RENATA VITI CAVALIERE Croce e la storia del futuro (per un’ermeneutica del progresso) 1. Preliminari Croce redasse una vera e propria storia al futuro nelle pagine della sua celebre Storia d’Europa del 1932. Non si trattò di previsioni a lungo termine, in linea di principio vietate al filosofo il cui compito non voglia essere, come non deve essere, quello di stabilizzare o di garantire un determinato avvenire. Croce semmai indicava – come si legge nell’Epilogo dell’opera – vie utili da seguire per la coscienza del presente sulla base dell’interpretazione degli eventi in corso1. E tuttavia la prospettiva politica di un’Europa nuova, enunciata nel contesto storico di quegli anni bui e cruciali per il futuro dell’Occidente, appare ancor oggi, allo sguardo del giovane lettore, un esercizio assai più impegnativo della pratica di ogni corretta ermeneutica del presente. Il tema squisitamente teoretico che qui si vuole porre riguarda il problema del tempo interno alla conoscenza storica e la connessa idea di progresso sempre implicita nella riflessione sul futuro, contro certe derive identitarie e i furori apocalittici che per lo più attraversano ancora i nostri giorni. Valgano in prima istanza alcune precisazioni terminologiche. La storia futura non è la storia pensata al futuro. La prima è per dir così in mente dei, affidata alla sequenza dei fatti con il sensibile contributo della fortuna, della provvidenza anche solo laicamente intesa, del destino o del fato, intrecciato con la virtù degli individui coinvolti o per lo più soltanto travolti nelle circostanze. La storia pensata al futuro allude invece a ben altro rispetto ai timori o agli auspici pur legittimi dei contemporanei, senza peraltro incorrere nella discutibile “ideologia del presente”. Il futuro è a tutti gli effetti un tempo della storia vissuta nel pensiero, benché a ragion veduta neppure lo storico di professione si azzarderebbe a tracciare il B. CROCE, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), Laterza, Bari 1972; si veda l’edizione Adelphi cura di G. Galasso, Milano 1991. 1 Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 195-213 ISBN 978-88-548-6064-3 ISSN 1593-7178-00027 DOI 10.4399/978885486064313 195 Renata Viti Cavaliere 196 profilo di tempi a venire. E tuttavia non potrebbe vietarsi di nutrire in cuor suo speranze miste ad antiche paure non sempre suffragate dai fatti. Come si ricorderà, l’entusiasmo (ma ciò vale anche per un sentimento avverso) al cospetto di grandi eventi storici, rappresenta, nelle riflessioni kantiane sulla rivoluzione francese, non tanto il sentire immediato di chi osserva a distanza quanto l’espressione di un impegno morale a garanzia del futuro di quel movimento straordinario di popolo che ebbe così ampia risonanza e incidenza nelle vicende più prossime. E difatti il progresso – per insistere sulla puntualizzazione terminologica – contiene nel prefisso “pro” l’indicazione di un cammino “a favore” piuttosto che un andamento sempre migliorativo nella successione dei tempi. Si deve perciò ancora insistere sulle energie etico-politiche di coloro che saranno capaci di essere veramente contemporanei, e cioè spettatori non inerti, capaci di cogliere nel loro mondo “semplicemente” il preludio di un tempo non ancora accaduto. La distinzione di cui intendo servirmi va costruita in un certo senso a tavolino, vale cioè in teoria, dal momento che non è possibile rinvenirla nell’uso corrente (almeno nella nostra lingua) di parole come “futuro” e “avvenire”. Si può scegliere, come ha proposto recentemente un valente antropologo francese, di adottare il termine “futuro” per denominare il tempo individuale della vita, quello realissimo, concreto, riempito di desideri, affetti, aspettative, timori da ciascuno singolarmente percepiti. Dell’“avvenire” si parlerà, invece, secondo una consolidata tradizione politico-culturale, a proposito della collettività o del movimento complessivo della storia. Si ritiene infatti che l’avvenire riservi in segreto mète radiose oppure catastrofi imminenti, ma ciò accade per la verità solo nelle assai vaghe previsioni di ipotesi ideologicamente fondate2. Si chiede qui invece di tener distinto il tempo storico (della vita, della poesia, della capacità d’inizio) dai cosiddetti tempi della storia, epoche o periodi a larghi tratti descrivibili, quasi mai esenti dall’aggio che su di essi fanno le “grandi narrazioni” (utopiche, ideologiche) che finiscono per inibire l’avvento pur fortemente voluto di cambiamenti radicali3. Non stupisce inoltre che ancor oggi sia in uso la compilazione di trattatelli rivolti a descrivere in astratto 2 M. AUGÉ, Futuro, Bollati Boringhieri, Milano 2012. Nella lingua francese l’avenir richiama l’événement, l’evento storico. 3 Un personaggio del romanzo La condizione umana di André Malraux si chiedeva poco prima di morire: «perché dover lottare e sacrificare la propria vita se la vittoria è garantita in ogni caso dal movimento dialettico della storia?», vedi M. AUGÉ, Futuro, cit., p. 26. 197 Croce e la storia del futuro gli elementi fondamentali e strutturanti delle società umane nel corso dei tempi. Alla maniera delle antiche cosmogonie, essi stanno a garantire l’avvenire, nella presunzione assai fondata che si rinnnovi l’identico: all’ordine della pace seguirà il conflitto, all’ordine militare quello mercantile, e poi di nuovo guerre e periodi di ricostruzione, mentre rassicuranti miti magici o religiosi generosamente concedono, ma in via del tutto eccezionale, pause significative per rigogliose riprese d’azione. È innegabile che sbaglierà raramente la previsione dell’avvenire chi si diletta a intrecciare nel loro succedersi le strutture invarianti della storia. Né meraviglia che possano non di rado venir fuori, specie in età di crisi o di grandi rivolgimenti, i teorici della salvezza con parole che risuonano però stancamente pur nel doveroso appello alla civiltà, alla solidarietà, all’educazione, nel dichiarato