PEIRCE, COMUNITÀ E CREDENZA KEVIN HEALY Sta diventando sempre più chiaro che le idee del filosofo americano Charles Sanders Peirce (1834-1914) sono di somma importanza per noi alle soglie del terzo millennio. Ci sono voluti quasi cento anni perché a Peirce fosse riconosciuto il titolo di grande filosofo. Benché ammessa da una minoranza di discepoli durante questo secolo, l'influenza di Peirce solo di recente è stata pienamente riconosciuta fuori dall'America del nord. Raramente in Gran Bretagna i filosofi americani hanno ricevuto l'attenzione meritata (GEIGER, 1964). Eppure i filosofi tedeschi contemporanei, specialmente Habermas (1974), hanno preso sul serio per qualche tempo Peirce e Dewey. Il mio stesso interesse per Peirce ha preso le mosse dai riferimenti di Matthew Lipman alla sua opera in Socrates for Six Years Olds. Proseguii leggendo vari libri di e su Peirce, Dewey e, anche, Mead (1967), James (1976), e il capitolo relativo a Dewey della Storia della filosofia occidentale di Russel. Credo valga la pena di incominciare con una annotazione sul termine "Pragmatismo". Scritto con la lettera maiuscola, il termine denota una scuola di filosofia piuttosto che un comportamento della vita quotidiana e delle pubbliche relazioni. L'aggettivo "pragmatico" è spesso usato per descrivere un modo di fare che rifugge dai principi, dai dogmi e da posizioni rigide; una disposizione ad essere flessibile, pratici e "con i piedi per terra". I vari significati attribuiti a questi termini simili hanno portato ad assorbire la filosofia di James, Peirce e Dewey nel concetto popolare di pragmatismo. Bisogna dire che ciò è in parte dovuto a James, che coniò originariamente il termine e poi usò il suo talento letterario per glossarlo con espressioni come “una cosa è vera se funziona”. Wiener (1966) precisa che “La più importante differenza tra il Pragmatismo di Peirce e quello di James deriva dal fatto che, mentre il punto di vista di Peirce è logico, quello di James è psicologico”(p. 180). L’abilità letteraria di James e l’accessibilità del suo pensiero ha reso il ‘Pragmatismo’ durevole, ma lo stesso termine ‘Pragmaticismo’ preferito da Peirce denota importanti differenze tra se stesso da una parte e James e Dewey, dall’altra. Peirce così definisce la propria dottrina: “(la verità di)... una concezione poggia esclusivamente sulle sue relazioni con la condotta della vita”1. Questa definizione rende più agevole comprendere perché Peirce concepisce etica ed estetica come epistemologicamente antecedenti alla logica. Secondo me, l’idea chiave nella teoria peirceiana della conoscenza è la nozione di comunità. Nei secoli del liberalismo e dell’individualismo, Peirce insiste sul carattere comunitario del pensiero e dell’esperienza. Il pensatore solitario, soprattutto il cartesiano scettico, è una aberrazione, e rappresenta una distorsione del metodo di acquisizione della conoscenza. La nostra sicurezza collettiva di essere al corrente della realtà e di poter conoscere la verità è, per Peirce, una garanzia sufficiente contro gli eccessi metafisici. Dubbi possono sorgere in particolari casi, ma il dubbio sistematico è come un parassita della nostra sicurezza istintiva che realtà e verità sono indipendenti da quello che noi pensiamo di esse, sono, cioè, reali. Della dottrina cartesiana secondo cui qualunque cosa di cui si ha una chiara convinzione è vera Peirce scrive che “Se io fossi davvero convinto, dovrei essermi avvalso del ragionamento e non dovrei avere bisogno di alcun controllo della certezza. Ma fare degli individui presi singolarmente i giudici assoluti della verità è molto pericoloso... Nella scienza, in cui gli uomini giungono ad un accordo, quando una teoria è stata introdotta, essa è considerata in prova fintanto