n.2 - Laboratorio di ricerca sociale

Il Trimestrale del Laboratorio
The Lab's Quarterly
2008 / n. 2 / Aprile-Giugno
Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Pisa
Direttore:
Massimo Ampola
Comitato scientifico:
Roberto Faenza
Paolo Bagnoli
Mauro Grassi
Antonio Thiery
Franco Martorana
Comitato di Redazione:
Stefania Milella
Luca Lischi
Alfredo Givigliano
Marco Chiuppesi
Segretario di Redazione:
Luca Corchia
ISSN 2035-5548
© Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Sociali,
Università di Pisa
Il Trimestrale del Laboratorio
The Lab's Quarterly
2008 / n. 2 / Aprile-Giugno
LOGICA DELLA RICERCA
Marco Chiuppesi
Sull'uso dell'aggregazione fuzzy nella ricerca sociale
264
MATERIALI DI RICERCA
Flessibilità e precarietà: evoluzione o involuzione del mondo
del lavoro? Norme e dati sul recente mercato italiano
273
La cittadinanza anziana tra inclusione ed esclusione.
Possibili aspetti metodologici
340
Riflessione valutativa su di un progetto Urban II
364
Luca Corchia
Il concetto di modernità in Jürgen Habermas.
un indice ragionato
396
Mascia Ferri
L’opinione pubblica e il sovrano di Machiavelli
420
Mark Buchanan, L'atomo sociale.
Il comportamento umano e le leggi della fisica
434
Orsola Sciacca
RIFLESSIONI
Marco Castellano
PROGETTI
Silvia Cervia
STORIA DELLE IDEE
RECENSIONI
Marco Chiuppesi
Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Pisa
LOGICA DELLA RICERCA
Sull'uso dell'aggregazione fuzzy nella ricerca sociale
Marco Chiuppesi
Dipartimento di Scienze Sociali
Università di Pisa
[email protected]
+39 050 2212420
Abstract
Nonostante siano passati oltre quarant'anni dalla prima enunciazione della logica e
della teoria degli insiemi fuzzy (Zadeh, 1965) è da meno di un decennio che questa è
oggetto di applicazione sistematica nel campo delle scienze sociali (Ragin 2000, Smithson e Verkuilen 2006), e che ne vengono approfondite in questo settore le specifiche
implicazioni metodologiche.
Nelle applicazioni della teoria degli insiemi fuzzy alla ricerca sociale vengono impiegati quasi esclusivamente i connettivi unione ed intersezione, operatori che hanno dei
corrispettivi nella logica aristotelica e nella teoria degli insiemi classica. In questo articolo si propone la necessità di impiegare differenti operatori di aggregazione, che permettano la formalizzazione di nessi causali meno stringenti di quelli tradizionali di necessità e sufficienza – pur nelle loro accezioni sfumate, formalizzate con la logica fuzzy
– e che, aggiunti agli strumenti fuzzy già più ampiamente discussi ed impiegati nelle
scienze sociali, possano rendere possibile la modellizzazione fuzzy dei concetti sociologici in maniera più adeguata ad un approccio orientato alla complessità.
Indice
1. Aggregazione
2. T-norme e t-conorme
3. Insiemi fuzzy e concetti
4. Alcuni problemi nell'uso di t-norme e t-conorme
5. Altri operatori di aggregazione
Bibliografia
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1. Aggregazione
In termini generali, l’aggregazione è una operazione mediante la quale una serie di oggetti appartenenti ad un insieme viene aggregata in un unico oggetto del
medesimo insieme (Detyniecki 2000, p.21); anche se in letteratura esistono diverse definizioni formali delle proprietà di una funzione di aggregazione fuzzy,
possiamo elencare quelle evidenziate da Mesiar e Komorníková (1997) che sono
comuni a tutte le differenti definizioni:
1) deve soddisfare le condizioni di confine:
a(0,0,...,0) = 0
a(1,1,...,1) = 1
2) deve essere non decrescente per ciascun argomento:
se (x1,x2,...,xn) ≤ (y1,y2,...,yn), allora a(x1,x2,...,xn) ≤ a(y1,y2,...,yn)
3) deve corrispondere all'identità se unaria:
a(x) = x
2. T-norme e t-conorme
Per t-norma si intende (Pedrycz 1998) una funzione di due argomenti
t: [0,1] x [0,1] → [0,1]
che abbia le seguenti proprietà:
1) deve essere non decrescente per ciascun argomento:
se x ≤ y e w ≤ z, allora t(x,w) ≤ t(y,z)
2) deve essere commutativa:
t(x,y) = t(y,x)
3) deve essere associativa:
t(t(x,y),z) = t(x,t(y,z))
4) deve soddisfare le condizioni di confine:
t(x,0) = 0
t(x,1) = x
per t-conorma (o s-norma) si intende una funzione di due argomenti
t: [0,1] x [0,1] → [0,1]
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che abbia le seguenti proprietà:
1) deve essere non decrescente per ciascun argomento:
se x ≤ y e w ≤ z, allora s(x,w) ≤ s(y,z)
2) deve essere commutativa:
s(x,y) = s(y,x)
3) deve essere associativa:
s(s(x,y),z) = s(x,s(y,z))
4) deve soddisfare le condizioni di confine:
s(x,0) = x
s(x,1) = 1
Così come le t-norme possono tradurre in termini fuzzy l'operazione insiemistica di intersezione (l'AND booleano) così le s-norme possono tradurre in termini fuzzy l'operazione insiemistica di unione (l'OR booleano).
Esiste una pluralità di operazioni che rispettano le condizioni assiomatiche
presentate e che possono essere quindi impiegate come t-norme o s-norme. Per
esempio, dalla logica a tre valori di Łukasiewicz si può estendere alla logica
fuzzy la t-norma
t1(x,y) = max(0,x+y-1)
e la s-norma
s1(x,y) = min(1,x+y).
Un'altra possibile t-norma, t2, si ha ad esempio col prodotto:
t2(x,y) = (x · y).
Indicheremo con t3 la classica t-norma
t3(x,y) = min(x,y)
e con s3 la corrispondente t-conorma
s3(x,y) = max(x,y).
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3. Insiemi fuzzy e concetti
Così come gli insiemi di tipo tradizionale, nella ricerca sociale gli insiemi
fuzzy possono essere considerati uno strumento per formalizzare concetti.
Operare con concetti formalizzati ha il vantaggio di eliminare una serie di
margini intersoggettivi di ambiguità, collegati al diverso rapporto di indicazione
termine-concetto che ricercatore e soggetti sociali (questi ultimi nella duplice natura di fonte e destinatari della ricerca sociale) possono porre in essere a partire
da un medesimo termine. In questo senso, una definizione esplicita permette di
precisare il significato – l'estensione o intensione - dei concetti chiave della ricerca sociale; una definizione operativa esplicita permette di effettuare legittimamente delle operazioni sui concetti, operazioni che pertengono al sistema formale nel cui contesto la definizione operativa pone la versione formalizzata dei
concetti stessi. In questo senso la teoria della misurazione, da Stevens in poi, si è
sforzata di precisare quale tipo di operazione sia legittimo compiere sui dati ottenuti dalla trasformazione del concetto in variabile e dalla rilevazione degli stati
dei casi rispetto ad essa.
L'utilizzo della teoria degli insiemi fuzzy permette di affrontare un ambito ulteriore di vaghezza: quella intrinseca al concetto anche nella sua declinazione
soggettiva, come questo – quale ritaglio ideale nel flusso della realtà - si pone all'attenzione riflessiva del soggetto-osservatore.
Nel senso così precisato, la teoria degli insiemi fuzzy può quindi essere considerata una cornice entro la quale formalizzare i concetti oggetto del discorso sociologico in maniera da poter operare con essi – e con i dati frutto della loro operativizzazione – attraverso operatori logici che permettono di ottenere dei nuovi
insiemi fuzzy, a loro volta traducibili in concetti (esprimibili in linguaggio naturale).
L'ipotetico insieme fuzzy Cf, risultato dell'applicazione di un connettivo di tipo
AND a due insiemi fuzzy di partenza Af e Bf può essere messo in collegamento
con una definizione in termini di linguaggio naturale – a partire dalla più automatica ed esplicita, “insieme degli elementi che appartengono ad Af e a Bf”, fino a
eventuali etichette terminologiche prese dal linguaggio naturale che si ritiene abbiano una copertura semantica adeguata del medesimo concetto. Così ad esempio
se l'insieme fuzzy Af è l'insieme fuzzy dei “lavoratori precari” e l'insieme Bf è
l'insieme fuzzy dei “giovani”, l'insieme fuzzy Cf = t3(Af,Bf) sarà l'insieme fuzzy
dei “giovani lavoratori precari”. La diversa maniera in cui possono essere state
costruite le funzioni di appartenenza che caratterizzano gli insiemi di partenza Af
e Bf può portare a un diversa estensione dell'insieme Cf; sarà comunque un'appartenenza sfumata, ciascun elemento dell'universo del discorso potrà appartenere
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ad esso in maniera sfumata a seconda delle funzioni di appartenenza costruite
sulle variabili sottostanti (ad esempio “età” e “tipologia contrattuale”) e a seconda dell'operatore utilizzato per aggregare i valori di appartenenza.
Il fatto che i connettivi fuzzy di unione ed intersezione siano estensioni dei
corrispondenti connettivi della logica e della teoria degli insiemi tradizionali li
rende sicuramente più familiari, e permette allo scienziato sociale di maneggiarne
i risultati con una certa naturalezza. E' già disponibile una maniera immediatamente comprensibile di proiettare in linguaggio formale e in linguaggio naturale
l'insieme fuzzy unione e l'insieme fuzzy intersezione, derivanti dall'applicazione
della t-norma t3 e della t-conorma s3 agli insiemi fuzzy di partenza.
Anche nel caso si utilizzino formalizzazioni diverse (rispetto a MIN e MAX)
di unione ed intersezione, impiegando t-norme ed s-norme differenti, avremo
sempre a che fare con operatori che in un modo o nell'altro traducono un preciso
tipo di relazione fra concetti; lo fanno con una minore o maggiore tolleranza all'imprecisione, ma sempre nella direzione di definire un nesso specifico, la versione fuzzy di unione ed intersezione. La traduzione fuzzy operata da Ragin
(2000) di unione e intersezione di una serie di concause rende questo immediatamente evidente, con la proiezione semantica degli operatori fuzzy sul nesso di
causazione sufficiente e su quello di causazione necessaria.
Tuttavia, la natura essenzialmente complessa che il mondo sociale ha nel contesto del discorso posto in essere dalle scienze sociali, fa si che possa essere necessario impiegare nessi di causazione meno stringenti di quelli, anche opportunamente fuzzificati, della causa necessaria e della causa sufficiente.
Individuare l'insieme minimo di condizioni comuni a tutti i casi individuati
come rilevanti ai fini della definizione di un certo tipo di fenomeno sociale, (come, nel contesto dell'analisi comparativa su insiemi a n piccolo, permette di fare
la FQCA di Ragin) è senz'altro importante. Ma possono esserci altri possibili
ambiti di applicazione della teoria degli insiemi fuzzy alla ricerca sociale nei quali sia necessario da parte del ricercatore tener conto delle pretese di significato
così come esse emergono dai costrutti degli attori sociali stessi, cosa che l'analisi
– prevalentemente politologica – condotta negli studi comparativistici che si avvalgono della FQCA può evitare, concentrando i propri sforzi alla creazione di
costrutti concettuali esplicativi di alto livello, operando sovente con unità di analisi fortemente aggregate quali nazioni o macroregioni e con un numero ristretto
di variabili.
Con l'avvicinarsi dell'unità d'analisi alla rete di relazioni posta in essere dal
singolo soggetto diventa maggiormente rilevante la natura dei costrutti concettuali in funzione dei quali i soggetti orientano le proprie azioni, e le variazioni nell'intensione e nell'estensione del medesimo concetto come questo è significato
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dai singoli attori e dal ricercatore stesso rende necessario intervenire su un'altra
dimensione della vaghezza dei costrutti concettuali attorno ai quali si struttura
l'analisi.
La mia proposta è quella di impiegare quando necessario, nelle applicazioni
della logica fuzzy alle scienze sociali, operatori di aggregazione alternativi alle tnorme e alle t-conorme. E' necessario un approfondimento dei motivi di questa
proposta, funzionale alla formalizzazione di un tipo di rapporto di aggregazione
generica tra gli insiemi di partenza.
4. Alcuni problemi nell'uso di t-norme e t-conorme
Quali sono le caratteristiche di t-norme e di t-conorme che possono renderne
problematico l'utilizzo per la costruzione di indici sociali e che possono spingere
alla ricerca di differenti funzioni di aggregazione?
Innanzitutto le t-norme mostrano un comportamento di rinforzo verso il basso,
mentre le t-conorme hanno un comportamento di rinforzo verso l'alto (Yager e
Rybalov, 1998). Inoltre, entrambe le categorie sono prive di comportamento
compensativo (Zimmermann e Zysno, 1980).
Questo significa che aggregando attraverso una t-norma degli elementi di un
insieme, il risultato sarà minore o al più uguale rispetto ai valori singolarmente
presi (rinforzo verso il basso). Formalmente:
t(x,y) ≤ min(x,y)
Aggregandoli invece attraverso una s-norma, il risultato sarà più alto o uguale
dei valori singolarmente presi (rinforzo verso l'alto). Formalmente:
s(x,y) ≥ max(x,y)
É evidente che nel caso della t-norma t3 e della s-norma s3 la proprietà di rinforzo si esprime in maniera più limitata. L'assenza di comportamento compensativo implica invece che aggregando una serie di elementi mediante una t-norma,
elementi dal valore elevato non possono compensare elementi dal valore basso,
la cui presenza conduce come risultato dell'aggregazione ad un risultato dal valore basso; e viceversa, aggregando gli elementi attraverso una s-norma, elementi
dal valore elevato influiscono sul risultato finale senza che questo sia compensato
da elementi con basso valore.
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Nuovamente, questa assenza di compensazione è portata al massimo grado
negli operatori t3 e s3, nei quali il risultato dell'aggregazione essendo uguale rispettivamente al più basso ed al più elevato dei valori aggregati, risulta ininfluente l'apporto al risultato stesso di tutti gli altri elementi dal valore rispettivamente
più elevato o più basso (comportamento che per le altre t-norme e t-conorme si
verifica solo quando uno degli elementi ha valore rispettivamente di 0 (per le tnorme) o 1 (per le t-conorme).
Ad esempio,
t3(0.2, 0.8, 0.9, 0.9, 0.98) = 0.2
e
s3(0.9, 0.1, 0.2, 0.1, 0.15) = 0.9
Questo comportamento rende problematico l'impiego di t-norme e t-conorme
per aggregare degli insiemi laddove la proiezione semantica dell'aggregazione
non sia su uno stringente nesso di causazione necessaria o sufficiente, ma su più
generiche forme di connessione tra variabili. Questo tipo di connessione si trova
nei tradizionali indici sintetici ottenuti dall'aggregazione di più indicatori, a loro
volta costruiti in riferimento ad opinioni, intenzioni, e più in generale ad inaccessibili stati interni degli attori sociali. Laddove si ritiene che una pluralità di indici,
costruiti su altrettante variabili, identifichino le dimensioni di un fenomeno complesso, calcolare l'appartenenza degli elementi all'insieme fuzzy corrispondente al
fenomeno complesso prendendo in considerazione solo il punteggio su una delle
dimensioni (collegandole con la t-norma t3) o dando ad esso un peso maggiore
nella determinazione dell'appartenenza (come avviene con altre t-norme) può non
rispecchiare la natura della relazione che lega le diverse dimensioni per come
l'osservatore sociale ha modellizzato il fenomeno.
5. Altri operatori di aggregazione
L'utilizzo di connettivi fuzzy nelle scienze sociali per costruire indici sintetici
sulla base di indicatori a loro volta formalizzati come insiemi fuzzy può essere
particolarmente utile per le variabili cosiddette “quasi-cardinali”, tenendo presenti i caveat che questo tipo di variabile impone (Marradi 1998, pp. 104 e segg.)
In questo caso diventa possibile impiegare operatori di aggregazione come le
medie (aritmetica, aritmetica ponderata, geometrica, armonica), la mediana e altre simili operazioni dalle ben note proprietà; oppure classi di operatori parametrici di aggregazione più generali come gli OWA (Ordered Weighted Averaging
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operators), introdotti da Yager (1988) e usati nella simulazione dei processi di
decision making:
n
OWA x 1 , x 2 , ...,x n
j=1
wj x
j
Dove σ è una permutazione che ordina gli elementi in maniera decrescente secondo il valore del peso w di ciascuno; i pesi w a loro volta devono essere non
negativi e la loro somma deve essere uguale a 1. Opportune scelte dei fattori di
peso possono generare operatori già visti, come min e max (ad esempio, quest'ultimo attribuendo peso 0 a tutti gli elementi fuorchè l'n-esimo, al quale si assegna
peso 1), ma questi sono solo i casi limite di una intera famiglia di operatori intermedi determinati dalla scelta dei pesi w.
Le proprietà di ciascun operatore possono guidare nella scelta a seconda del
tipo di relazione che, secondo i presupposti dell'osservatore sociale, conducono
dai concetti di partenza all'indicatore sintetico, e quindi dall'appartenenza di ciascun elemento agli insiemi fuzzy che formalizzazno i concetti di partenza all'appartenenza all'insieme fuzzy che formalizza l'indicatore sulla proprietà indagata.
Quello che è importante tenere sempre presente nell'impiegare questo tipo di
strumento concettuale è che si sta operando su insiemi fuzzy; l'indice sintetico
che deriva dall'aggregazione dei punteggi dei diversi elementi rispetto agli indicatori di partenza è il grado di appartenenza di ciascun elemento all'insieme
fuzzy che aggrega gli insiemi fuzzy di partenza.
Non c'è differenza formale nel normalizzare diverse variabili tradizionali sull'intervallo 0-1 e poi applicare ai punteggi così normalizzati l'operazione di aggregazione prescelta; ma effettuare queste operazioni nella cornice teorica degli
insiemi fuzzy significa accettare esplicitamente la vaghezza intrinseca alla formalizzazione dei costrutti concettuali, operata dal ricercatore a partire da una complessa relazione con i costrutti degli attori sociali. C'è della vaghezza nei costrutti
concettuali dei singoli attori sociali, e c'è della vaghezza nel costrutto aggregato
che l'osservatore sociale pone in essere a partire da quelli; la possibilità di formalizzare con tecniche adeguate come appunto la fuzzificazione e l'utilizzo di aggregatori fuzzy permette all'osservatore di operare su un modello astratto della
rete di relazioni sociali in modo che le operazioni concettuali e i loro risultati siano soggetti allo scrutinio intersoggettivo che caratterizza il discorso scientifico
senza che i margini di vaghezza associati al rapporto concetto-referente e alle diverse estensioni dei concetti a livello degli attori sociali e dei diversi osservatori
formino una coltre impenetrabile.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
272
Bibliografia
Detyniecki M., 2000, Mathematical aggregation operators and their application to video
querying, Ph. D. Thesis, Université Paris VI.
Marradi A., 1998, L'analisi monovariata, Milano, FrancoAngeli.
Mesiar R. e Komorníková M., 1997, Aggregation Operators, Proceeding of the XI Conference
on applied Mathematics PRIM' 96, Herceg D., Surla K. (eds.), Institute of Mathematics,
Novi Sad, pp. 193-211.
Pedrycz, W., 1993, Fuzzy Control and Fuzzy Systems, second, extended, edition, New York,
John Wiley & Sons.
Ragin, C., 2000, Fuzzy-Set Social Science, Chicago, Chicago University Press
Yager, R. R., 1988, On ordered weighted averaging aggregation operators in multi-criteria
decision making, in IEEE transactions on Systems, Man and Cybernetics, 8, pp. 183-190
Yager, R. R. e Rybalov, A., 1998, Full reinforcement operators in aggregation techniques, in
IEEE Transactions on Systems, Man and Cybernetics, 28, pp. 757-769.
Smithson M., Verkuilen J., 2006, Fuzzy Set Theory. Applications in the Social Sciences, in
Quantitative Applications in the Social Sciences, 147, Thousand Oaks, SAGE Publications.
Zadeh, L.A., 1965, Fuzzy Sets, in Inf. & Contr., 8, pp. 338-353.
Zimmermann, H.-J. e Zysno, P., 1980, Latent connectives in human decision making, in Fuzzy
Sets and Systems, 4, pp. 37-51.
MATERIALI DI RICERCA
Flessibilità e precarietà: evoluzione o involuzione del mondo del lavoro?
Norme e dati sul recente mercato italiano
Orsola Sciacca
Abstract:
L’idea di questo scritto è nata dall’osservazione dei cambiamenti sociali, giuridici,
economici e organizzativi, che stanno attraversando il mondo del lavoro. Il contesto entro il quale tali cambiamenti sono avvenuti è quello “postmoderno ” in cui si profilano
profonde trasformazioni della condizione occupazionale standard, cioè di quel sistema
che prevedeva la centralità del lavoro salariato dipendente a tempo pieno e indeterminato. Le trasformazioni che hanno seguito il declino del fordismo, hanno introdotto un
nuovo modello di produzione ed una nuova gestione del lavoro. Il sistema produttivo si
presenta meno rigido e richiede maggiore flessibilità e capacità di adattamento alle fluttuazioni della domanda e alle richieste dei consumatori. Di conseguenza, anche i contenuti e i significati del lavoro sono mutati insieme alla nuova organizzazione produttiva
e alle forme occupazionali. Indice di questi cambiamenti è la diffusione di nuove
forme contrattuali, denominate atipiche, che sembrano rappresentare in Italia, ma anche
in tutta Europa, la chiave di svolta del mercato del lavoro. Sempre più spesso, infatti,
si parla di deregolamentazione, di de-standardizzazione e di flessibilità lavorativa.
Il termine “flessibilità”, entrato ormai nell’uso comune, sembra però non avere un
significato univoco: è simbolo delle attuali trasformazioni e può essere inteso come sinonimo di autonomia, adattabilità e mobilità o come una condizione generatrice
d’incertezza. Ciò significa che, a seconda delle situazioni, dei percorsi e degli obie ttivi
dei soggetti, l’instabilità dell’impiego può essere vissuta in modi molto diversi, come
una trappola o come una garanzia di libertà, come vincolo o come risorsa. La flessibilità
comporta anche un mutamento significativo della percezione di sé, visto che uomini e
donne sperimentano quotidianamente la difficoltà, se non l’impossibilità, di trasformare
le “proprie esperienze in narrazioni continuate”. Dunque l’essere o il rendersi flessibili
per il mercato del lavoro, comporta tutta una serie di implicazioni sul benessere individuale e collettivo e sulla progettualità, riscontrabili soprattutto nel lungo termine. La
mancanza di adeguate garanzie non permette, infatti, di poter investire in progetti futuri
a fronte di un reale senso di stabilità. Ne consegue che il “rischio” e l’incertezza si installino nei processi della vita quotidiana, classificandosi come condizioni di normalità.
Indice
1. Trasformazioni nel mercato del lavoro
2. Globalizzazione e post-fordismo
3. Instabilità dell’occupazione: il lavoro atipico
4. Una società di precari?
5. Il lavoro in Italia
Bibliografia
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296
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274
1. Trasformazioni nel mercato del lavoro
La modernità
Il termine moderno fa la sua comparsa per la prima volta agli albori del Medioevo ed è costituito dall’avverbio latino modo il cui significato è “ora, in questo momento”, cui si è aggiunto il suffisso -erno cioè “connesso con il tempo attuale”, quindi “di oggi”.
Nel basso latino ha assunto il senso di “recente” ed è proprio con quest’ultimo
significato che il termine è stato impiegato nel Medioevo e si è diffuso nel gergo
comune come sinonimo di nuovo, in contrapposizione a ciò che è antico e tradizionale. A partire dal XV secolo, il contrasto non è più con il termine “antico”,
ma con quello di “medioevale”, come se il passato venisse rappresentato dal Medioevo e non dall’Antichità. La svalutazione ha riguardato in particolare l’età di
passaggio o età di mezzo, da cui la parola Medioevo, considerata come una parentesi buia (o periodo dei secoli bui) fra due epoche importanti quali l’Antichità
e il Rinascimento. Il pregiudizio negativo fa capo quindi a ciò che è considerato
tradizionale, duraturo, poco sensibile ai mutamenti. Il Rinascimento, epoca appunto di “rinascite”, ha rivendicato l’invenzione dell’uomo moderno capace di
autodeterminazione screditando la figura dell’uomo medioevale. Quest’ultimo
però avendo storicamente sperimentato nuove soluzioni politiche, inedite forme
di governo e posto le basi di molteplici istituti odierni (quali ad es. la banca,
l’assicurazione, gli statuti), in realtà può essere considerato un vero “innovatore”.
Vi è stato però, nel medioevo, un “rifiuto” per l’idea di modernità intesa non come una continuità ma come una rottura col passato ritenuto invece un ancoraggio
sicuro. Sul finire del XV secolo, grazie a grandi scoperte geografiche e ad importanti invenzioni (come ad es. la stampa), il “nuovo” fa la sua irruzione spezzando
la continuità di progresso e segnando delle vere e proprie rotture rispetto alla tradizione. Questo processo dimostra come il Medioevo sia stato, in qualche modo,
una sorta di lungo “corridoio” che ha condotto al mondo moderno.
Si può parlare invece di modernità, secondo l’autorevole sociologo Anthony
Giddens, in riferimento a quei modi di vita o di organizzazione sociale che
sono approssimativamente riconducibili all’Europa del XVII secolo e che si
diffusero in seguito in quasi tutto il mondo 1. Nell’interpretare la natura della modernità i grandi classici della sociologia, da Weber a Durkheim a Marx, hanno
cercato di individuare un unico grande processo che spiegasse tale fenomeno.
Weber individua il motore di un simile processo nell’estensione della “razionalizzazione” a tutte le attività che concernono il vivere nella modernità. I vincoli
di tale razionalità, che trova la sua forma ideale nella razionalità di tipo burocratico, diventano sempre più costrittivi e oppressivi per l’uomo, tanto da imprigio1
A. Giddens, trad. it. Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna 1994, p. 15.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
275
narlo dentro quella che viene definita una “gabbia d’acciaio” di routine burocratica, la sola a legittimare e mantenere la vi talità dell’esperienza quotidiana di ogni individuo. Successivi studi empirici condotti sulle organizzazioni di grandi
dimensioni dimostrano che la rappresentazione weberiana della burocrazia non
risulta calzante, in quanto tali organizzazioni non tendono alla rigidità, ma anzi
producono aree di autonomia e margini d’azione per i loro membri decisamente
più ampi rispetto ai gruppi di piccole dimensioni, dove vigono forme di controllo
e di sanzione diretti2.
Questa nuova visione è fornita dagli studi sulla divisione del lavoro sociale di
Emilé Durkheim3, in cui il sociologo cerca di dare risposta ad una “incongrue nza”, ossia: com’è possibile che l’individuo diventi sempre più autonomo e al
tempo stesso venga sempre più a dipendere dal resto della società. A conferma di
ciò, egli nota che lo sviluppo dell’individuo che caratterizza la modernità non è
accompagnato da un indebolimento dei legami sociali, ma piuttosto da un cambiamento di questi ultimi. Le società premoderne (prive della divisione del lavoro) non conoscono spazi per le differenze e per le individualità, le unità sociali
stanno insieme perché sono tutte simili e ugualmente sottoposte all’unità di grado
superiore di cui fanno parte (l’individuo alla famiglia, la famiglia al clan, il clan
alla tribù) . Interrogandosi sui fondamenti del consenso sociale che stabilizzano le
società, Durkheim intende dimostrare che l’anomia crescente nelle società industriali moderne non è una mera fatalità, ma è da mettere in stretta connessione
con l'instaurazione, la modifica e lo sviluppo di una morale corrente, di un sistema di valori condiviso e con la loro successiva degenerazione. L’estrema mutevolezza della vita sociale moderna deriva, quindi, dall’impulso vitale fornito da
una complessa divisione del lavoro che subordina la produzione ai bisogni umani
attraverso lo sfruttamento industriale della natura. Il sociologo si pone, quindi, in
contrapposizione con le asserzioni marxiane.
Marx individua, invece, il processo origine della modernità nella trasformazione della società da feudale a capitalistica, trasformazione che ha introdotto un
elemento di dinamicità nella società dovuto alla propensione del sistema ad una
continua espansione. Col declino della società di tipo feudale, la produzione agraria basata sul podere locale viene ad essere sostituita dalla produzione per i
mercati su scala nazionale e internazionale, le cui merci sono ora rappresentate
non soltanto dai tradizionali beni materiali ma anche dalla forza lavoro umana.
Marx forse, più di ogni altro pensatore, è riuscito a percepire l’impatto forte e irreversibile che la modernità avrebbe avuto su un intero sistema, tanto da identificarla con l’immagine di un “mostro” che è possibile domare soltanto “indirettamente”, in virtù del fatto che i prodotti dell’uomo (che “nutrono” questo mostro)
sono soggetti al controllo dell’uomo stesso.
Giddens sostituisce questa immagine del “mostro” con quella del «bisonte della strada” (juggernaut), un mostro di enorme potenza che collettivamente, come
2
M. Weber, trad. it. Economia e società. Vol I: teoria delle categorie sociologiche, Edizioni di Comu nità, Milano, 1999.
3
E. Durkheim, trad. it. La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1999.
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276
esseri umani, riusciamo in qualche modo a governare ma che minaccia di sfuggire al nostro controllo e andarsi a schiantare. Il mostro schiaccia coloro che gli resistono e se a volte sembra seguire un percorso regolare, in altre occasioni sterza
bruscamente e sbanda in direzioni che non possiamo prevedere». 4
Giddens distingue tre fasi del mutamento sociale: la società preindustriale o
premodernità, dominata dalla tradizione, dalle credenze religiose e mitiche; la
modernità classica, detta anche società industriale o prima modernità, caratterizzata dalle istituzioni proprie dello stato-nazione, dalle grandi ideologie, dai conflitti di classe; ed infine la modernità radicale o società del rischio, che si distingue per la velocità e la portata dei cambiamenti, per la dissoluzione dei vincoli
spazio-temporali, per la globalizzazione dei rischi.
Marx aveva spiegato la continua mobilità della condizione moderna come risultante del ciclo di investimento-profitto-investimento che, congiuntamente alla
tendenziale caduta del saggio di profitto, genera nel sistema una costante tendenza all’espansione 5. La posizione di Marx è stata criticata da Weber e da Durkheim che hanno identificato l’elemento dinamico della modernità rispettivamente nel “capitalismo razionale” e nell’esistenza di un “ordinamento industriale”.
Bisogna precisare però che nonostante Weber parli di capitalismo, la sua posizione risulta più vicina a quella di Durkheim, piuttosto che alla visione marxista,
in quanto il “capitalismo razionale” weberiano presenta i meccanismi economici
indicati da Marx (anche sulla mercificazione del lavoro salariato) ma nell’accezione di Weber il capitalismo fa riferimento alla razionalizzazione espressa nella
tecnologia e nell’organizzazione delle attività sotto forma di burocrazia. La polemica sulla natura capitalistica o industriale delle istituzioni moderne è espressione di un atteggiamento riduzionista presente nelle teorie sociologiche che vede l’industrialismo come sottospecie del capitalismo o viceversa6, invece di considerarli entrambi come due dimensioni tipiche delle istituzioni della modernità.
Da un lato l’avvento del capitalismo ha preceduto lo sviluppo dell’industrialismo fornendogli lo slancio per la sua affermazione e dall’altro, la produzione
industriale e le rivoluzioni tecnologiche hanno reso più efficienti ed economici i
processi produttivi associando l’uso di forza materiale all’impiego di macchine
tecnologicamente sempre più avanzate. Nel capitalismo il sistema di produzione
dei beni è incentrato sul rapporto tra proprietà privata del capitale e lavoro salariato privo di proprietà. L’impresa capitalistica opera nel contesto di mercati
competitivi di lavoro. La sfera economica è isolata soprattutto dalla sfera politica,
ma i rapporti economici esercitano molta influenza sulle altre istituzioni in virtù
dell’alto grado di innovazione proprio della sfera economica.
Le società capitaliste sono quindi considerate una particolare sottospecie delle
società moderne in generale, in quanto presentano un sistema amministrativo e di
controllo tipico dello stato-nazione avendo sviluppato, inoltre, capacità di sorve4
A. Giddens, trad. it. Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna 1994, p. 138.
5
Ibidem, p. 23.
6
Ibidem, p. 63.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
277
glianza (intesa come supervisione diretta e indiretta delle attività della popolazione nella sfera politica) ben superiori a quelle delle società premoderne.
Nelle società capitalistiche, inoltre, i rapporti tra le attività di sorveglianza e la
nuova natura del potere militare risultano alquanto stretti. Nelle civiltà premoderne la sfera politica non è mai riuscita ad ottenere un controllo del ricorso alla
violenza nel proprio territorio; il controllo dei mezzi della violenza è caratteristica distintiva degli stati moderni.
Il sociologo A. Giddens individua la dinamicità della modernità in tre fattori
interconnessi:
−
La separazione del tempo e dello spazio: ossia quella condizione di distanziazione del tempo-spazio e la loro ricombinazione in forme che permettono
una precisa zonizzazione temporale e spaziale della vita sociale. Essa è una delle
componenti più importanti del dinamismo della modernità, in primo luogo perché
è la condizione primaria del processo di “disembedding” (disaggregazione); la
separazione del tempo e dello spazio e la loro organizzazione in dimensioni standardizzate taglia a metà i legami tra l’attività sociale e la sua aggregazione in particolari contesti di presenza. A loro volta le istituzioni disaggregate estendono il
loro raggio d’azione, ma per avere questo effetto devono coordinare l’azione nel
tempo e nello spazio e un tale fenomeno apre una possibilità di cambiamento
perché libera dai vincoli delle pratiche e delle consuetudini locali. In secondo
luogo, tale separazione mette in moto quella caratteristica della modernità che è
“l’organizzazione razionalizzata”.
