Indice
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Apertura – Un mondo che si cerca
(Mario Morcellini)
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CAP. 1
Perché, ancora una volta, i giovani?
(Mario Morcellini)
37
CAP. 2
Generazione «in bilico». Un quadro di sfondo
(Ida Cortoni)
61
CAP. 3
Consumi culturali in movimento
(Mario Morcellini, Ida Cortoni e Paola Panarese)
93
CAP. 4
Le radici sociologiche di un nuovo «sapere»
(Ida Cortoni)
123
CAP. 5
La sfida moderna dell’educazione
(Ida Cortoni)
139
CAP. 6
La scuola della mediazione
(Mario Morcellini)
155
CAP. 7
Media education. Più di un entusiasmo
(Ida Cortoni)
179
CAP. 8
Media education e territorio: dalla diagnosi
a nuove prospettive di intervento
(Ida Cortoni)
197
CAP. 9
Teleduchiamoci. Analisi di un case study
(Mario Morcellini, Ida Cortoni)
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Bibliografia
APERTURA
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Apertura
Un mondo che si cerca
Nella condizione moderna si presentano principalmente tre elementi sui
quali si è imperniato il passaggio alla modernità: gli attori sociali, le istituzioni
e le comunità scientifiche.
Nel primo caso, il cambiamento sollecitato dalla comunicazione è connesso
a tre dimensioni:
1. Alla sfera del sé e, dunque, alla costruzione e ridefinizione dell’identità
soggettiva degli attori sociali attraverso la stimolazione di una rivoluzione
interiore: l’autoriflessione. È come se la comunicazione aiutasse gli individui
a prepararsi a nuove visioni del mondo e ai diversi stili di vita che, a lungo
termine, si riflettono nelle relazioni sociali e nel racconto degli scenari di
vita.
2. Alle relazioni, secondo una duplice chiave per cui la comunicazione è gesto
simbolico per misurare e migliorare se stessi nello specchio con gli altri, ed è
passione, nella misura in cui l’uomo moderno, travolto dalle crisi contestuali,
cerca il senso della propria vita e l’orientamento all’azione con gli altri.
3. All’azione, poiché la comunicazione aiuta a moltiplicare gli scambi fra soggetti
e a reagire al proprio stato di crisi.
Quanto alle istituzioni, pensiamo di enfatizzare le trasformazioni semantiche e socioculturali vissute dalla scuola, dalla famiglia, dal lavoro, ovvero tutto
ciò che in passato è stato definito come fonte di stabilità, equilibrio e certezza
sociale e personale.
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PROVACI ANCORA, SCUOLA
Quando si parla di comunità scientifiche, infine, s’intende l’atteggiamento del mondo accademico e dei diversi campi disciplinari nel fronteggiare e
analizzare le dinamiche di cambiamento moderno. Questo mondo non è più
ancorato rigidamente alla forza e alla calma della riflessione teorica, ma diventa
inevitabilmente più flessibile, disponibile al dialogo, al confronto fra prospettive
e chiavi di lettura diverse. In una parola, il pensiero moderno è più disposto a
mettere in gioco la capacità di ricerca e di verifica teorica, in coerenza con i
caratteri di indeterminatezza, cambiamento e complessità del vivere propri della
condizione moderna, costruendo uno stile cognitivo che prevede certamente la
dedizione allo studio, tipica dello studente, ma anche l’autoriflessione, tipica
del ricercatore.
Il self nell’età dei media
Evoluzione o metamorfosi sono termini che inducono a processi troppo
lineari per narrare la complessità e la reticolarità dei cambiamenti moderni.
Così, per enfatizzare gli stravolgimenti e le trasformazioni del contesto sociale,
da cui derivano spesso forme di imprevedibilità o incontrollabilità sulla sfera dei
modelli culturali e valoriali, sugli atteggiamenti e comportamenti, sui costumi e
gli stili di vita, oltre che sulle trasformazioni dell’assetto sociale, è di gran lunga
più appropriato utilizzare il termine rivoluzione (Morcellini, 2004a; 2005). L’indebolimento progressivo della memoria e dell’eredità valoriale, la conseguente
perdita di punti di ancoraggio con la tradizione, l’esaltazione della dinamicità, della
flessibilità, della capacità di adattamento soggettivo alle molteplici situazioni del
presente, hanno favorito questo «passaggio» al tardomoderno, non più percepito
solo come trauma, ma anche come opportunità, tanto da essere auspicato e
desiderato dagli stessi soggetti.
L’impatto e lo sviluppo della comunicazione hanno contribuito ad accelerare tali processi di mutamento sociale, determinando in alcuni casi quel
fenomeno di transizionalità (Grasso, 1989), spesso utilizzato dai sociologi per
raccontare le culture giovanili e il senso di disagio maturato dall’imprevedibilità
rivoluzionaria della condizione moderna. La forza narrativa e mitologica dei
codici comunicativi, infatti, risiede nella capacità di penetrare nella sfera simbolica delle persone tanto da non limitarsi a gratificare i bisogni di relazioni,
bensì a moltiplicarli.