che il consenso non è stato raggiunto. Raggiunto il consenso, il problema della certezza diventa ozioso dal momento che non è rimasto nessuno che dubiti di essa. Da soli, egli ritiene, noi non possiamo sperare di trovare la filosofia ultima che inseguiamo: possiamo soltanto cercarla, pertanto, per la comunità dei filosofi. Così, se menti disciplinate e pure esaminano attentamente una teoria e la respingono, questo deve generare dubbi nella mente dello stesso autore della teoria. “La filosofia dovrebbe imitare nei suoi metodi le scienze di successo, tanto da partire solo da premesse tangibili che possono essere sottoposte a controllo scrupoloso e da far affidamento più sulla molteplicità e sulla varietà delle sue argomentazioni che sulla conclusività di una sola di esse (corsivo mio). Il suo discorso dovrebbe formare non un catena, che non è più robusta del suo anello più debole, ma una fune i cui fili possono anche essere molto sottili, purché siano abbastanza numerosi e ben intrecciati” 2. Nel 1869, Peirce presentò il suo paradigma della conoscenza, che aspetta ancora di essere accolto dalla generalità degli studiosi al di fuori dell’ambito delle scienze. A cento anni dacché fu scritto l’articolo citato sopra, Matthew Lipman diede l’avvio al progetto di rendere peirceiana l’educazione e, man mano che l’iniziativa cresce di importanza, saranno sempre più le persone che avranno l’opportunità di constatare la forza del paradigma di Peirce. Peirce riteneva che le domande che la comunità degli studiosi si va ponendo sono destinate, in linea di principio, ad avere risposte, anche se non subito. Alcune di queste risposte potrebbero emergere soltanto dopo che un lasso di tempo indefinito abbia lasciato a tutte le posizioni rilevanti l’opportunità di esprimere ogni concezione possibile in relazione all’argomento in questione e di raccogliere tutte le informazioni potenzialmente disponibili. Per Peirce, “Il reale è ciò in cui, prima o poi, confluiscono le informazioni e il ragionamento, e che, pertanto, è indipendente dalla variabilità del soggetto individuale. Allora, la vera origine della concezione della realtà mostra che essa implica la nozione di una comunità senza limiti definiti, e capace di una indefinita estensione della conoscenza” (SCHERIFF, 1994). Non bloccare la strada della ricerca che è “la (sola) regola della ragione”: su questo Peirce pone l’accento. Una comunità della libera ricerca è per Peirce la quintessenza della risposta etica, giacché egli vede nella ragione stessa la finalità suprema dell’agire. Soltanto la ragione può essere perseguita per se stessa. La logica è derivata dall’estetica e dall’etica: “Peirce riconobbe che la logica dipende dall’etica e l’etica dall’estetica. Se deve esserci ‘controllo’ dell’azione e del sentimento, così come del pensiero, azione e sentimento devono essere ... influenzate dalla logica”(Ibidem). L’opinione di Peirce su come le comunità dei pensatori giunga alla verità chiarisce, dal suo punto di vista, come la condotta degli esseri umani è governata da un controllo epistemico sociale che è una intima razionalità del ‘sentire’ comprendente sentimento, pensiero e scelta. Questo modo di vedere può essere rintracciato nel pensiero di Dewey e di Mead. Dewey ha scritto: “... per me il metodo dell’azione intelligente è un valore supremo (ossia, l’ultimo di una serie). Esso è l’ultima, quella finale e conclusiva, cosa a cui si giunge indagando sull’indagine”(G EIGER, 1964). Geiger enfatizza il fatto che Dewey non indica un Bene o una Verità finale come risultato conclusivo dell’attività valutativa, “quanto, piuttosto, il processo attraverso il quale vari beni particolari emergono ed incominciano ad operare. Si tratta della logica dei giudizi pratici (Ibidem). Egli