qualche articolo di materia speculativa, tu ti conterrai per lo
più in silenzio. Perciocché altrimenti tu correresti gran rischio di gittar fuori
quello che tu non avessi anco smaltito. E quando alcuno ti dirà che tu non sai
nulla, e tu per udire questo non ti sentirai pungere, allora sappi che tu cominci a
fare frutto. Vedi tu che le pecore non portano al pastore erba per dare a vedere la
quantità ch'elle hanno mangiato, ma smaltita la pastura dentro, dànno di fuori la
lana e il latte? e tu similmente non isciorinare in sugli occhi dei non filosofi le
dottrine speculative, ma da quelle ben digerite dentro, forma estrinsecamente e
dimostra a coloro le operazioni1».
«L’uomo dabbene non si loda. Quello che dimostra orgoglioso infatti non
possiede la vera conoscienza. Se tu incontri con gli studiosi devi evitare di fare
dell'accademia, metterla in pratica è già sufficiente. Facciamo un esempio, se
partecipati ad un banchetto con le persone veramente virtuose, non devi
osservarle e commentarle, quello che devi fare e' solamente bere e mangiare
come loro, in altre parole, al solito. Il fatto di conformismo favorisce la situazione
e il prestigio, ma nel frattempo danneggia il cuore che ricerca la propria verita'. Il
saggio non ammira la felicita' superficiale e la quale lo rende vergognoso e la
vergogna non puo' scomparire facilmente. Dare un certo parere della virtu' tende
ad toccarti essere troppo modesto secondo il titolo o la posizione. Mettere la virtu'
in pratica non viene sotto controllo di altre persone o altre cose. Quello che e'
modesto tende ad essere l'avanguardia. Se ti ridono dato che dimostri tenace,
sarai contento perche' quello indica che tu hai gia' dei progressi. Le parole
orgogliose dellla pecora non hanno senso per indicare quante erbe ha mangiato,
per il pastore la sua figura grossa e robusta significa tutto2».
1
Manuale di Epitteto, p. 45.
2
Venticinque sentenze.
99
Passiamo ora ad analizzare parti del Manuale di Epitteto che Ricci non ha
volutamente citato nei suoi testi:
1. «Poche risa, e non grandi, e non di molte materie. Non prendere mai
giuramento, se tu potrai; se no, il più di rado che tu possa1».
2. «A teatri non accade usar molto. Ma quando ti sarà nata occasione di
trovarti in cotali luoghi, non dimostrare sollecitudine o pensiero di qualsivoglia
altro che di te stesso, cioè non volere che avvenga se non quel medesimo che
avverrà, nè che vinca altri che quegli a cui toccherà la vittoria; perocché in tal
modo non t'interverrà che il tuo desiderio abbia impedimento. Dal gridare, dal
soverchio ridere sopra alcuna qual si sia persona o cosa, dal molto dimenarti e
contorcerti, convienti astenere al tutto. E uscito che tu sarai di là, non andare
troppo ragionando cogli altri dell'accaduto, se già non fosse di cose che
potessero conferire a farti migliore. Perocché tu faresti segno che lo spettacolo ti
fosse oltre modo piaciuto2».
Questi due passi contengono argomenti molto specifici e futili, che non sembrano
neanche essere esposti chiaramente. Sebbene i cinesi non vi si opponessero, in genere
non li consideravano importanti.
3.2.b.
La morte e lo scorrere del tempo
Oltre a Epitteto, Ricci ha fatto riferimento ad pensatori e pensieri dello stoicismo,
relativi alla morte e allo scorrere del tempo.
Quando si discuteva sulla vita e sulla morte, nella Cina di quel periodo si dava
maggiormente risalto ai valori e alla qualità raggiunti in vita, nel corso dello scorrere
del tempo. Ricci credeva che il tempo scorresse linearmente, e che non fosse possibile
intervenire sul passato:
1
Manuale di Epitteto, p. 37.
2
Manuale di Epitteto, p. 38.
100
«A questo proposito ho composto gli Ammonimenti della Meridiana, in cui ho
scritto: il tempo passato è già andato via, dunque non è possibile raggiungerlo; il
tempo futuro non è ancora arrivato, perciò non possiamo goderne adesso. Allora,
dove si trova il tempo? Il tempo è soltanto il brevissimo momento presente che
possiamo utilizzare. Esso è simile a un cavallo bianco al galoppo, il quale sparisce in
un istante dai nostri occhi che lo osservano attraverso una fessura.
Se perdiamo una cosa, possiamo riacquistarla impegnandoci e recuperare la perdita
usando diligenza; solo con il tempo non si riesce a fare così. Una volta che l'oggi è
passato, quanti più giorni trascorreranno tanto più saremo lontani da esso. Come è
possibile ritornare al passato? Domani avremo forza appena sufficiente per
provvedere alle cose del domani: come potremo essere dotati di ulteriore energia per
recuperare quel che si è perso oggi? Quando arriva la primavera, gli agricoltori non
hanno più la possibilità di recuperare il tempo perso in inverno; quando arriva la
vecchiaia, gli uomini non possono più recuperare il tempo perso in gioventù1».
Il gesuita riteneva che l’uomo fosse alla mercé della morte in ogni minuto e che, il
tempo è passato non si potesse riviverlo di nuovo. Quando il Ministro del personale Li
gli chiese l’età, Ricci rispose che ormai non aveva più cinquant’anni.
La ragione di questa risposta sta nel passo seguente:
«Sommandosi, i mesi compongono l’anno e i giorni compongono il mese. Mentre
trascorro un giorno in questo mondo, una volta tramontato il sole, sia l'anno sia il
mese sia la mia vita hanno un giorno in meno. La stessa cosa accade quando arrivano
l'ultimo giorno del mese e l'inverno dell'anno. Per questo ho detto di non aver più i
giorni e gli anni.
Col crescere dell'età, giorno per giorno, diminuisce la vita: gli anni sono già
trascorsi.
Ora, tra il dire di averli e il dire di non averli più, in che cosa consisterebbe
l'errore?2»
1
Dieci capitoli, p. 7.
2
Dieci capitoli, p. 5.
101
Possiamo trovare pensieri simili
sono facilmente rintracciabili nell’opera di
Seneca intitolata La morte:
«Noi moriamo ogni giorno; ogni giorno ci toglie una parte della nostra esistenza, e
via via che cresciamo noi, decresce la vita nostra. Abbiamo perduto l'infanzia, poi la
puerizia, poi l'adolescenza, tutto il tempo passato fin ad oggi è perduto: questo stesso
giorno presente noi lo dividiamo con la morte. Non l'ultima goccia vuota la clepsidra,
ma tutte quelle che sono prima trascorse: così l'ultima nostra ora non fa la morte, ma
la compie. Allora noi arriviamo al termine, ma è un pezzo che siamo in cammino.
La vita è una fuga, e gli uomini, sciagurati, non lo sanno1».
Seneca ha scritto ha composto anche La brevità della vita, opera in cui ha
discusso sulla transitorietà del tempo che, una volta andato, non tornerà più. Per il
filosofo, dato che i giorni passati non ritorneranno, dobbiamo far tesoro di ogni
minuto, utilizzare bene il tempo, non dobbiamo dedicarci completamente alle cose
esteriori. La morte è vicina a noi e a noi non resta che fare una gara con il tempo,
cercando di godere al meglio della vita.
Matteo Ricci pensava che l’uomo fosse così fragile da essere continuamente in
balìa della morte, perché ogni persona è uguale di fronte alla morte,
indipendentemente dall’età e dalla situazione.
Nei Dieci capitoli di un uomo strano, infatti, leggiamo:
«Non sentiamo tutti i giorni che qualcuno è morto all'improvviso, contagiato da
una malattia fulminante? Che uno è stato ucciso, un altro è annegato, un terzo è morto
bruciato? Che un tale, passeggiando tra le vie del mercato, è stato colpito
accidentalmente da una tegola e poi è morto? Che un uomo, appena uscito di casa, è
inciampato casualmente ed è caduto, senza rialzarsi più? Che quello è morto per
curare un mal di pancia bevendo un decotto sbagliato? Che un tizio, sposatosi la notte
precedente, purtroppo è deceduto la mattina successiva alle nozze?
Anche se è facile che le polveri si dileguino e che le tegole di smalto colorato si
1
Lucio Anneo Seneca, La dottrina morale, a cura di Concetto Marchesi, Editori Laterza, Bari, 2008, p.
93.
102
rompano, esse non sono ancora sufficienti per descrivere la fragilità della vita umana1.
Ahimè! Mai essere troppo sicuri di un corpo giovane e vigoroso. Da quello che si
osserva, sembra che di solito il numero dei casi di morte [improvvisa] nei giovani
superi quello degli anziani, e quello dei forti sia maggiore rispetto a quello dei deboli.
Se Lei andasse in una bottega d'oggetti in ceramica, ne troverebbe di vari tipi: di
diversa grandezza e di diverso spessore. E se qualcuno Le domandasse: "Tra di essi,
quale si rompe per primo?" Sicuramente non risponderebbe che quello più sottile si
rompe prima di quello più spesso, né direbbe che quello che è uscito per primo dalla
fornace si rompe prima rispetto a quello che ne è uscito dopo. L'unica risposta
possibile sarebbe: "Quello che cade in terra per primo". Quando Paolo parlava del
corpo e dell'anima dell'uomo, diceva: "Noi abbiamo ottenuto un tesoro e l'abbiamo
nascosto in un vaso di terra". Dunque il corpo dell'uomo, che è come un oggetto di
ceramica, si rompe facilmente. E ciò non significa forse essere fragili, a prescindere
dall'essere giovani o anziani?2»
Riferimenti e analogie tra questi pensieri di ricciani sono riscontrabili leggendo
due lettere di Seneca, la Consolazione a Marcia e la Consolazione a Polibio. In esse il
filosofo crede che i corpi umani siano estremamente fragili, che ognuno debba
affrontare la morte e la disgrazie in agguato ad ogni momento, e che “l’angelo della
morte” non faccia mai parzialità con alcuno. Il motto di Publilius Sirus -“quando una
cosa è accaduta ad una persona, allora questa cosa può accadere ad ognuno”- viene
citato da Seneca per dimostrare questa opinione. Egli immaginava l’uomo come fosse
una barca tra la tempesta: non ci vuole molto perché il vento la distrugga .
Il motivo per cui gli stoici sottolineano continuamente la debolezza dell’essere
umano, è quello di dimostrare che la morte è una cosa naturale.
Nella sua opera Sull’ anzianità, Cicerone sostiene che la morte è simile al tornare
a casa. Anche Matteo Ricci esprime lo stesso pensiero nel terzo capitolo del Dieci
1
Dieci capitoli, p. 51.
2
Dieci capitoli, p. 53.
103
capitoli di un uomo strano.
La concezione che Ricci ha della morte non deriva soltanto dall’influenza
esercitata su di lui dallo stoicismo, ma anche dall’autorità della Bibbia e della filosofia
scolastica. Li esamineremo in seguito.
3.2.c.
l’amicizia
Ora considereremo il concetto di amicizia che Ricci ha, derivato dallo Stoicismo.
Prima, però, spieghiamo che relazione hanno questi pensieri con Cicerone,
procedendo, come fatto precedentemente, confrontando i testi ricciani e quelli di
Cicerone, al fine di farne emergere i punti di contatto.
1.
L’amicizia sottolinea l’assomiglianza della virtù e dell’interessamento
«Se le virtù e gli ideali sono simili, allora l'amicizia sarà solida1»
«Pertanto gli scopi da raggiugere sono questi: una volta emendati i difetti degli
amici si stabilisca senza esclusione una perfetta comunanza di tutto, di intenti, di
volontà in giusta…2»
2.
L’amicizia parla francamente dei difetti degli amici
«Fare amicizia è come curare una malattia: se il medico ama veramente
l'ammalato, odia di certo la sua malattia. Per curarlo della malattia, egli ferisce il suo
corpo e dà amaro alla sua bocca. Se il medico non risparmia il corpo del malato,
potrebbe mai l'amico tollerare i vizi dell'amico? Riprendilo! Riprendilo! Perché avere
1
Dell’amicizia, p. 69.
2
Cicerone, Dell’amicizia, testo; versione e note di Orsini Begani, L.Cappelli editore, Bologna, 1941, p.
63.
104
compassione delle sue orecchie ribelli? Perché aver paura della sua fronte
corrugata?1»
«Il male che mi fanno le lodi esagerate degli amici è ancora più grave del male
che mi fanno le critiche esagerate dei nemici.
- Quando gli amici mi lodano, forse inorgoglisco; quando i nemici mi criticano,
forse divento più cauto2».
«Pertanto non so qual fondamento di verità possa avere quanto un mio famigliare
dice: La condiscendenza ti procura amici, la sincerità, odi. Molesta davvero la
sincerità se genera odio, il veleno dell’amicizia, ma più infesta la condiscendenza che,
indulgendo alla colpa, lascia andar a rotoli l’amico ; gravissima poi la colpa di chi,
spregiando la verità, si lascia trascinare al male dalla condiscendenza. E però in ogni
caso si deve seguire questa norma e questo accorgimento: prima, che il monito sia
esente da asprezza e il rimprovero da offesa; poi, che alla condiscendenza — giacché
ci serviamo volentieri della parola, di Terenzio, assista molta affabilità, rimossa ogni
lusinga fomentatrice di male inclinazioni, non degna d’un amico nonchè d'un libero
cittadino; perchè altro è vivere con un tiranno, altro con un amico. Purtroppo c’è da
disperare della salute di chi tien chiuse le orecchie al punto da non saper ascoltare una
voce amichevole. È risaputo tra i molti detti di Catone, questo: meglio aspri nemici di
qualcche cosa benemeriti, che amici in apparenza pieni di morbidezza; i primi dicono
spesso la verità, gli altri mai una volta3».
3.
Non si dovrebbero sopportare gli amici che fanno del male, in particolare non
si dovrebbe fare del male insieme agli amici:
«C'è un limite, entro il quale gli amici possono perdonarsi reciprocamente.
1
Dell’amicizia, p.71.
2
Dell’amicizia, p.71.
3
Cicerone, Dell’amicizia, cit., p.87.
105
Si può tollerare l'amico che commetta casualmente un errore soltanto
leggero; si lascia l'amico che offenda la giustizia in modo veramente grave1».
«Chi tollera i vizi dell’amico, fa suoi i vizi altrui2».
«Donde gravissime ostilità anche tra uomini già legati dalla più cordiale
amicizia. Grandi scissioni, spiegabili il più delle volte, quando succedeva che
agli amici si chiedesse cosa men che corretta: che si facessero ad esempio
strumento di sorpruso, o complici d’infamia; al rifiuto naturale ed onesto,
seguivano accuse di diserzione da parte di quelli a cui non s? era ceduto,
laddove questi audaci a tutto chiedere nelPatto stesso si protestavano disposti a
far di tutto per la causa dell' amico. Queste recriminazioni, vecchie come il
tempo, non soltanto spegnevano di regola ogni relazione di famigliarità, ma
attizzavano talora odi inestinguibili3».
«Pertanto si consacri per l'amicizia questo principio; non si chiedano agli
amici cose disoneste nè si facciano richiesti. É vergognoso e inammissibile in
ogni caso, anche in quello politico la confessione d'aver agito contro la patria a
cagione di un amico4».
4.
Non si devono dimenticare gli amici vecchi quando se ne hanno di
nuovi:
«Se volete farvi nuovi amici, non vi dimenticate dei vecchi!5»
«A questo punto sorge una questione piuttosto difficile: se e quando amici
nuovi e d'amicizia degni siano da anteporre a quelli vecchi come siam usati fare
dei cavalli giovani rispetto a quelli un pò invecchiati. Dubbio indegno d'uomo !
1
Dell’amicizia, p.74.
2
Dell’amicizia, p.75.
3
Cicerone, Dell’amicizia, cit., p.39.
4
Cicerone, Dell’amicizia, cit., p.41.
5
Dell’amicizia, p.89.
106
Non dovrebbe infatti esistere sazietà d'amicizia come c'è d'ogni altra cosa. La più
vecchia dovrebbe essere la più soave come vino che porta il marchio dell'età;
inoltre conserva sempre suo valore il detto secondo il quale molte moggia di sale
devi mandar giù prima che il compito dell'amicizia possa dirsi esaurito. D'altra
parte neppur le amicizie nuove devono essere escluse se apportano, come frutto
da grano in erba, una speranza1».
5. Allontanarsi lentamente dagli amici frivoli:
«Il saggio, che voglia allontanare da sé amici frivoli, li evita poco a poco e
non rompe subito con loro2».
«Capita anche il caso, inevitabile talvolta, di dover congedare le amicizie; e
qui il nostro argomentare trascorre ormai dall'intima concordia dei saggi, alle
superficiali amicizie del volgo. Spesso infatti le colpe degli amici erompono ora
a danno di amici, ora di estranei, l’infamia comunque ne rimbalza sugli amici.
Amicizie di questo genere vanno sciolte col rallentarne l’uso; vanno, come
diceva Catone, scucite a poco a poco, non strappate, a meno che ne sia
divampata tale offessa da rendere giusto ed onesto il procedere non altrimenti
che alla rottura. Se invece sarà intervenuto un mutamento di aspirazioni e di
sentimenti come di solito avviene, o un netto dissenso politico — parlo, come ho
premesso poc'anzi, non di amicizia fra savi, ma di quella che va per la maggiore
— allora bisognerà badare che le amicizie deposte non paiano anche ostilità
volute3».
«Se tuttavia qualche cosa di simile sarà intervenuto, che l’amicizia sembri
sia stata spenta a poco a poco piuttosto che soppressa d'un tratto4».
1
Cicerone, Dell’amicizia, cit., p.41.
2
Dell’amicizia, p.91.
3
Cicerone, Dell’amicizia, cit., p.77.
4
Cicerone, Dell’amicizia, cit., p.77.
107
5.
A nessuno deve mancare l’amicizia:
«Quanto ad amicizia tutti sono d'un sentimento, e coloro che si sono dati alla
politica, e quelli che si compiaciono di studi scientifici e di filosofia, e chi tratta
i fatti proprii lontano da competitizioni, chi infine s'è dato in pieno alla vita
gaudiosa; [tutti sentono] che l'esistenza senza affetti è povera cosa se vogliono
in qualche modo vivere da uomini liberi1».
Procediamo ora con un ulteriore confronto. Tra le considerazioni
sull’amicizia di Ricci tratte dagli scritti di Seneca, consideriamo quelle che
sicuramente sono di Seneca, trascurando quelle che derivano solo probabilmente
da Seneca e quelle che sono direttamente influenzate da qualche altro pensatore.
Fang Hao, autorevole studioso cinese di Matteo Ricci, conosce
perfettamente la lingua latina e la storia mondiale. Nel suo testo chiamato Il
nuovo studio sul “dell’amicizia” di Matteo Ricci, ha esaminato accuratamente
la relazione esistente tra la concezione sull’amicizia di Ricci e quella di Seneca.
Anche la studiosa italiana Sofia Mattei ha considerato questo tema ma le
conclusioni di questi due studiosi non concordano del tutto. Non desidero
parlare di queste differenze poiché risultano tuttora incerte e non c’è ancora
nessuno che possa dimostrare chi dei due sia nel giusto.
Vorrei qui solo esporre le parti sulle quali i due studiosi si trovano in
accordo, cioè quelle parti che, senza alcun dubbio, sono considerate di Seneca.
Dato che, infatti, i due studiosi non si conoscono tra loro e risiedono lontano,
sembra saggio utilizzare solamente le conclusioni che convergono
Secondo loro, i pensieri di Ricci che derivano da Seneca sono i seguenti:
«7. Prima di contrarre amicizia, bisogna osservare; dopo averla contratta,
bisogna fidarsi.»
1
Cicerone, Dell’amicizia, cit., p.45.
108
«15. Ricordo gli amici morti senza tristezza, perché quando c'erano li avevo
come se potessi perderli; ora che sono morti li ricordo come se fossero ancora
vivi.»
«69. Il fine dell'amicizia non è altro che questo: se l'amico mi è superiore, lo
imito e apprendo; se io sono superiore, lo miglioro. Impara e insegna, insegna e
impara: ambedue si aiutano. Se egli mi è di troppo superiore per imitarlo e
apprendere o se egli è di troppo inferiore per esser cambiato, perché dovremmo
stare insieme, giocando ogni giorno e perdendo inutilmente tempo?»
«70. Se qualcuno non ha ancora piena fiducia in questa dottrina, la virtù è
ancora in pericolo; finché il suo cuore è combattuto e non è ancora deciso, egli
devierà dal bene e si getterà nel male. Per risolverti suoi dubbi, consolidare e
coltivare le sue virtù e impedirgli di precipi¬tare non c'è miglior rimedio che
fare una buona amicizia; infatti, ciò che sento spesso e vedo spesso penetra poco
a poco nel mio cuore e all'improvviso mi rivela tutto, come una regola viva che
mi stimola ai bene. Oh, com e forte l'uomo virtuoso! Oh, com'è forte l'uomo
virtuoso! A volte, anche senza parole, anche senza volto adirato, con la sola
potenza della virtù impedisce ai malvagi di agire!» 1.
3.3.
Dottrine derivanti dalla Bibbia e dalla filosofia Scolastica
Tener conto della Bibbia è inevitabile quando studiamo le origini dei pensieri
dell’etica ricciana. Per tutti i missionari, la Bibbia rappresenta il principale punto di
riferimento nella vita di tutti i giorni, e il migliore strumento da cui attingere
informazioni per l’evangelizzazione. Nel caso di Matteo Ricci, però, troviamo poche
citazioni bibliche, questo perché Ricci aveva notato che i cinesi amavano le loro opere
classiche e disprezzavano generalmente scritti di altre culture. Per mediare tra la
1
Cfr. Fang Hao, Nuovo studio sul “dell’amicizia” di Matteo Ricci, Zaiyu Fang Hao liushi zi dinggao
xia, Taiwan Xuesheng Shuju, Taiwan, 1969 e Matteo Ricci, Dell’amicizia, (Fonti a cura di Sofia
Mattei), a cura di F.mignini, Macerata, Quodlibet, 2005.
109
cultura cattolica e la cultura cinese, Ricci non cercò mai di imporre il proprio credo ai
suoi interlocutori, ma mostrò sempre un grande rispetto e una considerevole
sensibilità verso il pensiero cinese. Nelle sue opere non troviamo trattazioni esplicite
della dottrina cattolica. La concezione della Trinità, per esempio, avrebbe alzato un
muro di incomprensione tra lui e l’uditorio. Ci fu solo un velato preannuncio di quello
che apparirà poi nella cosiddetta “Controversia dei riti cinesi”.
Tuttavia, come accennato in precedenza, i pensieri della Bibbia ebbero, in ogni
caso, una parte di rilievo nelle opere di Ricci. Come missionario, egli non poteva
certo tenere nascosti i dettami cristiani, ma li fece conoscere con estrema cautela,
specialmente nella sua opera Dieci capitoli di un uomo strano. Il professore F.
Mignini ha esaminato accuratamente le parti che provengono dalla Bibbia.1
3.3.a.
Il peccato originale—la natura umana è buona o cattiva?