Sulla base di questa prima riflessione, i media sono molto più che semplici
ambienti di trasmissione della conoscenza; si configurano come spazi di scambio
e di condivisione di valori, idee e simboli che condizionano i processi di identifica-
APERTURA
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zione individuale e collettiva (Morcellini, 1997) fino a porsi quasi come ambienti
semantici di socializzazione, entro cui i giovani da un lato soddisfano il bisogno di
individualizzazione, dall’altro ricostruiscono appartenenze simboliche e linguistiche
entro un quadro socioculturale ormai svuotato di punti di riferimento e di ancore
valoriali (Besozzi, 2006). Da questa angolazione, la comunicazione assume un
nuovo significato: non svolge più soltanto una funzione di supplenza (Morcellini,
1997; 2004) alla crisi moderna, ma assurge a una moltiplicazione di occasioni
di dialogo e di interazione, grazie soprattutto all’aggiornamento continuo offerto
dalle tecnologie. In tal senso, diventa per il soggetto uno spazio di accumulazione
capitalistica (quasi flessibile), di simboli e di segni che aumentano le chances di
identificazione, riconoscimento, scoperta ed esplorazione di sé e delle dimensioni
socioculturali circostanti.
Il processo di modernizzazione e lo sviluppo tecnologico e scientifico, anche nel campo della comunicazione, hanno certamente favorito l’esercizio della
cittadinanza e della pratica democratica. Il possesso dei media, infatti, legittima
i processi di partecipazione dell’individuo alle dinamiche del nostro tempo, soprattutto in virtù delle strategie di accesso ai territori della conoscenza e della
sfera simbolica. Questa prima interpretazione è parte integrante di un punto di
vista condiviso e diffuso, di uno stile di vita e di aspettativa sulla comunicazione
riferibile a una visione della società della conoscenza fondata sulla ricerca e
sulla promessa del benessere sociale, in cui la formazione (Ranieri, 2006) e la
comunicazione sono le infrastrutture emergenti.
«Solo chi sa di più di quel che fa è in grado di non essere spazzato via dal
cambiamento» (Ranieri, 2006, p. 52) perché può muoversi più liberamente nello
stato sociale e fronteggiare la flessibilità e l’eterogeneità socioculturale. Oggi,
infatti, il sapere diventa il fine per costruire l’identità e le appartenenze, ovvero il
tramite attraverso cui gli individui ridefiniscono continuamente se stessi rispetto alla
realtà circostante. L’investimento sulla formazione permanente, sulla conoscenza
e la cultura rappresenta, quindi, una delle azioni per garantire più competitività
nel mercato del lavoro e fronteggiare la complessità e la disomogeneità sociale
e culturale (Ranieri, 2006; Rullani, 2004).
In questo quadro, la comunicazione rappresenta, ancor più che in passato,
la forma più immediata e coinvolgente di conoscenza del mondo sociale. La sua
natura non è impositiva o, perlomeno, non si presenta come tale, ed è a portata
di mano, immediatamente fruibile, disponibile, amichevole e a basso costo. Tutto
questo fa sì che il tipo di socializzazione che ne deriva non è di tipo autoritario,
laddove la competenza dell’adulto incontra la supposta incompetenza dell’allievo,
ma tendenzialmente paritario. Questo aspetto-chiave è ancora tutto da esplorare,
ma se si tematizzasse meglio la sfera dei bisogni soddisfatti dalla comunicazione e
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PROVACI ANCORA, SCUOLA
le modalità attraverso cui si esplica questo particolare tipo di rapporto (ad esempio
attraverso la media education), si riuscirebbe sicuramente a strutturare in maniera
più adeguata le narrazioni mediali, i meccanismi di produzione e distribuzione
dell’informazione che conquistano la fantasia, incontrano l’immaginario e il
bisogno di sognare dell’uomo moderno.
Questa nuova investitura della comunicazione è facilmente leggibile nel rapporto che i giovani hanno con i consumi culturali; si rivelano capaci di autonomia
e di autorientamento di fronte alla tastiera multimediale e instaurano un rapporto
quasi simbiotico con i media, di naturale gestione e controllo dei linguaggi e dei
codici (Meyrowitz, 1998).
L’innovazione e la «corsa» tecnologica, tuttavia, se da un lato favoriscono
una democratizzazione culturale, per l’aumento delle opportunità di accesso alla
«competenza» comunicativa, dall’altro segnano nuovi divari. La chance di partecipazione alla vita democratica, infatti, non risolve il problema delle nuove forme
di disuguaglianza che la comunicazione consegna alla società del mutamento,
marcando ulteriormente la perdita di punti di riferimento sociali e il radicale
spaesamento delle tradizionali mediazioni culturali (Morcellini, 2004). Così, dal
gap più tradizionale relativo alla diversa disponibilità tecnologica dei media, che
non consente a tutti di costruire esperienze personali e significative, si passa a
quello intergenerazionale, determinato dall’imbarazzo e dal disagio degli adulti
rispetto all’esperienza e alla competenza mediale esibita dai giovani.