sostiene che dal pensiero di Dewey può essere ricavato un imperativo categorico: “Agisci come se dovessi accrescere il significato dell’esperienza attuale”(Ibidem). Per Mead “la razionalità... è quel tipo di comportamento in cui l’individuo pone se stesso nell’atteggiamento dell’intero gruppo di cui fa parte. Questo implica che l’intero gruppo sia impegnato in qualche attività organizzata e che in tale attività organizzata l’azione di ciascuno richiami l’azione di tutti gli altri. Quello che chiamiamo ‘ragione’ emerge allorché uno degli organismi accoglie nella sua risposta l’atteggiamento degli altri organismi coinvolti. È possibile, così, per l’organismo assumere gli atteggiamenti del gruppo così che essi sono inglobati nella propria azione all’interno di questo complessivo processo di cooperazione. Quando fa questo, lo definiamo ‘essere razionale’... Se l’individuo è capace di assumere l’atteggiamento degli altri e controllare la sua azione mediante questi atteggiamenti, e controllare la loro azione mediante la sua propria, allora siamo di fronte a ciò che chiamiamo razionalità. La razionalità è tanto ampia quanto il gruppo coinvolto; e questo gruppo può essere, naturalmente, per funzioni e potenzialità, ampio quanto si vuole. Esso può comprendere tutti gli individui che parlano un medesimo linguaggio” (MEAD, 1967). Mead va avanti scrivendo della possibilità di un “sistema di comunicazione... teoricamente perfetto (in cui) l’individuo influenzerebbe se stesso come influenza gli altri in tutti i modi. Sarebbe l’ideale della comunicazione, un ideale raggiungibile col discorso logico dovunque esso sia compreso. Il significato di quello che viene detto è lo stesso per uno come per chiunque altro. Il discorso universale è, dunque, l’ideale formale della comunicazione” (Ibidem). L’apoteosi di questa “situazione comunicativa ideale”(H ABERMAS, 1974), è, per Mead, l’esperienza religiosa della “esaltazione... in cui l’Io e il Me possono fondersi in un atteggiamento religioso”(MEAD, 1967). Questo “atteggiamento religioso” è espresso in modo più elaborato nella filosofia dello stesso Peirce. Nel suo pensiero è una filosofia intesa nel senso tradizionale quella che offre una spiegazione integrata dell’essere umano all’interno di un cosmo giustificabile. La filosofia della religione di Peirce mostra con molta chiarezza la sua prospettiva. Mentre Mead considera la religione in senso durkheimiano come una sorta di auto-comprensione spirituale mediata dalla solidarietà comunitaria, e Dewey parlava di “una fede comune” come ispirazione immanente e secolare, Peirce vede nella “comunità della ricerca” l’agape cristiana come la manifestazione etica e religiosa della ricerca logica (W IENER, 1966:345). Per Peirce, la “religione dell’amore” era l’esercizio della ragione nella comunità. Egli respinse le concezioni della religione a lui contemporanee: il Trascendentalismo romantico (Emerson, Thoreau, Whitman), lo Spiritualismo (James) ed il Positivismo (Comte, Spencer). Al contrario, egli cercò di “...tenere aperta la possibilità di trovare una razionale riconciliazione tra scienza e valori religiosi in quanto espressione dei bisogni umani3. Mi pare che la peirceana filosofia della religione è il necessario corollario della sua epistemologia sociale, perché l’idea di Lipman della “comunità di ricerca” che deriva da Peirce, sembra implicare, nella sua ricerca sulla verità della situazione, il modello di una comunione di persone che si sviluppa eticamente e spiritualmente. E questo può essere considerato come l’ideale religioso di una sensibilità cristiana illuminata. Peirce scrive che “...credere nella legge dell’amore: questa è la fede cristiana, la religione dell’amore. Il suo ideale è che tutto il mondo dovrebbe essere