Nell’opera Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo, Ricci ha citato
il pensiero relativo al “peccato originale”. Secondo la Bibbia, il peccato originale
commesso da Adamo ed Eva quando disubbidirono al comando di Dio di non
mangiare assolutamente il frutto che «permette di discernere il bene dal male», fece
ereditare al genere umano l’imperfezione, portatrice di vecchiaia, malattie e morte.
Dopo il peccato originale, l’umanità può ora salvarsi soltanto prestando fede al
sacrificio di Gesù Cristo che, cedendo la sua vita, ha riscattato l’umanità dalla
schiavitù del peccato.
Ricci avrebbe desiderato presentare direttamente il concetto del peccato originale
ai cinesi, ma era consapevole che essi non avrebbero mai accettato una tale verità,
ritenendola inconcepibile. Finalmente un giorno incontrò un cinese apparentemente
sincero e desideroso di approfondire l’argomento, disse infatti costui:
«Ho adesso ricevuto istruzioni da lei in numerose occasioni, e perciò considero il
1
Cfr. Dieci capitoli.
110
Signore del Cielo come onnipresente e onnisciente. Poiché è il padre compassionevole
del genere umano, come può sopportare di permetterci di vivere nell'oscurità per così
lungo tempo, non conoscendo il grande padre, che è la nostra fonte, e vagando avanti
e indietro per questa strada dell'esistenza umana. Perché non scende Egli stesso sulla
terra a guidare personalmente le masse che hanno perduto la via, in modo che le
persone di tutte le nazioni siano in grado di riconoscere il vero Padre e, quindi, sapere
che non ci sono altri dei. Non sarebbe la cosa più diretta da fare?1»
Ricci rispose:
«Ho sperato a lungo che mi ponesse una domanda simile. Se gli studiosi della Via
in Cina avessero spesso posto questa domanda, avrebbero già ricevuto la risposta».
Poi Ricci continua, senza ovviamente usare le parole “peccato originale”, ma non
c’è dubbio che il contenuto è il pensiero del peccato originale della Bibbia.
Disse:
«In principio, quando il mondo fu creato, l'uomo era libero dalla malattia e dalla
morte. Il clima era sempre primaverile e doce, ed egli era costantemente felice.
Ordinò agli uccelli, agli animali e a tutte le cose di ubbidire ai comandi dell'uomo, e
nessuno osava aggredirlo; ma ordinò anche all'uomo di obbedire e servire il Signore
dall'Alto. La ribellione e i disastri naturali sono dovuti tutti al fatto che l'uomo voltò le
spalle alla verità e offese i comandamenti del Signore del Cielo. Poiché l'uomo Gli
disobbedì, tutte le cose, in cambio, disubbidirono all'uomo. A causa degli effetti delle
sue proprie azioni, numerose sventure ne seguirono. Il progenitore dell'uomo aveva
già corrotto le radici della natura umana, cosicché le generazioni successive di figli e
nipoti soffrirono tutte i danni conseguenti e non furono più in grado di ricevere una
natura perfetta. Ci furono imperfezioni dal momento della nascita e tutti, per la
maggior parte, copiarono le pessime azioni degli altri. Alcuni uomini iniziarono a
dubitare del fatto che la natura umana fosse stata buona dal principio; invece, sebbene
sia difficile esserne meravigliati, la colpa non è attribuibile al Signore del Cielo2».
1
Vero significato, p. 306.
2
Vero significato, p.307.
111
Secondo questa teoria della Bibbia, la natura umana era originariamente buona;
dopo il “peccato originale”, gli esseri umani hanno conosciuto il male e si sono
corrotti. Quando Ricci tratta delle nature umane, cita questa parte dalla Bibbia.
Discuteremo questa questione in dettaglio nell’ultimo capitolo.
3.3.b.
L’immortalità dell’anima—la virtù è premio a sé stessa o deve
essere premiata in altra vita?
Il gesuita inizia in seguito anche a parlare della questione dell’immortalità
dell’anima. L’argomento ebbe una parte importante nel sistema filosofico di
Tommaso d’Aquino, a partire dal rapporto tra forma e materia. Il filosofo aveva
dimostrato la visione teologica dell’immortalità dell’anima affermando che l’uomo è
anche un insieme di forma a materia, cioè che è formato da corpo e anima. L’anima è
la forma del corpo e non solo possiede spiritualità, ma anche la natura della sostanza e
poiché non può essere rovinata da fattori esterni, né distrutta da se stessa, esiste
eternamente.
Questa dottrina dell’anima esposta da Ricci offre la base teorica per la vita dopo la
morte.
Ricci ha ereditato questa dottrina da San Tommaso, all’inizio del terzo capitolo
del Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo, egli discute con un
letterato cinese sul fatto che l’umanità deve subire varie sofferenze durante la vita
attuale, mentre gli uccelli e gli animali terrestri godono di una libertà e di una serenità
maggiore dell’uomo.
Ricci enumera una ad una, innanzitutto, le svariate sofferenze della vita, poi
racconta un antico apologo nel quale vi era Eraclito che rideva sempre, laddove
Democrito era costantemente in lacrime. Alla fine conclude: «Questo non è il mondo
dell’uomo, ma il luogo dove dimorano uccelli e animali! Perciò uccelli e animali vi
conducono una vita felice. L’uomo dimora solo temporaneamente in questo mondo, e
112
perciò ne è insoddisfatto e scontento»1.
Continuando poi il discorso sull’anima, si serve delle teorie di Aristotele e di
Tommaso riguardo ai “tre tipi di anime”.
Il primo tipo, l’anima vegetativa, è chiamata anche principio vitale ed è quella
relativa al mondo vegetale. Quando una pianta si secca, anche l’anima viene distrutta.
Il secondo tipo è l’anima sensitiva, propria degli animali, e serve loro per sentire e
vedere, gustare e odorare, essere coscienti delle cose, ma non per parlare. Anch’essa
viene distrutta alla morte dell’animale.
Il terzo tipo è l’anima umana, cioè quella intellettiva. Essa include le due anime
precedenti e consente all’uomo di giungere a maturità, di essere conscio di ciò che lo
circonda, di interagire con la natura delle cose e di distinguere tra un principio e
l’altro2.
Dopo questa analisi, Matteo Ricci dimostra l’immortalità dell’anima servendosi di
cinque elementi: il primo è che le tutti gli uomini preferiscono diffondere una buona
reputazione di sé e non vogliono che le generazioni successive possano avere di loro
una cattiva reputazione. Il secondo è che soltanto a noi esseri umani piace pensare, per
quanto abituati a sentire argomentazioni che sostengono che anima e corpo siano
mortali, che vi sia una vita eterna, illimitatamente felice. Il terzo elemento preso in
considerazione dal gesuita è che la mente dell’uomo è quanto di più grande esista in
questo mondo e quindi, se anche ognuno di noi potesse appagare tutti i propri bisogni
con qualcosa di terreno, ciò non sarebbe comunque sufficiente a soddisfare la propria
mente; quindi non è in questo mondo che la mente dell’uomo sarà soddisfatta, ma in
quello che verrà. In quarto luogo, le persone temono la morte perché hanno
un’intelligenza di natura umana e perché l’anima continua a vivere dopo la morte.
Nessuno oserebbe accostarsi al corpo di una persona morta con serenità, mentre non si
è spaventati da un animale selvaggio morto. Il quinto ed ultimo elemento riguarda le
ricompense e le punizioni assegnate da Dio: esse sono giuste e imparziali ed Egli
premia la bontà e punisce la malvagità. Tuttavia, questo non avviene in questo mondo,
1
Vero significato, p.128.
2
Vero significato, p.130.
113
ma nell’aldilà, poiché Dio aspetta la morte per giudicare l’uomo. Se l'anima e il corpo,
conclude Ricci, fossero entrambe ridotte a nulla, «come potrebbe il Signore del Cielo
premiare o punire un uomo?»
1
Dato che l’anima dell’uomo è immortale, la filosofia della scolastica deve
affrontare la seguente questione: dove si trova l’anima dopo la morte? Il cattolicesimo
ha impiegato il tema escatologico per illustrare il futuro dell’umanità e del mondo, del
paradiso e dell’inferno. In questo caso, Ricci copia completamente dagli scritti di San
Tommaso, e nel sesto capitolo del Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del
Cielo, (intitolato “una spiegazione sul perché l’uomo non possa essere libero da
motivazioni e una discussione sul perché il bene e il male compiuti sulla terra
dall’uomo debbano essere premiati o puniti in paradiso o all’inferno”), Ricci
dimostra l’esistenza del paradiso e dell’inferno. Poi conclude: «ma il Signore del
Cielo è ancora più giusto; non c'è bontà che non sia completamente ricompensata e
non c'è male che non sia totalmente punito. Così, un uomo che opera per il bene in
modo consistente lungo l'arco della sua vita è premiato, col consentirgli di ascendere
al Paradiso e di godere di grande beatitudine e felicità. Un uomo che opera per il male,
e che non si penta prima di morire, è punito, con l'Inferno, dove soffrirà grandi
pene»2.
Nel Dieci capitoli di un uomo strano, Ricci discute ulteriormente il tema della
morte e afferma che questa vita è simile ad una recita, la vita terrena è solo un
passaggio e l’uomo, alla morte, sarà trasformato in un lampo. La vita terrena piena di
sofferenze non è assolutamente la vera casa dell’umanità; la morte è il punto di svolta
dalle sofferenza alla felicità, la morte è il ritorno a casa. Nel terzo capitolo scrive: «al
tempo stesso, l'uomo è sempre ossessionato dal dolore e dalle sofferenze durante tutta
la sua vita in questo mondo. Possediamo solo una falsa convinzione di "vivere"; in
realtà, la nostra esistenza nasce nel dolore e in esso sempre si spegne. Nell'arco di
cento anni circa non stiamo trascorrendo una vita, ma un mare di sofferenze. La morte
1
Vero significato, p.137.
2
Vero significato, p. 237.
114
non è dunque la fine di questo viaggio che ci conduce a raggiungere la riva? Se la vita
fosse lunga, non sarebbe forse come un vento contrario che ci impedisce di tornare a
casa? Ahimè! Se l'uomo potesse considerare una vita breve come la riduzione di
sofferenze e peccati, allora la morte non sarebbe più una cosa infausta, ma la fine
delle sofferenze;
non sarebbe più una punizione, ma il perdono dei peccati. I savi comprendono che
il mondo dove il Signore del Cielo ci ha posti è soltanto un sito temporaneo ove
risiedere, e che non si vivrà per sempre qui; dunque non lo considerano come la loro
casa, ma come un alloggio provvisorio. Essi credono che il Signore del Cielo ci abbia
preparato un altro luogo pieno di felicità in cui dimoreremo in eterno e che è la nostra
casa»1.
La morte non è solo la fine della sofferenza e l’inizio della felicità, ma possiede
anche il senso più profondo dell’etica, la meditazione sulla morte è la condizione
necessaria per perfezionare la morale, quindi Ricci elenca i cinque benefici derivati
dalla meditazione sulla morte: «1. favorisce l’autodisciplina, che ci aiuta a sottrarci
alla grande sofferenza dopo la morte. 2. il pensiero costante della morte della morte
reprime i desideri sfrenati affinché non avvelenino la virtù. 3. il pensiero costante
della morte della morte fa tenere alla gente in poca considerazione la ricchezza, la
fama e lo stato sociale. 4. il pensiero costante della morte della morte può dissipare la
vanità del nostro cuore, che è veleno per la virtù. 5. ci aiuta a non temerla ciecamente,
ma ad accettarla con tranquillità»2.
1
Dieci capitoli, p. 47.
2
Dieci capitoli, p. 95.
115
Capitolo 3
Le innovative interpretazioni di Matteo Ricci riguardo all’ontologia e
cosmologia della filosofica cinese.
L’eco del Confucianesimo e le critiche al Buddismo e al
Taoismo.
Matteo Ricci aveva capito fin dall’inizio che il presupposto per evangelizzare la
Cina era conoscere profondamente la cultura cinese. Si trattava di un patrimonio di
conoscenze con millenni di storia alle spalle e molte correnti filosofiche al suo interno.
116
Ogni filosofia, maturata attraverso uno sviluppo quasi millenario, era stata
profondamente assimilata dalla gente, che ne era stata influenzata, coscientemente o
meno, nel modo di pensare e agire. Gli antichi cinesi avevano grande fiducia in questa
cultura tanto matura e ne erano orgogliosi, credevano che fosse la più profonda e
completa al mondo. Se Ricci, in questa situazione, avesse imposto le dottrine
evangeliche ai cinesi, avrebbe sicuramente suscitato le loro antipatie e decise fin dall’
inizio di intraprendere una strada alternativa, cioè quella del penetrare nella cultura
cinese e farla propria.
Arrivato a Zhao Qing, Ricci si accorse ben presto che i cinesi non avevano alcun
interesse per la religione e cercò di non parlarne durante le occasioni pubbliche. Si
dedicò invece ai contatti con gli intellettuali e alla familiarità con le peculiarità
nazionali; studiò la lingua cinese con grande impegno e invitò a casa sua molti
studiosi affinché gliela insegnassero.
Avendo capito che il centro della cultura cinese era la filosofia confuciana, Matteo
Ricci tolse le vesti buddiste che indossava all’inizio e cominciò a portare abiti
confuciani. E poiché aveva intuito l’importanza che i cinesi attribuivano ai testi scritti
e che tante persone avevano raggiunto la notorietà proprio attraverso le loro opere,
iniziò a scrivere libri.
Il tema della superiorità della scrittura rispetto all’oralità viene esposto nel quarto
capitolo del suo “Strani esempi di scrittura occidentale”: «come è vasta la funzione
della scrittura nel mondo! Se non ci fosse la scrittura, come sarebbe difficile operare
gli scambi e che buio in questo mondo! La trasmissione della voce non può superare
una distanza di cento passi, ma attraverso i libri, anche se due persone distano
enormemente, possono domandare, rispondere o discutere come se si sedessero l’una
di fronte all’altra; io non posso conoscere i posteri che vivranno fra cento shi1, perché
non sono ancora cresciuti, ma coloro che vivranno fra diecimila shi potranno capire la
mia opinione attraverso quello che ho scritto, come se noi vivessimo nello stesso
tempo. Quando i posteri leggeranno i libri degli eruditi defunti, potranno ancora
1
Shi è una antica unità di tempo corrispondente a 30 anni.
117
sentire i loro motti, vedere la loro bella presenza e conoscere le situazioni stabili o
tumultuose di quei tempi, come se vivessero nello stesso momento. Ci sono così tanti
paesi in questo mondo, e una persona, se anche
potesse vivere una lunga vita
impiegando tutta la sua forza, non sarebbe capace di arrivare in ogni luogo. Ma
quando noi abbiamo i libri da leggere, anche se non usciamo di casa possiamo
conoscere le usanze, la politica, la grandezza e le specialità di quel posto; lo
conosciamo come se fosse parte di noi stessi. Se non ci fossero i libri, le cause della
santità delle religioni, le tecniche delle varie scuole e le magistrali abilità delle sei
arti1, come potrebbero essere tanto fulgide? Quindi più un paese dà peso alla scrittura,
più è facile da governare. Se parole non si tramutano nelle forme scritte, la sue
diffusione non sarà né vaste né stabile. Quando una persona parla, diecimila altre al
massimo riescono a sentire la sua voce e se ce ne fossero di più la sua voce non
potrebbe arrivarvi. Ma per quanto rigurda i libri, innumerevoli persone possono
leggerli allo stesso tempo, per quanto lontane o in diversi luoghi. Le parole spariscono
così velocemente che non danno agli ascoltatori neanche tempo sufficiente per
rifletterci, non permettono a chi parla di correggersi bene prima di esporle. Ma
quando un autore vuole pubblicare un libro, prima deve scegliere bene le materie,
correggerlo più volte, e solo dopo che è perfetto può farlo leggere alla gente. Quindi il
merito della persona che scrive libri è superiore ai quello di chi parla».
Le opere ricciane si possono generalmente dividere in tre categorie: scientifiche,
religiose e filosofiche. Di solito le ultime due sono trattate insieme, e questo è
certamente dovuto all’influenza di Tommaso D’Aquino. In Cina queste tre parti sono
chiamate le “conoscenze del cielo”.
In questa sede si discuterà delle parti religiosa e filosofica.
Dal quinto secolo a.C. al terzo d.C., in Cina vi fu una grande fioritura di scuole
filosofiche. Si Matan, famoso storico della dinastia Han, ha classificato i filosofi dei
secoli precedenti nelle seguenti sei scuole maggiori2:
1
Si tratta di etichetta, musica, tiro con l’arco, guida del carro, calligrafia e aritmetica.
2
Fung Yu-lan, Storia della filosofia cinese, a cura di Derk Bodde, traduzione dall’inglese di Mario
Tassoni, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, p.27.
118
La prima è la Scuola Yin-Yang, scuola dei cosmologi che prende il nome dai due
principi fondamentali della cosmologia cinese: lo Yin è il principio femminile, lo
Yang quello maschile e le loro varie combinazioni e azioni reciproche sono ritenute
origine di tutti i fenomeni dell'universo.
La seconda scuola è il Confucianesimo.
La terza è la Mo Jia o Scuola mohista; aveva una rigida organizzazione e una
severa disciplina sotto il comando di Mozi.
La quarta è la Ming Jia o Scuola dei Nomi. I seguaci erano interessati alla
distinzione tra “nomi” e “attualità”, come solevano dire, e alle loro relazioni.
La quinta scuola è la Fa Jia o Scuola legalista. Il termine cinese Fa significa
modello o legge. La scuola deriva da un gruppo di statisti che ritenevano che il buon
governo dovesse poggiare su un codice fisso di leggi anziché sulle istituzioni morali
come era opinione dei letterati.
La sesta scuola è il Taoismo. I seguaci di questa scuola deducevano metafisica e
filosofia sociale dal concetto di Non-essere, che è il Dao, o Via.
Per raggiungere lo scopo dell’unificazione del pensiero, l’imperatore della dinastia
Qin adottò una misura drastica, e decise che tutti gli scritti delle “cento scuole di
pensiero”, delle quali le sei appena analizzate fanno parte, e di ogni altra letteratura,
(tranne le opere di medicina, farmacia, divinazione, agricoltura e arboricoltura)
avrebbero dovuto essere consegnati al governo e bruciati. Così facendo, l’imperatore
bruciò anche molti pensieri e causò la rovina della maggioranza delle scuole
filosofiche cinesi, oltre l’estinzione della dinastia stessa a causa dell’aspro
totalitarismo.
I governanti che gli succedettero non continuarono la sua lezione totalitaria e si
affidarono ai principi taoisti. Secondo la filosofia politica del Taoismo, non è un buon
governo quello che si adopera in tante cose, ma quello che agisce il meno possibile.
Un saggio al governo avrebbe dovuto annullare i cattivi effetti causati dagli eccessivi
interventi governativi dei suoi predecessori e ciò fu proprio quello che accadde
119
durante il primo periodo della seguente dinastia Han: fu il popolo stesso a richiedere
all’imperatore di cercare di eliminare i disagi che i Qin avevano creato con il loro
eccesso di attività statale1.
Successivamente, a partire dall’imperatore Wu, su consiglio di Dong Zhongshu si
annunciò formalmente che il Confucianesimo, data la grande considerazione in cui
teneva i Sei Classici, doveva essere l’insegnamento ufficiale di Stato2. Tuttavia il
Taoismo
non
venne
eliminato
perché
l’imperatore
Wu
non
respinse
indiscriminatamente le altre scuole di filosofia e durante la dinastia Han anche il
Buddismo entrò in Cina, trovando ampio terreno di sviluppo.
Con la dinastia Song l’insegnamento ufficiale dello Stato divenne il
Neoconfucianesimo. Si trattava di una forma di Confucianesimo sviluppatasi
principalmente durante la dinastia Song, ma che poteva essere fatta risalire fino ad
Han Yu e Li Ao (772-841) della dinastia Tang, ed era una filosofia che univa l’etica
del Confucianesimo, l’ontologia del Taoismo e la logica del Buddismo.
Non sembra superfluo aver dedicato molto spazio alla storia di queste quattro
scuole, poiché per capire le dottrine di Padre Matteo Ricci bisogna prima spiegare i
processi di sviluppo delle scuole filosofiche cinesi che tanta relazione ebbero con lui.
Le opere teologiche o filosofiche di Ricci si possono dividere in tre sezioni, cioè
quelle di adeguamento al Confucianesimo, quelle di lotta al Neoconfucianesimo, e
quelle contro Buddismo e Taoismo. Il metodo utilizzato da Matteo Ricci fu
l'ermeneutica, cioè la metodologia dell'interpretazione.
Come maggiore rappresentante dell’ermeneutica, nel suo capolavoro “Verità e
metodo”, Hans-Georg Gadamer si rivolge alla figura della precomprensione
(Vorverständnis), ossia alla tendenza che il pensiero, quando si accinge
intenzionalmente a conoscere qualcosa, in particolare il significato di un testo scritto,
mostra di attribuire all'ente da conoscere un senso in qualche misura preconcetto:
questo, peraltro, non è del tutto arbitrario, in quanto riflette il senso in cui la tradizione
della comunità di cui il ricercatore fa parte assume quell'ente. Anzi, la messa a fuoco
1
Cfr. Fung Yu-lan, op. cit., p.167.
2
Cfr. Fung Yu-lan, op. cit., p.160.
120
del carattere necessario della precomprensione in ogni forma di sapere conduce
Gadamer
a
prendere
le
distanze
dalla
tradizionale
visione
gnoseologica
dell'illuminismo, secondo cui la conoscenza consiste in una credenza che un soggetto
nutre rispetto ad un oggetto ben distinto da sé - conoscenza che è tanto più adeguata
quanto più netta è la reciproca autonomia dei due termini. Infatti, secondo Gadamer,
se ogni ricercatore inizia la sua tipica attività solo a partire da una precomprensione
del senso di ciò che si propone di conoscere, allora bisogna concordare che tra i due
termini non si può dare alcuna separazione originaria e, in ultima analisi, che essi sin
dall'inizio insistono entro una dimensione unica.
Anche se Ricci visse molto prima di Gadamer e non conobbe le teorie
dell'ermeneutica, egli agiva proprio nel modo sopra descritto e lo faceva, seppur
inconscientemente, in modo preciso e profondo.
Mettendo in atto questo metodo, Ricci reinterpretò i concetti fondanti del
Confucianesimo, del Neoconfucianesimo, del Buddismo e del Taoismo, e in
particolare l’ontologia e la metafisica di queste quattro scuole. Poiché Dio è un
concetto dell’ontologia e della metafisica, l’obbiettivo finale di Matteo Ricci fu di
introdurre Dio in Cina, obbiettivo al quale egli attribuì la massima importanza.
Le relazioni che Ricci assunse rispetto alle quattro correnti furono principalmente
di due tipi. Da un lato, egli si trovò spesso a falsare i fatti consapevolmente: il gesuita
aveva studiato e capito molto bene i veri significati dei concetti nei loro sistemi
corrispondenti ma, per introdurre le dottrine cristiane, fece finta di non conoscerli e li
falsò deliberatamente. Dall’altro, nei casi in cui capitava che egli non conoscesse
alcuni concetti, ciò lo portava a commettere degli errori che, tuttavia, ebbero di fatto
grandi benefici per l’introduzione di Dio nella cultura cinese.
Al giorno d’oggi per noi è difficile distinguere quali teorie ricciane appartengano
al primo caso e quali al secondo: spesso Ricci confuse appositamente questi due
aspetti per raggiungere il suo obiettivo di evangelizzazione.