e spesso solo annunciato richiamo a un nuovo umanesimo4. Sta di fatto che il nuovo non emerge per reazione meccanica in conseguenza di buoni discorsi o di prediche edificanti. Al tempo della vita si connette non per caso quel tempo, considerato inaugurale per definizione, che è il tempo della poesia. Mentre dunque l’avvenire resta campo privilegiato delle filosofie della storia e delle religioni con i loro miti dell’origine dei tempi in vista del tempo ultimo, il futuro, invece, appartiene gelosamente all’umana capacità d’inizio che smentisce positivamente, volta per volta, l’indifferenza per lo più dominante all’interno di collaudate forme impersonali di vita in comune. L’esistenza umana ha senza alcun dubbio bisogno di creazione, di cominciamenti, di inauguralità. Nelle arti, che rappresentano l’esempio più alto di quella vera e propria anticipazione del futuro in cui consiste la bellezza, accade che il non ancora si presenti come possibilità aperta, che il nascosto si mostri pur restando segreto, e che si realizzi puntualmente la trasfigurazione del reale nella prospettiva di nuove metamorfosi. Si vuol dire che nella lettere e 4 Mi riferisco al volumetto di J. ATTALI, Breve storia del futuro, Fazi, Roma 2007 e al recente libro di E. MORIN, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Raffaello Cortina, Roma 2012. Nel primo torna attuale l’analisi delle strutture della società umana nella sua storia; nel secondo il sociologo si preoccupa di formulare una serie di buoni propositi perché si possa immaginare un futuro migliore per la collettività. Quel che manca in queste indagini è il riferimento esplicito alla capacità d’inizio che appartiene soltanto agli individui. Può essere interessante, invece, la questione posta da P. SLOTERDIJK nel suo Devi cambiare la tua vita (Raffaello Cortina, Roma 2010) a favore di una immunologia universale, la quale, intersecando antropotecnica e filosofia della storia, induce a prendere misure di salvezza per l’esistenza futura di ognuno di noi. Renata Viti Cavaliere 198 nelle arti in generale prende valore il futuro perché nell’opera concreta ciascun artista infutura la propria finitezza, esponendosi all’evento dell’universale che così può riprendere nuova vita nel tratto di strada che allontana ogni volta la civiltà dall’incombente barbarie. Torna utile, a quanto pare, il pur rapido ricorso ad alcune note di estetica per rievocare il senso autentico della temporalità vissuta, così ben radicato nel tempo della poesia che è il tempo esemplare della vita nell’esperienza del bello ontologicamente coniugato al futuro5. Nella storia dell’arte si osserva infatti l’assenza di un progresso lineare e indefinito; e ciò è vero, perché il progresso spiana il cammino verso l’ignoto, mentre per lo più nelle moderne filosofie della storia si è preteso saldare il futuro al passato nella convinzione di poterlo in ogni modo determinare. In conclusione, il futuro escatologico, tipico delle grandi visioni della storia universale, benché sia gravido di senso, di attesa, di speranze, di timori, manca della cosa più importante, e cioè della fiducia necessaria nella possibilità di altri inizi che è il principale movente di quel tempo della vita con il quale si costruisce l’avvenire. Sulla base delle brevi premesse ora elencate, che non intendono riprodurre all’infinito il vecchio schema mentale del contraso tra idealismo e realismo, suggerisco di rivedere nelle sue articolazioni teoretiche il problema della conoscenza storica con l’attenzione rivolta al futuro. Tra passato e futuro non insiste, come comunemente si crede, l’istante inafferrabile del presente, in cui nostalgia e speranza tengono legati assieme sentimento e volontà. Presente è il nunc stans in cui consiste piuttosto una straordinaria potenza d’inizio (energheia che non è solo ergon, diceva Croce6) che è principio di liberà in quanto libertà di cominciamento, il tempo giusto (kairòs) in cui si interrompe il continuum temporale: qui ed ora, infatti, comincia ogni volta il tempo della vita che interseca il tempo della storia sino a consentire lunghi periodi di cristallizzazione dei significati. Il fatto storico, già ovviamente raccolto nei documenti d’archivio, non è semplicemente il risultato di un laborioso assemblaggio. Il fatto storico è il farsi della memoria, l’interpretazione che riempie di senso determinati contenuti, la letteralità vivificata dallo spirito di ricerca. Il futuro è perciò oggetto di una nostra costruzione in quanto storia che si fa, ma sempre nella convinzione che esso nasca nella frattura tra il già 5 Mi sono ispirata alle profonde analisi di R. ASSUNTO nel volume Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell’estetica, Bulzoni, Roma 1981. 6 B. CROCE, Storia d’Europa, cit., p. 232. 199 Croce e la storia del futuro compiuto e l’avvenire, in quanto emerge, senza alcun bisogno di roboanti annunci, dal vuoto di schemi imperativi e sempre là dove esistano condizioni favorevoli al nuovo che chiamiamo evento7. Ma su queste suggestioni si tornerà in conclusione del discorso. 