Un ulteriore gap riguarda il capitale culturale e conoscitivo degli individui,
o meglio le disuguaglianze di competenze nel campo della comunicazione, utili
per gestire e leggere i cambiamenti socioculturali dei media e per sviluppare un
orientamento autonomo e maturo sia sul piano della decisione che dell’azione. In
sintesi, dietro l’apparenza di una distribuzione isomorfica della comunicazione e
dei suoi strumenti, si celano forme di diversa proprietà, diversa titolarità e diverso
capitale. È qui che si attiva quel processo di accumulazione capitalistica particolarmente evidente nelle nuove generazioni, ovvero la tendenza a conglomerare
continuamente significati, simboli, linguaggi e forme di interazione partendo dalla
molteplicità degli stimoli esterni. Si tratta di una riserva di ricchezza culturale,
semantica e linguistica messa in gioco e reinvestita quotidianamente nel circuito
delle relazioni sociali.
Proprio rispetto a questo ultimo gap, è strettamente connessa la questione
relativa alla «crisi delle mediazioni culturali»: il sistema formativo italiano è stato
sempre in ritardo rispetto ai progressi della comunicazione, basti pensare che
l’Italia è stato l’unico Paese a livello europeo in cui la diffusione mediale, soprattutto
televisiva, ha anticipato l’alfabetizzazione di massa. In questo processo, tutt’altro
che lineare, la TV ha svolto quella funzione di scolarizzazione su larga scala che
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la stessa scuola non è stata in grado di sviluppare, contribuendo a diffondere
non solo una lingua comune, ma anche una cultura condivisa (Morcellini, 2005;
Farnè, 2003).
In tempi più recenti si è sicuramente andata erodendo la funzione di mediazione della scuola e della famiglia, per celebrare il valore dell’esperienza diretta,
dell’autoricerca soggettiva e dell’esplorazione attiva degli individui (Maffesoli,
2004). A ciò si è aggiunta la rapida penetrazione delle tecnologie comunicative
nei vissuti culturali e sociali delle persone, che ha intensificato questo svuotamento di senso. I media, infatti, per la loro natura tecnologica, privilegiano spesso
esperienze fruitive dirette e stimolano processi di costruzione simbolica della realtà
autonomi e soggettivi, dunque privi di filtri culturali. Per questo motivo, quegli
spazi intellettuali attraverso i quali in passato erano spesso mediati i processi
conoscitivi degli individui (come ad esempio la scuola e la famiglia), oggi sono in
declino rispetto allo sviluppo della comunicazione.
Di fronte a queste trasformazioni, la scuola si è sempre trovata ad affrontare
il dilemma della sua funzione sociale: sostenere la conservazione del patrimonio
culturale attraverso la trasmissione di ciò che è legittimato dalla tradizione come
«sapere», oppure rischiare l’adeguamento all’innovazione e al cambiamento circostante, assumendosi la responsabilità di filtrare forme culturali e conoscenze
troppo nuove?
Nel corso del tempo, come è stato rilevato da alcuni studiosi già a partire
dagli anni ’60, la scuola sembra essersi sempre preoccupata di affermare i valori
della tradizione privilegiando una dimensione astratta, spesso freddamente ultracognitiva, al punto di trascurare quegli aspetti più concreti connessi allo sviluppo
della personalità e dell’emotività degli utenti (Alfassio Grimaldi e Bertoni, 1964,
p. 63).
Questo atteggiamento della scuola è stato certamente coerente alle caratteristiche sociali e al modello culturale dominante in quegli anni, ma non è ancora
una resistenza rimossa e gettata alle nostre spalle: l’istituzione scolastica mantiene,
infatti, ancora oggi forme di influenza nella condizione socioculturale inaugurata
dai linguaggi e dagli strumenti della comunicazione.
Questa presa di posizione inevitabilmente condiziona il posizionamento
degli insegnanti rispetto alla comunicazione e rischia di compromettere la loro
passione per l’educazione, esasperando la difficoltà di adeguamento dei contenuti
alle forme espressive e alle dinamiche dei media.
La stessa condizione si riflette, inoltre, sugli studenti e svuota di valore il
contesto formativo, percepito e vissuto come luogo di socializzazione ma non di
apprendimento e di educazione. La crisi, infatti, altro non è che una forma di
cambiamento non governato e, nel caso del contesto scolastico, è strettamente
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PROVACI ANCORA, SCUOLA
associata alla riduzione di disponibilità all’aggiornamento dei suoi attori e dei
suoi utenti.
