SOCIETA` DELL` EVENTO

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Bruno Sanguanini
SOCIETA’ DELL’ EVENTO
Tra Modernità, Postmodernismo, Globalizzazione, Realismo
Glocale
1.a Edizione 2012. Su carta solo a richiesta
Info: [email protected]
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III. CULTURE DELL'EVENTO E POSTMODERNISMO
1. Introduzione
Dalle pagine di questo terzo Capitolo mi attendo qualcosa di
originale. La questione delle “culture dell’evento” sarà affrontata facendo
precipuo riferimento alle manifestazioni ed ai fenomeni che
contraddistinguono l’epoca del “Postmodernismo” (Postmodernism). Già
sappiamo che con questo termine, da taluni particolarmente amato e da
non pochi oltremodo disprezzato, ci riferiamo tutti al quarantennio che
intercorre dagli inizi degli anni ’70 del secolo scorso alla fine del primo
decennio del secolo XXI.
Propongo qui di esaminare alcuni dei prodotti e degli artefatti che la
società contemporanea associa alla “cultura dell’evento”. Mi riferisco in
particolare alle grandi manifestazioni della politica, della cultura, della
religione, dello spettacolo, delle innovazioni tecnologiche, dello sport, del
costume collettivo, e ovviamente delle catastrofi naturali, che secondo i
sistemi dei media sono i “grandi eventi” della nostra epoca.
Scopriremo così che a parlare di “eventi” sono prima i media, poi le
istituzioni, infine ciascuno di noi. Cosicché anche le istituzioni, per
inverarsi come tali, tendono ad agire come “tecnologie dell’evento”. In
che maniera? Avvalendosi dei “Culturali”. Di seguito propongo sei
paragrafi.
Il secondo paragrafo presenta un’articolata ma sintetica trattazione
circa i saperi sull’evento. Sul fronte dei classici incontreremo le ‘voci’ di
Vico, Schiller, Hegel, Marx, Simmel, e altri grandi autori del pensiero
occidentale, senza fare eccessive distinzioni tra filosofi e letterati,
economisti e sociologi. Sul fronte dei moderni e dei contemporanei
scoprire le pagine di scienziati sociali del calibro di Comte, Durkhèim,
Cooley, Weber, Parsons, Giddens, ecc., senza fare alcuna distinzione sulla
base delle appartenenze linguistico-nazionali.
Il terzo paragrafo offre una rassegna delle teorie dell’evento più
recenti e significative. A partire dal pionieristico dibattito provocato, allo
scadere degli anni Sessanta, da Edgar Morin, sociologo. La ripresa, a
qualche anno di distanza, della questione da parte del filosofo Jacques
Derrida ci permette la messa a punto dei concetti.
Il quarto paragrafo avanza le prime definizioni di “società
dell’evento”. Punto di attracco è la distinzione tra eventi dal vivo e eventi
mediali – generati dai media – o eventi mediatizzati – ideati in arene dal
vivo ma riprodotti e diffusi anche via media.
Di seguito troveremo esplicitata prima la teoria degli pseudo-eventi,
quindi anche degli eventi mancati o dei quasi-eventi (quasi-event). Il
ricorso a diversi ‘casi’ esemplificativi ci faciliterà il compito. A seguire,
ri-scopriremo la ben nota teoria dei “great events”, altrimenti nota come
la teoria della “cerimonia dei media”. La spiegheremo ricorrendo a più di
un ‘esempio’ ma anche a qualche spunto critico.
Questa prima tipologia suggerisce al sociologo di elaborare una neodistinzione. Classificare come eventi mediali (event-media) gli eventi che
i media riprendono dalla realtà. In parallelo, classificare come eventi
mediatici o eventi mediaticizzati (media-event) gli eventi che divengono
tali a partire dalla fabbrica dei media.
Il quinto paragrafo ci introduce ad un ulteriore livello di
approfondimento. Chiamando in causa la classica distinzione tra le scale
di realtà, analizza le caratteristiche sia dei macro-eventi che dei microeventi. A sostegno di questa posizione troveremo l’analisi condotta –
pressoché in tempo reale – sui ‘casi’ dei funerali di Lady Diana
principessa del Galles, madre Teresa di Calcutta, lo stilista Gianni
Versace.
Il sesto ed ultimo paragrafo esamina la moda dei Mega-eventi. Parlo
di “moda” dal momento che da diverso tempo i media di ogni genere
chiamano “mega” qualsiasi tipo di evento (politico, sportivo, religioso,
culturale, ecc.) che occupa l’Agenda di diversi media per almeno qualche
giorno. Con la grandezza di tipo “mega” i media designare gli eventi che
hanno sì grandi dimensioni, ma vivono di spot per un tempo limitato ed
hanno un carattere ibrido, ovvero sono un pastice di politica, cultura,
spettacolo, ecc.
Nel complesso, scopriremo due novità. In primo luogo, una tipologia
sociologica delle “culture” dell’evento. In secondo luogo, la connessione
tra gli eventi ed i sistemi sociali che stanno trasformandosi in qualcosa di
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più complesso, caotico, immateriale, rischioso, liquido, vischioso,
glocalizzato.
2. Quando la società tende alla cultura dell'evento
Che cosa succede nella realtà quando il suo focus è la società? In che
cosa consiste ciò che chiamiamo “società”? Con le poche pagine di questo
paragrafo mi propongo di introdurre il lettore non accademico alla scoperta
dei primi lineamenti del lavoro sociologico. Per questo interrogo con
strumenti elementari una delle questioni basilari della sociologia: la società.
Il termine “società” non è di recente conio: è in uso da circa due
millenni. Molti dei concetti del passato sono ancora vivi, anche se la
modernità ne ha resi obsoleti taluni e adottato non pochi tra quelli che hanno
conservato una qualche validità empirica. (Gallino, 1983: 620) Come si parla
di “società”?
Napoli, tra la fine del secolo XVII e l’inizio del secolo successivo, è una
città-metropoli e tra le capitali del mercantilismo europeo. Qui, Giambattista
Vico, filosofo, noto soprattutto per l’opera “Principi di Scienza Nuova”,
rilegge il diritto romano antico nella prospettiva sia delle origini della
Repubblica che del successivo cosmopolitismo dell’Impero, ricorrendo ad un
metodo che rende la sua riflessione un prodromo della teoria sociale
dell’autorità, del potere, del diritto istituzionale, del rapporto tra le scienze e
le arti, del lavoro intellettuale.
Nell’Orazione III, risalente al 1701, il filosofo partenopeo gettò le basi
della sua concezione della “società”. “Grandissima e potentissima è quella
forza insita nell’animo degli uomini che li spinge a consociarsi ed unirsi
l’uno con l’altro; cosicché non esiste nessuno tanto scellerato, …, che non
conservi ed alimenti, …, una qualche particella di giustizia per la
conservazione della società”. (Vico, 1971: 734)
E prosegue: “Ad un socio – il latino socius, da cui societas: nota mia –
la legge prescrive di portare alla comunità un bene o un lavoro. Pertanto
come gli uomini sono accomunati dalla ragione, i popoli dalla lingua, i
cittadini dallo stato, gli appartenenti alla gens dal nomen, i parenti dal
sangue, i mercanti dal mestiere lucrativo, così è necessaria che l’attività
erudita unisca quelli che professano le arti liberali e l’indagine della natura i
filosofi.” (Cit.: 736) E conclude:
“Comportiamoci dunque nella società letteraria scacciandone ogni slealtà;
ascriviamo a loro merito le virtù degli autori e compensiamone i difetti con i
pregi; apportiamo qualcosa di nostro al patrimonio comune e non defraudiamo
i nostri soci dal vicendevole aiuto, non dichiariamo di aver arrecato a
vantaggio comune più di quanto vi abbiamo portato.” (Cit.: 744)
Per il filosofo napoletano, la “società” ha nella società letteraria, ovverossia
nell’Accademia delle Arti, delle Lettere, delle Scienze, il suo tipo ideale.
Tuttavia, la Scienza dei sapienti viene ad essere una filosofia dell’autorità
quando stabilisce i principi del giusto sopra il certo dell’autorità e non sopra
l’autorità degli addottrinati. (Cit.: 468)
In proposito, Vico a appello alla filologia delle cose di cui la filosofia
deve fornire le prove. Di che cosa si tratta? Vediamole, nell’ordine: i) le cose
della mitologia condivisa; ii) le espressioni d’eroismo circa i sentimenti; iii)
l’etimologia delle parole della lingua-madre; iv) ciò che si pensa circa le
cose umane della società; v) la verità delle tradizioni; vi) il senso dei
“frantumi dell’antichità” di cui siamo circondati; vii) la causa e gli effetti
delle cose di abbiamo tracce nella storia.
Così procedendo, si fonda il metodo del cogitare videre, confermando
l’autorità con la ragione e la ragione con l’autorità delle prove, ovvero della
scoperta empirica. Ciò porta a far sì che la logica non venga più intesa come
favola, e favella in italiano, oppure idea o parola: bensì, “parlar vero”, quindi
il “parlar naturale”. (Cit.: 484-5) Che cosa significa?
Occorre tenere sempre conto delle cose che fanno gli uomini, anche se,
pur non conoscendole, sono soliti spiegare ad altri le cose lontane e
sconosciute descrivendole “per somiglianze di cose conosciute e vicine”,
(Cit.. 605) tanto da chiamare lo sconosciuto con i nomi di ciò che è familiare
e conosciuto. Il filosofo partenopeo ci introduce così alla scoperta di un
canone dell’inculturazione, che, particolarmente popolare tra i colonizzatori
ed i modernizzatori sia della sua epoca che delle epoche successive, schiude
uno dei principi basilari della re-invenzione del senso della società.
Secondo Friedrich Hegel, noto filosofo tedesco, la formazione della
“società civile” è una caratteristica del mondo moderno. Per un altro filosofo
tedesco, Immanuel Kant, la “società civile” fa da garante a ciò che è “mio” e
a ciò che è “tuo” tramite le leggi pubbliche dello Stato sovrano, garantendo
così sia la convivenza pacificata che la libertà individuale.
Se per Friedrich Schiller l’uomo ha bisogno dei suoi simili per coltivare
le sue finalità, per il poco più giovane Wolfgang Goethe gli uomini sono
degli esseri collettivi. In che cosa consiste, allora, la “vita sociale”? Per de
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Tocqueville non si tratta altro che di una “teatralizzazione”. D’altro canto,
all’epoca, il teatro di prosa o d’opera era il locus più rappresentativo del
senso del pubblico, dell’opinione borghese, dell’istituzione culturale a
valenza sociale, della differenziazione culturale. (Sanguanini, 1989b)
Pochi decenni dopo, nel passaggio dalla prima metà alla seconda metà
del secolo XIX, la concezione della “società” si arricchì di nuovi concetti.
Per il francese August Comte, uno dei padri della sociologia, il fine ultimo
della società è assicurare l’ordine sociale, ma, quest’ultimo, risulterà agli
occhi dei singoli individui sempre in conflitto con la libertà individuale, e ciò
varrà quanto più lo sviluppo intellettuale dei singoli farà dei progressi.
D’altronde, visto che l’intero meccanismo sociale si fonda su opinioni, la
varietà di queste ultime espone l’ordine sociale tanto al consenso quanto alle
critiche.
La società è quindi immediatamente esposta a forme di contraddizione
culturale, cosa che chiama in causa la necessità di un ordinamento scientifico
della società intesa come realtà degli uomini. Nel contempo, per Karl Marx
non è ipotizzabile concepire la realtà sociale come qualcosa in cui la società
si sviluppi al di sopra degli individui e ogni singolo individuo possa
evolversi prescindendo dalla vita collettiva e dalle istituzioni della società.
Il tramonto del XIX secolo e l’alba del XX secolo videro la nascita dei
fondamenti scientifici della sociologia. Per il francese Gabriel Tarde la
società è costituita da individui che contribuiscono sia alla convivenza civile
che al cambiamento delle cose della realtà imitandosi vicendevolmente.
L’imitazione è la “legge” basilare da cui dipende l’integrazione, la
formazione intellettuale, l’impresa, l’adattamento alle istituzioni.
Per il tedesco Georg Simmel, filosofo della società e degli individui, la
sociabilità coltivata, quindi la scoperta dell’Altro, è uno dei fondamenti della
relazione sociale. Come accade? Nei tanti modi che la civilizzazione
moderna e particolarmente la vita urbana rendono espliciti.
Per il francese-alsaziano Emile Durkhèim, studioso di antropologia e
sociologo, occorre riprendere alcuni aspetti fondamentali della lezione del
franco-ginevrino Jean-Jacques Rousseau. I sistemi naturali – o, meglio,
primitivi – della convivenza umana pongono al centro non l’individuo ma la
società.
Non l’uomo, ma la società è qualcosa di oggettivo. In altri termini, è un
“fatto sociale”. E’ in forza di questa disposizione della conoscenza che in
tante civiltà gli uomini hanno posto al centro del loro mondo prima la
“società” e poi la “città”, legando l’una all’altra, per fare dell’insieme il
focus della loro vita morale. Per convenire che l’individuo non è altro che
qualcosa di vivente – ma quasi una materiai indeterminata del vivente – che
è formato e trasformato dal fattore sociale.
Secondo Max Weber, storico sociale e sociologo, tedesco ma
osservatore anche della realtà statunitense, la società è il contesto e
l’ambiente in cui gli uomini e le istituzioni creano un sistema di valori. A
partire dall’importanza basilare che hanno gli individui ed i gruppi nel dare
volontariamente vita a forme di associazione. Secondo il sociologo tedesco,
Ogni universo di valori è generato tanto dai gruppi quanto dai singoli
individui, essendo la risposta oggettiva tanto alla situazione quanto
all’ambiente. Inevitabilmente, esso è tanto sociale quanto storico. (Weber,
1958)
Dal momento che il sistema sociale in cui operiamo è in buona misura
un’eredità del passato, non c’è ragione di attribuire ai suoi valori un valore
superiore a quelli espressi dai singoli individui. Viceversa, occorre scoprire
quali sono le particolarità con cui gli uomini, in un ambiente storico,
connettono il presente al passato e viceversa. Da qui l’importanza attribuita
all’azione sociale orientata ai valori della società ma esplicitata dalla
razionalità dell’agire.
In area nord-americana, ai primi decenni del Novecento, uno dei padri
del pensiero sociologo è senz’altro lo statunitense Charles Cooley,
accademicamente riconosciuto come psicologo sociale. Egli sostiene la
correlazione tra società e forme di organizzazione, comunicazione, azione
sociale. Rivolgendosi alle istituzioni che esplicitano l’ordine sociale, lo
psicologo sociale afferma che esse non sono altro che la cristallizzazione dei
costumi, dei sentimenti e dei simboli che configurano le tendenze umane
votate alla civilizzazione. (Cooley C., 2010)
Secondo altri due studiosi. Thomas e Znaniecki, quando viene meno
l’influenza delle regole di comportamento del sistema sugli individui la
disorganizzazione si fa strada. Dal momento che è uno stadio inevitabile
dello sviluppo, più che cercare di arginarla è opportuno darle una direzione,
ovvero controllarla gestendone le risorse.
Poco prima e poco dopo la metà del Novecento incontriamo diverse
posizioni che definiscono la società in chiave talvolta di azione sociale e
altre volte di sistema sociale. Nelle opere di Talcott Parsons, statunitense di
Harvard (Boston), ma formatosi scientificamente nella Germania degli anni
’30, le due prospettive sono compresenti ma non si sovrappongono. In una
prima fase, presta massima attenzione all’azione volontaristica degli
individui, ignorando le spiegazioni del comportamento sociale e asserendo
che i fatti sono tali quando risultano conformi alla teoria sociale.
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Che cosa significa? L’agire sociale è tale se riconducibile a dei modelli
che rispondono agli orientamenti normativi su cui la teoria è chiamata a
pronunciarsi. Quando? Come? A partire dall’elaborazione del pensiero dei
classici: prima ancora che dalla spiegazione dell’evidenza empirica. Ora, al
centro di tutto è posta l’interazione tra l’attore, il fine, la situazione, il modo
di espletare la relazione. Motore dell’agire sociale è, quindi, l’orientamento
rispetto alle norme. (Parsons, 1978)
Con la seconda fase, più o meno coincidente con l’avvio della seconda
metà del Novecento e la contemporanea mondializzazione dell’economia e
del sistema sociale statunitense, i focus sono il cambiamento sociale e lo
sviluppo della società, che, portarono alla concezione della “società” come
un sistema sociale, esplicitato dalle tematiche del ruolo, della
socializzazione, delle organizzazioni, ecc.
Riprendendo il discorso sulla funzione regolativa delle norme, esplicita
la funzione della socializzazione ai fini dell’interiorizzazione dei valori e
delle norme quale meccanismo formativo dell’azione e spiegazione
funzionale dell’organizzazione sociale. Da qui l’importanza attribuita alle
istituzioni (religione, lavoro, burocrazia, scuola, ecc.) in quanto modelli
regolativi del sistema.
Passando dalla seconda alla terza fase del suo pensiero sociologico, si
coglie la crescente importanza che viene attribuita al “sistema culturale”,
sempre meno fatto coincidere con la sfera delle norme e dei valori.
Inizialmente, è concettualizzato come i modelli di valore che sono conformi
ai media simbolici dei bisogni sociali che rispondono sia alla personalità che
agli orientamenti normativi. Poi, è concepito come una sorta di “agenzia di
controllo, tanto degli aspetti psico-sociali della personalità, quanto
dell’ordine sociale e del cambiamento degli attributi caratterizzanti il
sistema.
Si perviene così alla fase ultima (terza fase) che comporta, da un lato, la
teorizzazione dei quattro sistemi di azione, dall’altro, il varo di due nuovi
concetti: “informazione” ed “energia”. Li sottolineo così dal momento che
per il sociologo statunitense sono la fonte degli scambi che generano
l’azione ed il processo che è consunstanziale al funzionamento del sistema
sociale. Ri-attualizzando i suoi schemi interpretativi – tra cui il sempiterno
schema AGIL –, Parsons arrivò a definire gli “orientamenti di valore come
informazione”. (Hamilton, 1989: 162)
Soltanto con le opere degli anni ’90 il sociologo britannico Anthony
Giddens si allontana dall’impostazione un po’ sociografica del suo noto
Manuale – edito verso la fine degli anni ’80. (Giddens, 1990). Eleggendo la
“Globalizzazione” a fattore-chiave della società contemporanea, individua la
trasformazione che ha investito gli ambiti, i contesti, le modalità esplicative
della modernità avanzata.