Iniziamo ora ad analizzare le interpretazioni di Ricci riguardo ai concetti
fondamentali di ognuna delle quattro scuole.
121
1. Conformarsi al Confucianesimo antico
Le ragioni per cui Ricci si conformò al Confucianesimo antico sono:
A.
Il Confucianesimo fu il nucleo della cultura cinese. L’influenza del
Confucianesimo fu più profonda rispetto a quella delle altre filosofie e la
quantità dei credenti fu molto maggiore di quella dei taoisti e dei buddisti; il
concetto di benevolenza cinese proprio del Confucianesimo influenzò
intensamente la visione del mondo e il comportamento dei cinesi. I confuciani
erano estremamente rispettati e chiunque volesse raggiungere una buona fama
e un alto status sociale doveva prima superare gli esami imperiali, i cui
contenuti erano quasi tutti derivati dai classici confuciani.
B.
Nella Cina antica, quando i bambini iniziavano a frequentare la
scuola, studiavano soprattutto i quattro libri del Confucianesimo. Anche se
alcuni cinesi, crescendo, rinunciavano alle dottrine confuciani, questi
costituivano comunque una parte del loro modo di pensare. Inoltre, i libri del
Taoismo e del Buddismo erano difficili da comprendere ed erano infarciti di
termini confuciani: senza una solida base confuciana essi erano assolutamente
incomprensibili.
C.
Il Confucianesimo non era una religione in senso stretto, non vi era un
culto degli dei. Per questa ragione esso non era considerato come antagonista
del cattolicesimo, cosa che avveniva invece con Buddismo e Taoismo, e il
fatto che neanche i missionari accettassero il culto degli dei fu il presupposto
per accettare le missioni in Cina.
Oltre a questi, c’è un altro motivo molto importante per cui Ricci decise di
conformarsi al Confucianesimo. A differenza dell’Occidente, dove i pensatori hanno
cercato di spiegare chiaramente ogni concetto e di interpretare correttamente ogni
pensiero, una caratteristica della cultura cinese era la confusione con cui i filosofi
esprimevano le loro idee, lasciando interrogativi irrisolti nei loro lettori. Molti erano i
122
concetti confusi e questi erano proprio quelli che servivano a Ricci: egli, dopo aver
scoperto questa caratteristica della cultura cinese, cercò di sfruttarla per introdurre
l’ontologia e la cosmologia del cattolicesimo in Cina.
Nel secondo capitolo di “Vero significato”, Ricci affermava: «colui che, nel mio
modesto paese, è chiamato Signore del Cielo, è colui che in Cina è detto Shangdi.»
Nella Cina antica vi erano molti termini che Ricci avrebbe potuto usare per
indicare il Signore del Cielo ma le motivazioni per cui scelse proprio Shangdi sono
varie.
La prima è che il concetto di Shangdi era molto confuso, vi era molto da poter
spiegare a riguardo. Inoltre prima della caduta della dinastia Shang, lo Shangdi aveva
caratteristiche umane e la gente credeva devotamente in Lui.
Questa natura umana fu forse il fattore più importante per Ricci, ed è grazie ad
essa che egli lo preferì, ad esempio, al Dao. Eppure si può dire che il Dao fosse un
concetto più vicino a quello di Signore del Cielo, perché non solo era considerato
l’ente supremo dell’universo, ma aveva anche la funzione della creazione. Secondo
Laozi, tutto è creato dal Dao: «il Dao ha prodotto l’uno; l’uno ha prodotto il due; il
due ha prodotto il tre; il tre ha prodotto i diecimila esseri1». Ciò corrisponde alla
dottrina cattolica, poiché secondo la Bibbia, Dio è creatore del mondo. Tuttavia Ricci
non usò questo termine perché il Dao era un ente naturale, senza caratteristiche umane:
non si cura delle cose del mondo, non nutre sentimenti di amore o odio, non si
preoccupa della morale. A questo proposito, nel quinto capitolo del “Libro della Via e
della Virtù”, Laozi scrisse: «il cielo e la terra sono inumani; trattano i diecimila esseri
come cani di paglia2».
Altra proprietà difficile da accettare per Ricci e per cui il gesuita non utilizzò il
Dao come termine di paragone con il Signore del Cielo era la credenza di Laozi che la
posizione del Dao fosse addirittura più alta di quella di Dio. Nel quarto capitolo del
“Libro della Via e della Virtù”, il filosofo taoista sostiene che il Dao è l’immagine di
ciò che fu prima di Dio. Questo punto è impossibile da accettare per tutti i cattolici, e
1
Tao Te Ching, p. 107.
2
Tao Te Ching, p. 37.
123
certamente anche per Ricci.
Ricci dovette dunque scegliere Shangdi. È tuttavia certo che anch’esso ha diverse
caratteristiche comuni con Dio: è immateriale, ha caratteristiche umane, è immortale,
governa tutto, è la personificazione della perfezione, punisce i cattivi e premia i buoni:
sia lo Shangdi che Dio sono divinità uniche e supreme. In Cina vi erano anche le
divinità del vento, del fuoco, del terreno e degli antenati, ma tutte erano subordinate
direttamente allo Shangdi.
Alcuni studiosi contemporanei credono che i due termini potrebbero derivare da
un’unica origine. Secondo lo studio archeologico condotto da sinologo italiano
Antonio Amasali, gli ebrei antici chiamavano il loro Dio Shaddaj. Questa pronuncia
assomiglia molto alla pronuncia cantonese odierna per Shangdi, ed è noto che la
lingua cantonese sia erede di quella cinese antica. Egli sostiene quindi che all’inizio
fossero la medesima parola1.
Un altro ricercatore, Ethel. R. Nelson, dopo aver esaminato varie scritture della
Cina antica, ha scoperto che molte di queste hanno relazioni con la Bibbia. Ad
esempio, il carattere fu (福). Esso è composto da quattro parti: il radicale shi ( 礻) e i
caratteri yi (一), kou (口) e tian (田). Shi significa divinità, yi significa uno, kou indica
una persona e tian un giardino. Questo carattere letteralmente sta per “Dio ha messo
una persona in un giardino”, cioè l’Eden. Per estensione, il carattere fu significa
beatitudine, e anche oggi nelle case cinesi è spesso appeso questo carattere.
Un altro esempio è il termine lan (婪). La parte superiore del carattere è lin (林) e
significa albero, mentre la parte inferiore, nü (女), significa donna. La parola significa
bramosia, cioè “una donna (Eva) che è salita su un albero” e ha bramosamente colto la
mela.
Il dottor Anderson, dopo aver studiato alcune ceramiche colorate dell’antica Cina,
1
Antonio Amasali, uno studio per la storia della remota antichità cinese dal punto di vista
dell’archeologia, Shehuikexuewenxian, p. 51.
124
ha affermato che il Paese ebbe dei contatti con i babilonesi antichi1.
Inoltre, in un’importante opera antica cinese, il “Classico dei Monti e dei Mari”, è
scritto che lo Shangdi è il padrone di un giardino pacifico e allegro, e anche i dintorni
possono essere riconducibili a quelli che troviamo nelle descrizioni del giardino
dell’Eden.
Molte sono le ricerche in questo campo e anche se, con gli esempi citati, si può
dimostrare come le due divinità abbiano delle effettive caratteristiche comuni, ciò non
significa che lo Shangdi cinese sia derivato totalmente dal Dio occidentale. Questa
possibilità sembra anzi molto remota.
Altra caratteristica della cultura cinese che Ricci capì e seppe sfruttare per il suo
obiettivo di evangelizzazione fu quella dell’attenzione che i cinesi prestavano alle
parole dei saggi precedenti. Anche nella vita quotidiana essi ripetevano spesso parti di
opere antiche. Così, per dimostrare che lo Shangdi era proprio il Signore del cielo, il
gesuita citò alcuni classici cinesi: «Nostro Signore del Cielo -scrisse- è il Sovrano
dall'Alto2 menzionato nei testi canonici: citando Confucio, la Dottrina del Mezzo
dice: “le cerimonie di sacrificio al Cielo e alla Terra intendono prestare culto al Signore dall'Alto”. Zhu Xi commenta che il non menzionare il Sovrano della Terra sia
dovuto alla necessità di brevità. A mio modesto parere, ciò che Chung-ni intendeva
dire è che ciò che è unico non può essere descritto dualisticamente. Come si sarebbe
potuta prendere in considerazione meramente la brevità dell'espressione?3».
Matteo Ricci si servì anche di altre citazioni classiche. Ne elenchiamo alcune:
Uno degli inni ai sovrani Zhou recita:
« il braccio del re Wu era pieno di forza;
Irresistibile il suo ardore. Grandemente
1
Cfr. Guo moruo, Età del Bronzo, kexue, 1957, p. 15.
2
Si tratta dello Shangdi.
3
Vero significato, p. 113.
125
illustri erano Cheng e Gang, Governato dal
Signore dall'Alto».
In un altro leggiamo:
«come sono belli il grano e
l'orzo, il cui prodotto lieto noi
riceviamo! Il Sovrano dall'Alto,
luminoso e glorioso».
Nell’ inno ai sovrani Shang troviamo questo passaggio:
« e la saggezza e la virtù [di Tang] aumentano quotidianamente. Risplendente è
stata l'influenza del suo carattere per lungo tempo, e il Sovrano dall'Alto l'ha
indicato a modello per le nove regioni».
Nelle Odi Maggiori si legge:
«Questo re Wen, con attenzione e reverenza, serviva intelligentemente il
Signore dall'Alto».
Ancora, il Classico dei Mutamenti dice:
«il Sovrano proviene da Chen ad Est. Le parole "Sovrano" e "Imperatore" non
denotano il cielo materiale. Poiché il cielo azzurro abbraccia le otto direzioni,
come può emergere da una sola?»
Nel Libro dei Riti troviamo:
«Quando tutti i punti sono disposti come si conviene, il Signore dall'Alto
accetterà il sacrificio». [...] «Il figlio del Cielo stesso ara il terreno per il riso
con cui riempire il vaso, e il miglio nero da cui distillare lo spirito da
mischiare alle erbe fragranti, e per le offerte al Signore dall'Alto».
Nel Giuramento di Tang possiamo leggere:
«Il re di Xia è un criminale e, poiché io temo il Sovrano dall'Alto, non oso far
126
altro che punirlo». [...] «Il grande Signore dall'Alto ha conferito anche alle
persone inferiori un senso morale, in conformità del quale mostrerà la loro
natura invariabilmente giusta. Ma provvedere alla serenità, perché perseguano
sulla strada indicata, questo è il compito del sovrano».
Ne "Lo Scrigno bordato di metallo" del Classico della Storia, il Duca di Zhou dice:
«E inoltre è stato incaricato nella sala del Sovrano per estendere il suo aiuto ai
quattro angoli dell'impero».
Il fatto che il Sovrano dall'Alto abbia una sua dimora rende chiaro che chi parla
non si stia riferendo al cielo fisico. Quindi, dopo questa analisi e grazie alla lettura di
un gran numero di testi antichi, sembra chiaro che il Sovrano dall'Alto e il Signore
del Cielo siano differenti solo nel nome.
Le frasi sopra citate sono state scelte da Ricci in Vero Significato attraverso una
rigida selezione che ha restituito l’immagine di uno Shangdi con caratteristiche
umane, comparabile a quella del Signore del Cielo. Come si può notare, in alcuni casi
esse lasciano anche un margine di confusione e incertezza riguardo alla Sua figura,
così da favorire le spiegazioni alternative del gesuita.
Per dimostrare la natura umana dello Shangdi, Matteo Ricci si dichiarò
innanzitutto contrario alla visione dei letterati cinesi che lo descrivevano come se
fosse il cielo. Nell’opera “Vero Significato” si legge:
«Il cielo azzurro, che possiede forma, si compone di nove livelli, dal superiore
all'inferiore. Come, dunque, può essere la stessa cosa di Colui che è unico e
supremamente onorato? Quando ci interroghiamo sul Signore dall'Alto troviamo che
Egli è senza forma; come, dunque, può essere chiamato con un nome che indica
qualcosa dotata di forma? Il cielo è circolare e limitato a nove livelli. Comunque si
guardi, ad Est o Ovest, si osserva che il cielo non ha testa né stomaco; né mani né
piedi. Non è forse risibile il dire che condivide il corpo vivente della divinità? Se tutte
127
le creature spirituali sono prive di forma, come potrebbe il Signore del Cielo, che è da
onorare sommamente ed è senza pari, possederne una? Asserire ciò non è solo non
comprendere la natura dell'esistenza umana, ma anche essere ignoranti di astronomia
e della natura di tutti i fenomeni»1.
Nella Cina antica, il cielo aveva cinque significati: il cielo in senso materiale, il
cielo in senso religioso, il cielo del destino, il cielo della legge naturale e il cielo nel
senso di principio dell’universo. Di questi, quello più noto era quello in senso
religioso, che assomigliava molto sia al Signore del Cielo, sia allo Shangdi cinese.
Cielo e Shangdi erano due parole intercambiabili che indicavano l’ente personificato
della divinità suprema e unica.
Nel “Book of historical documents” troviamo queste parole: «the fame of him
ascended up to the High God, and God approved. Heaven gave a great charge to king
Wan, to exterminate the great dynasty of Yin»2.
Quello che Ricci negava era dunque solo il cielo materiale, mentre cercava di
affermare le caratteristiche umane dello Shangdi. A dimostrazione di ciò, analizziamo
le seguenti espressioni da lui utilizzate:
1.
“Shangdi shi huang”(上帝是皇), cioè “governato dallo Shangdi”. Huang (皇)
è tradotto qui come “governato”, ma in cinese ha anche i significati di “essere
imperatore” o “premiare”: non c’è dubbio che solo una divinità dotata di caratteri
umani possa essere imperatore o premiare o governare.
2.
“Shangdi qi xiang” (上帝其饗), “Shangdi accetterà il sacrificio”. Anche qui,
solo una divinità “umana” riesce a godere di un sacrificio.
Da queste due citazioni possiamo concludere quanto profondo e sorprendente
fosse il livello di comprensione della cultura confuciana che Matteo Ricci aveva
raggiunto. Egli conosceva perfettamente contenuti e significati di ogni termine, tanto
1
Vero significato, p. 116.
2
Book of historical documents, By James Legge, second edition with minor text corrections and a
Concordance Table, p. 385.
128
da potersi permettere di fingere di non capirli quando ciò gli dava la possibilità di
spiegarli in modo nuovo e di introdurre così il concetto di Dio in Cina.
Possiamo affermarlo e trovarne conferma paragonando le citazioni fin qui
analizzate e che Ricci selezionò ai fini dell’evangelizzazione con quelle che il gesuita
considerò inadatte e che rimosse deliberatamente. Nei “quattro libri” e nei “cinque
classici”, tante sono le descrizioni dello Shangdi in cui Egli non è descritto come un
ente con caratteristiche umane o appare come un essere materiale anziché spirituale,
oppure quelle in cui non è supremo e unico, e in alcuni casi viene negata la sua stessa
autorità. Queste descrizioni risalgono alla caduta degli Shang e al successivo
cambiamento nella visione dello Shangdi che interessò la dinastie Zhou.
Durante la dinastia Shang, la divinità era percepita come quasi uguale a quella di
Dio: egli era il dio supremo, unico e immateriale, governatore di questo mondo con la
capacità di punire i cattivi e premiare i buoni. I cittadini gli erano devoti e spesso
tenevano varie cerimonie per esprimere il loro culto. Tuttavia la sua figura cominciò a
cambiare tra la fine della dinastia Shang e l’inizio della dinastia Zhou, e la sua autorità
iniziò ad esser messa in discussione.
Nel “Classico dei documenti” e nel “Libro delle odi” troviamo molte frasi a
riguardo, come “Lo Shangdi non è credibile” (tian bu ke xin, 天不可信), “il cielo non
è invariabile” (tian fei chen, 天棐忱), “l’autorità del cielo non è immutabile” (tian
wei fei chen, 天威棐忱). I Zhou osservarono che la dinastia Shang era stata
rovesciata e distrutta nonostante la grande fede che nutriva per lo Shangdi, e quindi
che Egli aveva rifiutato di proteggerla o non era stata in grado di farlo1. I cittadini
arrivarono perfino a sostituire la fiducia nella divinità con quella, tipica cinese, nella
virtù umana.
Quando poi l’imperatore Wang Li, molto devoto allo Shangdi, fece uccidere un
gran numero di sudditi, il popolo iniziò ad odiare la divinità: lo Shangdi non era più il
simbolo della perfezione, ma anzi era diventato simbolo dell’immoralità
1
Cfr. Guo Moruo, Età del Bronzo, kexue, 1957, p. 20.
129
dell’imperatore.
I dubbi, le perplessità e infine l’odio dei Zhou nei confronti dello Shangdi non
compaiono in nessuna delle citazioni che Matteo Ricci utilizzò.
Egli continuò a confermare l’uguaglianza tra Shangdi e Dio e ciò anche grazie a
due motivi fondamentali. Il primo è che anche se, durante la dinastia Zhou, il concetto
di Shangdi era stato in declino, la sua esistenza non era però mai stata messa in
discussione. Il secondo è che, nonostante fossero gli stessi imperatori Zhou a dubitare
segretamente del valore unico dello Shangdi, essi cercarono comunque di legittimare
il proprio potere glorificandolo e dichiarandosi suoi figli. Nel periodo dell’imperatore
Wang Xuan questo portò alla rinascita e al rafforzamento della figura dello Shangdi e
molti pensatori, come Mozi, cercarono sempre di predicarne l’autorità.
Infine vi è un ulteriore aspetto che aiutò Ricci nell’introduzione della figura di Dio
in Cina: il ruolo di Confucio riguardo alle informazioni sullo Shangdi. L’
atteggiamento del filosofo fu quello di «rispettare gli esseri spirituali e la divinità ma
tenersene lontano»1; egli «raramente parlava del profitto, dei decreti del Cielo e della
carità»2. Il fatto che Confucio non avesse espresso i suoi commenti sullo Shangdi era
un grande vantaggio per Ricci, il quale poteva parlarne senza il timore di contraddire
il più autorevole dei saggi cinesi.
2.
Critica al Neoconfucianesimo
Come spiegato nelle pagine precedenti, Ricci si sforzò massimamente di
dimostrare l’uguaglianza tra le figure dello Shangdi e di Dio. Tuttavia, questo avrebbe
potuto scatenare una reazione opposta a quella che il gesuita cercava: se davvero non
c’erano distinzioni tra le due divinità, la gente avrebbe potuto pensare di non aver
bisogno di ricevere la dottrina cattolica, ma che sarebbe bastato conoscere quella
confuciana.
1
Confucio, i dialoghi, capitolo VI.
2
Testi confuciani, p. 174.
130
Non volendo rischiare di cadere in quest’interpretazione e di dare l’idea di
conformarsi pedissequamente alle teorie del Confucianesimo, Ricci decise di fare un
ulteriore passo avanti nei suoi ragionamenti. Egli distinse il Confucianesimo in
Confucianesimo antico e Neoconfucianesimo e, sempre confermando l’effettiva
vicinanza tra il Confucianesimo antico e la religione cattolica, criticò duramente il
Neoconfucianesimo come dottrina incompleta. Gli errori neoconfuciani avrebbero
dovuto, secondo Ricci, essere corretti attraverso le spiegazioni impartite dai cattolici,
così che il Confucianesimo tutto avrebbe potuto diventare una filosofia perfetta.
Matteo Ricci affermava che il motivo del suo viaggio in oriente era l’amore che
nutriva per la Cina, e mostrò sempre un atteggiamento tollerante per la cultura cinese,
considerandola nella sua interezza. Ciononostante, egli credeva che la religione
cattolica fosse più avanzata di quella confuciana, perché molte delle teorie
neoconfuciane erano imprecise e sbagliate.
Il
gesuita
analizzò
inizialmente
l’ontologia
e
la
cosmologia
del
Neoconfucianesimo, sostenendo che quando queste due parti essenziali di una dottrina
non stanno in piedi, le altre perdono immediatamente le basi. Nel secondo capitolo di
“Vero significato del Signore del Cielo”, criticò la dottrina che riguarda il Tai ji1, cioè
il principio e l’origine di tutte le cose. A tal proposito si espresse in due modi:
in primo luogo, egli si chiese come mai, sebbene fosse arrivato in Cina in tarda età,
avesse studiato assiduamente gli antichi documenti cinesi e avesse scoperto che gli
uomini eccelsi dei tempi andati adoravano e riverivano il Sovrano dall'Alto, del Cielo
e della Terra, tuttavia non avesse mai udito che quelli porgessero omaggio al Culmine
Supremo (il Tai ji). «Se il Culmine Supremo è il Sovrano dall'Alto, antenato di tutte le
cose, perché i sapienti dei tempi antichi non l'hanno detto?2».
Leggendo questa domanda, si scopre un problema: Tai ji era una parola molto
antica, derivata dal “Commento sul classico dei mutamenti” (yi zhuan, 易传)3, testo
1
Il Culmine Supremo.
2
Vero significato, p. 102.
3
Therefore there is in the Changes the Great Primal Beginning. This generates the two primary forces.
131
scritto proprio da Confucio e dai suoi discepoli1. In questo contesto, ovviamente, il
Tai ji è inteso come l’origine e il noumeno di tutte le cose.
Come accennato in precedenza, Ricci non si oppose ai confuciani antichi, e
sostenne anzi la posizione di Confucio quale massimo saggio nella cultura filosofica
cinese. Appare qui dunque un paradosso. Quando un letterato cinese chiese a Ricci
cosa volesse dire Confucio quando parlava di Culmine Supremo, il gesuita fu
costretto ad adottare un atteggiamento evasivo. Rispose che l’opera della creazione è
un lavoro immenso e deve avere il suo cardine, stabilito dal Signore del Cielo.
Sostenne che se non ci fosse stata una causa prima a fungere da fonte dei fenomeni,
né il principio né il Culmine Supremo sarebbero stati in grado di ricoprire questo
ruolo. Disse inoltre che non osava abbandonare questi argomenti in una maniera
casuale e che, forse, sarebbe stato in grado di scrivere un altro libro in cui discutere
delle loro importanti idee2. Anche in “Dispute contro le sette idolatriche”, riferendosi
al problema del Tai ji, Ricci adottò un atteggiamento di questo tipo, promettendo che,
un giorno, avrebbe parlato della teoria che il Tai ji che produce tutte le cose, una
teoria molto importante e di cui molti libri parlano. Ma non mantenne mai la sua
promessa.
Poiché Ricci sapeva che l’evasione non poteva risolvere il problema, cambiò in
fretta il suo comportamento e pose la sua attenzione sulla critica sul
Neoconfucianesimo.
Scrisse che «gli uomini superiori non hanno motivo di opporsi ad alcuna teoria
che si accordi con la verità, ma temo che sia difficile armonizzare la spiegazione del
Culmine Supremo con la verità. La teoria, per quanto ho potuto vedere del diagramma
The two primary forces generate the four images. The four images generate the eight trigrams. The
eight trigrams determine good fortune and misfortune. Good fortune and misfortune create the great
field of action. (tr. Wilhelm and Baynes 1967:318-9)
1
Al giorno d’oggi la maggioranza degli studiosi cinesi sostiene che il “commento sul classico dei
mutamenti” sia stato scritto da Confucio e questa era credenza comune anche nel periodo di Ricci. Solo
una piccola parte di studiosi non è d’accordo con questa teoria.