Le organizzazioni moderne, infatti, risultano dinamiche perché riescono a
combinare il locale e il globale in modi che nelle società tradizionali sarebbero
stati impensabili producendo effetti sulla vita di milioni di persone. In ultimo, la
storicità radicale associata alla modernità dipende da modalità d’inserimento nel
tempo e nello spazio sconosciute alle precedenti civiltà. La modernità ha permesso all’umanità di appropriarsi di un “passato unitario” che è diventato anche un
passato mondiale.
−
Lo sviluppo di meccanismi decontestualizzati (di disaggregazione o disembedding): tali meccanismi permettono l’estrazione delle attività sociali da
contesti localizzati e la loro riorganizzazione attraverso archi spazio-temporali
indefiniti; si tratta, quindi, di meccanismi fortemente legati alla separazione spazio-temporale.
−
L’ordinamento e il riordinamento riflessivo dei rapporti sociali: la riflessività della vita sociale moderna consiste nel fatto che le pratiche sociali sono costantemente esaminate e riformate alla luce di nuove conoscenze apportate dalle
azioni degli individui e dei gruppi.
Queste tre caratteristiche fanno sì che la modernità assomigli più a un bisonte
della strada che si muove in un percorso instabile e denso di ostacoli imprevedibili che sfuggono al controllo, piuttosto che ad un’automobile ben controllata.
A differenza delle società premoderne, si sta quindi verificando uno svuotamento del tempo e del luogo, nel quale i rapporti fra le persone sono “assenti”
perché dislocate lontano da un’interazione faccia a faccia: il luogo diventa sem-
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
278
pre più fantasmagorico. La separazione dello spazio e del tempo è, quindi, indicativa di alcuni processi di disaggregazione. Nel processo di disaggregazione che
caratterizza la società moderna, i rapporti sociali sono tirati fuori da contesti locali di interazione e ristrutturati su archi di spazio-tempo indefiniti. Questo avviene
in particolare, dice Giddens, con riferimento a due meccanismi fondamentali: la
creazione di emblemi simbolici, mezzi di interscambio che non tengono conto
delle caratteristiche specifiche di individui e gruppi (es. la moneta), e di sistemi
esperti cioè sistemi di competenza professionale o tecnica che organizzano ampie
aree negli ambienti materiali e sociali nei quali viviamo oggi. Tutti gli ambienti
sono pervasi di sapere esperto: progettazione e costruzione di automobili, autostrade, palazzi, ecc. Sia i sistemi esperti che gli emblemi simbolici sono meccanismi di disaggregazione che promuovono la separazione e la distanziazione spazio-temporale fornendo garanzie di aspettativa. Un tale meccanismo viene,
d’altro canto, rafforzato da un altro elemento che caratterizza la società moderna,
ossia da un atteggiamento di “fede” o fiducia derivante dalla consapevolezza e
dalla conoscenza del normale funzionamento di tali sistemi. La fiducia consiste
nel confidare nell’affidabilità di una persona o di un sistema in relazione a una
serie di aspettative riguardanti un determinato evento o circostanza.
Luhmann 7 pone il concetto di fiducia in relazione ad un concetto che ha origini relativamente recenti: il concetto di rischio. La fiducia, infatti, presuppone la
consapevolezza delle circostanze di rischio, ossia opera tenendo conto
dell’imprevedibilità e dell’incertezza connessa al fatto che l’attività umana è socialmente creata piuttosto che essere data dalla natura delle cose o determinata
dalla consapevolezza divina. Nel Medioevo la maggior parte dei fenomeni che
oggi chiamiamo rischi venivano spiegati come atti divini, fortuna o fato, che costituivano il sistema di interpretazione di base degli eventi quotidiani. Rischio e
fiducia sono due elementi interrelati: la fiducia serve normalmente a ridurre o
minimizzare i pericoli ai quali determinati tipi di attività sono esposti.
Gli ambienti in cui fiducia ed rischio coesistono sono cambiati radicalmente
dal periodo premoderno all’epoca moderna. La fiducia non è più conferita soltanto ai parenti, alla chiesa, alle comunità locali, ma viene trasferita ai rapporti personali ed ai sistemi astratti. Nella modernità, fa notare Giddens, la natura delle istituzioni è profondamente legata alla fiducia accordata ai sistemi astratti e in
particolare ai sistemi esperti: «L’affidamento che gli attori comuni fanno sui sistemi esperti non è solo questione di generare un senso di sicurezza riguardo a un
universo di eventi indipendentemente definito, come invece avveniva nel mondo
premoderno. E’ una questione di calcolo dei vantaggi e dei rischi in circostanze
in cui il sapere esperto non solo rende questo calcolo possibile ma effettivamente
crea (o riproduce) l’universo degli eventi come risultato di una continua appropriazione riflessiva di questo sapere». 8
L’idea di rischio è associata allo sviluppo della società moderna occident ale, ai
sui tentativi di controllare il futuro e ai meccanismi per farlo. E’ quindi un’idea
7
8
N. Luhmann, trad. it. La fiducia, Il Mulino, Bologna 2002.
Ibidem, p. 89.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
279
che ha una forte relazione con la vita materiale dell’uomo e con la sua volontà di
controllare il futuro. Chi si assume un rischio lo fa sulla base di un aumento delle
possibilità future. Come aveva sottolineato anche Weber, il capitalismo occidentale è abbastanza differente dagli altri sistemi economici, in quanto calcola profitti e perdite sulla base di una valutazione del rischio. Nelle società occidentali la
crescita dell’idea di rischio è anche associata alla crescente idea di sicurezza. La
sicurezza può essere fornita attivamente ed è questo il motivo per cui il recente
sviluppo del welfare state non è più relativo alla regolazione della condizione
umana ma provvede alla sicurezza delle persone.
La modernità sembra essere però un fenomeno a doppio taglio: da un lato, offre agli esseri umani maggiori opportunità per condurre un’esistenza più sicura e
soddisfacente rispetto al passato e dall’altro presenta un lato oscuro dovuto ad un
crescente scetticismo riguardo la conoscenza stessa della società e ad una mancanza di sicurezza riguardo la precisione dei strumenti concettuali a disposizione
per una tale conoscenza. Questo perché la rapidità con la quale si sono succeduti
i cambiamenti, soprattutto quelli tecnologici, ha raggiunto livelli estremi creando
un andamento di sviluppo del tutto discontinuo rispetto al passato.
I modi di vita introdotti dalla modernità ci hanno allontanato, in maniera nuova, da tutti i tipi tradizionali di ordinamento sociale e le trasformazioni legate alla
modernità appaiono più profonde, tanto per estensione quanto per intensità, della
maggior parte dei mutamenti avvenuti nelle epoche precedenti.
Un secondo elemento che caratterizza la discontinuità della modernità è la
portata del cambiamento: man mano che diverse aree del pianeta stringono tra di
loro legami reciproci, l’intera superficie della terra è virtualmente attraversata da
ondate di trasformazione sociale.
Un terzo aspetto riguarda la natura delle istituzioni moderne. Alcune forme
sociali moderne non trovano riscontro nelle precedenti epoche storiche, sono
quindi delle novità, mentre altre forme presentano una continuità con i preesistenti ordinamenti sociali (ad esempio gli insediamenti urbani inglobano spesso
nuclei di città tradizionali ma in realtà l’urbanistica moderna segue principi del
tutto diversi).
Il valore del lavoro
La storia dell’umanità è storia della lotta che gli uomini intraprendono per sopravvivere e riguarda gli eventi materiali che scaturiscono dalla dialettica tra bisogno e soddisfacimento o più in generale dalla dialettica uomo-natura, in cui
quest’ultima è oggetto e strumento dell’attività vitale dell’uomo. Il lavoro viene
inteso come l’attività mediante la quale l’uomo crea valori d’uso, soddisfa i propri bisogni, costruisce la propria identità anche attraverso il contatto con altri
uomini: esiste quindi un’interdipendenza necessaria fra l’uomo e la sua attività
vitale. Ciò che distingue l’uomo dall’animale è in primo luogo il fatto che solo
l’uomo produce i mezzi utili alla propria sopravvivenza: è il lavoro, secondo
Marx, la discriminante tra noi e gli altri esseri viventi: «Si possono distinguere
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
280
gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si
vuole; ma essi cominciano a distinguersi dagli animali allorquando cominciano a
produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro
organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale». 9
Il lavoro è un’attività libera e l’uomo è libero di produrre i propri mezzi di
sussistenza perchè è attraverso questa attività, rivolta alla trasformazione della
natura per il soddisfacimento dei bisogni, che egli costruisce la propria esistenza.
Bisogna ricordare però che la valorizzazione dell’attività lavorativa non è stata
sempre tale e che vi sono state epoche storiche in cui l’uomo stesso ha costituito
mezzo di lavoro alla stessa stregua del bestiame o degli utensili da lavoro. Durante la schiavitù, infatti, gli uomini diventavano proprietà privata del padrone che
poteva venderli o comperarne altri come fossero oggetti. Il proprietario di uno
schiavo aveva diritto di vita e di morte su di esso e sulla sua famiglia, ne sfruttava il lavoro senza fornire nessun compenso e spesso il costo per il lavoro degli
schiavi era limitato al necessario per la loro sopravvivenza.
Con l’avvento del lavoro salariato, l’uomo non costituisce più merce ma è la
sua forza-lavoro, cioè la sua capacità lavorativa, ad essere venduta. Accanto al
mercato tradizionale nasce, quindi, il mercato della manodopera che contraddistinguerà l’economia capitalista dall’economia mercantile primitiva in cui costituivano merce soltanto i beni materiali (pane, latte, stoffe, scarpe…).
Il valore del lavoro è cambiato in relazione ai cambiamenti succedutisi nei
rapporti di produzione, ossia nelle relazioni reciproche e necessarie che gli uomini instaurano all’interno di un processo produttivo indipendentemente dalla loro
volontà.
Ogni società si regge su un determinato sistema di produzione in base al quale
viene organizzato lo svolgimento dei compiti che permettono di realizzare beni
per la soddisfazione dei bisogni umani. L’importanza del lavoro non si riduce
soltanto alla sua utilità in termini di sopravvivenza fisica e materiale dell’uomo,
ma si inserisce in forme diverse nelle dinamiche di relazione uomo-natura che
assicurano la riproduzione della società.
Nelle società tradizionali, gli uomini vivevano in piccole comunità e si guadagnavano da vivere attraverso la caccia, la pesca, la raccolta di frutti e radici e ripartivano i frutti del loro lavoro a tutta la comunità.
In questo tipo di società la divisione del lavoro era poco sviluppata, per lo più
basata sulle differenze di età e sesso e rappresentava un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia. Si tratta di un tipo di solidarietà che
Durkheim ha definito meramente “meccanica”, che deriva dalle somiglianze tra i
membri del corpo sociale e vincola direttamente l’individuo alla società.
Contrariamente alle società moderne in cui è fortissima la divisione del lavoro
e ogni individuo e gruppo svolgono funzioni diversificate: la solidarietà quindi
non si fonda più sull’uguaglianza ma sulla differenza, è solidarietà “organica”,
9
K. Marx – F. Engels, trad. it. L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 8.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
281
infatti gli individui e i gruppi stanno insieme perché nessuno è autosufficiente e
tutti dipendono gli uni dagli altri.
Anche per Marx la divisione del lavoro è un fenomeno fondamentale per spiegare lo sviluppo delle società, ma la sua visione è profondamente diversa da
quella durkheimiana: il lavoro diviso comporta, infatti, una ripartizione ineguale
del lavoro e dei suoi prodotti, quindi della proprietà privata; di conseguenza esso
è effetto della struttura di classe tipica del modo di produzione capitalistico e fattore di alienazione della forza lavoro 10.
Nelle società moderne il lavoro è stato accompagnato e caratterizzato dalla
comparsa e maturazione del sistema di produzione industriale e dall’avvento delle nuove tecnologie. Oggi il sistema economico ha sempre più al proprio centro
l’elemento tecnologico e gli attuali sviluppi sono fortemente correlati al cambiamento della tecnologia.
Giddens ha sottolineato come il lavoro rivesta un’importanza che va oltre la
semplice sfera economica, poiché esso mette in gioco aspetti che riguardano
l’identità, la riconoscibilità sociale, la condizione psicologica, la relazionalità.
Egli coglie uno degli aspetti centrali e distintivi della vita economica nella modernità: la divisione del lavoro. Il sociologo inglese ricostruisce a grandi linee il
percorso che ha portato il lavoro sino alla modernità ‘matura’.
Rispetto alla società tradizionale, dove:
a) frequentemente il lavoratore prendeva parte direttamente all’intero processo
di produzione,
b) i mestieri artigianali erano poche decine e pochissime erano le attività specializzate (mercanti, soldati, sacerdoti, ricorda Giddens),
c) la maggior parte della popolazione era autosufficiente e si procurava il cibo
ed i prodotti di uso quotidiano attraverso il proprio lavoro, con la famiglia che era
unità di produzione e consumo, la società moderna ha specializzato le mansioni, i
ruoli ed i processi lavorativi, aumentando enormemente l’interdipendenza economica tra i diversi individui.
Nell’Ottocento la rivoluzione industriale operò una profonda e qualitativa trasformazione: il processo qualitativo, che si tradusse anche in termini quantitativi,
subì una così forte accelerazione, da essere definito seconda rivoluzione industriale. La fabbrica infatti andò evolvendosi e mutò profondamente, diventando la
“macchina della produzione” perché caratterizzata dalla divisione del lavoro, utilizzata al livello più ampio possibile, e dal ripetersi “meccanico” da parte degli
operai, dei medesimi movimenti in tempi praticamente uguali.
Il primo ad analizzare, in modo sistematico, le caratteristiche dell'organizzazione aziendale fu un ingegnere americano, F.W. Taylor (1856-1915), cui fa capo
la cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro o Taylorismo.
La lezione di Taylor fu poi applicata nella produzione e vendita di prodotti in
mercati di massa da H. Ford, fondatore dell'omonima casa automobilistica. Il
Fordismo mirava ad ottenere un basso costo della manodopera, mantenendo con10
A. Salvini, La divisione del lavoro, in M.A.Toscano (ed.), Introduzione alla sociologia, FrancoAngeli, Milano 1998, pp. 547-587.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
282
temporaneamente un livello abbastanza alto dei salari grazie ad una maggiore
produttività del lavoro; a tale scopo le operazioni di lavoro furono divise in molti
segmenti semplici che comportavano una ripetizione delle mansioni da parte degli operai. Di conseguenza, alla manodopera non si chiedeva più di essere qualificata: di qui la formazione di una classe lavoratrice dequalificata, facilmente sostituibile, maggiormente controllabile e integrabile in un sistema produttivo ormai dominato dalla meccanizzazione.
Negli ultimi decenni si è assistito ad un sempre più marcato spostamento da un
mercato di massa standardizzato verso una produzione flessibile, mutevole
nell’arco di tempi piuttosto brevi, ‘su misura’ in relazione sia all’ammontare di
richieste sia al tipo di richieste, cosiddetta produzione just in time.
La produzione flessibile ha avuto origine in Giappone, dove si è puntato molto
sulle competenze dei lavoratori e su un’organizzazione più agile.
Al di là della competitività dei sistemi produttivi sul piano dell’efficienza e
delle vendite, Giddens mette in evidenza un altro importante aspetto del fenomeno lavorativo: la motivazione al lavoro o la qualità del lavoro dal punto di vista
del lavoratore.
Fordismo e taylorismo sono stati definiti “sistemi a basso affidamento”, sistemi in cui “le mansioni vengono stabilite dalla direzione e adattate alle macchine.
Le persone che effettuano il lavoro sono strettamente sorvegliate e dotate di poca
autonomia d’azione”11.
Le alternative all’organizzazione del lavoro a basso affidamento, in cui risultano elevati tanto l’insoddisfazione e l’assenteismo dei lavoratori quanto il conflitto, hanno puntato sull’automazione e sulla produzione di gruppo, in cui i lavoratori collaborano per risolvere problemi della produzione.
Dopo lotte contro le tasse o per il cibo, nel XIX secolo il conflitto industriale
ha cominciato a delinearsi in maniera più sistematica, attraverso forme semiorganizzate fino ad arrivare alla formazione dei sindacati e allo sciopero. I
cambiamenti nei rapporti fra governanti e governati e l’estrema diversificazione
delle forme di prestazione lavorativa hanno portato ad una svalutazione sociale
del lavoro. Il lavoro non può essere considerato semplicemente uno strumento
con cui gli individui si garantiscono la sopravvivenza, esso è soprattutto un
fondamentale strumento di trasformazione della realtà. Trasformazione materiale
e oggi immateriale, che prende quindi in considerazione non solo merci e
prodotti, ma anche il loro impatto con la natura, il loro valore sociale ed economico, le modifiche che questi apportano nella vita quotidiana; trasformazione
nei modelli di produzione e di organizzazione del lavoro; trasformazioni
nell’identità del lavoratore in quanto soggetto portatore di un autonomo punto di
vista e perciò in grado di contribuire a determinare cambiamenti. Ci troviamo dinanzi ad una realtà molto complessa per scelte soggettive e condizioni materiali.
11
A. Giddens, trad. it. Il lavoro e la vita domestica, in Id., Fondamenti di sociologia, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 278.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
283
Per invertire la tendenza alla svalutazione sociale del lavoro tanto i sindacati
quanto le forze politiche dovrebbero ripensare l’agenda delle loro rivendicazioni
in direzione di una riaffermazione del primato della persona che determina i
cambiamenti e operare in vista di un riconoscimento di valore al lavoro e alla
qualità del lavoro. Mettere oggi al centro la prestazione di lavoro significa preoccuparsi della materialità delle condizioni di vita contro un’idea che prescinde dalla qualità della vita delle persone per giudicare modernizzazione e progresso.
Status del lavoratore
Il mondo del lavoro è stato attraversato da trasformazioni radicali e profonde
che da un lato, sono conseguenza delle innovazioni e dei progressi che si sono
registrati nelle conoscenze scientifiche, nelle tecnologie produttive e nella cultura
e dall’altro, sono state esse stesse causa di queste innovazioni e progressi.
L’evoluzione del mondo del lavoro è quindi strettamente legata all’evoluzione
delle tecnologie produttive e alle trasformazioni culturali. Le prime hanno determinato cambiamenti rilevanti per quanto riguarda cosa e come produrre e la
quantità di lavoro da impiegare, mentre le trasformazioni culturali hanno inciso
sia sulla quantità e qualità dell’occupazione, ma soprattutto sulla motivazione al
lavoro. E’ possibile constatare, inoltre, che il tempo della vita dedicato
all’istruzione e alla formazione si è notevolmente ampliato, così come si è ampliato il tempo di vita attiva dopo il ritiro dal lavoro. La riduzione del tempo di
lavoro ha riguardato anche, per così dire, il breve periodo: la settimana lavorativa
si è progressivamente ridotta e le ore dedicate al lavoro nel corso della giornata
sono oggi, per la media dei lavoratori, minori che in passato. Tuttavia si riscontra
una difficoltà sempre crescente a distinguere tra tempo di lavoro e tempo di nonlavoro o meglio esiste una sovrapposizione tra tempi di lavoro e tempi di vita.
Il lavoro diviene sempre più immateriale, dunque non quantificabile in termini
di tempo e di spazio: si assiste alla perdita progressiva di competenze e mestieri e
alla crescita esponenziale della compartecipazione e dell'interattività nell’organizzazione del lavoro. Il tempo non è più strumento di misura del lavoro e
di conseguenza, il tempo di lavoro non è più strumento di misura della ricchezza.
È caduta la rigida divisione tra tempo di lavoro e tempo libero, imposta dal
capitale e concretizzata dalla retribuzione salariale. Il grado di libertà dal lavoro,
anche in quelle figure che hanno raggiunto ampi gradi di autonomia (ad esempio,
il piccolo imprenditore, il lavoratore indipendente), è quindi molto basso12.
Nel modello fordista, invece, la giornata lavorativa era strutturata, il tempo lavorativo aveva un inizio e una fine e di conseguenza, la vita domestica veniva
mantenuta separata dalla vita lavorativa. Con l’avvento di nuove figure professionali, il tempo di lavoro valica questo confine irrompendo e invadendo il tempo
e lo spazio domestico.
12
http://www.controappunto.org/documentipolitici/lavoro%20e%20reddito/lavoroimmateriale.htm
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
284
La modernità ha visto il passaggio da un livello di produzione che privilegiava
la quantità di beni durevoli da immettere sul mercato, ad una fase dove la qualità
dei servizi, l’interazione e le tecnologie d’informazione dominano la quotidianità
e guidano l’economia. Si stanno facendo strada nuove forme di lavoro, nuovi e
multiformi soggetti e nuove identità. Oggi la produzione si basa su competenze
diffuse quali ad esempio il linguaggio, l’informazione, la comunicazione e su attitudini umane e sociali come la cooperazione e l’interazione linguistica.
Il consolidato modello di società del lavoro è in crisi e il sistema dei lavori è
ora caratterizzato dalla pluralizzazione delle figure del lavoro e dalla loro moltiplicazione sia verso l’alto che verso il basso, con figure più forti e più deboli del
tradizionale lavoratore salariato di fabbrica. Si registra, quindi, un’inversione di
tendenza rispetto ad un percorso che sembrava lineare, rispetto all’idea della
semplificazione delle figure del lavoro che ha dominato tutto il Novecento e che
raffigurava la società come società del lavoro salariato e indipendente: «Anche se
non tutti lavorano in fabbrica, ovviamente, l’immagine del lavoro che
l’immaginario novecentesco politico sociale e culturale ha quando si parla del
mondo del lavoro, è quella del lavoratore di fabbrica, o del lavoratore dell’ufficio
o del lavoratore di grande apparato, comunque del lavoratore dipe ndente salariato
a tempo sostanzialmente indeterminato, posto in condizioni di lavoro relativamente standardizzate e fungibili, sostituibili, regolate da normative e contratti di
lavoro collettivi e così via…Oggi noi assistiamo a un’esplosione centrifuga delle
figure del lavoro…Dentro la fabbrica si moltiplicano le figure contrattuali del lavoratore. Uomini che fino a ieri lavoravano nello stesso spazio come dipendenti
di un unico padrone, con forme contrattuali omogenee, da alcuni anni hanno visto moltiplicarsi le figure contrattuali e gli stessi datori di lavoro». 13
Questa moltiplicazione delle figure lavorative non riguarda soltanto l’ambito
della fabbrica, infatti, accanto alla tradizionale figura del lavoratore salariato e
dipendente, compaiono nuove figure che possiedono saperi, conoscenze, abilità
linguistiche e di comunicazione, che hanno modificato il panorama lavorativo e
spinto a pensare nuove soluzioni contrattuali e organizzative.
Il contesto attuale è quindi un contesto in cui si profilano profonde trasformazioni della condizione occupazionale standard, cioè di quel sistema che prevedeva la centralità del lavoro salariato dipendente a tempo pieno e indeterminato.
Evoluzione dell’impresa
In microeconomia si definisce impresa l’istituzione in cui i fattori della produzione o input vengono combinati col fine di trasformarli in beni economici, merci
e servizi pronti per il consumo da parte di individui o di altre imprese.
L’individuo isolato, quindi, non costituisce un’impresa, ma soltanto gli individui
che si organizzano in qualche modo per produrre un bene o un servizio costitui13
M. Revelli, La grande trasformazione, in G. Mari (ed.), Libertà, sviluppo, lavoro, Mondadori, Milano, 2004, p. 37.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
285
scono impresa. L’economista J. Schumpeter affermò che produrre equivale a
“modificare i rapporti reciproci fra cose e forze esistenti nel nostro ambito”14.
L’impresa è l’istituzione economica in cui avviene questa combinazione di cose e
di forze. Essa perciò esiste quando più individui si organizzano per trasformare i
fattori in prodotti. Precedentemente, soprattutto nel mondo rurale, ogni famiglia
era anche un’impresa, nel senso che la combinazione tecnica dei fattori col fine
di ottenere un prodotto avveniva al suo interno. La famiglia possedeva o prendeva in affitto terra, lavoro, capitali e realizzava beni e servizi. Esistevano quindi
tante imprese quante erano le famiglie ed insieme realizzavano una quota ingente
del prodotto aggregato. Oggi, invece, gran parte di quanto si produce proviene da
poche imprese di ampie dimensioni e la famiglia si limita a vendere all’impresa i
fattori di produzione che possiede: la capacità lavorativa in primis, la terra e i capitali. Con l’avvento della rivoluzione industriale, che ha comportato un rapido
aumento dei beni capitali necessari per avviare la produzione, la famiglia ha perso il suo ruolo di produttrice, assumendo quello di venditrice dei fattori e consumatrice dei beni acquistati dalle tante imprese. Negli anni che precedono il boom
di sviluppo e crescita della modernità, l’impresa viene ad assumere varie forme
partendo, appunto, dall’impresa familiare contadina, dove era del tutto assente la
separazione fra famiglia e impresa, essendo i membri della famiglia coinvolti
nella produzione per il proprio sostentamento. L’ambiente domestico e
l’ambiente di lavoro si sovrapponevano e la divisione del lavoro, basata su sesso
ed età, obbediva alla tradizione e all’ordinamento gerarchico dominante.
Nell’Ottocento l’impresa a carattere familiare, essendo venuta a contatto con
mercati e mercanti, si apre all’esercizio di attività più specializzate, non agricole,
determinando il sorgere di imprese artigiane il cui mercato è prettamente locale,
rivolto al villaggio in cui si trova l’impresa o ai villaggi adiacenti. Con lo sviluppo, nell’XI e XII secolo, delle attività di commercio marittime, si allargano i traffici, gli scambi di merci e moneta e la disponibilità di capitale, nasce così la fiorente impresa mercantile, la cui organizzazione è sicuramente più complessa rispetto alla piccola unità di produzione familiare. La crescita moderna, che ha avuto inizio nell’Ottocento, ha implicato una rapida trasformazione della struttura
d’impresa preindustriale. L’introduzione delle macchine ha permesso di ampliare
enormemente le capacità produttive dell’impresa e di dilatare improvvisamente i
mercati delle merci. Questi cambiamenti hanno inciso anche nel funzionamento
e nell’organizzazione dell’impresa. La piccola impresa su base familiare non poteva permettersi investimenti consistenti di capitale fisso come quelli per le attrezzature industriali e commerciali dell’epoca delle macchine. Si assiste quindi
una divaricazione fra famiglia e impresa. La famiglia comincia a vendere
all’impresa i fattori di produzione in suo possesso e, in particolare, la capacità lavorativa. Con i redditi ottenuti comincia a far fronte ai propri bisogni di consumo. Essa cessa, insomma, di essere un’organizzazione produttiva e diventa, inve-
14
J. Schumpeter, trad. it. Teoria dello sviluppo economico, Firenze Sansoni, 1971, p. 14.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
286
ce, proprietaria dei fattori di produzione e centro di consumo 15. Nel giro di pochi
decenni le tradizioni locali della piccola produzione agricola, dell’artigianato rurale e urbano vengono spazzate via dagli sviluppi della grande industria.
Nel Novecento, l’avvento del modo di produzione tayloristico, cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro (OSL), determina cambiamenti interni
nell’organizzazione delle imprese e nei metodi di conduzione delle stesse. Il motivo storico di affermazione del taylorismo è dovuto alla percezione di una intollerabile incompatibilità fra il potenziale produttivo di un’azienda ormai alle soglie della produzione di massa e gli arretrati metodi della sua conduzione. Le pratiche di produzione all’interno delle officine presentavano, infatti, carenze
nell’utilizzo di tecnologia e inadeguati sistemi di amministrazione. La gestione
del processo produttivo era affidata alle gerarchie intermedie di origine operaia,
che si assumevano rischi e responsabilità riguardo la produzione, costi e qualità
del lavoro, assunzioni e licenziamenti. Questo comportava da parte del management una pressoché totale ignoranza delle fasi interne al processo produttivo 16.
L’Osl si fondava sul principio che la migliore produzione si determina quando
ad ogni lavoratore è affidato un compito specifico, da svolgere in un determinato
tempo e in un dato modo. Qualsiasi operazione del ciclo produttivo industriale
poteva dunque essere scomposta e studiata nei minimi particolari: è questo, secondo Taylor, il compito dei manager, che sulla base di verifiche empiriche devono stabilire: qual’è la mansione specifica di ogni lavoratore, in quanto tempo e
in che modo quella data mansione va svolta. In questo modo è possibile arrivare
alla razionalizzazione del ciclo produttivo, ossia al raggiungimento di standard di
ottimalità economica, attraverso l’eliminazione degli sforzi inutili, l’introduzione
di sistemi di incentivazione, la gerarchizzazione interna e la rigorosa selezione
del personale. L’applicazione pratica di questi principi apriva la strada alla prima
catena di montaggio, introdotta negli stabilimenti della Ford Motors Company
nel 1913, che di fatto ha modificato tutta l’organizzazione del lavoro nelle industrie per garantire una produzione in tempi brevi e su vasta scala di un prodotto
standardizzato. Nel nuovo sistema produttivo, particolarmente trasformata risultava la figura dell’operaio, cui il taylorismo aveva tolto ogni tipo di discrezionalità: mentre in precedenza egli poteva scegliere i tempi e i modi del suo lavoro,
con l’introduzione delle nuove procedure è costretto a adattarsi ai ritmi e ai metodi scelti dai dirigenti. Nel sistema taylorista-fordista vige quindi una divisione
burocratica del lavoro, con confini alquanto rigidi fra le varie mansioni; gli operai non hanno le competenze necessarie per i compiti che fuoriescono dalle mansioni assegnate e la stessa divisione dei compiti non permette l’apprendimento di
nuove abilità o l’assunzione di responsabilità non previste. Questo tipo di organizzazione mantiene il rapporto lavoratori-impresa su un piano di conflittualità.
15
16
www.issm.cnr.it/asp/cv/malanima/dati/imprese2.pdf
G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo. La questione industriale, FrancoAngeli, Milano 2007.
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287
2. Globalizzazione e post-fordismo
Modernità e post-modernità
Modernità e post-modernità sono due categorie riassuntive, due concetti epocali, due chiavi interpretative della cultura occidentale che si trovano spesso accoppiate nelle riflessioni riguardo al mondo contemporaneo.
Negli ultimi decenni, esse compaiono nei più svariati dibattiti disciplinari, dalla critica letteraria alle arti, alla sociologia. Alcuni hanno definito la postmodernità come la figlia legittima della modernità, altri semplicemente come la
sua degenerazione, in entrambi i casi comunque il rapporto fra queste due dimensioni è estremamente critico. Il contrasto non è di poco conto né prettamente speculativo; al contrario, la posta in gioco riguarda l’orientamento di fondo della
concezione del mondo propria della cultura occidentale. Indubbi amente l’odierno
panorama culturale è sempre più dominato dalla post-modernità. Pertanto, se da
un lato si pone l’inevitabile esigenza di aprirsi al confronto con la post-modernità
per poter interagire col presente, dall’altro tale confronto passa necessariamente
attraverso la rivisitazione della modernità quale retroterra della post-modernità.
In altre parole, se la cultura del nostro tempo non può prescindere dalla postmodernità, la post-modernità a sua volta non può prescindere dalla modernità.
La post-modernità si configura come registrazione della crisi teorico-pratica
della modernità, del fallimento del progetto “habermassiano” della modernità,
che trovava la sua essenza nell’Illuminismo e che puntava all’emancipazione
dell’uomo, ma che in realtà si rivela un sistema di oppressione. L’illuminismo,
quale tragitto volto a razionalizzare il mondo, va incontro all’autodistruzione,
all’ulteriore alienazione dell’uomo e alla caduta della fede nel progresso.
Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947) denunciano le
conseguenze devastanti della società tecnologica provocando così profonde ripercussioni sulla formazione della critica postmoderna.
Pur attingendo alla critica di inizio Novecento, è a partire dagli anni ‘70 che la
riflessione sulla crisi della modernità può definirsi propriamente postmoderna. La
decolonizzazione, la rivolta studentesca, i movimenti di liberazione razziale, il
movimento femminista, l’estendersi della coscienza ecologica, il declino delle
ideologie totalitarie, sono fenomeni che hanno contribuito a dare fisionomia alla
condizione postmoderna.
Nel 1979 Jean-Francois Lyotard pubblica un rapporto sul sapere, La condizione postmoderna17, in cui sostiene che la modernità ha prodotto tre “grandi narrazioni” per orientare in modo unitario il corso della storia del mondo occidentale e
per legittimare istituzioni, pratiche sociali e modi di pensare. Esse sono l’emancipazione dell’Umanità per mezzo della ragione (con l’Illuminismo), la teleologia
dello Spirito (con l’Idealismo) e l’ermeneutica del Senso (con lo Storicismo).
L’epoca moderna che precede la contemporaneità postmoderna è caratterizzat a,
secondo l’autore, dal progetto di spiegare il mondo con l’applicazione di principi
unitari. Ad esempio, i grandi movimenti della modernità quali l’illuminismo,
17
J.F. Lyotard, trad. it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1983.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
288
l’idealismo e il marxismo, possedevano la pretesa di racchiudere il senso
dell’intera realtà entro un principio unitario: la ragione per il primo, il movimento
totalizzante dello spirito per il secondo, le leggi materialiste della realtà per il terzo. La postmodernità è caratterizzata invece dalla caduta di queste pretese e dal
conseguente sfaldamento delle certezze stabili che possono indicare all’uomo un
qualsiasi sentiero definitivo : l’individuo perde ogni riferimento forte che poteva
determinarne l’identità. Essa si manifesta come incredulità non solo verso queste
“grandi narrazioni”, ma anche verso il loro tentativo di rendere riducibile una realtà che è molteplice, diversificata, irriducibile ad un unico principio unificatore.
Questi aspetti della postmodernità fanno di essa una categoria rilevata empiricamente, la presa di coscienza di uno stato di fatto storico. E’ uno stato di fatto
che, storicamente, si assiste ad una progressiva perdita di autorità delle istituzioni
politiche, delle leggi morali, delle strutture religiose. La postmodernità è il culmine attuale di questa tendenza.