Con pervicacia, il sociologo britannico avverte sempre la dominante
non è la mondializzazione del fattore economico-capitalistico. Parlare di un
sistema-mondo porta a trascurare quanto rilevanti siano più le differenze che
le omogeneità, le frammentazioni diversificate piuttosto che l’omologazione
dei regimi di modernizzazione. (Giddens, 1993)
La “Globalizzazione” è la bandiera della modernità contemporanea dal
momento che trasforma ciò che investe in maniera apparentemente
dall’esterno, visto che in massima parte opera a distanza. A partire
dall’incidenza informativa che hanno da un lato i “mezzi di comunicazione
globale in tempo reale”, ovverossia la televisione e internet, principalmente:
dall’altro, la mobilità umana ed i “mezzi di trasporto di massa” tanto sulle
linee domestiche quanto sulle reti trans-continentali. Cambiano i contesti
locali, l’esperienza personale, le abitudini, i bisogni individuali, gli stili di
vita. A seguito anche dell’incalzare degli eventi che, da ogni angolo del
pianeta, precipitano sui mondi locali.
Da qui l’insorgenza di processi improntati da fenomeni che si
sviluppano all’insegna della contraddittorietà e della conflittualità – come
peraltro anticipò Daniel Bell all’inizio degli anni ’70 –, provocando
frammentazioni societarie, stratificazioni eccentriche, nuovi massimalismi,
ma anche la domanda sociale di nuovi sistemi intelligenti. Giddens annovera
la riflessività sociale che contraddistingue il filtraggio delle informazioni da
parte degli individui che si accingono a prendere una decisione per agire, la
fiducia critica nei confronti degli specialisti, la domanda di una democrazia
dialogica per rappresentare al meglio i tanti interessi particolari che si
moltiplicano, l’etica della responsabilità come una sorta utopia sociale
dell’immediatezza, ecc. (Giddens, 1999)
Si constata così che tra le concezioni di evento e quelle di società esiste
un complesso di nessi culturali e sociali che meritano l’attenzione del
sociologo. A partire dai rapporti che, nella realtà contemporanea, sussistono
tra la vita quotidiana e l’evento, tra l’azione sociale e gli eventi. Per
approdare alla causalità tra eventi, informazione e fatti, da un lato, ma
soprattutto alla concezione dell’evento come una sorta di “meccanismo
sociale”. D’altro canto, per Franco Ferrarotti, la società si manifesta sia un
“progetto razionale” degli individui e dei gruppi che la costituiscono, sia
come un “prodotto” di cultura. (Ferrarotti, 1986: 11).
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3. Dov’è l’Evento? Teorie scientifiche d’Autore
Dov’è l’evento? Prima ancora che negli avvenimenti inattesi,
occasionali, imprevisti, l’evento va scoperto nella sua cultura. Quale è il
posto della "cultura dell'evento" nella società contemporanea? Verso la
fine degli anni Sessanta del Novecento, il sociologo francese Edgar
Morin sostenne l’urgenza di teorizzare il ritorno dell'evento. Affermò che
il tempo in cui la storia, l’etnologia, la sociologia, hanno perseguito
l’espulsione dell’evento, è ormai scaduto. Le nuove scienze della
complessità, le scienze dell’evoluzione della vita e la teoria
dell’informazione, impongono una svolta.
Di seguito considero le concezioni di "evento" che sono espresse da
alcuni autorevoli autori che ritengo rappresentativi di diverse branche
scientifiche. La scelta non è casuale, ma dettata dalla mia conoscenza
delle pagine d’autore. Trattandosi di pochi ma per me significativi
chiarimenti mi sembra lecito parlare di “scienze d’autore”. Qui non mi
interessa approfondire il pensiero di questo o quel scienziato: ritengo
sufficiente riportarne la sintesi.
Perché l'Evento? "Evento" o "Event" è uno dei termini di cui il
lessico e la semantica hanno subito poche variazioni sia nelle principali
lingue europee, sia passando da un mondo culturale all'altro. In italiano, il
termine "evento" (eventus) deriva dal latino evenire, che significa
accadere o venir fuori.
Che cosa accade? Un fatto o un avvenimento che, pur essendo già
noto nel passato, può verificarsi ancora una volta, investendo una
situazione oggettiva o soggettiva in maniera rilevante, al punto da
modificarla. Talvolta si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo; altre
volte, invece, la novità consiste semplicemente nella variabile risonanza
pubblica.
Sempre in italiano, al termine "evento" sono associati altri sostantivi
(evenienza, eventualità, ecc.), aggettivi (evenemenziale, eventuale, ecc.)
ed avverbi eventualmente). I sinonimi sono parecchi (fatto, avvenimento,
caso, vicenda, ecc.) ma non c'è un vero e proprio contrario. Anche il
termine "eventualità" ha molti sinonimi (evento, evenienza, caso,
avvenimento, contingenza, imprevisto, ecc., ma nessun contrario.
Soltanto l'aggettivo "eventuale" ha come sfumatura l'aggettivo "casuale"
e alcuni contrari (certo, sicuro, reale, ecc.) Risulta così che i termini più
vicini sono, nell'ordine: caso; evenienza; avvenimento.
In francese, il significato del latino eventus è rappresentato dal
sostantivo "event" o dal verbo "de éventer", termini tardo-medievale
ormai desueti. Altrimenti, esplicita il significato di "Caractère de ce qui
est éventé." (Robert, 2007: 969). Incontriamo anche altri termini come
événement, évenementiel, éventualité, éventuel, éventuellement. In
proposito, per parlare di "evento" il termine più appropriato è
"événementiel", ordinariamente usato per parlare dei settori dell'attività
umana che hanno a che fare con le fiere, le mostre, gli spettacoli, la
comunicazione, le relazioni pubbliche.
In inglese, event è circondato da termini come eventful ed eventing,
da un alto, eventuality, eventually e to eventuate, dall'altro. In tedesco, il
concetto filosofico è "Ereignis". Nell'uso comune il termine più consono
è Vorfall. All'italiano "evenienza" corrisponde il sostantivo maschile Fall,
mentre Moghlickeit sta per "eventualità". Risulta quindi che, nel lessico
ordinario, ci sono due modi diversi per nominare ciò che è casuale, da un
lato, e ciò che insorge all'improvviso, dall'altro.
Da quando i filosofi parlano di "evento"? Secondo San Tommaso
d'Aquino, l'evento è il buon esito delle cose che accadono, anche se
l'accadimento non è ancora concluso. Ne parla per designare un esito ma
anche a proposito di ciò che sta per compiersi. Un evento può essere
costituito anche da più eventi, tanto che al buon risultato dei primi non
sempre corrisponde quello infelice dei secondi. I sinonimi più tradizionali
sono: esito, riuscita, risultato; quelli più moderni, invece, sono: caso,
avvenimento, momento, circostanza, episodio. Pur tuttavia, " ciò che
accade" è sempre ritenuto essere un fatto sociale. (d’Aquino, 1978)
Passando immediatamente alle fonti più specifiche della Modernità
pre-industriale, il filosofo tedesco Immanuel Kant, uno dei padri
dell'Illuminismo moderno, nel 1781 scrive sull’evento. Per lui l’evento è
l’esito dell’intellegibilità dei fenomeni. Esso consegue al lavorìo
dell’intelletto che è volto a portare l’oggetto della realtà nell’arena della
conoscenza. Essendo tipico più dell’estetica che della politica o dell’etica,
nasce nell’interfaccia tra l’intelletto e l’immaginazione umana. Si tratta
quindi di una sintesi che è suggerita dalla “apprensione nell’intuizione”.
Circa centottanta anni dopo, nel 1964, il filosofo francese Maurice
Merleau-Ponty scrive che l’evento è senz’altro qualcosa di straordinario
che si presenta nell’intreccio tra temporalità della coscienza ed
irreversibilità del tempo. Emerge con il cambiamento brusco del senso
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della temporalità, rendendo manifesto il passaggio del passato nel
presente e viceversa. (Merleau-Ponty, 1980)
Lo storico Emmanuel Le Roy Ladurie imputa alla storiografia
strutturale e quantitativa di essere responsabile del silenzio sulla “realtà
dell’evento”. Pur cercando di trascendere gli eventi, anche esorcizzandoli,
non è mai riuscita a poterli ignorare completamente. L'incontro/scontro si
presenta continuamente. Soprattutto quanto c'è da spiegare una mutazione e,
quindi, il passaggio da uno stato all'altro, da una struttura all'altra.
L'antinomia struttura/eventi diviene particolarmente rilevante quando si
passa dalla macro-storia di decine e decine di anni o di centinaia di anni alla
micro-storia di pochi anni. Nel primo caso la prospettiva della struttura
prevale su tutto; nel secondo caso, invece, sono gli eventi che incalzano a
divenire i fatti decisivi. Talvolta, l'accumulo degli eventi nell'arco di pochi
anni fa emergere delle reazioni alle azioni che rivelano delle strutture
mentali apparentemente superate nella contingenza, che, invece, sotto nuova
veste tornano a far parlare di sé. (Le Roy Ladurie, 1972)
Secondo Henri Laborit, biologo e filosofo della scienza, l'evoluzione
degli esseri viventi è, al tempo stresso, un fenomeno da osservare e un
meccanismo da scoprire. In scena c'è sempre il determinismo ed il caso; il
primo riguarda le funzioni di adattamento mentre il secondo quelle della
mutazione. La distinzione è tuttavia strumentale, perché nulla ci dice che ciò
che spieghiamo come deterministico non sia invece da osservare come una
struttura complessa del caso.
Invero, l'adattamento non è conservativo della mutazione, dal momento
che nessuna trasformazione avviene per caso: ordinariamente "ciò che
accade" è provocato da qualcosa che esiste già. La trasformazione o
l'evoluzione ha corso quando dei nuovi elementi si aggiungono ad un
insieme che si interseziona con un altro insieme. (Laborit, 1972: 177) Così
che ciò che a noi appare aleatorio, imputabile al caso, in realtà dipende da
incontri e interazioni.
Nella fisica sperimentale l'evento non è altro che "qualcosa che accade";
è l'elemento della dinamica dell'energia ,sostiene Stéphane Lupasco. Nella
ricerca sulle particelle della materia che si conducono in laboratorio s ha
sempre a che fare con i "comportamenti degli eventi energetici, ciò che essi
contengono allo stato potenziale e allo stato di attuazione." (Lupesco, 1972:
157) Tanto che tale duplicità comporta che in ogni sistema ci sia
antagonismo: tra gli elementi c'è sempre attrazione e repulsione. In altri
termini, c'è associazione e dissociazione, ma anche un antagonismo
costitutivo.
Questa tri-polarità è la logica dell'evento. In proposito, Lupesco scrive:
"Gli eventi son così suscettibili di una sinergia non contraddittoria: eventi
omogeneizzanti si accumulano nei sistemi fisici, generando un'omogenesi
entropica, come eventi eterogeneizzanti possono accumularsi, per sinergia
differenziatrice, nei sistemi biologici facendo nascere un'eterogenesi di
entropia negativa." (Cit.: 162)
Il filosofo statunitense Donald Davidson suggerisce di considerare il
concetto di evento in termini più pragmatici. Per lui si tratta di ciò che è
conforme alle diverse descrizioni dell’azione umana. E’ l’esito a cui perviene
ogni sorta di processo di identificazione di ciò che accade. Consistendo nel
significato di ciò che si dichiara essere esso da un lato dipende dalla
composizione del suo discorso, dall’altro risponde altresì all’oggetto –
ovvero, il fenomeno che accade – a cui è collegato. L’evento è concepito
all’insegna della bivalenza: è qualcosa di ontologico, ma anche qualcosa di
particolare. (Davidson, 1990)
L’evento è mutamento sia di un oggetto (sostanza) che dell’agire
umano. Come descrivere gli aventi? Alla stregua di azioni. Si possono
descrivere dalle loro cause o dai loro effetti, oppure per le cause e gli effetti.
Visto che l’obiettivo è individuarli per descriverli, onde poterli distinguere o
accomunare, è plausibile fare ricorso alle coordinate spazio-temporali che
utilizziamo per identificare gli oggetti materiali. Tuttavia, occorre fare
distinzione tra “eventi mentali” ed “eventi fisici”. I primi sono caratterizzati
dall’esibizione di intenzionalità. I secondi, invece, sono meramente fisici.
(Cit.)
Ponendo in rapporto i due tipi di eventi, Davidson definisce tre principi.
Con il principio d’interazione causale spiega gli eventi mentali che
interagiscono causalmente con gli eventi fisici. Per lui, tutti gli eventi
mentali hanno “commercio causale” con gli eventi fisici. Con il principio del
carattere nomologico della causalità afferma che gli eventi che maturano dei
rapporti
di
causa-effetto
sono
inevitabilmente
deterministici.
Inesorabilmente, per lui, la causalità genera una legge. Con il principio
dell’anomalia mentale non ci sono leggi deterministiche per spiegare gli
eventi mentali.
Ci troviamo davanti a tre principi dove l’uno pare ‘fare a pugni’ con
l’altro. Eppure, secondo il filosofo Davidson, la teoria del monismo anomalo
rende comprensibile la riconciliazione. Come? Asserendo, in prima istanza
che tutti gli eventi sono fisici. Anche se, diversamente dai materialisti, ciò
non significa che le spiegazioni fisiche rendano comprensibili gli eventi
mentali.
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Benché un evento mentale sia causa ed effetto di un evento fisico, non
tutti gli eventi mentali sono spiegabili dalla fisica. Infatti, molti tra essi, pur
correlati ad un evento fisico, sono spiegati solo ricorrendo ad altri eventi
mentali. Così facciamo quando spieghiamo un’azione umana tirando in ballo
l’abitudine, un desiderio, delle percezioni, che non sono altro che eventi
mentali. (Cit.)
Secondo Jean-Francois Lyotard, filosofo francese ed esponente di primo
piano del cosiddetto pensiero del “postmoderno”, l’evento è legato alla
materia dell’esistenza umana. Ciò nonostante, esso ha luogo senza che lo si
possa vedere. Per coglierlo occorre essere ricettivi al “che cosa succede”.
Secondo lui, è ciò che sanno fare, meglio di altri, molti tra gli artisti della
modernità.
L’evento si cela sotto il riverbero del quotidiano. Da una parte, rende
tutto tanto esteriore quanto materiale, trasformando ogni espressione della
profondità in superficie. Dall’altra, cela un nulla che non si manifesta mai,
creando così l’incognita ed il fascino della sua sorpresa. (Lyotard, 1992)
Gli eventi scaturiscono non solo da grandi accadimenti o da fenomeni
sociali, ma anche dagli atti individuali che concorrono a formare la realtà
sociale, sostiene Franco Crespi, sociologo. Anzi, la realtà sociale esiste a
seguito dei molti eventi che la caratterizzano, anche se questa
caratterizzazione non è bastevole a spiegarla. Per comprendere “che cosa
accade qui” occorre interrogare l’azione ed il comportamento umano. Solo
così gli eventi ci risulteranno dotati di senso in quanto sostanza di un
‘racconto’ o ‘schema narrativo’, che, li rappresenta nel legame con un
contesto. (Crespi, 1993)
Non c’è evento se manca l’azione. Per interpretare l’azione-evento
occorre, innanzitutto, impossessarsi delle regole dell’agire che sono in vigore
nel contesto in cui tutto accade. Che cosa significa ciò che accade? La decodifica del significato non può avvenire se non tramite la conoscenza delle
categorie interpretative di chi, anche con il suo agire singolare, ha reso
possibile l’evento medesimo.
L’azione, che, consegue l’evento, si basa sui significati che
categorizzano la realtà. Ne risultano delle forme di mediazione simbolica
che, a causa della semplificazione dell’esperienza umana con cui operano,
talvolta sono all’altezza ma altre volte sono inadeguate a sorreggere la
domanda di adattamento e di cambiamento. Cosicché non di rado ci risultano
essere delle oggettivazioni che, invece di promuovere l’azione, la limitano.
(Cit.)
Vediamo ora di approfondire due tra le posizioni più radicali. Da una
parte quella di Edgar Morin, sociologo; dall’altra, la posizione di Jacques
Derrida, filosofo. Iniziamo con Morin. Secondo il sociologo francese,
presupposto di partenza è che il concetto di "evento" è proponibile sono
"in relazione al sistema su cui agisce". (Morin, 1972: 270) Non a causa
della polisemicità, della complessità e della ricchezza del significato del
termine, bensì per farne motivo di un dibattito scientifico che non
precipiti nella classica opposizione tra determinismo e contingenza,
rivelatasi inadeguata a rendere scientificamente comprensibile i grandi
problemi che le scienze della complessità oggi si trovano ad affrontare.
I progressi scientifici registrati nel Novecento attestano che è la
combinazione più che l'opposizione, la complementarietà più che la
contradditorietà la "valvola di sicurezza" più efficace. L'accettazione del
caso, dell'indeterminazione, della non quantificazione dell'improbabile,
non può comunque avvenire in un'ottica metafisica, anche se
deterministica. Occorre prendere atto che l'improbabilità della mutazione
è il dato più ricorrente: però, quando essa avviene, comunque risulta da
un'attitudine che si manifesta come improbabilità estrema. Il caso trionfa
quando nei margini, negli interstizi, esplodono degli "eventi" che
provocano una rottura e dei salti.
Morin postula altresì l'esistenza di due classi di "evento". Ci sono gli
eventi che hanno a che vedere con il tempo che scorre, quindi con una
norma stabilita sulla base di ciò che è determinato e probabile, più o
meno come è l'avvicendarsi della luce del giorno alla notte. L'evento, in
tal caso, consiste nella deviazione, nel cambiamento rispetto alla norma.