2
Vero significato, p. 112.
132
che illustra il Non Culmine e il Culmine Supremo, è basata sui simboli che
rappresentano lo Yang e lo Yin; e cosa esprimono questi simboli? È ovvio, quindi, che
il Culmine Supremo non possa essere la realtà che ha prodotto cielo e terra. La verità
che riguarda il Signore del Cielo è stata tramandata dai tempi antichi. È completa, e
non manca di nulla. Quando l'abbiamo riportata nei testi, in modo che potesse essere
trasmessa alle altre nazioni, non abbiamo osato altro che esporre i principi da cui
dipende. Questi vuoti simboli, invece, non sono basati su alcun principio reale1».
Vediamo qui che ciò che era criticato da Ricci era il “Diagramma del Culmine
Supremo” anziché “la Spiegazione del Diagramma del Culmine Supremo”.
Infatti il “Diagramma del Culmine Supremo” c’era già molto prima di Chu Tun-yi,
solo che la spiegazione di quest’ultimo aveva esercitato una grande influenza.
Il testo della Spiegazione dice quanto segue: «l'assenza di Realtà ultima (Wu ji) è
ancora la Realtà ultima (Tai ji), La Realtà ultima attraverso il movimento produce
Yang; quando questo movimento ha raggiunto il suo limite, è seguito dalla quiete e da
questa quiete è prodotto Yin. Quando la quiete ha raggiunto il suo limite, c'è un ritorno
al movimento. Movimento e quiete alternati, diventano uno l'origine dell'altro. La
distinzione tra Yin e Yang è determinata e le Due Forme (Yin e Yang) sono rivelate.
Dalle trasformazioni di Yang e dalla successiva unione con Yin, sono prodotti
l'Acqua, il Fuoco, il Legno, il Metallo e il Suolo. Questi Cinque Eteri (Qi, cioè
Elementi) si distribuiscono secondo un ordine armonico e le quattro stagioni
procedono secondo il loro corso.
I Cinque Elementi sono Yin e Yang; Yin e Yang sono la Realtà ultima e la Realtà
ultima è fondamentalmente assenza di Realtà ultima. I Cinque Elementi vengono in
esistenza ciascuno con la sua natura particolare.
La vera sostanza dell'assenza di Realtà ultima e l'essenza delle Due [Forme] e dei
Cinque [Elementi] si fondono in una misteriosa unione da cui deriva un
consolidamento. Il principio di Ch'ien [il trigramma che simbolizza Yang] diviene
l'elemento maschile e il principio di K'un [il trigramma che simbolizza Yin] diventa
1
Vero significato, p. 103.
133
l'elemento femminile. I Due Eteri [ Yin e Yang] attraverso la loro interazione
agiscono in modo da produrre tutte le cose e queste a loro volta producono e
riproducono cosicché trasformazioni e mutazioni continuano senza fine.
È solo l'uomo, tuttavia, che li riceve nel loro più alto grado ed è perciò più
intelligente di tutti gli altri esseri. Di conseguenza viene generata la sua forma
corporea e il suo spirito sviluppa intelligenza e consapevolezza. I cinque principi della
sua natura [le cinque virtù costanti, corrispondenti ai Cinque Elementi] reagiscono [ai
fenomeni esterni] in modo che ne emerge la distinzione fra il bene e il male e
compaiono le innumerevoli manifestazioni del comportamento. Il saggio si disciplina
seguendo il giusto mezzo, la correttezza, l'umana sensibilità e la rettitudine; inoltre
considera la quiete come cosa essenziale. [Chu Tun-yi commenta a questo proposito:
"Poiché non ha desiderio, è nello stato di quiete".] In tal modo egli fa di sé il più alto
modello per l'umanità... » (Chou Lien-hsi Chi o Raccolta delle Opere di Chou Tun-yi,
chiian 1)1.
Ricci sapeva che la teoria del Tai ji derivava dalla dottrina confuciana antica, e
questa era una teoria difficile da confutare perché non solo poteva spiegare bene il
processo della produzione e della struttura logica dell'universo, ma aveva
un’ontologia e una cosmologia quasi perfetta.
Matteo Ricci si oppose a Chu Tun-yi, ma considerando che “la Spiegazione del
Diagramma del Culmine Supremo” di Chu Tun-yi era eredità e complemento della
teoria del Tai ji descritta nel “Commento sul classico dei mutamenti”, confutare la
Spiegazione equivaleva a confutare la teoria del Tai ji, e questo si opponeva
all’intenzione iniziale di Ricci. Ecco perché si risolse a confutare il “Diagramma del
Culmine Supremo”.
Questa conclusione ricciana fu influenzata dalla teoria della sostanza di Aristotele.
Il filosofo affermava che la sostanza dovrebbe essere sensibile, particolare e unica;
anche se le “specie” delle cose possono anche essere considerate sostanze, esse sono
“sostanza seconde”, che dovrebbero essere incluse e fondate sulle “prima sostanze”,
1
Fung Yu-lan, op. cit., p. 216.
134
ossia sugli enti particolari e determinati. Ricci confuta il Diagramma secondo la teoria
aristotelica della sostanza.
Il gesuita scrisse che il diagramma che illustrava il Non Culmine e il Culmine
Supremo era basato sui simboli che rappresentano lo Yang e lo Yin, ma, si chiese, cosa
esprimevano questi simboli? È ovvio, quindi, che il Culmine Supremo non potesse
essere la realtà, creatrice di cielo e terra. Ricci riteneva che il Diagramma avesse in sé
soltanto qualche simbolo dello Yang e dello Yin, ma i “simboli” non sono reali, essi
sono solo una metafora o un’immagine virtuale1; la virtualità del Diagramma fa sì che
anche il Tai ji sia virtuale e Ricci concluse che non potesse esserci il Tai ji e che fosse
impossibile considerarlo come l’origine del mondo.
Al giorno d’oggi quest’interpretazione ricciana appare un po’ forzata poiché sia
“il Diagramma del Culmine Supremo” che “la Spiegazione del Diagramma del
Culmine Supremo” non sono il Tai ji in sé. Secondo la descrizione sulla teoria del Tai
ji nel “Commento sul classico dei mutamenti”, esso non potrebbe essere virtuale
perché altrimenti non potrebbe produrre lo Yin, lo Yang e le altre cose.
Il fatto che Ricci cercò sempre di evitare di discutere direttamente del Tai ji può
essere considerato un’ulteriore prova della sua profonda conoscenza della teoria
confuciana.
Nello stesso tempo però questa sostituzione di concetti lo fece cadere in uno stato
di passività. Ritrovò l’iniziativa di discuterne solo quando un letterato cinese disse che
«il Culmine Supremo non è altro che un principio».
Cogliendo al volo quest’opportunità, Matteo Ricci passò dalla critica del Tai ji a
quella del Li2, e questa volta riuscì a confutarla con facilità. Per farlo si servì della
teoria aristotelica della classificazione delle cose. Scrisse:
«Ci sono due categorie di cose: sostanze e accidenti. Le cose che non dipendono
1
Cfr. Jia Qingjun, Le critiche di Matteo Ricci alle dottrine sull’origine del Confucianesimo, Xi nan da
xue xue bao, numero 2, Chongqing, 2010.
2
Principio.
135
per la propria esistenza da altre cose, come cielo e terra, fantasmi e spiriti, uomini,
uccelli e animali, vegetali, metalli, pietre, i quattro elementi, e cose simili, sono
classificati come sostanze. Le cose che non esistono di per sé, e che sono soggetti ad
altro, come, per esempio, le Cinque Virtù, i Cinque Colori, le Cinque Note, i Cinque
Sapori, le Sette Passioni, sono classificati come accidenti「…」.Quando paragoniamo
queste due categorie, troviamo che la sostanza ha un'esistenza prioritaria ed è di
valore, laddove l'accidente è secondario e di poche conseguenze. Ci può essere solo
una sostanza in ogni cosa, laddove possono esserci molti accidenti.
Quando giungiamo al Culmine Supremo, vediamo che è solo spiegato in termini
di principio. Non può essere dunque la fonte del cielo, della terra e di tutte le cose,
perché il principio cade anch'esso nella categoria dell'accidente. Dal momento che
non è una sostanza come può determinare le altre cose? Quando i letterati e gli eruditi
cinesi discutono dei principi, lo fanno solo in due modi: dicono o che i principi
risiedono nella mente degli uomini, o che devono essere trovati nelle cose. Affermano
solo che queste cose sono reali quando il loro modo di essere si armonizza con i
principi che sono nella mente degli uomini. Quando la mente umana è capace di
studiare, penetrare e comprendere pienamente i principi inerenti alle cose, ciò viene
chiamato: “investigazione delle cose”. Risulta chiaro, sulla base di questi due modi di
parlare riguardo ai princìpi, che il principio è dipendente e non può essere la fonte
delle cose. I princìpi, sia nella mente umana che nelle cose, sono conseguenti alle cose;
e come può ciò che è conseguente esser la fonte di ciò che lo precede?1»
Ricci considerava l’oggetto sensibile come la prima sostanza, e il Li come la
proprietà della sostanza. Egli sosteneva che il Li venisse dopo un oggetto, e così
diminuì il valore del Li da “origine dell’ universo” a mera “proprietà dell’oggetto”.
Quest’interpretazione ricciana era completamente contraria a quella dei neoconfuciani,
i quali ritenevano che il Li dovesse logicamente essere prima dell’oggetto.
Per discutere cosa esistesse prima tra il Li e l’oggetto, era necessario esaminare
1
Vero significato, p. 106.
136
cosa esistesse prima di chi tra Li e Qi1, poiché è l’aggregazione e l’espansione del Qi
a far sì che l’oggetto ci sia o non ci sia.
La questione sulla relativa priorità del Li o del Qi è una delle più discusse da Chu
Hsi e dai suoi discepoli. Egli ebbe a dire che prima che ne esistessero testimonianze
concrete, c'era il Li. Per esempio, «prima che esista un sovrano e un suddito, c'è il Li
della relazione fra sovrano e suddito; prima che esista un padre e un figlio c'è il Li
della relazione fra padre e figlio»2.
Dal punto di vista della formazione dell’universo, anche il Li dovrebbe essere
prima dell’oggetto. Chu Hsi sosteneva che nell’universo ci fossero Li e Qi. Il Li era il
Dao, appartenente a "ciò che è di là dalle forme", ed era la fonte da cui derivava ogni
cosa. Il Qi era invece la materia o, letteralmente, strumento, appartenente a "ciò che
era dentro le forme" ed era il mezzo attraverso cui le cose erano state generate.
Continuò asserendo che nell’istante della loro generazione, uomini o cose dovevano
da una parte ricevere il Li per avere la loro propria natura, e dall’altra parte dovevano
ricevere anche il Qi per acquistare la loro forma corporea»3.
Chu Hsi credeva che prima della formazione dell’universo il Li esistesse già e che,
quando tutte le cose dell’universo saranno distrutte, il Li rimarrà4.
Ricci cominciò a rivolgere le proprie critiche alle tesi dell’origine del Li e del Tai
ji e si chiese: «se i princìpi esistevano prima di Ban Gu, perché sono rimasti inerti e
non si sono mossi a produrre le cose? Chi, in seguito, ha stimolato la loro attività? Se,
così è stato detto, il principio originariamente non era né attivo né inattivo, come si è
mosso di sua volontà? Se lei dice che il principio, all'inizio, non ha prodotto nulla, ma
1
Cioè Ki o Ch’i in italiano, significa Soffio o energia.
2
Raccolta di massime, chiian 95. Altrove un passo dice: « (Domanda): "Quando ci sia Li c'è anche
Ch'i. Pare quindi che né all'uno né all'altro spetti la priorità". (Risposta): "In realtà viene prima il Li.
Non possiamo tuttavia dire che oggi ci sia Li e domani Ch'i, ma ci deve essere una priorità dell'uno
sull'altro" » (Opere complete, chiian 49). Cfr. Fung Yu-lan, Storia della filosofia cinese, a cura di Derk
Bodde, traduzione dall’inglese di Mario Tassoni, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, p. 240.
3
(«Risposta a Huang Tao-fu », Raccolta di scritti letterari, chiìan 58). Cfr. Fung Yu-lan, Storia della
filosofia cinese, a cura di Derk Bodde, traduzione dall’inglese di Mario Tassoni, Arnoldo Mondadori
Editore, 1956, p. 240.
4
Zhu zi yu lei, primo volume.
137
in seguito ha voluto produrrete cose, non è equivalente a dire che questo principio
possiede una volontà? Perché è questo il tempo di desiderare di produrre le cose, e in
altri tempi si desidera di non produrle?…Se i principi reali, ora esistenti, non possono
produrre le cose, come avrebbero potuto i vuoti principi del passato produrre alcunché?
Ad esempio, prendiamo un costruttore di carri, che ha nella sua mente i principi che
regolano la costruzione dei carri. Ora, come potrebbero questi principi produrre un
carro? Perché è necessario che ci siano legname, martelli, seghe e cose simili, così
come il lavoro dell'artigiano, di modo che il carro sia fabbricato e completato? Come
è possibile che, all'inizio, il principio sia stato così ingegnoso da produrre l'immensità
del cielo e la terra, laddove ora è talmente in declino da non poter nemmeno produrre
qualcosa di così piccolo, come un carro?…Posso chiederle, signore, se i principi dello
Yin e dello Yang e i Cinque Principi Agenti hanno prodotto lo Yin e lo Yang e i
Cinque Principi Agenti nel momento di passaggio tra azione e quiescenza, com'è che i
principi di un carro, ora esistente, non sono in grado di produrre un carro nel
momento in cui divengono attivi? Inoltre, il principio è ovunque, e poiché è privo di
volontà, la sua manifestazione dovrebbe essere spontanea. È incapace di autolimitarsi.
Perché, dunque, non produce lo Yin e lo Yang e i Cinque Princìpi Agenti in questo
luogo e in questo momento? Chi lo limita?1».
Questo contraccolpo di Ricci fu molto forte; la sua domanda era quanto mai esatta:
il fatto che i neoconfuciani credessero che il principio non possedeva la volontà era
inconciliabile con la sua capacità di muovere e produrre le cose. Il gesuita capì questa
difficoltà del Neoconfucianesimo, così come quella riguardo alla relazione tra
ontologia e cosmologia.
Secondo la visione del Neoconfucianesimo, il Li è sempre seguito dal Qi, ma il Li
è metafisico, mentre il Qi è fisico. Il Li, in senso metafisico, è sempre seguito dal Qi
in senso fisico, e anche se Li non possiede volontà e non si muove, il Qi non è
stazionario e ha la capacità di creazione. Li e Qi si uniscono insieme attraverso
quest’interpretazione nei neoconfuciani.
1
Vero significato, p. 109.
138
Ricci criticò la credenza orientale di creazione utilizzando quella occidentale.
Secondo il modello occidentale, è Dio che ha direttamente creato tutte le cose, mentre
il modello cinese vede il susseguirsi di questi passaggi: dal Li al Yin, Yang e Wu Xing1
fino alle cose specifiche.
«Ho udito sostenere -disse Ricci- che il principio prima abbia prodotto lo Yin e lo
Yang e i Cinque Principi Agenti, e che solo dopo ha fatto sì che questi evolvessero in
cielo, terra e tutte le cose. C'è stato, quindi, un preciso ordine sequenziale nella
produzione delle cose. Se lei implica che il principio dovrebbe produrre un carro in un
istante, la sua spiegazione non è appropriata.»2
Non riuscendo a convincere il letterato a cui si rivolgeva dell’esattezza del
modello della creazione occidentale, Ricci cambiò subito l’angolazione della
confutazione.
Egli chiese: «se il principio ha intelligenza e coscienza, può comprendere il
principio di giustizia? Se ha intelligenza e coscienza, e può comprendere il principio
di giustizia, allora ricade nella categoria dei fantasmi e degli spiriti, e perché, dunque,
chiamarlo Fondamento Supremo o principio? Ma se non è questo il caso, allora da
dove derivano l'intelligenza e la coscienza del Sovrano dall'Alto, delle creature
spirituali e del genere umano? Il principio non può dare quello che non possiede.
Poiché il principio non ha intelligenza e coscienza, non può produrre intelligenza e
coscienza. Vorrei chiederle, Signore, di osservare con attenzione tutte le cose
nell'universo. Solo le cose dotate di intelligenza producono intelligenza, e solo le cose
dotate di coscienza producono coscienza. Accade che le cose dotate di intelligenza e
coscienza producano cose stupide e non intelligenti, ma non ho mai udito affermare
che cose prive di intelligenza e coscienza siano in grado di produrre cose dotate di
intelligenza e coscienza, perché l'effetto non può essere più grande della sua causa.»3
In breve, Ricci credeva che il Li non avesse intelligenza e coscienza, e quindi che
gli fosse impossibile creare cose dotate di intelligenza. Al contrario, Dio avrebbe
1
I cinque principi agenti.
2
Vero significato, p. 108.
3
Vero significato, p. 109.
139
potuto, e il gesuita tentava proprio di dimostrare questo.
Secondo la visione dei neoconfuciani, l’universo genera se stesso e la generazione
di tutte le cose è naturale. Poiché la forza della generazione è venuta dall’universo in
sé anziché da fuori, esso può realizzare la creazione con la forza naturale provenuta da
se stesso, senza il bisogno di una forza esterna, come il Dio di Aristotele e del
Cattolicesimo.
Osserviamo che Ricci considerava il Li come “la causa formale”, passiva e rigida,
che non riesce a produrre positivamente le altre cose. Ma in realtà essa non è
completamente passiva, anche se non ha intelligenza. Il Li assomiglia un po’ al Dio di
Aristotele: è la causa formale in senso metafisico e, essendo la forma più alta, non è
solo causa, ma anche “causa agente” e “causa finale”.
Dal momento che Li non ha intelligenza, esso può essere “causa finale” solo
perché l’obiettivo del Li esiste da sé; non essendoci intelligenza, può realizzare
l’obiettivo da se stesso. Il motivo per cui diciamo che il Li non è dotato
dell’intelligenza è che questo tipo di intelligenza è naturale; così il Li è sia dotato di
intelligenza sia non dotato di intelligenza. Per questo esso riesce a produrre cose
dotate di intelligenza.
Giacché Li non si può muovere, può essere considerato come “la causa agente”
perché è sempre seguito dal Qi, che si può muovere e può creare.
Matteo Ricci ha poi introdotto il Signore del Cielo e lo ha confrontato col Li: «la
natura del Signore del Cielo è la più perfetta, la più completa e supremamente serena.
Non può essere sondata dalla mente degli uomini, né essere paragonata ad
alcunché…Quando giungiamo al principio, in ogni caso, troviamo una situazione
totalmente differente. Poiché il principio ricade nella categoria degli accidenti e non
può sussistere ed esistere di per sé, come può abbracciare intelligenza e coscienza e
divenire sostanza? Il principio è più umile dell’uomo.»1
Anche questa visione soggettiva della superiorità e dell’inferiorità delle cose
1
Vero significato, p. 111.
140
dell’universo, è derivata dalla cosmologia aristotelica: secondo Aristotele, tutte le
cose in questo mondo sono classificate in diversi livelli, quelle più in basso sono le
cose non dotate dello spirito, mentre Dio, spirito puro, si trova al massimo livello.
Al contrario, secondo la visione cinese del mondo, tutte le cose nell’universo sono
poste a pari livello, senza distinzione di classi e Ricci confutò proprio questo nel
quarto capitolo del già citato “Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del
Cielo”.
Dio non è solo supremo e perfetto, ma possiede anche la volontà assoluta,
l’universo fu creato e mantenuto dalla volontà di Dio, l’umanità può solo accettare
positivamente i suoi comandi. La relazione tra umanità e Li, invece, non è così: “un
uomo può allargare la sua Via1; ma non c’è Via che possa allargare un uomo”.
Ricci continuò ponendo in difficoltà logica questo letterato: se quello sosteneva
che il Li non possiede intelligenza, allora il Li ricadrà nella categoria degli accidenti,
perdendo la posizione di noumeno e origine. Ovviamente il letterato non volle
riconoscere questa conclusione. Ma se avesse affermato che il Li era dotato di volontà
e intelligenza, sarebbe caduto proprio nella trappola logica di Ricci: «se lei dice che il
principio abbraccia l’intelligenza di tutte le cose e le produce, allora lei sta parlando
del Signore del Cielo e non del principio del Fondamento Supremo2».
In questo modo, finalmente, Ricci poteva raggiungere il suo obbiettivo di
introdurre il Signore del Cielo in Cina e convinse definitivamente il letterato. Egli
scrisse infatti che dai tempi antichi fino al presente, i sovrani e i ministri del suo Paese
avevano appreso solo che dovevano prestare omaggio al Cielo ed alla Terra come se
onorassero i loro padri e le loro madri. Secondo Ricci, essi si erano serviti dei rituali
dei culti di Stato per offrire loro dei sacrifici. Se il Culmine Supremo fosse stata la
fonte del cielo e della terra, sarebbe stato il primo antenato del mondo e per questo
motivi i primi saggi, imperatori e ministri del passato avrebbero dovuto dare priorità
al suo culto. Ma, di fatto, non era andata così. Concluse quindi che la spiegazione data
sul Culmine Ultimo non era corretta: «Lei ha argomentato la questione
1
Qui Via si può considerato come Li o Tai ji.
2
Vero significato, p. 111.
141
esaustivamente, signore, e il suo punto di vista è lo stesso di quello dei saggi e i più
degni dei tempi antichi.»1
3.
Lotta contro il Buddismo e il Taoismo.
All’inizio, Ricci non lottava contro il Buddismo e il Taoismo, e considerava i
monaci buddisti l’elite più illustre delle società cinese, prendendo in prestito
linguaggio e abbigliamento dal buddismo per riuscire a far breccia in Cina.
Le motivazioni per cui Ricci si decise poi a lottare contro il Buddismo furono le
seguenti:
A.
Lottare contro il Buddismo era la tendenza generale all’epoca. In quel
tempo la politica e l’economia della dinastia Ming erano già cadute in crisi e la
dinastia stava affrontando il pericolo della propria fine. In questo stato, gli
intellettuali iniziarono a riflettere su cosa li avesse condotti a questa situazione, e
arrivarono a concludere unanimemente che tutto era dovuto all’entrata eccessiva
della teoria buddista nel sistema del Neoconfucianesimo. Le teorie del Buddismo
facevano sì che la gente perseguisse una vuota coscienza, ignorando il
pragmatismo e le cose reali, e tutti gli intellettuali che nutrivano grandi ambizioni
odiavano il Buddismo.
Anche Matteo Ricci si tenne al passo coi tempi, soprattutto perché questa
tendenza contribuiva molto al suo tentativo di evangelizzazione della Cina.
È bene sottolineare che il Cristianesimo, prima dell’arrivo di Ricci, era stato
introdotto in Cina due volte, ma non aveva fatto proseliti. In particolare quando il
Nestorianesimo entrò in Cina, durante il periodo Tang, il Buddismo stava
attraversando un periodo di prosperità e formava un’unione armoniosa con il
Confucianesimo e il Taoismo, ostacolando la diffusione di una religione straniera.