unito nel vincolo del comune amore per Dio realizzato da ciascun uomo amando il suo prossimo. Senza una Chiesa la religione dell’amore può avere soltanto una esistenza rudimentale e una chiesa angusta, ristretta ed esclusiva è pressoché peggio che niente. È necessaria una grande Chiesa cattolica”(Ibidem). Peirce ha un’idea di Chiesa che includa tutti, perché “... tutti credono in qualche forma di religione dell’amore”(Ibidem). Prosegue pronunciando questa esortazione: “Cerchiamo di tenere insieme l’intero corpo di coloro che credono nella legge dell’amore in una solidale unità della coscienza. Disapprovare come immorali tutti i movimenti che esasperano le differenze o fanno sì che l’adesione dipenda da formule costruite per escludere alcuni cristiani dalla relazione con gli altri... la colpa è di chi insiste a tendere la corda delle chiese fino a chiuderle di fronte alla moltitudine degli uomini colti e capaci di pensare... certamente un’altra generazione vedrà la diffusione della riforma in questa direzione... la legge dell’amore non è la regola dell’insistenza irritata e opprimente... è importante accogliere nella nostra comunione d’amore pressoché l’intero contingente degli uomini che associano la luminosità del pensiero con l’integrità intellettuale... una organizzazione religiosa esiste per abbattere il principio dell’egoismo e far trionfare il principio dell’amore”(Ibidem). Questa lunga citazione mostra l’aspirazione di Peirce ad una riunificazione di scienza e religione in una comunità razionale della verità e dell’amore. Sarebbe difficile negare che questo è l’ideale dei molti esseri umani che riflettono ed è di particolare rilevanza in vista del prossimo millennio. Per alcuni, questa visione è un ideale regolativo nella misura in cui assegna a noi un ruolo nella cosmologia evolutiva di Peirce. L’“amore evolutivo” è fortemente contrapposto al darwinismo sociale e all’economia politica del laissez-faire, economia politica che egli definisce “Vangelo dell’avidità”. Al posto di questo spirito vittoriano, Peirce annuncia “...lo sviluppo della Ragione... l’ideale del mirabile. L’unica cosa la cui ammirevolezza non è dovuta ad un’altra ragione è la Ragione stessa”4. Da ciò Peirce deduce che: “...la condotta ideale sarà l’esecuzione delle nostre piccole funzioni nel creato dando una mano per rendere il mondo più ragionevole dovunque ciò dipenda da noi” 5. Sheriff (1994) commenta in questo modo: “In altri termini, il vero scopo di ogni condotta intenzionale (è) la sopravvivenza e l’ampliamento del pensiero razionale”. Questa razionalità è, eticamente, la disposizione comunicativa dell’apertura verso il prossimo, e, anzi, verso tutte le intelligenze. Scrivendo sulla personalità, Peirce notava che essa è: “... una qualche coordinazione e connessione di idee... coordinazione che implica una armonia teleologica di idee. Una teleologia evolutiva. Questo è il carattere personale” 6. Citando l’annuncio di S. Giovanni “Dio è Amore”, Peirce sostiene che questo “comporta che Dio ami tutti gli uomini” e che “è la formula di una filosofia evolutiva la quale insegna che la crescita deriva solo dall’amore... dall’ardente impulso di corrispondere all’impulso fortissimo di un altro” 7(W IENER, 1966). C’è qui una somiglianza col lavoro di Teilhard de Chardin che ha edificato un’altra teologia agapica del processo e della personalità. Ma, cosa dire di Dio? Peirce annuncia il fatto spesso riportato che “... quasi tutti più o meno credono...”8. Per lui, la fede in Dio è istintiva. Il suo argomento pragmaticista funziona: “la contemplazione e lo studio dell’universo psicofisico imbeve un uomo di regole di condotta analoghe all’influenza delle opere di un grande uomo o alle conversazioni, allora questo analogo di una mente