In secondo luogo, ci sono degli eventi che sono tali solo sulla base del
sistema di riferimento. La modifica della componente di un sistema o di
una macchina produce un effetto che si ripercuote inevitabilmente
sull'insieme, anche quando il micro ed il macro mantengono la rispettiva
indipendenza. L'incontro avviene comunque, ed è trasformatore anche
delle singole parti.
Se l'evento è polifattorizzato e polirelazionato, come interviene sul
sistema di riferimento? Come quest'ultimo reagisce alla provocazione? A
questo punto, il sociologo introduce la relazione tra il sistema, dove ogni
imput è un evento, e l'ecosistema, i cui output sono degli eventi. Cosicché
la relazione a fronte di eventi tra le due entità - sistema ed ecosistema - è
(sempre) sia determinata che aleatoria. A che cosa porta questa bi-polarità
nella differenza e nella complementarietà? A sostenere l'attitudine
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("doppio principio della regolazione ecosistemica") dei sistemi che
accettano gli eventi ad auto-organizzarsi. (Cit.: 278-279)
Secondo tale doppio principio, il sistema complesso che vuole
sopravvivere a se stesso auto-organizzandosi di continuo da un lato tende
a eludere, castrare, sottomettere gli eventi a ciò che già c'è; dall'altro,
tende a produrre degli eventi che stimolano i sotto-sistemi alimentanti il
sistema complessivo, anche per incrementare la governance del secondo
sui primi. La questione non mi risulta nuova se ritorno con la mente alla
politica rinascimentale della Biblioteca e della festa, oppure alle politiche
culturali degli anni '80 laddove il "Fare cultura" conteneva degli elementi
di "politica dell'Effimero" (festival culturali, iniziative dirette, ecc.) la cui
esistenza, pur negata a parole, nei fatti contribuiva ad allargare il campo
sociale istituzionale del "Fare cultura".
Un sistema, che cosa se ne fa di un evento? Un evento come
precipita su un sistema? Ponendo questi due interrogativi, Morin non
ignora che si tratta di due posizioni-limite; tuttavia, le esprime comunque,
per esaminare a quali condizioni avviene lo sviluppo ontogenetico,
ovvero i "gradi di libertà d'azione" che associa alle capacità di autoorganizzazione dei sistemi complessi ed alla facoltà di modificazione di
ogni evento. In prima fila pone l'evento "come da programma". Poi,
l'evento che genera degli effetti di cambiamento (risposta ontogenetica).
E' su questo secondo fronte che il sociologo individua un'istanza che
ritiene esiziale.
Facendo riferimento alla realtà umana, Morin afferma che lo
sviluppo più significativo è apportato dagli "eventi ecosistemici", ovvero
quando l'attore incontra l'ambiente. Dal punto di vista del sistema, essi
possono comportare sia un regresso che uno sviluppo per l'attore. La
differenza è data dal diverso impatto con il cambiamento che
ordinariamente il sistema va sperimentando. Se il sistema è in grado di
assorbire le spinte dell'ecosistema, cioè l'evento, maturano forme di
cooperazione che accrescono le capacità auto-riformatrici del sistema
medesimo. L'aggressione dell'evento è avvertita non come un pericolo,
bensì come uno stimolo.
La differenza tra sistema ed eventi è particolarmente significativa dal
punto di vista del tempo. Il primo è ritenuto essere sincronico, ciclico,
multi-statico. I secondi, invece, sono visti come diacronici, occasionali,
sregolati. Si tratta però di una distinzione di tipo astratto. Nella realtà,
l'evoluzione del sistema tiene conto della rottura provocata dagli eventi
quando vuole preservare la sua capacità di evolversi. Divenendo così
generativo di se medesimo.
Morin riprende dal linguista Noam Chomsky, fondatore della
grammatica generativa, il concetto di "generativo", ponendolo a
confronto con il concetto di "fenomenico". Per lui, il generativo è il
principio che rende il sistema abile ad utilizzare l'informazione che serve
per la sua riproduzione nella conservazione, per il dialogo con
l'ecosistema, per "far vivere". In altri termini, è "informazionale, virtuale,
basato sui principi. Il fenomenico, al contrario, è costituito dalla
realizzazione del sistema, dai suoi avatar, dalla sua esperienza: insomma,
è pratico, metabolico, esistenziale. Alla fine, i due principi non sono in
opposizione, ma complementari, sebbene non equivalenti e asimmetrici.
(Cit.: 289)
Se un sistema è modificato solo dal suo dispositivo generativo, e
quest'ultimo è modificato solo da ciò che lo disorganizza, che cosa
procura disorganizzazione generativa? L'informazione, quindi l'entropia o
il rumore rispetto all'esistente, a ciò che già vive. Con ciò Morin riprende
dai teorici dell'auto-organizzazione dei sistemi la concezione che i sistemi
auto-organizzantisi sono quelli più complessi, che vivono in forza della
capacità di governare il proprio stato continuo di disorganizzazioneriorganizzazione (d-r). Purché le perturbazioni tocchino la parte
fenomenica, non la parte generativa, cosicché l'evento diacronico che
tocca la parte seconda è gestibile come generativo.
Ci imbattiamo così nel ritorno del sociologo. Per Morin la società è
esempio di scontri, opposizioni antagonismi che costituiscono la norma.
Se ai conflitti sociali ordinari, già fattore di disorganizzazioneriorganizzazione (d-r) permanente, aggiungiamo gli eventi esterni,
abbiamo un sistema complesso. Tali eventi esterni spesso procurano un
trauma: soprattutto se un sottosistema si blocca, esplodono delle
inibizioni organizzative, insorgono stati di panico, sopravengono
tendenze di salvaguardia del sistema, si cercano delle soluzioni per
tentativi, ecc. Altre volte crisi o evoluzione? Al contrario, può scattare
l'innovazione.
Da dove nasce l'innovazione? Dal 'cuore' stesso della crisi, cioè dalle
virtualità inibite. In che cosa consistono? Scanning, iniziativa spontanea,
ecc. Su questo versante il sociologo è parco di idee, salvo approdare al
recupero, da un lato, del concetto di "perturbazione", declinato in termini
di rumore, errore, accidente: dall'altro, del concetto di "creazione",
basandolo sulla relazione caotica tra ordine/disordine. (Sanguanini, 1995)
17
Che cosa rende un principio sia complementare che antagonista all'altro?
La complessità della storia umana e della vita umana.
Morin abbozza qui una sociologia dell'evento fondata su "Le
relazioni molteplici e multiformi tra sistema sociale e evento". (Cit.: 294)
Riscopre l'evento per le funzioni che assolve nella d-r del sistema, quindi
per l'evoluzione del sistema sociale. Attribuisce valore sociologico agli
eventi perché "da un alto l'evento rivela qualcosa del sistema su cui
agisce, dall'altro, ci pone di fronte al problema della sua evoluzione."
(Cit.: 295) Per concludere che l'evento, pur essendo una "realtà
fenomenica enorme" (Cit.: 297), è anche altro: soprattutto, "... è sul limite
dove il reale e il razionale comunicano e si separano." (Cit.: 298)
Anche il filosofo Jacques Derrida, sempre all’esordio degli anni
Settanta, affrontò la tematica dell'evento. L’occasione si presentò con la
conferenza sul tema della "comunicazione" che tenne a Montréal, in
Canada). Il pretesto è fornito dal 'dovere di consegna' del testo della
conferenza filosofica, debitamente firmato dall'autore, ex-ante
l'avvenimento, come risulta dal titolo "Firma evento contesto", senza
virgole ma con due spaziature. In che termini il filosofo parla di evento?
Per scoprirlo dobbiamo seguire l'intero flusso discorsivo prestando
attenzione ai passaggi argomentativi. (Derrida, 1997)
In apertura, Derrida abbozza una semiotica della comunicazione
abbastanza conforme all'approccio in voga. Si sofferma prima
sull'importanza del contesto e poi sulla nozione di scrittura come testo.
Subito cita l'illuminista francese, e gesuita, Etienne Bonnot abate di
Condillac, l'ideatore della filosofia dei sensi e della percezione, nonché
autore di lezioni sull'arte dello scrivere, del parlare, del pensare. Il
richiamo a Condillac è fatto per introdurre tre questioni: i) la
significazione nella comunicazione; ii) il rapporto tra la presenza del
segno e l'assenza dell'oggetto rappresentato; iii) la non commensurabilità
tra la "differenza" (scarto, ritardo, distanza, ecc.) e la "ripetizione" (ciò
che è trasmesso, decifrabile, comunicabile, ecc.).
Per sostenere che dal testo (scritto) non va pretesa la
rappresentatività assoluta dell'autore. Esso, prima di tutto è un'opera di
letteratura scritta: ma, soprattutto, è un testo scritto, che, possedendo una
specifica autonomia (la "marca"), sia rispetto all'autore, sia rispetto al
lettore, agisce per conto proprio. I riferimenti alla fenomenologia del
filosofo tedesco Edmund Husserl sono più che espliciti.
Derrida afferma che nel testo scritto taluni enunciati hanno senso
anche se: i) l'oggetto di riferimento non è presente; ii) c'è assenza di
significato (uso di simboli non animati; enunciati privi di oggetto); iii)
ogni segno può essere usato (citato, duplicato, iterato, ecc.) anche se non
richiama ad un contesto. La scrittura è così dotata di senso in quanto
"marca", non di qualcosa che al momento non c'è, né fisicamente né sotto
forma di rappresentazione, ma semplicemente come testo comunicante la
"marca" stessa.
Dopo aver predisposto per bene i suoi "ferri del mestiere " sul tavolo
di lavoro, il filosofo francese alza il lenzuolo dal corpo da vivisezionare.
In che cosa consiste? Nella questione del performativo che il linguista
John Austin sollevò verso la metà degli anni '50. L'oggetto della
conferenza è questo: perché il linguaggio scritto dovrebbe essere
performativo? Come è possibile che la scrittura generi qualcosa d'altro da
sé medesima?
Derrida si rifà ad Austin in due modi. In primo luogo, condivide che
l'enunciazione linguistica di tipo performativo non sia l'enunciazione
constatativa (finalizzata a descrivere). Per entrambi è ciò che permette di
fare qualcosa con le parole. Inoltre, il performativo introduce alla
comunicazione di un "movimento originale": all’operazione in sé è
associata la produzione di un effetto. In altre parole, si comunica "una
forza per l'impulso di una marca." (Cit.: 20) Il performativo non ha alcun
referente: è soltanto una "comunicazione" che non trasmette alcunché di
diverso da se medesima. Il contesto di riferimento non è qualcosa di
specifico, ma il totale. In ciò consiste l'evento del performativo.
Derrida argomenta tale presupposizione appoggiandosi ai fattori di
successo o di insuccesso di Austin. Il 'successo' è assicurato da: i) le
circostanze del discorso devono essere appropriate; ii) le persone devono
eseguire certe azioni fisiche o mentali. Io aggiungo un terzo fattore: i
codici culturali di significazione delle circostanze, parole e delle azioni
devono essere condivisi o, comunque, oggetto di contrattazione e dialogo.
Il fattori di 'successo' sono almeno sei:
i) l'affermazione dei valori di convenzionalità, correttezza e completezza;
ii) la definizione del contesto;
iii) la coscienza totale dell'operazione;
iv) voler dire di se stesso;
v) la visione del campo totale;
vi) l'elezione dell'intenzione a organizzatore di tutto.
Se per Austin gli atti convenzionali sono destinati all'insuccesso, per
Derrida ciò che è convenzionale è, in altri termini, specifico del rito e
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della cerimonia. Dal momento che ci sono dei rituali sociali che
modificano la realtà degli uomini, come suggeriscono Emile Durkhèim e
Marcèl Mauss, il filosofo esclude che ogni rituale destini il performativo
all'insuccesso. (E su questo passaggio che l'antropologo Stanley J.
Tambiah, negli anni '80, facendo riferimento sia a Austin che a Derrida,
ha sviluppato il legame positivo tra rituali sociali e performativo.)
Derrida riconosce che Austin è interessato esclusivamente al
linguaggio ordinario. Il rifiuto di occuparsi degli enunciati "non serii" o
semplicemente "parassitari". Ma il filosofo incalza sostenendo che anche
una citazione, l'iterazione di un'espressione da un altro contesto e dal altra
convenzionalità, è un "evento di parola". L'impurità rispetto all'hic et
nunc non significa che destini l'enunciazione all'insuccesso del
performativo, visto che è lo stesso Austin a sostenere che i "performativi
puri" non sussistono. Allora, anche la situazione ordinaria del linguaggio
è un'illusione, come lo è la richiesta del linguista di esigere un contesto
determinabile. Come mai? per il semplice fatto che l'intenzione, focus del
contesto, non è mai completamente presente ed auto-cosciente. (Cit.: 28)
A questo punto, il filosofo mette le mani sulla questione del contesto
esaminando in che cosa consiste la firma apposta a un testo.
Richiamandosi alla ricorrenza con cui il linguista fa riferimento al
presente indicativo di chi parla o di chi scrive, ritenendolo la fonte
dell'enunciazione, cioè la sua giustificazione, Derrida sottolinea che non
si nega mai l'esistenza di un'implicazione.
Se nell'enunciazione orale si riconosce che l'autore è chi enuncia, nel
testo scritto c'è una firma. Questa, allo stato presente, implica la non
presenza dell'autore come fonte. Da una parte, rivela la non connessione
tra il testo e la sua fonte di produzione. Dall'altra, afferma la sua
"singolarità presente".
Scrive Derrida: "Affinché si verifichi il ricongiungimento alla fonte,
è dunque necessario che sia trattenuta la singolarità assoluta di un evento
di firma e di una firma nella sua forma: la riproducibilità pura di un
evento puro." (Cit.: 31) Con ciò asserisce che la comunicazione non è
confinabile ai suoi media ed alle funzioni di trasporto, trasmissione,
mediazione, per scambiare delle intenzioni o un voler-dire. Se lo
crediamo non facciamo altro che aderire (ideologicamente) al suo effetto.
Al contrario, la proliferazione della comunicazione, come peraltro
dimostra il proliferare dei testi, comporta una disseminazione che più
ambisce a restituire delle verità maggiormente dissolve ogni pretesa di
rintracciare l'esistenza di un luogo, di una realtà, della verità. Per il
filosofo, la decostruzione non mira a passare da una concezione ad
un'altra, bensì ad attuare il rovesciamento dell'ordine concettuale, come
anche l'ordine non concettuale di cui il primo si avvale. C'è, insomma, un
doppio rovesciamento, e un dislocamento al di fuori del sistema.
In definitiva, Derrida nega l’efficacia di performativo degli atti
linguistici che sono esenti da parassitismo, come invece sostiene il
linguista Austin. Egli concepisce l'evento come qualcosa che, in prima
istanza, insorge dall'interno verso l'esterno del linguaggio ordinario. In
secondo luogo, contesta al sociologo Morin che l'evento sia un'emergenza
eco-sistemica del sistema comunicante, aperto, dialogico, ma complesso.
Per il de-costruzionista Derrida il performativo è una qualità del testo,
che, è consunstanziale alla sua scrittura, sancita dalla firma.
Jon Elster, sociologo statunitense, nel 1989, scrive che anche gli eventi
sono oggetto della sociologia. Al pari dei fatti. L’elezione di un Presidente al
governo di un Paese è un evento: mentre la maggioranza degli elettori è un
fatto. Cos’è più importante?
Sovente, tra eventi e fatti c’è un legame indissolubile, anche se la
spiegazione dei primi è da considerare prioritaria. Perché? Per il sociologo
spiegare un evento è rendere conto dell’azione umana. Davanti ad un evento
attuale che si vuole spiegare si cerca la causa in uno o più eventi del passato
proponendo il resoconto del “meccanismo causale che collega i due eventi”.
(Elster, 1993: 11)
Constatiamo così che il ritorno dell’evento è un fenomeno emergente
tanto nelle scienze umane quanto nelle scienze sociali. Ciò si verifica
nell’ultimo cinquantennio – notoriamente etichettato come epoca del
Postmodernismo –: ma soprattutto nell’ultimo ventennio, con il ritorno della
Globalizzazione. Quanto il ritorno dell’evento coincida con i limiti dello
sviluppo delle società post-industriali, lo sviluppo delle scienze della
complessità, la crisi della teoria mainstream del rapporto sistema-struttura, è
stato ampiamente teorizzato. La dimostrazione empirica, invece, è ancora in
corso.
Certo è che si tratta di una ‘svolta’ epocale. Il rinato interesse scientifico
per la “cultura dell’evento” è sancito, nel 1994, anche dall'Oxford Dictionary
of Sociology (1994). L'evento è riconducibile alla "event-history analysis". In
che cosa consiste? In un profilo di studio sociologico ampiamente centrato
sul corso della vita e sugli stili di vita. "A form of longitudinal study in
which the unit of enquiry is not the individual or social group but the
socially significant event., for example, change of occupation, spell of
21
unemployment, change of marital status, or other significant live-event."
(Scott & Marshall, 2005: 202)
4. Pseudo-eventi e Media eventi
Se dalle teorie passiamo alla realtà empirica non possiamo fare a
meno di considerare la “cultura dell’evento” alla luce dei fenomeni che
hanno carattere di evento della società contemporanea. In proposito, la
sociologia dei mass media ci fornisce più di una lezione. Nella modernità
industriale, anche i fenomeni naturalistici o fisici sono socializzati
prevalentemente tramite le comunicazioni di massa.
Da qui a sostenere, come fanno i costruzionisti, che la realtà non è
altro che il prodotto della comunicazione dei suoi artefatti, c’è comunque
un baratro. Infatti, ritengo plausibile che il mainstream di una società sia
fortemente debitore della rappresentazione che il sistema dei media fa
della società medesima, ma ritengo altresì doveroso distinguere ciò che io
vedo, percepisco, penso della “società” rispetto a tutto ciò che conosco o
ignoro della “realtà” complessiva.
Quando parlo di “industria culturale” mi riferisco ai processi di
industrializzazione della produzione, della distribuzione di mercato, della
pubblicità, della fruizione di massa, del consumo individualizzato, della
memoria dei cosiddetti “prodotti culturali”. (Livolsi, 1969) Dalle
invenzioni del telegrafo e dell'alfabeto Morse, risalente agli anni '30 del
XIX secolo, all'invenzione del telefono del 1876, all'invenzione della
radio, all'invenzione ed alle prime applicazioni sociali della televisione
che sono occorse nella seconda metà degli gli anni '30, i mezzi di
comunicazione a distanza hanno contribuito con i loro reportage, come
mai nel passato, a rendere il mondo qualcosa di vasto ed eterogeneo,
verosimile o reale, gravido di novità, fonte di aspettative anche nel locale.