Z. Bauman condivide la tesi di Lyotard circa la caduta delle metanarrazioni ed
è proprio a causa di tale scomparsa che ora si ha la “liquidità”18 come essenza
stessa dell’attuale. Tuttavia è importante rilevare che Bauman, a differenza di altri autori, rifiuta il termine “postmoderno” a favore di “modernità liquida”, proprio per indicare la provvisorietà di qualsiasi costruzione in questa nostra epoca.
Infatti, alla prima fase della modernità, vale a dire quella “solida”, apparteneva il
tentativo di circoscrivere la posizione dell’individuo all’interno di leggi definenti
la razionalità umana e inglobarle conseguentemente nel corpo dello Stato. Parallelamente, in questa fase, si assiste al tentativo di ricondurre il tutto entro un ordine misurabile. Prendendo spunto da Il disagio della civiltà di Sigmund Freud
e dall’analisi della dialettica freudiana “principio di piacere-principio di
realtà”, Bauman19 evidenzia come siano le varie facce della modernità/civiltà a
causare una sofferenza crescente nell’uomo contemporaneo, afflitto da un disagio
che ha origine da diversi fattori ma in particolare dal problema dell’identità.
Il postmoderno, a differenza dell’epoca moderna in cui la questione principale
era quella di costruire un’identità e stabilizzarla, mostra una società che respinge
la stabilità e la durata, preferisce l’apparenza alla sostanza, sceglie come parola
chiave “riciclaggio”, evita gli impegni duraturi e abitua gli uomini all’incertezza.
Anche Giddens, come Bauman, ritiene che lo sviluppo sociale non si sta
allontanando dalla modernità per puntare verso un nuovo ordine. Non siamo
usciti dalla modernità, piuttosto siamo entrati nella sua fase radicale: il
mondo contemporaneo sta assistendo all’estremo dispiegamento delle contraddizioni e dei nodi critici racchiusi in quella che viene da lui identificata come
la “prima modernità”. Egli contesta, quindi, l’idea di post-modernità intesa
come rottura o superamento dell’epoca moderna e ritiene che sia la globalizzazione il processo rappresentativo e dominante della modernità radicale.
18
19
Z. Bauman, trad. it. Modernità liquida, Laterza, Roma -Bari 2005.
Z. Bauman, trad. it. Il disagio della postmodernità, Mondadori, Milano 2002.
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289
Il declino del fordismo ad opera della globalizzazione
Negli ultimi decenni ogni aspetto dell'esperienza umana è stato oggetto di profondi mutamenti, spesso irreversibili. Trasformazioni sul piano culturale, sociale,
politico ed economico hanno aperto la strada ad un ordine nuovo, i cui caratteri
non sono ancora del tutto definiti, ma che rappresenta l’alternativa a quello ve cchio che no n fornisce più certezze. In questo momento di transizione, di passaggio da un’epoca moderna ad una postmoderna o globale, si intrecciano, a vari livelli, tendenze emergenti, tensioni, forti interrogativi e ipotesi spesso contrastanti. Molti hanno prospettato la fine della modernità e dei valori che essa propugna,
ovvero la fede nel progresso e nella ragione, il primato dell’Occidente e la validità universalizzante delle sue istanze. Si aprirebbe di conseguenza un nuovo scenario, quello postmoderno appunto, che rifiuta le metanarrazioni, le teorie totalizzanti, che pretendono di scoprire e rivelare verità inopinabili ed universali. Si
fa strada una nuova immagine della società contemporanea, promossa dai mass
media a una sorta di villaggio globale, nel quale i confini dello stato-nazione si
dissolvono e i flussi di capitali, persone, beni, servizi, e l’economia mondiale in
generale, sono regolati esclusivamente dalla logica del profitto. Cambia anche il
rapporto degli individui con lo spazio e col tempo, fattori interessati da un intenso processo di compressione. L’esperienza individuale subisce una frammentazione, l’identità non è più unitaria, ma fluida, mutevole, continuamente in evoluzione. Il tempo postmoderno non è più rivolto al futuro, ma si riduce al presente,
all’esaltazione dell’istantaneità, dell’effimero e della volatilità delle mode come
nuovi valori della cultura del consumo. Prendendo in considerazione il passaggio
dal paradigma fordista a quello postfordista, non si può prescindere dal fenomeno
della globalizzazione e dalle molteplici implicazioni che ne derivano e che investono tutti gli aspetti dell'esistenza umana. Il processo globale è caratterizzato da
tendenze contrastanti, da forze che spingono verso l’omogeneizzazione economica, politica, sociale e culturale e altre che esaltano invece la dimensione locale.
Nell’epoca contemporanea, all’emergente cultura della postmodernità si accompagna un radicale cambiamento delle società avanzate: l’ingresso nella fase
post-industriale. Questo termine mette in luce soprattutto gli aspetti strutturali
delle trasformazioni in atto, ossia il prevalere della produzione scientifica, culturale e dei servizi, sull’ormai obsoleta industria manifatturiera. La produzione, infatti, diventa immateriale e i principali fattori produttivi sono l'informazione
scientifica e la cultura. Con l’avanzamento del processo di terziarizzazione, vengono abbandonati i tratti distintivi dell’industria fordista: la fabbrica quale luogo
di lavoro e i conflitti a sfondo sociale tra le forze di produzione sindacalizzate e
le categorie imprenditoriali. Conseguentemente allo sviluppo del settore dei servizi, acquistano importanza la classe dei tecnici e professionisti, ma anche figure
afferenti al campo sociale. Nello scenario post-industriale la rigida stratificazione
verticale della società va ad infrangersi. Si assiste ad un’espansione della classe
media, che si spiega con un assottigliamento e una deformazione verificatisi alle
due estremità della gerarchia sociale. La composizione sociale si presenta più
frammentaria: la classe superiore si distingue sempre più a fatica dalla miriade
dei ceti medi ed il peso economico detenuto in precedenza dalla tradizionale borghesia viene eroso dal potere politico delle emergenti classi del terziario.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
290
Queste modificazioni che si sono avute nei modi di lavoro e nei sistemi di vita
di milioni e milioni di persone sono da attribuirsi al processo di globalizzazione.
Nel linguaggio comune, afferma Bauman, parlare di globalizzazione è dive ntato di moda, ma il termine risulta aver perso ogni precisione di significato.
Per alcuni questo fenomeno produce prosperità, per altri è causa di molti mali.
Tutti sembrano, però, dare per scontato che si tratti di un processo irreversibile,
un destino immodificabile che ha conseguenze uguali per tutti. Qualunque cosa
accada in un determinato luogo può aver conseguenze globali. La tesi di Bauman
è che la globalizzazione genera nuove differenze, esaspera le vecchie e che
l’annullamento delle distanze spazio-temporali, reso possibile dalle nuove tecnologie, piuttosto che rendere omogenea la condizione umana tende a polarizzarla.
Parallelamente ad un processo che avviene su scala planetaria e che coinvolge
l’economia, il commercio, l’informazione, la politica, viene messo in moto un
altro processo, la localizzazione, che richiama alla considerazione dei vincoli
spaziali: «La complessa e stretta interconnessione dei due processi comporta che
si vadano differenziando in maniera drastica le condizioni in cui vivono intere
popolazioni e vari segmenti all’interno delle singole popolazioni. Ciò che appare
come conquista di globalizzazione per alcuni, rappresenta una riduzione alla dimensione locale per altri; dove per alcuni la globalizzazione segnala nuove libertà, per molti altri discende come un destino non voluto e crudele. La mobilità assurge al rango più elevato tra i valori che danno prestigio e la stessa libertà di
movimento, da sempre una merce scarsa e distribuita in maniera ineguale, dive nta rapidamente il principale fattore di stratificazione sociale dei nostri tempi, che
possiamo definire tardo-moderni o postmoderni». 20
Dal suo punto di vista, i devastanti effetti della globalizzazione sono talmente
evidenti che ignorarli, parlando di una maggiore diffusione delle libertà e del benessere per l’umanità, corrisponde alla logica di una ristretta élite globale che,
proprio grazie a questi processi, detiene oggi un potere e una ricchezza che non
hanno precedenti nella storia umana. In tal senso, per Bauman, la globalizzazione
è un processo che riproduce, su scala sia locale che globale, nuove logiche di
dominio, da cui conseguono enormi disparità.
Questa interconnessione fra la sfera globale e quella locale, questo “stiramento” dello spazio e del tempo, precisa Giddens, sono frutto della modernità radicale e non della post-modernità. La globalizzazione non rappresenta quindi l’inizio
di una nuova era o epoca della storia umana, ma una continuazione degli sviluppi
messi in moto dal processo di modernizzazione: «Essa viene definita dal sociologo inglese come «l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano
tra loro località distanti facendo in modo che gli eventi locali vengano modellati
dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceve rsa». 21
Ulrich Beck pone attenzione soprattutto alla dimensione economica della globalizzazione e a come questa influenzi le scelte politiche degli Stati. In questo
modo, le imprese transnazionali, potendo influenzare la politica, possono intervenire su ogni aspetto della società. Il potere dello Stato è eroso, privato delle sue
20
Z. Bauman, trad. it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari
1999, p. 4.
21
Ivi cit. p. 71.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
291
funzioni fondamentali e spinto a diventare un’istituzione ‘minimale’ (ovvero si
occupa solo di garantire l’ordine) rispetto al potere economico, che le multinazionali hanno acquisito grazie alla possibilità di produrre dove la manodopera costa meno; tale possibilità influenza gli Stati ad attuare politiche di agevolazione
fiscale che attirino le imprese in vista di un investimento nei loro territori.22
In sostanza, i processi di globalizzazione si manifestano come intersezione di
esperienze, come intrusione del globale nel locale. Il globale entra nella vita quotidiana degli individui soprattutto attraverso i processi di mediatizzazione
dell’esperienza: rivoluzionando le nozioni tradizionali di spazio e tempo, i media
elettronici hanno reso possibile lo stabilirsi di relazioni sociali indipendenti dai
contesti locali di interazione; tali contesti vengono privati di una collocazione fisica, diventano virtuali, oppure semplicemente sono luoghi di transito senza identità, tutti uguali, cosiddetti ‘non luoghi’23.
Accade che eventi lontani diventano tanto familiari quanto gli accadimenti locali e la distanza viene dunque integrata nel quadro dell’esperienza personale.
La post-modernità: nuovo modello di produzione e nuova gestione del lavoro
In una concezione del lavoro in cui la prestazione professionale diventa sempre più globale, coinvolgendo l’individuo in tutta la sua interezza, con il proprio
vissuto affettivo e le proprie dinamiche relazionali, assumono particolare importanza proprio le modalità con le quali il lavoro è organizzato e gestito.
L’internazionalizzazione dei mercati e l’emergere di un’economia globale
hanno segnato il declino del paradigma di produzione e organizzazione del lavoro proprio del fordismo. Insomma, la globalizzazione ha alimentato lo sviluppo
di un modo postfordista di produrre.
Fino a che l’impresa si limitava ad esportare un prodotto progettato e costruito
entro l’ambiente locale o nazionale, l’internazionalizzazione non incideva più di
tanto sul suo modo di lavorare. Nel momento in cui l’internazionalizzazione
cambia natura e diventa accesso allo spazio della globalità, le cose cambiano.
Prima di tutto cambia il livello di coinvolgimento dell’impresa, in quanto tutti i
settori dell’azienda (e non solo il settore delle vendite) vengono a contatto con
l’ambiente internazionale e la stessa catena del valore si fa transnazionale.
In questo senso, la globalizzazione entra nella quotidianità, nell’ordinaria amministrazione della vita produttiva e della vita privata di ognuno, col risultato di
mutare in profondità il vissuto delle persone e il modo d’essere e di funzionare
delle imprese.24 Le imprese non possono più identificarsi con un unico territorio,
quello di origine, ma devono adattarsi ad operare in una pluralità di luoghi, entrando in competizione con realtà che non sono più soltanto quelle locali. Tutte le
attività dell’impresa che contribuiscono a creare la catena del valore non possono
22
U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma
1999.
23
Marc Augè, trad. it. Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 2005.
24
A. Giddens, trad. it. Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna 2000.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
292
più configurarsi come sistemi chiusi, proiettati sull’estero soltanto dal lato delle
vendite, ma dovranno essere ripensate e riorganizzate in un’ottica globale.
La sfera economica è stata investita da veri e propri cambiamenti strutturali.
Il primato sulla scena internazionale, prima detenuto dall’Europa e poi dagli
Stati Uniti, è da tempo conteso con crescente successo dal Giappone e dagli altri
paesi asiatici emergenti. Proprio dall’ambito nipponico arrivano quelle novità
produttive ed organizzative, che hanno cambiato il volto dell'impresa occidentale
fordista e hanno rivelato la rigidità e l’inadeguatezza di quel paradigma, basato
sulla produzione di beni standardizzati di uso durevole e sul consumo di massa.
In un panorama economico frammentato ed incerto, le forme di regolazione
proprie del sistema keynesiano, che garantivano una crescita stabile e costante
della domanda e assicuravano l’equilibrio dell’intero sistema, non possono più
trovare applicazione. Viene abbandonata la logica delle economie di scala, che
prevedevano la produzione di elevati volumi di beni all’interno di aziende di
grandi dimensioni, dove si concentrava tutta l’attività produttiva. L’attribuzione
dei costi di produzione su una grande quantità di beni prodotti permetteva una riduzione del costo unitario delle singole fasi del ciclo, delle semplici operazioni e
quindi dei beni offerti sul mercato. Tuttavia, solo realtà produttive di grandi dimensioni potevano ottenere vantaggi da un mercato fondato su un sistema di economie di scala (ne derivò il fenomeno del “gigantismo dell’impresa”).
Nella realtà attuale, l’economia di scala è stata sostituita dall’economia della
flessibilità, un sistema che ha modificato in senso radicale i criteri di gestione
dell’azienda. Nell’economia della flessibilità il concetto di efficienza, parametro
fondamentale per le aziende, ha assunto un significato differente: se per molti
anni l’idea di efficienza è ruotata intorno alla riduzione dei tempi di lavoro, in
questo nuovo modello l’efficienza è correlata all’attenzione e alla puntualità nella
risposta al mercato. Questo, in un’ottica di produzione, si traduce nell’immettere
sul mercato ciò che esso richiede. All’esaurimento del modello di consumi indifferenziati di massa, proprio degli anni ’60 e ‘70, corrispondono un aumento della
variabilità del mercato e una crescente instabilità della domanda di beni, sia dal
punto di vista quantitativo che qualitativo, come conseguenza della sempre maggiore individualizzazione dei consumi stessi. La gestione delle imprese, precedentemente caratterizzata dalla meccanizzazione dei lavori e dalla parcellizzazione dei tempi, si orienta sempre più verso il mercato rappresentato dal cliente e
dalle sue esigenze, privilegiando l’aspetto qualitativo piuttosto che quantitativo
della produzione 25.
Il paradigma post-fordista privilegia quindi forme di organizzazione più flessibili. Elasticità dunque non solo a livello tecnologico-produttivo e a livello strategico-organizzativo, ma anche in relazione alle risorse umane. Il maggior vantaggio competitivo, derivante dall'implementazione di questi sistemi, consiste nel
poter adattare la produzione, in termini di quantità e qualità, alle esigenze e alle
continue fluttuazioni della domanda. Il processo produttivo viene accelerato e
l’impresa riesce a soddisfare anche quelle nicchie di mercato specializzate, che
non venivano coperte dalla produzione di massa fordista. Alla luce di tutto ciò, le
25
F. Butera, trad. it. L’orologio e l’organismo. Il cambiamento organizzativo nella grande impresa italiana, FrancoAngeli, Milano 1992.
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293
imprese hanno cercato di rispondere ad una domanda sempre più variabile e personalizzata, trasferendo l’intero processo produttivo all’estero, in località in cui i
costi di produzione e manodopera fossero esigui, oppure concentrandosi su attività core26 per l’impresa ed esternalizzandone altre, ossia dandole in outsourcing,
in modo da ridurre i tempi e guadagnare in flessibilità.
Negli ultimi anni, il modello produttivo si è basato sulla suddivisione della
produzione in diversi stadi (e in diversi luoghi), incrementando, ad ogni fase, il
valore del prodotto. Questa frammentazione produttiva cambia totalmente l’ottica
dell’impresa che, data l’inadeguatezza delle tradizionali strutture organizzative, si
volge ad un nuovo sistema aperto con un conseguente aumento del volume potenziale degli scambi internazionali. I processi che coinvolgono a livello internazionale le realtà imprenditoriali hanno comportato cambiamenti non solo a livello
aggregato e settoriale, ma anche a livello delle singole imprese. La maggiore
concorrenza, infatti, dà luogo a processi di autoselezione delle imprese, con
l’uscita dal mercato di quelle meno competitive e il rafforzamento di quelle più
produttive ed innovative. La frammentazione internazionale della produzione ha
inciso, inoltre, sui livelli occupazionali dei vari paesi, in quanto non sono cambiate soltanto le modalità di produzione e progettazione, ma anche le competenze, le conoscenze, le abilità richieste a chi lavora. Con l’avvento delle cosiddette
‘politiche attive’ del lavoro, le imprese puntano sulla valorizzazione della risorsa
umana e sulla ‘fidelizzazione’ di lavoratori altamente qualificati, in vista del conseguimento di un vantaggio competitivo su altre aziende 27. L’economia globale
ha incentivato in modo determinante la specializzazione delle competenze e dei
ruoli, e il lavoratore dal canto suo, si è visto richiedere l’acquisizione di sempre
nuove qualifiche. Tutto questo meccanismo va sicuramente a scapito di quelle figure di lavoratori meno qualificati, per cui costituisce una minaccia non solo
l’eventuale flessibilità con cui essi vengono impiegati, ma anche il flusso di lavoratori immigrati che vengono prevalentemente occupati, con salari relativamente
bassi, in mansioni che richiedono scarsa qualifica professionale.
Effetti della globalizzazione sul lavoro: disuguaglianze e immigrazione
Gli effetti della globalizzazione sul lavoro e sui sistemi di relazioni industriali
derivano non solo dalla rivoluzione tecnologica e delle comunicazioni, ma anche
dai mutamenti che hanno investito la sfera economica. L’aumento degli scambi
stimolato dalla diminuzione delle barriere doganali, dall’efficienza dei trasporti,
dalla libera circolazione dei capitali, ha impresso una forte spinta alla globalizzazione economica. Le relazioni industriali riflettono i dive rsi aspetti che la globalizzazione manifesta: crisi degli stati nazionali, egemonia dell’economia sulla politica, acuirsi delle diseguaglianze a livello internazionale tra paesi industrializzati e non, delle diseguaglianze nella composizione sociale, ecc. Nei paesi industrializzati, il mercato globale ha creato un triplice effetto negativo: un forte au26
Il termine “core”, letteralmente “nocciolo”, fa riferimento a quelle attività che costituiscono l’essenza
di un’azienda, ossia le attività più strategiche. Solitamente l’azienda affida all’esterno attività meno strategiche, come ad esempio quelle amministrative, con lo scopo di tagliare i costi e migliorare il servizio.
27
G. Costa – M. Gianecchini, Risorse umane: persone, relazioni e valore”, McGraw-Hill, Milano 2005.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
294
mento dell’instabilità del lavoro e delle diseguaglianze salariali; una consistente
riduzione della spesa sociale e dei consumi pubblici, creando effetti depressivi
ancor più consistenti in quei paesi con scarsa mobilità di capitali; e una crescita
delle tensioni che destituiscono le norme di tutela sociale a livello nazionale.
Le società hanno da sempre cercato di fondare la propria legittimità sociale su
alcuni elementi forti quali la stabilità del posto di lavoro, la riduzione delle diseguaglianze, la sicurezza e la protezione sociale, ergendo a valore il lavoro come
possibilità di garantirsi, con propri mezzi, un’esistenza materiale il più possibile
vicina alle proprie aspettative di vita e una tutela da parte del sistema di welfare.
La globalizzazione dovrebbe agire per ridurre il livello di povertà, in quanto al
crescere dell’integrazione economica e all’aumentare del livello di liberalizzazione dei commerci cresce e si diffonde anche lo sviluppo: in questo modo, aumenterebbero per la popolazione le opportunità lavorative, i salari, i consumi e le
opportunità stesse di consumo, dando avvio ad un circolo di accrescimento. Tuttavia, il fatto che molti paesi siano completamente esclusi dal processo di globalizzazione e siano quindi rimasti ai margini dell’economia mondiale, per motivazioni legate alla sfavorevole collocazione geografica, a guerre civili, a governi
dittatoriali o inefficienti, costituisce una problematica non trascurabile, indice di
una distribuzione ineguale del reddito tra i vari paesi del mondo.
Molti autori mettono in guardia dal perpetuarsi di tali divari, tra questi Gallino28 afferma che, per poter beneficiare delle opportunità della globalizzazione,
bisogna conoscerne ad ora le sue reali prestazioni. L’autore denuncia la deregolazione del fenomeno come un’autentica minaccia per l’intero sistema. Lo Stato,
come tradizionale regolatore delle disuguaglianze, ha perso alcune delle sue funzioni in materia economica, in virtù del fatto che altri attori, quali le aziende, le
multinazionali, sono ora dotate di poteri di intervento nelle economie dei paesi.
E’ il mercato quindi che detta le regole di questo nuovo ordine mondiale.
Lo sviluppo su vasta scala delle attività agricole e industriali da esportazione
ha sradicato gli individui dai loro modi di esistenza tradizionali; lo sconvolgimento delle strutture tradizionali del lavoro, conseguente all’introduzione di moderni modi di produzione, ha svo lto un ruolo determinante per trasformare la forza lavoro locale in lavoratori migratori all’interno del loro paese (dalla campagna
verso la città) e in emigranti. In particolare, l’agricoltura e l’industria che puntano all’esportazione hanno mobilitato gr andi masse di lavoratori salariati attraverso la liquidazione dell’agricoltura di sussistenza e il reclutamento di manodopera
non qualificata, dando luogo così ad un’emigrazione di massa verso la città.
I mezzi di comunicazione di massa, hanno diffuso tra le persone una quantità
smisurata di informazioni circa le condizioni di lavoro e di vita esistenti nei vari
paesi del mondo: «se le opportunità globali non si muovono verso la gente, allora
sarà inevitabilmente la gente a muoversi verso le opportunità globali»29.
La globalizzazione ha perciò attivato imponenti flussi migratori con effetti
contrastanti: gli immigrati accettano di svolgere lavori che altri rifiutano (manovalanza nell’edilizia, servizi domestici, lavori di pulizia, raccolta nei campi, ecc.),
28
L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza Roma-Bari, 2000.
United Nations Development Program (UNDP), Lo sviluppo umano. Vol. III: Come ridurre le disuguaglianze mondiali, Rosemberg & Sellier, Torino, 1993, p. 65.
29
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entrando in competizione diretta con le forze di lavoro locali anch’esse non qualificate, sia per i posti di lavoro, sia per i salari. La trasformazione tecnica del
processo lavorativo e la delocalizzazione produttiva hanno rimodellato l’offerta
di posti di lavoro sia nelle aree meno sviluppate che nelle aree altamente sviluppate. La transizione da un’economia improntata sulle industrie ad un’economia
improntata sui servizi ha determinato, in queste ultime aree, un significativo incremento dell’offerta di posti di lavoro a bassa retribuzione e soprattutto
un’espansione dei lavori associati alla manodopera femminile. La ‘femminilizzazione’ del lavoro, soprattutto in relazione alle attività industriali e ai paesi con
produzioni destinate alle esportazioni, contribuisce alla disoccupazione maschile.
Con l’introduzione delle macchine si è avuta una dequalificazione di mansioni
che ha aggravato le disuguaglianze nella distribuzione del reddito dei lavoratori;
all’interno della scala dei guadagni, si è assistito ad una polarizzazione fra due
estremi: chi è pagato poco e chi è pagato molto. Tale polarizzazione si è prodotta
elevando o abbassando la qualifica di una gamma di lavoratori a medio reddito,
le cui capacità e abilità venivano sostituite e incorporate dalle macchine 30.
A tal proposito, Jeremy Rifkin31, aveva espresso le sue preoccupazioni in merito al fatto che la spirale dell’innovazione tecnologica, cosiddetto ‘effetto a cascata’ della tecnologia32, abbia fatto sì che lo stato di cose attuali volga in direzione di una ‘fine del lavoro’, all’estromissione del lavoro umano dal processo di
produzione: «entro il prossimo secolo, il lavoro di massa nell’economia di mercato verrà probabilmente cancellato in quasi tutte le nazioni industrializzate del
mondo. Una nuova generazione di sofisticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un’ampia gamma di attività lavorative: macchine intelligenti stanno sostituendo gli esseri umani in infinite mansioni »33.
Così come l’era industriale ha posto fine al lavoro servile, l’era dell’informazione abolirà l’occupazione di massa. Bisogna riconoscere che Marx, già nel
186734, aveva preconizzato la sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine, dettata dalla necessità per i produttori di ridurre il costo del lavoro e di
guadagnare un maggior controllo sui mezzi di produzione. L’uso capitalistico
delle macchine ha comportato l’appropriazione del lavoro vivo ad opera del lavoro morto, ossia la macchina ha incorporato il lavoro dell’operaio, determinando
la fine della dimensione soggettiva del lavoro e lasciando il posto ad una dimensione oggettiva, fondata sulla produzione meccanizzata. La specifica abilità professionale del singolo operaio è eliminata per evitare “irregolarità” nel processo
produttivo e realizzare un livellamento e una intercambiabilità delle funzioni che
favorisca la mobilità della forza lavoro da un settore della produzione all’altro.
30
S. Sassen, trad. it. Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel nuovo ordine mondiale, Il
Saggiatore, Milano 2002.
31
J. Rifkin, trad. it. La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era postmercato, Baldini & Castoldi, Milano 1997.
32
J. Rifkin definisce ‘effetto a cascata’ della tecnologia, quella teoria, sostenuta per molto tempo dagli
economisti, secondo cui l’impatto delle nuove tecnologie ha prodotto un’esplosione della produttività, un
abbassamento dei costi di produzione, maggior potere d’acquisto e più occupazione per i lavoratori.
33
Ibidem p. 23.
34
K. Marx, trad. it. Il Capitale. Libro I, Editori Riuniti, Roma 1997.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
296
3. Instabilità dell’occupazione: il lavoro atipico
Nuove tendenze operanti nel mondo del lavoro
Nel passaggio dal fordismo al postfordismo, il mondo del lavoro ha subito
cambiamenti tecnologici ed organizzativi che modificano la qualità e la quantità
del lavoro richiesta ed offerta, oltre che le modalità di regolazione dei rapporti di
lavoro. E’ possibile smentire quanto sostenuto da Rifkin riguardo l’ipotesi di una
possibile “fine del lavoro”, con la constatazione che il lavoro sta soltanto cambiando all’interno delle nuove regole della società salariale dell’era postfordista.
A partire dagli anni Cinquanta, la situazione cambia profondamente: il boom
del secondo dopoguerra ha abituato gli abitanti della maggior parte dei paesi occidentali alla rassicurante certezza del posto fisso, di un impiego a tempo indeterminato, protetto da solide leggi di tutela del lavoro e sostenuto da un sistema
di welfare garantista. La crisi economica degli anni settanta, che prende avvio
con lo shock petrolifero del 1973, ma soprattutto il rapido evolversi delle nuove
tecnologie e il successivo processo di sostituzione della manodopera umana hanno invece prefigurato la visione di un futuro in cui la disoccupazione e
l’incertezza tornano ad essere una componente importante del mercato del lavoro, andando ad integrarsi con fenomeni paralleli di disancoramento degli individui e destrutturazione delle istituzioni tradizionali.
Ulrich Beck constata che l’idillio della piena occupazione è stato stroncato
dalla crisi petrolifera e già dal 1970 si assiste ad una continua crescita del numero
dei senza lavoro, del tasso di disoccupazione e contemporaneamente alla riduzione del volume di lavoro pro capite 35. Beck, in particolare, mette in luce tra le caratteristiche più inquietanti della nuova incertezza lavorativa, il fatto che se quote
rilevanti della popolazione ne sono toccate almeno una volta nella vita, per molte
categorie di soggetti, specialmente per i più svantaggiati (donne, giovani, stranieri, lavoratori anziani), tale incertezza si avvia ad essere una condizione esistenziale presente ad intervalli regolari. Paradossalmente, siamo tendenzialmente più
ricchi di conoscenza, di mezzi tecnologici e di benessere, ma allo stesso tempo
viviamo sull’orlo di una costante incertezza e instabilità, dovute alla mancanza di
controllo del benessere e al timore di non riuscire ad avere mezzi sufficienti per
garantirsi o per mantenere un determinato tenore di vita. Viviamo, secondo il sociologo, in una società che fa leva su un processo di “individualizzazione del lavoro”36 che dissolve le forme di vita precostituite, priva di senso l’appartenenza
ad una classe sociale, ad una nazione, ad una famiglia, allontana dalle tradizioni,
segmenta ogni cosa trasformando ogni biografia in una biografia del bricolage37.
35
U. Beck, trad. it. Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000, p. 62.
36
Ibidem, p. 83.
37
Ibidem, p. 108.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
297
La “seconda modernità”38 è quindi una società del rischio generalizzato e della
precarietà, dove nulla, dal lavoro alla famiglia, è più garantito. Per Beck questo
non rappresenta una discontinuità nel processo di modernizzazione. La seconda
modernità, o epoca della “modernizzazione riflessiva”, è piuttosto il compimento
della modernizzazione avviata con la rivoluzione industriale e che trova il punto
di sviluppo più alto nello stato sociale, che istituzionalizza il principio di individualizzazione. Il lavoro e le forme contrattuali in cui esso si esprime mutano in
continuazione e tendono a caratterizzarsi come rapporti personali, personalizzati.
Beck invita a diffidare dalle promesse di un ritorno al pieno impiego e conferisce
al contesto attuale in cui viviamo l’appellativo di “società del rischio” (Risikogesellschaft), società della disoccupazione di massa e della precarietà diffusa.
Al di là di tutti i benefici apportati dal progresso, l’occupazione ha quindi sofferto lo shock tecnologico, in quanto le nuove tecniche hanno comportato il risparmio di lavoro e rivoluzionato il già variegato panorama delle prestazioni lavorative. Il grande sviluppo del mercato dell’informatica e delle nuove tecnologie
negli anni ‘80 e ’90 (cosiddetta “new economy”39), ha portato ad una crescita di
una quantità di impieghi che solo coloro che possiedono elevate capacità intellettive possono imparare ad esercitare e dal momento che le macchine eliminano il
lavoro faticoso e di routine, si assiste ad una diminuzione di quelle mansioni che
quasi tutti possono imparare a svolgere40. Si forma, in questo modo, una nuova
classe di tecnici, progettisti, esperti in tecniche di comunicazione, che vanno a
costituire la nuova classe dei lavoratori altamente qualificati, cosiddetti skilled, in
contrapposizione ai lavoratori unskilled, con qualificazione bassa o inesistente.
Al di sotto delle due grandi categorie, si trovano coloro che per vari motivi sono
esclusi dall’attività produttiva e posti in una condizione di marginalità sociale.
In merito a quest’ultima fascia della piramide, Gallino 41 distingue al suo interno tre figure diverse:
1) individui con una qualificazione professionale medio-bassa (operai comuni,
manovali, braccianti) che, a prescindere che siano stati occupati o meno precedentemente, non riescono più a trovare un’occupazione a causa della crescente
automazione industriale;
2) individui con qualificazione medio-alta e alta che hanno perso il lavoro e
che faticano a ricollocarsi professionalmente a causa di obsolescenza della loro
professione da parte del progresso tecnologico oppure a causa di una crisi sistemica del loro settore di appartenenza;
3) giovani che avendo acquisito mediante una formazione medio-alta o unive rsitaria una qualifica elevata, scoprono che essa non è più richiesta dal mercato
del lavoro.
In quest’ultimo gruppo, potrebbero essere collocati anche quei giovani che,
avendo una formazione molto alta ed essendo privi di esperienza lavorativa, fan38
U. Beck, trad. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000.
G. Alessandrini, Risorse umane e new economy, Carocci, Roma 2001.
40
R. Dore, trad. it. Il lavoro nel mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2005.
41
Ibidem, p. 35.
39
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
298
no fatica ad avere accesso al mondo del lavoro, fanno lavori saltuari e/o non in
linea con la loro formazione e in questo modo, vanno ad ingrossare le fila della
precarietà. Di fatto, essi non sono completamente esclusi dall’attività produttiva,
ma non si può nemmeno dire che ne facciano propriamente parte.
L’immagine generale che viene fuori è quella di un mondo del lavoro fatto di
attività diverse, meno uniformi, saltuarie, ma con un contributo crescente delle
donne e una crescita del settore dei servizi.
I nuovi lavori sono più qualificati ma meno numerosi nell’industria e meno
qualificati (anche se non sempre), ma in forte crescita nei servizi 42. Negli ultimi
anni, si è assistito ad una crescita della partecipazione femminile all’attività lavorativa, che sembra essere in forte aumento in tutti i Paesi avanzati e in diversi settori professionali43. E’ cambiata la composizione della forza lavoro femminile: in
passato le donne nelle fasi centrali di età partecipavano poco al mercato del lavoro e si dedicavano per lo più al lavoro di cura della casa e della famiglia, oggi invece costituiscono parte attiva della vita produttiva. Lo spostamento in avanti di
tutte le fasi del ciclo di vita è dovuto anche a tale partecipazione: si ritardano i
matrimoni, le nascite, si cerca un rapporto più continuativo con il mercato del lavoro. Il cambiamento del comportamento delle donne nei confronti dell’attività
lavorativa non è dovuto soltanto alla crescita dell’istruzione e dei salari relativi,
ma le loro scelte di lavoro sono connesse a decisioni familiari e riproduttive e riflettono forti cambiamenti culturali. La partecipazione femminile al mercato del
lavoro ha favorito l’emancipazione delle donne e l’indipendenza dai tradizionali
modelli e schemi (anche culturali) di divisione sessuale del lavoro. Si tratta di un
elemento da non sottovalutare nella descrizione e nell’analisi dei mutamenti socioeconomici avvenuti dal dopoguerra ad oggi, in particolare nei paesi
dell’Europa centro-meridionale, dove il modello di regolazione sociale si è fondato sull’esclusione femminile da forme di partecipazione sociale. Questa nuova
modalità di partecipazione delle donne alla costruzione sociale dei modelli e delle soluzioni specifiche di vita collettiva, ha rappresentato probabilmente il più rilevante processo di trasformazione dei rapporti sociali avvenuto nei paesi occidentali avanzati.