è Dio”(Ibidem). Se non esiste questo Dio, allora “tutta la scienza fisica non è altro che la finzione della natura dello studioso”(Ibidem). Inoltre, il principio pragmaticista definisce la verità in termini di un qualche effetto sul comportamento, che trova soluzione nella “...lezione di Buddha, Confucio, Socrate, e di tutti coloro che da qualsiasi punto di vista ebbero i modi della loro condotta determinati dalla meditazione sull’universo fisico-chimico... e nel coraggio sovrumano dei preti che passano la loro vita in mezzo ai lebbrosi”(Ibidem). Per Peirce queste osservazioni richiedono che “la sola risposta... poggia sulla forza della passione dell’amore (e), per quanto riguarda Dio, apri i tuoi occhi ed il tuo cuore, che sono anche organi della percezione, e Lo vedrai”9. Un altro argomento di molto posteriore sull’esistenza di Dio si trova in A Neglected Argument for the Reality of God. Peirce prende le mosse dalla sua posizione pragmaticista sostenendo che “se Dio esiste, è buono e se la religione è il massimo bene, dovrebbe esserci un argomento accessibile a tutte le menti che è direttamente applicabile alla condotta di vita, ricco di nutrimento per la massima crescita dell’uomo” (Ibidem). Ora egli invoca il principio della “legge della libertà” (o “meditazione”) il quale è vicino alla nozione di “comunicazione illimitata”, ciò che Warnke attribuisce ai pensatori tedeschi contemporanei Apel e Habermas. Per Apel, secondo Warnke, la “comunicazione illimitata” è un ideale regolativo, mentre per Habermas essa caratterizza “la situazione ideale del parlare”. Entrambi i pensatori riconoscono la forza normativa e il potere di riferimento ad una comunità ideale che li collega direttamente al pensiero di Peirce e di Mead . Peirce intende la conversazione interna illimitata dell’immaginazione come un “vivo dare e prendere tra un sé ed un altro sé”, ossia una conversazione interna o una dialettica. In che relazione sta tutto questo con la fede in Dio? La risposta di Peirce è coerente con la sua (e di Lipman) nozione di libera ricerca: nel puro gioco della meditazione l’idea della realtà di Dio apparirà prima o poi sicuramente come un’attraente fantasia... più si riflette su di essa e più essa trova una risposta in ogni angolo della mente, per la sua bellezza, perché fornisce un ideale di vita, e per la sua piena e soddisfacente spiegazione di tutto il suo mondo”(W ARNKE, 1986). È caratteristico che Peirce avanzi un argomento estetico giacché egli considera l’estetica come “propedeutica” rispetto all’etica e alla logica. Dal momento che Peirce, il fondatore della semiotica, filosofo della scienza e logico, vede in un originario gioco di “sentimento” la nostra prima relazione con l’universo la cui stessa origine è nel sentimento diffuso di cui la materia è una forma degradata. Innanzitutto, l’interesse di questo argomento sta nel modo in cui esso interiorizza il libero gioco delle idee in una “comunità di ricerca” come libero gioco di fantasia o di conversazione interna. Questo sembra molto simile al modo in cui si sviluppa la mente dei bambini ed è, probabilmente, il motivo per cui Matthew Lipman ha fatto del racconto il centro dell’impresa della ricerca filosofica. Michael Oakeshott ha osservato che, quando noi filosofiamo, ci uniamo nella universale e storica conversazione dell’umanità. La teoria della conoscenza di Peirce è basata sull’idea che ciò che è vero si accorda con una opinione umana universale conseguita dopo che un tempo e una attenzione sufficienti siano stati dedicati al problema, tale che chiunque abbia un’opinione sull’argomento abbia potuto formularla ed esprimerla. In se stessa la verità non è un’“opinione” dipendente dalle singole opinioni di individui o di gruppi, dato che la verità non