(Mattelart, 1998)
Le notizie via media divengono la fonte di ciò che è importante,
nuovo, sorprendente. Il ruolo di mediatore del reporter o del giornalista,
basato sulla vicinanza ai grandi personaggi della società, sulla "presa in
diretta" dei fatti che accadono, sul servizio reso a un editore socialmente
autorevole, sul prezzo della notizia al consumatore, accredita la veridicità
della notizia. L'animazione che il consumo arreca a ciascuno di noi è
enfatizzato quando tale esercizio di potere - potere di informare, educare,
sintetizzare, orientare l'azione, ecc. - comporta la produzione di notizie in
chiave di "evento".
Per gli scienziati sociali gli "eventi" si distinguono in: i) dal vivo; ii)
via media. L'evento dal vivo è di tipo tradizionale ancorché qualcosa di
inatteso, improvvisato, eccezionale, e talvolta anche socialmente
traumatico. Esso consiste, ordinariamente, in movimenti umani che
insorgono per aggregazione spontanea, sulla spinta di un coordinamento
che (apparentemente) è della maggioranza. La discriminante è comunque
l’interesse generale che esso provoca e le conseguenze sociali che ne
risultano.
L'avvenimento (fuga nel 1989 dalla Germania Est all'Ovest di circa
trentamila tecnici, ingegneri, medici, insegnanti, avvocati, giornalisti,
ecc.; rivolta nel 1989 in Piazza Tienammen, a Beijing, di migliaia di
studenti cinesi; rivolta di piazza nel 2011 degli egiziani del Cairo contro il
regime del Presidente Mubarak; rivolta del 2011 dei giovani emarginati
sulle strade dei quartieri di Londra, Birmingham, ecc.) sorprende i media
che, pur impreparati, si mobilitano per trasformarlo in novità costruendo
una 'cornice' interpretativa che, spesso, è subito condivisa dalle autorità
istituzionali.
L'evento via media è, alla nascita, sempre o quasi sempre un evento
dal vivo che trova spazio e risonanza nei media. In generale, l’intervento
dei media è di due tipi: a) pianificato dalle istituzioni dominanti che
vanno gestendo le forme ed il ciclo di vita dell’evento dal vivo; b)
iniziativa autonoma dei cronisti e dei broadcaster. Contrariamente a ciò
che si è detto sino ad oggi, ritengo che si debba fare distinzione tra un
“evento mediale” (event-media) ed un “evento mediatico” (media-event).
L’evento mediale è l’evento dal vivo che vede l’intervento o il
coinvolgimento secondario dei media. L’evento mediatico è, invece,
l’evento che nasce prevalentemente nel mondo dei media, i cui addetti ai
lavori si prodigano per creare degli artefatti mediatici che re-inventino
qualcosa che, evento o non evento, accada dal vivo e sia mediaticamente
eventizzabile. Nel primo caso si ambisce a "narrare la storia in diretta" a
una grande audience che non ha accesso all’esperienza dal vivo.
Nel secondo caso, invece, gli stessi media azzardano un "Fare storia"
nel presente esercitando il potere di istituzionalizzazione di un'attualità
eccezionale. Al riguardo, distinguo quattro tipi di eventi via media:
a) gli avvenimenti storici, politici ed economici che accadono, spesso per
volontà istituzionale, con i media che sono formalmente mobilitati per
23
amplificarne l’impatto sociale. Di che cosa si tratta? Per esempio:
l’incoronazione di Elisabetta II a regina del Commonwelth e del Regno Unito; i
funerali di J.F. Kennedy, M. Luther King, la premier Indhira Gandhi; lo sbarco
dell'uomo sulla Luna nel 1969; le visite del Papa Giovanni Paolo II in Polonia
ed a Cuba, ecc.;
b) gli avvenimenti mondiali ricorrenti che ottengono la ‘diretta’ da parte dei
giornali e della TV. Per esempio: le Olimpiadi, i Campionati Mondiali FIFA di
football; il faccia-a-faccia in TV dei due candidati alla Casa Bianca negli
States; ecc.;
c) gli eventi inattesi (assassinio di leader politico, rivolta di massa in piazza,
guerra-lampo, ecc.) che sorprendono i media ma che si impongono all'Agenda
Setting, inducendo i broadcaster a trasformarli in reportage, video, inchiesta,
Special TV, docu-film, fintanto che suscitano audience;
d) i grandi eventi che riguardano l’universo dei media e che i media stessi
trasformano in evento. Mi riferisco al lancio mediatico di una nuova tecnologia
Apple, al caso Wikileaks, al caso Murdoch, ecc.
Gli esempi ai Punti a) e b) sono riconducibili agli eventi mediali. In
parallelo, gli esempi ai Punti c) e d) sono invece più pertinenti agli eventi
mediatici. Come vedremo tra bene, la distinzione appena fatta non è
granché presente nella letteratura storica e sociologica degli eventi. Qui,
le preoccupazioni sono ben altre. Per gli storici, l’interrogativo chiave è
distinguere gli eventi sulla base di reality e fiction. Per i sociologi, invece,
ciò che conta è il rapporto tra gli effetti dal vivo e gli effetti by media.
Per Daniel Boorstin, storico accademico degli eventi che hanno
segnato la società statunitense dalle origini ai giorni nostri, occorre fare
distinzione fra eventi reali e pseudo-eventi. A questa distinzione pervenne
nel 1961, all'indomani del confronto televisivo tra Richard Nixon e John
F. Kennedy, avvenuto nel 1960. L'avvenimento fu, secondo lo storico,
paradigmatico di un cambiamento epoca della comunicazione politica. Al
confronto, la conferenza-stampa con i giornalisti, inventata nel 1933 dal
Presidente Delano Roosevelt è un pallido esempio di evento. (Boorstin,
1962)
Perché pseudo-eventi? Lo storico statunitense rimarca il significato
greco del termine "pseudo": vuol dire falso, ciò che è ingannevole. Gli
pseudo-eventi propongono un'attualità sintetica che invade la vita
quotidiana di ogni cittadino e ne pervade la vita privata. Al punto che
nelle relazioni interpersonali la conoscenza anche superficiale di tali
eventi - cioè delle cronache dell'evento - è resa equivalente ad "essere
informati".
Che cosa concorre a creare gli pseudo-eventi? Tale fenomeno ha i
prodromi nella metà del secolo XIX, all'indomani della costituzione
dell'Associated Press, la principale agenzia di notizie per la stampa,
prima, e per tutti i media, poi. Già verso la metà degli anni '20, il
giornalismo d'attualità assurse a "quarto potere" della società statunitense.
(Boorstin, cit.) A ricordarcelo c'è l'inimitabile film Citizen Kane di Orson
Wells, ispirato all'impero dei media del Tycoon Hearst.
Come si manifestano gli pseudo-eventi? Soprattutto con le notizie
che riguardano i consumi privati, le pubbliche relazioni delle imprese e
delle istituzioni, gli affari pubblici dei personaggi politici. Lo scopo è ricreare l'interesse pubblico rinnovandone le aspettative di realizzazione. In
altre parole, aprire ricorrentemente davanti agli occhi di tutti il 'cassetto'
delle attese di democrazia da parte della popolazione, pur costruendo il
mondo, ovvero "incorniciando la realtà" con le notizie più confacenti ai
mittenti, in termini di messa in scena.
Con quali strumenti? Quelli classici sono la cronaca in diretta e
l'intervista al personaggio. Quelli più recenti sono il quiz televisivo ed il
panel televisivo dei personaggi pubblici. Che cosa succede? Boorstin ha
sempre presente il dibattito televisivo Nixon-Kennedy del 1961 o il
discorso di insediamento di John F. Kennedy alla carica di Presidente
Usa. Per sostenere che lo pseudo-event ha almeno le seguenti quattro
caratteristiche: i) esiste come "evento" solo tramite la pubblicità; ii) non
ha altra funzione nella vita reale; iii) non c'è "evento" senza la
trasmissione via media; iv) diviene reale dopo essere stato fruito e
consumato trami le news, la pubblicità, la radio, la televisione.
A proposito del dibattito Nixon-Kennedy che gli americani videro in
TV, Boorstin parla di "performance drammatica". Pur classificandolo
come uno pseudo-evento, non esita a definirlo un "happening". In tutti i
casi, ne denuncia l'artificiosità mediatica sostenendo che lo pseudo-event
ha le seguenti quattro caratteristiche:
a) non è spontaneo, ma progettato e pianificato da qualcuno che mira a
diffondere un "discorso";
b) lo pseudo-evento ha lo scopo di essere segnalato, riprodotto in maniera
multimediale, e diffuso su ampia scala. L'annuncio è dato in anticipo ed è
redatto come se tutto fosse già accaduto. Si esclude ogni tipo di valutazione
qualitativa; il successo si misura sulla base della quantità dei Report;
c) l'ambiguità che sviluppa con la realtà effettiva e la situazione specifica è alla
base dell'interesse che suscita. Per esempio, il successo di un'intervista a un
personaggio noto al pubblico consiste nel dilemma circa che cosa l'intervistato
ha deliberatamente non detto o voluto suggerire dicendo quello di cui ha
parlato;
25
d) lo pseudo-evento è destinato a essere una profezia che si auto-avvera. Come
mai? Ciò che si dichiara è quanto viene pubblicizzato: in altre parole, è la
realtà della dichiarazione.
Queste quattro caratteristiche non vengono meno anche se si passa dai
giornali alla televisione. Tuttavia, la comunicazione bi-mediale (testo
scritto e fotografia) dei giornali è decisamente meno potente della
comunicazione multimediale (parole, testi scritti, fotografia, video, suoni,
ecc.) della televisione. Con i media elettrici lo pseudo-event assume delle
neo-caratteristiche:
a) il dibattito televisivo tra candidati politici accentua la drammaticità
dell'incontro/scontro;
b) la pianificazione avviene per disseminazione: i giornalisti partecipanti sono
selezionati per il loro interesse a drammatizzare ponendo questioni anche di
tipo privato o su argomenti disdicevoli;
c) l'edizione straordinaria è fatto in modo da poter avere dei replay, onde
rinforzare l'impressione pubblica già suscitata;
d) la creazione del programma è sempre molto costosa. Ciò comporta il ricorso
a degli sponsor e la pubblicizzazione anticipata;
e) la pianificazione consiste anche nell'intelleggibilità del discorso del
candidato. Per questo la performance di ciascuno è istruita a dovere da uno
staff specializzato.
f) La performance del personaggio deve contribuire a rendere il programma
televisivo un esempio di conversazione civile e socievolezza;
g) il successo di uno pseudo-evento provoca la produzione in progressione
geometrica di programmi analoghi.
L'analisi di Boorstin è il punto di partenza da cui muovono anche Daniel
Dayan, sociologo francese, e Elihu Katz, sociologo negli Stati Uniti ed in
Israele, per analizzare il ruolo dei media nella creazione degli eventi che
sono socialmente rilevanti. Anche per i due studiosi si tratta di spiegare a
che cosa porta la "storia in diretta" che la televisione rende possibile. A
partire però non da un prospettiva storico-giornalistica, bensì da una
prospettiva sociologico-antropologica. (Il titolo originale dell'opera a cui
sto facendo riferimento è Media Events, la cui prima pubblicazione risale
al 1992.)
Per Dayan e Katz i media-eventi non sono a priori degli eventi
conservativi: anzi. Rispetto all'audience essi provocano l'interruzione
della vita quotidiana e l'accensione di un tempo di partecipazione sociale.
L'industria dei media, in parallelo, dispone di un programma che
sconvolge i palinsesti della programmazione sia giornaliera che
settimanale. C'è un cambiamento improvviso che obbliga a reinventare da
un lato la giornata e dall'altro i contenuti della routine produttiva. (Per
esempio, non c'è programmazione TV che ritenga plausibile anteporre o
posporre alla trasmissione delle news su un media-evento incentrato
sull'assassinio di un Presidente o su un terremoto che ha provocato delle
vittime un programma di satira o a luci rosse. Non soltanto per buon
senso nei confronti dei protagonisti del fatto o dell'audience, ma per la
credibilità e l'affidabilità del network.) (Dayan e Katz, 1993)
I due studiosi recuperano dall'antropologia di rituali il concetto di
"limen". L'antropologo Victor Turner, sin negli studi degli anni '70, ha
sempre sostenuto l'importanza in positivo del limen nei rituali delle
società primitive. (Turner, 1992) In passato, la questione è stata al centro
delle opere dall'etnografo Van Gennep, il teorico dei riti di passaggio
(nascita, pubertà, adultità, matrimonio, ecc.) nel ciclo della vita dei
membri delle società primitive, una questione cruciale del lavoro del
sociologo-antropologo Emile Durkhèim circa la teoria delle funzioni
integrativo-adattive dei rituali in quanto cerimonia sociale.
Van Gennep pubblicò Le rites de passage a Parigi nel 1909. Per lui la
condizione del "passaggio materiale" che determina la cerimonia è un
aspetto essenziale del "rito". Lo spiega con il concetto di "margine",
mettendo a fuoco l'importanza strategica dei "riti liminari". Lo stato di limen
(in latino: soglia) sussiste tra i riti di separazione (preliminari) ed i riti di
aggregazione (post liminari). Esso comporta delle condizioni - da non
confondere con quelle di separazione o aggregazione - caratterizzate più
dalla 'dinamica' che dalla stasi, più dalla 'drammatizzazione' che dalla
liturgia, dall'uso dei "media" (gli strumenti più adeguati) che esercitano le
funzioni simboliche del "nuovo che si invoca". (Van Gennep, 2000)
Emile Durkhèim studiò le società primitive australiane sui libri degli
etnografi e degli antropologi del suo tempo. Ciò che si nota immediatamente
è l'insistenza con cui fa uso della religione come paradigma esplicativo sia
del rito-cerimonia che delle feste. Così facendo sottomette il significato
socio-culturale delle feste profane a quelle religiose. Nel medesimo tempo,
però, esplicita che cosa si debba intendere per "rito" a valenza sociale. Dal
"rito", analogamente che dalle feste, ci aspetta che sia: i) periodico,
ricorrente, stagionale; ii) rigeneratore morale; iii) conforme alle credenze
comuni; iv) pertinente alle cose sociali e rinnovatore dell'ideale collettivo; v)
capace di far fronte alla dispersione ordinaria degli individui; vi) ravvivare il
senso che la società ha di sé riunendo gli individui. Come?
Per il sociologo franco-alsaziano, dal "rito" ci si attendono delle
"cerimonie collettive, che determinano tra i partecipanti uno stato di
27
effervescenza. I sentimenti sovreccitati sono diversi, ma la sovreccitazione è
identica." (Cit.:419) Fa leva sulle emozioni forti e sull'eccitazione psicofisica per ravvivare "...i sentimenti collettivi che inducono quindi gli
individui a cercarsi ed a ravvicinarsi." (Ibidem) Quando? Per affrontare la
morte ed il lutto: ma soprattutto le carestie, l'epidemia, l'alluvione, il
terremoto; insomma, tutto il negativo che si abbatte sulla tribù. (Durkhèim,
1982)
Da Victor Turner i due sociologi riprendono l'idea che i rituali siano una
sorta di 'fabbrica continua' di processi liminali. Attribuendo a questi ultimi la
qualità di essere la forza generatrice tanto della "cultura" quanto della
"struttura sociale". Tuttavia, faccio notare che la liminalità in Turner consiste
in qualcosa di ben più complesso. Nell'opera From Ritual to Theatre. The
Human Seriousness of Play, del 1982, l'antropologo spiega che la vita sociale
è sempre gravida di "drammi sociali". Chiama così una modalità agonista,
tanto primordiale quanto perenne. (Turner, 1993)
Recuperando il concetto di limen in Van Gennep, Turner ne enfatizza il
legame con i "rituali". Nel "rito", afferma, insorge uno status liminale che
distrugge i segni dello status pre-esistente; tutti coloro che sono coinvolti
conoscono immediatamente un processo di livellamento (il corsivo è mio).
Nella liminalità non esplode la struttura sociale: viceversa, tale deflagrazione
non è in alcun modo un "vivaio di creatività sociale". (Cit.: 60). La fase
liminale di riti importanti, anche in "epoche e culture differenti", consiste in:
"la scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella
ricomposizione libera o 'ludica' dei medesimi in ogni e qualsiasi
configurazione possibile, per quanto bizzarra." (Cit.: 61)
La liminalità assurge ad un periodo di segregazione, fase che comporta
l'invenzione dello "svago", basato sull'interazione tra gioco e lavoro, che
contraddistingue una larga parte della vita degli uomini che vivono nelle
società cicliche, ripetitive, pre-industriali. Da qui la distinzione turneriana tra
"liminale" (limen) e "liminalità" da un lato, e "liminoide", dall'altro. Se ci
riferiamo alle società industrializzate, con i suoi riti ciclici e non ciclici,
occorre prestare attenzione a:
"Le innovazioni tecniche sono prodotti delle idee, prodotti che voglio chiamare
liminoide (l' "o-ide" qui deriva dal greco -eidos, forma, modello, e significa
"rassomigliante a"; il "liminoide" assomiglia al liminale senza essere identico ad
esso)." "Al contrario, considero il "liminoide" come una fonte autonoma de
dotata di una potenzialità critica ... e qui osserviamo come le azioni 'liminoidi'
dei generi di svago nelle società industriali possano riacquistare il carattere di
'lavoro', benché abbiano la loro origine in un 'tempo libero' separato
arbitrariamente dall' 'orario lavorativo' dalla volontà manageriale; come il
liminoide può essere un campo indipendente di attività creativa, e non soltanto
un riflesso deformato, una maschera o una copertura per l'attività strutturale".
(Cit.)