Quando il gesuita giunse in Cina, la situazione era ben diversa: la gente aveva
bisogno di una religione o una dottrina che potesse correggere le teorie del
1
Vero significato, p. 112.
142
neoconfucianesimo, già caduto in crisi. Si può affermare insomma che anche le
tendenze accademiche e politiche contribuirono all’evangelizzazione di Ricci.
B.
In Cina il Buddismo era una religione vera e propria che, dopo 1500 anni
di sviluppo, aveva maturato rituali e culti ben precisi, che vedeva i suoi templi
disseminati per tutto il territorio e aveva moltissimi fedeli. A differenza del
Confucianesimo e del Taoismo che credevano in una ragione naturale, la dottrina
buddista costituiva un ostacolo e una minaccia al Cattolicismo in Cina.
Matteo Ricci credeva che ogni paese avesse bisogno di una religione in senso
stretto e che, una volta eliminata l’influenza buddista, la prima religione sarebbe
diventata quella cattolica.
C.
In Cina, lo status del buddismo era piuttosto basso e la vera élite sociale
era costituita da confuciani e letterati. Nell'area dello Yangtze meridionale i
letterati si basavano sulla dottrina confuciana per parlare di scienza, diventare
funzionari e occupare i centri di potere, e non tenevano i monaci buddisti in
grande considerazione. Addirittura la gente comune pensava che i monaci fossero
solo buoni a far soldi, e fossero spesso al centro di qualche oscuro traffico, senza
1
fare niente di buono . Molti abati di quei tempi diventarono corrotti e degenerati,
addirittura cercarono di aprire casinò e occupare i campi con la violenza. I
buddisti spesso ruppero le regole monastiche e perpetrarono ogni infamia. Queste
corruzioni buddiste servirono da esempi negativi e contribuirono molto alla
diffuzione del Cattolicesimo.
D.
Poiché, dalla dinastia Tang, Confucianesimo, Taoismo e Buddismo
avevano iniziato a formare una dottrina unica, lottare contro uno dei tre
equivaleva a lottare contro tutti e tre.
Lottando contro il Buddismo, Ricci cominciò quindi a confrontarsi anche con il
2
Taoismo , ma ciò non era molto evidente in quanto egli confutò solo la parte
1
Matteo Ricci, incontro di civiltà nella Cina dei Ming, a cura di Filippo Mignini, Regione Marche, p.
87.
2
Il Taoismo e la religione taoista non sono la stessa cosa ma non è facile dividerli. Usiamo qui quindi
il termine “Taoismo” per indicarli entrambi.
143
ontologica della dottrina. Matteo Ricci assunse sempre un atteggiamento
riguardoso nei confronti del Taoismo e si servì addirittura di qualche citazione o
teoria taoista, come ne “ I dieci capitoli di un uomo strano”. Nel quinto capitolo
dell’opera, ad esempio, troviamo una lunga dissertazione sul tema “i savi devono
parlare poco”. Si dice che nel mondo esiste un modo di pensare sbagliato, cioè
seguire sempre un maestro per imparare a parlare, ma non farlo mai per imparare
a tacere. Secondo il testo, stare in silenzio è molto più arduo e solo i saggi ci
riescono. L’idea che lo sforzarsi di placare il gran desiderio di parlare sia come
spegnere la fiamma di una candela tenendola in bocca, cioè che lo stare in silenzio
1
2
sia estremamente difficile , assomiglia alle teorie taoiste .
Il motivo per cui possiamo definire il Taoismo come una religione naturale è che i
taoisti credevano in una ragione naturale. Il Taoismo ha avuto un grande influenza
sulla visione del mondo e sui modi di pensare della maggior parte dei cinesi, ma non
furono molti coloro che vi aderirono. Se il Buddismo aveva dei caratteri comuni con il
Cattolicesimo, ciò non valeva per la dottrina taoista e i cattolici non vi vedevano una
potenziale minaccia.
Agli occhi di Padre Matteo Ricci però, il Taoismo era comunque una religione di
culto degli idoli, quindi cercò sempre di tracciare una linea di demarcazione con esso.
Nel secondo capitolo della “Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo”
affermò, come già esaminato in precedenza, che il Signore del Cielo corrispondeva
alla figura dello Shangdi e asserì anche che era lo stesso raffigurato nelle immagini
taoiste come l'Imperatore di Giada o quello descritto come il Signore Supremo del
Padiglione Nero del Cielo, perché questi non era altro che un recluso nel monte
Wudang. «Dal momento che si tratta di un uomo, come avrebbe potuto essere il
Sovrano di cielo e terra?3».
Il rappresentante del Neotaoismo Guo Xiang credeva che tutte le cose esistenti
1
Dieci capitoli, p. 125.
2
nel Dao de Jing, Lao zi disse «il più grande quadrato non ha angoli. Il più grande vaso è l’ultimo a
essere finito. La più grande musica ha il suono più sottile»(Tao Te Ching, p. 105.)
3
Vero significato, p. 113.
144
nell'universo avessero bisogno dell'universo stesso come di un tutto che fosse
condizione necessaria alla loro esistenza, ma che nello stesso tempo la loro esistenza
non fosse prodotta direttamente da alcun'altra cosa particolare. La sua idea era che in
presenza di condizioni o circostanze convenienti, certe cose fossero necessariamente
prodotte, ma che questo non significasse che fossero state prodotte da un unico
Creatore o da un qualsiasi individuo. In altre parole, Guo Xiang credeva che le cose
fossero create dalle condizioni in generale e non da qualche altra specifica cosa in
particolare1. Ciò equivaleva a dire che tutte le cose in questo universo non fossero
prodotte da Dio ed è ovvio che questa teoria non potesse essere supportata da nessun
cattolico, incluso certamente Ricci.
Quindi egli adottò la critica al Taoismo in misura relativamente minore.
A causa del limitato spazio, si è scelto di parlare soltanto delle critiche di Ricci per
l’ontologia e la cosmologia di Buddismo e Taoismo.
All’inizio del secondo capitolo di “Vero Significato”, Ricci iniziò a criticare
l’ontologia e la cosmologia del Kong2 e del Wu3: «coloro che vivono sotto il cielo
danno valore al reale e all'esistente e disdegnano il non-esistente. Quando si giunge a
parlare della fonte di ogni fenomeno, si tratta chiaramente di ciò, il cui valore
oltrepassa ogni paragone. Come, quindi, possono essere impiegate parole spregevoli
come "vacuità" e "nulla" per rappresentarlo? Inoltre, non si può dare ad altri ciò che
non si possiede. Questo è un principio ovvio. Ciò che si definisce ora "vacuità" o
"nulla" non possiede assolutamente niente in sé. Come può quindi dare natura e forma
a qualcos'altro e, di conseguenza, determinarne la venuta all'esistenza? Una cosa deve
esistere realmente e attualmente prima di poter dire che esista. Ciò che non esiste
autenticamente, non esiste. Se la fonte di ogni cosa non fosse reale o non esistesse,
allora, di conseguenza, le cose prodotte da essa non esisterebbero neppure esse.
Anche i più santi tra gli uomini sulla terra non sono in grado di rendere qualcosa
vivente. Come possono cose che sono essenzialmente nulla o vacue utilizzare la
1
Fung Yu-lan, op. cit., p. 175.
2
Vacuità.
3
Nulla o Vuoto.
145
propria vacuità, o nullità, affinché tutte le cose giungano all'essere e continuino nella
propria esistenza? Se osserviamo le cose nei termini delle loro cause, dobbiamo
concludere che, fintanto che queste cause vengano chiamate "vacuità" e "nulla", non
potranno essere la causa agente, formale, materiale e finale delle cose; e fintanto che
sarà così, di che utilità saranno per le cose?1»
L’interpretazione che Ricci offre della vacuità non corrisponde alla vera
spiegazione della vacuità. “Vacuità” è un termine buddista legato alla teoria della
“coproduzione condizionata” (detta anche genesi dipendente) secondo cui in una
qualsiasi cosa che non abbia l’essenza invariata, l’esistenza e il cambiamento di tutte
le cose dipendono sempre da condizioni e relazioni certe e anche se le cose
possiedono le loro forme e le loro funzioni, in esse non ci sono essenze invariate: in
questo senso diciamo che la forma è vuoto. D’altro canto il vuoto non può lasciare
una forma, proprio poiché esso non possiede l’essenza invariata; così riesce a esistere
dappertutto e in ogni momento secondo la condizione che si incontra: in questo senso
diciamo che il vuoto è la forma.
Ma perché Ricci ha interpretato il vuoto come “nulla”? La ragione per cui si è
usato il termine “interpretare” anziché “considerare” è che sembra molto difficile
credere che davvero egli non abbia compreso il reale significato della “vacuità” nel
sistema buddistico. Tuttavia, molti critici incolparono Ricci di aver letto pochi libri
sul Buddismo e di non avere capito affatto i veri significati dei termini buddisti. Per
esempio, nelle “Dispute contro le sette idolatriche”, il letterato Yu Deyuan sostenne
che se Ricci non capiva bene in Buddismo, si sarebbe dovuto astenere dal fare
commenti in proposito, e arrivò addirittura a scrivere un elenco di libri di livello
elementare che il gesuita avrebbe dovuto leggere2.
Ricci, nel suo “Strani esempi di scrittura occidentale”, scrisse che prima di
pubblicare un libro un autore deve correggerlo più volte e solo dopo che è perfetto
può farlo leggere alla gente; ciò significa che prima di pubblicare “Vero significato”
egli di certo discusse il problema sulla “vacuità” con altri studiosi per renderlo
1
Vero significato, p. 100.
2
Si veda sul primo capitolo del dispute contro le sette idolatriche.
146
perfetto. Se non avesse compreso il reale significato del termine, i confutatori si
sarebbero sicuramente opposti alla sua interpretazione e, al vedere che uno o più di
loro avrebbero continuato a sottolineare l’errore, Ricci non avrebbe lasciato correre,
ma avrebbe senza dubbio approfondito l’argomento. Possiamo quindi affermare quasi
con certezza che Ricci sapeva che il “nulla” e la vacuità sono concetti diversi, ma che
lo spiegò così per una ragione ben precisa: sostenendo che la vacuità non possiede una
forma propria ma esiste, avrebbe delineato le stesse caratteristiche appartenenti al
Signore del Cielo e avrebbe dovuto concludere che il Signore del Cielo è uguale alla
vacuità e quindi che il Cattolicesimo è uguale al Buddismo. È evidente che Ricci
doveva evitare questo rischio.
Nel Dao De Jing, Laozi scrisse: «la Via veramente Via non è una via costante. I
Termini veramente Termini non sono termini costanti. II termine Non-essere indica
l'inizio del cielo e della terra; il termine Essere indica la madre delle diecimila cose.
Così, è grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell'Essere che si vedranno
dell'uno il prodigio, dell'altro i confini. Questi due, sebbene abbiano un'origine
comune, sono designati con termini diversi. Ciò che essi hanno in comune, io lo
chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi.1»
Ricci sviluppò dalle parole del Laozi un’interpretazione in senso ermeneutico e
intese la frase “il termine Non-essere indica l'inizio del cielo e della terra” in senso
cosmologico. Partendo dalla credenza di Laozi secondo cui il Wu2 è creatore di tutte
le cose, si chiese come potesse essere possibile, dal momento che la Via è “vuoto” e
che il “vuoto” significa “nulla”, che essa potesse creare tutte le altre cose.
Infatti, secondo Laozi, il concetto di Via non può essere definito, essendo
super-razionale; non è possibile concludere che essa sia nulla o sia essere, e neanche
si può affermare che non sia nulla o non sia essere. Il termine Via include tutto, ma,
nello stesso tempo, nella Via non c’è nulla.
Infatti, durante la dinastia Jin, molti filosofi neotaoisti hanno interpretato Via
1
Tao Te Ching, p. 27.
2
Vuoto.
147
come il nulla. Guo Xiang, ad esempio, scrisse che «il Dao1è realmente nulla»2.
Ricci ha ereditato quest’interpretazione dei neotaoisti sulla Via e l’ha eliminata
dal campo dell’origine.
Il motivo per cui il Vuoto –nel senso di “nulla”- non può creare deriva dal fatto che,
come sostiene la logica occidentale, le cose del mondo sono classificate in varie classi.
Come ha scritto Ricci, «coloro che vivono sotto il cielo danno valore al reale e
all’esistente e disdegnano il non-esistente», e dato che la Via è realmente il nulla, e
perciò è quanto di più umile sia in questo mondo, essa non riesce a creare niente.
Questa logica era difficilmente accettata da Buddisti. Essi ritenevano che tutte le
cose del mondo fossero di uguale valore e che tutte le creature possedessero la natura
del Buddha. Questo punto di vista ha molto in comune con quello confuciano ed è per
questo che un letterato si scagliò contro Ricci sostenendo la teoria buddista. Disse che
il Budda non era inferiore al Sovrano dall'Alto poiché dava grande valore all'uomo e
stimava la sua virtù e che c’era molto da imparare da lui. Egli sosteneva che la virtù
del Sovrano dall'Alto era sì profonda, ma che gli uomini possedevano una virtù
suprema. Il Sovrano dall'Alto, quindi, era sicuramente colmo di immense capacità, ma
«anche le menti degli uomini sono in grado di gestire tutte le cose al mondo.3»
Ciò significava che il Signore del Cielo era uguale al resto del creato e che,
viceversa, tutto il resto del creato poteva diventare il Signore del cielo. Se così fosse
stato, l’unicità e l’assolutezza di Dio sarebbero state annullate. Per esempio, nelle
“Dispute contro le sette idolatriche”, Lian Qi affermava che esistono centinaia di
migliaia di Signori del Cielo. Matteo Ricci non poteva accettare questa teoria e cercò
di contestare le teorie del buddista.
1
Via.
2
Fung Yu-lan, op. Cit., p. 174.
3
Vero significato, p. 168.
148
Capitolo 4
Il contributo di Matteo Ricci alla filosofia cinese
In Cina, al giorno d’oggi, quando la gente parla di Matteo Ricci, lo fa soprattutto
considerandolo come un missionario che portò nel Paese molte avanzate conoscenze
scientifiche occidentali, ma poco sa riguardo ad altri aspetti. Dei contributi che egli
apportò alla filosofia cinese, infatti, i cinesi non sanno molto. Basta sfogliare
qualcuno dei più influenti manuali di storia della filosofia cinese per rendersene conto
immediatamente.
Il filosofo più celebre della Cina contemporanea è Feng Youlan. Nel suo libro più
importante, Storia della filosofia cinese, risalente al 1934, egli non accenna
minimamente ai contributi dei missionari, e di certo non menziona quelli di Matteo
Ricci. Nel suo Breve storia della filosofia cinese (1947), il filosofo presenta
dettagliatamente diversi nomi di importanti pensatori occidentali che hanno avuto
influenza sulla filosofia cinese, come Spencer, Schopenhauer, Kant, John Dewey e
149
Bertrand Russell, e conferma anche gli apporti dei missionari, senza però nominare
Ricci.
Un altro importante filosofo è Qian Mu. Nel suo libro La storia del pensiero
cinese, pubblicato nel 1989, egli riconosce l’influenza della logica occidentale sulla
filosofia contemporanea cinese, ma parla soltanto dell’Analisi dei principi attraverso
l’analisi dei nomi: è un libro tradotto da un missionario, ma non si fa cenno a Matteo
Ricci. Nella realtà dei fatti, però, fu il gesuita a trasmettere in Cina la logica formale
occidentale, traducendo gli Elementi di geometria insieme a Xu Guangqi: nonostante
si tratti di un elaborato di matematica e non di filosofia, è comunque proprio
attraverso questo manuale che i cinesi hanno conosciuto il grande sviluppo della
logica occidentale. Inoltre, in altri suoi libri, e in particolare in Vero significato,
Matteo Ricci fece grande uso, per la prima volta nella storia della filosofia cinese,
della logica aristotelica e scolastica. Approfondiremo questo punto in dettaglio nel
corso della trattazione.
Il terzo libro da tenere in considerazione è la Storia generale del pensiero cinese,
curato da Hou Wailu nel 1959. In quegli anni socialismo e capitalismo si trovavano in
forte conflitto e la maggior parte dei cinesi era contraria alle dottrine occidentali,
specie quelle religiose. In questo contesto, il manuale criticava severamente Ricci.
Hou Wailu affermava che nel Medioevo la religione cristiana era stata introdotta
tre volte in Cina; ma se nelle prime due non erano stati diffusi pensieri filosofici,
l’ultima ondata, alla fine della dinastia Ming, fu il momento in cui i cinesi iniziarono
ad avere un contatto con le conoscenze occidentali. Questi concetti portati dai gesuiti,
tuttavia, erano come oppio, tale e quale a quello occidentale, e procuravano molto
male al popolo: parole come paradiso e inferno, secondo lo storico, venivano usate
per ottundere e intimidire il popolo. Il fatto che Matteo Ricci avesse deformato con le
teorie confuciane le dottrine cristiane per fare in modo di combinarle, aggiustando e
superando il Confucianesimo era, per lo scrittore, davvero assurdo e ridicolo.1
Sebbene si debba riconoscere che Ricci non fu un filosofo nel senso proprio e
1
Cfr. Storia generale del pensiero cinese, curato da Hou Wailu, Zhao jibin e Du Guoyang, Ren min
chu ban she, p. 1080.
150
stretto del termine il suo apporto alla filosofia cinese fu oggettivamente
importantissimo ed è necessario darne un giudizio obiettivo.
In genere la filosofia include la visione del mondo, la metodologia,
l’epistemologia, la visione della vita e la concezione dei valori, e nelle principali
opere ricciane (come Dieci capitoli di un uomo strano, Vera spiegazione (della
dottrina) del Signore del Cielo, Dell’amicizia e Venticinque sentenze), questi temi
vengono tutti trattati.
Anche se l’obiettivo di Ricci era quello di evangelizzare la Cina con queste opere,
il metodo adottato dal gesuita per spiegare il cattolicesimo era quello della
dimostrazione razionale e della riflessione sull’essenza e sull’origine del mondo, sul
valore della vita umana e sull’uomo. Naturalmente la maggior parte di questi pensieri
non era direttamente di Ricci ma si trattava piuttosto di sue interpretazioni delle
filosofie aristotelica, stoica e scolastica. Attraverso di esse i cinesi conobbero per la
prima volta la filosofia e i modi di pensare occidentali e iniziarono non solo a
riflettere sui difetti e sulle debolezze della filosofia cinese, ma anche a cercare di
cambiarla completamente sulla scia dei concetti dell’Ovest. Venne così a crearsi una
corrente che, in particolare dal 1980, è diventata sempre più popolare nei circoli
filosofici cinesi e ha ricevuto molti risultati fruttuosi.
Si può dunque dire che se non ci fosse stato Matteo Ricci, non si sa quando la
filosofia cinese si sarebbe allontanata dal suo stato isolato, né per quanti anni avrebbe
perdurato l’ignoranza dei pensatori cinesi riguardo la cultura occidentale.
Non si vuole qui sovrastimare la funzione positiva del gesuita ma, allo stesso
tempo, bisogna fare attenzione a non sottovalutarla. In ogni caso è certo che, anche se
Ricci non era cinese, il suo apporto alla filosofia contemporanea della Cina ha
superato quelli di ogni filosofo del paese.
Iniziamo ora a presentare, uno ad uno, i contributi del gesuita al pensiero
filosofico cinese.
1.
Matteo Ricci ha introdotto in Cina il metodo scientifico occidentale
151
della logica e della dimostrazione
In E 28 egli scrive: «La scientia di che hebbero piu notitia fu della morale. Ma
conciosia cosa che non sappino nessuna dialectica, tutto dicono e scrivono non in
modo scientifico, ma confuso per varie sententie e discorsi, seguindo quanto col lume
naturale potettero intendere. Il magiore Philosopho che ha tra loro è il Confutio... E
nel vero in quello che disse e nel suo buon modo di vivere conforme alla natura, non è
inferiore ai nostri antichi filosofi excedendo a molti... Doppo questa scientia morale
hebbero i Cinesi anco molta notitia di Astrologia et altre scientie di Matematica».
Questa valutazione di Ricci riguardo alle caratteristiche della cultura cinese è
oggettiva, poiché egli stette per molto tempo nel Paese, ebbe modo di conoscere bene
i classici antici grazie alla sua grande intelligenza e conobbe un gran numero di amici
cinesi che lo aiutarono ad immergersi nella loro interpretazione.
Anche G. W. F. Hegel presentò una sua valutazione della cultura cinese nel
famoso Lezioni sulla storia della filosofia. Facciamo qui un confronto, in modo da
valutare al meglio i pensieri ricciani.
Hegel ha apostrofato Confucio e il confucianesimo con le seguenti parole:
«Possediamo delle conversazioni di Confucio coi suoi discepoli, le quali però non
contengono niente di speciale, ma soltanto una morale popolare, esposta con buone e
vigorose massime che noi del resto troviamo dovunque, presso tutti i popoli, anche in
forma più profonda: per esempio il De officiis di Cicerone è un libro di massime
morali che contiene più cose e migliori di qualsiasi libro di Confucio. Questi non è
dunque che un saggio, esperto della vita e del mondo, che non presenta alcun
elemento di filosofia speculativa; e l'esame delle sue opere originali può portarci a
pensare che sarebbe stato meglio per la sua fama se esse non fossero state tradotte»1.
Il filosofo tedesco ha commentato anche il Classico dei mutamenti: «i cinesi
attesero anche allo studio di pensieri astratti, di categorie pure. Il fondamento è
costituito da un antico libro, il Yi-king; cioè libro dei principi, che contiene la
sapienza cinese […] Questi significati sono categorie affatto astratte, nonché
superficialissime definizioni dell'intelletto. Senza dubbio è apprezzabile il fatto che
siano recati alla coscienza i pensieri puri; ma non si è andati oltre. Il concreto non è
1
G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia 1, traduzione di Ernesto Codignola e Giovanni
Sanna, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1981., p. 137.
152
concepito speculativamente, bensì lo si prende dalla rappresentazione volgare,
giacché se ne parla secondo l'intuizione e la percezione; sicché in questa raccolta di
principi concreti non è mai dato trovare una concezione sensata delle forze universali
della natura o dello spirito»1.
Ancora, egli ha sminuito il fondatore del Taoismo, Laozi, affermando che la
filosofia taoista «non oltrepassa siffatte espressioni, essa è ancora nel suo primissimo
gradino»2.
Da queste parole si può dedurre come Hegel nutrisse grandi pregiudizi riguardo
alla cultura cinese, ammettendo solo una filosofia completamente diversa, con un
punto di vista occidentale. La sua comprensione era dunque unilaterale, anche perché
egli, pur conoscendo solo una piccola parte della cultura cinese, prendeva ciò che ne
sapeva come la totalità delle caratteristiche che la compongono. Il filosofo arrivò a
concludere che la filosofia cinese era inferiore a quella occidentale.
In realtà, non si dovrebbero giudicare due culture diverse per dimostrare che una è
superiore all’altra, poiché esse si associano sempre al diverso modo di vivere delle
due diverse nazionalità. Se si dovesse necessariamente fare un confronto, si potrebbe
dire che, almeno fino al Medioevo, il sapere cinese non era affatto inferiore a quello
dell'occidente, ma era anzi superiore in molti aspetti. Dopo il Medioevo però, la
cultura cinese subì effettivamente un forte calo che portò anche alla recessione
dell'economia e al declino della scienza e della tecnologia: ciò è un dato di fatto.