A fronte di un innalzato tasso di partecipazione femminile, la riduzione
dei tassi di partecipazione maschili è dovuta invece alla diminuzione dei tassi di
partecipazione dei giovani e degli anziani, per effetto dei più lunghi periodi
di studio e dell’anticipazione del pensionamento. In tale contesto le aziende cercano di raggiungere livelli ottimali di produttività, impiegando la minor quantità
possibile di forza-lavoro per unità di prodotto o comunque, impiegando una
quantità di forza-lavoro necessaria per soddisfare la domanda a breve termine. Il
loro obiettivo primario è la realizzazione della flessibilità della produzione e
42
43
G. Mari (ed.), Libertà, sviluppo, lavoro, cit., p. 60.
http://www.technedonne.it/index.php?option=com_content&task=view&id=49&Itemid=36
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
299
dell’occupazione attraverso strumenti quali: automazione, produzione snella, esternalizzazione, qualità totale, riorganizzazione aziendale, partnership44, ecc.
Il livello di occupazione in un’azienda, quindi, è strettamente correlato alle
fluttuazioni della domanda: se questa cala, la produzione viene tempestivamente
ridotta. La flessibilità dell’occupazione è poi favorita da molteplici interventi legislativi che contemplano tipologie contrattuali di durata determinata, contratti di
formazione, di lavoro temporaneo, che probabilmente si sposano perfettamente
con le esigenze delle aziende, ma che offrono all’individuo scarse prospettive e
sicurezze per la costruzione di una propria stabilità, di un futuro.
Altri interventi legislativi, inoltre, permettono alle aziende di ridurre la manodopera considerata in esubero congiunturale o strutturale, ricorrendo a varie forme di ammortizzatori sociali come i sussidi di disoccupazione o di cassa integrazione guadagni oppure ancora, facendo ricorso alla messa in mobilità dei lavoratori (al lavoratore viene, cioè, offerto un lavoro in un altro settore produttivo e/o
in un’altra regione), ai pre-pensionamenti o a semplici licenziamenti. Il variegato
panorama di forme contrattuali a disposizione ha comportato una netta riduzione
dei posti di lavoro, ossia della quota dei cosiddetti ‘posti fissi’ sul totale degli occupati, quota che varia da paese a paese e da un settore economico all’altro, ma
che anche nei Paesi più avanzati non supera il 55 per cento 45.
Il concetto di flessibilità
La “flessibilità” è un termine che ormai è entrato a far parte del linguaggio
quotidiano corrente essendo un elemento peculiare dell’attuale era post-fordista.
Quando si parla di flessibilità si fa riferimento a modalità contrattuali di lavoro
diverse dal modello di occupazione tipico della fabbrica, ossia l’occupazione dipendente a tempo indeterminato, dotata di vere garanzie e possibilmente svolta
all’interno della medesima azienda per l’arco della vita lavorativa. Il tradizionale
modello del “posto fisso”, fondato sulla sicurezza temporale e retributiva del lavoro, garantita da una rigida regolamentazione contrattuale e legislativa dei rapporti di impiego, ha lasciato il posto ad un mercato del lavoro basato su nuove e
variegate forme di lavoro flessibili. L’adozione di forme contrattuali diverse da
quelle del lavoro a tempo indeterminato, cerca di ovviare alla rigidità dei contratti di lavoro, che possono rappresentare un ostacolo per quelle aziende che si trovano a dover ridurre il personale a causa di una diminuzione della produzione.
Negli ultimi anni, l’evoluzione dell’organizzazione produttiva ha portato a un
ricorso crescente, da parte delle imprese, a forme di flessibilità nell’uso di lavoro.
Si potrebbe dire che, per quanto riguarda la domanda di lavoro, la flessibilità è
la parola chiave sulla quale fondare le politiche aziendali future per rispondere, in
44
Il concetto di ‘partnership’ , ossia ‘compartecipazione’, fa riferimento ad una relazione di collaborazione che coinvolge non solo le aziende, ma anche altri attori che, nella fattispecie, possono essere altre
aziende, partner istituzionali, nazionali, internazionali. In senso lato, può riferirsi al rapporto di collaborazione e al grado di coinvolgimento fra azienda o datore di lavoro e lavoratori.
45
L. Gallino, op.cit., p. 37.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
300
tempi brevi, alle richieste di una domanda di beni e servizi sempre più eterogenea
e variabile e di conseguenza far variare il fattore lavoro in base alle esigenze produttive e agli andamenti della domanda aggregata.
Per l’offerta di lavoro, al contrario, il moltiplicarsi delle modalità di accesso al
mondo del lavoro può rappresentare un’opportunità, laddove risponda concretamente alle specifiche esigenze individuali di personalizzazione dei tempi e delle
modalità di impiego; può rappresentare invece un limite, nel caso in cui l’idea di
flessibilità si identifichi con quella di precarietà, ossia con una condizione lavorativa insufficiente a garantire al lavoratore flessibile stabilità e tutela retributiva e
previdenziale. In un’ottica evolutiva e di accrescimento, la flessibilità dovrebbe
prevedere un costante miglioramento delle conoscenze del lavoratore e di conseguenza del livello occupazionale raggiunto, sia per quanto riguarda il versante
economico, che per quanto riguarda le competenze professionali.
In realtà, uno dei principali esiti della diffusione della flessibilità del lavoro in
Europa non sembra essere lo sviluppo di una collettività di lavoratori che tende a
diventare omogenea verso l’alto in termini di reddito, di continuità dell’occupazione, di possesso e acquisizione di conoscenze, piuttosto si è verificata una polarizzazione di lavoratori verso l’alto e verso il basso. Crescono quindi le disuguaglianze socioeconomiche e la stratificazione della forza lavoro assume una forma
a clessidra. Per coloro che ne occupano la parte alta i salari sono elevati e la formazione è continua: essi costituiscono quella minoranza su cui le imprese
investono col fine di accrescerne il valore, affinché essi generino altro valore.
Nella parte bassa della clessidra si trovano gli altri lavoratori, la massa, coloro
che incarnano i veri esiti della flessibilità dell’occupazione, che passano da
un’impresa ad un’altra, da un contratto ad un altro differente, ma sempre di durata determinata. Si tratta di lavoratori sui quali nessuna delle imprese che li occupa ha interesse a investire in termini di formazione, dato che dopo breve tempo
essi lavoreranno per un’impresa diversa. La flessibilità rischia di degenerare nel
precariato quando il continuo susseguirsi di rapporti di lavoro non è più una scelta personale, mirata alla ricerca di un costante miglioramento, ma diventa un obbligo derivante dall’ampia cautela dei datori di lavoro nell’assumere personale a
tempo indeterminato, specialmente in settori economici dove la gran parte delle
commissioni ha periodicità di carattere stagionale. Quanto più i periodi di lavoro
a tempo determinato si susseguono, tanto più la precarietà diventa normalità.
Il dibattito sulla flessibilità risulta alquanto controverso per la difficoltà di riuscire a fornire definizioni accurate o provare a fissare i confini semantici fra concetti apparentemente simili, come possono essere quelli di flessibilità e precarietà. All’interno di tale dibattito, si inseriscono coloro che operano un distinguo,
seppur sottile, fra tali concetti e coloro che li considerano interscambi abili.
In proposito, il sociologo Enrico Taliani in uno dei suoi contributi46, ha fornito
una considerazione che potrebbe costituire una ‘sintesi’ efficace all’interno di
46
E. Taliani, Il lavoro tra flessibilità e precarietà. Il ruolo della strategia europea per l’occupazione”,
in M.A.Toscano (ed.), Homo instabilis. Sociologia della precarietà, Editoriale Jaca Book, Milano 2007,
57-59.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
301
questo ampio dibattito, invitando a distinguere fra i differenti concetti di: occupabilità, flessibilità e precarietà, precisando che i significati e i contenuti loro
attribuiti variano a seconda delle situazioni spazio-temporali di riferimento e
del contesto storico delle realtà regionali e territoriali di volta in volta osservate.
Con il termine occupabilità, si intende la possibilità per un soggetto di essere
occupato, cioè di inserirsi nel processo lavorativo, di ‘inventarsi’ un posto di lavoro facendo appello alle sue reali o potenziali attitudini. Il termine fa riferimento anche ad una volontà del soggetto di ricercare e attribuire al lavoro una configurazione logico-costruttiva positiva, fruttuosa, dal punto di vista dei benefici
che il soggetto stesso potrebbe ricavare dalla sua attività lavorativa.
Il concetto di flessibilità applicato al lavoro esprime, invece, la propensione a
variare, a modificarsi e ad adattarsi a diverse situazioni. Esso è diventato un fenomeno che investe interi sistemi produttivi e lavorativi, da entità minime ad organizzazioni di grandi dimensioni, da realtà locali a realtà globali, e che per questo richiede forme di gestione sempre più complesse.
La precarietà, tratto distintivo della nostra epoca, esprime una condizione di
instabilità, incertezza, disagio, che applicata al lavoro assume ad ora carattere di
tipicità e si traduce in una situazione di marginalità e di esclusione. Essa è frutto
di un enorme cambiamento economico e sociale che ha sconvolto interi sistemi
produttivi e istituzionali e che fa capo alla globalizzazione, tuttavia per comprendere le potenzialità, gli input che il cambiamento comporta, tale condizione va
analizzata in relazione ai diversi contesti territoriali di riferimento.
Sul piano concettuale, la difficoltà nell’uso del termine flessibilità spesso
è dovuta alla mancanza di un’adeguata definizione riguardo al tipo di flessibilità
cui si fa cenno. Esiste, infatti, un primo fondamentale discrimine tra la “flessibilità interna” e la “flessibilità esterna”, nell’ambito delle scelte strategiche disponibili all’impresa di fronte alle variazioni delle condizioni della domanda47.
Per flessibilità interna (funzionale o qualitativa) si intende la disponibilità dei
lavoratori ad impiegare e migliorare le loro abilità e capacità secondo le direttive
dei manager; questo tipo di flessibilità fa riferimento alla realizzazione
dell’efficienza produttiva, attraverso una buona organizzazione e il consolidamento delle competenze distintive dell’impresa. La flessibilità interna si traduce
nella possibilità di effettuare spostamenti di lavoratori all’interno dell’impresa o
di modificare il contenuto della loro prestazione per far fronte alla variabilità e
all’incertezza dei mercati. E’ ovvio che ciò presuppone un’elevata collaborazione
da parte dei lavoratori attraverso lo sviluppo di forme di partecipazione diretta
dei lavoratori ai processi tecnico-produttivi, attraverso deleghe di responsabilità a
livello individuale o di gruppo, il lavoro di gruppo, la formazione, ecc.
La flessibilità esterna (numerica o quantitativa) riguarda il perseguimento dell’efficienza allocativa all’interno del sistema economico, attraverso una maggiore
libertà da parte delle imprese nell’adeguamento del proprio organico alle esigenze produttive del mercato del lavoro (maggiore libertà di assumere e licenziare).
47
http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_36/giaccardi.htm
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
302
Ronald Dore ha messo in risalto il rapporto inversamente proporzionale fra
questi due tipi di flessibilità usando l’ossimoro ‘rigidità flessibile’ e facendo notare come, sacrificando la flessibilità esterna nel sistema di impiego, si potesse
ricavare dalla flessibilità interna un netto miglioramento in termini di efficienza
produttiva, tale da compensare l’indebolimento e la riduzione dell’efficienza allocativa 48. Tale schema è stato pensato in relazione al contesto giapponese, ma
può essere applicato universalmente.
All’interno dell’impresa, la flessibilità si è tradotta in più dimensioni: la “flessibilità retributiva”, intesa come possibilità di diversificare i salari in base ai livelli di produttività o la “flessibilità congiunturale”, ossia l’adeguamento dei salari alle fluttuazioni dell’economia generale o dei risultati della singola impresa
(ad es. accordi aziendali che prevedono una ripartizione tra i lavoratori di una
quota degli utili oppure la concessione di compensi derivanti da miglioramenti
nella quantità e qualità dei prodotti)49.
Un altro aspetto è quello della cosiddetta “flessibilità temporale delle prestazioni”, legata alla distribuzione dell’orario di lavoro. Si tratta di strategie vo lte a
flessibilizzare la gestione del tempo di lavoro in modo da rendere
l’organizzazione del tempo più funzionale alle esigenze della produzione e a
quelle dei lavoratori e delle lavoratrici. Con essa si fa riferimento sia alle variazioni di durata della settimana lavorativa in base alle esigenze della produzione
(lavoro straordinario e stagionale), sia ai cosiddetti orari atipici (formule d’orario
che offrono possibilità diverse rispetto agli orari standard in relazione al numero
di ore lavorate). E’ un tipo di flessibilità che, pur potendosi sovrapporre a quella
contrattuale, non mira direttamente a una mobilità della struttura occupazionale.
La “flessibilità contrattuale”, per l’appunto, riguarda l’adozione di strumenti
finalizzati a promuovere una maggiore mobilità all’interno del mercato del lavoro, attraverso un alleggerimento dell’insieme di norme e regole che limitano le
strategie delle imprese in merito alle assunzioni ed ai licenziamenti .
Rientra nella logica di flessibilizzazione dei rapporti tra impresa e lavoratori
anche la cosiddetta “flessibilità spaziale”, ossia l’individuazione di spazi di lavoro alternativi alla “fabbrica” e funzionali alle esigenze del lavoratore (telelavoro,
lavoro a domicilio, ecc.)50.
L’adozione di una o più di queste forme dipenderà sia dal contesto entro cui si
muove l’impresa (grado di variabilità dei mercati, caratteristiche dei lavoratori),
sia dalle caratteristiche peculiari della stessa in termini di dimensioni, impiego di
tecnologia, competitività. Non esistono, dunque, formule predefinite di azione:
nella competizione globale le aziende utilizzano strategie miste per fronteggiare
il mercato globale. La flessibilità non è un modello puro, ma presenta una natura
ibrida e quindi, la strategia di azione dell’azienda, piccola o grande che sia, si
tradurrà in ogni caso in un mix equilibrato di flessibilità e rigidità.
48
R. Dore, op.cit., p. 48.
http://www.atipici.net/glossario
50
Censis, L'impatto della flessibilità sui percorsi di carriera delle donne, FrancoAngeli, Milano 1999.
49
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
303
Normative sul lavoro atipico in Italia: la Legge 30/2003
Il diritto del lavoro italiano, a partire dagli interventi normativi di inizio secolo, è stato costruito intorno alla figura del contratto di lavoro subordinato a tempo
pieno ed indeterminato, a lungo considerato il modello standard di riferimento
per la regolamentazione dei rapporti di lavoro.
Questa centralità è da ricercarsi, probabilmente, nella tutela dello statuto giuridico del lavoro dipendente e nella buona rispondenza di questo modello di lavoro
a un sistema produttivo e ad una società centrata sul lavoro industriale. Questo
modello permetteva di conciliare il bisogno delle imprese di avere disponibilità
di manodopera con le esigenze di tutela dei lavoratori.
Fin dagli inizi del secolo, la dottrina giuslavoristica europea aveva individuato
nell’obbligo di obbedienza del lavoratore, l’elemento caratterizzante della figura
del lavoro subordi nato. Seguendo questa dottrina, il legislatore italiano ha costruito la definizione del rapporto di lavoro subordinato 51, nel codice civile del
1942, in contrapposizione a quella di lavoro autonomo 52.
Negli ultimi anni però, si è assistito ad una forte innovazione tecnologica ed
alla terziarizzazione del mondo del lavoro, che hanno portato ad un aumento dei
rapporti di lavoro che si collocano al confine tra l’area della subordinazione e
quella dell’autonomia, con tendenze disgregative interne alla fattispecie tipica.
Inoltre, i cambiamenti che si sono avuti nell’organizzazione del lavoro e in quella
produttiva, hanno ridotto i momenti autoritari e gerarchici tipici del rapporto di
lavoro subordinato e hanno assegnato valore ad aspetti di autodeterminazione ed
autonomia tecnica nell’adempimento della prestazione, che in passato erano prerogativa del lavoratore autonomo. Il diritto del lavoro italiano, costruito attorno
alla figura del contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato,
comincia ad incontrare difficoltà crescenti. Il mercato del lavoro è ormai caratterizzato da nuovi modi di produzione e organizzazione del lavoro, in seguito alla
crisi del modello fordista-taylorista, ed è segnato dalla diffusione di molte tipologie di lavoro flessibile e di nuovi modelli normativi di regolazione, divergenti dal
prototipo normativo del contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato. La coincidenza tra esigenze di tutela del lavoratore ed esigenze dei
metodi di produzione è venuta meno e sono cambiate le necessità dei mercati e
delle imprese che richiedono costantemente una maggiore flessibilità del lavoro.
Luciano Gallino 53 intravede in questa continua richiesta, la premessa di un attacco generalizzato da parte delle imprese al diritto del lavoro, ossia a quel complesso di norme che tutelano il lavoro per quanto riguarda durata, orario, condizioni, salario. Normative che ora sembrano costituire per le imprese un ostacolo
51
Art.2094 Codice Civile - Prestatore di lavoro subordinato: «È prestatore di lavoro subordinato chi si
obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore».
52
Sotto il Titolo “Del lavoro autonomo”, il Codice Civile contempla il “Contratto d’opera” (art.2222
c.c.), che ha per oggetto la prestazione di un’opera o di un servizio con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.
53
L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Editori Laterza, Roma-Bari, 2003.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
304
alla competitività. Tuttavia i lavori flessibili e il proliferare di contratti a tempo
determinato sono una dimostrazione che è in atto un principio di erosione della
tradizionale legislazione sul lavoro.
Una prima significativa tappa dell’estensione del ricorso al lavoro a tempo determinato è stata segnata, in tempi relativamente recenti, dall’emanazione della
Legge 24 giugno 1997 n. 196, dal titolo “Norme in materia di promozione
dell’occupazione”, nota come Pacchetto Treu, che ha recato profonde innovazioni al mercato del lavoro, dettando la disciplina del lavoro interinale e fissando
quale obiettivo l’introduzione di forme di flessibilità controllata e negoziata mediante l’intervento della contrattazione collettiva. La legge contiene disposizioni
che regolano direttamente determinati istituti (apprendistato, tirocini, lavoro interinale), disposizioni sulla produzione legislativa futura e disposizioni di rinvio
della contrattazione sociale. Il lavoro interinale, precedentemente vietato dalla
Legge n.1369 del 1960 (Divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro), entra a far parte dell’ordinamento italiano del lavoro. Ma la vera
svolta in materia di lavoro si ha con il disegno di legge 14 febbraio 2003 n.30,
cosiddetta Legge Biagi, contenente la “Delega al Governo in materia di mercato
del lavoro” e con l’emanazione del successivo decreto legislativo n.276/2003,
con cui si realizza l’assetto definitivo della liberalizzazione del mercato del lavoro, già avviata nell’ottobre del 2001 con il Libro bianco sul mercato del lavoro54.
La riforma è ispirata alle indicazioni delineate a livello comunitario nell’ambito della “Strategia Europea per l’occupazione” (SEO), del vertice di Lisbona del 200055, dei Libri Bianchi di Delors (1993)56 e Cresson (1995)57 che, già
agli inizi degli anni ‘90, evidenziavano la situazione dell’occupazione in Europa,
sottolineando come una delle principali cause della disoccupazione fosse rappresentata proprio dal basso tasso di creazione di nuovi posti di lavoro e dalla necessità di una riforma del mercato del lavoro (considerato troppo rigido) in termini
di organizzazione dell’orario di lavoro, di retribuzioni, di mobilità e di adeguamento dell’offerta di lavoro alle esigenze della domanda. Con la nuova riforma si
intende realizzare «un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire
trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di un prima occupazione, con particolare riferimento alle fasce deboli del mercato del lavoro»58.
54
La legge prende il nome dal giuslavorista Marco Biagi, cui venne dedicata la riforma del lavoro varata poco dopo l’attentato del 19 marzo 2002 di cui egli rimase vittima. “Il Libro Bianco sul lavoro” è stato
presentato, nell’ottobre del 2001, dall’allora ministro del lavoro e delle politiche sociali Roberto Maroni.
55
La strategia elaborata nel vertice di Lisbona consiste in una serie di decisioni assunte dal Consiglio
Europeo tenutosi a Lisbona il 23 e 24 marzo del 2000, dedicato al rinnovamento economico, sociale e
ambientale dell’UE. L’obiettivo è quello realizzare una crescita economica sostenibile con la creazione di
nuovi e migliori posti di lavoro, garantire una maggiore coesione sociale nel contesto di un’economia basata sulla conoscenza.
56
J. Delors, trad. it. Crescita, competitività, occupazione: le sfide e le vie da percorrere per entrare nel
XXI secolo, 1993
57
E. Cresson, trad. it. Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, 1995.
58
Art. 3 (Finalità) comma 1, Titolo II “Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro” del Dlgs
276/2003.
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305
Gli obiettivi della riforma si ispirano alle indicazioni delineate a livello comunitario e in particolare a due pilastri fondamentali della SEO: occupabilità e adattabilità59. La riforma raccoglie queste sollecitazioni prevedendo: la messa in atto
di una strategia coordinata volta a contrastare i fattori di debolezza strutturale
della nostra economia (ad es: disoccupazione giovanile e di lunga durata, insufficienza della partecipazione femminile al mercato del lavoro, ecc.); l’introduzione
di forme di flessibilità regolata in modo da bilanciare le esigenze delle imprese;
l’introduzione di nuove tipologie di contratto utili ad adattare l’organizzazione
del lavoro ai mutamenti dell’economia e allargare la partecipazione al mercato
del lavoro ai soggetti a rischio di esclusione sociale; il perseguimento di politiche
del lavoro efficaci e moderne, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno; l’affermazione di un maggior ruolo delle organizzazioni di tutela e rappresentanza60.
In particolare, in tema di occupabilità il decreto 276/2003 interviene attraverso
un ampio progetto di riforma degli strumenti di gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro attraverso un implicito riconoscimento delle difficoltà del
sistema pubblico attuale di garantire l’efficienza di tale incontro.
In questa direzione si pongono la riforma del collocamento61 e la borsa continua del lavoro, strumenti che tendono a ridurre la “debolezza” del lavoratore
consentendogli di avere informazioni sulle opportunità di lavoro in tutto il territorio italiano e di poter stipulare un contratto che sia coerente con le sue esigenze.
Sempre in tema di occupabilità della persona, vanno ricondotti i nuovi contratti (apprendistato e contratto di inserimento) che si propongono di coniugare formazione e lavoro e che consentono l’ingresso o il ritorno nel mercato del lavoro.
In relazione al pilastro dell’adattabilità, la riforma predispone contratti flessibili (part-time, lavoro ripartito, lavoro intermittente) con lo scopo di conciliare
esigenze dei lavoratori e delle imprese con forme contrattuali tendenzialmente
stabili62. Il legislatore interviene anche attraverso una razionalizzazione di figure
già esistenti, come le “collaborazioni coordinate e continuative” (co.co.co), la cui
attività si caratterizza rispetto ai dipendenti per la mancanza di subordinazione
nei confronti dei datori di lavoro. Il decreto legislativo 276/2003 stabilisce, inoltre, che le nuove collaborazioni coordinate e continuative siano ricondotte a uno
o più progetti specifici (co.co.pro), programmi di lavoro o fasi di esso, senza peraltro fornire una definizione né di programma né di progetto. Una delle novità
più significative della riforma è costituita dall’attribuzione alle imprese di una libertà di scelta dei fattori produttivi fortemente accresciuta con riguardo al potere
di ricorrere a contratti diversi da quelli di lavoro, quali: somministrazione di lavoro, appalto di opere e servizi e cessione di un ramo di azienda. Ne consegue
una maggiore elasticità dell’organo aziendale e, indirettamente, una maggiore li59
I pilastri della Strategia Europea per l’occupazione sono complessivamente quattro: occupabilità, imprenditorialità, adattabilità, pari opportunità.
60
C. Scaramuzzino (ed.), L’Europa e il lavoro. Istituzioni comunitarie e politiche sociali, ETS, Pisa
2004.
61
La riforma del collocamento sancisce la fine del monopolio del collocamento pubblico e l’apertura
dell’attività di intermediazione tra la domanda e l’offerta di lavoro ai privati.
62
M. Tiraboschi (ed.), La riforma Biagi del mercato del lavoro, Giuffrè, Milano 2004.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
306
bertà nelle riduzioni di personale. L’idea di fondo della legge è quella di mettere
le aziende nelle condizioni di assumere senza oneri eccessivi e allo stesso tempo
di semplificare l’ingresso nel mercato del lavoro delle fasce deboli, così da favorire l’aumento dell’occupazione per centrare gli obiettivi posti dall’Unione Europea (che ha fissato la meta di un tasso di occupazione al 70% entro il 2010) e soprattutto per risolvere gli squilibri territoriali che gravano sul mercato italiano.
In sintesi, la flessibilità dei rapporti di lavoro troverebbe una duplice giustificazione: una “sociale”, ossia per innalzare il tasso di occupazione e migliorare le
condizioni dei lavoratori; l’altra economica, per fronteggiare le sfide indotte dalla
globalizzazione e dall’internazionalizzazione dei mercati. Tuttavia, l’assunto secondo cui la flessibilità del lavoro comporterebbe una crescita dell’occupazione
susciterebbe forti perplessità63, spesso infatti, una maggiore flessibilità non si traduce in un aumento dello stock occupazionale, ma in un rapido turnover 64.
L’estrema flessibilizzazione delle regole in materia di lavoro e l’impossibilità
di controllarne la corretta applicazione nel relativo mercato, ha comportato la diffusione della precarietà come condizione inevitabile, causata dalla mercificazione
del lavoro: il lavoro viene trattato alla stregua di una merce che si cede, si affitta,
si somministra, si “chiama” solo quando serve.
L’idea di lavoro come mezzo di espressione e realizzazione della personalità
umana appare come indebolita da una sommessa e tacita accettazione, da parte
dei lavoratori, della “precarizzazione” come destino sicuro e quasi necessario.
L’identità sociale dell’uomo flessibile: il contributo di Richard Sennett
Nel corso del tempo la concezione del lavoro, elemento da sempre centrale
nella vita dell’uomo, è stata soggetta a diversi cambiamenti e così, alla connotazione pratica dell’attività lavorativa come mezzo vitale di sostentamento, si è aggiunta una forte componente psicologica e sociale. Secondo le discipline
sociali, la nozione di identità fa riferimento a due processi eterogenei, presenta
cioè due volti, uno sociale e uno personale: l’identificazione e l’individuazione.
Con il processo di identificazione, si mette in luce l’uguaglianza con gli altri, il
riconoscersi negli altri e l’essere riconosciuti dagli altri. Il riconoscimento sociale
avviene attraverso categorie socialmente disponibili (nomi, titoli ufficiali, denominazioni etniche, religiose, professionali). Con l’individuazione invece, si sottolinea la diversità rispetto agli altri, l’unicità, l’irriducibilità. Essa definisce i modi
in cui si forma l’individualità, in cui il soggetto si auto-riconosce. Il risultato è
l’apparente paradosso di un’identità che è uguale ad altri e diversa; in realtà le
due dimensioni non si sovrappongono mai completamente e questi due processi
63
L. Gallino, op. cit., pp. 9-13.
Il turnover è un indice di rotazione che misura il tasso con cui una data azienda incrementa o perde il
personale. http://www.lavoro-it.stepstone.it/content/it/it/7-modi-per-ridurre -il-turnover-in-azienda.cfm
64
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
307
non si attuano in isolamento, ma in base al riconoscimento che altri attribuiscono
all’individuo nel corso della sua vita, all’interno di cerchie sociali significative 65.
Nell’attuale fase storica, la condizione identitaria degli individui è segnata in
modo particolare dalla flessibilità del lavoro nella sfera materiale e dall’ideologia
capitalistica nella sfera immateriale. Lo sconvolgimento del sistema di ruoli sociali, determinato dal nuovo modo di produrre, ha spiazzato un’identità sociale
ancora legata al mondo della stabilità del lavoro e al ve cchio sistema di garanzie
che presidiava la condizione dei lavoratori66.
Ora il rischio è che i soggetti vivano la nuova realtà rimanendo ancorati al passato e soffrendo una condizione di forte tensione psicologica dovuta alla mancanza di riferimenti. L’identità sociale andrebbe, quindi, ridefinita e adeguata al
nuovo sistema di produzione e ai nuovi stili di vita, in modo che i soggetti possano riconoscersi alla luce della loro mutata condizione esistenziale. I contesti sociali ed organizzativi in cui viviamo sono caratterizzati da fenomeni sociali complessi e contraddittori. Le organizzazioni spingono e puntano sulla flessibilità,
hanno confini ormai sempre più incerti e manifestano difficoltà a riconoscere le
appartenenze, gli individui però hanno bisogno di sistemi di riconoscimento, di
valori, di relazioni in cui rispecchiarsi per costruirsi un’identità. Così, mentre si
esalta la flessibilità, aumentano le spinte a produrre secondo procedure ossessivamente irrigidite: si pensi ad esempio ai sistemi di certificazione e al proliferare
di normative (mentre si proclama la deregulation). Parallelamente al moltiplicarsi delle possibilità di accesso a beni e servizi assai diversi, si standardizzano i
prodotti a livello globale (ne è un esempio la garanzia di uno stesso McDonald’s
in ogni parte del mondo). Si aprono spazi per nuove libertà e più ampie tolleranze
delle diversità, ma aumentano le paure per i diversi, le spinte all’omologazione o
all’emarginazione. Paradossalmente, quanto più veniamo sollecitati ad essere individui autonomi, capaci di essere responsabili delle proprie condizioni, tanto
più manifestiamo bisogni di sicurezza, appartenenza e riconoscimento sociale.
In una realtà caratterizzata da tanta incertezza, questi bisogni si sono sviluppati
in modo esponenziale proprio perché questa nostra società ha permesso e
costretto all’individualizzazione. Il lavoro, quindi, non è solo un dovere, un
diritto, ma diventa anche espressione di bisogni: bisogni di realizzazione, riconoscimento, sicurezza, bisogno di esprimere e comunicare al mondo chi siamo.
Da qui il peso che il lavoro assume nella costruzione dell’identità personale.
A conferma di quanto il significato del lavoro si sia evoluto nel tempo dalla
sua iniziale connotazione di attività volta al sostentamento, costituisce un riscontro il fatto che l’attività lavorativa contribuisca in modo sostanziale a rendere un
soggetto socialmente riconoscibile, anche se ciò che si cerca primariamente nel
lavoro è qualcosa che serva a strutturare l’identità personale e che diventi poi
mezzo per sviluppare ed esprimere le proprie capacità.
65
L. Sciolla, Strategie dell’identità. Rischi e opportunità dei nuovi lavori tra i giovani, in G. Mari (ed.),
op. cit., pp. 86-95.
66
www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=144 - 24k
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
308
L’idea odierna del lavoro è legata al concetto di “identità lavorativa”, intesa
come capacità d'immagazzinare e conservare conoscenze, storia, cultura. Tutta
l’analisi economica dell’offerta di lavoro è costruita a partire dall’ipotesi che si
lavora unicamente per il salario. L’individuo rinuncerebbe al proprio tempo libero solo se ben ricompensato. In realtà, la situazione è diversa rispetto al passato:
oggi, infatti, si lavora anche per conseguire una identità sociale, per realizzare un
proprio progetto di vita, per vedere affermati i propri valori. E quanto più il modello della fabbrica fordista ha lasciato il campo a organizzazioni produttive
diverse, tanto più questa diversa dimensione del lavoro è divenuta rilevante.
I lavoratori-attori delle organizzazioni del XXI secolo sono quindi motivati
non soltanto dall’incentivo economico, ma anche dalla possibilità di assicurarsi,
attraverso il lavoro, un’utilità diretta in termini di autostima e dal sentirsi coinvolti, parte di qualcosa che consenta in una prospettiva evolutiva il loro sviluppo
professionale e personale. L’esigenza delle aziende di regolare la produzione in
funzione della variabilità della domanda, secondo quanto previsto dal ‘
just in time’, ha determinato una radicale trasformazione dei contratti di lavoro.
La conseguenza diretta è stata la destrutturazione dell’identità lavorativa, il
senso di perdita di controllo sul proprio progetto di carriera, il decremento della
motivazione all’impegno, tutti elementi che a loro volta hanno condotto a situazioni, richiamate anche dal sociologo americano Richard Sennett67, in cui gli individui riescono a vivere o sopravvivere nelle organizzazioni grazie al mantenimento di relazioni superficiali, precarie, leggere, di legami inconsistenti, di una
partecipazione solo apparente. Sennett, attento osservatore degli effetti del capitalismo sull’ordine sociale, si è occupato in The corrosion of character delle conseguenze del lavoro flessibile sul carattere degli individui, dove “il carattere indica soprattutto i tratti permanenti della nostra esperienza emotiva, e si esprime attraverso la fedeltà e l’impegno reciproco, o nel tentativo di raggiungere obiettivi
a lungo termine, o nella pratica di ritardare la soddisfazione in vista di uno scopo
futuro”68. Esso garantisce la continuità nelle relazioni con il mondo e permette
all’io di dislocare la propria autonarrazione in una successione temporale lineare
e cumulativa. Questa concezione temporalmente strutturata del carattere, come
risultato ed espressione della percezione e gestione sia del tempo di lavoro che
del tempo di vita, assume pertanto il valore di indicatore antropologico
delle nuove forme di soggettività legate all’economia capitalistica post-fordista.
La tesi sostenuta dall’autore è che il “nuovo capitalismo” abbia conseguenze
devastanti sull’identità e sulla socialità degli individui: la “corrosione del carattere” è un esito della destrutturazione del tempo, del conflitto tra personalità ed esperienza, dell’esposizione costante dei lavoratori al rischio, alla precarietà, allo
sradicamento sistematico da contesti di lavoro condivisi, della framment azione
delle carriere e della perdita di legami comunitari. La ‘flessibilità’, inizialmente,
si riferiva alla caratteristica propria dei rami di un albero di flettersi col vento e di
67
R. Sennett, trad. it. L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale,
Feltrinelli Editore, Milano 2006.