Proponendo la distinzione tra "liminale" e "liminoide", Turner associato il
primo alla solidarietà meccanica, mentre il secondo è legato alla
solidarietà organica. Questo recupero di Durkhèim lo aiuta solo
parzialmente a risolvere i suoi problemi teorici. Infatti, scopre ben presto
che tra i due nessi non c'è, comunque, alcuna simmetria, visto che nel
secondo caso (liminoide/società organica) le società industrializzate
convengono tra di loro un 'contratto' che comporta il riconoscimento
dell'esistenza di "pluralismo culturale". (Cit.: 104)
Turner richiama qui la divisione tra struttura (lavoro, capitale, ecc.) e
sovrastruttura (cultura, svago, ecc.), così ricorrente nell’opera di Karl
Marx, per rivalutare il ruolo della sovrastruttura, quando quest'ultima
comporta l'esercizio sociale di valenze da "anti-struttura". Quando
accade? Ogni qualvolta essa genera: "Una molteplicità di modelli di vita
alternativi, dalle utopie ai programmi, capaci di influenzare il
comportamento di coloro che svolgono ruoli sociali e politici di primo
piano (in posizione di potere oppure subalterna, che controllano il sistema
dominante oppure ribellandosi ad esso), in direzione di un cambiamento
radicale, oltre che di servire da strumenti di controllo politico." (Cit.)
Lontano dalle società primitive, all’interno della società postindustriale, chi attiva i rituali sociali? La televisione, soprattutto,
sostengono Dayan e Katz. La TV, medium-principe tra i media, è maestra
di "attività liminale". Particolarmente quando di dispone a creare un
media-event. Allora, improvvisamente, pone ogni appartenente
all'audience al centro di "ciò che succede". Come? ovviamente attraverso
la comunicazione mediata. Ovvero, in maniera simulata. Come è
possibile? A seguito dello sviluppo delle seguenti caratteristiche:
a) lo scarto tra l'importanza dell'avvenimento e la facilità di accesso è visto
come sinonimo di libertà;
b) ciò che accade è prodotto con molteplicità e completezza mediatica dei 'punti
di vista';
c) il montaggio TV offre un'accorta drammatizzazione e una visione d'insieme
che sfugge anche a chi è sul posto;
d) l'avvenimento è iper-testualizzato da informazioni che si rincorrono e
approfondimenti che creano il significato generalizzato;
e) sul posto, c'è una complicità tra gli addetti ai lavori ed i presenti che risulta
convincente per l'audience;
29
f) la trasmissione in diretta è prodotta anche con tensione drammatica; lo
speaker fa intendere che è sempre pronto ad affrontare l'imprevisto;
g) il commentatore del programma ricorda continuamente che ciò che sta
accadendo "fa la storia";
h) l'accesso mediatico all'avvenimento pare che avvenga senza alcun onere
economico, morale, fisico.
Gli eventi by media sono soprattutto eventi mediali . Essi riguardano
prevalentemente le manifestazioni pubbliche che hanno carattere di
cerimonia sociale. Tali cerimonie sono, spesso ma non sempre, organizzate
in risposta ad uno stato di crisi. In ogni caso, le categorie sono due:
cerimonie dedicate al cambiamento; cerimonie finalizzate a celebrare la
tradizione. (Cit.: 260 e ss.) Se si tiene conto dei quattro 'tipi' (eventi di
competizione; conquista; incoronazione; extra), si scopre che quelli più
conservativi sono gli eventi di incoronazione e conquista.
A quali eventi mediali Dayan e Katz fanno riferimento? Per gli eventi di
incoronazione si riferiscono a: cerimonia di incoronazione della regina
Elisabetta II; discorso di insediamento di J.F. Kennedy a Presidente Usa;
designazione a Presidente di L. Johnson; matrimonio del Principe Carlo e di
Lady Diana; ecc. Gli eventi di conquista sono: l'incontro Begin-Sadat; il
ricevimento del Dalai Lama nel Palazzo presidenziale di uno Stato; la
liberazione dal carcere di regime de leader dell'opposizione ed il bagno di
folla; ecc. Tra gli eventi di competizione c'è: le Olimpiadi; la Convention
politica; le audizioni sul caso Watergate; ecc. Gli eventi di tipo extra sono,
per esempio: l'affluenza di folla al sito di una strage mineraria, dell'incidente
mortale di una Rockstar, ecc. Dall’insieme emergono le seguenti istanze:
i) la trasmissione in diretta attira le audience più ampie dell’umanità;
ii) c'è un potere degli eventi e il non comune sviluppo del potenziale della
tecnologia;
iii) i media si introducono nelle reti sociali, atomizzano e creano la struttura
sociale;
iv) conquistano i tempo e lo spazio dichiarando una festività in chiave di
religione civile;
v) la realtà è espulsa dall’evento che crea il set;
vi) la produzione dell’evento e la sua narrazione hanno a che fare con i mestieri
televisivi;
vii) gli apparati sono autonomi anche se la politicizzazione dello spettacolo
lavora nell'ombra;
viii) i nuovi eventi sono spesso una risposta a eventi precedenti o a una
crisi:funzione commemorativa per l’opinione pubblica;
ix) esplicitano una funzione ideologicamente liberatoria in chiave di "come se";
x) sono l'espressione del desiderio neo-romantico dell'azione di massa;
xi) c'è una retorica dell’evento che, oltre ad essere istruttiva, svela delle
differenze; xii) privilegiano la casa e la sfera privata;
xiii) storicizza nel presente le conseguenze dell'’evento;
ivx) esercita una funzione di integrazione nazionale. A queste istanze è
attribuito il di rappresentare i rapporti tra la "società" e il "sistema culturale".
Secondo i due studiosi occorre tenere presente che cosa fanno i tre partnerchiave: gli organizzatori; i broadcaster della TV; i pubblici. Ciascun partner
è autonomo dagli altri, cosicché negozia continuamente la propria e l'altrui
attività. Perché? La posta in gioco concerne il controllo dell'evento,
consistente nella definizione comunicativa, nel carattere della
manifestazione, nella ricerca di massimizzazione del profitto economico.
D'altro canto, ciascuno a suo modo è consapevole di assurgere a
"costruttore di realtà", visto che la mediatizzazione comporta: i) il trapianto
della realtà nella TV; ii) la ri-collocazione dello spazio pubblico nello spazio
privato della casa. Quando gli eventi mediatici hanno buon corso? A
determinate condizioni. Quali sono? Le più significative emergono quando:
i) ogni partner accorda il suo assenso investendo tempo e mezzi;
ii) si conviene un contratto tra le parti;
iii) si dispone della cooperazione volontaria del pubblico;
iv) l'audience è silenziosamente d’accordo a farsi ammaliare;
v) gli organizzatori non rifuggono dall' estetizzazione del discorso pubblico;
vi) si verifica che la maggioranza dell'audience resta a casa;
vii) si contribuisce alla falsa impressione del coinvolgimento collettivo;
viii) si sostituisce l’esperienza dell’essere lì.
Emerge che i broadcaster della TV hanno nelle loro mani molte leve di
comando. In particolare, dispongono del potere di: i) non trasmettere se non
sono rispettate le proprie condizioni; ii) decidere di organizzare o meno la
mediatizzazione; iii) rifiutare di intervenire su questo o quel avvenimento;
iv) sospendere tutto a priori se i partner non rispettano le condizioni
concordate. Per esempio, la TV intrattiene un rapporto speciale con lo sport.
I broadcaster preferiscono la competizioni nazionali o internazionali
che privilegiano la squadra. Gli organizzatori dei meeting sportivi, al
contrario, amano le gare con pochi campioni e tante comparse dove si punto
a produrre qualche record individuale. In casi del genere, la TV accampa la
ragione che l’avvenimento può non incontrare il pubblico per rifiutare il suo
intervento. D'altronde, tra gli eventi mediali non mancano gli esempi di
eventi mancati, negati, rifiutati, forzati o deviati.
31
Che cosa cerca ciascuno dei partner nell'evento by media? Gli
organizzatori mirano a ottenere: i) cercano maggiore attenzione su di sé; ii)
via TV c'è più audience; iii) la gestione della capacità della TV di
moralizzare, intrattenere, politicizzare ed appassionare. I broadcaster, in
parallelo, pretendono di: i) diventare un competitor dell'organizzazione dal
vivo; ii) incrementare i consumi da casa a detrimento della partecipazione in
piazza o da stadio; iii) trasformare la TV in "simbolo di simboli"; iv)
diventare il focus dell'evento; v) gestire il diritto dei personaggi a
interpretare se medesimi in ogni occasione.
I pubblici, invece, ottengono pochi vantaggi. Quali? Vediamone alcuni:
i) la trasforma dell'audience in attore dell’evento trasmesso; ii) l'evento entra
in casa stimolando la "solidarietà d'interesse" nel piccolo gruppo; iii) i costi
di mobilità e presenza fisica nel luogo dell'evento sono annullati; iv)
l'accesso a un 'testo' (televisivo) che è pubblicamente noto e ritenuto
autorevole.
L'interventismo della TV produce degli eventi mediali che operano nel
tessuto sociale come se fossero causa di giorni festivi, un avvenimento a
livello nazionale o internazionale, nella sospensione temporanea delle
funzioni ordinarie della struttura sociale. Ciò in forza del fatto che la società
si riflette nella sua cerimonia, per idolatrare se stessa, onde riflettere i suoi
valori centrali nella memoria collettiva. Ma ne siamo proprio certi?
Il 'punto di vista' di Dayan e Katz è dichiaratamente neo-durkhèimiano.
L’analisi dei due scienziati sociali dimostrare un neo-determinismo
giustificato più dal presupposto metodologico che dai fenomeni in esame,
anche se questi ultimi non smentiscono apertamente il primo. L'ideologia
scientifica che è condivisa è comunque moderata. Infatti, si afferma
(ripetutamente) che tutto ciò che accade, ovvero l'equivalenza tra evento
mediale e cerimonia collettiva, ha ragion d'essere se sopravvengono due precondizioni: a) l'autenticazione dal pubblico che si manifesta con il consumo
televisivo; b) l'autenticazione dei broadcaster professionisti ed indipendenti.
Altrimenti, si ribadisce che la teatralizzazione è il leit-motiv di fondo,
indipendentemente che si tratti di eventi conservativi o trasformativi. Anche
questa svolta è, a mio parere, neo-durkhèimiana. A prima vista potrebbe
risultare culturologica, in conformità alla moda sociologica degli anni ’80: in
realtà, il richiamo alla teatralità mi risulta non lontano dall’evocazione del
dramma sociale in Turner, da un lato, dei rituali a matrice religiosa di
Durkhèim, dall’altro.
Secondo la prospettiva di Dayan e Katz, si constata che i media, ed in
particolare la TV, creano il cosiddetto “evento mediale” impossessandosi di
“ciò che accade” nella realtà dal vivo. Non soltanto a partire dal momento in
cui accade qualcosa che, investendo un personaggio di grande notorietà
pubblica o un contesto sociale, è coltivabile come evento: anche anticipando
l’accadimento. Le news sui grandi viaggi di Papa Giovanni Paolo II, sui
meeting politico-economici del G.8, sul lancio da parte di Steve Job della
Apple di una muova tecnologia digitale, hanno pervaso i giornali e le
televisioni di mezzo mondo ancor prima che accadesse qualcosa di concreto.
Dal punto di vista teorico, l’evento da mediale diviene mediatico.
Eppure Dayan e Katz evitano di fare questa distinzione. Per loro gli
eventi mediali sono un genere di rituali, caratterizzati dai seguenti fattori
produttivi: i) extra-mediaticità dell’organizzazione; ii) interruzione del
palinsesto della quotidianità, sia dei media che dell’audience; iii) monopolio
comunicativo da parte del medium più invasivo del fenomeno e più
pervasivo dell’audience; iv) istituzionalizzazione comunicativa da parte di
tutti, ma soprattutto delle istituzioni pubbliche con cui i media cooperano,
pur prestando attenzione a mantenersi formalmente distaccati.
Le caratteristiche di “evento” sono date dalla combinazione di diversi
fattori. In primo luogo, dai seguenti elementi: i) interruzione pianificata
dell’ordinarietà; ii) pianificazione della mediatizzazione, iii) combinazione
di ripresa diretta (contemporaneità) e distanza. In secondo luogo, come
suggerisce l’antropologo Victor Turner, dalla spiegazione linguistica
dell’attività, ovvero dalla spiegazione di: a) sintassi; b) semantica, c)
pragmatica. Che cosa attira l’interesse dei media?
Gli avvenimenti by media sono quelli che maggiormente si prestano a
valorizzare la grammatica (aspetto sintattico) di almeno un medium.
L’ipotesi che un fenomeno risulti “storico”, a seguito della chance di
provocare un fenomeno di partecipazione collettiva di ampie proporzioni,
solleva l’aspetto semantico. La facile diffusione della notiziabilità e della
messa in scena delle caratteristiche socio-umane più salienti, tanto da
investire pubblici diversi e una ‘coda lunga’ di sfruttamento mediatico, evoca
l’aspetto pragmatico. L’intera combinazione di fattori ed elementi è la “carta
d’identità” dell’evento mediale.
Per distinguere un tipo di evento mediale dall’altro Dayan e Katz
ricorrono alla ‘lente d’ingrandimento’ che è prospettata dal repertorio dei
simboli. Individuano così tre ‘tipi-ideali’: 1) l’evento basato sulla
competizione; 2) l’evento di conquista; 3) l’evento di incoronazione. Il
primo ‘caso’ si verifica soprattutto nei mondi dello sport e della politica di
professione dove agiscono dei campioni o dei grandi personaggi. In entrambi
33
i frangenti le regole guidano la prestazione e orientano gli spettatori che
decretano il risultato finale.
Il secondo ‘caso’ avviene una sfida alle regole, attuata al personaggio
che affronta degli ostacoli che per altri parrebbero insormontabili o letali. Il
terzo ‘caso’, infine, è di tipo tradizionale e comporta per lo più la messa in
atto di una cerimonia che è conforme all’eredità culturale sia del contesto
che dei principi d’autorità e di potere sociale.
Pur distinguendo un ‘caso’ dall’altro, nella realtà non è infrequente che
un ‘caso’ si sommi all’altro, determinando così delle forme complesse ed
ibride di evento. Possiamo constatarlo quando insorge una qualche forma di
‘patologia’, generata dalle difficoltà o dalle rotture della negoziazione tra i
partner (organizzatori/esecutori, broadcaster, pubblico). L’adesione di questo
o quel partner può quindi risultare: i) mancata; ii) rifiutata; iii) negata; iv)
forzata. C’è adesione mancata quando chi si sottrae è l’audience. In
parallelo, l’adesione è rifiutata se viene meno il broadcaster. L’adesione è
negata se l’organizzatore non vuole condividere. Infine, l’adesione è forzata
se tutti e tre i partner tentennano ripetutamente tra il “sì” ed il “no”. (Dayan e
Katz, cit.)
Tutto ciò è segno di democraticità dell’evento mediale? Per Joshua
Meyrowitz i media hanno attribuito un’importanza al pubblico (audience)
che in passato era inesistente. La democratizzazione della società è evidente
soprattutto con l’avvento dei media indipendenti, che, per affermarsi, non
esitano a esercitare anche un’azione di advocacy nei confronti degli
individui, come peraltro dimostra la “radio in diretta” o la “TV in diretta” via
telefono tra il Programma e l’audience. (Meyrowitz, 1993)
La TV, inoltre, grazie alla facoltà di “far vedere”, esercita una maggiore
definizione dell’evento, rendendo altresì possibile l’esibizione delle regole
stesse. A che scopo? Per meglio “far esistere” l’evento come fiction, ovvero
“come se” si trattasse della miglior sintesi della realtà.
In effetti, tra tutti i mass media, la TV dispone delle proprietà più
facoltose per creare un testo che, rispetto all’evento stesso, è ancora più
vasto, articolato, storico. In che maniera? Già l’abbiamo detto: i) rendendo
riconoscibile come evento ciò che accade; ii) sottraendo il fatto dalle
specifiche condizioni di realtà in cui va maturando per trasformarlo in
qualcosa di epico, iii) ri-generare l’accadimento con un formato mediatico.
Questo processo per gli studiosi di giornalismo comporta il passaggio
dal fatto alla notizia. Per Dayan e Katz esso è interpretato alla stregua di un
“processo liturgico”, posto in essere dai media che intendono creare l’evento
mediatico. Come? Si individuano due stadi: a) la de-contestualizzazione; b)
la ri-contestualizzazione. A mio avviso, però, occorrerebbe tener conto anche
di altri stadi: per esempio: c) l’eccezionalità (virtuale) dell’accadimento, d) il
passaggio o limen da uno stadio all’altro; e) che cosa, anche al di là del ciclo
di produzione-consumo mediatico, tiene insieme l’intero processo.
L’analisi di Dayan e Katz ha non pochi meriti; al vertice pongo la
meticolosità con cui individuano le specialità e creano le ripartizioni. La
raffinatezza è tale che l’intero lavoro parrebbe composto da un numero
maggiore di ‘mani’ e di ‘teste pensanti’: oppure con moltissimo impegno ed
in tempi parecchio dilatati. L’assimilazione degli eventi mediali a cerimonie
di massa via media è comunque discutibile.
I due studiosi non fanno mistero di riprendere da Durkhèim – tramite
Turner – la concezione di rituali originariamente elaborata a proposito di
società primitive e tribali a religione animistico-totemica. Trascurano però di
trarne le opportune conseguenze. L’asimmetria tra società primitive e società
mediatiche è talmente forte che trascurarla non può non comportare di
scivolare nella teofania dei concetti e dei paradigmi.
Ora, ci troviamo di fronte a dei concetti che, in prima istanza, sono stati
concepiti per cerimonie e rituali messi in opera dal vivo e in ristrette enclave
di tipo comunitaristico. La spiegazione della “formazione della communitas”
in chiave di “ritorno del sacro” vale tanto per Durkhèim che si richiama al
“paradigma religioso” quanto a Turner che si affida al paradigma del
“liminale/liminoide”, almeno fintanto che ci si riferisce a realtà di
partecipazione dal vivo. Appena si va oltre, considerando per esempio la
partecipazione massiva che è provocata dall’industria culturale e dai suoi
media, ritengo che i paradigmi debbano essere completamente riformulati.