Anche se Hegel nutriva seri pregiudizi contro la cultura cinese, egli aveva anche
molte opinioni giuste e profonde che erano in accordo, senza previa discussione, con
quelli di Ricci. Ad esempio, entrambi sostenevano che vi fosse un grave difetto nella
filosofia cinese, cioè una mancanza di logica e di prove scientifiche che portava a
giudizi soggettivi. Per gli occidentali, conoscere questo mondo significa anche
ottenere una conoscenza universale, poiché danno importanza all’analisi speculativa e
razionale e alle prove concrete; i cinesi, al contrario, non traggono conclusioni
attraverso deduzioni scientifiche, ma sono abituati a identificare, capire e giudicare
l’essenza e le leggi oggetive delle cose in virtù dell’esperienza e della propria
conoscenza. I cinesi cercano di conoscere il mondo attraverso l’esperienza sul campo,
invece che attraverso la conoscenza scientifica.
1
G. W. F. Hegel, op. Cit., p. 138.
2
G. W. F. Hegel, op. Cit., p. 143.
153
Il motivo per cui sembrava proprio non esserci logica in Cina è che la lingua
cinese non è simile alle altre lingue; in particolare, essa non possiede determinazioni
di caso, e le parole sono poste semplicemente l'una accanto all'altra; non c’è
coniugazione del verbo né variazione temporale (non esiste cambiamento di tempo
verbale); molte parole possono essere verbo, sostantivo, aggettivo o avverbio;
addirittura in cinese antico non esisteva la parola shi (是), che in cinese moderno è il
verbo essere.
Quando i filosofi cinesi espongono le proprie trattazioni, lo fanno con due
caratteristiche: una è l’evidente importanza della propria esperienza personale, l'altra è
la produzione di dogmatismi senza deduzione logica. In altri ambiti è probabile che
questi due elementi non producano conseguenze gravi, ma, riguardo all’ontologia e
alla cosmologia, essi possono avere un impatto decisamente negativo. In Occidente,
ad esempio, non vi è quasi alcuna differenza fondamentale tra la conoscenza della
funzione e del ruolo di Dio. Al contrario, quando i confuciani parlano di Cielo e Dio
le differenze sono molte.
L’autore del Classico dei mutamenti afferma: «Così dunque, nei Mutamenti, il
Culmine Supremo (Tai ji) genera i due modelli. I due modelli generano le quattro
figure. Le quali generano gli otto trigrammi».1 Tuttavia in questo passo si può trovare
un problema che notò anche Ricci: dal momento che il Tai ji non possiede intelligenza
e coscienza e non si muove, allora come può generare i due modelli? Questo non
poteva essere spiegato logicamente. Chiedendo spiegazioni in merito, il gesuita mise
in seria difficoltà logica i letterati che ne discutevano con lui.2
Yang Zhenning, vincitore del Premio Nobel per la fisica, sostiene che la colpa del
fatto che non esista alcuna logica in Cina è da attribuire al Classico dei mutamenti,
poiché, dato che in esso non vi è deduzione logica, ciò ha avuto gravi conseguenze
negative sull’intero sviluppo della cultura cinese. Nei tempi antichi, piuttosto, si era
soliti fare affidamento sulla superstizione. Nel nono capitolo del Dieci capitoli di un
uomo strano Ricci si oppone proprio a questo genere di fenomeno e racconta un
aneddoto che si era trovato a vivere3:
1
Vero significato, p. 98.
2
Per informazioni più dettagliate a riguardo si legga il capitolo precedente.
3
Dieci capitoli, p. 329.
154
«Una volta, quando abitavo nella città di Shaoyang, che si trova nel sud della
provincia di Canton, frequentavo un intellettuale il cui cognome era Guo. Egli
ammirava la virtù e adorava la verità; pertanto non era un uomo qualunque.
Un giorno venne da me. Piangendo, mi disse: «Vengo a dire al mio maestro
"addio"! Non potremo più rivederci!».
Meravigliandomene, gli chiesi dove sarebbe andato.
Rispose: «Nell'aldilà».
Essendo stupito della sua risposta, dissi: «Lei non è ancora tanto anziano da avere
ottanta o novantanni. Per di più, è sano e vègeto. Come mai pensa che la fine della
vita Le sia vicina?».
E lui: «Quando avevo cinquantacinque anni, ho incontrato un bravissimo indovino
che sapeva prevedere divinamente il futuro. Mi ha predetto le cose che mi sarebbero
successe nei cinque anni successivi. Le sue predizioni favorevoli non si sono sempre
realizzate; quelle nefaste, invece, sono state tutte confermate. Mi ha detto che la mia
vita terminerà prima della metà di aprile di quest'anno. Sarà impossibile evitare tale
disgrazia. Infatti, in questo mese ho fatto un sogno in cui ho visto varie cose
malaugurate: non è forse questa una prova delle sue parole? Ahimè! Compirò
sessantanni e ho appena avuto un figlio; adesso, purtroppo, dovrò lasciare questo
mondo. E ora, chi prenderà cura del mio bimbo quando piangerà? Che dolore!».
Dopo aver sentito il racconto di questo letterato, Ricci rivolse una seria critica alla
superstizione come oltraggio alla scienza e sostenne che le previsioni non
corrispondevano ai fatti. «La ventura o la sventura sono una ricompensa del bene o
del male. Se non ho fatto né il bene né il male, come potrebbe capitarmi buona o
cattiva sorte?»1
Infine, dopo essere riuscito a convincere il letterato, nell’ultima parte aggiunge
anche che «dopo che il signore suo si fu congedato, non gli accadde nulla di male.
Passati quattro anni, ebbe un altro figlio. E quando aveva ottant’anni godeva ancora di
ottima salute e aveva buon appetito come prima.»2
Nel Dao de jing, Laozi scrisse: «uno ha prodotto due; due hanno prodotto tre; tre
hanno prodotto i diecimila esseri. I diecimila esseri si scostano dall’elemento Yin e
1
Dieci capitoli, p.281.
2
Dieci capitoli, p.305.
155
abbracciano l’elemento Yang. Il soffio vuoto ne fa una mescolanza armoniosa»1.
Sebbene l'ultima parte possa essere spiegata logicamente, Laozi non dà una risposta
logica riguardo alla prima conclusione, la più importante in campo filosofico: «uno ha
prodotto due». Di conseguenza, anche la Cosmologia taoista fu contagiata dalle
congetture e dall’arbitrarietà. Confucianesimo e Taoismo avevano sottolineato
entrambi la stretta relazione tra il linguaggio e l’essenza delle cose. A un livello più
ampio, la lingua corretta poteva addirittura riflettere l’essenza del mondo. E poiché la
lingua corretta ubbidisce sempre alla logica giusta, la logica giusta è proprio il riflesso
dell’essenza del mondo. Si intendono qui sia la lingua parlata che quella scritta, ma
purtroppo la gente parlava e scriveva come voleva, così da creare varie dottrine che
non si accordavano con essenza del mondo. Questo fenomeno provocò confusione nel
pensiero e lotta politica per il potere. Confucio lo criticò aspramente, e nei Dialoghi
possiamo trovare qualche esempio:
«Confucio disse : — Vorrei non parlare.
—
Se il Maestro non parla — obbiettò Tzu-kung — noi discepoli che cosa
tramanderemo?
—
Il Cielo forse parla?!— esclamò Confucio. — Le quattro stagioni
seguono il loro corso e gli esseri vengono alla vita. Forse parla il Cielo ?2
Confucio disse: — Parole artificiose e modi insinuanti raramente s'accompagnano
alla carità.»3
Anche Laozi credeva che «l’avarizia di parole è (in armonia con) il Corso
Naturale»4.
Ricci fu d’accordo con questa visione e nel Dieci capitoli di un uomo strano
dedicò uno spazio molto lungo (uno dei più lunghi per trattare un singolo argomento)
alla discussione del tema: “I savi parlano poco, anzi preferiscono tacere”.
«Le sentenze auree sono concise, ma utili in vari campi; quindi i fiori delle parole
sono paragonabili ai lingotti d'oro e di bronzo: sono piccoli ma preziosi. Per questo i
savi parlano raramente; anzi, preferiscono tacere».5
1
Tao Te Ching, p.107.
2
Testi confuciani, p.237.
3
Testi confuciani, p.236.
4
Il libro della Via e della Virtù, p.71.
5
Dieci capitoli, p. 111.
156
«La gente di poco valore parla senza pensare a ciò che fa e agisce senza mettere in
pratica le parole che pronuncia; dunque parla alla leggera. Le parole sono come
schizzi di saliva: una volta uscite dalla bocca, non sarà più possibile riprenderle e
trattenerle in essa. Gli uccelli, appena usciti dalla gabbia, volano da un albero all'altro;
le parole, uscite dalla punta della lingua, passano da una bocca all'altra e non
ritornano più. Per questo i savi rimangono spesso silenziosi: per tagliare le ali alle
parole».1
Tuttavia, il pensiero del Laozi riguardo all’avarizia di parole provocò una
tendenza al misticismo, poiché egli parlò così poco che gli altri non sapevano che
cosa volesse esprimere. Laozi non aveva dato definizioni specifiche per ogni concetto,
come se parlasse di un determinato argomento perché quello gli era venuto in mente.
Non esistono relazione logica e deduzione tra un concetto e l'altro. Hegel aveva
criticato questo inconveniente con alcuni esempi nelle Lezioni sulla storia della
filosofia.
Nei cinque classici, curati da Confucio, quasi tutte le parole sono dogmatismi, non
si fa uso del metodo deduttivo; le teorie non includono un processo di ragionamento
dal semplice al complesso o dal concreto all'astratto, non sono sistematiche e non
hanno contenuti regolari. Inoltre, le definizioni date da Confucio di uno stesso
concetto o oggetto sono diverse in base alle diverse persone e situazioni. I cinesi
prestano attenzione alla compiutezza del pensiero e quando si parla di un concetto, ciò
che ruota intorno ad esso deve sempre essere considerato parte di un unico insieme
che provi l’esistenza di un risultato sicuro in situazioni di caos logico. In altre parole,
una legge o una regola che si verifica in una certa situazione non può essere utilizzata
e provata in un'altra, non si può generare in questo modo la scienza. Questa è la
ragione per cui la Cina fu sempre filosoficamente più arretrata del resto del mondo
nella storia contemporanea.
Laozi scrisse soltanto cinquemila parole del Dao De Jing, lo stesso Confucio non
ha mai scritto nulla; i Dialoghi sono il frutto di un assemblaggio messo in atto dai suoi
discepoli secondo le sue lezioni. Ricci invece, pur sottolineando molto l’importanza
dell’avarizia di parole che «è (in armonia con) il Corso Naturale», scrisse e parlò
molto. È registrato nel Della entrata che Ricci in certi periodi incontrò più di venti
1
Dieci capitoli, p. 113.
157
gruppi di persone al giorno, cioè più di cento. La quantità dei letterati che hanno
contattato Ricci alla fine della dinastia Ming e la cui identità può essere confermata
attraverso la ricerca, è superiore a 150. Ricci fece sempre del suo meglio per parlare
del concetto di Via con loro. Questa era anche una responsabilità da cattolico devoto
quale egli era. Visse in Cina per ventotto anni, scrivendo e traducendo qualche decina
di opere. La maggior parte di esse provocarono una reazione forte, e guadagnarono
alto rispetto tra i letterati. Ciò va attributo sicuramente all’alto livello di cinese di
Matteo Ricci e alla sua approfondita comprensione dei classici antichi. Tuttavia la
ragione più importante è che egli aveva usato la logica e la ragione1, scarse ma
importantissime per i cinesi in quel momento. Fu spesso la logica di Ricci, e non i
suoi doni dall’Occidente, a scuotere l’anima cinese: in questo modo egli ricevette
grande rispetto e sostegno da parte degli intellettuali cinesi.
Esaminando accuratamente Vero significato, risulta evidente come all’interno
ricorrano in svariate occasioni parole come “intelligenza” e “ragionamento”.
Nel primo capitolo, intitolato Dibattito sulla creazione del cielo, della terra e di
tutte le cose da parte del Signore del cielo, e su come egli eserciti la sua autorità su di
esse e le sostenga, Ricci scrive: «di tutte le cose che distinguono l'uomo dagli animali,
nessuna è più grande dell'intelletto». Per il gesuita, l’essere umano ha, grazie ad esso,
moltissimi pregi, quali la possibilità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è
sbagliato o la capacità di venire ingannato difficilmente da qualcosa che manchi di
razionalità. Gli animali, al contrario, sono solo mossi dall’istinto e dal desiderio di
esaudire i loro bisogni primari. Il fatto che l’uomo possa osservare le conseguenze dei
principi delle cose, in quanto dotato di un’anima spirituale, può anche conoscerne le
origini e le motivazioni grazie alle quali esse esistono. In questo modo, «senza
abbandonare questo mondo di affanni», l’uomo può dedicarsi alla conoscenza e allo
studio della Via, studio ovviamente negato agli altri esseri umani. Il gesuita continua
sostenendo che «ciò che è portato alla luce dall'intelletto, non può accondiscendere
alla falsità. Tutto ciò che la ragione mostra essere vero, io non posso non riconoscerlo
come vero, e tutto ciò che la ragione mostra come falso, io non posso non
1
In molti casi, logica e ragione sono da intendere come sinonimi.
158
riconoscerlo come falso. La ragione ha con l'uomo la stessa relazione che il sole ha
col mondo, diffondendo la sua luce per ogni dove. Abbandonare i principi affermati
dall'intelletto e conformarsi alle opinioni altrui è come chiudere fuori la luce del sole e
cercare un oggetto con una lanterna1».
Nel secondo capitolo Ricci discute la questione della fine del mondo con un
confuciano. Quest’ultimo dichiara che gli uomini più importanti in Cina nutrono un
odio profondo nei confronti del visione del Buddismo e del Taoismo, contrari alle
concezioni taoiste secondo cui le cose si producono dal nulla e fanno del nulla la vita,
e a quelle dei buddisti che pensano che il mondo visibile emerga dalla vacuità e fa
della vacuità il fine. Tuttavia, anche se i confuciani disdegnavano queste visioni, non
riuscivano a trovare un modo efficente per demolirle.
Ricci intuì che questa loro incapacità derivava dalla mancata conoscenza della
logica («non ho mai visto nessuno esporre i loro errori utilizzando principi
fondamentali»), e perciò incoraggiò i confuciani a servirsene per confutare gli
esponenti delle altre credenze filosofie: «è meglio rifiutare che odiare; ed è meglio
ancora farlo attraverso un chiaro ragionamento piuttosto che rifiutarli utilizzando
mere parole; poiché anche i daoisti e i buddhisti sono creati dal nostro Padre, il
Signore del Cielo, e quindi siamo tutti fratelli. Ad esempio, se il mio fratello minore
impazzisse e cadesse a terra, dovrei io, come fratello maggiore, avere Pietà di lui od
odiarlo? La cosa più importante risiede nell'utilizzo della ragione, per spiegare la
verità e rendere chiare le cose».
All’interno di questo capitolo, dopo essere anche ricorso all’uso di un proverbio
occidentale ("una corda spessa può legare le corna di un bue, e il discorso razionale
può assoggettare la mente umana"), Matteo Ricci ricorda come in passato, negli stati
confinanti con la sua nazione d’origine, vi fossero centinaia di scuole di pensiero
eterodosse e continua spiegando come ora quegli stessi stati seguano la religione
cristiana, «poiché i nostri studiosi hanno chiarito, in seguito, la verità, con l'aiuto di un
ragionamento corretto e hanno influenzato le persone per mezzo di buone opere»2.
1
Vero significato, pp.77-78.
2
Vero significato, pp.98-99.
159
Anche nel quarto capitolo il gesuita si trova a discutere con un intellettuale
riguardo a questioni sugli esseri spirituali e sull’anima dell’uomo e ancora una volta
spiega come la logica potesse aiutarlo nella comprensione di quei concetti: «è meglio
considerare le cose per mezzo della ragione piuttosto che osservarle con gli occhi,
poiché gli occhi possono cadere in errore, laddove la ragione non può». Dopo aver
fatto uso di alcuni esempi pratici per convincere il suo interlocutore, Ricci continua:
«le cose esperite dalle orecchie, dagli occhi, dalla bocca, dal naso e dai quattro arti
devono essere pesate dalla ragione, e solo se si accordano con essa possono essere
dette vere. Se sono in disaccordo con la ragione, devono essere messe da parte in
favore di ciò che è razionale, se le persone vogliono comprendere i principi profondi
delle cose, c'è una sola maniera di farlo, e cioè di inferire ciò che è nascosto all'interno
da ciò che è esterno e facile da vedere; di usare le cose come se stessero per mostrare
la ragione per la quale sono come sono». Infine, il gesuita sostiene anche di aver
provato che l'uomo possiede un'anima indistruttibile: «è stato detto che, a seguito
della morte di un uomo, il suo corpo si distrugge e lo spirito si disperde nel vento, non
lasciando alcuna traccia dietro di sé. Si dovrebbe notare che questa è una mera
chiacchiera confusa di uno o due uomini comuni, e non ha fondamento nella ragione;
come potrebbe essere usata per contrastare il giudizio di saggi e uomini di valore?».1
Tali pensieri ricciani riguardo alla logica e alla ragione hanno un significato
epocale per la Cina. Come sappiamo, il grado di sviluppo della logica dell’uomo è una
fondamentale caratteristica che lo differenzia dagli animali. Una filosofia di tipo
sofistico e arbitrario non fa bene allo sviluppo della civiltà umana, poiché provoca la
pigrizia nella mente dell’uomo; l’assioma o il teorema sono i fondamenti della logica,
ma per i filosofi cinesi che discutono di questioni filosofiche, le parole dei saggi
precedenti sono come verità assolute, giuste e inviolabili, di cui non si può dubitare.
E’ questo che ha portato alla stagnazione della filosofia cinese.
Nella realtà dei fatti, la cultura cinese è come una sorta di “dittatura santa”, un
autoritarismo culturale che, come tale, porta sempre con sé una dittatura politica. La
1
Vero significato, pp.153-154.
160
maggior parte del Dialoghi è stata creata per servire la politica. Secondo quanto è
scritto in essi, si deve incondizionatamente ubbidire a chi ha un potere maggiore del
proprio. In famiglia, il padre è come il fuoco, mentre gli altri membri deve ruotare
attorno al lui. È in questo modo che la Cina ha ottenuto il feudalesimo autocratico
della durata più lunga in questo mondo.
Matteo Ricci è stato il primo ad introdurre la logica occidentale in Cina, ma è stato
ingiustamente trascurato a lungo. La ragione è che si pensava che fosse solo un
missionario, e, in genere, i missionari non erano visti di buon occhio. In particolare,
prima del 1980, essi erano considerati come portatori di pensieri dannosi. I cinesi non
avevano voglia di leggere accuratamente i loro libri o di conoscere i loro pensieri,
cercando di evitarli con forti pregiudizi. Nello Storie della filosofia cinese o nello
Storie dei pensieri cinesi, è quasi impossibile trovare delle citazioni gesuitiche poiché
la maggior parte degli studiosi che scrissero questi libri erano pigri seguaci dei
pensieri confuciani.
Si deve inoltre fare riferimento all’opera intitolata Libro elementare di geometrìa,
tradotto da Ricci e Xu Guangqi. Sebbene si tratti di un libro sulla matematica, la sua
utilità è risultata chiara in ogni campo, specie in quello filosofico. Attraverso questo
libro, infatti, i filosofi potevano imparare come arrivare a una conclusione giusta
partendo da un presupposto ed avendo una base, non utilizzando le parole o i
pregiudizi dei saggi come presupposto.
Si deve quindi sperare che ai pensieri logici occidentali portati in Cina da Ricci
venga data l’importanza che meritano, poiché la logica è un’arma indispensabile per
lo sviluppo della civiltà umana.
2.
Nuove teorie sulla natura umana e sull’amore universale
Con il termine “natura umana” ci si riferisce all'attributo essenziale degli esseri
umani, per cui essi si distinguono dagli altri oggetti. La discussione riguardo ad esso
ha un grande significato in campo etico. Si può dire che i diversi modi di intendere la
natura umana determinano le visioni dei valori e i modi di agire degli individui. In
questo senso, epistemologia ed etica sono strettamente legate.
Nell'antica Cina, il Buddismo e il Taoismo discutono poco della natura dell’uomo,
161
mentre il Confucianesimo ne ha dibattuto molto. In genere, le visioni confuciane
riguardo a questa tema includono tre categorie: la natura umana è buona; la natura
umana è malvagia; la natura umana, in origine, non ha in sé né il bene né il male.
Anche se l’argomento è stato trattato approfonditamente, è un peccato che tutti
questi pensieri siano basati su congetture soggettive personali e manchino di
ragionamento logico e scientifico. I confuciani non hanno mai pensato accuratamente
a “che cosa sia la natura umana” e quindi avevano, per così dire, saltato un passaggio,
pensando direttamente alle sue caratteristiche (buona, malvagia, ecc), piuttosto che
alla sua definizione. Questo li condusse inevitabilmente a conseguenze contraddittorie
o non scientifiche.
Alla luce della questa situazione, nel settimo capitolo di Vero significato, Ricci
illustrò la sua visione del problema: «Se si vuole capire se la natura umana sia
fondamentalmente buona o meno», scrisse, «si deve prima discutere su ciò che si
intende per natura e per buono e cattivo». Più nello specifico, il gesuita spiegò che «
“Natura" è null'altro che l'essenza fondamentale di ogni categoria. Quando si parla di
"ogni categoria", si conclude che cose di una stessa categoria hanno natura simile e
cose di differenti categorie hanno natura differente. Quando si usa il termine
"fondamentale", si intende che ciascuna cosa che sia inclusa nei principi di altre
categorie non è la natura fondamentale di questa categoria. Quando si parla di
"essenza", si intende che qualsiasi cosa al di fuori dei limiti dell'essenza di questa cosa
non può essere la natura di questa cosa. Ma, quando le cose sono sostanze, anche le
loro nature sono autonome; e quando le cose sono accidenti, anche le loro nature sono
dipendenti. Tutto ciò che è amabile e desiderabile è definito buono, e tutto ciò che è
detestabile e odioso è definito cattivo. Comprese queste definizioni si può procedere a
discutere se la natura umana sia buona o meno»1.
Sappiamo che gli occidentali danno sempre molta importanza alla difinizione e
all’essenza degli oggetti, soprattutto sono abituati a porsi la domanda “che cos’è”
prima di risolvere un problema; i cinesi, al contrario, si chiedevano sempre
direttamente “come dovrebbe essere”. Come accennato nella prima parte di questo
capitolo, mancare di logicità porta sempre al disordine, e in questo caso portò alla
mancanza di una base scientifica sulla classificazione delle cose. I cinesi antichi
classificavano le cose secondo le sole diversità di forme. Nella Vera spiegazione
1
Vero significato, p. 252.
162
(della dottrina) del Signore del Cielo Matteo Ricci ha questa abitudine come difetto
nocivo della filosofia cinese: se non si conoscono le differenze essenziali tra una cosa
e l’altra, come si può dire come sia qualcosa?
Per limiti di spazio, non si discuterà molto di questo argomento.