68
Ibidem, p. 10.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
309
tornare poi nella posizione di partenza. Questa immagine, applicata metaforicamente alle azioni umano, indicherebbe il sapersi adattare al mutare delle circostanze 69. Per John Stuart Mill70, il comportamento flessibile e l’apertura al cambiamento erano qualità che avrebbero permesso agli individui di agire liberamente, ma nella realtà, afferma Sennett, le forme moderne di flessibilità hanno prodotto nuove strutture di potere e di controllo, rendendoci di fatto meno liberi.
Questo nuovo sistema di potere è formato da tre elementi principali 71, che intendono dare una risposta alternativa alle limitazioni economiche imposte dalla
“routine burocratica” e dalla “rigidità organizzativa” del passato, onde migliorare
in produttività, efficienza e competitività:
1. Reinvenzione discontinua delle istituzioni, ovvero l’abbattimento delle strutture piramidali aziendali e la loro ristrutturazione. Questo tipo di flessibilità si rispecchia nelle due pratiche di “reingegnerizzazione” (reengineering) tramite la
riduzione dei posti di lavoro (downsizing), la dislocazione produttiva, la frammentazione dei ruoli. Secondo Sennett, anche se i calcoli di produttività su larga
scala in seguito all’uso di queste pratiche sono enormemente complessi, studi accurati e indicatori specifici (come ad esempio il PIL), fanno dubitare riguardo ad
un aumento di produttività nel presente rispetto al passato. Il cambiamento continuo delle istituzioni e la frammentazione dei ruoli porta inefficienza e disorganizzazione, ma ciò che più deve preoccupare è che tali cambiamenti non sono
privi di significato e spesso si rendono necessari in un mercato in cui viene lodata
la capacità di trasformarsi e il cambiamento è preferibile alla continuità.
2. Specializzazione flessibile della produzione, rappresenta l’antitesi del sistema di produzione fordista caratterizzato dalla standardizzazione esasperata dei
prodotti e consiste, pertanto, nella reinvenzione costante dei prodotti in base alle
esigenze del mercato, secondo una strategia di innovazione permanente resa possibile dall’alta tecnologia. Questo tipo di specializzazione coinvolge l’intera classe lavorativa e in relazione ad esso, è possibile individuare due modelli di azione:
il modello “r enano” (che ha trovato applicazione anche in Italia), all’interno del
quale sindacati e aziende si dividono il potere, mentre l’apparato assistenziale
dello Stato fornisce una rete di sicurezza per quelle categorie più “deboli” della
popolazione. Il modello “angloamericano” che lascia più spazio al capitalismo e
al libero mercato e subordina la burocrazia governativa all’economia, allentando
la rete di sicurezza, assistenza e previdenza. Tuttavia, per Se nnett, nessuno dei
due sistemi rappresenta una soluzione, in quanto il modo in cui agisce la produzione flessibile dipende dalla concezione del “bene comune” propria di ogni società. Il modello angloamericano ha prodotto una ridotta disoccupazione, ma una
crescente disuguaglianza salariale e forti squilibri nella distribuzione della ricchezza. Di contro, il modello renano presta più attenzione alle conseguenze che i
cambiamenti potrebbero portare ai cittadini più svantaggiati, le reti assistenziali
69
Ibidem, p. 45.
Nei suoi “Principi di economia politica”al Cap.VIII, J.S. Mill riprendendo l’analisi di Adam Smith
sulla divisione del lavoro argomenta positivamente sulla capacità del lavoratore di essere versatile.
71
Ibidem, pp. 45-62.
70
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
310
sono più sensibili nei confronti dei lavoratori medi, ma la disoccupazione è elevata a causa della difficoltà nella creazione di posti di lavoro.
3. Concentrazione del potere senza centralizzazione, ovvero la disaggregazione dei luoghi, dei tempi e delle responsabilità della produzione, attraverso la creazione di “aziende in rete”, senza che ciò significhi una diminuzione effettiva del
controllo, ma soltanto il suo anonimato. L’unica libertà concessa è sui modi adottati per raggiungere gli obiettivi e non sugli obiettivi stessi. La struttura aziendale dunque diventa più complessa e non più semplice.
Questi tre elementi sono accompagnati da una forte trasformazione: la tradizionale etica individualistica del lavoro viene sostituita, sempre in nome della libertà e della creatività, con l’etica del lavoro di gruppo o lavoro in team, e con le
sue “maschere di cooperazione” con cui gli individui manipolano il loro comportamento di fronte agli altri con lo scopo di creare socievolezza72. In una società in
cui il rischio è una necessità di massa, la parola d’ordine è “successo” e i mancati
spostamenti sono indicazioni di fallimento, il desiderio di stabilità è visto come
un eccessivo attaccamento alla carriera, una sorta di “morte in vita”73 . Le incertezze create dalla flessibilità, la tolleranza verso la frammentazione, la mancanza
di attaccamento alla durata delle cose, la soppressione della spontaneità, diventano per i lavoratori fonti quotidiane di svuotamento di senso, perdita di continuità
identitaria e di autostima, portandoli alla ricerca di nuovi ancoraggi, nuovi riferimenti e facendo emergere un forte desiderio di comunità. Sennett esprime nostalgia per un’epoca passata in cui la vita si strutturava intorno a ruoli sociali relativamente stabili e il tempo aveva una consistenza lineare sufficiente a costruire
percorsi di identità. Le persone sentono la mancanza di rapporti umani stabili e di
obiettivi a lungo termine, ma questa nostalgia non ha nessuna presa sulla realtà
presente e i tentativi di riattivazione della comunità rimangono artificiosi e sterili.
Introduzione del lavoro atipico nelle aziende: i cambiamenti organizzativi
La progettazione organizzativa e la prassi manageriale sono mutate nel tempo
in risposta ai cambiamenti avvenuti nel mercato e nella società. Il sistema gerarchico e gli approcci burocratici sviluppatisi durante la rivoluzione industriale e il
paradigma dell’efficienza produttiva proprio del taylorismo, sono stati considerati l’orientamento principale per la progettazione e il funzionamento organi zzativo
fino agli anni ‘70 e ‘80. Durante gli anni ‘80 però la competizione, specialmente
su scala globale, diventa più intensa determinando, in risposta, il sorgere di nuove culture aziendali che hanno adottato valori quali la flessibilità, l’attenzione
al cliente, la motivazione dei dipende nti, la qualità del servizio e dei prodotti.
72
73
Ibidem, p. 113.
Ibidem, p. 86.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
311
Il venir meno della separazione, tipica del taylorismo, tra la produzione e la
comunicazione, sono elementi che favoriscono l’emergere di imprese più leggere
il cui valore è misurato più dalle idee che da un patrimonio di beni materiali.
Le imprese perdono la loro fisicità e diventano immateriali. Negli ultimi due
decenni, il mondo delle imprese ha attraversato un cambiamento ancora più profondo e di vasta portata, che ha richiesto un approccio al management e alla progettazione organizzativa fortemente improntato sulla flessibilità. L’errore della
scuola dello scientific management, è stato probabilmente quello di considerare
tutte le organizzazioni come se fossero simili, trascurando così le condizioni
dell’ambiente esterno. Non ci sono soluzioni valide in generale, dunque,
l’approccio gestionale corretto dipende dalla situazione contingente
dell’organizzazione e l’efficacia organizzativa è data da una buona corrispondenza tra l’organizzazione interna e le condizioni presenti nell’ambiente esterno.
Alla luce di tutto ciò, le imprese odierne hanno dovuto progettare nuove soluzioni in risposta ad un ambiente sempre meno prevedibile e stabile74. Molte sono
le organizzazioni che si stanno spostando verso strutture flessibili e decentralizzate che enfatizzano la divisione orizzontale del lavoro e promuovono la comunicazione, la collaborazione e l’informazione aperta, coinvolgendo tutti i livelli gerarchici nella risoluzione dei problemi (cosiddetta ‘learning organization’75).
E’ possibile, quindi, riscontrare cambiamenti nella divisione orizzontale del
lavoro tra mansioni, ruoli e funzioni, e nella divisione verticale del lavoro tra i
vari livelli della piramide aziendale, che in certi casi risulta appiattita proprio per
favorire il flusso di informazioni nell’azienda e accelerare i processi decisionali.
In altre parole, la struttura tradizionale e gerarchica sta lasciando il posto ad
una struttura prettamente orizzontale (soprattutto in quelle aziende orientate al
cliente e non al prodotto). La piramide aziendale non presenta più un accentramento al vertice, come punto nevralgico dell’intera organizzazione, ma assume
una forma simile ad una “piramide rovesciata”76, ovvero l’organizzazione è decentrata e le responsabilità affidate anche a coloro che, nelle organizzazioni tradizionali, costituivano il livello più basso della piramide. L’intera organizzazione
viene ad essere coinvolta nel conseguimento degli obiettivi che vengono di volta
in volta proposti e in tal senso, l’integrazione ottimale tra tutti gli elementi che la
compongono (risorse umane, tecnologia, rapporti interni, rapporti con i fornitori,
con clienti, ecc.) diventa elemento fondamentale per il successo di un’azienda.
Per favorire l’integrazione delle strutture interne, le imprese promuovono forme di autonomia che richiedono un maggiore impegno da parte del lavoratore,
che si trova non soltanto a dover eseguire le procedure, ma ad adattare le stesse
alle mut ate condizioni di contesto. Per garantire il raggiungimento degli obiettivi
è necessario dilatare le maglie del taylorismo, richiedendo ai lavoratori comportamenti che si discostano dagli standard e questo è tanto più necessario quanto
74
R.L. Daft, trad. it. Organizzazione aziendale, Apogeo Editore, Milano 2004.
Letteralmente “apprendimento organizzativo”, G. Costa, M. Gianecchini, op. cit.
76
J. Carlzon, trad. it. La piramide rovesciata. La bibbia del management nell’era dei servizi, FrancoAngeli, M ilano 1997.
75
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
312
più si manifestano esigenze non predeterminate di flessibilità produttiva.
L’aumentata autonomia e polivalenza comportano però per ogni lavoratore
l’assunzione di maggiori oneri e responsabilità. Il modello di produzione postfordista, da un lato ha reso più esigenti i datori di lavoro nella selezione della manodopera, determinando un incremento qualitativo del contenuto della prestazione
di lavoro e al contempo una riduzione dei vincoli per il lavoratore; dall’altro lato
però, tale autonomia deriva da una perdita di tutela dei rapporti di lavoro. Di conseguenza più autonomia, ma minore protezione e maggiori rischi.
Questo sistema, sottolinea Accornero77, chiede al lavoratore di più: le libertà
sul lavoro vengono pagate con una riduzione delle forme di tutela e delle garanzie. Le aziende che hanno deciso di introdurre le nuove tipologie contrattuali
per le assunzioni, hanno infatti beneficiato di sconti contributivi e fiscali e di un
maggiore ricambio del personale, tuttavia alla flessibilità non ha fatto seguito
una riforma parallela sugli ammortizzatori sociali, tramutando di fatto una situazione di lavoro flessibile in una situazione precaria. Generalmente, la teoria economica prevede che ad un maggiore rischio assunto, corrisponda una maggiore
remunerazione, ma nella realtà si verifica l’esatto contrario: ad una maggiore assunzione di rischi e al minor godimento di diritti e tutele rispetto ai propri colleghi a tempo indeterminato, corrisponde quasi sempre un peggiore trattamento in
termini di retribuzione e di contributi associati alle nuove forme contrattuali.
Questo perché è più difficile misurare il risultato economico dell’attività lavorativa. La maggior parte del lavoro prodotto attualmente non permette la misurazione della produttività giornaliera di un lavoratore, come avveniva invece nella
produzione di merci. La valutazione diventa, quindi, arbitraria e, nel momento in
cui si inseriscono elementi di arbitrio nella valutazione economica della prestazione lavorativa, è facile immaginare quali problemi ne possano conseguire.
Nessuna impresa, grande o piccola che sia, si sottrae oggigiorno all’imperativo
della flessibilità e questa è la ragione per cui le imprese fanno un massiccio ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato. Uno degli argomenti che giustificano la richiesta di una maggiore flessibilità del lavoro, fa riferimento al fatto che
le imprese, per poter fronteggiare la competizione internazionale, devono far variare i costi diretti e indiretti del lavoro in relazione all’andamento dei loro mercati; ciò comporta la possibilità di impiegare esattamente la quantità di forza lavoro retribuita necessaria alla produzione di un certo bene o servizio in un dato
periodo di tempo. La sfida della “personalizzazione” del prodotto o del servizio
intrapresa dalle aziende, è stata un’idea rivoluzionaria, il marchingegno con cui è
stato inaugurato il postfordismo che ha sconvolto tutti gli assetti tradizionali. Nel
complesso, è facile comprendere come il progresso tecnologico e la competitività
imposta alle imprese dal mercato, stiano determinando un mutamento della fisionomia e dell’organizzazione dell’impresa: si riduce lo spazio dell’impresa fordista a vantaggio dell’impresa a rete, caratterizzata da un forte decentramento produttivo: «Prima era la piramide: l’azienda gerarchizzata, pochi capi al vertice,
77
A. Accornero, A.Orioli, L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Laterza, Roma-Bari 1999.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
313
molta truppa alla base. Oggi è la rete o la ragnatela o la stella. L’impresa si serve
di metafore per spiegare sé stessa. […] un nocciolo duro di persone, le quali «sono» l’impresa, il centro pulsante del business e della strategia e, all’esterno, una
corona di figure professionali satellitari, importanti ma non cruciali». 78
Le imprese diventano snelle e reticolari, dismettono attività anche importanti e
conservano il core business, le cedono in appalto a soggetti terzi o si avvalgono
di rapporti di subfornitura o altro.
Si parla inoltre di “delocalizzazione” del lavoro per indicare la situazione di
quelle aziende che, non trovando più conveniente produrre nel luogo d’origine,
trasferiscono in tutto o in parte le loro attività produttive in altro luogo, di norma
in un altro Paese. Non bisogna mai perdere di vista, infatti, che l’impresa genera
sì opportunità di lavoro, ma muove tutto in funzione della realizzazione di un
profitto, ossia cerca di combinare tutte le sue componenti al fine di ottenere il
massimo risultato con la minore spesa. Il capitalismo è una logica, una formazione economica, che continua ad essere presente nella società in quanto inventa i
bisogni e poi si offre di soddisfarli, con la differenza, però, che le soluzioni adottate per tutto il Novecento ora non funzionano più. L’impresa del XXI secolo pone ancora le proprie condizioni ai consumatori, inventando i prodotti che poi
questi dovranno comprare, ma dipende da loro in modo nuovo poiché, attraverso
la personalizzazione della produzione, gli lascia un margine di libertà di scelta.
78
Ibidem, p. 51.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
314
4. Una società di precari?
L’era del precariato
La degenerazione dei contratti flessibili e l’abuso di questi strumenti da parte
delle aziende, ha trasformato il “lavoro flessibile” in un interminabile susseguirsi
di “lavori flessibili” all’interno dell’arco della vita lavorativa di un individuo, per
il quale la scelta, nell’ambito delle offerte di lavoro, si riduce semplicemente al
tipo di contratto atipico al momento più favorevole. La flessibilità e i suoi “buoni
propositi” sono sconfinati in un fenomeno connotato negativamente, dalle vaste e
ormai pesanti proporzioni: il precariato. Un po’ come succede in quei racconti di
fantascienza in cui la “creatura si ribella al creatore”79, sembra che “l’invenzione” della flessibilità come nuovo modello di regolazione del lavoro e come risposta alle esigenze dettate dal mercato, per certi versi, si stia ritorcendo contro
gli individui e la società. La precarietà fa riferimento alla condizione prolungata
di quelle persone che vivono, involontariamente, in una situazione lavorativa
che rileva, contemporaneamente, due fattori di insicurezza: la mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro e la mancanza di un reddito
adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura.
Bisogna specificare però, che non tutto il lavoro flessibile è precario e che la
precarietà emerge quando si rilevano, all’interno degli schemi contrattuali flessibili, fattori discriminanti rispetto alla durata, alla copertura assicurativa, alla copertura sociale, ai diritti, al salario. Si tratta di una condizione più pregnante e
pervasiva rispetto all’insicurezza del posto di lavoro, una condizione a sé stante
che fuoriesce dalla sfera lavorativa e getta ombre sulla vita intera80.
Le ragioni per cui, convenzionalmente, si associa la precarietà al lavoro a tempo determinato vanno ricercate in due componenti cruciali nel rapporto di lavoro:
la durata e la tutela. Il lavoro flessibile ha creato tanta precarietà perché ha destrutturato e moltiplicato le modalità d’impiego senza adeguare il sistema delle
tutele. Il lavoro a tempo indeterminato, essendo un impiego di lunga durata, garantirebbe al lavoratore una tutela migliore rispetto ad un impiego a termine.
Il “posto fisso” conferisce al rapporto con il datore di lavoro, una sicurezza
che deriva dalla natura temporalmente indefinita dello stesso e dall’assunzione di
un impegno a tempo pieno, fattori che si traducono poi in una sicurezza personale e nella possibilità di poter fare progetti a fronte di un reale senso di stabilità.
Premesso che ogni impiego temporaneo può essere rinnovato alla scadenza e che
ci sono persone che, per varie ragioni, non desiderano un impiego stabile, comunemente la determinatezza temporale è considerata un elemento di forte debolezza dei rapporti di lavoro e viene percepita e associata al senso di precarietà.
79
80
Il riferimento, un pò enfatico, è al romanzo Frankenstein o il Prometeo moderno di M.W. Shelley.
A. Accornero, San Precario lavora per noi, Rizzoli, Milano 2006.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
315
Accornero ne parla in questi termini: «Subdola, sfuggente, ambigua, la precarietà sembrerebbe designare un male assolutamente nuovo, che dà luogo appunto
al precariato, imputabile alle impressionanti trasformazioni in atto nel lavoro»81.
E’ naturale che le grandi trasformazioni del mondo del lavoro generino timori
e ansie legate, nelle varie epoche, alla percezione di diverse minacce. Il capitalismo delle manifatture aveva addomesticato l’eterogeneità del lavoro attraverso il
sistema di fabbrica e l’assoggettamento dei lavoratori alle macchine. Il capitalismo proprio della produzione di massa ha standardizzato il lavoro programmandone tempi, modi, meccanismi di retribuzione, efficienza della catena di montaggio. L’industria è stata trasformata e le macchine, nate per migliorare la produttività lavorativa degli operai nei processi ripetitivi, hanno in realtà aumentato i
ritmi e i carichi dei lavoratori senza determinare pari incrementi di salario reale
né corrispondenti riduzioni dell’orario di lavoro. Il capitalismo contemporaneo,
basato sulla produzione snella e la flessibilità, ha invece destrutturato l’impresa e
il lavoro. L’altro ieri si temeva che il lavoro venisse frantumato, ieri che ne uscisse alienato e oggi che venga precarizzato: l’attuale minaccia non proviene più
dalla tecnologia o dall’organizzazione, ma dal mercato. La modernizzazione ha
richiesto dei cambiamenti strutturali molto forti, ma è il mercato che ha dettato le
regole per l’adeguamento. In questo modo è stato ribaltato l’uso del lavoro e il
funzionamento dell’impresa per inseguire una produzione snella, di serie ma per
piccoli lotti, che ha personalizzato il consumo e scomposto la domanda.
L’imprevedibilità e le fluttuazioni di mercato, hanno portato le imprese a operare tagli e a ricorrere a ‘scappatoie’ per ridurre i costi complessivi. Spesso i lavori flessibili vengono giustificati come un passaggio obbligato che sfocia poi in
un lavoro a tempo indeterminato per la gran parte dei lavoratori, in realtà la cosa
è suscettibile di variazione, in quanto le probabilità reali di trovare un impiego
permanente sono poco attendibili e dipendono dalle svariate vicende personali di
chi si muove nel mercato del lavoro. Non di rado, le reali proporzioni di questo
fenomeno vengono oscurate, presentando una precarietà occupazionale “imposta” come possibilità per i soggetti occupati di arricchire il proprio bagaglio di
esperienze lavorative e per i non occupati di introdursi nel mondo del lavoro.
Il cambiamento cosiddetto “quantitativo”, ossia la riduzione della forza lavoro
occupata, è stato a lungo oggetto di discussione. Molta della forza lavoro impiegata dal sistema fordista è divenuta superflua ed è stata progressivamente espulsa
dal processo lavorativo diretto. L’organico dell’impresa ha subito, quindi, una riduzione del numero degli occupati contestualmente a una minore esigenza di forza lavoro per una produzione fortemente ristrutturata da tecnologie che tendono
ad incorporare ogni qualità produttiva del lavoro vivo e a sostituirlo.
All’interno del dibattito sul lavoro, la mancanza di una correlazione effettiva
tra aumento della flessibilità del lavoro e aumento dell’occupazione (connessione
tanto decantata dai fautori della flessibilità), ha accresciuto le voci di coloro che
ritengono che la progressiva precarizzazione avvenga esclusivamente per aumentare i profitti dei poteri forti a scapito dei lavoratori.
81
Ibidem, p. 16.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
316
In definitiva, c’è chi sostiene che la precarietà esiste soltanto perché conviene.
Il segretario nazionale della FIOM Giorgio Cremaschi nell’articolo Mercato e
democrazia: a chi serve davvero il lavoro precario apparso sul giornale Liberazione, ha affermato che è una contraddizione di fondo nel considerare la precarietà una condizione inevitabile: «Il succedersi di lavoro precario sarebbe, almeno
tecnicamente, giustificato se ci trovassimo di fronte a un tale continuo sconvo lgimento dell’organizzazione del lavoro, da impedire ogni forma di continuità
dell’occupazione. Invece stiamo discutendo di persone che restano precarie nello
stesso posto di lavoro, o nella stessa mansione, per anni e anni. Persone, cioè, che
potrebbero essere tranquillamente assunte con contratto di lavoro a tempo indeterminato, per fare quello che fanno. […] Perché allora il lavoro precario si diffonde? Perché le imprese preferiscono tenere anni e anni le persone in quella
condizione? Per la semplice ragione che, così, quelle lavoratici e quei lavoratori
costano molto meno. Vengono pagati meno e con meno contributi, sono disponibili a qualsiasi condizione e orario di lavoro, hanno meno pretese perché hanno
paura, e poi, soprattutto, si addossano ogni rischio: qualcosa va male? A casa»82.
La flessibilità sembra sinonimo di individualizzazione del rapporto contrattuale, di dipendenza dell’esistenza quotidiana del precario dalle forze dell’economia,
di sottomissione ed esposizione dei soggetti all’incertezza, al rischio, a pericoli
imprevedibili. Di conseguenza la precarietà, come esito soggettivo della flessibilità, è una chiara espressione del dominio del pericolo permanente. Il rischio
d’impresa si inserisce nella società, abbandona l’impresa, si installa nei processi
della vita quotidiana e gli effetti di questa ‘economia del rischio’ gravano meno
sulle imprese, ma ricadono sui lavoratori precari 83.
Precarietà e flessibilità: nuove forme di schiavitù?
Con l’avvento della flessibilità, molte sono le difficoltà che i lavoratori hanno
riscontrato nel mercato del lavoro, legate all’inserimento, alla ricerca di un impiego valido e possibilmente duraturo, al riconoscimento di diritti, garanzie e tutele lavorative. Questo generale sconforto verso l’universo del lavoro ha diffuso
la sensazione di essere prigionieri delle “promesse della flessibilità”: maggior
benessere, maggiori benefici, minor disoccupazione, aumento della produttività,
ecc. In realtà, si assiste a situazioni in cui i soggetti appaiono evidente-mente disorientati e incapaci di individuare le opportunità di lavoro esistenti, l’incontro
tra domanda e offerta di lavoro viene spesso ostacolato da una reale opacità del
mercato, che rende difficile anche per le imprese selezionare la manodopera ed
inoltre, chi trova un lavoro soddisfacente, incontra difficoltà nel mantenerlo.
L’instabilità di oggi deteriora, di conseguenza, la partecipazione sia nel lavoro sia
all’impresa, poichè il lavoratore partecipa se ha una relativa sicurezza del lavoro,
altrimenti ci mette il minimo necessario e ha poche ragioni di darsi all’impresa.
82
83
http://www.nonluoghi.info/nonluoghi-new/modules/news/article.php?storyid=504
A. Tiddi, Precari. Percorsi di vita tra lavoro e non lavoro , Derive Approdi, Roma 2002, pp. 33-34.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
317
Di fronte alla chiusura del mercato del lavoro, che non riguarda solo i giovani
ma anche coloro che cercano un nuovo impiego superati i 35-40 anni, i lavori instabili vengono spesso percepiti come strumenti preziosi per penetrare nella “fortezza del lavoro”. In questo senso, il lavoro atipico può essere visto come risorsa
dai soggetti che si trovano esclusi dal mercato e, nonostante esso determini una
precarizzazione delle condizioni di lavoro e ostacoli il raggiungimento di posizioni occupazionali forti, contemporaneamente crea nuove opportunità di lavoro
e facilita l’inserimento lavorativo delle fasce più deboli della forza lavoro.
Il problema vero non è la flessibilità in sé ma che essa si sia uno strumento di
‘schiavitù’, di oppressione e di sfruttamento soprattutto dei giovani e che non si
transiti mai dalla prima occasione di lavoro flessibile ad una condizione di stabilità, che consenta di sposarsi, di avere un reddito, di comprare casa, ecc. La
flessibilità permette alle grandi imprese, alle multinazionali, ai poteri finanziari,
di approfittare di questo sistema minimizzando i costi ed evitando licenziamenti
in blocco e repentini, poiché la manodopera viene legittimamente assunta, spesso
sfruttata ed eliminata secondo i bisogni. In questo modo, è perpetuata una
forma moderna di schiavitù che non solo pone il lavoratore e l’essere umano
in una situazione precaria, negandogli la possibilità di scegliersi il lavoro, di pianificare la propria quotidianità e il proprio futuro, ma minaccia il valore stesso
del lavoro e sminuisce le conquiste sociali ottenute duramente dai lavoratori.
La necessità di adeguarsi ai processi di flessibilizzazione e di rivoluzione del
contesto socio-economico spinge ciascuno a sviluppare la capacità di inventare
un proprio “itinerario” di vita e di lavoro, nel quale non basta più solo saper esercitare un determinato mestiere, ma occorre saper fronteggiare l’intervento di diverse e imprevedibili variabili. Essere precari dunque significa vivere in uno stato di tensione continua che genera ansia e stress. A questo proposito, Accornero
afferma che: «l’ansia di oggi è l’esatto contrario del male di cui il lavoro ha
sofferto in questo secolo, cioè l’oppressione. […] Ci siamo liberati dall’oppressione della monotonia, ma abbiamo acquisito l’ansia della variabilità»84.
Il lavoratore si trova intrappolato dentro nuove costrizioni, nuovi contratti,
nuovi obblighi, nuove responsabilità, nuove paure, che vanificano le aspirazioni
di trovare una realizzazione e una soddisfazione piena nel lavoro e che amplificano i timori e i rischi di rimanere senza reddito, rendendo sostanzialmente il lavoratore più dipendente dall’aspetto materiale e strumentale del lavoro come
mezzo per il proprio sostentamento. Non si può parlare propriamente di “rifiuto
del lavoro”, ma di un cambiamento nel modo di concepirlo. L’identità lavorativa
non si trova più in un rapporto di equilibrio con la costante costruzione
dell’identità personale dei soggetti, non perché il lavoro non sia più in grado di
dare un senso alla loro vita e nemmeno perché sia venuta meno l’etica classica
del dovere, ma semplicemente perché gli individui non vivono più l’esperienza
del lavoro in maniera totalizzante e trovano altri elementi in cui identificarsi.
E’ aumentato il peso dell’identità lavorativa sull’identità personale e ciò ha
portato, negli ultimi anni, a dedicare al lavoro sempre maggiori spazi che, spinti
84
A. Accornero – A. Orioli, op. cit., p. 49.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
318
all’eccesso, hanno generato ricadute negative sulla vita psico-sociale e sulla salute fisica. Il malessere che nasce dall’eccessivo tempo riservato al lavoro e dalla
confusione è stato descritto con termini quali ansia, angoscia, depressione85 e in
certi casi, come sindrome da “burn-out”86o sindrome da stress lavorativo, dovuta
ad un’eccessiva dipendenza e apprensione verso il lavoro, per non parlare poi
dell’attuale fenomeno del “mobbing”87. Paradossalme nte, mentre per i giovani è
sempre più difficile costruirsi un’identità lavorativa, per i lavoratori vicini alla
pensione è sempre più problematico costruirsi un’identità diversa da quella lavorativa, che per quasi tutta la vita li ha caratterizzati in maniera pregnante.
Tutto questo senza contare che la vita media si è notevolmente allungata e
spesso gli individui alle soglie della pensione si sentono e sono ancora attivi e
produttivi, mentre il mercato del lavoro considera le loro professionalità obsolete,
superate. A situazioni di questo tipo sono maggiormente esposti i lavoratori di
mezza età (40/45 anni), cui le aziende tendono negare il valore della propria esperienza, considerandoli refrattari ai rischi e non adeguati a svolgere le nuove
forme di lavoro flessibile. A un lavoratore che viene licenziato e sostituito con
un suo equivalente più giovane e che lavora per un salario più basso, viene sottratta la possibilità di mettere in pratica i propri talenti, il che rappresenta ciò
che viene definito deskilling, vale a dire la “sottrazione delle proprie capacità”.
L’ansia per ciò che potrebbe avvenire, si produce in un clima in cui è esaltato
il rischio costante e in cui sembra che le esperienze passate non possano più servire da guida per il presente. L’instabilità e l’insicurezza, un tempo confinate ai
lavoratori meno qualificati, comprendono oggi tutte le categorie di lavoratori. La
domanda di flessibilità nei contratti di lavoro riguarda infatti indistintamente tutti
i settori produttivi ed occupazionali e dipende nella maggior parte dei casi più
dalle esigenze dei datori di lavoro (produttive e organizzative, ma soprattutto di
gestione dei costi del lavoro), che non dal contenuto vero e proprio del lavoro.
Precarietà del lavoro, precarietà della vita: impossibilità di progettare un futuro
Nel corso degli ultimi anni si è assistito a un processo di progressiva deistituzionalizzazione dei percorsi di vita, per cui tendono a sparire tappe precise
e momenti predefiniti che scandivano dei passaggi tradizionali fondamentali
nell’esistenza di ogni individuo. In particolare, per il mondo giovanile, l’inizio
della vita adulta non è più segnato in modo inequivocabile dall’inizio dell’attività
lavorativa né oramai da un eventuale abbandono del nucleo familiare di origine 88.
85
http://www.stopmobbing.org/article.php3?id_article=32
F. Pellegrino, La sindrome del burn-out, Centro Scientifico Editore, Torino 2000.
87
Il termine mobbing, deriva dal verbo inglese “to mob”, che significa: accerchiare, attaccare, aggredire
in massa. Esso è entrato a far parte del vocabolario del mondo del lavoro, indicando un fenomeno ampio e
dagli effetti pericolosi. Esso descrive vari comportamenti aggressivi o subdoli messi in atto sul posto di
lavoro dai colleghi e/o dal datore di lavoro ai danni di un lavoratore, che viene emarginato, escluso.
88
G. Rossi, Quando i giovani restano a lungo nella famiglia di origine: il caso italiano, in E. Scabini –
G. Rossi (eds.), Giovani in famiglia tra autonomia e nuove dipendenze, Vita e Pensiero, Milano 1997, pp.
45-68.
86
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
319
Il processo di individualizzazione e la perdita di importanza della strutturazione tradizionale dei percorsi di vita sono legati alle trasformazioni che hanno interessato il mercato del lavoro, in quanto l’occupazione rappresenta un elemento
chiave nella definizione dell’identità degli individui. Se nella società fordista il
lavoro era sufficiente a produrre un’identità stabile e a garantire l’integrazione
sociale, con la diffusione delle forme di lavoro instabili, il lavoratore non è
in grado di definire con precisione la propria identità professionale e di conseguenza, non può garantirsi il raggiungimento di un determinato status sociale.
Come fa notare Bauman, questa instabilità caratterizza non solo i percorsi lavorativi ma in generale tutta la realtà circostante agli individui, che presenta elevati livelli di incertezza. In queste condizioni, i soggetti preferiscono evitare di
fare programmi di lungo periodo, non ipotecare il futuro, ma mantenersi liberi di
cambiare percorso, di seguire nuove strade quando si aprono nuove opportunità.
Ciò porta le persone a concentrarsi sul presente e a porsi degli obiettivi vicini per
essere maggiormente sicuri di raggiungerli. L’instabilità del lavoro, in questa
prospettiva, fa parte degli elementi che amplificano l’incertezza sul futuro e contemporaneamente è uno strumento che permette di elaborare strategie di breve
periodo perché non impone di assumersi le responsabilità e i vincoli attinenti invece alla scelta di un impiego fisso. La sensazione di poter cogliere nuove opportunità e l’idea che queste siano molto numerose, anche se imprevedibili, può trasmettere un forte senso di libertà nella definizione della propria identità.