Anche la scuola, dunque, deve imparare a stabilire il giusto equilibrio fra
obiettivi formativi e culturali senza trascurare lo scambio e il confronto con il
territorio; in tal modo può contribuire a stabilire il giusto connubio tra sapere
e saper fare, riducendo il gap tra offerta formativa e richieste di competenze
professionali. Inoltre consente lo sviluppo, nel soggetto, di una forma mentis più
eclettica, capace di fronteggiare la flessibilità moderna (Ranieri, 2006).
Attraverso la comunicazione, inoltre, questa istituzione può ritrovare il
suo slancio culturale e porsi, ancora una volta, come il terreno intellettuale
entro cui e attraverso cui interpretare il cambiamento moderno. E, dunque,
provaci ancora, scuola. Il progresso tecnologico non basta per garantire senso
culturale e qualità ai contenuti mediali; il canale e il significante, presenti nei
codici dei mezzi di comunicazione, non sono sufficienti per veicolare messaggi
significativi.
Esattamente come afferma Luciano Galliani nel titolo di un suggestivo
libro del 1979, il processo è il messaggio, non certo le tecnologie. Lo spazio
intellettuale e il confronto critico sono alla base dell’humus culturale anche dei
prodotti mediali, così l’investimento verso una politica e un’etica comunicativa
consentirebbe, da un lato, di svecchiare, o meglio rinvigorire, i linguaggi espressivi
e i contenuti mediali, equilibrando i processi di gestione degli apparati comunicativi; dall’altro, di ripristinare, soprattutto nell’azione della fruizione, situazioni di
dialogo e confronto simbolico, grazie ai quali stimolare un processo di costruzione
semantica delle esperienze.
Attraverso la comunicazione, la scuola potrebbe assolvere il compito di
accompagnare i giovani nell’evoluzione socioculturale moderna, osservando
e indagando in che modo i cambiamenti incidono e condizionano i bisogni di
identificazione, modificando le dinamiche di socializzazione. Se è vero che i
giovani sviluppano un rapporto armonico con i media fin dai primi anni della
loro infanzia (Buckingham, 2004), è pur vero che tale naturalismo non sempre
è garanzia di una altrettanto naturale acquisizione di consapevolezza dei meccanismi di processo, celati nella costruzione di un messaggio. Per questo motivo,
un’educazione progressiva alla comunicazione e ai suoi linguaggi potrebbe
contribuire allo sviluppo della consapevolezza della funzione socioculturale e del
potere di condizionamento dei media rispetto all’universo simbolico di tutti. Solo
a questa condizione la scuola può diventare il luogo privilegiato della cultura del
cambiamento, riconquistando quel ruolo di mediazione che può consentire alla
sua vocazione, ma anche alla cultura di massa, il recupero della sua funzione di
garante dell’uguaglianza di chance.
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Famiglia, scuola, lavoro: un album di cambiamenti semantici
Gli studi di sociologia concordano nel dimostrare che la società è continuamente attraversata da tante crisi. Questa condizione fa ormai parte della
storia di qualsiasi sistema sociale (a partire dal mondo pre-moderno); tuttavia
la condizione critica attuale presenta caratteristiche diverse: non si tratta di
una crisi di settore o di una crisi definibile come congiunturale e episodica di
un sottosistema sociale, ma è una situazione che investe tutte quelle istituzioni incaricate, fin dal passato, di organizzare il valore e il tempo della società
(Sciolla, 2002; Griswold, 2004).
A tal proposito, il primo nodo critico riguarda la famiglia: i giovani di oggi
si trovano di fronte a una dimensione che in passato è stata sempre garante di
stabilità e che, invece, oggi è demoltiplicata. Nella società moderna, l’architettura
patriarcale si è sgretolata lasciando il posto a due tipi di famiglia: quella nucleare
e quella «simmetrica», che presuppone una reciprocità e interscambiabilità di
ruoli fra uomo e donna.
Secondo Elena Besozzi (2006), il quadro della condizione strutturale
delle famiglie nella società contemporanea è molto più complesso di quello
che potrebbe apparentemente sembrare: si passa dalla famiglia mononucleare
(composta da un solo componente) a quella allargata, da quella ricostruita attraverso lo scioglimento di altre famiglie alle cosiddette famiglie di fatto, fondate
sull’unione libera.
La crisi di questa istituzione sociale, tuttavia, risale agli anni della contestazione giovanile, in cui viene condannato il modello di famiglia borghese, di
impianto funzionalista, laddove il compito della famiglia è contribuire all’emancipazione dell’individuo per garantire un’efficace integrazione sociale, funzionale al
mantenimento dell’equilibrio strutturale e culturale. Questo modello entra in crisi
negli anni ’70, in concomitanza con l’affermazione del policentrismo formativo
e culturale e in seguito a una serie di trasformazioni sociali. Essa ha perso i
connotati tipici dell’istituzione per trasformarsi in un gruppo sociale, ovvero in
uno spazio per costruire progetti di vita personali, relazioni e rapporti affettivi
ed educativi. Si viene, dunque, a delineare un quadro difficilmente circoscrivibile
in un modello standard, poiché entra in discussione la qualità dei rapporti di
scambio fra genitori e figli, che determina la sua efficacia educativa nel processo
di costruzione del sé.