2. A partire da una noterella filologica In aggiunta alle Considerazioni finali poste in chiusura della Storia come pensiero e come azione (1938) Croce redasse una breve noterella filologica ispirata a singolare prudenza nell’adozione del lessico sul tema della conoscenza storica. L’uso promiscuo – diceva – in italiano e nelle altre lingue della parola “storia” sia nel senso di “pensiero storico” sia nel senso di “fatti” o “azioni” compiute, ha dato lugo a frequenti bisticci se non addiruttura a sofismi dottrinali8. Il che si può evitare col distinguere “storiografia” da “storia”, com’egli per lo più aveva fatto nel corso dell’intera opera. E tuttavia sarebbe stato possibile stabilire quella differenza adoperando nell’un caso il termine “istoria” (premettendo una “i” per la verità soltanto fonica) e nell’altro, vale a dire per il riferimento al fatto narrato, la parola “storia”. Croce dichiara infine di non aver avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di quella innovazione linguistica che lasciava semmai ad altri patrocinatori, forse in un diverso contesto disciplinare. Ci si chiede, allora, perché rievocare l’antica disputa, svoltasi circa ottant’anni prima, sulla possibile (ma molto criticata) introduzione del termine “istoria”, se poi bastò attenersi prudentemente alla distinzione di storia e storiografia, che riprende la tradizionale distinzione di res gestae e historia rerum gestarum. La questione dell’uso linguistico sembrò dunque secondaria, o di scarso rilievo, rispetto al problema teorico già diffusamente affrontato nelle dense pagine del volume del ’38. Segno, tuttavia, della difficoltà di rendere senza equivoci terminologici l’importante tema della conoscenza del fatto storico, narrato e compreso 7 Rinvio al mio saggio dal titolo “Natus sum. Il concetto di “nascita” in filosofia”, nel volume Nascita e ri-nascita in filosofia, a cura di R. Viti Cavaliere e V. Sorge, La Scuola di Pitagora, Napoli 2011. 8 Cfr. B. CROCE, La storia come pensiero e come azione (1938), Laterza, Bari 1966 (edizione critica a cura di M. Conforti, nota di G. Sasso, Bibliopolis, Napoli 2002), pp. 315-316. Per la discussione accesasi in Toscana alcuni decenni prima Croce rinviava alla «Critica», XXXI (1939), p. 480. Renata Viti Cavaliere 200 secondo la sua genesi. L’istoria o storiografia, che è narrazione pensata del fatto, andava comunque distinta, nell’unità delle attività spirituali, dalla storia che si rinnova in virtù dell’agire individuale, che va a costituire altri intrecci per future narrazioni intelligenti delle situazioni storiche in sviluppo. Nell’Avvertenza alla prima edizione dell’opera qui esaminata Croce rinviava alle precedenti analisi svolte in Teoria e storia della storiografia (risalenti agli anni 1912-13) per sottolineare che altre considerazioni si erano via via aggiunte anche in occasione di nuove esperienze di vita. Si riferiva ovviamente all’esperienza storica dell’Italia e dell’Europa di quegli anni in cui sostanziali cambiamenti politici avevano fortemente inciso nella vita dei contemporanei. Insistere allora, com’egli volle fare, sulla particolare connessione di storiografia e azione pratica, sarebbe servito sia sul piano etico-politico sia sul piano logico-teoretico nel tentativo di dipanare il complicato processo del pensiero storico. Problema difficile, ne fu consapevole, al punto di aver provato per dir così un senso di vertigine, quasi che si fosse affacciato sul misterioso “regno delle Madri”9. Croce si servì di una splendida immagine faustiana per descrivere il compito della storiogafia nella sua genesi, se è vero ch’essa nasce dal profondo di un abisso, per un autentico bisogno di parlare ai contemporanei indipendentemente dalle sterili lotte di scuola tra dottrine o sistemi di pensiero. Dichiarava di non volere pertanto attaccare i nemici dello storicismo, ma di fatto ne tracciava il profilo stigmatizzando l’assoluto moralismo di chi colloca la vita etica fuori della storia allo scopo di poterne agevolare «la riverenza da lontano e l’inosservanza da vicino». Croce non dissimulava, pur con l’abile strategia retorica di chi nega per affermare, il suo fiero proposito di smascherare il nemico: vale a dire quei “moralisti” che in nome del passato soltanto, o del futuro astrattamente vagheggiato, idoleggiano il tempo stabile della conservazione senza progresso o dell’innovazione senza costrutto10. Sono loro, i moralisti in senso assoluto, incapaci di collegare il conoscere al fare, inadeguati a pensare per concetti nella spinta verso altri cambiamenti. La teoria della storiografia di Croce è incardinata nella logica del giudizio storico; nella logica della distinzione tra metodo classificatorio e metodo dialettico-speculativo, nella convinzione che non esistano due B. CROCE, “Avvertenza”, in Ivi, pp. 5-6. Il celebre discorso oxoniense del 1930, “Antistoricismo”, si trova in B. CROCE, Ultimi saggi, Laterza, Bari 1935, pp. 251-264. 9 10 201 Croce e la storia del futuro metodi del conoscere ma uno solo, che non è quello naturalistico, schematizzante e classificatorio, ma è quello che distingue affermando e negando nell’atto teoretico del giudicare. La storiografia è momento conoscitivo, un “fare teoretico”, contemplazione che però nasce dalle passioni e dagli interessi legati alla vita pratica. Nelle conclusioni della Storia come pensiero e come azione Croce si è espresso limpidamente con parole che vanno riportare per intero: …nella dottrina odierna non solo non si dà risalto all’importanza capitale, ma quasi non si ha sentore, del principio che la verità della storiografia non si fonda, secondo che ingenuamente credono i filologi, sul criterio del probabile o delle testimonianze credibili, ma sull’altro, affatto diverso, del suo generarsi dall’intimo dell’uomo, dell’uomo che è formazione storica, e come tale è quella storia stessa che per opera della mente indagante sale a storiografia11. In precedenza, all’interno della stessa opera, Croce aveva con altrettanta chiarezza escluso che si potesse tener separato il giudizio del fatto dalla conoscenza della sua genesi: Conoscere (giudicare) un fatto vale pensarlo nell’esser suo, e perciò nel suo nascere e svolgersi tra condizioni che a lor volta variano e si svolgono, non essendo altrove l’esser suo che nel suo corso e svolgimento di vita: e invano si tenterebbe di pensarlo fuori di questa vita, perché, a capo dello spasimo dell’impossibile sforzo, del fatto stesso non resterebbe neppure l’ombra12. Si negava, ricorrendo al contrasto tra possibile e impossibile, la separazione del giudizio dal fatto, quasi che si potesse esercitare, senza tema di arbitrio, una soggettività priva di riferimenti oggettivi, oppure una storia (meramente oggettiva) senza storicità, priva cioè dell’intelligenza della cosa stessa. Nelle considerazioni finali Croce traeva dall’insieme