Vi sono diversi modi di vivere l’esperienza del lavoro instabile. I soggetti utilizzano l’instabilità del lavoro in maniera strumentale, come garanzia di transitorietà o di non-identificazione con il lavoro svolto. In alcune situazioni, il lavoro
instabile è un complemento in attesa del termine degli studi o in attesa del lavoro
desiderato o più adatto alle proprie aspettative. In altri casi, invece, la posticipazione della conclusione degli studi e/o la scelta di lavorare in modo saltuario,
sembrano essere strategie di attesa mirate a prendere tempo, ad esplorare il mondo del lavoro senza un obiettivo preciso e ad allontanare il momento della definizione del proprio percorso. Tali strategie possono rivelarsi valide se i progetti per
il futuro, ad un certo punto, assumono consistenza e trovano realizzazione; in caso contrario, i lavori saltuari potrebbero diventare anche molto rischiosi e poco
utili per la costruzione di un percorso professionale, in quanto si trasformano in
un mero spreco di tempo. Va ricordato che i contratti flessibili hanno permesso
l’ingresso nel mondo del lavoro di nuovi soggetti, un tempo marginali, come le
donne e i giovani. In particolare, per molte donne che hanno dedicato una parte
importante della loro vita a svolgere attività di cura, il lavoro per il mercato non
costituisce la dimensione primaria di riferimento, né l’unica fonte di identità, ma
soltanto un modo per integrare il reddito familiare con un salario aggiuntivo. A
prescindere dalle motivazioni che spingono una donna ad entrare nel mercato del
lavoro, va sottolineato che sicuramente l’introduzione di nuove modalità contrattuali ha permesso di conciliare la vita lavorativa con gli impegni domestici89.
89
A. Tiddi, op. cit., p. 23.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
320
I giovani, invece, fanno il loro ingresso nel mondo del lavoro molto tardi rispetto al passato, poiché si sono allungati i tempi di istruzione e formazione ed
inoltre, essi incontrano difficoltà nella ricerca di lavoro, spesso restano a lungo
disoccupati e si inseriscono per lo più con modalità di impiego flessibili e temporanee 90. Un lavoro temporaneo, quindi, può rappresentare per i giovani un modo
per proseguire gli studi con l’ausilio di un reddito che, seppur basso, è comunque
di aiuto oppure un modo di fare esperienza in attesa di opportunità migliori.
La situazione delle donne che cercano di rientrare nel mercato e quella dei
giovani che devono ancora definire il proprio futuro professionale sono molto diverse, perché nel primo caso le opportunità occupazionali sono molto più ridotte
e i progetti di modificare in futuro la propria posizione professionale sono difficilmente realizzabili. Tuttavia, anche in queste situazioni più critiche, l’instabilità
del lavoro può contenere un potenziale liberatorio, in quanto permette comunque
di vivere con meno frustrazione le esperienze lavorative squalificanti. Se molti
soggetti mettono in atto strategie di attesa in vista della ricerca di un’occupazione
diversa che permetta di fare progetti a lungo termine; per altri, la scelta del lavoro
è invece una scelta forte e motivata dalla passione per un determinato mestiere (si
pensi a mestieri cui viene attribuita una forte ricchezza intellettuale o un forte potenziale creativo). In questi casi, non avere un posto fisso non determina una minore identificazione nel lavoro, anzi a volte i disagi connessi con l’instabilità
vengono accettati in nome dell’amore per la professione. Nei casi in cui il lavoro
temporaneo è fonte di realizzazione personale, il fatto che il valore del lavoro
non sia riconosciuto dai committenti, in termini di contratti a lungo termine e
sicurezza economica, può provocare frustrazione e risentimento, ma difficilmente
riesce a minare la percezione soggettiva del proprio valore professionale.
Per comprendere come l’instabilità del lavoro possa essere contemporaneamente una fonte di ansia e uno strumento di libertà, è utile fare riferimento alla
teoria di Beck, il quale sostiene che l’aumento dell’incertezza si traduce in un
processo di individualizzazione che costringe gli uomini a fare di sé stessi il centro dei propri progetti e della propria condotta di vita e contemporaneamente amplia le loro possibilità di azione. Il fatto che i soggetti sentano su di sé tutta la responsabilità della definizione dei propri percorsi e dei rischi che ne derivano, ha
una duplice valenza che fa capo al processo di individualizzazione: da un lato
l’incertezza, come caratteristica del contesto in cui gli attori si muovono, diviene
anche una peculiarità dei progetti che essi elaborano, assumendo così una dimensione soggettiva. Posto di fronte ad un contesto mutevole, l’individuo si trova
dunque a dover compiere scelte sempre più complesse e a dover prendere continuamente delle decisioni senza avere un quadro preciso delle loro conseguenze.
Proprio in questo, però, si delinea l’altro aspetto del processo di individualizzazione, ovvero l’ampliamento degli ambiti di autonomia. L’incertezza percepita
soggettivamente nella definizione delle strategie è infatti l’incertezza propria
dell’attore in grado di compiere delle scelte e di attribuire un senso alle sue esperienze. L’incertezza rientra (come conseguenza) nella dimensione della libertà.
90
E. Mingione – E. Pugliese, op.cit. p. 75.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
321
Se si prendono in considerazione i comportamenti dei lavoratori instabili e le
loro decisioni riguardo al lavoro, ci si rende conto che da un lato, le condizioni
del mercato e in particolare le caratteristiche della domanda, definiscono le opportunità e vincolano le strategie di azione dei soggetti che lavorano o che sono
in cerca di un’occupazione; dall’altro lato invece, le persone elaborano le proprie
traiettorie, costruiscono la propria identità professionale e sociale, attribuiscono
un senso alle proprie esperienze di lavoro, muovendosi all’interno del mercato e
creandosi dei percorsi autonomi al fine di raggiungere la posizione professionale
desiderata. In particolare, guardando ai diversi modi con cui i soggetti affrontano
l’instabilità del lavoro, è importante mettere in luce come le due dimensioni, le
due facce della medaglia (la flessibilità intesa come vincolo e la flessibilità intesa
come risorsa), si intreccino e si sovrappongano nella percezione delle opportunità
e nella definizione delle strategie. L’assenza di vincoli che leghino in modo
stabile il lavoratore al datore di lavoro, infatti, può rappresentare una minaccia
in quanto lascia in balia dell’incertezza, ma può anche significare avere
maggiore libertà (forse più in termini psicologici che reali) nella gestione del
tempo e dello spazio o nella ricerca di altre opportunità di lavoro. Tuttavia, per i
più, l’instabilità dell’occupazione rappresenta un vincolo, una condizione del
contesto a cui è necessario adattarsi nella definizione delle proprie strategie,
una condizione che non permette di fare progetti, che rende precaria l’intera esistenza; per gli altri invece, costituisce una risorsa, uno strumento per inserirsi nel
mercato del lavoro o per evitare di identificarsi nel lavoro svolto. A seconda
delle situazioni, dei percorsi e degli obiettivi dei soggetti, l’instabilità
dell’impiego può quindi essere vissuta in modi molto diversi, come una trappola
o come una garanzia di libertà. Ma oggigiorno è tanta l’apprensione e la
paura che i cambiamenti in atto suscitano sull’uomo che lavora, per il quale diventa difficile tutto: decidere se e quando sposarsi, se e quando procreare, affittare un appartamento, ottenere un mutuo 91. Questa mancanza di prospettive e di
continuità può portare a sviluppare due atteggiamenti opposti: un forte spirito di
adattamento o un senso di insofferenza che influenza i comportamenti dei singoli
e degli attori collettivi, famiglie, organizzazioni sindacali, forze politiche, che
si trovano a dover fare seriamente i conti col malessere sociale della precarietà.
Un’ “atipicità” che rischia di trasformarsi in “tipicità”
L’allontanamento dal modello fordista ha comportato una trasformazione delle
condizioni professionali e personali dei lavoratori coinvolti nel processo produttivo, fenomeno che ha reso i rapporti di lavoro sempre meno classificabili
all’interno della tradizionale dicotomia: lavoro subordinato/lavoro indipendente.
L’espressione “atipico” con riferimento al lavoro è adottata per designare quelle
91
A. Accornero, Ibidem p. 22.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
322
occupazioni che danno luogo a rapporti di impiego che si discostano da quelli
standard, ossia dal lavoro dipendente con durata indeterminata e a tempo pieno 92.
Tuttavia l’uso del termine è oggetto di diverse critiche: in primo luogo perchè
si riferisce ad una “tipicità” del lavoratore dipendente che ormai non rappresenta
più un paradigma univoco di riferimento; in secondo luogo perché viene spesso
utilizzato con riferimento ai soggetti al lavoro (“lavoratori atipici”) piuttosto che
al contratto di lavoro. Si parla del lavoratore “atipico” come di chi sta fuori dalla
norma, ma forse sarebbe più corretto ridefinire i confini della “normalità”.
Il mercato del lavoro in Europa è oggi caratterizzato da un’evidente frammentazione. Anche se la situazione varia da Paese a Paese vi è una generale tendenza
alla proliferazione di nuove forme di lavoro. Il rapporto di lavoro di tipo tradizionale, è ancora prevalente, ma lo sviluppo dei lavori cosiddetti atipici appare
inarrestabile e investe, sia pure in misura diversa, tutti i settori dell’economia.
Lo sviluppo del mercato del lavoro europeo è stato caratterizzato da cambiamenti significativi sia nel settore privato che pubblico, che, da un lato, non sempre hanno avuto un impatto positivo sui lavoratori ma, dall’altro, hanno generato
la sensazione di un bisogno crescente di flessibilità. La flessibilità è innanzitutto
un’esigenza delle imprese, ma in una certa misura risponde anche a domande espresse dai lavoratori. Il miglioramento del mercato del lavoro verificatosi in
Europa negli ultimi anni con la diminuzione della disoccupazione dall’11%
all’8%, è certo dovuto a una fase di crescita economica sostenuta, ma anche
all’esistenza di politiche del mercato del lavoro capaci di trarre da questa il massimo vantaggio possibile in termini di creazione di nuove opportunità di lavoro.
Naturalmente i risultati sul piano quantitativo non bastano, in quanto non ci assicurano che la maggiore occupazione sia anche “buona” occupazione 93. Molti
dati empirici sembrano provare il contrario specie per quanto riguarda i giovani e
le donne che continuano ad essere tra i soggetti deboli del mercato del lavoro.
La disciplina del mercato del lavoro, se mira alla sola flessibilità, rischia di innescare effetti indesiderati, se non contrastanti, rispetto a quelli che dichiara di
voler perseguire. I vantaggi di breve periodo che si ottengono da forme di occupazione temporanea possono tramutarsi in svantaggi nel lungo periodo, in termini
di maggiori costi per il sistema pubblico, sanitario e previdenziale, e per la composizione stessa della spesa sociale. Questo spiega perché la precarietà influenzi
comportamenti e stili di vita che vanno al di là di scelte strettamente economiche.
Una delle conseguenze più importanti della crescente diffusione di contratti
di lavoro che non danno continuità nel tempo è la trasformazione delle aspettative degli individui riguardo alle opportunità occupazionali esistenti. Tali
opportunità sono cambiate rispetto al passato, pertanto per chi sta cercando
un lavoro confrontarsi con la diffusione dei lavori temporanei diventa una necessità e porta a modificare almeno in parte le strategie di ricerca di un impiego.
92
93
A. Accornero, op. cit., p. 30.
http://www.galileonet.it/dossier/3487/mi -impiego-ma-non-mi-spezzo
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
323
I timori per la fine del “posto fisso”, la convinzione che non si possa più aspirare ad un lavoro stabile e che bisogna adeguarsi, la rilevanza che i mezzi di informazione e comunicazione hanno dato alla flessibilità, ha avuto inevitabilmente un impatto sulla rappresentazione che gli individui si fanno delle opportunità
occupazionali e sui modi in cui la flessibilità e l’instabilità del lavoro vengono
socialmente percepite. Tutto ciò influisce, indirettamente, anche sulla definizione
delle strategie dei soggetti. Prova ne sia il fatto che, attualmente e soprattutto tra i
giovani, avere un lavoro instabile è considerato quasi normale. La forte diffusione dei contratti atipici tra i più giovani contribuisce a rendere le modalità di lavoro instabili socialmente accettate tra i coetanei: «Parliamo pure di nuova normalità. Ma che cosa è la nuova normalità? Quel che sta diventando normale è un
certo tasso di variabilità e di imprevedibilità, perché oggi nessuno lavora più
con procedimenti stabili. Normalità vuol dire acquisire, metabolizzare e usare informazioni con progressione incessante; vuol dire apprendere tempestivamente
quel che si affaccia sul domani, perché il nuovo viene in fretta e rende subito obsoleto il vecchio. Normalità è sapersi destreggiare senza aspettare istruzioni da
chissà chi, è l’abilità di rispondere ai problemi con delle soluzioni e non con
dei ripieghi. E’ questa la normalità che si chiede oggi al lavoratore. Normalità è
funzionare insieme agli altri, fare squadra […] Normalità non è difendere la
propria mansione e starsene lì con il cacciavite o con la penna, a dire come ieri:
questo non spetta a me […] Ecco: normalità è il flusso non la staticità»94.
L’atipicità come nuova normalità è tutte queste cose insieme. Tuttavia sembra
che la società non abbia fornito ai lavoratori i mezzi necessari per inserirsi in
maniera adeguata in questa nuova realtà: ai lavoratori viene chiesto di essere
pronti a continui cambiamenti, di essere più versatili e aperti al nuovo, di essere
più creativi e meno attenti alle procedure formali. I giovani poi, nonostante il
prolungamento dei tempi della formazione scolastica, sono assolutamente impreparati a questa “nuova normalità”, incalzati dall’idea di cercare un lavoro sicuro,
fanno fatica a destreggiarsi in una realtà così caotica. La situazione è indubbiamente altrettanto difficile per chi è già inserito nel mondo del lavoro, ma si è abituato a un’idea di carriera che sta sparendo e ad una suddivisione dei compiti che
si sta dissolvendo. I soggetti si trovano a dover affrontare i cambiamenti che le
istituzioni gli impongono senza prepar arli adeguatamente: le regole sulle promozioni e i licenziamenti che conoscevano non esistono più, le loro mansioni non
sono più chiare e definite e il nuovo imperativo è imparare, formarsi, acquisire
nuove conoscenze per stare al passo col mondo che cambi a velocemente.
94
A. Accornero, A. Orioli, Ibidem p. 48-49.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
324
5. Il lavoro in Italia
Una visione generale
In questi ultimi anni, il tema della flessibilità in Italia è diventato sempre più
ricorrente nel dibattito pubblico, politico e sociale. Nelle discussioni emerge costantemente l’interrogativo se la flessibilità sia una via necessaria o comunque
sufficiente a migliorare le condizioni di lavoro di giovani e adulti, uomini e donne, nell’intero arco della vita lavorativa95. Sembra opportuno fare una premessa
di carattere storico, ricordando che l’introduzione dell’occupazione standard in
Italia è abbastanza recente e risale agli anni Sessanta, quando il “miracolo economico” ha permesso ai lavoratori delle grandi fabbriche di conquistare garanzie
normative per rendere stabile e proteggere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato; prima di queste conquiste, infatti, i lavoratori erano soggetti alla massima
instabilità e non possedevano competenze professionali elevate. Nel decennio
successivo, l’Italia cerca di fronteggiare le conseguenze dello shock petrolifero
del 1973, ma perde trecentomila posti di lavoro. L’impianto garantista del mercato del lavoro 96 aveva retto per tre decenni agli scossoni dovuti alla ricostruzione e alla ripresa industriale, al “miracolo economico”, alla scoperta dei consumi e
soprattutto alle migrazioni dal Sud al Nord. Le prime difficoltà di funzionamento
comparvero quando gli shock petroliferi e la conflittualità diffusa spinsero le imprese maggiori a decentrare segmenti di produzione e di lavoro, ridimensionando
così gli organici e le assunzioni a favore di imprese minori diffuse sul territorio.
Il rapido aumento delle piccole imprese e la crescita diffusa dei distretti locali esprimevano anche strutturalmente un bisogno di flessibilità.
L’Italia conobbe così una fase di industrializzazione diffusa, accompagnata da
un netto declino dell’agricoltura e da un primo sviluppo del terziario, e la domanda di lavoro divenne più articolata. Gli anni Novanta, invece, hanno visto
una serie di mutamenti che hanno interessato la società civile, le istituzioni,
l’economia97. Economicamente, la crescita produttiva degli anni Ottanta, si è arrestata all’inizio del 1990. Le grandi aziende nazionali, come Fiat e Olivetti, perdono in competitività a livello internazionale e il tasso di inflazione italiano
tocca livelli al di sopra della media europea. Gli interventi di politica del lavoro
fino ad allora attuati apparvero quindi del tutto insufficienti quando scoppiò
la gravissima crisi economica del 1992-93 che, oltre ad abbattere il prodotto interno lordo, fece crollare i livelli di occupazione come non era mai accaduto dal
dopoguerra in poi, con effetti disastrosi per il Sud: qui l’occupazione diminuì di
quasi 750 mila unità in appena due anni e riprese a salire solamente nel 1996.98
95
L. Frey – G. Croce, Flessibilità, precarietà e politiche del lavoro, FrancoAngeli, Milano 2002.
Impianto disegnato dalla Legge 29 aprile 1949 n. 264 “Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati”.
97
E. Mingione – E. Pugliese, op. cit., pp. 107-120.
98
www.agenzia lavorolombardia.it/normativa/altra_documentazione/rapporto_CNEL_parte_II.pdf
96
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
325
Per molto tempo, il nostro paese è stato caratterizzato da un tasso di disoccupazione composto prevalentemente da persone giovani in cerca di prima occupazione e, secondariamente, da persone adulte che avevano perso il lavoro.
Il tasso di occupazione, al contrario, era molto alto per le persone avanti con
l’età. In tal modo, l’onere di sostenere la disoccupazione si spostava dalla società
al nucleo familiare che, grazie all’occupazione duratura del capo-famiglia, poteva
sopportare il peso dell’inoccupazione diffusa dei giovani e il loro ritardo
nell’ingresso nel mondo del lavoro, ritardo che veniva visto come una condizione
provvisoria prima di ottenere un lavoro a tempo indeterminato, sicuro e garantito.
Questo modello influenzava il comportamento della società, a cominciare
dall’istruzione. Le famiglie cercavano di investire sul futuro dei figli per assicurare loro un titolo di studio in grado di accrescere le loro possibilità di occupazione e la stessa formazione lavorativa avveniva on the job, attraverso la trasmissione delle competenze e dell’esperienza da parte degli adulti.
In tale contesto socio-economico si sono inseriti i primi provvedimenti per
flessibilizzare il mercato del lavoro99. È così attuata una vera e propria inve rsione
di rotta: la strategia fondamentale del legislatore diventa quella della “occupabilità”, consistente in una rimodulazione della tutela accordata al lavoratore occupato e contemporaneamente, ad una maggiore tutela dello stesso nel mercato.
Si avvia, quindi, la creazione di un nuovo sistema di regole che permetta al lavoratore di acquisire maggiori professionalità attraverso il passaggio da imprese
diverse, rendendolo di conseguenza più appetibile sul mercato. Ed è in tale prospettiva che si pone l’istituto del lavoro temporaneo, determinato, come fattispecie in cui si esprime la flessibilità. Il ricorso a questa nuova tipologia di lavori
dovrebbe rendere più versatile la modalità d’impiego del fattore lavoro, nel senso
di consentire alle imprese utilizzatrici di avvalersi della prestazione del lavoratore temporaneo per il tempo strettamente necessario alle esigenze produttive, senza sostenere gli ingenti costi derivanti dall’assunzione diretta e dalla stabilizzazione del rapporto di lavoro. L’adozione di forme contrattuali diverse da quelle
del lavoro a tempo indeterminato cerca di risolvere, anche se solo parzialmente e
senza sradicare il problema alla radice, la rigidità contrattuale che scoraggiava le
imprese ad assumere ma anche a licenziare, per favorire una ripresa della crescita
occupazionale. Ai provvedimenti, che hanno avuto come risultato una riduzione
della componente giovanile disoccupata e l’incremento dell’occupazione femminile, si è attribuita la crescita dell’occupazione iniziata nel 1997, che ha visto
aumentare sempre più la quota dei lavoratori temporanei rispetto a quelli stabili.
Alcuni dati sul lavoro in Italia
Il 1997 è considerato un anno di svolta per il mercato del lavoro italiano,
in quanto venne adottato un insieme di interventi riformatori in risposta
alle crescenti esigenze e alle pressanti richieste di regolamentare la flessibilità.
99
Legge 24 giugno 1997 n. 196 “Norme in materia di promozione dell’occupazione” (Pacchetto Treu).
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
326
Con le nuove norme, talvolta perfezionate in corso d’opera o ritoccate più vo lte, la flessibilità di impiego del lavoro si è avvicinata ai livelli necessari per innalzare la competitività del Paese e dell’Europa stessa100
Il Rapporto sul mercato del lavoro riguardante il periodo 1997-2001101, pubblicato dal Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), mostra una
significativa crescita dell’occupazione. Dai circa 100 mila occupati in più nel
1997, si è passati ai 200 mila nel 1998 e nel 1999, e poi a quasi 400 mila nel
2000 e nel 2001. L’occupazione è così salita di 4 punti rispetto al 1995, anno in
cui aveva toccato il livello più basso dopo la crisi, mentre la disoccupazione è
scesa al 9,2% proseguendo il trend discendente iniziato nell’aprile del 1999.
L'indagine sottolinea la resistenza di “profondi squilibri territoriali”, ma anche
il sussistere ancora di una quota troppo bassa di donne nel mercato del lavoro.
All’aumento delle persone occupate, rileva inoltre la ricerca, ha fatto riscontro
un calo di quelle in cerca di lavoro, per cui all’inizio del 2002 il tasso di disoccupazione italiano si è approssimato alla medi a europea. Secondo l’Istat 102, il lavoro è in continuo aumento anche se il periodo 1993-2001 è stato caratterizzato inizialmente da una fase di difficoltà del mercato del lavoro, che ha determinato una
diminuzione dell’occupazione di 458 mila unità nei primi due anni. Successivamente, si è assistito ad una decisa ripresa: ad una prima fase di contrazione occupazionale (1993-1995), è seguita una fase di debole ripresa (1996-1997) e quindi
una successiva fase di robusta crescita (1998-2001). Le persone in cerca di occupazione, che erano 2,3 milioni all’inizio del periodo, hanno toccato un massimo
di oltre 2,7 milioni nel 1998, per poi tornare nel 2001 a livelli leggermente più
bassi di quelli iniziali. Nello stesso arco di tempo, la popolazione attiva è cresciuta di circa un milione di unità, integralmente assorbita dalla crescita
dell’occupazione, passata da 20,5 a 21,5 milioni di unità nel 2001. Di conseguenza il tasso di attività è passato dal 57,8% al 60,4%. Questo risultato è addebitabile
a due motivi principali: il primo è l’aumento della partecipazione femminile al
mercato del lavoro, mentre il secondo motivo è dato dal boom dei lavori atipici.
Il tasso di attività femminile è infatti cresciuto di 5,4 punti percentuali (da
41,9% a 47,3%) e l’occupazione tra le donne è aumentata di 5,3 punti (da 35,8%
a 41,1%). La quasi totalità di questi forti aumenti del numero di attivi ha riguardato, quindi, la componente femminile e questo è stato il fenomeno più importante degli ultimi vent’anni in Italia come in tutti i paesi più sviluppati. Dopo essere
state contadine e operaie tessili nella prima fase dello sviluppo industriale, le
donne sono ritornate al lavoro extradomestico e retribuito, anche se spesso si è
trattato di un lavoro soltanto cercato e non trovato. In un passato non molto lontano, le donne in Italia entravano al lavoro giovanissime e con una bassa scolarità, per uscirne poco dopo in occasione del matrimonio o della nascita del primo
figlio e, una volta accudita la prole, soltanto poche di loro ritornavano a lavorare.
100
I due provvedimenti chiave furono il cosiddetto “Pacchetto Treu”, Legge n. 196, il cui varo ha coinciso con l’avvio della Strategia Europea per l’Occupazione, e la cosiddetta “Riforma del collocamento”,
DLgs n. 469.
101
Cfr. CNEL, “Rapporto sul Mercato del Lavoro 1997-2001”, 2002.
102
Cfr. ISTAT, “Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2001”, 2002.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
327
La forte crescita della partecipazione femminile nei passati decenni, non è stata dovuta ad un aumento dei tassi di attività sino a 24 anni, ma all’aumento dei
tassi di attività delle donne adulte. Le donne sono entrate nel mercato del lavoro
più tardi, dopo una maggiore permanenza a scuola, ma per restarvi più a lungo.
Anche in Italia è andato scemando lo stereotipo della temporaneità della partecipazione femminile, poiché le donne restano occupate o alla ricerca di un lavoro
anche dopo il matrimonio e la nascita dei figli e spesso escono dal mercato del
lavoro per ritirarsi in pensione. Le modalità della sovrarappresentazione delle
donne in tutti i tipi di lavoro atipico richiedono però un’ulteriore riflessione. Da
un lato emerge che esse, quando dispongono di bassi livelli di istruzione, hanno
maggiori difficoltà rispetto agli uomini di ottenere posti di lavoro pienamente garantiti e dunque più degli uomini sono costrette ad accettare contratti non standard di breve durata e poco remunerativi. Da un altro lato, la loro scarsa presenza
tra i lavoratori atipici altamente qualificati sembra mostrare che anche le lavoratrici con elevata formazione hanno maggiori difficoltà nel cogliere i risvolti positivi di alcune forme del lavoro flessibile, sia per quanto riguarda la costruzione di
un percorso professionale coerente, sia dal punto di vista dei livelli retributivi e
dell’occupazione in attività maggiormente professionalizzanti. Sul vistoso aumento del tasso di attività ha inciso anche la diffusione dei lavori atipici che in
Italia, secondo l’istituto di statistica, si attestano a quota complessiva di oltre tre
milioni (l’Istat precisa che si tratta di una “stima prudenziale”), corrispondenti al
23% degli occupati nell’industria e nei servizi privati. Il lavoro temporaneo
coinvolge il segmento giovanile dell’offerta di lavoro, impegnato nella fase di
ingresso del percorso lavorativo, ma costituisce ancora per pochi una porta di entrata nel lavoro standard. Inoltre, lo sviluppo delle flessibilità non sembra ancora
in grado di contrastare efficacemente il diffondersi del lavoro sommerso103.
Dal punto di vista occupazionale, fra i dipendenti le posizioni ‘standard’ (cosiddetto posto fisso), sono cresciute fra il 1996 ed il 2000 dell’1%, mentre quelle
atipiche sono aumentate di ben il 40,5%, totalizzando due milioni 191 mila unità.
L’incidenza dell’occupazione temporanea nel 2001 fra gli uomini, scrive l’Istat,
corrisponde all’8%, rispetto al 5% del 1993, mentre nel caso delle donne è passata dall’8% al 12%. Nel periodo di osservazione 1997-2001, si è dunque assistito,
afferma l’Istat, ad una “flessibilizzazione spinta del mercato del lavoro”104.
Confrontando questi dati con quelli forniti dagli stessi istituti di rilevazione,
ma a distanza di cinque anni, è possibile riscontrare un’evoluzione positiva sia
della domanda, sia dell’offerta del lavoro. Secondo l’Istat, l’economia italiana
sembra dunque aver acquisito una capacità di creare posti di lavoro a ritmi soddisfacenti, anche in presenza di un’espansione moderata dell’attività produttiva.
Questi ritmi appaiono adeguati ad assorbire uno sviluppo relativamente lento
103
Il lavoro sommerso è definito dall’Istat come quel lavoro scaturito da “attività produttive svolte con
il deliberato intento di evadere il fisco o di non rispettare le norme contributive, i minimi salari, l’orario di
lavoro e gli standard di sicurezza al fine di ridurre i costi di produzione”.
104
http://www.rassegna.it/2002/lavoro/articoli/istat/rapporto2001.htm
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
328
dell’offerta di lavoro, quale è quello prevalso negli ultimi anni e rendono possibile un graduale ridimensionamento dell’area delle persone in cerca di lavoro.
Dopo una fase lunga di crescita significativa dell’occupazione, il sistema economico del nostro Paese sembra ancora caratterizzato da un grado particolarmente basso di coinvolgimento nel mercato del lavoro della popolazione in età attiva.
La quota di individui potenzialmente attivi che partecipano effettivamente alla
produzione di reddito o che comunque perseguono attivamente questo obiettivo,
resta distante da quella dei paesi dell’UE comparabili all’Italia in relazione al livello di sviluppo economico105. I dati del Rapporto annuale Istat del 2006 forniscono un’immagine chiara della serietà del problema. In Italia risulta attivo sul
mercato del lavoro il 63% della popolazione con età compresa tra 15 e 64 anni,
mentre nella media dei quindici paesi membri che costituiscono il termine di paragone più adatto rispetto alle caratteristiche del nostro sistema economico e sociale, questa quota si avvicina al 72%. Nel 1996, cioè all’inizio dei dieci anni di
crescita occupazionale che hanno trasformato il mercato del lavoro italiano,
l’incidenza degli attivi era significativamente più bassa, raggiungendo a malapena il 59%, ma proprio come ora, risultava inferiore di circa nove punti percentuali a quella dell’insieme dell’UE. Il mercato del lavoro italiano si muove lungo un
percorso per molti versi comune a quello dei paesi europei più simili, ma il processo di trasformazione non procede con sufficiente velocità, lasciando inalterati
(in termini di rilevanza e dimensione) alcuni dei principali ritardi strutturali.
Il generale innalzamento dei tassi di attività, e ancor più di occupazione, non
ha riguardato tutte le fasi del ciclo della vita lavorativa, ma si è concentrato piuttosto nel grande segmento della popolazione nelle età centrali (tra i 25 e i 54 anni), al cui interno spicca il veloce aumento della partecipazione femminile.
Parallelamente, i tempi di ingresso nell’attività lavorativa delle fasce di età
giovanile si spostano in avanti e l’uscita definitiva dalla vita attiva slitta gradualmente verso età più avanzate 106. La riduzione della quota, già molto bassa in
relazione all’Europa, di giovani occupati segnala il diffondersi di fenomeni di
“attesa” dovuti al prolungamento dei percorsi di istruzione e formazione. Le trasformazioni dei comportamenti lungo il ciclo della vita lavorativa mantengono
notevoli specificità di genere: anche se il livello della partecipazione femminile
continua a crescere, esso non riesce a colmare il notevole divario rispetto alla situazione prevalente in Europa, che nell’ultimo decennio ha comunque segnato
progressi altrettanto ampi 107. Inoltre, le scelte delle donne rispetto al mercato
del lavoro continuano ad essere fortemente condizionate dalla carenza delle reti
di sostegno alle esigenze di cura familiare e al permanere di comportamenti
sociali che ostacolano la conciliazione tra vita lavorativa e impegni domestici.
105
Si tratta dei 15 Paesi di più lunga appartenenza all’UE, maggiormente comparabili con l’Italia dal
punto di vista della struttura del mercato del lavoro.
106
ISTAT, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2006, 2007, pp. 183-238.
107
http://www.orvietosi.it/rubrica.php?id=26&table=r_lavoro&nome=Lavoro
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
329
D’altra parte, il problema della crescita insufficiente della partecipazione
femminile rimanda, come molte delle questioni strutturali del mercato del lavoro
italiano, al permanere nel Mezzogiorno d’Italia di una situazione molto lontana
da quella verso cui converge l’Unione Europea. Dai dati raccolti, emerge ancora
una forte frattura tra le regioni del Mezzogiorno e quelle del Centro-nord e del
Nord Italia, indice dell’esistenza di diversità territoriali ancora notevoli.
Il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, sottolinea nel suo
Rapporto108 che il 2006 è stato un anno positivo per l’occupazione, con una
continuazione della tendenza di crescita che si sta verificando da diversi anni.
In un contesto di progressiva ripresa economica, dopo un quinquennio di stagnazione, si è registrata la massima crescita di occupazione nel nostro Paese e
soprattutto appare migliorata la velocità di reazione del mercato del lavoro alla
crescita economica: i dati mostrerebbero, infatti, che sono ormai quasi spariti i
ritardi di adeguamento che prima caratterizzavano l’economia italiana e che
il Paese si trova in una situazione del mercato del lavoro coerente con la fase
di crescita dell’economia. Tuttavia si sottolinea che il minore dinamismo
dell’occupazione, dovuto probabilmente anche alla fine della spinta proveniente
dalla componente di immigrazione, deve essere attentamente valutato nella definizione delle politiche del lavoro, il cui obiettivo rimane quello di accrescere
il tasso di occupazione in Italia, che comunque rimane ancora troppo distante
da quello medio europeo e dall’obiettivo previsto dalla Strategia di Lisbona109.
Il fenomeno della crescita senza occupazione
Le trasformazioni del mercato del lavoro e della struttura dell’occupazione dei
paesi industrializzati avanzati, tra cui l’Italia, mostrano un cambiamento che ha
spostato drasticamente, rispetto ai decenni scorsi, i rapporti tra occupazione e disoccupazione, ma anche la natura e la qualità dell’occupazione stessa.
Crescita economica ed occupazione sono sempre state le colonne portanti delle
politiche economiche dei paesi industrializzati. Più precisamente, la prima delle
due variabili macroeconomiche, in passato, veniva considerata obiettivo prioritario rispetto alla seconda. L’analisi keynesiana, infatti, sosteneva che la prosperità
economica dovesse favorire un incremento degli investimenti quindi anche
dell’occupazione, dando origine così al riassorbimento della manodopera eccedente. Nella realtà economica però, la correlazione tra queste due variabili non è
sempre positiva. L’attuale basso livello di creazione di nuovi posti di lavoro anche a fronte di significativi e sostenuti tassi di crescita del prodotto interno lordo
ne è una chiara dimostrazione. Dopo la profonda crisi degli anni Trenta (che aveva privato del posto di lavoro circa 25 milioni di lavoratori) e soprattutto nel dopoguerra, in tutti i Paesi sviluppati, lo Stato ha messo in atto politiche per il pieno
impiego (politiche fiscali e monetarie, politiche dei redditi, sostegno
108
Cfr. CNEL, “Rapporto sul mercato del lavoro 2006”, 2007.
L’obiettivo stabilito nella Strategia di Lisbona prevede il raggiungimento di un tasso di occupazione
del 70% entro il 2010.
109
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
330
all’investimento, ecc.) 110. Per un’intera generazione dopo la Seconda Guerra
Mondiale, infatti, le economie dei paesi occidentali furono in grado di offrire sia
posti di lavoro, sia salari capaci di assicurare ai lavoratori un potere d’acquisto
costantemente crescente. Tuttavia già dai primi anni Settanta, le economie
dell’Europa occidentale non sono riuscite a mantenere quel livello di prosperità.