dipende da nessuna opinione espressa e sarebbe vera a prescindere da quello che ciascuno sostiene sulla sua verità. La teoria pragmaticista non è soggettivistica, ma mostra come la verità è conseguita discorsivamente mediante un’incessante conversazione, basata sulla speranza razionale che il risultato della libera ricerca sarà una soddisfazione intellettuale. Sembra che Peirce intenda che la struttura della realtà è tale che gli esseri umani scoprono la verità attraverso una comunicazione basata su una sincronia e una simmetria tra uomo e natura. La verità è concepita, pertanto, come il nodo della matrice che connette ciascuna e tutte le intelligenze a ciascuna e tutte le intelligenze. Senza il punto nodale o centro l’intera ragnatela o rete crollerebbe, ma ugualmente, il centro senza i raggi collasserebbe. Questa concezione della verità è in grado di fornire una “meditazione” all’interno della filosofia della religione. Tale immagine è di una verità umana che ha bisogno del sovra-umano per “regolare” la sua natura caleidoscopica, altrimenti tale umana verità non può presumere i suoi propri termini di equilibrio. Così scrisse Peirce nella sua Lettera a Lady Wellby del 14 Dicembre 1908: “Una opinione che non fosse falsa sarebbe un’opinione infallibile e l’infallibilità è un attributo della Divinità. Il frutto dell’albero della conoscenza, che, come Satana dice ad Adamo ed Eva, li avrebbe resi uguali a Dio, era precisamente la dottrina che questo è un qualche tipo di opinione Infallibile. Deve essere così, perché spesso questo è stato reso ancora più blasfemo dall’affermazione che l’opinione infallibile era un’opinione su Dio, il più imperscrutabile dei soggetti, e questo divenne il mezzo della corruzione della Cristianità fino a che la religione dell’amore fu confusa con l’odio teologico”(W IENER, 1966: 362). L’antidoto a buona parte del malessere della cultura contemporanea può ben essere posto nell’impegnarsi con Peirce per preservare quella “zona di verità” all’interno della quale una riunificazione di scienza e religione e una guarigione della nostra sensibilità spezzata può essere conseguita. Noi abbiamo la nostra parte da recitare e il programma per i ragazzi della ricerca filosofica di Matthew Lipman ci offre l’opportunità di farlo. NOTE (1) PEIRCE C. S., Che cos’è il Pragmatismo, in “The Monist”, 1905. Citato in W IENER, 1966. (2) PEIRCE C. S., Alcune conseguenze di quattro incapacità, in “Journal of Speculative Philosophy”, 1969. Citato in BUCHLER (1956). (3) PEIRCE C. S., What is Christian Faith?, in “Open Court”, Vol. 7, 1893, citato in W IENER (1966). (4) Citato in Sheriff, 1994. (5) Citato in Sheriff, 1994. (6) PEIRCE C. S., The Law of Mind. Citato in BUCHLER, 1956. (7) ‘A Neglected Argument for the Reality of God’, Hibbert Journal, Vol. 7, pp. 90-112, 1908. (8) PEIRCE C. S., The Manuscripts of 1896 and 1908. Citato in BUCHLER, 1956. (9) Citato in W IENER, 1966. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BUCHLER J. (a c. di) (1956), The Philosophy of C.S. Peirce, Routledge & Kegan Paul, London. DEWEY J. (1980), Theory of the Moral Life, Irbington. GEIGER G.R. (1964), John Dewey in Perspective: a re-assessment, McGrawHill, New York . JAMES W., (1976), Pragmatism, Dover, New York. HABERMAS J. (1974), The Theory of the Communicative Action. Vol. I, Heinemann, London . MEAD G. H. (1967), Mind, Self and Society, University of Chicago Press, Chicago . SHERIFF J. K. (1994), Charles Peirce’s Guess at the Riddle: grounds for human significance, Indiana University Press. W ARNKE G. (1986), Gadamer: hermeneutics, tradition and reason,. Polity Press London . W IENER P. P. (a c. di), (1966), Charles S. Peirce: selected writings (Values in a University of Change), Dover Publications, New York.