La visione della “TV di massa” come totem contemporaneo che aleggia
un po’ ovunque nelle pagine di Dayan e Katz non mi pare molto appropriata.
Vieppiù se si considera che le classi degli eventi mediali e le categorie da
essi proposte sono riprese, ancora una volta ,da etnologi delle società
primitive. C’è, insomma, una sorta teofania degli eventi e dei media che mi
pare poco convincente e, soprattutto, poco adatta a scoprire analiticamente la
mediatizzazione di eventi più complessi di quelli portati ad esempio.
Discutibile è altresì l’individuazione dei tre ideal-tipi di evento mediale.
Gli eventi classificabili come conquista o competizione o incoronazione
sono senz’altro quasi tutti quelli che contraddistinguono le cerimonie
collettive dal vivo. Con gli eventi mediali non cambia nulla? Che cosa
succede quando un evento è, contemporaneamente, di incoronazione e di
conquista, oppure di competizione e di conquista?
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Sempre Dayan e Katz ci propongono degli eventi mediali che vedono
schierati tre partner: gli organizzatori; i broadcaster; l’audience. Prestiamo
attenzione agli organizzatori. Chi sono? Il network editoriale, suppongo.
Occorre però tenere presente che, almeno in Europa, Africa, Asia,
diversamente che in nord-America, talvolta si tratta di network a
finanziamento pubblico e altre volte di network privati.
Nel caso di network pubblici gli organizzatori sono sovente una
pubblica istituzione, che, operando come servizio pubblico, ma anche come
apparato burocratico pubblico, assume una veste di organizzatore che è ben
diversa da quella dei privati. Ecco, dunque, la necessità di fare le opportune
distinzioni, anche se le generalizzazioni non devono mai mancare.
5. Macro-eventi e Micro-Eventi
Proseguo l’analisi delle “culture dell’evento” esaminando altri e non
meno originali sviluppi teorici. Nelle pagine antecedenti abbiamo
incontrato non pochi filosofi e scienziati sociali che suggeriscono di
spiegare l’evento in prima istanza ricorrendo alle categorie spaziotemporali. Qui ne azzardo un esempio.
Come valutare l’evento? La proposta formulata da David Davidson
mi sembra facilmente condivisibile. Il filosofo statunitense suggerisce di
cercare di spiegarne, innanzitutto, le coordinate spazio-temporali. Come
se si trattasse di un evento meramente fisico. Allora, se consideriamo le
dimensioni, accanto alle grandezze di tipo macro e di tipo micro
dobbiamo considerare anche quelle di tipo giga e di tipo nano.
Soprattutto per quanto concerne gli eventi dell’epoca contemporanea.
Perché?
Le dimensioni di tipo macro e di tipo micro sono due categorie
classiche delle teorie sociologiche. Dagli anni ’60 agli anni ’80, hanno
costituito il mainstream tanto della sociologia generale quanto delle
sociologie specialistiche. Ne troviamo ampie tracce anche in molte
concezioni di “cultura” sia sul versante sociologico che su quello
antropologico. Sovente, tali categorie hanno portato a visioni di tipo
lineare e verticale del rapporto sistema-struttura, sottosistema-ambiente,
sistema-cultura, ecc.
Che cosa significa macro e micro? Il termine “macro” (in greco:
makros) significa lungo, esteso, vasto. E’ una misura di grandezza. Nel
linguaggio corrente, è sinonimo di grande o lunghissimo. L’uso di tale
termine da parte del mondo scientifico internazionale evita le traduzioni
equivoche del termine “grande” da ogni lingua nazionale. Talvolta è usato
il alternativa a “maxi” (dal latino: maximus) che ne linguaggio della
moda, del packaging, delle penalità, ecc., sta per molto grande. Il termine
“micro” (dal greco: mikros) ha il significato di piccolo. Spesso è
contrapposto a macro, tanto da formare una coppia di opposti. Indicando
una scala ridotta, è spesso usato in alternativa al termine “mini”, quando
si vuole indicare una misura minima.
Dove sono i macro-eventi? Come sono i micro-eventi? La riscoperta delle “culture dell’evento” comporta la crisi delle bivalenze ottonovecentesche sistema-struttura , determinismo-contingenza, ecc. Anche
la bivalenza macro-micro, tanto cara alle scienze sociali a impianto
funzional-strutturalista e neo-positivista, entra in crisi.
Come sono i macro-eventi? E i micro-eventi? Mi allontano
temporaneamente dalla teoria per esaminare, in prima istanza, tre ‘casi’
esemplari di evento mediatico. Tutti risalgono all’estate del 1997, tra il mese
di luglio ed il mese di agosto. Sono tre eventi funebri che investono dei
‘grandi personaggi’ della scena internazionale.
Il 15 luglio, a Miami, fu assassinato Gianni Versace, stilista di fama
mondiale del Made in Italy. Il 31 agosto, a Parigi, Lady Diana, già coniuge
del Principe Carlo d’Inghilterra, perì in un incidente automobilistico. Pochi
giorni dopo, nei primi di settembre, morì di vecchiaia Madre Teresa di
Calcutta, suora di fama internazionale. Il decesso fisico di ciascun
personaggio ed il successivo funerale in forma pubblica comportò un evento
mediale di diverso calibro. Vediamo che cosa è accaduto ed analizziamone le
caratteristiche sia di evento che della mediatizzazione, mettendo alla prova
tanto le indicazioni formulate da Dayan e Katz quanto l’utilità di
diversificare gli eventi sulla base delle scale spazio-temporali.
Il 15 luglio, le Agenzie della stampa internazionale diffusero la notizia
della morte di Versace a Miami, in Florida (Usa). L’Ansa, con il comunicato
delle ore 16.12, anticipò tutte le altre Agenzie. Grazie al corrispondente da
New York, informato da fonti non precisate. L’immediato controllo fu
positivo, ebbe a dichiarare il direttore dell’Agenzia. Subito intervennero le
TV di Miami, poi la CNN, infine i telegiornali di mezzo mondo. Il TG1 della
Rai aprì l’edizione di prima serata dichiarando: Assassinato a Miami lo
stilista Gianni Versace”.
In Italia, il giorno dopo, il fatto di cronaca nera è in prima pagina. Dopo
il TG serale, le reti televisive modificano i palinsesti. Si trasmettono dei
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programmi-omaggio, l’ultima intervista, reportage di sfilate, interviste ai
colleghi. Nessun giornalista propone interviste di strada alla gente comune.
Le cronache sono concentrate sui “personaggi”. L’unico gruppo socioculturale della popolazione che manifesta attenzione per l’avvenimento è il
mondo gay rappresentato dal presidente dell’Arcigay (Associazione
Ricreativo-culturale Italiana – Sezione Gay).
I mass media, davanti alla complessità dell’accaduto, sono in difficoltà.
Non sanno come semplificare per creare diversi prodotti. Allora, si
concentrano sulle modalità con cui la polizia locale conduce le indagini,
sulla ricerca del killer (dando per scontato che ci sia un killer), sulla
preparazione dei funerali da parte dell’entourage della famiglia Versace.
Intanto, a tre giorni di distanza dalla morte, i corpo è cremato in Florida. Il
trasporto dei resti in Italia ed il funerale avvengono in forma privata nel
paese lombardo di residenza della famiglia. Dal 19 al 22 luglio cresce
l’attesa per il funerale solenne, il giorno dopo, nel Duomo di Milano.
Il 24 luglio, la stampa nazionale commenta la cerimonia come un “fatto
mondano”. C’è chi scrive che “Milano lì non c’era”. Gli spettatori non sono
mancati, ma la partecipazione era distratta. Anche la presenza di Rockstar
amiche di lunga data dei Versace, non ottiene molto rilievo giornalistico. Il
giorno dopo, la notizia del (presunto) suicidio di Andrew Cunanan,
l’assassino (presunto), sorprende tutti. E spegne l’interesse dei media. Come
mai? Allora, ci troviamo di fronte a un evento mediatico?
L’interesse dei media è maturato nell’arco di 10 giorni. Tutti hanno
raccontato la vita dello stilista , dei familiari, dell’impresa e del marchio.
Non poco spazio è stato dedicato alle indagini ed al comportamento formale
della polizia Usa. In quei giorni, dopo aver raccolto gli articoli pubblicati dai
maggiori quotidiani italiani, in collaborazione con Eugenio Franzetti, mio
laureando, ho effettuato un’analisi del contenuto dei testi. Le unità di
registrazione sono cinque: Versace, Cunanan; morte e indagini; familiari,
conoscenti, moda, funerali.
Il fattore-clou sono i funerali. La cerimonia è stata trasmessa in diretta
TV. Il valore-notizia è stato rilevante. Tutti i media se ne sono interessati.
Secondo i criteri di Dayan e Katz nel caso specifico l’evento mediatico è
mancato. Perché? Nonostante la morte cruenta, l’interesse suscitato tra i
broadcaster ed i cronisti, la fama dello stilista non era sufficientemente
elevata, quindi all’altezza degli standard di valore. Perché?
In primo luogo, non ha suscitato emozionalità popolare. Poi, non ha
creato festività nella programmazione dei media. Inoltre, è mancata la
“diretta TV” dei funerali. Infine, il fatto cruento dell’assassinio in terra
statunitense non ha suscitato gli elementi del “sacro” che sono connessi
all’elemento semantico. Causa il fatto della notizia (indiretta) di Versace
‘gay’?
La morte ed i funerale dello stilista italiano risultano senz’altro un
evento giornalistico: ma non un evento mediale generale. Dal momento che i
media non hanno modificato la programmazione giornaliera hanno segnalato
all’audience quale fosse la ‘cornice’ dell’evento. Mancando i presupposti
mediali per dare corso all’emozionalità collettiva, il pubblico non ha
manifestato una maggiore richiesta di news, segnalando così l’indisponibilità
ad emozionarsi. Cosicché i media non hanno rischiato gli investimenti
straordinari per esercitare il monopolio delle notizie, che, si sa, rende
possibile la “comunità emozionale” di parla Max Weber.
Peraltro, i tre partner dell’evento hanno manifestato delle posizioni no
sempre in accordo. Per i cronisti, Versace era già in se stesso un personaggio
festivo, tanto da essere lontano dalla quotidianità. Per gli organizzatori, la
gestione della vicenda da parte della famiglia Versace, apparentemente tesa a
salvaguardare sia la privacy che la “marca”, risultò causa di difficoltà
d’intervento. Per l’audience, infine, lo stigma pre-esistente del personaggio
risultò immediatamente poco favorevole a suscitare emozionalità, cosa
peraltro rinforzata dalle scelte comunicative dei broadcaster. In altre parole,
Versace è rimasto un simbolo di élite.
Il deficit dell’elemento semantico è evidente. Ciò non significa,
comunque, che l’evento sia mancato. L’evento c’è stato, ma confinato nel
mondo dei media. Ha investito i broadcaster e parzialmente gli
organizzatori. Il terzo partner, il pubblico, ne è rimasto eluso. Per questo ci
troviamo di fronte ad un evento mediale non abortito, ma dimezzato.
L’evento Versace non è facilmente riconducibile a nessuno dei tre idealtipi. Neppure le categorie spazio-temporali sono facilmente applicabili,
nonostante i presupposti (assassinio internazionale, mondo gay, suicidio del
presunto colpevole, funerale celebrativo a Milano, ecc.) non siano assenti. Al
riguardo, vista la complessità degli elementi, occorrerebbe disporre di un
nuovo ideal-tipo.
Il 31 agosto del 1997, Lady Diana, principessa di Galles, e Dodi Al
Fayed, playboy e grande imprenditore, e l’autista Henry Poul, perirono in un
incidente automobilistico a Parigi. Sedici anni dopo il 29 luglio, giorno in
cui Diana Spencer, ancora diciannovenne, divenne la consorte del principe
Carlo d’Inghilterra,. La cerimonia, trasmessa in diretta TV, fu seguita da
circa un miliardo di telespettatori. Fu un giorno di festa nazionale e gli
inglesi fecero ala al corteo nuziale. Il matrimonio ebbe vita breve: la coppia
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si separò già nel dicembre del 1992. Il divorzio ufficiale arrivò nell’estate del
1996. Nel 1997, la passione per i viaggi portò Lady Diana a conoscere Dodi
Al Fayed.
Che cosa ha portato la mercedes nera a schiantarsi contro il pilone 13,
nel tunnel dell’Alma a Parigi, a una velocità di circa 190 kilometri orari? La
statura pubblica dei due passeggeri è tale che la notiziabilità della morte è
inevitabile. I valori-notizia che provocano la notiziabilità sono: i) criteri
sostantivi (importanza e interesse); ii) criteri di prodotto; iii) criteri di
medium; iv) criteri di pubblico; v) criteri di concorrenza tra media.
L’avvenimento risponde positivamente a tutti i requisiti dell’analisi del
contenuto. L’indagine che ho condotto sui quotidiani italiani e britannici, con
la collaborazione di Eugenio Franzetti, dimostra che già il 1° settembre ci
imbattiamo in una sorta di “fiera delle news”. I principali 8 quotidiani
britannici dedicano sia la prima pagina che 119 pagine e 110 fotografie. La
stampa italiana va al traino di quella britannica. L’omologazione delle
notizie è forte. Causa il fatto che le fonti sono poche mentre il flusso nei
tempi brevi è ingente. (Mancini, 1998)
Gli addetti ai media (cronisti, editori, broadcaster) sono colpiti dalla
reazione immediata della popolazione britannica. C’è un’espressione
spontanea di commozione espressa in pubblico. Gli inglesi rilasciano
volentieri interviste sulla strada manifestando dolore e interesse. Anche chi è
tradizionalmente ostile o indifferente alla Casa Reale si mostra ‘scosso’ e
‘addolorato’.
Davanti alle tre residenze londinesi (Buckingham Palace, Kensington
Palace, St. James Palace) l’omaggio di mazzi di fiori diventa una marea.
Accanto, sono depositati biglietti di cordoglio e ninnoli. I fogli di poesie
sono appesi ai cancelli, agli alberi, nei bar della zona. Anche il Municipio e
la Cattedrale sono oggetto di pellegrinaggio. La coda per firmare il libro
delle condoglianze è enorme. Intere famiglie si accampano nei giardini
circostanti. I telegiornali di mezzo mondo si attardano a realizzare servizi su
questa mobilitazione spontanea. Intanto, i giornali e le radio intervistano i
presenti.
I fotografi ed i cronisti, da tempo accusati di coltivare con ossessione i
reportage sulla vita privata di Lady Diana, si interessano ora alla Famiglia
Reale. I Windsor, intanto, sono in Scozia, a Balmoral. A Londra, soltanto a
Buckingham Palace la bandiera britannica non è a mezz’asta. I media
cominciano a coltivare le attese della popolazione circa una risposta
simbolica della Regina.
Si sottolinea che la morte di Lady D. è un segnale dell’arretratezza della
Casa Reale rispetto ai tempi che corrono. Soltanto il 4 settembre la Regina si
espresse con un messaggio alla nazione. Nel messaggio si evidenziano: i) la
manifestazione di tristezza popolare; ii) le sensazioni di shock, incredulità,
incomprensione, preoccupazione per chi resta; iii) il tributo personale a Lady
D.; iv) la condivisione a coltivarne la memoria.
Tutte le televisioni hanno acceso le luci dell’evento. Già il 31 agosto, la
BBC modificò la prima pagina dei suoi telegiornali e sviluppò dei
programmi ad hoc. La ‘diretta’ sulla folla dei commossi continuò sino al 6
settembre, giorno del funerale. Nel corso della giornata, dall’alba a notte
fonda, i programmi televisivi si incalzarono ogni ora. Sky News, addirittura,
dedicò all’avvenimento l’intera giornata di trasmissione.
I Paesi che hanno usufruito del collegamento in ‘diretta TV’ sono
risultati 170. Alla ‘differita’ hanno avuto accesso altri 45 Paesi. Secondo le
stime del meter di audience, si presuppone che davanti allo schermo, in
diverse ore del giorno, abbiano preso posto circa 2,5 miliardi di
telespettatori, ovvero un terzo circa della popolazione mondiale.
Come la TV ha creato l’evento mediatico? Con la trasmissione in
‘diretta’ di ciò che succede, ora dopo ora, ma da diversi punti di vista. Per
surrogare il gap del “non essere lì”, si offrono diversi ‘occhi elettronici”. Il
commento è ridotto al minimo: si pretende che le immagini siano di per sé
eloquenti della realtà. Durante la cerimonia funebre, circa 200 telecamere (di
cui almeno 19 nella Cattedrale) hanno contribuito a rendere immediatamente
percepibile: i) il corteo, ii) le lacrime dei britannici; iii) l’inchino della
regina, iv) il discorso funebre del fratello di Lady D., v) la canzone Candle
in the wind di Elton John; vi) la chiusura serale.
In che cosa consiste la mediaticità? L’analisi di un campione (215
articoli) della stampa quotidiana italiana del periodo 1-7 settembre dimostra
il ruolo svolto dalla stampa. Si rilevano le seguenti priorità: le cronache della
cerimonia funebre ed i Reali hanno ottenuto il 31% di articoli; la persona di
Lady Diana almeno il 25%; l’incidente mortale e le indagini circa il 20%; la
commozione della folla non meno del 15%; la vicenda di Dodi Al Fayed
circa il 9%.
All’indomani del funerale i quotidiani hanno rivolto maggior attenzione
all’indagine ufficiali sull’incidente mortale ed alle opinioni di vari
“personaggi” coinvolti nella vicenda. Nella costruzione della cosiddetta
“realtà del dolore” il ruolo principale è stato svolto dalla televisione e dai
periodici della “cronaca rosa”. Le interviste televisive e radiofoniche di
strada ai londinesi hanno sortito un effetto di attenzione mediatica fuori dal
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comune. La parallela serie di interviste a personaggi degli entourages di
Lady D. e della Casa Reale hanno esercitato un effetto di rinforzo.
La produzione e circolazione di gadget (fotografie, disegni, piatti,
bicchieri colorati, tovagliette, tazze, ecc.) ,e soprattutto delle popolari mugs
(tazze da colazione), con l’immagine della Principessa, hanno contribuito a
trasformare il volto in un’icona. Già alla fine del mese di settembre, il
paniere dei gadget contenne anche t-shirt, calendari, schede telefoniche, cdrom, ecc. Nell’arco del mese, il cd-rom con la canzone di Elton John fu
venduto in 2 milioni di copie.