delle annotazioni sparse nei vari saggi che compongono il volume del ’38 una decisiva conclusione, sulla base anche dell’esperienza di storico già da tempo acquisita: 11 12 B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 299. Ivi, p. 138. Renata Viti Cavaliere 202 L’orrore lasciato dalla Filosofia della storia e dal suo astratto a priori ha portato non solo gli storici ma i filosofi a stringersi paurosamente alle testimonianze e ai documenti intesi come estrinseche testimonianze, e a non avvedersi della realtà del processo storiografico che, se non è astratta deduzione a priori, è certamente un’eduzione dal profondo, uno sbrogliare e chiarificare e qualificare il nostro ricordo di quel che facemmo nell’atto che lo facemmo, di quel che fece l’umanità che è in noi e di cui noi siamo costituiti, nell’atto che lo fece; il che, quando non ha luogo, neppure la storiografia ha luogo13. Non sfugge il tono inedito di questa definizione della storiografia che comunque torna a negare il valore di vecchie e nuove filosofie della storia, mantenendo parimenti a distanza ogni altro tentativo di attestarsi sul piano esclusivo della mera documentalità in ossequio al principio di antiquati oggettivismi o realismi14. L’“eduzione dal profondo” è espressione inconsueta nella scrittura crociana. Rievoca il passaggio dalla potenza all’atto tipica della più classica delle filosofie come quella tomistica. Rinnova, almeno in prima facie, un certo intimismo tipico della mentalità moderna. Ripropone, indubbiamente, il vichiano convergere del vero col fatto in cui consiste il conoscere storico che non è, e non può essere, un “relata referre”, come se la storia fosse semplicemente una “fable convenue” senza alcun fondamento di verità. Ora è ben chiaro che l’essenza della storiografia non sta fuori dello svolgimento dei fatti, neppure è tutt’uno con la necessità di procedere in una sola direzione: la verità del fatto sta nell’atto di ricordare che a sua volta nasce dal “profondo” a cui attinge il pensiero storico, che è sempre individuale, in vista della chiarificazione di un problema o interesse pratico che prelude all’azione. La conoscenza storica racconta paradossalmente un tempo a venire nella prospettiva del già accaduto secondo la piena consistenza del legame tra passato e futuro. Come la felicità è nell’attimo, così la verità storica vive nella conoscenza del singolo, dove il tutto è presente, diversamente dalla presunta ricomprensione del singolo nel tutto15. Ci si riferisce all’autentico tempo della storia che è perciò interno al pensiero, in quanto la storiografia è la storia dell’anima nostra, diceva Croce, che è Ivi, p. 299. Fu CARLO ANTONI nel suo Commento a Croce (Neri Pozza, Venezia, 1955) a parlare della logica di Croce come di “un nuovo realismo”: si riferiva alla realtà vivente delle forme spirituali che sono generatrici di nuove individualità, ossia di storia. 15 Cfr. B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, cit., p. 248. 13 14 203 Croce e la storia del futuro poi la storia stessa del mondo. L’atto dunque che temporalizza gli affetti e la ragione, stabilendo il valore di ogni cosa nel futuro, è il giudizio storico che legge caso per caso il possibile nel reale. Dal significato postumo rispetto agli eventi prende forza il giudizio pre-vidente, che non cede al dominio extratemporale del concetto. Accade così che un dramma morale ed esistenziale venga ad animare il pensiero storico, dando vita all’eterna genesi dell’attività giudicativa, vera e propria “eduzione del profondo” che peraltro è possibile riscontrare nel criterio partecipativo-selettivo che caratterizzò i saggi storiografici dello stesso Croce. 3. La “Storia d’Europa”, esempio di una storia del futuro Contravvenendo alla lettera del dettato crociano penso che si possa definire la Storia d’Europa una vera e propria storia del futuro. S’intende che bisogna escludere quella “storia del futuro” che i vecchi trattatisti definivano profezia e che offusca, piuttosto che schiarire, la luce di verità necessaria per l’azione individuale. Il libro del ’32, dedicato a Thomas Mann, ammirato dagli amici e sodali tedeschi, scritto nell’Italia fascista, mentre in Germania si preparava l’ascesa al potere di Hitler, aveva preso le mosse dal pathos profondamente vissuto dall’autore che lo indicò nella “trepidazione per la vita della libertà” e per gli ideali liberali che in maniera esangue sopravvivevano nell’intera Europa. Croce non volle ispirarsi alla pura nostalgia per il secolo precedente al suo, ma certo tenne fermo il legame “sentimentale” con quegli ideali di libertà da lui condivisi, che molto lo sostennero nell’intelligenza del suo recente passato. La parte narrativa del testo crociano, notevolmente ricca di dati e di annotazioni storiografiche, è come racchiusa all’interno di riflessioni che ne rappresentano corteccia e nocciolo, costituendo tipograficamente la premessa e l’epilogo del libro. L’Europa, dai movimenti del ’30, attraverso i progressi del moto liberale, fino al cambiamento dello spirito pubblico soprattutto in Germania, e all’affievolirsi degli ideali liberali alla vigilia della guerra mondiale (1914), viene concepita come un corpo solo, unito nelle differenze locali e nazionali, emblema della federazione di stati auspicata e immaginata contro ogni legittima previsione basata sulla vigente realtà di quei tempi. Benché il confronto tra la geografia politica dell’Europa prima e dopo la guerra mondiale del ’15-18 mostrasse piuttosto l’aprirsi di una voragine tra mondi contrapposti, il filosofo si Renata Viti Cavaliere 204 impegnò a stabilire la continuità tra le due Europe pur senza nascondersi le gravi conseguenze della tragedia bellica che lasciava dietro di sé condizioni spirituali degradate se non mai del tutto vinte dalla nuova barbarie. Cosa restava degli antichi ideali liberali? Per la verità assai poco negli animi dei contemporanei. E Croce elencava gli umori del presente