Cosa sono dunque l’essere umano e la natura umana? Ricci rispose
minuziosamente alla domanda: «i letterati occidentali definiscono l’“uomo” nel modo
seguente: è chi ha vita e consapevolezza, ed è anche dotato di ragione. Quando si dice
che ha vita, è per distinguerlo da metalli e pietre; quando si dice che ha
consapevolezza, è per distinguerlo dai vegetali, e quando si dice che è dotato di
ragione, è per distinguerlo dagli uccelli e dagli animali. Quando si dice che l'uomo è
dotato di ragione, ma non di comprensione immediata, è per distinguerlo dalle
creature spirituali, poiché gli spiriti hanno un'esaustiva e completa comprensione dei
principi delle cose. Per essi, la conoscenza è come il riflesso su di uno specchio:
quando vedono le cose, le capiscono, e non hanno bisogno di ragionarci sopra. Gli
uomini possono inferire ciò che accadrà nel futuro da ciò che è avvenuto nel passato;
usano ciò che è manifesto per provare ciò che è nascosto. Usano ciò che già sanno per
dedurre ciò che ancora ignorano. Per questo motivo si dice che la capacità di
ragnionare pone l’uomo nella sua categoria»1.
Anche se tra i confuciani vi erano opinioni diverse riguardo alla natura umana, la
maggior parte credeva che essa fosse naturalmente buona. Il rappresentante di questa
parte è Mencio, che però non si dedicò accuratamente allo studio della definizione
della natura umana come fecero i filosofi occidentali. Egli affermò direttamente che
«la natura umana è buona» e le ragioni che portò come prove sono riportate di
seguito.
« Per sua tendenza -rispose Mencio- (la natura umana) può fare il bene: per questo
dico che è buona. Se poi fa il male non è colpa della sua capacità originaria. Tutti gli
uomini hanno il sentimento della pietà e della commiserazione, della vergogna (per i
propri difetti) e della repulsione (per i difetti altrui), della reverenza e del rispetto, del
diritto e del torto. Il sentimento della pietà e della commiserazione è la carità, il
sentimento della vergogna e della repulsione è la giustizia, il sentimento della
1
Vero significato, p. 253.
163
reverenza e del rispetto è il rito, il sentimento del diritto e del torto è la sapienza. La
carità, la giustizia, il rito, la sapienza non sono infusi in noi dall'esterno : noi li
possediamo sicuramente, (solo che) non ci pensiamo. Perciò si dice “cercali e li
otterrai, trascurali e li perderai”»1.
« Ciò per cui dico che tutti gli uomini hanno un cuore che non tollera la sofferenza
altrui è questo: supponi che la gente veda improvvisamente un bambino che sta per
cadere nel pozzo. Tutti provano un sentimento di raccapriccio e di pietà, non perché
vogliano guadagnarsi la riconoscenza dei genitori del bambino, non perché cerchino
la lode dei compagni del villaggio, non perché detestino di farsi la fama (di
insensibili). Da ciò appare che esser privo del sentimento della pietà e della
commiserazione non è da uomo; esser privo del sentimento della vergogna (per le
proprie colpe) e della ripugnanza (per le colpe altrui) non è da uomo; non avere il
sentimento della rinuncia (di sé) e della cedevolezza (agli altri) non è da uomo; non
avere il sentimento del diritto e del torto non è da uomo. Il sentimento della pietà e
della commiserazione è il bandolo della carità, il sentimento della vergogna e della
ripugnanza è il bandolo della giustizia, il sentimento della rinuncia e della
cedevolezza è il bandolo dei riti, il sentimento del diritto e del torto è il bandolo della
sapienza. L'uomo ha questi quattro princìpi come ha le quattro membra»2.
Anche Mencio critica la visione di Gao Zi, secondo il quale la natura umana non
ha, originariamente, né il bene né il male:« Gao Zi disse:- La natura (dell'uomo) è
come l'acqua che tumultua: àprile una via verso oriente ed andrà ad oriente, àprile una
via verso occidente ed andrà ad occidente. La natura non fa distinzione fra bene e
male, così come l'acqua non distingue tra oriente ed occidente.
:- È vero -disse Mencio- che l'acqua non distingue tra oriente ed occidente, ma forse
non fa distinzione tra alto e basso? La natura umana tende al bene come l'acqua segue
il pendio. Non v’è uomo che non sia originariamente buono, non v’è acqua che non
fluisca verso il basso»3.
Analizzando queste teorie è possibile individuare alcune limitazioni. La principale
è che non si tratta di un’analisi logica, ma arriva a una conclusione soggettiva
1
Testi confuciani, p. 403.
2
Testi confuciani, p. 306.
3
Testi confuciani, p. 399.
164
partendo da un presupposto soggettivo. Il filosofo insiste sul fatto che «la carità, la
giustizia, il rito, la sapienza non sono infusi in noi dall'esterno» e che «l'uomo ha
questi quattro princìpi come ha le quattro membra». Questa dovrebbe essere una
proposizione aprioristica, ma la conclusione di Mencio deriva dalla sua osservazione
del mondo reale. Egli ritiene che tutti abbiano in sé un buon seme, e che una persona
senza carità, giustizia, rito e sapienza non sia una persona. Questo è solo un giudizio a
priori e universale concluso da alcuni fatti di esperienze. Infatti, non si deve dedurre
una conclusione del campo del noumeno come si vuole, a seconda solo di
un’esperienza del mondo fenomenico.
Inoltre, possiamo trovare che il metodo che Confucio ha utilizzato è quello
dell’accostare a forza (cose non paragonabili), metodo utilizzato frequentemente
dagli antichi studiosi cinesi. Essi lo utilizzarono perché, come già evidenziato, non
v’era logica formale nella Cina antica, e questo era l’unico modo per dimostrare
qualcosa.
Dal momento che una cosa ha alcune proprietà, insomma, anche altre cose simili
la possiedono. Il Classico dei mutamenti assume principalmente questo tipo di metodo.
Si tratta di un metodo non scientifico: non si può ricavare la conclusione che
l'universo è finito ed ha i suoi confini perché anche un tavolo li ha. Per esempio, per
dimostrare che la natura umana è naturalmente buona, Mencio l’ha confrontata con il
flusso dell’acqua, ritenendo che così come l’acqua fluisce sempre verso il basso per
natura, l’uomo è naturalmente buono. Nonostante egli fosse un uomo molto sapiente,
non è riuscito ad ottenere una conoscenza di tipo scientifico. Al giorno d’oggi noi
sappiamo tutti che il fluire verso il basso non è dovuto alla natura dell'acqua, ma alla
gravità terrestre. Dall’assunto del filosofo, potrei concludere anche che l’uomo è
naturalmente non-buono. Ciò non è così difficile da capire. Quello che gli uomini
possiedono, come la carità, la giustizia, il rito e la sapienza, non sono altro che il
risultato di una formazione acquisita all’interno di una determinata società.
La natura umana dovrebbe includere due aspetti: la proprietà naturale e la
proprietà sociale. Il Confucianesimo ha prestato grandissima attenzione all’attributo
sociale dell'essere umano, ma esso si forma dopo la nascita, e quindi è innaturale.
Quando parliamo di natura umana, dobbiamo sì pensare all’attributo sociale
dell’umanità, perché un uomo è sempre inserito in una società, ma un accento troppo
forte sulla condizione sociale potrebbe far trascurare l’attributo naturale dell’umanità.
Al fine di funzionare correttamente, un organismo sociale deve fare affidamento su
165
due elementi: la morale e la legge. Nella Cina antica, gli uomini tendevano a ignorare
la legge e, di conseguenza, l’attenzione fu posta soprattutto sull’etica per poter
standardizzare i pensieri e l’agire del popolo, tanto che l’imposizione di un
determinato tipo di etica sul popolo cinese fu massima.
Altro esempio che fu utilizzato da Mencio per dimostrare la naturale bontà della
natura umana è il sentimento di orrore e di compassione che la gente prova nel vedere
improvvisamente un bambino che sta per cadere in un pozzo. Anche questo, tuttavia,
dimostra proprio il nostro punto di vista, cioè che la carità, la giustizia, il rito e la
sapienza provengono da un’educazione acquisita. Infatti, come può comportarsi un
bambino di due anni nel vedere un altro bambino di due anni che cade nel pozzo? È
difficile che nutra un “sentimento di orrore e di compassione”, poiché è probabile che
non capisca bene il pericolo, o magari potrebbe addirittura trovarlo divertente e
esserne molto contento. La natura umana sembra, insomma, aver stretto un legame
con il giudizio razionale che deriva dalla formazione post-natale che abbiamo
acquisito. Solo quando una persona ha capacità di giudizio gli altri poi commentare
correttamente sul bene o sul male della sua condotta.
Su questo punto, la filosofia cristiana è migliore rispetto al quella confuciana,
Ricci ha ereditato la teoria della natura umana della filosofia cristiana, ed ha
evidenziato il rapporto tra la valutazione della natura umana e del libero arbitrio.
Nel sesto capitolo della Vera spiegazione del Signore del Cielo, Ricci scrive: «la
motivazione è facile da spiegare. Tutto ciò che nel mondo è dotato di volontà può
permetterei alla volontà di conseguire il suo fine o può impedirglielo, e così si è
operata una distinzione tra virtù e vizio, bene e male. La volontà deriva dalla mente. Il
metallo, le pietre e la vegetazione sono privi di mente e quindi di volontà. Così, se un
uomo è ferito da una spada, la sua vendetta non dividerà la spada in due. Se cade una
tegola e colpisce la testa di un uomo, la persona ferita non porterà rancore alla tegola.
Poiché esse non hanno mente e volontà, sono prive di virtù e vizi, bontà e cattiveria, e
non si può punirle o premiarle. Per quanto riguarda gli animali, possiamo affermare
che hanno la mente e la volontà degli animali, ma che non hanno una mente
intelligente che permetta loro di distinguere tra giusto e sbagliato. Seguono i loro
sensi, e non sono in grado di regolare le loro reazioni tramite la ragione. Ma la
condotta dell'uomo è abbastanza differente. Le sue azioni sono esterne, ma la mente
razionale è dentro di lui. Non solo l'uomo è consapevole del fatto che le sue azioni
siano giuste o sbagliate, corrette o meno, ma è anche in grado di permettere loro di
166
giungere alla rivolta o di arrestarsi»1.
Un elemento da osservare è che Ricci fa anche un esempio riguardo ad un
bambino: «se un bambino colpisce sua madre, non è considerato un trasgressore,
perché è ancora privo di ciò tramite cui può trattenere la sua volontà. Quando il
bambino raggiunge la maturità, però, ed è in grado di comprendere se possa fare o
meno una cosa, allora, anche prima che la colpisca, se mostra la più lieve tendenza a
disobbedire ai suoi genitori, può essere accusato di non avere pietà filiale»2.
Da quest’ultimo passo possiamo notare chiaramente i vantaggi della teoria
occidentale della natura umana presentata da Matteo Ricci, associata all’uomo come
essere intelligente e accorto, che sa prestare massima attenzione al comportamento e
alla motivazione umani. Al contrario, la teoria confuciana cadde in una fantasia
astratta, senza attenzione alla motivazione umana. La teoria della natura umana del
Confucianesimo si è concentrata troppo sull’aspetto naturale degli esseri umani, ma si
tratta di una questione sempre aperta: qualsiasi risposta può essere giusta o sbagliata
nello stesso tempo. Il discorso sulla natura umana come impenetrabile ha avuto un
impatto devastante sulla Cina alla fine della dinastia Ming. I letterati si trovarono tutti
i giorni a discutere questo genere di questioni astratte, ma poiché in quel momento
erano anche impegnati a gestire l’economia nazionale e a studiare come innalzare il
livello di vita della popolazione, essi tendevano a trascurare spesso la realtà, causando
grande arretratezza per il Paese.
In realtà anche la religione cattolica introduce il concetto della natura originaria
della persona, che si basa sull’idea che la natura umana sia buona prima di una
corruzione e questo potrebbe essere un punto di contatto col Confucianesimo.
Lo stesso Ricci scrive: «se sosteniamo che l’essenza della natura umana e i
sentimenti sono creati dal Signore del Cielo, e se facciamo sì che la ragione sia loro
padrona, allora saranno amabili e desiderabii ed essenzialmente buoni, non cattivi»3,
perché l'uomo, essendo di buona natura, dovrebbe fare il male? Mencio non ne ha
fornito alcuna spiegazione, e ciò non solo costituisce uno dei difetti principali del suo
sistema teorico, ma anche fa sì che la sua teoria sulla natura umana diventi una
fantasia senza valore.
1
Vero significato, p. 217.
2
Vero significato, p. 218.
3
Vero significato, p. 253.
167
Il Neoconfucianesimo ha spiegato perché l'uomo fa il male, ma ci sono alcune
differenze fondamentali tra la spiegazione neoconfuciana e quello cattolica. Chu Hsi,
importante rappresentante confuciano, ha spiegato la questione dell’origine del male
attraverso la sua teoria della dotazione fisica: quando una cosa singola viene a esistere,
le inerisce un certo Li1 che fa di essa ciò che è e ne costituisce l'essenza o natura.
Anche un uomo, come ogni altra cosa, è un particolare concreto, prodotto del mondo
concreto, quindi ciò che noi chiamiamo natura umana non è che il Li dell'umanità che
inerisce all'individuo. Un uomo per avere esistenza concreta deve avere Qi. Il Li è lo
stesso per tutti gli uomini, è il Qi che li rende differenti; Chu Hsi dice: «ogni volta ci
sia Li c'è anche Qi. Ogni volta ci sia Qi deve esserci anche Li. Quelli che ricevono un
Qi che è chiaro sono i saggi, la cui natura è come una perla che giace in acque fredde
e limpide; quelli invece che ricevono un Qi torbido, sono i folli e i degenerati, la cui
natura è simile a una perla che giace in acque fangose»2. Ogni individuo allora, oltre
ciò che riceve dal Li, ha anche ciò che riceve dal Qi, quello che Chu Hsi chiama
dotazione fìsica3.
Anche se Chu Hsi ha chiarito la questione che Mencio aveva trascurato
sull’origine del male, tuttavia la sua teoria sulla dotazione fisica non ha molto
significato, poiché fa sì che la gente perda la capacità di usare il libero arbitrio. Dal
momento che dalla nascita un uomo è gia destinato ad essere stupido o saggio, buono
o cattivo, allora a che cosa servono gli sforzi aquisiti? Quanta autonomia ha un uomo?
I neoconfuciani discutono spesso sul recuperare la natura del destino, che è una natura
assolutamente buona. Ma farlo si trova inevitabilmente in contrasto con la teoria.
Possiamo immaginare due scenari: uno è che se un uomo è nato buono, cioè lo è
naturalmente, allora non ha bisogno di tornare alla natura del destino, perché
conforme sempre alla sua bontà; l'altro scenario è che una persona è naturalmente
malvagia e fa solo il male. Ma i cattivi di solito non ascoltano che se stessi e credono
che le proprie azioni siano giuste. Non si può non chiedersi se esista e quale sia quella
forza capace di far sì che un cattivo faccia consapevolmente il bene e recuperi la sua
natura del destino. In breve, la forza che trasforma la gente a fare del bene non esiste
più.
1
Principio, come il noumeno dell’universo, il principio è sempre buono.
2
Raccolta di massime, chiian 4
3
Fung Yu-lan, op. Cit., p. 241.
168
Oltre a enunciare la bontà originaria della natura umana che esiste prima di una
corruzione, la religione cattolica parla anche del male dopo di essa, ponendo grande
attenzione sulla cosiddetta “mancanza di bontà”. Dato che tutta l’umanità è corrotta,
nel senso di peccatrice, ci si dovrebbe confessare tutti i giorni per essere vicino al
bene e lontano al male. Così si creerebbe la forza per la ricerca del bene. Inoltre, la
ragione della degenerazione umana è che l'uomo, avendo violato l'ordine che gli era
stato fatto da Dio, ora deve pentirsene. Ma la sottigliezza della religione cattolica è
che l’uomo possiede il libero arbitrio: può fare sia il bene che il male, è nel proprio
diritto di scegliere.
Molto spesso Ricci ha parlato della bontà della virtù o della bontà acquisita,
mentre non ha dato molta importanza alla bontà innata. Scrive: «lei deve ammettere,
dunque, che ci sono due tipi di bontà! La bontà della natura umana è innata, laddove
la bontà della virtù è acquisita. La bontà innata è la virtù di cui il Signore del Cielo ha
originariamente dotato l'uomo, e questi non può avantare meriti per essa. I meriti di
cui sto qui parlando sono limitati alla bontà di quella virtù che l'uomo stesso accumula,
attraverso i suoi propri sforzi. I figli amano i loro genitori, ma la stessa cosa fanno gli
animali. Quando la gente comune vede improvvisammente un bambino che sta per
cadere in un pozzo, si sente impaurita e in apprensione, sia che sia dotata di umanità o
meno. Questo deriva dalla bontà innata. Ma che tipo di virtù è quella che anche gli
animali e le persone non dotate di umanità possiedono? La virtù può essere
considerata come tale quando una persona fa ciò che considera essere giusto. Se le
persone non sono in grado di fare ciò che è giusto quando lo vedono, o sono
negligenti nel farlo, non saranno in grado di essere virtuose»1.
Rispetto al cristianesimo occidentale, la teoria della natura umana della Cina ha un
altro difetto, cioè che non ha approfittato del “male” in modo corretto. Il male è reale,
ma ha generalmente un significato negativo nella visione del mondo cinese. Pertanto,
i confuciani hanno eliminato il male dalla teoria della natura umana, credendo che la
essa sia solo buona e semplificando artificialmente il problema. Hanno poi però anche
capito che non si poteva evitare di affrontare il problema dell’esistenza visibile di
molti mali nella realtà, e fecero propria la teoria di male come copertura del bene:
hanno da un lato ammesso l’esistenza del male e dall’altro hanno cercato di evitare
1
Vero significato, p. 256.
169
soggettivamente l’esistenza del male. La parola che il confuciano odia di più è “male”
e il comportamento che odia di più è “fare male”.
Nel sistema teorico del confucianesimo, ciò che gli esseri umani dovrebbero fare
in tutta loro vita è quella di evitare il male il più possibile. Ma, come è accennato in
precedenza, se un uomo è innatamente composto dal soffio torbido, quale forza riesce
a far sì che egli non sia malvagio? Per giunta, i saggi che hanno ricevuto un soffio
pulito si possono contare sulle dita di una mano. Ma se tutta l’umanità è corrotta da
questo soffio torbido e dalla natura di “fare il male”, allora il problema diventa più
profondo e, avendolo capito, i confuciani si sono iniziati a chiedere se il bene può
essere realizzato solo in funzione di evitare il male.
Un esempio: una persona che non uccideva o rubava e che, insomma, non aveva
commesso nulla di male, un giorno vide la casa di un vicino in fiamme e non andò ad
aiutarlo a spegnere il fuoco perché questo suo vicino tiranneggiava sempre sugli altri.
Allora come dobbiamo valutare quest’uomo? Egli aveva il diritto di scegliere di non
fare del bene, perché avrebbe dovuto farlo? In breve, in teoria, semplicemente evitare
il male e negare il male non possono voler dire che si fa del bene. Il cristianesimo è
perfetto su questo punto, ed è un ottimo complemento per la teoria confuciana.
Il modo di vedere di Ricci a riguardo è che «il male è privo di sostanza, è più un
modo di riferirsi ad un’assenza di bontà1[…]. Quando il Signore del Cielo ha dotato
l’uomo di questa natura, l’uomo era in grado di fare sia il bene che il male, e quindi ne
era arricchito. Poiché l’uomo può accogliere o rifiutare la bontà, non solo i meriti
della bontà aumentano, ma questi meriti divengono propri dell’uomo».
Ricci cita anche un altro termine, merito: «mi posso trattenere dal fare il bene, ed
è solo quando decido di fare il bene che posso essere definito un uomo superiore che
compie opere buone. Quando il Signore del Cielo ha dotato l’uomo di questa natura,
l'uomo era in grado di fare sia il bene che il male, e quindi ne era arricchito. Poiché
l’uomo può accogliere o rifiutare bontà, non solo i meriti della bontà aumentano, ma
questi meriti divengono propri dell'uomo. È per questo si dice che, quando il Signore
del Cielo ha creato l'uòmo, non l'ha usato, ma quando vuole che sia buono Egli deve
usarlo»2.
Questo pensiero di Ricci sul rapporto dialettico tra il bene e il male è di grande
1
Questa teoria deriva da Aurelius Augustinus.
2
Vero significato, p. 255.
170
ispirazione per la teoria sulla natura umana, e dovrebbe attirare la massima attenzione.
Un altro concetto legato strettamente con essa è la questione sull’ “amare le
persone”: in questo campo Ricci ha sostituito la carità del Confucianesimo con
l’amore universale cristiano, fornendo un ulteriore contributo alla filosofia cinese.
In particolare, la visione dell’amore universale ha risolto un dilemma teorico del
Confucianesimo. Se fosse vero che, come ha detto Mencio, la natura umana fosse
naturalmente buona e tutti gli uomini avessero in sé il sentimento della pietà e della
commiserazione, questo sentimento sarebbe la natura innata dell’umanità e, di
conseguenza, si dovrebbe amare tutti.
Anche Confucio afferma che si dovrebbe amare tutti. Avrebbe potuto essere una
buona idea, ma la definizione confuciana di carità ad essa collegata ha reso la teoria
un paradosso inestricabile1, ricco di contraddizioni tra il concetto dell’amare tutti e
quello sulla differenza dell’amore.
Con differenza dell’amore si intende che ognuno dovrebbe prima amare se stesso,
in secondo luogo amare i membri della famiglia, i membri della tribù in terzo luogo,
poi il paese, e infine arrivare ad amare tutti in questo mondo. Un amore, quindi, che
diminuirebbe gradualmente dall’interno (se stessi) verso l’esterno (tutti nel mondo).
La relazione tra i membri parte da un rapporto di sangue all'interno della tribù per poi
basarsi sempre di più sulla dottrina morale e dell'obbligo, trasformandosi quindi in
un’etica forzata. Come l'obbedienza all'imperatore, ad esempio: anche se egli è
corrotto, la gente deve obbedire al suo ordine ed amarlo, perché lui è il figlio del Cielo.
Il problema è che i cinesi si trovavano spesso a dubitare dell’autorità del Cielo, così
quest’obbedienza rischiava di perdere facilmente la base fondamentale. Nella teoria
non si tiene inoltre conto del conflitto tra famiglia e morale: una volta sorto il conflitto,
sarebbe stato immediato abbandonare la morale e la gente sarebbe stata pronta a
perseguire solo gli interessi meschini della famiglia. A questo proposito, nei Dialoghi
viene riportata una conversazione: «il duca di She, discorrendo con Confucio, disse :Nella mia comunità vi sono persone che si comportano rettamente: se il padre ruba
una pecora, il figlio dà testimonianza (contro di lui).
- Le persone rette della mia comunità -replicò Confucio- sono diverse da costoro.
Il padre nasconde le colpe del figlio e il figlio quelle del padre. La rettitudine sta in
1
Cfr. Liu Qingping, La carità che non ha la base, in Storia della filosofia cinese.