Particolarmente significativo risulta i cosiddetto “Effetto Cometa”,
ovvero che cosa si è detto e fatto all’indomani del funerale di Lady D. A
distanza di pochi mesi, e soprattutto del primo anno, nel 1998 i settimanali
pubblicarono delle inchieste e dei supplementi fotografici. Il 31 agosto del
2011, la TV Sky Uno ri-trasmise uno Special risalente alla fine del 1997. I
periodici di “cronaca rosa”, tanto nel Regno Unito quanto in Italia, hanno
coltivato per mesi l’Effetto Cometa privilegiando news su: i) aggiornamenti
sulle indagini poliziesche; ii) notizie non comprovate circa le cause dirette ed
indirette dell’incidente; iii) lo stato dei figli di Lady D.; iv) la vita privata e
pubblica del Principe Carlo.
Il funerale di Lady D. è un evento mediale che è riconducibile all’idealtipo dell’incoronazione. Indiscutibilmente si tratta di una cerimonia in
pubblico di conferma e ratifica. Comporta una “celebrazione del ruolo”
ancor prima che una “pubblicizzazione del corpo”. Il rituale è ufficiale ed è
predisposto in maniera da ri-creare coesione sociale.
C’è, però, una novità: il discorso della Regina, il discorso del fratello di
Lady D., la canzone di Elton John, gli altari fioriti nei pressi dei Palazzi
Reali, hanno ri-composto l’appartenenza di Lady D. tanto ai britannici
quanto alla Monarchia. Questa categorizzazione ci segnala l’insorgenza di
una trasformazione. Da una parte, la cerimonialità del funerale riafferma i
valori tradizionali. Dall’altra, però, l’evento è trasformativo. (Moroni, 1998)
Almeno due volte, visto che a ciò che è successo dal vivo si aggiunge ciò
che è successo via media.
Secondo Paolo Ceri, sociologo, l’Agenda Setting dei media ha sortito u
risultato strabiliante con lo sviluppo di tre componenti (culturale; morale,
sociale) della modernità. In primo luogo, l’espressione delle ambivalenze del
postmoderno. In secondo luogo, il ritorno tra la competizione e la solidarietà.
In terzo luogo, il riconoscimento delle diversità socio-culturali e delle
aspettative di re-integrazione tra la compagine sociale e i poteri politicoistituzionali . (Ceri, 1998)
Ora, pur condividendo i motivi che suggeriscono questa sintesi, mi
sembra che lo slancio teorico sia un po’ fuori misura, almeno rispetto ai dati
disponibili su tutto ciò che è esterno all’evento mediale. Peraltro, le valenze
simboliche dell’evento mediale sono da verificare anche al di là della
contingenza immediata. Indiscutibilmente, però, come suggeriscono Dayan e
Katz, la cerimonia del funerale è catalogabile come un “monumento
mediale”. (Franzetti, 1998: 158)
A distanza di pochi giorni dal funerale londinese, la suora Madre Teresa
di Calcutta morì di vecchiaia. La dedizione di una vita all’assistenza dei
malati, dei moribondi, dei poveri, nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo, e la
notorietà internazionale, spinse i cronisti a riconoscerne la ‘missione’.
Sorprendentemente, nei Paesi a maggioranza religiosa protestante,
mussulmana, indù, sia l’origine macedone-albanese che l’appartenenza alla
religione cattolica non costituirono motivi di auto-censura.
Fondatrice nel 1948 in India dell’Ordine delle “Missionarie della
Carità”, cominciò l’opera assistenziale con la prima Casa della Pace. Nei
1962 ricevette il Premio Padmashree dal Governo indiano; tre anni dopo il
Papa Paolo VI fece dell’Ordine un mandato vaticano diretto; nel 1971 lo
stesso papa conferì a madre Teresa il premio Giovanni XXIII; nel 1979,
infine, ricevette il Nobel per la Pace. Nel 1988, l’Ordine aprì una Casa nella
Russia ancora sovietica. Tre anni dopo fu aperta la prima sede a Tirana, in
Albania. Papa Giovanni Paolo II prese a chiamarla “sorella Teresa”. A 87
anni, il 5 settembre del 1997, Suor Teresa soccombe all’ennesimo attacco
cardiaco.
La notizia arrivò in Italia con i telegiornali di prima serata. I quattro
valori-notizia (importanza e interesse, disponibilità di materiale, pubblico;
concorrenza) non mancano. Trasformare il fatto in notizia fu agevole.
Soprattutto al seguito della mediatizzazione del funerale di Lady D. In prima
pagina compare subito l’evocazione della “santa dei poveri”. I quotidiani
adottano la logica di fare news a partire da. i) cronache delle reazioni della
gente di Calcutta; ii) note del Vaticano; iii) stile informativo divergente dei
telegiornali.
Le TV di mezzo mondo si mobilitano inviando troupe a Calcutta. Le
riprese sono incentrate sulla fila dei pellegrini davanti al luogo in cui giace il
corpo di madre Teresa, la popolazione dei poveri e mal nutriti per le strade
della città, l’altare di fiori, rosari e vangeli che sorge spontaneamente
all’esterno della chiesa di San Tommaso. La concorrenza tra i media sia
nazionali che internazionali ha ingenerato una mediaticità affluente. Un
giorno dopo l’altro, Calcutta è oggetto crescente di notorietà mediatica.
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Il funerale, avvenuto la mattina di sabato 13 settembre, fu trasmesso in
‘diretta’. Il TG1 della Rai dedicò circa 6 ore. La BBC britannica circa 4 ore.
La ‘diretta risulta essere la più lunga trasmissione televisiva mai trasmessa in
Mondovisione. Il funerale, celebrato in ben 4 lingue (inglese, latino, hindi,
bengali), è avvenuto sotto l’egida del Governo indiano. Ha televisivamente
investito 35 Paesi. L’effetto di “cordoglio mondiale” è evidente. (Franzetti,
1998: 175)
Il giorno dopo, il resoconto delle esequie sui quotidiani nazionali è
accostato alle critiche rivolte al Governo indiano per la gestioneorganizzazione dell’evento. Che cosa è successo? La polizia locale ha
sottratto la popolazione povera di Calcutta dalla scena televisiva. Né un
lebbroso né un bambino è stato visto accostarsi al feretro. Soltanto
“personaggi” noti.
Gli organizzatori hanno optato per un funerale di Stato. All’uopo, sono
stati schierati: bandiera indiana sulla bara; fila di cannoni; esercito schierato
in alta uniforme, personalità a rilevanza mondiale. Solo i telegiornali al di
fuori dell’India hanno mostrato i pellegrini in coda sotto la pioggia per
raggiungere la chiesa di S. Tommaso.
La cerimonia funebre è avvenuta non in chiesa, ma nello stadio della
città. Il trasporto del feretro lungo il tragitto urbano ha visto la folla,
incurante della pioggia, correre al seguito. L’accesso allo stadio restò
sempre sotto il controllo delle autorità, che, ne fece uso in maniera ‘politica’:
ebbero via libera solo le componenti della popolazione che all’apparenza
rappresentavano il “principio del decoro” della società indiana da esibire in
Mondovisione.
Dall’analisi del contenuto del campione dei tre maggiori quotidiani
italiani risulta che le unità di registrazione sono quattro: Madre Teresa ha
il 31% di articoli; la Chiesa di Roma circa il 28%; la cerimonia funebre e
lo Stato indiano il 22%; la folla dal vivo il 17%; le Consorelle e l’Ordine
soltanto il 2% circa. L’evento mediale c’è, anche se palesemente
incentrato sul rapporto tra Madre Teresa e la Chiesa cattolica. L’idealtipo più pertinente è la cerimonia di incoronazione. Si celebra la morte
naturale di un leader in conformità alle regole della tradizione. Come
scrive Franzetti, il messaggio mediatico dominante è: la società continua
e la cultura trionfa comunque sul ciclo vitale della natura. (Cit.: 1998:
186)
Se facciamo riferimento al funerale solenne, scopriamo che i tre partner
(organizzatori; broadcaster; audience) mostrano delle scelte discordanti. La
conciliazione avviene per negoziato e accomodamenti continui. Il confronto
ha riguardato: il percorso de corteo in città; il tipo di traino del feretro; lo
schieramento dei militari a protezione della cerimonia ufficiale; la presenza
di personalità nazionali e internazionali; il ruolo accordato all’Ordine
religioso. In tutto ciò lo Stato indiano ha assunto una posizione dominante.
Anche nei confronti dei broadcaster stranieri, imponendo alle troupe il
pagamento di diritti televisivi fuori dal comune, a quanto risulta dalla stampa
internazionale ex-post l’avvenimento.
Con quali conseguenze comunicative? Tutti i media (non indiani) hanno
trasformato in notizia la ‘pre-potenza’ del Governo indiano. A questo tipo di
pubblicità è stata associata la critica per aver utilizzato dei mezzi considerati
‘impropri’ (contenimento militare della folla, uso dello stadio e non della
chiesa, ufficialità politico-istituzionale della cerimonia funebre, ecc.).
Nella critica agli organizzatori i broadcaster si sono alleati alla folla:
tanto da far decadere la notiziabilità dell’evento il giorno dopo la chiusura
dell’ultima cerimonia. la concordanza va a favore del buon esito dell’evento
mediale. La rottura con gli organizzatori va invece a sfavore. Dal momento
che gli organizzatori hanno comunque operato a favore dell’evento, non si
può concludere che essi lo abbiano ‘negato’. Piuttosto, hanno fatto sì che
risultasse ‘forzato’.
Che cosa dei nostri ‘casi di studio’ conferma o smentisce il modello
analitico di Dayan e Katz? A mio parere, nella teoria dei Media-events la
categoria degli organizzatori mi sembra troppo generica. Viceversa, la
distinzione tra organizzatori-istituzione pubblica ed organizzatori-nonistituzione pubblica è cruciale. In secondo luogo, l’interazione e le
connessioni tra editoria televisiva ed editoria giornalistica sono
ricorrentemente molto forti, e, soprattutto, talvolta la TV provoca i giornali e
altre volte sono i giornali a trainare la televisione.
Il pubblico è almeno di due tipi. Da una parte, c’è il pubblico che, oltre
a leggere i giornali ed a guardare la TV, scende anche in strada. Dall’altra
c’è soltanto l’audience, che legge i giornali e/o guarda la televisione. Dayan
e Katz categorizzano l’azione della TV in termini di de-contestualizzazione e
ri-contestualizzazione. D’accordo. Però, sostengono altresì che l’analogia
delle cerimonie dei media con i rituali sociali comporta una tendenziosità
alla sacralizzazione. Ciò non trova conferma assoluta in nessuno dei tre
‘casi’.
Per quanto mi risulta, con il funerale di Madre Teresa l’azione del
Governo indiano è stata volta a favorire più la secolarizzazione del
personaggio.
Qualcosa del genere è scaturito anche dalle scelte
organizzative del funerale di Versace. Nel ‘caso’ del funerale di Lady Diana,
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poi, il discorso della Regina ha è stata un’accorta performance tra desacralizzazione e ri-secolarizzazione dei Lady D. e de-secolarizzazione e risacralizzazione del ruolo sociale della Casa Reale.
I tre ‘casi’ qui esaminati sono degli “eventi dei media” ed assurgono sì a
genere televisivo, come peraltro affermano Dayan e Katz. Tuttavia, il loro
‘valore’ mediatico cambia in conformità a diverse coincidenze. La più
evidente riguarda la coincidenza temporale tra l’evento dal vivo e la ‘diretta’
TV.
Constatiamo l’insorgenza di un curioso fenomeno: la coincidenza
informativa tra la TV e la stampa quotidiana e periodica. Inoltre, c’è la
distanza temporale tra l’evento dal vivo e lo ‘Special’ televisivo a distanza di
tempo. Insomma, a me pare che anche quando l’evento mediale è conforme
al mainstream TV sia pur sempre debitore dell’interattività tra la TV e gli
altri media. Insomma, il genere televisivo è più ibrido che specifico di
quanto sinora è stato teoricamente ammesso.
6. Mega-eventi: l’omnibus del Postmodernismo
Perché in tempi recenti si parla di “mega-evento” o di “iper-evento” a
proposito di qualsiasi grande manifestazione in pubblico? Che cosa esplicita
o nasconde il termine composito “Mega-evento”? E’ mia ipotesi che tra la
‘moda’ dei Mega-eventi e l’epoca contemporanea del Postmodernismo
(Postmodernism) o “postmoderno” di cui parlano i filosofi, i politologi, gli
economisti, i sociologi, sussista una connessione un po’ speciale. Con questo
paragrafo cercherò di dimostrare in che cosa consiste tale specialità.
L’epoca del postmoderno è, a mio avviso, l’attualità. Al momento, è
difficile attestare quale ne sia l’inizio e quale la fine. Per i Paesi occidentali
più industrializzati (Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, ecc.) vale
senz’altro il periodo che va dall’inizio degli anni ’70 alla fine del primo
decennio del Duemila. Per intenderci, dagli anni della prima grande crisi
petrolifera e della guerra arabo-istraeliana (1967-1973) alla grande crisi
finanziaria del 2007-2010. Per la Russia, la Cina, l’India, il Brasile, invece,
occorrerebbe cambiare il passo, per tenere conto dei cambiamenti radicali
che sono occorsi solo con le trasformazioni politico-ideologiche ed
economiche del periodo 1988-1991.
Per le culture dei Paesi più industrializzati il postmoderno è la parolachiave di una ricca varietà di teorie trans-disciplinari. Se ne parla in
architettura, arti visive, estetica, letteratura, filosofia, sociologia, ecc.
Ovunque si fa altresì leva su concetti quali auto-organizzazione, autoreferenzialità, complessità, società immateriale, disordine, mondo-caos, tarda
modernità, post-modernità, società del rischio, modernità liquida, società
informazionale, società frammentata, ecc. (Bell, 1976; Luhmann, 1983;
Johnson, 1978; Lyotard, 1978; Vattimo, 1981) Al termine “società” siano
acclusi del termini che evocano dei concetti eletti a portavoce di significati
tutt’altro che accordati con i principi modernisti della coesione sociale e
della salvaguardia a tutti i costi dell’ordine sociale.
Qual è il terreno sociale per eccellenza del postmoderno? Per i
postmodernisti è il sistema dei media. Non trascuriamo che gli anni ’70 fu il
decennio della TV a colori, della fotocopiatrice, del fax, del Walkmann. Gli
anni ’80, invece, conobbero il computer da tavolo, il Floppy disk, internet, la
videocamera portatile, il radiotelefono portatile, la segreteria telefonica, il
fax, i videogiochi da consolle, il Game Boy. Gli anni ’90 furono caratterizzati
dal boom del digitale: con il web, il computer mobile, la fotocamera digitale,
il Tamagotschi, il telefonino, l’Adsl. Infine, il primo decennio del Duemila
con tutti i media sia analogici che digitali di cui ciascuno di noi fa
giornaliera esperienza.
Indiscutibilmente i media creano una “realtà duplex” rispetto alla realtà
dell’esperienza dal vivo. Anche se le pratiche ci spingono a non fare
distinzione ma considerare una realtà imbricata nell’altra. In realtà, sappiamo
riconoscere che alla nostra domanda di connessione a distanza, telepresenza
continua, ubiquità comunicativa, consumismo informativo, corrisponde una
realtà che è prima “selezionata” e “sintetizzata”, poi “fertilizzata” ed
“aumentata”. Accordando ai media questo ruolo di “costruttore sociale”
rendiamo possibile che i sistemi dei media divengano sceneggiatori e attori
della “società dei Mega-eventi”.
Con il termine “mega” la lingua italiana propone l’elemento primario di
una parola composta volta a moltiplicare la valenza del secondo termine.
“Mega” (dal greco: mégas) vuol dire “grande”. Per la scienza delle misure,
la metrologia, è un prefisso che moltiplica il valore dell’unità di base di un
miliardesimo di volte.
Nel linguaggio comune indica una grandezza conforme a una
consistente entità, a qualcosa di enorme, anche abnorme o esagerato.
Talvolta è usato come equivalente di grandissimo, grosso, nonché di maxi.
(Vedi le parole: megafono; megagalattico, megalomania; megalopoli; mega47
schermo, mega-festa; megalite; ecc.). Essendo sinonimo di maxi, il suo
contrario più adeguato è, con ogni probabilità, l’elemento mini.
In francese ha il medesimo significato, come dimostrano le parole
mégalithe, mégelomane, mégalopole, mégaphone, mégafète, ecc. Anche in
inglese non c’è alcuna variazione terminologica. Si parla di mega-concert,
megacycle, megabar, megaparty, megatrend, megalopolis, ecc. Nel modo
ordinario di parlare il termine “mega” assume anche il significato di super,
favoloso, straordinario. In tedesco non c’è alcuna variazione rispetto agli
standard lessicali e semantici appena visti. Con una sola particolarità.
Scompare del tutto il tratto di congiunzione “-“ che qualche volta ricorre
nelle altre lingue europee.
Da qualche tempo è invalso, in diverse lingue europee, usare il termine
“iper” come sinonimo di mega. Anche “iper” (dal greco: hypér) è un prefisso
che si usa per creare delle parole composte (per esempio: iperbole,
ipersensibile, iperuranio, iperattivismo, ipermercato, ipertesto, ecc.). Ha i
significati di sopra e di oltre. Indica una superiorità di tipo sia quantitativo
che qualitativo. Per questo semplice motivo è utilizzato quando si pretende
di enfatizzare il valore di qualcosa che si ritiene essere super.