attaversato da moti di libertarismo attivistico o da rinnovati impeti irrazionalistici e misticistici, mentre da più parti tornavano di moda le tesi sulla fine dell’Occidente per l’imbestialirsi della natura umana nella previsione coerente dei profeti di sventura. Tutto questo, diceva Croce, sarà oggetto dello storico futuro quando matureranno i tempi e saranno portate ad effetto le istanze in essi contenute. L’avvenire pensato da Croce tanto poco fu foriero di effettualità storica, che proprio nulla dei suoi auspici europeistici sarebbe comparso di lì a poco all’orizzonte della realtà dei fatti. Neppure le grandi menti del tempo, pensatori e scienziati, previdero ai primi anni trenta del ventesimo secolo il dispiegamento di un certo futuro. Si dirà che nell’ottica crociana l’ideale della libertà aveva per sè in serbo assai più dell’avvenire perché destinato a guadagnarsi l’eterno16. Ma sarebbe un fraintendimento del pensiero di Croce voler scindere l’assoluto dal relativo, il tempo umano dalla fissità di lumi perenni. La libertà è un primum incondizionato che non ha nulla a che vedere con la trascendenza oltremondana; essa è il motore interno al formarsi storico delle istituzioni e dei processi politici. Sempre incarnata, la libertà ha operato come forza viva e sorgiva nell’animo degli intelletti migliori che nel secolo diciannovesimo costruirono i pilastri del movimento liberale. Nel Soliloquio di un vecchio filosofo Croce così formulava il suo pensiero: Così la libertà è andata e andrà ancora incontro a tempi di avversione, di disconoscimento, di persecuzione; nondimeno essa vive in chi l’ama, vive e opera nel raggio d’azione nel quale le è dato muoversi e che essa tende ad ampliare, e di quanto accade fuori o contro di lei si rende chiaro noto, perché accaduto” che sia, e da lei pensato e giudicato, è “caduto” tra i presupposti della sua azione17. Collocata tra i presupposti dell’agire politico la libertà è visibile anche nell’eclissi che nasconde la luce di verità che in lei si esprime. Ma a quale Celebre questo passaggio della Storia d’Europa, cit., p. 313 (Epilogo). B. CROCE, “Soliloquio di un vecchio filosofo” (1942), in ID., Discorsi di varia filosofia (1945), Laterza, Bari 1959, vol. II, p. 298. 16 17 205 Croce e la storia del futuro verità si allude e come essa si mostra? L’ideale della libertà, colto ora nella grande filosofia dell’Ottocento, romantica e idealistica, è lo stesso che fu messo alla prova dalla filosofia sin dall’inizio della sua storia, come radice ultima di un sentimento di provenienza comune che approdò sulle rive della cultura greca, latina, araba, moderna. Croce pensava all’Europa come ad una lingua originaria, parlata a lungo nelle filosofie di ogni tempo, coltivata nella riflessione di chi impegna il presente nella prefigurazione di altri mondi possibili. La verità della filosofia è infatti krinein, capacità di distinzione e sforzo di discernimento, il rifiuto a seguire comandi o a stabilire regole da imporre sulla vita o sulle menti in nome della più rassicurante necessità. La filosofia tradizionalmente getta luce di verità sul futuro: Per intanto, già in ogni parte d’Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità (perché […] le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche); e a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate18. Scritte nei primi anni Trenta, queste parole paiono intonate più al sogno che alla profezia. Sono parole teoreticamente rilevanti benché storicamente ineffettuali. Il processo di unione europea, in cui si confida, contrastava palesemente con i nazionalismi in atto, mentre l’ideale europeistico non parve allora, né sembra oggi, il progetto di un visionario. Mai filosofo fu più realista e concreto nella previsione dell’impegno politico che avrebbero assunto le future generazioni. I fatti di lì a poco deflagrarono, sulla china di un vero baratro, pur conservando nel profondo l’incentivo a superarli in virtù della eredità mantenuta. È perciò fuori tema, sbilanciato e sbilenco rispetto all’opera crociana, il proposito di mera restaurazione nel nuovo secolo degli ideali liberali dell’Ottocento, frutto di esperienze diverse nate in altri contesti storici. Nuovi temi, sociali, scientifici, pratici, avrebbero caratterizzato in seguito il confronto delle idee, impedendo al filosofo di scandire i tempi come provvisori 18 B. CROCE, Storia d’Europa, cit., pp. 314-315. Renata Viti Cavaliere 206 momenti di passaggio o dolorose parentesi culturali e politiche. Restavano tuttavia a salvaguardia del sapere storico, che è narrazione intelligente degli eventi, alcuni concetti di durata illimitata che avrebbero a lungo conferito possibilità al senso delle cose passate. Valga ad esempio il concetto di nazione che è “nascita” di nuove formazioni storiche e non già il dato naturalistico di sangue e di suolo che contraddistingue le politiche identitarie i nazionalismi di ogni epoca. Allo stesso modo diviene in qualità di flusso dei significati l’universale della comunità umana composta di esseri razionali che sono anch’essi dentro forme transeunti della realtà in movimento. Ciò vale anche per il concetto di verità che cresce tra soggetti pensanti, senzienti, agenti, rigettando la regola imposta per decreto divino. Sbagliò chi credette di leggere nella Storia d’Europa il profilo astratto o addirittura sovratemporale del mondo ottocentesco; si illuse chi intravide nelle parole crociane l’ottimismo tipico di un certo storicismo metafisico. L’Europa filosofica di cui parlava Croce era nata per meticciato da molte culture e da notevoli differenze religiose e politiche. Era perciò divenuta il simbolo dell’unita-distinzione che è il segno più proprio della filosofia dello spirito vivente. Neppure sarebbe corretto collocare la filosofia di Croce soltanto sotto la voce “storicismo”, senza il chiarimento necessario del nesso temporale di storia e verità. Ritornano nelle pagine della Storia d’Europa le stesse