Oggi, nonostante l’eterogeneità e la complessità del quadro appena configurato, il senso della famiglia ancora sembra presente nell’universo valoriale
degli individui, soprattutto dei giovani. Secondo quanto affermano recenti indagini nazionali dell’ISTAT (2005), confermate da ulteriori ricerche più localizzate
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PROVACI ANCORA, SCUOLA
e circoscritte,1 la famiglia risulta ancora al primo posto fra i valori riconosciuti
dai giovani nella gerarchia delle «cose più importanti», sebbene il rapporto all’interno delle mura domestiche, di fatto, sia spesso conflittuale, contraddittorio
e, dunque, difficilmente compatibile con relazioni di qualità. La Besozzi descrive
efficacemente questo trend attraverso un gioco di attese e desideri per il futuro,
tipiche della condizione giovanile, e strettamente connesse al senso di precarietà
e di incertezza sociale; in altre parole, la famiglia per i giovani rappresenta il
simbolo di quella sicurezza, della stabilità e della protezione rispetto a una realtà
frammentaria e fragile. Il valore di questa agenzia di socializzazione si potenzia
innanzitutto nella dimensione dell’immaginario, rappresentando per i giovani il
desiderio di stabilità contro lo stato di transitorietà esterna.
Una tale lettura potrebbe fornire un’utile chiave interpretativa del prolungamento della permanenza delle nuove generazioni all’interno delle mura domestiche,
accanto a motivazioni di carattere più materiale connesse alla precarizzazione del
lavoro. Se la famiglia rappresenta un bene-rifugio, non costituisce in ogni caso
una proiezione futura intorno a cui costruire un progetto di vita, probabilmente
per il senso di responsabilità individuale e di impegno soggettivo che la costruzione
di un nucleo familiare comporta (Besozzi, 2006).
Il secondo nodo critico riguarda l’improbabilità educativa nella scuola.
Quest’ultima più delle altre è segnata dall’indebolimento della capacità della società
di trasferire alle nuove generazioni culture e saperi non negoziabili. Nel passato,
ai giovani si trasmettevano valori e conoscenze, ma quello che si assimilava era,
in realtà, l’architettura dell’età adulta e il relativo apprendimento del ruolo. Oggi,
la stessa scuola risente dell’indebolimento della società ed entra in crisi perché
ancora si fonda su prescritti pedagogici tradizionali che poco si adeguano alle
richieste e alle caratteristiche della società moderna. È lo scenario di improbabilità
educativa con cui intendiamo l’aspetto di «parcheggio» sempre più incorporato
a questa istituzione formativa, il senso di vuoto dei valori e di incomunicabilità
soprattutto fra le generazioni, tranne nei casi in cui l’insegnante riesce, con uno
sforzo di rilievo, a recuperare il ruolo della mediazione. Testimonianza di ciò è
da un lato, l’aumento della indisponibilità formativa, visibile attraverso l’evidente
arroganza e volgarità sempre più manifesta negli atteggiamenti dei giovani, e
dall’altro, un aumento della scarsa disponibilità degli insegnanti a mettersi in gioco
1
Ci riferiamo alle ricerche condotte negli ultimi anni dal Dipartimento di Sociologia e Comunicazione
e dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza – Università di Roma sull’universo
giovanile in rapporto ai mezzi di comunicazione, come ad esempio la ricerca realizzata nel 2003
«Quaderni di vita» in collaborazione con l’Assessorato alle politiche giovanili della provincia di Roma
e «Comunicare a scuola» (2006), effettuata in collaborazione con la IX Commissione consiliare
permanente della regione Lazio sulle politiche giovanili.
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nel processo educativo. Uno dei fattori scatenanti della crisi, quindi, concerne
proprio la perdita di fiducia e di «credo» dei docenti; in tal senso, la scuola rischia
di diventare una macchina del vuoto, perché produce architetture e schemi,
ma non cultura.
Il terzo nodo critico riguarda la crisi del lavoro. In passato, il lavoro rappresentava una risorsa economica che provvedeva a una sistemazione stabile
nella società, ma era soprattutto una dimensione produttiva di identità e di
socializzazione. Il lavoro ha determinato forme impressionanti di emancipazione
individuale, funzionando come strumento di accesso e legittimazione all’interno di
ceti e classi sociali, oltre che da motore di mobilità e di valorizzazione meritocratica. La scelta della flessibilità, apparentemente comprensibile nella prospettiva di
allargare il mercato del lavoro, ha commesso un errore di fondo: quello di considerare quest’ultimo come una questione meramente economicistica, trascurando
la sua funzione di socializzazione, di preparazione ai ruoli e di raggiungimento di
mete, ma soprattutto di costruzione di identità.