Gli anni Settanta e Ottanta sono stati caratterizzati in Italia, così come in Europa, dal fenomeno della diffusione della disoccupazione di massa accentuato
dalla crisi industriale. La disoccupazione era in aumento sia in paesi con difficoltà economiche che in paesi con un’economia più stabile. Nei paesi dell’Europa
Mediterranea (Spagna, Grecia, Italia, in particolare Italia del Sud), essa raggiunse
livelli senza precedenti, ma in generale tutta l’Europa ne fu colpita seppur con
caratteristiche, cause e aspetti diversi. In quegli anni, dunque, il dibattito sul lavoro si è incentrato sul fenomeno della Jobless growth (cosiddetta “crescita senza
occupazione”), che sottolineava come lo sviluppo economico producesse una
crescita di posti di lavoro insignificante rispetto all’aumento del prodotto interno
lordo. Secondo questa tesi si sarebbe determinata su vasta scala, nei paesi interessati da crisi economica ma anche in quelli in espansione, una forma di disoccupazione tecnologica dovuta all’intenso ritmo dello sviluppo tecnico e al
massiccio processo di sostituzione di macchine agli uomini. La crisi dei modelli
occupazionali tradizionali, insieme alla disoccupazione di massa e alla diffusione
della precarietà occupazionale, ha dato origine in quegli anni ad un filone
di pensiero sulla “fine del lavoro”, sul superamento della “società del lavoro”.
Sembra che le tesi avanzate dagli esponenti di questo filone interpretativo (Rifkin, Gorz, Aznar), i quali argomentano efficacemente sulla riduzione del lavoro
e sulla sua perdita di centralità nella vita delle persone, abbiano un innegabile elemento di verità. Non a caso, la disoccupazione si esprime soprattutto come precarietà occupazionale, lavoro informale ed elevata flessibilità del lavoro e
dell’occupazione. Ma da qui alla “fine del lavoro”, certo, la distanza è lunga111.
Ciò che risulta sorprendente è il fatto che le economie occidentali siano oggi
più produttive e dunque più ricche, in termini assoluti, rispetto a vent’anni fà; ma
ciò nonostante la miseria economica, sotto forma sia di povertà che di disoccupazione permanente, ha mostrato un costante peggioramento nel lungo periodo.
Per concludere sulla questione della “fine del lavoro”, sarebbe bene valutarne
l’effettiva credibilità. Un recente studio di Henry Nadel ha messo in evidenza
come l’occupazione complessiva nei paesi dell’OCSE (organizzazione per
la cooperazione e lo sviluppo economico) sia aumentata anziché diminuire negli
ultimi decenni. Il fatto che per un lungo periodo sia contemporaneamente aumentata la disoccupazione, secondo l’autore, non deve sorprendere: l’apparente
paradosso si chiarisce se si ricorda che è aumentata anche la partecipazione
al lavoro della popolazione femminile. Quindi, la questione centrale non è la “fine del l avoro” ma una nuova trasformazione del rapporto tra lavoro e società.
110
111
J.C. Barbier – H. Nadel, La flessibilità del lavoro e dell’occupazione, Donzelli, Ro ma 2002, p. 16.
E. Mingione – E. Pugliese, op.cit., pp. 117-120.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
331
Un altro punto di rilievo nell’intreccio tra cambiamenti nella struttura
dell’economia e del mercato del lavoro, che ha richiamato l’attenzione di studiosi, è stata la disoccupazione che nel corso negli anni Novanta in quasi tutti i paesi
europei ha raggiunto livelli particolarmente elevati. Alla crescita quantitativa del
fenomeno ha fatto seguito una sua modificazione qualitativa, riflesso delle più
generali tendenze del mercato del lavoro e dell’economia. Il parziale riassorbimento della disoccupazione che si è osservato in molti paesi d’Europa si è tradotto in un aumento dei lavori atipici 112. In altri termini, al posto della disoccupazione di massa di tipo tradizionale, si ha ora una diffusa precarietà occupazionale, il
permanere dei lavoratori, spesso per lunghi periodi, in attività di tipo informale.
L’attenzione degli studiosi che nel decennio precedente si era focalizzata intorno
alla disoccupazione di massa, si sposta ora sulle nuove forme di lavoro cosiddette
atipiche. Il carattere di tale lavoro non permette di entrare nel merito delle grandi
questioni attinenti alle trasformazioni dell’economia, ma si vuole far presente che
esse vanno tenute in conto, perchè è sul loro sfondo che sono avvenuti e avvengono i cambiamenti nella struttura e nella composizione della occupazione.
Il futuro del sindacato
Strutturalmente collocato nel cuore delle forze produttive e per sua natura e
vocazione rivolto al controllo delle misure che ne governano i rapporti economico-sociali, il sindacato è probabilmente l’attore collettivo sul quale, con maggiore
potenza, si sono scaricati in questi anni gli effetti congiunti della nuova grande
trasformazione. Ancor più che su altri pilastri fondamentali del sistema democratico e della rappresentanza politica (quali istituzioni parlamentari e partiti), è nei
riguardi del sindacato che i fattori di crisi sembrano dispiegarsi in un intreccio fra
l’innovazione dei modelli della produzione economica, la sfera regolativa dei diritti e le espressioni della soggettività. Nessuna delle proprietà che si è soliti imputare all’esercizio tipico della rappresentanza sindacale sembra oggi uscire indenne dai mutamenti oggettivi e soggettivi in atto, sia che si tratti della sfera della rappresentatività sociale, di quella negoziale oppure di quella politica113.
A tal proposito, un aspetto che va segnalato per quanto riguarda la categoria
dei lavoratori atipici, è la difficoltà per questi lavoratori di trovare adeguate forme di rappresentanza dei propri interessi. Ciò è dovuto essenzialmente a due fattori: da una parte le organizzazioni sociali si trovano di fronte ad un gruppo di
soggetti fortemente eterogeneo e di difficile interpretazione, dall’altra, l’erosione
delle tradizionali basi associative delle organi zzazioni di rappresentanza mettono
queste istituzioni in difficoltà di fronte alla richiesta di nuove forme di tutela.
L’individualizzazione del rapporto di impiego, infatti, rende alquanto
problematico il dispiegamento di un agire collettivo e richiede, al contrario,
un maggior avvicinamento agli specifici contesti, ai luoghi di lavoro, al territorio.
112
113
http://www.smile.it/nuovilavori/pugliese.html
www.alteracultura.org/lavoro/leonardi1.pdf
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
332
Ciò che emerge è un eterogeneo gruppo di lavoratori con livelli anche molto
differenti di qualificazione professionale, tutti comunque accomunati da una
condizione di rischio e di precarietà: i lavoratori atipici, come già detto precedentemente, devono affrontare il problema di mantenersi costantemente sul mercato
al fine di garantirsi, in questo modo, quel minimo di tutele che consenta loro di
fare progetti a lungo termine, tanto nella vita professionale, quanto in quella privata. Per questi lavoratori sembra molto difficile, nell’attuale mercato del lavoro
italiano, riuscire a pervenire alla costruzione di tutele contro i rischi connessi
all’instabilità dell’impiego attraverso l’azione collettiva. Il problema principale
si trova nel processo di differenziazione delle condizioni e delle esperienze di lavoro che porta i lavoratori a percepirsi come soggetti individuali e rende difficile
qualsiasi identificazione con un gruppo. Non ci si riconosce né nel luogo di lavoro, che cambia spesso, né nell’attività svolta, che può cambiare anch’essa, né nel
sindacato o nelle organizzazioni collettive 114. La percezione della propria identità
professionale sembra in molti giovani sempre più lontana da ogni idea solidaristica di legame sociale e di agire collettivo, col risultato di «forte ritorno a mentalità subalterne da parte di una generazione che sembra aver perduto la coscienza
dei propri diritti»115. Cambiano i riferimenti simbolici ed identitari del mondo del
lavoro e si assiste ad una diffusa introiezione spontanea delle nuove forme della
precarietà, rincorrendo il mito del self-employed, ossia del diventare “imprenditore di sè stesso”. In questo contesto, parlare di “azione collettiva” o di tipo sindacale non significa fare automatico riferimento al sindacalismo classico, quello
confederale, soprattutto perché si è di fronte ad una categoria di lavoratori che
esprime una tipicità di domande che presuppone un’attività di rappresentanza
specializzata e non coincidente con quella del sindacalismo classico. Diventa, infatti, fondamentale per le organizzazioni sindacali capire chi tutelare e come tutelare rapporti di lavoro in così rapida evoluzione 116. L’attuale fase storica non richiede più una tutela del lavoro, ma una tutela dei lavori. Lo Stato deve farsi garante nella discontinuità dei tragitti e non più nella continuità del posto. E i sindacati stessi non devono tutelare soltanto i diritti dei lavoratori al plurale, ma le
loro sorti come singoli. Quel che si chiede al sindacato non è un’operazione di
estensione del sindacalismo classico, ma una sua riforma profonda per rinnovare
la rappresentanza sindacale in relazione all’emergere di nuove forme di lavoro.
Le tre maggiori organizzazioni sindacali confederali (CGIL, CISL, UIL),
negli ultimi anni si sono occupate del fenomeno dei nuovi lavori con una intensità crescente e hanno dato vita ad organizzazioni impegnate a trovare questa specializzazione nella rappresentanza. Sono state create, quindi, delle associazioni
apposite: Nidil-Cgil (Nuove Identità Di Lavoro), Alai-Cisl (Associazione
Lavoratori Atipici e Interinali) e Cpo-Uil (Coordinamento Per l’Occupazione).
114
G. Fullin, Vivere l’instabilità del lavoro , Il Mulino, Bologna 2004.
S. Bologna, Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo, in S. Bologna – A. Fumagalli (eds.), Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano 1997, p. 36.
116
P. Minguzzi, Lavoro e sindacato, in M. La Rosa (ed.) Sociologia dei lavori, FrancoAngeli, Milano
2002, pp. 191-204.
115
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
333
Il carattere distintivo di queste strutture sindacali è quello di basare l’adesione
non sull’appartenenza ad una categoria o ad un luogo, ma sulla condizione: quella di lavoratori non tipici. La fetta sociale cui si rivolgono comprende tutto il lavoro definito indipendente, parasubordinato e mobile. Lo strumento di questi organismi sindacali è la contrattazione collettiva, che si svolge su due livelli: a)
quello nazionale, cui spetta il compito di definire le figure e il quadro generale
dei diritti dei lavoratori interessati; b) quello territoriale e aziendale, cui si assegna il ruolo di tutelare le concrete condizioni di lavoro, specifiche e dive rsificate.
Uno dei principali problemi di queste organizzazioni è la mancanza di un contatto diretto con le singole realtà aziendali in cui tali lavoratori sono presenti. Esse rimangono necessariamente al di fuori dei luoghi di lavoro, mentre sono spesso i rappresentanti delle Rappresentanze sindacali unitarie aziendali (RSU), facenti capo alle organizzazioni di categoria specifiche del settore di attività, ad avere direttamente a che fare con i lavoratori atipici occupati al loro interno 117.
Non bisogna dimenticare che il fatto di avere un contratto di breve durata rende i lavoratori facilmente ricattabili e spesso frena anche chi vorrebbe partecipare
alle iniziative sindacali. Nelle situazioni in cui vi è un elevato turnover e i contratti sono brevi è anche difficile costruire delle reti di relazioni tra colleghi che
permettano la circolazione delle informazioni e il coordinamento in vista di possibili azioni comuni, perciò l’organizzazione di iniziative collettive diviene molto
difficile. Il sindacato, dunque, si trova ad affrontare i cambiamenti del lavoro
all’interno di un contesto di globale trasformazione del modello di sviluppo economico; tuttavia sembra che esso subisca gli effetti di queste trasformazioni, a
causa di un’insufficienza qualitativa degli strumenti contrattuali che determina la
mancanza di legittimazione da parte dei lavoratori e la perdita di potere contrattuale di fronte agli imprenditori. Tanto più da quando il Governo nel 2001118
ha decretato la fine dell’esperienza della concertazione per i sindacati italiani,
con la proposta di sostituirla con il meno impegnativo “dialogo sociale”119, emarginando di fatto le confederazioni sindacali dalle decisioni socio-economiche più
rilevanti e ridimensionando ulteriormente il ruolo che le tre principali confederazioni avevano conquistato nel decennio precedente. Il venir meno dello strumento della concertazione non equivale però automaticamente all’abbandono
dello spazio politico da parte dei sindacati, a cui è ancora affidato il compito di
riuscire ad interporsi tra i diversi segmenti del lavoro e le loro domande sociali.
Ciò che i lavoratori atipici chiedono alle rappresentanze sindacali è l’inserimento in una piena cittadinanza. Il sindacalismo dovrà muoversi per creare le
condizioni culturali che favoriscano l’accettazione e il riconoscimento sociale dei
117
M. Magatti – G. Fullin (a cura di), Percorsi di lavoro flessibile, Carocci, Roma 2002, pp. 207-214.
Il governo di centro/destra, raccogliendo le indicazioni del “libro bianco”, si era ripromesso di sostituire al sistema di relazioni sindacali sulle tematiche di ordine nazionale strutturato dalla collaudata tecnica della “concertazione”, sfociante in accordi triangolari (governo, parti sociali sindacali, rappresentanze
imprenditoriali), quello del “dialogo sociale”, mutuato dal prototipo delineato a livello comunitario.
119
Il modello del “dialogo sociale” è inserito come obiettivo da perseguire al Titolo XI, art.136 del
Trattato istitutivo della CE (stipulato a Roma nel 1957, modificato dal Trattato di Amsterdam del 1997).
118
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
334
lavoratori atipici, e le condizioni organizzative che permettano a questi lavoratori
di fruire di garanzie di protezione contrattuale attualmente non riconosciute.
Riunire questi lavoratori in una rete di rappresentanza richiede che i sindacati
rinnovino le loro capacità di fornire risposte a domande in parte diverse da quelle
dei lavoratori classici e che rispecchiano interrogativi spesso più problematici,
insieme ad una costante richiesta di stabilità. Nell’immediato, una delle funzioni
che il sindacato dovrebbe assicurare per recuperare credibilità è di garantire a tutti i lavoratori i cosiddetti diritti di informazione. Ciò significherebbe permettere
al maggior numero di lavoratori, senza distinzioni discriminanti (standard o atipici), di avere a disposizione servizi per l’impiego efficienti, capaci di metterli
in condizione di perfezionare la propria offerta di lavoro in relazione alla domanda effettivamente esistente, rivalutando così il potere contrattuale da parte dei
lavoratori nei confronti delle controparti. In questo modo, i lavoratori sarebbero
meno svantaggiati di fronte agli imprenditori nei processi di negoziazione.
Il sindacato, dunque, dovrà elaborare nuove strategie per stare al passo con le
trasformazioni del mondo del lavoro e potrà conquistare la legittimazione e il
consenso da parte dell’ormai cospicua fascia dei lavoratori atipici, solo tenendo
conto della loro condizione di atipicità. Anche le organizzazioni sindacali, dovranno raffrontarsi con quello che è un carattere distintivo fondamentale per
comprendere e tutelare le nuove forme del lavoro: il principio di individualità.
I lavoratori, infatti, chiedono che vengano prese in considerazione la flessibilità e l’autonomia presenti nella loro prestazione di lavoro, richiesta piuttosto diversa dalla modalità classica di rappresentanza sindacale, specializzata nel
produrre norme standardizzate. La sfida che il sindacato si trova oggi ad affrontare è quella di riuscire a tenere insieme differenziazione e composizione. La speranza è che, come già all’inizio del Novecento, all’epoca dei processi di proletarizzazione industriale e della grande trasformazione fordista, il sindacato sappia
mostrarsi capace di interpretare adeguatamente il cambiamento, nel tentativo di
ricostruire quei legami sociali di solidarietà e partecipazione che il nuovo ciclo
produttivo sembra frantumare nell’atomismo individualistico che è proprio non
solo del mercato del lavoro, ma in generale di tutta la società contemporanea.
Il valore del lavoro oggi
Se si ripercorrono le diverse connotazioni che l’idea di lavoro ha assunto lungo l’arco della modernità, è possibile notare una progressiva evoluzione del suo
significato. Il lavoro èun universo semanticamente e cognitivamente complesso e
articolato, legato ad una metamorfosi che ha visto il passaggio dal lavoro come
mestiere al lavoro come vocazione o, con riferimento al contributo di Marx, dal
lavoro inteso come dovere e scopo al lavoro avvertito come necessità e libertà.
E’ proprio a partire dal pensiero di Marx, che descrive l’attività lavorativa come fondamento antropologico e come veicolo di liberazione storica, che il lavoro
diviene la chiave di vo lta della partecipazione di ciascun individuo alla storia del
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
335
genere umano e si comprende come la strutturazione dell’identità individuale sia
legata all’acquisizione della competenza lavorativa e professionale.
La Costituzione italiana ha recepito il carattere fondativo del lavoro nella società e nella vita dei singoli, esprimendolo pienamente nell’articolo 1: “l’Italia è
una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: «Quest’ultimo è diventato il veicolo principale della realizzazione personale e dell’inserimento a pieno titolo nel
circuito della cittadinanza. Il diritto al lavoro ha spianato la via a ogni altro diritto; se si è lavoratori, si possiedono i requisiti essenziali per accedere alla
distribuzione dei beni e delle risorse anche al di fuori della sfera del lavoro». 120
Sul lavoro pertanto, sino ai giorni nostri, «è stata convogliata la domanda di
realizzazione dell’umano e si sono riversate le attese di riscatto dall’alienazione
storica; [ma] a sua volta esso è diventato fonte di problemi che derivano per un
verso dalla sua organizzazione e per altro verso dal posto che esso ha assunto
nell’esistenza di ciascuno. Il lavoro, al quale la richiesta di liberazione
dall’alienazione si è rivolta, può insomma creare alienazione a propria vo lta». 121
Oltre ad una alienazione nel lavoro, è possibile parlare di una alienazione
da lavoro con la denuncia del rischio di un’affermazione incondizionata e totale
del valore del lavoro, cioè all’idea che l’intero orizzonte dell’agire e dell’essere
possa coincidere con il lavoro come dimensione in sé completa. Attualmente,
i progressi della scienza e della tecnica stanno di fatto inaugurando l’era
della diminuzione quantitativa del lavoro e spalancando le porte del tempo libero
da esso. Questa riduzione del tempo di lavoro dovrà però scongiurare il
rischio che lo spazio ‘liberato’ dal ritrarsi del lavoro non si trasformi in un vuoto.
Il lavoro è stato l’asse portante delle speranze dei soggetti subordinati e il metro principale dell’emancipazione umana, perciò niente oggi appare comparabile
alla sua potenza propulsiva in ordine alla realizzazione efficace degli ideali etici
della liberazione dal bisogno, della giustizia, della solidarietà e dell’eguaglianza.
Nell’ottica della flessibilità, cui sembrerebbe tendere l’evoluzione della società, occorre quindi ripensare il senso dell’attività lavorativa per la persona: guardare al lavoro non semplicemente in funzione di sé stesso e della logica di accrescimento produttivo, ma secondo criteri più comprensivi che tengano conto di
nuovi aspetti con cui esso deve oggigiorno relazionarsi. All’interno del modello
della flessibilità, il lavoro non costituisce più la dimensione esistenziale prevalente a scapito delle altre, valore e modello dell’identità dell’uomo ma diventa uno
degli aspetti gratificanti della vita, accompagnato da altre dimensioni quali la
famiglia, il tempo libero, l’autorealizzazione. Come afferma Accornero: «stiamo
uscendo da un’epoca in cui il mondo del lavoro e le relazioni di lavoro avevano
avuto un assetto uniforme, massificato e quasi unificato e stiamo entrando
in un’epoca in cui sia l’uno che le altre tendono ad essere differenziate». 122
120
F. Totaro, Non di solo lavoro, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 316.
Ibidem p. 146.
122
A. Accornero, Ancora il lavoro: conversazione con Patrizio Di Nicola, Ediesse, Roma 1995, p. 72.
121
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
336
Si è verificato un profondo mutamento del significato del lavoro e bisognerà
prendere atto del superamento della sua concezione tradizionale. Di certo non si
può propriamente parlare di una “fine del lavoro”, come aveva previsto Rifkin.
La trasformazione in atto sembra riguardare piuttosto il passaggio “da una società del lavoro” ad una società “dei lavori”, cioè verso forme, rapporti e statuti
di lavoro con tutela e durata plurime, lavori che cambieranno le proporzioni tra
durata indeterminata e durata determinata, fra tempo pieno e tempo parziale.
Venuta meno l’enfasi del lavoro di matrice ottocentesca, l’attenzione si è
concentrata sulle due dimensioni della produzione e del consumo e il tempo dedicato alla seconda dimensione si è dilatato rispetto al passato e andrà ulteriormente dilatandosi, almeno nelle aspirazioni e nella scala prevalente dei valori.
Questo spostamento tende a trascinare il lavoro nella funzione di prestazione
individuale strumentale ai consumi. Accade cioè che il lavoro si imponga a
livelli sempre più intensivi, non come attività fine a sé stessa, ma piuttosto
come necessità in relazione alle quantità crescenti di beni ritenuti irrinunciabili
per il proprio tenore di vita. Esso diviene, per lo più, la base strumentale di
una visione della vita intrappolata nell’irriducibile circuito della produzione e del
consumo, cui viene subordinata l’intera dimensione dell’essere e dell’agire.
Una volta acquisita la relatività del lavoro, cioè la sua valenza relativa e non
più totalizzante, e archiviata insomma la concezione di un lavoro intorno al
quale tutto ruota, bisognerà rimotivarne una centralità non più esclusiva, bensì
in concorso con altre priorità, altre risorse, altre necessità della vita dei singoli.
Tornando alla domanda posta a titolo del presente lavoro, non risulta possibile
dare una valutazione in termini assoluti riguardo al percorso complessivo
compiuto dal e nel mondo del lavoro, poiché i termini “evoluzione” e “involuzione” non sono stati assunti per poter dare giudizi sulla base della loro rispettiva
accezione “positiva” e “negativa”, ma sono stati considerati come i limiti di tale
percorso. Alle luce di svariate argomentazioni, dati concreti, affermazioni,
si è cercato di capire se la flessibilità sia stata o meno la “soluzione” più rispondente ai cambiamenti avvenuti e la deduzione è stata quella che la potenza
e la potenzialità (questa volta intesa in termini sia positivi che negativi) del
fenomeno sia tale che, per certi versi, esso sia sfuggito ad ogni sorta di controllo
che avrebbe potuto contenere alcuni dei suoi esiti e incanalare questa “soluzione”
in percorso eminentemente evolutivo. In questo senso, si può affermare che
c’è stata progressione e non progresso, poichè il termine progressione implica
appunto un percorso, non per forza di tipo nettamente evolutivo, e si confà
maggiormente alla prospettiva con cui è stato affrontato l’intero argomento.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
337
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RIFLESSIONI
La cittadinanza anziana tra inclusione ed esclusione.
Possibili aspetti metodologici
Marco Castellano
Abstract
Avanziamo, qui, un percorso di ricerca che permetta di comprendere gli aspetti caratteristici dell’“universo anziano” e di costruire un quadro delle politiche sociali adottate
nel nostro Paese. Linea guida dell’intera opera è la definizione del concetto di cittadinanza: alla titolarità formale di diritti/doveri si affianca la capacità politica di esprimere
la propria soggettività nella “sfera pubblica” partecipando attivamente ai processi deliberativi e la possibilità economica di esercitare materialmente i diritti civili e politici.
Quando un anziano è a pieno titolo un cittadino? La “percezione del sé” e il ruolo nella
società devono essere individuati rispetto alle variabili generazionali (età), al mondo
delle relazioni (capitale sociale), allo stato di benessere psico-fisico (salute), alla centralità economica (lavoro e previdenza) e alla rappresentanza e partecipazione politica.
Questi assi di strutturazione dell’essere anziano consentono di comprendere adeguata-mente le cause di inclusione o di esclusione e le conseguenze sulla società complessiva in un contesto contemporaneo in cui identità, relazioni e culture sono in continuo
mutamento. “Capire chi è l’anziano” si pone, dunque, come un passaggio obbligato per
la costruzio-ne d’interventi di politica sociale efficaci e rispondenti agli interessi percepiti dagli utenti. Il welfare-state istituito in Italia, il Paese più “vecchio” d’Europa, necessita di profonde ricalibrature e si orienta sempre di più verso un modello
“multi-pilastro”, dove lo Stato è affiancato da altri soggetti (famiglie, terzo settore, ecc.)
nel soddisfare i bisogni dei cittadini. In questa situazione si colloca il sistema di
protezione per gli anziani, di cui vengono illustrate le misure previdenziali e assistenziali, che rappresenta una significativa “voce” all’interno della spesa pubblica, ma
rimane di fondamentale importanza al momento dell’uscita dal mondo del lavoro e nelle
situazioni di bisogno e non-autosufficienza. L’erogazione dei servizi, allora, è il
terreno su cui si misura la capacità di “responsiveness” delle amministrazioni centrali e
locali e, più in ge nerale, del sistema politico, a partire dal coinvolgimento degli anziani,
intesi come stakeholders (portatori di interessi), nell’implementazione degli stessi.
Indice
Introduzione
1. Cittadinanza tra inclusione ed esclusione, rappresentanza e partecipazione
2. Chi è l’anziano, oggi: possibili aspetti metodologici
3. I servizi agli anziani: il quadro di riferimento e l’erogazione alle persone
Bibliografia
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358
363
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341
Introduzione
Il termine “condizione anziana” comprende innumerevoli riferimenti alla demografia, alla sociologia, alla politica, all’economia, alla storia. Per ognuno di
questi ambiti gli spunti e gli approfondimenti sono tali e tanti che non basterebbe
riassumerli in un unico contenitore, come può essere una tesi di laurea triennale.
Lo status dell’anziano, inteso come complesso di risorse sociali, potere o influenza sulle decisioni, forme di ricchezza o possesso o proprietà, viene per forza di
cose ad incrociarsi, fino a sovrapporsi, al ruolo dello stesso all’interno della società. L’insieme delle norme e delle aspettative relative all’individuo che occupa
una determinata posizione in una rete di relazioni sociali diventano quindi suscettibili di diverse interpretazioni, a seconda dei vari ambiti presi in considerazione.
Quindi, al fine di evitare un lavoro troppo parziale, ma allo stesso tempo
per avere una visione complessiva della questione, ho seguito un percorso
che si articola sostanzialmente su due livelli. Al “piano di sopra”, o meglio a livello- macro, delineerò i termini della situazione che riguarda gli anziani in
una prospettiva più generale, che tenga conto degli aspetti legati alla società e ai
soggetti stessi. In questo modo è possibile sviluppare una teoria capace di collegare senza salti logici o empirici l’analisi dei processi a livello di società con
l’analisi a livello di gruppo o di personalità che interessano l’universo anziano.
Al “piano di sotto”, a livello-micro, mi concentrerò sui servizi erogati per gli
anziani, in materia di assistenza e previdenza, considerando le norme nazionali di
riferimento e analizzando cosa offrono le Pubbliche Amministrazioni. Ho scelto
da questo punto di vista la situazione della Liguria che, come vedremo, è la regione più anziana d’Italia; in pratica ho voluto osservare se e come le dinamiche
demografiche influenzino le scelte politiche, tenendo come punto di riferimento
le esigenze e i bisogni dei cittadini.
Ho usato quest’ultima parola perché ho considerato come anello di congiunzione tra “sopra” e “sotto”, macro e micro, il concetto di “cittadinanza”, inserito
nell’ambito dei fenomeni di inclusione/esclusione sociale di cui gli anziani sono
al tempo stesso protagonisti in negativo e portatori di interessi in positivo.
L’essere cittadino di una comunità, piccola o grande che sia, comporta non solo l’acquisizione di un sistema di regolazione basato su diritti-doveri, ma anche la
capacità politica di esprimere la propria soggettività nella “sfera pubblica” partecipando attivamente ai processi deliberativi e la possibilità economica di esercitare materialmente i diritti civili e politici. La ricerca proposta dovrebbe essere colta come un tentativo di tratteggiare un percorso all’interno di un tema i cui confini sono amplissimi e di difficile definizione; ho curato la parte bibliografica cercando la coerenza e la pertinenza con il disegno delineato; ho inserito alcuni dati
relativi alle varie dinamiche e riferimenti alle norme vigenti per ancorare le mie
riflessioni alla realtà dei fatti.
L’anziano oggi non può essere considerato né una “categoria asettica” di studio ne un “oggetto” di misure assistenzialistiche e spesso istituzionalizzanti: è in
realtà un soggetto, un attore sociale, una persona. E come tale ne vanno garantiti
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
342
la dignità, la piena partecipazione alla vita sociale,;il diritto-dovere di “far sentire
la propria voce” nella sfera pubblica, il sollievo e l’affetto in quella privata. E’
proprio la partecipazione nella sua concezione più forte che implica la possibilità
reale e l’atto concreto di determinare, su un piano di relativa uguaglianza con gli
altri membri, gli obiettivi principali della vita della collettività, la destinazione
delle risorse, il modello di convivenza verso cui tendere, la distribuzione fra tutti
dei costi e dei benefici. In questo senso la partecipazione diventa pilastro della
democrazia, forma e metodo di governo delle comunità di qualsiasi tipo e scala.
Le conclusioni che emergono dall’analisi delle dinamiche relative ad un particolare “attore sociale” (qui, l’anziano) hanno scarsa valenza se non vengono contestualizzate. Quindi diventa fondamentale avere come riferimento lo scenario
della società in cui viviamo, dove «la moltiplicazione dei modelli di famiglia,
la pluralità dei processi educativi e di socializzazione, lo spostamento dei riti
collettivi dalle sfere religiosa, ideologica o sociale a quella dell’uso del tempo libero e la modificazione delle funzioni dei servizi pubblici e della loro organizzazione determinano profondi mutamenti nei meccanismi di integrazione sociale
o sistemica e di socializzazione, e quindi nelle forme di relazioni sociali». 1
Società post-industriale, tardo-capitalistica, complessa, dell’informazione: sono definizioni che sottintendono ad un’idea di cambiamento nelle proprietà e nella struttura dell’organizzazione sociale di cui i tradizionali soggetti-attori (sia individuali che collettivi) sono investiti e coinvolti. Il mutamento però richiede
processi, anche faticosi e non immediati, di adattamento: un rapporto dinamico
tra soggetto e ambiente sociale che assicuri le condizioni di esistenza attraverso
un dato livello di sviluppo sociale e culturale, tramite un rifornimento di risorse
– simboliche e materiali – adeguate quantitativamente e qualitativamente ai bisogni dei soggetti stessi. In caso contrario si va incontro per forza di cose a situazioni di insofferenza, se non di crisi, il cui minimo comune denominatore è
l’esclusione sociale che origina disuguaglianze, subalternità e marginalizzazione.
Come sinteticamente espone Massimo Ampola, «appare chiaro, allora,
nella nostra società dell’avere, il rapporto struttura reale/valore e appare evidente
come tale rapporto di prevalenza economicistica si configuri anche quale
effetto/causa delle variazioni nell’organizzazione sociale, nella cultura, nel sistema di rapporto, di relazione tra personalità». 2 Allora è opportuno concentrarsi
sugli aspetti che contraddistinguono la condizione anziana al giorno d’oggi.
A questo proposito le riflessioni habermasiane sulle strutture simboliche del
“mondo vitale” offrono molte chiavi di lettura.3 Di per sé il mondo vitale appare
come contesto costitutivo dei processi di comprensione ed azione della società.
La condizione anziana dunque può essere concepita secondo le tradizioni culturali, le forme di interazione, i processi di socializzazione di cui i soggetti-attori so1
A. Messeri, Unità e diversità nella teoria sociale, in A. Messeri - F. Ruggeri (eds.), Quale cittadinanza? Esclusione ed inclusione nella sfera moderna, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 18.
2
M. Ampola, Presentazione, in M. Nudi, Giovani e anziani a confronto nella società complessa, Pisa,
ETS, 1992, p. 9.
3
J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, Bologna, Il Mulino, 1986.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
343
no i principali interpreti. Ed emergono così gli aspetti negativi legati alla perdita
di senso culturalmente inteso, alla mancanza di solidarietà nella società,
all’intaccamento della partecipazione come forma di identità. L’universo anziano
«al quale generalmente ci si rivolge quale portatore fisico dei significati sociali
che si interpretano da cambiare - rimane, attraverso il confronto con i simboli significativi del suo mondo vitale, condizione necessaria per il cambiamento».4
Come detto poc’anzi, il ragionamento per compartimenti stagni e la mancanza
di un quadro d’insieme che coincide con una visione del mondo sono fini
a se stessi. Riprendendo ancora le riflessioni di Ampola si constata che
«il problema dell’anziano, allora, è valutabile soltanto in termini di globalità,
ossia di significato all’interno delle fasi successive di una medesima condizione.
In questo senso, anzi, si capovolge la frequente tematica comparativa trasve rsale
giovani/adulti/anziani fondata su contrapposizioni di efficientismo».5
Abbiamo affermato in precedenza che la condizione anziana è «problema universale, globale e multidimensionale».6 Nel dibattito sociologico italiano un punto di vista che pare rispondere a questa visione si riscontra in Chiara Saraceno.
La studiosa sviluppa una prospettiva di “corso della vita” che mette l’accento sulla continuità dello sviluppo e del cambiamento nell’arco dell’esistenza. Come afferma la Saraceno, «ciascuna fase della vita va colta sempre come costruzione
successiva, come esito di processi di accumulo e integr azione di esperienza».7
Un approccio di questo tipo è funzionale alle tematiche qui riprese, in quanto
inserisce le coordinate soggettive dell’anziano in quell’ampia carta di navigazione che è la vita. Sarà facilitata la comprensione delle caratteristiche strutturali
della terza/quarta età e delle dinamiche in itinere correlate alla condizione anziana. Il riferimento riguarda gli aspetti identitari, relazionali, economici, politici e
partecipativi di cui l’anziano è o dovrebbe essere attore principale. Una visione
globale è importante per chi fa ricerca e per chi cerca soluzioni ma anche
per i soggetti stessi: la società contemporanea non è affatto semplice da decifrare.