veementi invettive contro i nemici del pensiero storico pronunciate nel discorso oxoniense di qualche anno addietro. Il sentimento antistorico che allora circolava diffusamente in occidente era nato non per caso dal venir meno del concetto stesso di storicità che per principio esclude dogmi o principi assoluti. I nemici del pensiero storico sono essi i veri miscredenti, irreligiosi e atei, rispetto al compito dell’Europa che rappresenta in spirito la religione della libertà da Croce invocata nel celebre primo capitolo del libro del ’32. Passatisti e progressisti sono coloro che inneggiano a un passato mummificato per un verso, o, per l’altro verso, si avviano con l’impeto di una totale impreparazione incontro al nuovo più di moda. L’attacco era pur rivolto ai “futuristi” che nella letteratura e nelle arti si qualificavano allegri distruttori, non solo metaforicamente, di monumenti e archivi in nome della corsa all’inedito e all’imprevisto. Sennonché, pur ventilando una storia futura, essi finivano per rifiutare l’idea che la storicità fosse il regno del contingente mostrando la tendenza a trarsi fuori del movimento, pur così decantato, stabilendo regole che negano la concorrenza e la lotta. Una propensione al potere per il potere unito alla ripresa di modelli e canoni accademici indusse molti dei 207 Croce e la storia del futuro cosiddetti futuristi a chiudersi in pratica la via per la formazione del nuovo e del diverso. Parimenti gli storicisti chiusi nelle catene del loro passato riverivano la tradizione morta che non dà più spazio al futuro. Il pensiero anti-storico, allora dilagante, parve a Croce il segno di un impoverimento mentale, di debolezza morale, rinuncia all’abito dello spirito critico, energia senza sostanza o, al contrario, principio di autorità senza capacità d’inizio. Esso fu soprattutto un significativo allarme del regresso spirituale dell’Europa tutta, che negava il più proprio della sua millenaria identità. Scriveva Croce con estrema chiarezza: È evidente che il sentimento storico coincide col sentimento europeo in quanto nell’Europa si concentra la più ricca e nobile storia umana, l’Europa ha prodotto l’ideale libertà e ha tolto su di sé la missione della civiltà del mondo tutto, e non v’ha in Europa storia di singoli popoli e stati che possa intendersi separatamente, fuori della vita generale dell’organismo di cui sono membra […]. Sradicarsi dall’Europa dopo essersi sradicati dalla storia è, di certo, proposito affatto coerente; ma di quella coerenza che si ammira nei pazzi che a lor modo ragionano 19. Per i filosofi dunque storicità vuol dire civiltà e cultura, e il sentimento storico è il sentimento della libertà che è fonte di ogni progresso. Questa è la sola e più alta religione che ci resti. Nel corso del secolo decimonono era tornata viva, forse con più frequenza che non prima, la memoria di sofferte battaglie per la liberazione da vincoli e domini. Questo bisogno comparve ogni volta forte e prepotente nella speranza di affrancarsi dallo straniero, nella decisione di allargare il suffragio elettorale, nei nascenti costuzionalismi contro l’assolutismo monarchico, nell’apertura a strati sociali prima trascurati, nelle lettere e nella poesia come nelle scienze più moderne e innovative. Non era stato forse lo spirito libero quella luce di verità che aveva spianato l’avvenire e guidato alla costruzione del futuro? In termini filosofici ciò aveva rappresentato la fine dei dualismi di cielo e terra, di cultura e natura, di spirito e materia, mentre si affermava la convinzione che la storia non è alla mercé di forze cieche o estranee allo spirito umano. Convinzione che non avrebbe tradotto in idillio la tragedia della storia, che certo non appronta nella sua immanenza vittorie definitive sul male e sull’ignoranza. Croce raccoglieva così nell’ideale liberale che è ideale morale, e che aveva 19 Cfr. B. CROCE, “Antistoricismo”, cit., p. 260. Renata Viti Cavaliere 208 trovato incremento nel secolo precedente, la possibilità di sostenere nel pensiero il metodo consono all’esercizio della critica e della distinzione. La storia del futuro prese infine forma non già di utopia vagheggiata in difformità al mondo presente, ma di criterio efficace, propositivo, del giudizo storico individuale, che alimenta con forza propulsiva la nuova azione, indirizzandola a un bene più alto. Croce, per dir meglio, piantò nel corpo spiritualizzato della storia umana il perno della sua sopravvivenza che è tutt’uno con la civiltà, la cui fine, non auspicata né mai possibile, costituirebbe il segno della conclusione dei tempi20. “Il secol che si rinnova” con l’avvento della terza età dello Spirito, propugnata nel dodicesimo secolo da Gioacchino da Fiore, compare per incidens nella conclusione del capitolo sulla “religione della libertà”21. Ma è ben fondato il sospetto che Croce volesse ironizzare per contrasto sul novus dux che taluni cattolici vollero veder incarnato nel capo del fascismo italiano. All’idea escatologica della fine del tempo Croce allora opponeva l’idea di un cammino infinito, di un futuro che all’infinito chiede ai contemporanei di essere messo in moto in virtù dell’idea di libertà che per definizione lascia aperta la possibilità di numerosi cambiamenti. Il metodo liberale, che è metodo di conoscenza, di comportamento politico e di relazioni interpersonali, viene solitamente attribuito alla figura del “profeta disarmato”, a sottolinearne il carattere mite, la disposizione all’ascolto, la possibilità di imparare dagli avversari. E tuttavia in suo nome si sono combattute le più aspre battaglie con lietezza e sacrificio. Quando cominciò ad affievolirsi in Europa la fonte che ne aveva alimentato la pratica, a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento, in virtù di idee miranti a screditare la natura umana (naturalismo, razzismo, un certo darwinismo, determinismi storici e così via), assolutismi e dispotismi fecero il loro ingresso nella cultura deprivata via via del sostegno dello spirito vivente. Furono questi segnali di arresto o regresso, diceva Croce, che, se indicarono il venir meno di un ergon, non potettero esaurire il potenziale di quella energheia che è inscritta nella condizione umana22. All’indomani della seconda guerra mondiale Croce volle esprimersi intorno alle previsioni apocalittiche e all’inquietante prospettiva di una fine della civiltà europea. Può accadere che un mondo finisca, diceva, ma non finirà la civiltà se sopravvive l’eterna forza dello spirito immortale. Pensava al principio di vita che è attività, inauguralità, inizio. Cfr. B. CROCE, La fine della civiltà, in ID., Filosofia e storiografia (1948), a cura di S. Maschietti, Bibliopolis, Napoli 2005, pp. 283-291. 