Nella realtà contemporanea, la “società dell’evento” è sempre più un
parto di mega-eventi o di iper-eventi. Che cosa sono? Le Fiere o Esposizioni
internazionali, le Olimpiadi, i Mondiali degli sport più popolari su scala
planetaria, i Summit politico-economici internazionali, e talvolta anche i
grandi Festival culturali. Le caratteristiche comuni sono:
i) annuncio anticipato e apertura programmata;
ii) localizzazione in una grande città;
iii) catalizzazione dell’attenzione mondiale tramite i media;
iv) svolgimento in un tempo molto limitato;
v) presenza di personaggi “grande firma” di diverse specialità sociali;
vi) palcoscenico a valenza mondiale;
vii) problemi di sicurezza e controllo;
viii) grandi audiences;
ix) attività interna conforme a regole prestabilite;
x) progetto organizzativo di gestione superlativa e conseguenze trasformative della
realtà.
Dov’è il Mega-evento? Ovunque ci sono dei ‘casi’ di “società dell’evento”
che hanno, in prima istanza, dimensioni spazio-temporali di ampia gittata. Le
Olimpiadi sportive hanno ricorrenza quadriennale, sede diversa
dall’antecedente, crescita dei Paesi partecipanti, della presenza di atleti, della
partecipazione di pubblico dal vivo, dell’intervento di sponsor, di pubblicità
e interventismo dei media. La storia più recente della manifestazione,
caratterizzata dalla politicizzazione dello sport e dall’industrializzazione
avanzata dell’organizzazione, ebbe origine nel 1968, con l’edizione di Città
del Messico.
Per quanto concerne lo sport più popolare nel mondo, il calcio, i
Mondiali Fifa di calcio, celebranti la competizione tra i team nazionali più
forti nel mondo, hanno ricorrenza quadriennale e sono aperti due anni dopo
l’ultima edizione delle Olimpiadi. La storia (postmoderna) di tale
manifestazione ha inizio con la fine degli anni ’70: coincide con la discesa in
campo della pubblicità delle grandi ‘marche’ dell’abbigliamento sportivo,
dei diritti televisivi dei match, del mercato internazionale dei calciatori e
degli allenatori, con la quotazione finanziaria in Borsa dei grandi Club
calcistici. (Sanguanini e Zeschg, 2009)
Nel mondo dello spettacolo dal vivo, con l’inizio degli anni Settanta
nasce la tradizione dei Live Aid, con ogni probabilità la manifestazione
musical-culturale che, oltre a essere popolare su scala mondiale, e
particolarmente tra i giovani fan della musica rock, è un Mega-evento per
eccellenza. Il primo simil-Live Aid ebbe luogo nell’agosto del 1971 al
Madison Square Garden di New York con il Concert For Bangladesh.
Dal punto di vista organizzativo, fu l’impresa titanica di George
Harrison, uno dei quattro Beatles, che, peraltro, per la prima volta salì sul
palco esibendosi come solista. Si trattò di un mega-concerto di beneficenza a
favore della popolazione del Bangladesh, stretta nella morsa della carestia e
dalle alluvioni. Per l’occasione, ritrovarono la via del palco Bob Dylan ed
Eric Clapton, entrambi bisognosi di riconquistare l’applauso del pubblico.
Tra i tanti musicisti si distinsero Leon Russel, Billy Preston e l’indiano Ravi
Shankar, ispiratore dell’iniziativa. La presenza di circa quarantamila fan
fruttò un profitto di circa un quarto di milione di dollari, subito versato
all’Unicef.
A distanza di quasi tre lustri, nel 1985, verso la metà del mese di luglio,
i musicisti Bob Geldorf (Boomtown Rats) e Midge Ure (Ultravox)
inaugurarono il primo e vero Live Aid. Per l’organizzazione e la gestione si
avvalsero di Harvey Goldsmith, importante promoter musicale. L’obiettivo
fu la raccolta di fondi contro la carestia in Etiopia. Il concerto fu concepito
come un puzzle di diversi concerti.
A provocare l’idea del mega-concerto di beneficenza fu il documentario
di Michael Buerk trasmesso nell’ottobre del 1984 dalla BBC. La morte per
fame degli etiopi scosse la tranquillità dei britannici e degli irlandesi.
Nell’arco del mese successivo, Geldorf e Ure scrissero la canzone “Sfamare
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il mondo”, musicandola e registrandola con la Band Aid. In pochi mesi il
‘singolo’ vendette circa tre milioni di copie. La notorietà suggerì l’iniziativa
concertistico-umanitaria del Live Aid.
Tutto ebbe inizio verso mezzogiorno all’interno dello stadio di
Wembley (Regno Unito), davanti a più di settantamila fan. Quasi due ore
dopo, prese il via anche il concerto-fratello nello stadio J.F. Kennedy di
Filadelfia (Usa). Tanto l’uno che l’altro concerto durarono circa sedici ore.
In ciascun stadio furono posizionati dei maxi-schermo che permisero di
rendere fruibile l’esibizione oltreoceano di qualche artista. Per la prima
volta, si realizzò un doppio video-concerto via satellite.
La BBC britannica si assunse l’onere di diffondere il segnale televisivo
nelle reti televisive europee. Tra una performance musicale e l’altra i
broadcaster inserirono delle interviste e dei colloqui tra addetti ai lavori. A
quanto pare, l’audio della BBC risultò monofonico, a causa di inconvenienti
tecnici. Durante l’esibizione degli Who il collegamento transatlantico fece
crash. Al punto che Elvis Costello si fece forte della sua voce e della
chitarra. I Quens con Freddy Mercury trascinarono il pubblico in un
assordante battimani. Sul palco salirono anche Elton John, Spandau Ballet,
Sade, Sting, Dire Straits, The Cars, George Michael, Queen, Phil Collins,
Brian Ferry con David Gilmour dei Pink Floyd, David Bowie, gli U2, e Paul
McCartney che chiuse il concerto.
Negli States, alla diffusione televisiva ha provveduto il network ABC. A
Filadelfia salirono sul palco sia Mick Jagger che Tina Turner, esibendosi
insieme. Sul palco, intanto, stavano salendo, uno dopo l’altro, Bob Dylan,
Keith Richards, Usa for Africa, Ron Wood, Crosby, Stills, Nash & Young,
Billy Ocean, Black Sabbath, Joan Baez, Teddy Pendergrass, ancora Phil
Collins arrivando con un volo Concorde, Judas Priest, Bryan Adams, Beach
Boys, Simple Minds, The Pretenders, Santana, Madonna, Neil Young, Duran
Duran, Eric Clapton, Zeppelin.
Se i concerti-clou furono a Londra ed a Filadelfia, altri concerti in
sincronia avvennero in altre parti del mondo. Gli Inxs, per esempio,
suonarono a Melbourne, in Australia. Gli Opus salirono sul palco in Austria.
B.B. King suonò in Olanda, a L’Aia. A Belgrado si esibirono i Yu Rock
Mission. A Mosca si fecero sentire gli Autograph. A Colonia, in Germania,
suonò Udo Lindenberg. Dal Giappone venne diffuso il video dell’esibizione
dei Loudness. Come si vede, gli appuntamenti dal vivo furono parecchi, e da
diversi Paesi. Con l’eccezione dell’Africa, del sud-America, del Medio
Oriente.
A metà concerto, risultò che il 95% delle TV del mondo era sintonizzato
sull’evento. Con quanta audience? Più di un miliardo, probabilmente. La
sola ABC ha prodotto una ‘diretta’ di circa tre ore. Anche in questo caso, gli
intervalli sono stati occupati da interviste e dal molti spot pubblicitari. Al
punto che non poche canzoni sono state ‘tagliate’ dalle interruzioni
pubblicitarie. In compenso, la ABC ha distribuito, sia in ‘diretta’ che in
‘differita’ il giorno dopo, diverse parti del concerto statunitense a molte radio
territoriali.
Per quanto concerne la raccolta dei fondi, dopo sette ore di concerto
furono raccolti non più di 1,2 milioni di sterline. La raccolta avveniva via
telefono, con credit card, o tramite l’invio di un assegno bancario, anticipato
da un avviso telefonico. Constatando la cifra, Geldorf prese l’iniziativa di
farsi intervistare dalla BBC e perorare, anche inveendo, l’invio urgente di
molti più soldi. L’effetto fu sorprendente. Le donazioni aumentarono per
cifre e rapidità di versamento. Dopo la performance di Bowie, fu trasmesso
in mondovisione un video su bambini etiopi affamati: le donazioni andarono
alle stelle. Alla fine, furono conteggiati più di quaranta milioni di sterline. I
due concerti del Live Aid misero in circolazione circa duecento milioni di
dollari. Il successo dell’iniziativa spinse la Casa Reale britannica a insignire
Bob Geldorf del titolo di baronetto.
Alcuni tra i singoli rocker più famosi presero anche delle iniziative
singolari. La Band Aid, poi sul palco con Geldorf, nel 1984 aveva già
registrato e messo in vendita il singolo Do They Know It’s Christmas, con la
voce di diversi artisti e un messaggio di Bowie. Il video girato per
l’occasione schiera lo stesso Bowie che invita i fan ad acquistare il disco per
finanziare il Live Aid e la campagna mondiale di beneficenza per l’Africa.
Tutti o quasi tutti i rocker che salirono sul palco di Londra o Filadelfia
permisero ai fotografi di riprenderli senza pretendere i diritti. Curiose sono le
fotografie in cui Bowie scherza con McCartney, prima, con Freddy Mercury,
poi. Originale è la fotografia della tribuna d’onore a Wembley che mostra il
Principe Carlo e Lady Diana con alle spalle due dei Queen e loro sodali che
fanno battibecchi.
Anche la registrazione della canzone We Are the World, scritta nel 1984
da Michael Jackson e Lionel Richie, registrata dalla band Usa for Africa, e
presentata sul palco di Filadelfia a chiusura del concerto, portò a un disco
singolo le cui vendite procurarono non pochi fondi. Il brano fu registrato, a
spese della Columbia Records, in una notte di fine gennaio del 1985, a
Hollywood, da una ventina di voci solista dei rocker lì presenti per la
cerimonia degli American Musical Award. La pubblicazione del disco in
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ottocentomila copie, avvenuta poco più di un mese dopo, andò subito
esaurita. Un mese dopo, circa cinquemila stazioni radio locali la
trasmettevano di continuo. Il brano, oltre a vincere il Grammy Award, è stato
venduto negli Usa per più di sette milioni di copie.
Il Live Aid del 1985 riscosse molti consensi ma anche qualche critica.
Alcuni critici musicali anglosassoni, in sintonia con qualche rocker che
declinò l’invito di Geldorf, scrissero che l’iniziativa era fatta anche per
rilanciare gli stessi musicisti sul mercato discografico, in un periodo in cui le
Band famose nei primi anni Settanta si erano sciolte ed i solisti ad esse
sopravvissute facevano fatica a imporsi sul mercato. In effetti, questo tipo di
critiche mirano a sottolineare che l’industria musicale non restò estranea
all’impresa di beneficenza. Anzi.
Del doppio concerto Wembley-Filadelfia del Live Aid non esiste una
video-registrazione integrale. Geldorf promise ai musicisti l’unicità
dell’evento. Al punto che l’ABC statunitense ha cancellato i nastri registrati.
Tuttavia, alcune copie sono state depositate e segregate presso la
Smithsonian Institution. MTV ha conservato u n centinaio di ore di video,
ma le interruzioni degli spot pubblicitari hanno mutilato non poche
esibizioni musicali. Anche la BBC possiede i suoi nastri, ma non è ben
chiaro che cosa contengono, visto che i brani sinora resi noti sono alquanto
ridotti.
Milioni di telespettatori nel mondo hanno eseguito, con ogni
probabilità, una registrazione domestica di tutto ciò che hanno visto ed
ascoltato. La confezione in Dvd ha dato luogo ad un mercato tra i
collezionisti. C’è chi ha la trasmissione in mono della BBC e chi ha il
concerto in stereo di MTV. C’è altresì una collezione di 4 Dvd, pubblicato
nel novembre del 2004, che rappresenta il documento ufficiale dell’evento,
anche se contiene soltanto 10 delle 16 e più ore di concerto.
L’idea del mega-concerto dal vivo ed in mondovisione non tramontò
con l’estate del l985. Vent’anni dopo, nel 2005, negli Stati appartenenti al G8
vennero organizzati dieci concerti rock. Nacque così il Live 8. I dieci
concerti vennero accesi in diverse città: nel Park Place a Toronto; a
Versailles vicino a Parigi; al Makuhari Messe di Tokio; nel Circo Massimo di
Roma; nella Piazza Rossa a Mosca; nella Piazza Mary Fitzgerald di
Newtown a Johannesburg; in Hyde Park a Londra; nell’Eden Project in
Cornwall (UK); all’interno del Museum of Art di Philadelphia.
A questo o quel concerto locale presero parte, ancora una volta, molte
rockstar: Pink Floyd, U2, Bon Jovi, The Cure, The Who, Paul McCartney,
Coldplay, Muse, REM, Deep Purple, Elton John, e Bob Geldorf,
l’organizzatore, insieme con Midge Ure. Sui diversi palcoscenici salirono
circa mille artisti. Da notare, comunque, che a questo Live Aid Africa non fu
presente nessun musicista africano.
Tutto accadde nella prima settimana del mese di luglio. L’annuncio
dell’evento fu dato l’ultimo giorno del mese di maggio. Cosicché l’apparato
venne predisposto nell’arco di poco più di un mese, se si escludono i
preliminari organizzativi. L’evento fu trasmesso in mondovisione da 182
canali TV e più di duemila emittenti radiofoniche. Gli organizzatori
presentarono ai rappresentanti degli Stati più industrializzati che si riunirono
nel G8 di quei giorni di luglio un appello mondiale circa i principi della
manifestazione.
Che cosa è successo prima, durante e dopo il Mega-evento musicale? Il
3 giugno, il Governo britannico appoggiò l’iniziativa del concerto a
Londra, , prima esonerando i rifornimenti dal costo dell’I.v.a., poi
autorizzando una marcia per la pace in Scozia. Uno stock di biglietti del
concerto fu messo in palio con un lotteria; l’acquisto del ticket avvenne per
Sms. Un altro concerto, sovrinteso da Ure, fu allestito al Murray Field
Stadium di Edimburgo.
L’asta pubblica on line degli ultimi biglietti per il concerto londinese,
annunciata da Geldorf, spinse eBay, il Portale digitale delle vendite
autogestite a tempo determinato, a non interdire chi tra gli utenti, in possesso
di biglietti, rivendeva on line a prezzi maggiorati. L’intervento del Governo
britannico contribuì a fermare la speculazione, causa di articoli negativi sulla
stampa.
Nel frattempo, i lavori del G8 proseguirono. I Ministri delle Finanze
cancellarono il debito, contratto con i membri del G8, di diciotto tra i Paesi
più poveri. A metà giugno, contro le critiche di “eccesso di rock
anglosassone” del mega-evento musicale, Peter Gabriel annunciò un
concerto, chiamato “Africa Calling”, in Cornovaglia (UK). In
contemporanea, Geldorf annunciò i concerti del 2 luglio a Johannesburg,
Tokio, Toronto. Intanto, la catena Usa delle MTV assicurò la trasmissione
dal vivo. La ABC si impegnò per due ore di trasmissione delle performance
più significative. Il 2 luglio, a Edimburgo, prima del concerto, la Marcia per
la pace vide sfilare circa centomila persone.
Tutti i concerti erano a ingresso gratuito. Tuttavia, furono venduti dei
biglietti per la solidarietà A Londra, per il concerto in Hyde Park, vennero
venduti circa 66.500 coppie di biglietti, tramite il concorso via Sms, con
selezione e sorteggio, ed il costo di 1,5 sterline. Agli organizzatori, alla
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fine, arrivarono circa 1,5 milioni di messaggini. Per una serie di disguidi,
i proventi degli Sms andarono a coprire le spese dell’intero Live 8.
I cronisti dei media non hanno mancato di sottolineare le critiche
espresse dai musicisti dissidenti: concentrandosi però non sulle critiche
per la politica degli Stati industrializzati nei confronti dell’Africa, bensì
su diversi aspetti dell’iniziativa di Geldorf. Le ‘note’ più rilevanti sono: i)
pretesa di Geldorf di influenzare i massimi rappresentanti dei Governi
occidentali; ii) eccessiva focalizzazione sui Paesi africani più poveri; iii)
strumentalizzazione del Live 8 e dell’Africa per creare un palcoscenico
mediale/mediatico delle rockstar già sul viale del tramonto; iv)
disinnesco della protesta di piazza dei movimenti collettivi e dei No
Global; contraddizione delle rockstar che prima lavorano per l’industria
musicale e poi cantano le stesse musiche contro la povertà nel mondo.
Che cosa successe in Africa? Anche qui esplosero le critiche. I critici
si concentrarono su: i) atteggiamento neo-colonialista degli organizzatori
del Live Aid e del Live 8; ii) auto-obbligo degli occidentali a fare la carità
ai poveri africani già sfruttati per secoli; iii) il condono governativo del
debito pubblico degli Stati africani non favoriva altro che le dittature e
l’espansione delle spese militari per le guerre locali; iv) l’elargizione di
dollari non avrebbe mai fronteggiato i problemi politici di fondo che sono
propri dell’Africa più povera. I favorevoli, invece, evidenziarono che la
musica poteva cambiare la politica se i politici avvertivano la
mobilitazione dell’opinione pubblica sia nazionale che internazionale.
Tutti o quasi tutti i concerti del Live 8 sono risultati un grande evento
anche nei media. Dal Regno Unito, la BBC ha trasmesso (in monopolio)
tutti i concerti ai network europei convenzionati. Negli Stati Uniti,
America Online ha distribuito la ‘diretta’ solo via Rete. In Australia,
diversi network televisivi e radiofonici hanno diffuso dei lunghi spezzoni
dei concerti. L’intera programmazione in ‘diretta’ è avvenuta in Canada,
Irlanda, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Germania, Austria, Polonia,
Brasile.
Ampi spezzoni sono stati diffusi dalle TV di Svezia, Olanda, Cekia,
Svizzera, Spagna, Israele. Negli States, il monopolio della ‘diretta’ fu
esercitato dal network MTV. Oltre a trasmettere quasi l’intera
manifestazione in sede britannica e statunitense, ha presentato anche
spezzoni dei concerti in altri Paesi. Producendo un programma ricco di
interviste a protagonisti ed agli addetti ai lavori. Alcune ore televisive
della ‘diretta’ furono rivendute da American Online al network ABC, già
protagonista del Live Aid.
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