La società moderna non rappresenta più una rete di protezione per i
comportamenti individuali e l’indebolimento della prescrizione all’azione, alla
socializzazione, all’imposizione dei valori e delle norme comportamentali finisce
per scaricarsi sul soggetto, che diventa protagonista delle proprie scelte, ma
anche delle sconfitte. Lo sbilanciamento di peso e di attenzione sull’individuo,
tuttavia, comporta un’assunzione di responsabilità per l’orientamento socioculturale all’azione, determinando un aumento di disagio e di criticità di fronte alle
molteplici opportunità di scelta della società. Del resto, alcune caratteristiche del
tempo moderno riguardano la modificazione nella dinamica diritti/doveri: rispetto al passato il senso del dovere e del limite diventa sempre più insopportabile,
mentre cresce in modo esponenziale la rivendicazione delle aspettative individuali
nei confronti dell’organizzazione sociale.
La stessa metafora «un mondo che si cerca», con cui abbiamo voluto intestare
questa Apertura, racchiude l’immagine di un tempo caratterizzato dall’aumento
esponenziale delle incertezze, delle fonti di insicurezza, paura e sfiducia, mentre
la nostra idea di società si fonda — con bella sicurezza — sulla fiducia e sul riconoscimento dell’altro (Beck, 2000; Bauman, 2002; Maffesoli, 2004).
Un indicatore dell’accanimento individualistico è dato dalla concentrazione
di attenzione sul corpo, sempre più considerato quale territorio di ricapitolazione dei bisogni di felicità e di realizzazione soggettiva, e non è un caso che, nel
tempo moderno, gli esseri umani rispetto al passato hanno più beni di consumo,
attraverso cui cercano di appagare il senso di soddisfazione dell’identità individuale (Codeluppi, 2003). Ma le aspettative desiderate, tuttavia, non sembrano
commisurate a una possibilità di restituzione: all’aumento di ricchezza e di beni
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PROVACI ANCORA, SCUOLA
materiali corrisponde paradossalmente un’acutizzazione del disagio. Per questa
via, la società di oggi appare sempre di meno un centro erogatore di benessere e
di partecipazione, per diventare un territorio in cui agiscono, in modo prepotente,
le aspettative individuali, oltrepassando le mediazioni sostenute dalla società.
Comunità scientifiche e stili cognitivi
Porsi nell’atteggiamento più adeguato per leggere il mondo della comunicazione e il cambiamento socioculturale che ne scaturisce significa adottare uno
stile cognitivo tendenzialmente privo di pregiudizi. È opportuno assumere una
posizione di distacco dall’ambiente in cui viviamo, in modo da comprendere
meglio i meccanismi attraverso cui le persone finiscono per apparire vittime di
routines e abitudini rispetto al bombardamento dei messaggi mediali.
Sottoporsi a una disciplina scientifica significa abbandonare ciò che già si
presume di sapere della comunicazione e lavorare sul punto di vista. Assumere
un atteggiamento cognitivo puro è certamente surreale, tuttavia è possibile
interrogarsi sull’influenza dei pregiudizi sulla comunicazione. Ad esempio, la
ormai tradizionale distinzione fra «apocalittici e integrati» (Eco, 1965), con cui si
tende spesso a classificare l’atteggiamento di chi coltiva una visione pessimista
o attiva sull’incidenza dei media negli atteggiamenti delle persone, è fin troppo
semplicistica e abusata. Lo stesso termine «massa» non ha più senso dopo le comunicazioni di massa, mentre sarebbe più opportuno parlare di «comunicazione
sociale», con cui meglio si descrive un’ambientazione dei fenomeni comunicativi
più stratificata, flessibile e individualizzata rispetto al passato. È impossibile tentare di capire la comunicazione solo restando dentro la fortezza e lo slang dei
problemi della comunicazione.
La fortuna degli studi di questo campo disciplinare si fonda prevalentemente
su alcuni aspetti:
1. Gli esseri umani considerano la comunicazione un terreno sempre più appassionante di studio, ritenendola un argomento da capire oltre che da consumare.
2. C’è una confusa ma generosa presa d’atto che oggi la distribuzione delle
professioni comunicative sia iniqua e corporativa: chi sta dentro un sistema
produttivo o professionale di orientamento mediale (come ad esempio quello
giornalistico), tende a scoraggiare l’inserimento nel sistema di persone con
una definita cultura su questo ambito. Al tempo stesso, nei diversi apparati
produttivi aumenta progressivamente una domanda di accesso alle professioni
delle comunicazioni più trasparente rispetto a dieci anni fa, probabilmente
determinata dal continuo progresso tecnologico che esige più cultura.