21 Cfr. B. CROCE, Storia d’Europa, cit., p. 21. 22 Ivi, p. 232. 20 209 Croce e la storia del futuro A Thomas Mann Croce dedicò la Storia d’Europa e dovette sentire di lì a poco affini al suo sentire i moniti del grande scrittore contro il fanatismo, l’intolleranza, l’illibertà dei tempi23. Una nuova umanità si auspicava da più parti che nascesse in quegli anni bui attraversati da impeti antiumanistici. Croce per la verità non credeva nell’esistenza di un’umanità migliore, ma ebbe chiara l’idea che alla radice della cultura europea dovesse essere rinvenuto il principio dell’umanesimo che ha avuto una sua grande stagione storica e che possiede per dir così un’anima immortale: la ragione cosciente di sé (Hegel), la ragione (di ascendenza socratica) che discerne e comprende senza astrattismi di maniera, la cultura che è confronto tra diversi. Storia e verità si intrecciano allo stesso modo in cui le appartenenze locali si intersecano tra loro e rifluiscono nella patria universale dello spirito umano. Queste considerazioni ebbero voce assai significativa negli ultimi scritti di Edmund Husserl, dove si descrive la visione di una lotta senza quartiere tra lo spirito filosofico e la barbarie, tra molte perdite reali e grandi vittorie ancora possibili: Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, da “buoni europei” con quella fortezza d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno. Allora dall’incendio che distruggerà la miscredenza […] dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale24. Si ha l’impressione che Croce e Husserl, in particolar modo negli anni trenta del secolo scorso, abbiano scritto su questi temi muovendo già da un remoto futuro, a cui non intesero però in alcun modo sovrapporre il piano metastorico di immagini utopiche o apocalittiche. 4. Ermeneutica dell’idea di progresso Il tema del progresso, tipico delle conversazioni che Croce definiva “discorsi del tempo” intorno all’avvenire del mondo, acquista significato TH. MANN, Scritti storici e politici, Mondadori, Milano 1957. E. HUSSERL, “La crisi dell’umanità europea e la filosofia” in ID., Crisi e rinascita della cultura europea, a cura di R. Cristin, Marsilio, Venezia 1999, p. 92. 23 24 Renata Viti Cavaliere 210 nuovo e nuova energia sempre che, sottratto alle aspettative della collettività, torna ad avere dimora nell’animo di chi procede a favore di un ideale liberale di vita e di azione. In quest’ottica anche l’idea d’Europa, così intrinsecamentre legata all’idea di libertà e alla storia nel suo libero sviluppo, è stata e può essere ancora norma di comportamento politico ed etico. Altra cosa sarebbe teorizzare astrattamente l’incidenza delle idee, o dell’ideale europeistico, nella modificazione della realtà. Un’idea come quella di progresso, sulla quale oramai pochi o nessuno punterebbero l’attenzione tanto è andata screditandosi nel corso del Novecento (né oggi può dirsi che goda di miglior fama), riprende vigore se ripensata insieme con il tempo della vita che ha nel futuro il suo vero punto d’inizio. Al futuro si pensa non soltanto in vista di una rassicurante previdenza degli ostacoli o dei vantaggi possibili (lasciamo questo compito agli enti assicurativi): il futuro è componente essenziale del pensare tra presente e passato. In tal modo l’idea di progresso è indizio di capacità interpretativa del già stato e sprone per possibilità di cambiamento rispetto al non ancora accaduto. Essa non è dunque una categoria da applicare ai fatti storici, ma è il farsi stesso dello sviluppo delle situazioni in cui è necessario prendere posto, e ciò riguarda quell’andare avanti in favore di qualcosa, senza voler soltanto percorrere strade tracciate in prosecuzione dell’esistente. Il progresso è la molla dell’agire e la consapevolezza di poter cominciare un processo mai prima iniziato, espressione della spontaneità e della causalità libera in cui consiste il vivere secondo ragione. Altra accezione ha avuto il progresso a partire dall’età moderna. Rimasto a lungo fuori dell’esercizio conoscitivo e pratico del giudizio storico, il progresso è stato per lo più collegato a fedi o a miti religiosi che hanno scavalcato di molto la sequenza temporale per approdare al raggiungimento finale di uno scopo potenzialmente molto circoscritto. Si è così legato a realtà immaginarie piuttosto stabili, anzi stabilizzate per ordine divino, ferme come motori immobili per secolari aspirazioni al compimento ultimo. Previsioni storiche ne derivarono immancabilmente, previsioni di tono apocalittico, perché rivelatrici del volere di un ente supremo. Scriveva Croce nei paralipomeni alla storia degli anni Quaranta: L’importanza di queste credenze sta in ciò: che la fede che le animava era veramente sostanza di cose sperate, ipostasi immaginosa di aspirazioni dell’anima umana alla pace, alla purità, alla giustizia, alla bontà: aspirazioni le quali, non perché si presentavano in quella forma utopica non operavano 211 Croce e la storia del futuro nel campo dei fatti, dove si può dire che sovente guadagnassero in efficacia quanto avevano perduto nel campo del vero25. Benché di scarso valore filosofico le utopie storico-religiose hanno accompagnato intimamente