171
ciò».1
Insomma, nel sistema del Confucianesimo l’ amare tutti e la differenza dell’amore
costituiscono una reale ed inesplicabile contraddizione. È la religione cristiana
introdotta da Matteo Ricci a risolverla.
L’origine della teoria della natura umana nella filosofia cristiana è il peccato
originale. Anche se Ricci non lo menziona mai nelle sue opere, nella Vera
spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo si riferisce vagamente al fatto che
un antenato del genere umano ha distrutto la radice della natura umana e i discendenti
hanno ereditato questo peccato, così da non poter possedere una bontà intera. Il
gesuita crede che l’essenza innata della natura umana donata da Dio sia divina e
buona, ma dopo che
un antenato dell’uomo si è volontariamente allontanato dalla
volontà divina commettendo un peccato, il peccato stesso è diventato la natura degli
esseri umani. Ora, come rimuovere il peccato da loro? La risposta è che la natura
umana può essere salvata solo credendo in Dio, superando il male riportando il bene.
Più in particolare,
se ciò significa amare Dio mentre, allo stesso tempo, Dio ama
tutti, è in questo modo che l’amore universale sarà naturalmente realizzato.
Al fine di far comprendere la teoria, Ricci ha trasformato il contenuto della parola
Carità del confucianesimo, sostenendo che «la definizione di umanità -(la carità
confuciana, appunto)- può essere riassunta nelle due frasi seguenti: amare il Signore
del Cielo, poiché Egli è supremo; e amare gli altri come se stessi, per amore del
Signore del Cielo. Se si seguono questi due comandamenti, tutto ciò che si farà sarà
perfetto. Ma questi due sono, alla fine, un solo comandamento. Se si ama
appassionatamente una persona, si amerà ciò che quella persona ama: il Signore del
Cielo ama le persone; se amo realmente il Signore del Cielo, come potrei non amare
le persone che ama? La ragione per cui la virtù dell'umanità è così nobile, è proprio
perché significa amore per il Sovrano dall'Alto»2. «L'amore sincero per gli uomini è il
maggior risultato dell'amore per il Signore del Cielo. Ciò è quello che l'espressione
“l'umanità è l’amore degli uomini” significa. Se un uomo non ama i suoi compagni,
1
Testi confuciani, p. 204.
2
Vero significato, p. 266.
172
come può sinceramente dire di rispettare il Sovrano dall'Alto?»1.
Amare le persone diventa qui una scelta necessaria che ha origine in una scelta
libera e addirittura si dovrebbero amare anche gli uomini crudeli poiché «il male è
sicuramente detestabile, ma anche in un uomo crudele si può trovare qualcosa di
buono; così, nessuno è totalmente indegno di amore. La persona piena di umanità ama
il Signore del Cielo e, di conseguenza, ama se stesso e gli altri. Quando realizza che è
a causa del Signore del Cielo, diviene consapevole del fatto che ogni uomo è degno di
amore. Come, quindi, si può limitare ai buoni il proprio amore? Si ama ciò che di
buono c'è nell'uomo, perché è una bontà che deriva dal Signore del Cielo, e non
perché è una bontà umana.»2
Per il Confucianesimo, invece, è estremamente difficile realizzare l’amore
universale, poiché i confuciani non mostrano alcuna tolleranza per gli uomini malvagi:
«Qualcuno domandò:- Che ne dici di ripagare un torto con la clemenza?
- Con che ripagheresti la clemenza? -rispose Confucio- Un torto si ripaga con la
giustizia e la clemenza con la clemenza.3». Appare evidente come la giustizia includa
anche violenza, la macchinazione e altri sentimenti negativi.
3.
Il problema di un secondo mondo e di una giustizia assoluta
I cinesi sono un popolo tendenzialmente ateo. Si potrebbe pensare che i confuciani
credano nel Cielo, i taoisti nella Via e i buddisti nel Buddha, ma il problema è che fin
da dinastia Zhou il Cielo è considerato un elemento naturale ed non ha la natura della
personificazione, così come la Via. Il vero significato del Buddha è di persona
illuminata, e chi si dedica al Buddismo fa affidamento sulla propria percezione per
diventare un Buddha, non si tratta quindi di una divinità ma di esseri umani illuminati.
1
Vero significato, p. 270.
2
Vero significato, p. 271.
3
Testi confuciani, p. 215.
173
Ci sono poi molti politeisti nelle campagne cinesi, che credono in Eolo, nel dio del
fuoco, nel dio fluviale, in Thor, negli dei degli antenati e della ricchezza, tutti credi a
fine utilitaristico. Per esempio, la maggior parte dei commercianti adora il dio della
ricchezza, ma è una fede facoltativa ed estremamente facile da rinnegare. Se uno di
loro perdesse denaro nella sua azienda, allora il dio della ricchezza sarebbe presto
dimenticato.
In una parola, i cinesi non credono in un solo Dio con qualità morali e umane.
Questa caratteristica è rara da ritrovare in un altro Paese nella storia dell’umanità.
I cinesi antichi, però, dettero particolare importanza alla coltivazione del bene e al
fare il bene. La prima frase de Il grande studio, primo dei quattro libri, è «la Via del
grande studio consiste nel far rifulgere la virtù luminosa, nel rinnnovare il popolo, nel
permanere nel più alto grado del bene»1. Ma la forza motrice della coltivazione deriva
completamente da se stessi, cioè dall’autocontrollo. Anche nei Dialoghi Confucio
dice «essere caritatevoli dipende da noi stessi, dipende forse dagli altri?»2.
Allora quali mezzi si possono usare per realizzare quest’autocontrollo morale? Il
Confucianesimo richiede di cercare di ubbidire a carità, giustizia, rito, sapienza e
onestà quando si entra in contatto con gli altri e dà particolare rilievo al fatto che il
saggio deve vigilare su sé stesso quando è solo. All’inizio de L’invariabile mezzo si
legge: «la Via è tale che non te ne puoi scostare un istante: se potessi scostartene, non
sarebbe la Via. Per questo motivo il saggio è cauto e vigilante verso ciò in cui non è
visto, teme e trema per ciò in cui non è udito. Nulla è più visibile di ciò che è nascosto,
nulla è più perspicuo di ciò che è segreto. Per questo il saggio si vigila nella
solitudine.»3; anche Il grande studio sottolinea che «l'uomo volgare, quando se ne sta
appartato, commette il male senza alcun limite, ma al cospetto del saggio subito
assume falsa apparenza, nascondendo la malvagità e facendo mostra di bontà. Ma se
l'altro lo scruta come se gli vedesse i polmoni e il fegato, a che gli giova? Questo
1
Testi confuciani, p. 87.
2
Testi confuciani, p. 193.
3
Testi confuciani, p. 104.
174
significa il detto: “Ciò che veramente è all’interno, traspare all’esterno”. Perciò il
saggio deve vigilare su sé stesso quando è solo».1
Questo modo confuciano di coltivare se stesso secondo l’autocontrollo da un lato
può migliorare l'autonomia delle persone, ma allo stesso tempo può portare a risultati
negativi. Il più grande di essi è che pochi riescono ad agire con perseveranza e, alla
fine, arrivare alla perfezione. Come ha scritto Ricci: «quando osservo gli uomini
istruiti del suo onorato paese, trovo che la loro debolezza comune è da ricercarsi
precisamente in questo punto. Parlano della necessità di perfezionare la propria
illustre virtù, ma non sono consci del fatto che la volontà umana si stanca facilmente,
e che la volontà non può sforzarsi di perfezionare la virtù in forza della volontà stessa.
Non sono consapevoli del fatto di doversi rivolgere al Sovrano dall'Alto per chiedere
la protezione e il sostegno del loro compassionevole padre. E per questa ragione che è
così raro vedere un uomo la cui virtù sia stata condotta alla perfezione»2. Sebbene
questo modo di auto-coltivazione del confucianesimo abbia i suoi vantaggi, la gente
avrebbe comunque un dubbio, si chiederebbe il motivo per cui fare auto-coltivazione.
La risposta fornita dal Confucianesimo è che sia il Cielo che il Li3 sono buoni e che le
persone sono una parte di questo universo, quindi devono anche fare del bene. Ma
assumendo un atteggiamento via via più scettico verso l’autorità del Cielo, i
confuciani diventavano sempre meno convinti del fatto che esso fosse buono. In
fondo si tratta di una questione metafisica che non può essere verificata nel campo
dell’esperienza: si potrebbe dire anche che il Cielo è malvagio, e sarebbe accettabile
allo stesso modo. Insomma, i concetti di “Il Cielo è buono” come fondamento della
coltivazione di sé e il fare del bene potevano non essere una giusta forza motrice e per
questo tanti confuciani rinunciarono all’auto-coltivazione dopo averla intrapresa
inizialmente, facendo sì che diminuisse sempre di più il numero di coloro che
raggiungevano la perfezione. Un letterato, parlando con Ricci, gli chiese: «c’è
qualcuno che non sia conscio del fatto che colui che gira le spalle alla rettitudine
1
Testi confuciani, p. 93.
2
Vero significato, p. 274.
3
Principio.
175
incontrerà sfortuna e che una persona che segue la virtù automaticamente godrà di
buona sorte e molta beatitudine e non avrà bisogno di affidarsi ciecamente alle cose
esterne? Ma ogni generazione vede sempre meno persone dedite totalmente alla
perfezione della virtù. Ciò accade perché il sentiero della virtù è difficile da
comprendere o perché è difficile percorrerlo?»1
Matteo Ricci riuscì a capire il motivo per cui i confuciani erano tristi, essi non
sapevano a cosa servisse coltivare il bene: «quando giungiamo all'educazione morale,
dobbiamo allo stesso modo, conoscere la natura del nostro obbiettivo - perché voglio
sottopormi ad un'educazione morale? - altrimenti essa avrà un carattere casuale, e non
potremo sapere perché facciamo quello che stiamo facendo. Forse sarà solo per
acquisire un po' di conoscenza, nel qual caso il nostro apprendimento non avrà alcuna
mira; o forse per essere in grado di vendere conoscenza - un modo vile di ottenere
profitto; o forse perché così gli altri arriveranno a conoscerci, il ché vuol dire vanità; o
forse per far uso di tale conoscenza per essere in grado di istruire gli altri, che
significa preoccuparsi per gli altri; o forse per utilizzarlo per il perfezionarsi, che vuol
dire saggezza»2.
Il gesuita introdusse anche il Signore del Cielo cogliendo quest’occasione. Poiché
nella visione del Cristianesimo Egli esiste fuori di ogni dubbio, che la gente studiasse
per Lui era un obbligo naturale e ciò risolveva il problema della perplessità dei
confuciani che non avevano fede e non sapevano per quale ragione studiare. Ricci
dice: «così, vorrei dire che lo scopo più alto dell'apprendimento è la perfezione di se
stessi, cosicché ci si possa armonizzare con la santa volontà del Signore del Cielo.
Questo è ritornare alle proprie origini.»3
Un altro contributo di Matteo Ricci per la filosofia cinese è l’introduzione del
concetto di guadagno nella prossima vita.
La parola più disprezzata nella antica Cina è proprio guadagno, come accennato
1
Vero significato,p. 258.
2
Vero significato, p. 262.
3
Vero significato, p. 262.
176
nei Dialoghi: «raramente Confucio parlava del profitto e dei decreti», «chi agisce
secondo il suo profitto si attira molti risentimenti»1e «il saggio intende la giustizia,
l’uomo volgare intende il profitto.2» anche Mencio disprezzava il profitto, credendo
che ogni persona che lo desidera costituisca l’elemento capace di distruggere
l’armonia della società. Nel Mencio leggiamo un passo in cui questa convinzione
appare molto chiara: «Mencio fece visita al re Hui di Liang
- O venerando -disse il re- sei venuto senza che ti sembrasse lunga la distanza di
mille li. Allora devo ritenere che tu abbia (suggerimenti) per il profitto del mio regno?
-O re -rispose Mencio- perché dici: profitto? (Dì:) allora hai (suggerimenti di)
carità e giustizia, null'altro. Se il re dice: “Che farò per il profitto del mio regno?”, i
dignitari diranno: “Che farò per il profitto della mia casata?” i funzionari e il popolo
diranno : “Che farò per il profitto della mia persona?”. I superiori e gli inferiori si
strapperanno l'un l'altro questo profitto e lo stato sarà in pericolo. In un regno da
diecimila carri da guerra colui che ucciderà il suo principe apparterrà ad una casata da
mille carri, in un regno da mille carri da guerra colui che ucciderà il suo principe
apparterrà ad una casata da cento carri. Possedere mille contro diecimila e cento
contro mille non è poco ma, una volta che si è posposta la giustizia e anteposto il
profitto, non vi sarà appagamento se non dopo aver carpito tutto. ( Mentre) non v'è
caritatevole che trascuri i suoi genitori né giusto che posponga il suo principe. O re, dì
dunque: carità e giustizia, null'altro. Perché dici: profìtto?»3
Le osservazioni di Confucio e di Mencio hanno avuto grande impatto sulle
generazioni future. I confuciani disprezzavano le cose materiali in generale, compresa
la ricchezza. Nella società feudale cinese, l'industria e il commercio erano i settori più
disprezzati, e gli uomini d'affari erano classificati al livello più basso nella scala
sociale. È questo tipo di pensiero che ha portato all’arretratezza dell'economia e della
tecnologia sociale della Cina. Moltissime persone morivano di fame perché contavano
solo su un reddito agricolo a dir poco modesto, per di più accompagnato da continui
1
Testi confuciani, p. 145.
2
Testi confuciani, p. 146.
3
Testi confuciani, p. 270.
177
disastri naturali.
Molti pensano che il ruolo della filosofia sia di poca importanza, ma basta
riflettere su come il pensiero confuciano del disprezzo degli interessi materiali abbia
fatto morire di fame centinaia di persone per capire che non è così.
In realtà il Confucianesimo non era contro profitto in sé, ma sottolineava solo che
la giustizia deve venire prima di esso. Vale a dire che è necessario ottenere benefici
usando mezzi giusti, leali, e che dovremmo concentrarci sulla morale invece che sul
guadagno. Tuttavia i confuciani cominciarono col tempo a spiegare nel modo
sbagliato, a negare completamente interessi materiali e a parlare di etica alla cieca.
Soprattutto alla fine della dinastia Ming, a causa dell’influenza di varie agitazioni
politiche, della recessione economica e di guerre frequenti, un gran numero di civili
moriva di stenti. A quel tempo, i letterati continuavano ancora con discorsi altisonanti
e parlavano della necessità di coltivare la propria personalità. Un gruppo di letterati
illuminati capirono la gravità della situazione e, contrari ai discorsi vuoti, promossero
la “cultura autentica”, e l'introduzione della tecnologia occidentale e dello sviluppo
economico.
Ricci compì una grande impresa in questo senso. Nel sesto capitolo del Vera
spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo, si legge di un acceso dibattito con i
confuciani sulla necessità o meno di parlare di guadagno. Il gesuita, inizialmente,
enuncia una giusta interpretazione del pensiero confuciano riguardo a “giustizia” e
“interesse”: «la ricompensa di cui non si può parlare è una ricompensa falsa, e una
ricompensa che disprezza la rettitudine. Nel Classico dei Mutamenti leggiamo: “Ciò
che è chiamato il vantaggioso è l'armonia di tutto ciò che è giusto” , e “Quando questa
applicazione diventa la più veloce e la più immediata, la tranquillità personale di
ciascuno è assicurata, la nostra virtù è quindi esaltata.”»1
Matteo Ricci sostiene pienamente il valore positivo di un profitto giusto che, a suo
avviso, non danneggia la virtù. Ne fa anche un esempio: «Mencio ha scelto l'umanità
e la rettitudine come suoi argomenti. In seguito, ogni volta che si recava in visita
1
Vero significato, p. 224.
178
ufficiale presso il sovrano di uno Stato, lo pregava di governare umanamente e,
addirittura, argomentava che chiunque aveva operato in tal modo era riuscito a
governare il mondo.Vuole forse sostenere che l'esercitare la sovranità sul mondo non
rappresenti una ricompensa? Quale persona non è felice quando i suoi amici o parenti
ottengono, in qualche modo, dei benefici? Se la ricompensa è qualcosa di cui non
dobbiamo occuparci, perché desideriamo che i nostri amici e parenti ne godano? Il
modo di perfezionare la propria umanità è il seguente: “Non fare agli altri ciò che non
vorresti che loro facessero a te”. Sebbene non si debba ricercare una ricompensa
personale, ciononostante si devono estendere anche agli altri i benefici. Si deve da ciò
arguire che questo genere di ricompensa non danneggia la virtù.»1
Torniamo a dire che, insomma, il primo risveglio che avvenne nella sfera
ideologica della Cina fu merito dell’influenza ricciana. Prima che i gesuiti, guidati da
Matteo Ricci, raggiungessero la Cina, in molti si erano resi conto dell’inutilità dei
discorsi altisonanti e volevano cambiare la situazione ma senza sapere come fare. Ad
eccezione dell’agricoltura, le conoscenze del popolo cinese per scienza e tecnologia
erano molto superficiali, e non sapevano come poter dare impulso allo sviluppo
economico se non tramite la collaborazione con alcuni letterati e gli sforzi di Ricci per
diffondere matematica, astronomia, fisica, ingegneria meccanica, navigazione e
geografia in Cina. Non è esagerato dire che Ricci ha giocato un ruolo fondamentale
per la Cina moderna e che è stato il più grande tra i governanti nella storia della Cina.
Vi fu anche un altro fenomeno: poiché i letterati cinesi non credevano nella vita
eterna, la grande maggioranza del popolo cinese cercava di perseguire i propri
interessi personali, anche se parlava di moralità ogni giorno. Ciò ebbe come diretta
conseguenza il diffondersi del fenomeno del corruzione, la cui origine è dovuta
ancora una volta alla debolezza dell’ontologia.
Il Neoconfucianesimo ha dichiarato che la natura del Li è buona, che il Li è la base
di tutte le cose. Ma la bontà del Li non può essere dimostrata, così come l’ipotesi che
“l’uomo viene da Li” nel senso della cosmologia. I filosofi neoconfuciani dubitarono
1
Vero significato, p. 223.
179
sull’esistenza della vita ultraterrena e cercarono sempre di perseguire interessi
materiali o la reputazione spirituale.
Nel sesto capitolo del Vera spiegazione (della dottrina) del Signore del Cielo,
Ricci riporta un dibattito approfondito con i confuciani su questa questione: «ho
sentito dire: “Perché preoccuparsi del futuro? La cosa migliore da fare è limitarsi alle
questioni dell'oggi”. Queste sono parole realistiche; perché parlare del mondo che
verrà?»1
La critica su questo modo di vedere è molto aspra: «che modo superficiale di guardare
alle cose! Se i maiali e i cani potessero parlare, questo sarebbe il genere di cose che
direbbero […] Non c'è uomo che non si tuteli dal futuro e che non consideri le cose
prima che insorgano. Il contadino ara e semina in primavera, sperando nel raccolto
per l'autunno. L'albero di pino cresce per cento anni prima di produrre semi, e
ciononostante gli uomini lo piantano. Come recita il detto: “Il giardiniere pianta gli
alberi, ma sarà la generazione successiva a coglierne i frutti”. Un viaggiatore
attraversa in lungo e largo fiumi e laghi, sperando sempre che, quando gli anni
peseranno su di lui, sarà in grado di vivere felicemente nella sua città natale. Gli
artigiani praticano il loro commercio diligentemente, sperando che le persone possano
dipendere da loro. Nella sua giovinezza, un letterato si applicherà diligentemente ai
suoi libri in modo che il suo studio sia vasto e penetrante e sarà un giorno in grado di
sostenere il proprio re e di essere di beneficio al suo paese. Nessuna di queste persone
considera solo le cose immediate o del giorno come se necessitassero di un'attenzione
più urgente. La distruzione del lavoro di una vita del proprio antenato da parte di un
figlio irrispettoso; la perdita del proprio Stato da parte del Duca di Yu, e la perdita del
mondo da parte di Re Jie della dinastia Xia e da Re Zhou della dinastia Yin sono tutti
fatti dovuti, più o meno, al fallimento da parte di questi uomini di esercitare la
lungimiranza e alla sola preoccupazione per le cose che ricadono immediatamente
sotto i loro occhi».2
Qual è quindi il profitto, l’interesse della vita dopo la morte? Naturalmente, è
1
Vero significato, p. 225.
2
Vero significato, p. 225.
180
quello di evitare l'inferno e essere accolti in paradiso.
Segue infatti un’accurata dimostrazione sull’esistenza di paradiso e inferno e una
descrizione dettagliata sulla felicità dell’uno e la sofferenza dell'altro. Ricci afferma
anche ripetutamente che l’interesse della vita dopo la morte fa bene all’interesse di
questa vita, e sottolinea quanto il profitto ultraterreno sia maggiore di quello mondano.
«I benefici a cui mi riferisco, invece, sono i benefici del mondo che verrà, che sono
insieme supremamente grandi e supremamente reali e che non danneggiano alcuno.
Poiché ciascuno li può ottenere, non c’è necessità di combattersi reciprocamente a
causa loro. Se questi benefici fossero considerati come ricompense, i re vorrebbero
che i loro Stati ne godessero, i più grandi ufficiali vorrebbero provvederli alle proprie
famiglie, e sia le persone istruite che quelle comuni vorrebbero acquisirli per se stesse.
Tutte le classi di persone accorrerebbero per essere i primi, e solo allora il mondo
sarebbe in pace e governato correttamente! Le persone che esaltano i benefici del
mondo che verrà sono costrette a considerare con disprezzo i benefici offerti da
questo mondo. Non ho mai udito di persone che disprezzassero i benefici di questo
mondo e che, al contempo, si opponessero all'autorità, combattessero per potere e
guadagno e assassinassero padri e sovrani. Se si potesse far sì che le persone
attendessero i benefici della vita che verrà, non ci sarebbero difficoltà a governare lo
Stato».1
Per i cinesi di oggi, le idee di Ricci sono ancora di grande ispirazione. Una
nazione che non ha una religione di Stato, provoca inevitabilmente il nichilismo
collettivo dei valori. Una persona che non crede in premi e punizioni di vita dopo la
morte, immancabilmente ricerca soltanto benefici immediati, ed è convinto che finché
può sfuggire alle sanzioni legali, tutti gli atti malvagi non costituiscono alcun
problema, e non si sente in colpa, poiché non c’è niente che debba temere.
Queste mie opinioni sono naturalmente aperte alla discussione. Forse in molti
criticheranno che abbia portato avanti un confronto tra religione e filosofia. Si può
dire che il contributo di Matteo Ricci alla filosofia cinese è proprio il contributo della
1
Vero significato, p. 224.
181
religione alla filosofia. Ma la premessa è che la religione deve avere uno spirito
razionale, poiché l’illuminazione pura non è adatta ad essere troppo lodata.
Matteo Ricci fu un cattolico devoto, ma ha introdotto un nuovo sistema in Cina
utilizzando un metodo logico e di ragionamento che è alla base della cultura
occidentale. Fare tesoro dell’avanzata cultura occidentale è una grande forza motrice
per la Cina e per i paesi orientali al fine di migliorare se stessi. Allo stesso modo, la
filosofia cinese può essere un riferimento per lo sviluppo del mondo occidentale.
Dopotutto, queste due civiltà sono gli elementi fondamentali e più alti del lavoro e
del pensiero umano dopo centinaia di migliaia di anni.
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