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3. Il terzo elemento, forse più affascinante, ritiene che lo studio della comunicazione
sia una modalità di autodisciplina che considera quest’ultima una sorta di guida
per leggere e interpretare il mondo moderno. Seguendo questo ragionamento,
la comunicazione non può più essere intesa come un settore sociale da studiare
come meccanismo, o un sottosistema di un contesto più vasto di stampo funzionalista, come prevedeva un vecchio lexikon sociologico.
Solo così si scioglie la chance della comunicazione quale motore propulsivo
di cambiamento sociale e culturale e la chiave di lettura attraverso cui interpretare
le dinamiche moderne. L’accumulazione di prove sul mutamento funzionale
della scuola, della famiglia e soprattutto del lavoro, sembra dimostrare quanto
la comunicazione ben sopperisce alla crisi che attraversa la nostra società, assolvendo un ruolo di liquido supplente. Agisce potentemente sul cambiamento
reagendo alla perdita di peso dei valori e alla crescita dei disvalori. Questa, in
ogni caso, non solo aiuta a superare le crisi, cioè a riempire i buchi neri delle
nostre interazioni, ma anche a stimolare la costituzione di nuove e diverse
relazioni sociali, andando oltre la semplice funzione di supplenza. Ciò significa
che la comunicazione, di fatto, copre i buchi di plausibilità delle relazioni sociali,
ma soprattutto copre il declino di tutte le istituzioni che in passato avevano il
compito di organizzare e prescrivere il comportamento individuale (la scuola,
la famiglia e la religione). (Morcellini, 1997; 2004).
Riassumendo, per comprendere l’azione della comunicazione sugli individui
e sulle società, sia come forza industriale, sia come forza narrativa, poetica e
relazionale, è opportuno oltrepassare la sua sintassi e riflettere sulla sua incidenza
sul contesto sociale e sulla dimensione del cambiamento che la circonda. Senza
una rappresentazione della crisi della società moderna infatti, cioè di quello che è
spesso definito «passaggio» alla tarda modernità, i fenomeni comunicativi finiscono
per apparire come problematiche essenzialmente tecniche e organizzative.
Occorre, al contrario, scambiarsi, anche senza pretese conclusive, un’idea
di società «modificata» sotto l’impulso della comunicazione e degli esseri umani,
che hanno attivamente sfruttato gli strumenti mediali per dominare l’esperienza
e il mondo.
Ciò determina un cambiamento di mentalità: è opportuno sfumare le differenze disciplinari tra studiosi di comunicazione, sociologi e pedagogisti, per
riflettere e analizzare il mondo moderno. È come se le comunità scientifiche,
che da sempre hanno contrassegnato le appartenenze disciplinari e i campi di
indagine, si ibridassero, in virtù soprattutto dell’interdisciplinarità degli stili di
relazione. In tal modo, è possibile riscoprire
[...] il coraggio di rimettersi in discussione grazie alla gratificazione prodotta da una disponibilità al confronto, al mettere in gioco la propria merce
competitiva con ciò che gli altri sanno o pensano di sapere. (Morcellini e
Rivoltella, 2007)
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PROVACI ANCORA, SCUOLA
Come studiosi, siamo troppo strutturati sulla continuità e sulle cornici, mentre
la vita induce a misurarsi continuamente con esperienze diverse, forgiando sempre parole nuove. In questo senso, la fatica del cambiamento è frustrante perché
i risultati, per definizione, non sono commisurati agli sforzi ma, uscendo dalle
nostre fortezze/sicurezze e rendendosi conto delle ragioni delle altre comunità,
diventa possibile migliorare.
Da un cambiamento di mentalità può derivare un cambiamento di stili di
relazione fondati più su una confidenza reciproca che sull’appartenenza disciplinare, e proprio questo legame può porsi alla base della tolleranza e della resistenza
alla fatica e alla stanchezza, al rispetto e al sostegno reciproco, soprattutto alle
ragioni dell’altro (Morcellini e Rivoltella, 2007).
L’architettura del libro
Il libro problematizza il rapporto fra il mondo della comunicazione e della
formazione (media education), adottando il punto di vista delle scienze sociali,
e ricostruisce il profilo teorico maturato negli ultimi decenni dalla «scuola di Comunicazione» di Roma sul rapporto fra media e giovani e sulla media education.
Partendo dalla ricostruzione dello scenario moderno caratterizzato dal continuo
mutamento socioculturale, il libro descrive, attraverso lo sguardo delle giovani
generazioni, la metamorfosi delle tradizionali agenzie di socializzazione: la famiglia, la scuola e il lavoro.