intere generazioni che vissero e si nutrirono di attese millenaristiche. Analogamente le previsioni basate sulla mera empirìa, in conseguenza del progredire delle scienze e delle tecniche, hanno suscitato iniziative feconde incrementando il cammino dei saperi. Va perciò distinto il progresso come stato d’animo dal progresso come concetto filosofico. Nei pensieri intorno al progresso, all’indomani dello scoppio della prima guerra mondiale, la sconfessione della fede in un garantito andamento verso il meglio non potette essere più radicale. Si passò dalla fiducia negli avanzamenti della cultura al pessimismo più nero: quasi che tutte le Furie si fossero abbattute sul mondo offrendo orrori superiori a quelli delle età barbariche, anche per i mezzi tecnici messi ora a disposizione. Alla speranza seguì la paura, il terrore, per un avvenire neppure più intravedibile in seguito alla avvenuta “fine della civiltà”. La delusione comportò un pessimismo morale ben più grave delle facili illusioni dei fautori del progresso lineare e indefinito sostenuto da illuministi e scientisti postmoderni. Croce traeva dallo spettacolo della storia, che è sempre storia di progressi e regressi, mai definitivi, la conclusione filosofica: Il progresso non è altro che il ritmo dello spirito stesso, col quale soltanto si può interpretare e intendere la storia, e verso il quale soltanto si può e si deve indirizzare la vita morale26. Il progresso suscita dunque opposti stati d’animo, entrambi efficaci per la vita a seconda dei casi particolari: talvolta occorre che prevalga la credenza nel meglio altre volte è opportuna la convinzione che si viva in un clima di conclamata decadenza. E tuttavia sono proprio i moti del sentimento che nella metodologia della conoscenza storica colorano il tempo della vita intrecciato al tempo della storia. Perché ciò avvenga è importante tradurre la nozione di progresso nell’ambito dell’analisi B. CROCE, “Previsioni e apocalissi”, in ID., Il carattere della filosofia moderna (1940), a cura di M. Mastrogregori, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 189. 26 B. CROCE, “Il progresso come stato d’animo e il progresso come concetto filosofico”, in ID., Filosofia e storiografia, cit., p. 302. 25 Renata Viti Cavaliere 212 soggettiva del futuro. Al timore e alla speranza, prima descritti, si sostituirà allora la passione che accompagna il comprendere (il piacere dell’imparare o del capire) tanto più profondo quanto più si sarà stati in grado di inoltrare lo sguardo nella protensione verso il futuro, che è amore (eros) nel senso di ricerca di possibili nuovi significati. Nella Filosofia della pratica Croce aveva ben descritto il carattere esplorativo e meditativo della percezione dei fatti in vista dell’agire “politico”. L’iniziativa che muove all’azione e che ha ispirato la conoscenza stessa è volontà di cambiamento prima di essere volizione particolare in collaborazione con altri soggenti che vogliono, amano, agiscono. Ciò vuol dire che non si mettono in opera astratti progetti lungamente disegnati dalla mente, ma si sceglie per una decisione che è pro-gresso nella prospettiva volta per volta individuata. [La decisione] cangia a ogni attimo; come cangia ad ogni attimo il movimento del nuotatore o dell’atleta, secondo il moto del mare o dell’atleta avversario e secondo la variante misura o qualità delle proprie forze nel corso del processo volitivo27. Quel problema storico che secondo Croce muove a conoscere il passato, rendendo contemporanea ogni vera storiografia, è il giudizio del futuro, la capacità di aggiungere pagine nuove che sono per definizione avanzamenti anche se comportano qualche stasi o sensibili passi indietro. Nella sua Teoria della previsione Raffaello Franchini così rappresentava il progresso, che è l’essenza temporalizzatrice della condizione umana e l’impegno etico-politico di ciascuno: Ogni atto del vivere è un superare o tentare di superare il rischio del futuro, contro il quale non esiste altra assicurazione che la nostra buona volontà, l’impegno che noi siamo in grado di mettere all’opera, la bontà e la tempestività delle nostre decisioni28. In conclusione si può ipotizzare una storia del futuro solo a patto ch’essa si attenga alla realtà di un antico compito filosofico: far accadere il 27 Cfr. B. CROCE, Filosofia della pratica (1909), edizione critica a cura di M. Tarantino, nota di G. Sasso, 2 voll., Bibliopolis, Napoli 1996, p. 51. 28 Cfr. R. FRANCHINI, Teoria della previsione (1964), Giannini, Napoli, 19722, p. 116. Se ne veda la ristampa a cura di G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando Siciliano editore, Messina 2001. 213 Croce e la storia del futuro logos che non è semplicemente al principio di tutte le cose, ma è principio in quanto “nascita” dell’essere che chiamiamo ragione29. Abstract Croce drew up a true "history of the future" in the pages of the famous History of Europe in 1932. It was not long-term forecasts, which are prohibited by the philosopher whose task is not to stabilize or to secure the future. He gave rather - as we read in the Epilogue of the work - the details useful way forward to present consciousness on the basis of the interpretation of current events. And yet the political perspective of a united Europe, stated in the historical context of the time crucial to the future of the West, it is still the look of the new player much more peaceful outcome of the exercise of proper hermeneutics. The purely theoretical problem here that you want to put in their conception "historicist" progress in thinking about the future, against the excesses of identity and apocalyptic fury crossing our time. Rinvio a tema trattato nel volume, già ricordato, su Nascita e ri-nascita in filosofia, dove in un incontro a più voci si avvia l’analisi della categoria della natalità muovendo dall’antico significato di “generatività” dell’essere, in una sorta di aggiornata ontologia del cominciamento. 29