Il passaggio dalla dimensione solida a quella liquida della condizione moderna (Bauman, 2002) induce a un indebolimento delle tradizionali mediazioni
culturali per esaltare la centralità e l’emancipazione del soggetto nel costruire
il proprio progetto di vita. L’eccesso di individualismo e di libertà soggettiva,
a lungo andare, rischiano di dar vita a una «socializzazione di corsa» che, nel
travalicare qualsiasi forma di limite e di ostacolo, non riconosce più l’autorità
e l’autorevolezza dei soggetti deputati all’educazione, rischiando di rinunciare
implicitamente alla ricchezza formativa dello scambio e del confronto intergenerazionale.
Perché ancora una volta i giovani? È la domanda-chiave intorno a cui si
struttura il capitolo primo: come sono cambiati i comportamenti giovanili dopo
gli anni ‘60 e rispetto alle trasformazioni socioculturali moderne? Come è mutato il loro modo di rappresentare la realtà di fronte al declino delle tradizionali
mediazioni culturali? Quali nuovi significati hanno assunto la famiglia, la scuola
e il lavoro? E soprattutto, come è cambiato il modo di rappresentare i giovani
nelle ricerche e nella letteratura?
APERTURA
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La ricostruzione di un quadro di generazione di fronte alla fragilità delle
risposte socioculturali esterne si pone alla base del capitolo secondo, che affronta
il tema del disagio giovanile come conseguenza di un eccesso di individualismo
e di perdita di solidità della prima modernità. Il disagio, infatti, altro non è che
il sintomo di instabilità e di insicurezza di una generazione alla continua ricerca
di «non si sa cosa».
Anche i media possono intervenire in questo progetto di ricerca, poiché
incidono sui processi di identificazione soggettiva e di integrazione sociale.
Il capitolo terzo, dunque, si focalizza sull’analisi dei comportamenti giovanili
di fronte alla tastiera multimediale, come espressione dell’eclettismo linguistico e
semantico attraverso cui i ragazzi imparano a comunicare e a ridisegnarsi nella
società contemporanea.
Rispetto al quadro appena configurato permangono, in ogni caso, alcuni nodi
da sciogliere: come ridurre il disagio giovanile? Come contribuire al ripristino delle
mediazioni culturali? Come consentire il dialogo tra formazione e comunicazione?
Come permettere alla scuola, alla famiglia e al lavoro di intervenire per far fronte
alla transizionalità sociale? Come i mezzi di comunicazione possono aiutare le
istituzioni educative a recuperare la propria mission socioeducativa?
Da qui, l’attenzione progressivamente si sposta dalla prospettiva giovanile
al senso dell’educazione moderna, cercando di analizzare come gli strumenti e
i linguaggi della comunicazione, spesso causa di gap socioculturali fra giovani e
adulti, possano trasformarsi in strumenti di riscatto e di contatto per il ripristino
della mediazione.
L’interpretazione moderna dell’educazione (capitolo quinto) si avvale certamente delle definizioni dell’UNESCO e dei suoi postulati per arrivare ad abbracciare
nuovi significati e ruoli sociali nella società della conoscenza; essa inoltre riconosce
negli strumenti e nei linguaggi della comunicazione indicatori concreti ed efficaci
del sapere, saper fare e saper essere. La scuola, di fronte a una condizione di delegittimazione del proprio statuto e dei suoi attori, può riscattare la propria mission
attraverso la sua ricontestualizzazione e apertura verso tre strategie di intervento:
la ricerca, la relazione e la riforma anche rispetto alla comunicazione.
Attualmente, l’educazione incontra gli strumenti e i linguaggi della comunicazione quali potenziali alleati per un riscatto della propria funzione educativa di
fronte alla manifesta crisi sociale. Nasce l’espressione: media education, ancora di
difficile interpretazione e protagonista di un dibattito teorico, fra toni apocalittici
e integrati, fra chi tenta di legittimarla e chi invece scredita il proprio statuto di
campo disciplinare.
La natura del rapporto fra comunicazione ed educazione non è innovativa,
tanto da aver manifestato nel Ventesimo secolo un proprio excursus storico
20
PROVACI ANCORA, SCUOLA
strettamente coerente alle dinamiche socioculturali e ai principali filoni teorici che
hanno contrassegnato lo sviluppo del pensiero moderno (capitolo sesto).
Da questo percorso deriva l’interpretazione contemporanea della media
education (capitolo settimo) che, ripercorrendo la giovane letteratura costruita
intorno alla sua epistemologia e definizione concettuale, si configura come un
nuovo orientamento dell’educazione per far fronte alle sfide del cambiamento
moderno.
Gli ultimi due capitoli del libro sono più pragmatici (capitoli ottavo e nono),
in quanto l’uno descrive le iniziative e le attività territoriali di formazione, ricerca
e sperimentazione, realizzati in questi ultimi anni dalla Facoltà di Scienze della
Comunicazione de «La Sapienza» di Roma; l’altro focalizza la propria attenzione
sull’analisi di un case study: Teleduchiamoci.
Mario Morcellini
(La Sapienza – Università di Roma)