Infatti, una delle questioni più rilevanti del panorama nazionale riguarda
l’opportunità del sistema politico-decisionale di cogliere le esigenze dei cittadini
e di esprimere misure efficaci e rispondenti. Ma questa capacità di “responsiveness” da parte delle istituzioni deve per forza coniugarsi con la volontà degli individui di sentirsi veri e propri attori-del-mondo in cui vivono. Ampola, a tal
proposito, ricorda che «gli operatori istituzionali, costretti a inseguire frammenti
della complessità, vedono ridursi la loro incisività di intervento sulle connessioni
tra bisogni e comportamenti, sono costretti al lavoro sugli effetti piuttosto che
sulle cause delle relazioni individuo/comunità. Soprattutto l’attore (individuo capace di esperienze significative) non riesce a ordinare e completare il percorso da
4
M. Ampola, Giovani e anziani nella città: la percezione reciproca, in Id. (ed.), Dalla marginalità
all’emarginazione: studi e ricerche sulla società italiana, Milano, Vita e Pensiero, 1986, p. 192.
5
M. Ampola, Presentazione, cit., p. 9.
6
S. Burgalassi, L’anziano: come e perché: considerazioni sociologiche sulla condizione anziana, Pisa,
Giardini Editori e Stampatori, 1985.
7
C. Saraceno, Dalla sociologia dell’età alla sociologia del corso della vita, in Id. (ed.), Età e corso della vita, Bologna, il Mulino, 2001, p. 28.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
344
attore a soggetto (individuo capace di governare, di scegliere intenzionalmente,
secondo una gerarchia di significati, le proprie relazioni) e si rifugia nel disincanto, nella riproduzione di modalità tradizionali piuttosto che nell’innovazione».8
Ma come deve essere l’approccio alla ricerca? Deve attenersi a tutti i costi ad
una teoria, ad un percorso ben definito stabilito dal ricercatore, lungo un’ideale
autostrada che si snoda diritta e senza interruzioni verso l’orizzonte, come le
grandi higways americane? O deve tener conto esclusivamente della mole di dati,
statistiche, rilevamenti, rapporti, storie che emergono per forza di cose durante il
lavoro di raccolta e di interpretazione? A mio avviso, se si predilige il primo aspetto trascurando il riscontro empirico con il modo che ci circonda il rischio è
quello di produrre esercizi retorici di stile, di cui ci si può anche compiacere, ma
che a livello pratico troveranno ben poche possibilità di attuazione. D’altra parte,
una ricerca caricata “per eccesso di zelo” di numeri, grafici, andamenti demografici, questionari e non curata sul motivo di fondo per il quale tutto questo materiale è stato raccolto, risulta pesante nella lettura e di “difficile digestione” nella
comprensione; si perderebbe, infine, in sottigliezze tecniche, se non tecnicismi.
Per tornare alla domanda inizi ale, come deve essere l’approccio alla ricerca?
Innanzitutto, è innegabile che chi svolge una ricerca sui vari ambiti della società plasma il proprio lavoro sulla curiosità, sugli stimoli e sull’interesse che
hanno portato d approfondire un tema piuttosto che un altro. In poche parole, le
valutazioni e le idee personali del ricercatore stanno alla base della ricerca stessa,
ne sono il motore ed il carburante. Citando Mario Aldo Toscano, «sarebbe ingenuo supporre che continuando ad osservare la realtà senza idee personali questa
si organizzi da sé e manifesti il suo ordine interno: ma senza domande non ci sono risposte. E le risposte sono pre-concepite nella formulazione delle domande.
Le domande esprimono i nostri interessi nel problema. E gli interessi non possono essere mai puramente scientifici. Essi sono scelte, sono i prodotti delle nostre
valutazioni. Soltanto così è possibile dare significato alle cose e comprenderle».9
In secondo luogo, una ricerca sociale non può prescindere dall’essere utile: sia
per comprendere e portare a conoscenza l’oggetto, sia per rendere le istituzioni
preposte in grado di risolvere le problematiche che eventualmente emergono.
Il lavoro del ricercatore sociale deve tenere ben presente che la complessità della
società va ben oltre le teorie e le opere di studio. D’altra parte è evidente che la
progettualità e l’implementazione delle politiche per la cittadinanza pretendono
un’attenta analisi dei fenomeni sociali. Infatti «l’estendersi dell’idea della programmabilità degli interventi impone di fare un inventario delle energie materiali
e mentali disponibili. In questo caso le scienze sociali sono chiamate ad applicazioni specifiche nel quadro di politiche motivate esse stesse da una quantità
di sollecitazioni provenienti dal tessuto sociale giunto ad uno stato di crisi».10
8
M. Ampola, Introduzione. Una ricerca sulle reti del cambiamento sociale a Pisa, in Id. (ed.), Le reti
del cambiamento: una ricerca sull’ecosistema sociale pisano, Pisa, Felici, 1996, p. 14.
9
M.A. Toscano, Il problema sociologico, in Id. (ed.), Introduzione alla sociologia, Milano, Franco
Angeli, 2003, p. 107.
10
Ibidem, cit., pp. 109-110.
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345
In conclusione di questa breve introduzione, ho ritenuto utile inserire un sintetico indice ragionato degli argomenti di cui si costituisce la struttura del presente
paper, al fine di presentare al lettore le linee-guida di ogni capitolo della ricerca:
1. L’anziano nella società complessa delle trasformazioni ed il concetto sociopolitologico di “cittadinanza” per T. H. Marshall e J. Habermas; cenni teorici
sull’inclusione/esclusione sociale; l’importanza delle forme partecipative/rappresentative. Filo conduttore del capitolo è la definizione di cittadinanza,
intesa come insieme di diritti-doveri e interazione comunicativa tra individui
e gruppi sociali nella “sfera pubblica”. Questo modello inoltre è in grado di
fronteggiare i fenomeni di marginalizzazione causati dalle disguaglianze
re-distributive e giuridiche. L’anziano in quanto cittadino dunque è effettivamente soggetto e attore sociale, la cui “percezione del sé” va ribadita e rafforzata
attraverso la partecipazione ai processi politici e deliberativi che stanno
alla base dell’ordinamento democratico e, all’effettiva possibilità economica.
2. Definizione dei principali elementi caratterizzanti della condizione anziana:
l’età, il mondo delle relazioni, il ruolo nell’economia, la salute, la partecipazione
politica. Dopo una breve introduzione di carattere metodologico, vengono
individuati possibili indici correlati tra loro che connotano l’anzianità. La
comprensione dei significati della condizione anziana, in questo caso, diventa determinante per la formazione di politiche efficaci e conformi ai bisogni definiti.
3. I servizi per gli anziani: il quadro di riferimento e l’erogazione alle persone.
Cosa si intende per “politica sociale”; le normative -guida e l’incidenza delle
misure previdenziali/assistenziali per gli anziani nell’Italia del “welfare-mix”.
Lo scopo è qui quello di mostrare la struttura generale del welfare-state italiano, che vede la difficoltà oggettiva del mantenimento di un modello “universalistico”, a fronte del disequilibrio della cosiddetta “bilancia sociale”. In questo dilemma si colloca il sistema di protezione per gli anziani, codificato attraverso
precisi strumenti legislativi. In termini quantitativi la politica per gli anziani rappresenta una significativa voce all’interno della spesa pubblica, rimanendo di
fondamentale importanza per i cittadini interessati al momento dell’uscita dal
mondo del lavoro e nelle situazioni di oggettiva difficoltà di sostentamento. Infine sono tratteggiate le prospettive del welfare italiano, che necessita di profondi
interventi e che si orienta sempre di più verso un sistema “multi-pilastro”, dove
lo Stato viene affiancato da altri soggetti (famiglie, terzo settore, ecc.) nel soddisfare i bisogni dei cittadini. Se risulterà interessante dare uno sguardo alle principali norme e misure di intervento adottate in favore degli anziani, al contempo,
la conoscenza degli interventi diventa un indicatore concreto della loro rispondenza ai principi-guida di efficacia, prossimità, solidarietà e partecipazione, che
fanno parte a pieno titolo del concetto di cittadinanza precedentemente delineato.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
346
1. Cittadinanza tra inclusione ed esclusione, rappresentanza e partecipazione
L’Italia è il Paese più anziano d’Europa, secondo i dati dell’Istat.11 L’indice di
vecchiaia, ovvero il rapporto tra la popolazione over-65 (definita anziana) e la
popolazione under-15 (definita giovane in età non lavorativa) sfiora nel 2006
quota 142, di fronte ad una media-UE 27 di poco superiore a 100 (tavola 1 appendice). La vita media in Italia inoltre è una delle più alte in Europa: secondo le
stime per il 2006 è di 83,9 anni per le donne e di 78,3 anni per gli uomini. Le
donne italiane, per speranza di vita alla nascita, sono seconde solo alla Francia
(84,4 anni), mentre gli uomini si collocano al terzo posto dopo Cipro e Svezia
(tavola 2 appendice). La presenza della componente anziana nella società si presta dunque a molteplici interpretazioni, alcune delle quali si connotano per elementi di negatività. Gli anziani sono “troppi”, diventano destinatari a senso unico
della redistribuzione economica, non producono più risorse materiali e attiverebbero un conflitto per l’allocazione delle stesse con le generazioni più giovani. 12
Queste considerazioni appaiono parziali e pregiudiziali: allo stesso tempo
sembrano guadagnare spazio nel “senso comune” dell’opinione pubblica, inteso
come complesso di schemi interpretativi che orientano e conferiscono ordine alla
vita quotidiana. Il rischio, in questo modo, sta nel distorcere la progettazione di
politiche sociali efficaci e rispondenti ai bisogni della popolazione anziana.
Ecco che il dibattito relativo alla condizione anziana va ricondotto all’interno
di un ragionamento più ampio, centrato sul concetto di “cittadinanza”. Ma cosa
intendiamo per cittadinanza? Può un excursus teorico trovare riscontri effettivi
nel modo di vivere delle persone? E, soprattutto, può costituire un modello di organizzazione sociale e politica per la società? Vediamo di ragionare per gradi.
La cittadinanza è intesa come insieme di condizioni di vita che contribuiscono
a far sì che un “civis” sia membro effettivo e a pieno titolo della sua comunità.
T. H. Marshall (1950)13 è il primo e più importante teorico della cittadinanza,
considerata come insieme di diritti e doveri che garantiscono la piena appartenenza ad una società. Per Marshall tre sono le dimensioni della cittadinanza:
- civile: si afferma per prima attribuendo agli individui una serie di diritti fondamentali per l’esercizio della libertà personale, da cui derivano la libertà di parola, di fede, di pensiero, di proprietà;
- politica: si sviluppa nel XIX secolo e comprende i diritti che assicurano la
partecipazione politica. Questo tipo di cittadinanza si afferma definitivamente
con le liberal-democrazie di massa, nelle quali il consenso si esprime principalmente al momento del voto, ma in cui gli spazi partecipativi vengono assicurati
dal carattere universale di tali diritti;
11
ISTAT, 100 statistiche per il Paese. Indicatori per conoscere e valutare (2005-2007), 2008, in
www.istat.it/popolazione.
12
F. Ruggeri, Gli anziani come sfida societaria, in A. Messeri - F. Ruggeri (eds.), Quale cittadinanza?
Esclusione ed inclusione nella sfera moderna, cit., pp. 142-144.
13
T. H. Marshall, trad. it. Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET, 1976.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
347
- sociale: si afferma nel XX secolo e comprende quell’insieme di diritti che
vanno dal benessere minimo alla sicurezza economica, alla possibilità di partecipare alla vita sociale. Le istituzioni maggiormente collegate a questo aspetto sono
il sistema scolastico e quello del welfare, che assicurano la socializzazione e la
protezione dell’individuo-attore sociale.
Un altro importante pensatore del nostro tempo, che sviluppa un’interpretazione del concetto di cittadinanza, inserito in un quadro concettuale più ampio14,
è Jürgen Habermas (1992). È infatti la sfera pubblica, secondo la concezione habermasiana di democrazia deliberativa, il luogo in cui i cittadini formano
opinioni: «in questo processo i flussi comunicativi sono filtrati e sintetizzati
in maniera da convogliarsi in opinioni pubbliche relative a temi specifici».15
La formazione di un “agire comunicativo orientato all’intesa” permette
il riconoscimento intersoggettivo dei partecipanti, che sono in grado di attuare
i propri piani di comune accordo, in una situazione di azione definita insieme.
Il cittadino, attraverso un uso discorsivo della ragione, è capace di definire e costruire un agire orientato all’intesa che produce risultati razionali nella società.
Per lo studioso tedesco diventa fondamentale il recupero di una “cittadinanza
attiva”, che non si limiti alla titolarità formale di diritti e doveri, ma che sia in
grado di rivitalizzare la sfera pubblica in cui si formano le opinioni e le decisioni
fondamentali. Ricordiamo, infatti, che «la sovranità popolare e i diritti civili non
stanno in un rapporto di concorrenza, bensì di reciproca integrazione, in virtù
della forza legittimante di una formazione della volontà di tipo discorsivo che
nelle procedure giuridiche inclusive della democrazia realizza l’autolegislazione
e tutela anche le libertà individuali»16.
Il contesto storico di trasformazione della società porta ad una ri-definizione
dei gruppi sociali che costituiscono e differenziano la società stessa. Gli
anziani non si sottraggono a queste dinamiche: le situazioni di disagio psicofisico, il senso di abbandono, la mancanza di programmazione degli interventi
alla persona, la contrapposizione con fasce di età più giovani sono il dazio da
pagare di fronte ai mutamenti della società. Una società, ricordiamo, che da “solidale” sta diventando sempre più “competitiva” sia nelle forme economiche (e
ciò non deve sorprendere) che in quelle di aggregazione/convivenza/aiuto, mettendo in crisi i modelli di solidarietà su cui si poggia il welfare state italiano.
Le persone anziane sono da sempre considerate una “categoria”, o meglio, dei
soggetti a rischio: ma in che cosa consiste il rischio? Concretamente, cosa devono fronteggiare le famiglie, che interventi devono programmare le politiche sociali, quale peso sopportano gli stessi anziani?
Una risposta molto probabile è questa: esclusione sociale. Allora l’esclusione
dai benefici sociali, dalla possibilità economica, dall’accesso ai mezzi essenziali
di sussistenza e dai livelli di stile di vita riconosciuti è il malus che sopportano i
14
M. Ampola - L. Corchia, Dialogo su Habermas. Le trasformazioni della modernità, Pisa, ETS, 2007.
A. Messeri, Unità nella diversità: per una teoria dell’inclusione sociale, in A. Messeri - F. Ruggeri
(eds.), Quale cittadinanza? Esclusione ed inclusione nella sfera moderna, cit., p. 44.
16
J. Habermas, trad. it. Ricostruzione del diritto (1): il sistema dei diritti, in Id., Fatti e Norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini e Associati, 1996.
15
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
348
gruppi e le formazioni sociali più deboli (anziani, immigrati, giovani, donne, disoccupati, ecc.), configurando così una vera e propria crisi della società civile.
Assume quindi una rilevanza centrale la ricerca di una soluzione al problema
dell’esclusione, nel termine opposto e positivo di inclusione. Questa si intende
come «riconoscimento e quindi implica il rispetto e dell‘i dentità dei gruppi, ed
una loro valorizzazione all’interno della società civile e attraverso le politiche
pubbliche».17 Ancora, il riconoscimento reciproco non si limita a individuare e
comprendere le più evidenti differenze etniche e religiose, ma anche quelle di
genere, di età, di condizione sociale e di stile di vita. Ecco che le definizioni di
cittadinanza precedentemente riportate sembrano garantire gli attori sociali anziani, sia per quanto riguarda la dimensione giuridico-legislativa (Marshall), sia
in relazione alla partecipazione e alla capacità di incidere sul reale (Habermas).
E, soprattutto, pongono le basi di un modus vivendi centrato sulla “inclusione sociale” che conduce a scelte concrete, efficaci e centrate a «conferire realismo alla
proposta di rapporti uomo-ambiente, uomo bisogni vitali e fenomeni del mutamento».18 Proposito più che mai valido e necessario per la condizione anziana.
Un ulteriore aspetto è il passaggio dai fenomeni di inclusione/esclusione sociale alle forme di rappresentanza e partecipazione proprie dell’universo anziano. E’
evidente infatti che il riscatto sociale passi per le modalità concrete di rilevanza,
interesse e ascolto delle istanze all’interno della società stessa. L’agenda politica
del nostro Paese deve fronteggiare l’emergenza quotidiana legata a tasse, salari,
scarsa competitività e pensioni. Ovviamente tutti questi aspetti sono correlati tra
loro e si inseriscono in un quadro di costante invecchiamento (non solo demografico) del “sistema-Italia”, che produce una situazione evidente di disequilibrio
della bilancia sociale. Ruggeri fa notare come l’incidenza della componente anziana sulla popolazione elettorale e l’elevata quota di iscritti over 65 al sindacato
siano indicatori di una forte presenza nella società19, che si dovrebbe tradurre in
decisioni quanto meno non penalizzanti. Eppure l’anziano non si sente rappresentato dalle istituzioni che concorre a formare con l’esercizio democratico. Questa
mancanza di interlocutori risulta contraddittoria, se si pensa all’elevata età degli
uomini politici italiani e ai caratteri di gerontocrazia che sembra assumere ormai
l’esercizio del potere e dei privilegi sempre più evidenti che ne derivano.
La situazione dell’anziano è emblematica: le politiche di welfare finora attuate
in Italia hanno elaborato soluzioni socio-assistenziali spesso legate a condizioni
impossibilitanti, di non-autosufficienza. In più, le difficoltà economiche sottolineano una situazione ambigua, per la quale l’anziano è inserito nella società
del consumo, ma non riesce a mantenere un livello adeguato di benessere necessario alla sussistenza primaria e all’effettivo esercizio dei diritti civili e politici.
17
A. Messeri, Unità nella diversità: per una teoria dell’inclusione sociale, in A. Messeri - F. Ruggeri
(eds.), Quale cittadinanza? Esclusione ed inclusione nella sfera moderna, cit., p. 23.
18
M. Ampola, Giovani e anziani nella città: la percezione reciproca, in Id. (ed.), Dalla marginalità
all’emarginazione: studi e ricerche sulla società italiana, cit., p. 195.
19
F, Ruggeri, Gli anziani come sfida societaria, in A. Messeri - F. Ruggeri (eds.), Quale cittadinanza?
Esclusione ed inclusione nella sfera moderna, cit., pp. 139-141.
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349
Da ciò emerge la definizione di un soggetto passivo, “oggetto” piuttosto che
“utente” di quei servizi fondamentali necessari a condurre un’esistenza dignitosa
e sicura. L’anziano non è più considerato uno stakeholder, un portatore di interessi, proprio perché il suo ruolo all’interno della società appare agli occhi di
molti ormai nullo: «Se l’anziano è stanco di lottare se gli altri ritengono di potersi
liberare della sua presenza ingombrante o semplicemente ignorandola, la ragion
d’essere di tale presenza inaridisce».20 La soluzione per combattere queste situazioni di “subalternità” e “disagio” consiste nel recupero della cittadinanza appena
delineat a, in modo tale da favorire l’attivazione di quei canali partecipativi necessari per definire le linee di intervento. E, soprattutto, necessari per non inquadrare l’anziano come una “categoria sociale fuori-mercato”: concezione originale
e certamente da rigettare, ma che prende spunti nella realtà da un modello di governance e (cosa ancor più grave) di “democrazia concorrenziale”, che aumenta
gli squilibri socio-economici e le situazioni soggettive e collettive di esclusione.
2. Chi è l’anziano: possibili aspetti metodologici
Una ricerca sociale non può certamente prescindere dall’aspetto metodologico.
Sin dalle pagine introduttive , infatti, emerge l’intendimento di costruire un discorso sulla condizione anziana, che non si risolva unicamente nell’enunciazione
di dati e statistiche a sé stanti, ma che tenga conto degli aspetti fondamentali relativi alla costruzione di una ricerca nella società. Il lavoro di raccolta/analisi dei
dati e di approfondimento bibliografico è stato agevolato dall’ampiezza del dibattito sull’universo anziano in diversi ambiti. Ma allo stesso tempo tale quantità
di informazioni va inserita in una struttura logico-operativa che faccia da punto
di riferimento e da impalcatura per la costruzione dei ragionamenti sull’argomento; il tutto senza sottovalutare l’attenzione alla sinteticità dell’esposizione.
Allora nella costruzione di una ricerca non bisogna trascurare i cardini della
metodologia: il processo di traduzione empirica di un concetto complesso prevede le fasi di concettualizzazione (da un concetto generale attraverso un rapporto
di indicazione si ricavano indicatori specifici) e di operativizzazione (dagli
indicatori mediante una definizione operativa si ricavano variabili passibili di rilevazioni empiriche). L’ultimo passaggio dell’ideale disegno metodologico di ricerca è la costruzione degli indici, che consentono di sintetizzare in un unico
termine la pluralità di variabili prodotte. Se si riporta quanto esplicitato finora
all’oggetto di studio in questione, la riduzione della complessità che riguarda
l’argomento anziani e l’individuazione di indici che fungano anche da aree
di riferimento per il lettore ed il ricercatore stesso diventano quindi inevitabili.
20
F. Ruggeri, Gli anziani come sfida societaria”, in A. Messeri - F. Ruggeri (eds.), Quale cittadinanza?
Esclusione ed inclusione nella sfera moderna, cit., p. 160.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
350
Dall’universo anziano verranno considerati di seguito quegli aspetti basilari
che ne caratterizzano la condizione e rendono individuabili i problemi alla
luce dei cambiamenti in atto nella nostra società: in sintesi sono l’età, il
mondo delle relazioni, la sal ute, il ruolo economico, la partecipazione politica.
L’età
In tutte le società l’età è uno dei fattori determinanti per il comportamento delle persone, l’organizzazione sociale e la distribuzione di diritti, doveri e ricompense. L’età certamente rappresenta un carattere distintivo affinché una persona
venga considerata “anziana”. Più in generale si possono distinguere una terza età
(intorno ai 60-65 anni), in cui rientrano gli anziani autonomi, attivi e in buone
condizioni di salute, e una quarta età (oltre i 75 anni) che segna l’inizio del decadimento fisico. Questo però non significa che una persona “in là con gli anni” sia
necessariamente bisognosa di aiuto e sostegno, non sia più in grado di provvedere al proprio sostentamento, veda diminuite le proprie capacità mentali e non
possa più provare sentimenti inquadrati tipicamente dal senso comune nella gioventù quali l’amore affettivo e fisico. Allora è necessario in maniera preliminare
operare una distinzione tra invecchiamento e vecchiaia. L’invecchiamento consiste «nei processi biologici, psicologici e comportamentali interagenti che iniziano
con la nascita e terminano con la morte».21
L’invecchiamento è quindi un fenomeno naturale, dinamico, caratteristico di
ogni essere vivente, che si sviluppa parallelamente alla crescita. La vecchiaia è
invece una “invenzione sociale”: la sua lunghezza , i suoi stadi, i suoi problemi,
le opportunità che offre dipendono largamente dalla società in cui conduciamo la
nostra esistenza. Infatti le sequenze di nascita, infanzia, maturità, vecchiaia e
morte possono sembrare questioni puramente biologiche: in realtà ogni società
impone la propria concezione di ciclo vitale al processo fisiologico della crescita
e dell’invecchiamento. La società contemporanea ha visto il costante miglioramento degli standard di salute grazie al progresso tecnologico e biomedico: di
conseguenza l’aumento della vita media e la diminuzione del tasso di mortalità
incrementano la presenza sociale degli anziani. Analizzando la struttura per età
della popolazione italiana e straniera residente in Italia al 1° gennaio 2007, il fenomeno più evidente è dato l’assottigliamento della base più giovane e dalla prevalenza in termini quantitativi delle classi di età più adulta , tra cui quella anziana. L’allungamento della vita, inoltre, si ripercuote sul modo di produzione e sulle condizioni lavorative: il raggiungimento dell’età di pensionamento e l’uscita
dal mondo del lavoro segnano perciò l’inizio dell’età anziana o “non attiva”.
21
M. White Riley, Stratificazione per età , in C. Saraceno (ed.), Età e corso della vita, cit., p. 75.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
351
Il mondo delle relazioni
L’invecchiamento della popolazione italiana porta come conseguenza più evidente l’aumento del numero di ultrasessantacinquenni che vivono in coppia o da
soli. E’ importante sottolineare come per gli anziani la propensione alla vita indipendente sia ancora forte: solo quando si verifica un serio deterioramento delle
condizioni fisiche e psichiche, la vita “da soli” è sostituita dalla convivenza con
gli altri familiari. La parentela diventa per l’anziano un vero e proprio nucleo di
protezione, coadiuvando sempre di più gli interventi delle politiche sociali e consentendo ai “vecchi” di poter sviluppare e approfondire i rapporti con i “giovani”.
Basti pensare alla figura dei no nni, che spesso assumono il ruolo di “genitori in
seconda” per i nipoti ma anche alla trasmissione del sapere e delle esperienze lavorative, un bagaglio sicuramente indispensabile per le giovani generazioni.
In generale vi è una reciprocità dello scambio tra generazioni: fino alla soglia
della quarta età, aiuti dati e ricevuti si bilanciano. Poi, con l’avanzare degli anni,
quelli ricevuti prevalgono. L’aiuto e il sostegno dei familiari sono probabilmente,
per molti anziani nella quarta età, una condizione necessaria per continuare a vivere degnamente: si ricorda che la solidarietà familiare, materiale e non, è molto
più sviluppata in Italia e nei Paesi mediterranei rispetto agli altri Paesi d’Europa.
Un aspetto interessante riguarda le relazioni che intercorrono tra il gruppo dei
pari. Indubbiamente l’aggregazione di anziani nelle forme e nei luoghi che tutti
conosciamo (ad esempio, la partita a carte in un bar o in un circolo) contribuisce
ad allontanare il rischio-solitudine. Ma è facile cadere nella stereotipizzazione dei
modi di socializzare dell’età anziana. Come ricorda Burgalassi, «non si può
pensare di trascorrere gli anni in pensione semplicemente bighellonando da una
panchina ad un’altra, da un bar ad un altro. E’ noto che “ammazzare il tempo”
diviene la cosa peggiore che un anziano che oggi si vede costretta a fare».22
Di conseguenza, riteniamo che le forme di socializzazione dell’età anziana
dovrebbero perseguire dei fini di utilità sociale: in molte città capita, infatti, di
trovare gruppi di cittadini anziani all’uscita delle scuole impegnati ad agevolare il
recupero dei bambini. Anche le istituzioni dovrebbero incoraggiare l’associazionismo e le attività di visibilità sociale. Così facendo il riscatto personale dell’individuo impegnato in un progetto porta un contributo unico alla collettività,
respingendo l’emarginazione e favorendo la partecipazione e l’auto-percezione.
La salute
Quando si affronta l’argomento “anziani e salute”, il senso comune tende a
connotare negativamente il secondo termine proprio per la presenza del primo.
La persona anziana quindi non può essere autosufficiente, non può godere di una
buona salute fisica, deve essere assistita nei luoghi adatti dal personale adatto.
22
S. Burgalassi, Introduzione. La condizione anziana, oggi, in G. Menichetti, Anziani a Ponsacco. Un
tentativo di risposta a bisogni e aspettative, Amministrazione Comunale di Ponsacco, 2000, p. 12.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
352
Per smontare queste false rappresentazioni, risulta prezioso riportare alcune
considerazioni di L. Doyal e J. Gough sui concetti di autonomia e sopravvivenza/salute fisica. Queste infatti sono le pre-condizioni sociali che rendono
l’individuo attore e partecipe a pieno titolo della comunità in cui sviluppa la propria esistenza. L’autonomia, dunque, si configura come «possedere la capacità di
scegliere, in base all’informazione disponibile, cosa fare e in quale modo [….]
Concepita in questi termini l’autonomia è equivalente alla capacità di azione».23
Ugualmente la sopravvive nza si definisce come salute fisica, poiché permette «la
possibilità di portare a compimento quotidianamente una varietà di compiti pratici[….] che risultano in genere compromessi da uno stato di cattiva salute».24
Ovviamente l’inesorabile passare dell’età mostra i suoi segni sia nel corpo che
nella mente. Proprio quando l’anziano si trova in una situazione di oggettivo bisogno, ecco allora che diventano determinanti l’aiuto e l’assistenza garantiti dalla famiglia e dalle istituzioni. Della famiglia si è già parlato relativamente al contributo che fornisce alla persona anziana, nei termini della prossimità domiciliare
e delle relazioni primarie. Le istituzioni d’altra parte agiscono in maniera codificata da regole e schemi, ma sempre più vengono affiancate nella loro iniziativa
da nuovi soggetti/erogatori, provenienti anche dal cosiddetto terzo settore. Inoltre
il sistema di welfare italiano sembra orientarsi nei confronti dell’anziano verso il
mantenimento della domiciliarità, favorendo la permanenza in un ambiente vicino e familiare. Ciò per evitare il rischio-istituzionalizzazione dovuto all’inadeguatezza di alcune strutture “di accoglienza” o “di riposo”, che spesso sono tristemente alla ribalta nelle notizie di cronaca. Inoltre, l’istituzionalizzazione grava
in termini di spesa sanitaria e di dequalificazione delle strutture ospedaliere.
Diventa perciò significativo considerare l’indicatore della percentuale degli
anziani che usufruiscono di assistenza domiciliare integrata (ADI) in Italia al
200525. Grazie all’ADI è possibile fornire all’anziano in condizione di bisogno
l’assistenza socio-sanitaria fondamentale, evitando il rischio-istituzionalizzazione
causato dal ricovero in ospedali o altri centri. La misurazione di questo essenziale
servizio di cura è prevista dal nuovo Quadro Strategico Nazionale (QSN)
per il ciclo di programma 2007/2013, al fine di quantificare il livello di efficacia
ed efficienza delle prestazioni. L’indicatore è definito dalla percentuale di anziani
che beneficiano dell’ADI rispetto al totale della popolazione anziana: il
valore del 3,5% fissato dai “livelli essenziali di prestazioni civili e sociali”
si registra al 2005 al Centro-Nord: questa percentuale diventa il target da raggiungere entro il 2013 per il Mezzogiorno (dove peraltro Basilicata e Molise
registrano un indice rispettivamente del 6,1 e del 3,9 per cento); il Friuli-Venezia
Giulia è la regione con la più alta percentuale di anziani serviti dall‘ADI
(7,9%); in Italia l’utilizzo dell’assistenza domiciliare è aumentata dello 0,9%
dal 2001 al 2005, con un maggior incremento del Centro-Nord (1,00%)
rispetto al Mezzogiorno, che si colloca allo 0,6 per cento (tavola 1).
23
L. Doyal – J. Gough, trad. it. Una teoria dei bisogni umani, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 85.
Ibidem, p. 89.
25
ISTAT, 100 statistiche per il Paese, 2008, in www.istat.it/popolazione.
24
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
353
Tavola 1
L’utilizzo di questo indicatore è previsto per la misurazione dei servizi essenziali dal nuovo Quadro Strategico Nazionale (QSN) per il ciclo di programmazione 2007-2013. L’Assistenza Domiciliare Integrata è una modalità avanzata ed
efficiente di erogazione dei servizi di cura all’anziano rispetto alle tradizionali.
L’aspetto economico
Nella vita di un soggetto economica il periodo di produttività può essere considerato come “maturità”, mentre l’uscita dal mercato lavorativo segna l’inizio
della “vecchiaia”. Ma rispetto al passato, per molti anziani l’invecchiamento non
costituisce più un’inevitabile causa di impoverimento. I casi di maggiore difficoltà sono legati all’assenza di legami con i familiari; il welfare italiano interviene
con misure quali gli assegni sociali per fronteggiare queste situazioni, ma paga
problemi strutturali, l’indisponibilità delle risorse e alcune opacità negli obiettivi.
Allora sarà utile esaminare la spesa per la protezione sociale all’anno 2005.26
La spesa per la protezione sociale comprende spese per: prestazioni di protezione sociale, servizi amministrativi, trasferimenti agli Enti dalle Pubbliche Amministrazioni, istituzioni senza scopo lucrativo, interessi passivi, famiglie. Nel
2005 l’Italia ha speso 6.416 euro annui pro capite, collocandosi in posizione intermedia nel panorama europeo, ma comunque al di sopra della media-UE di
6.087 euro pro capite (tavola 2). Rispetto al PIL, la spesa italiana per la protezione sociale è del 26,4%, al di sotto però della media europea del 27,2% (tavola 3).
26
ISTAT, 100 statistiche per il Paese, cit.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
354
Tavola 2
I Paesi caratterizzati da maggior benessere e alto livello di welfare (Francia,
Svezia e Danimarca) impegnano le più risorse sul Pil per la protezione sociale.
Tavola 3
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
355
Si noti come le risorse destinate alle famiglie risultino pari all’1,2 per cento.
Tale situazione include le spese per la tutela della maternità e paternità, assegni familiari, spese per asili nido, strutture residenziali, assistenza domiciliare.
Analizzando la spesa per le prestazioni di protezione sociale in Italia per i
diversi bisogni, la voce “vecchiaia” assorbe oltre il 50% del gettito (tavola 4).
Tavola 4
L’indice di dipendenza si ottiene dal rapporto tra la popolazione in età non
attiva (0-14 anni; 65 anni e oltre) e la popolazione in età lavorativa (15-64 anni).
Tale strumento statistico misura il carico sociale che le generazioni attive devono
sopportare. Dei 27 Paesi dell’ Unione Europea solo 9 (tra cui Francia, Germania
e Regno Unito) presentano valori superiori alla media. Polonia, Repubblica
Ceca e Slovacchia chiudono con i valori più bassi, intorno al 40 per cento.
Anche se rispetto al 2002 è in diminuzione, aumenta l’incidenza di questa
funzione sul PIL, che passa dal 12,6 al 13 per cento. L’anziano quindi si colloca
in una fase del ciclo vitale in cui diventa percettore netto, per lo più di trasferimenti pensionistici e sanitari, da parte dello Stato. Questo perché la quiescenza
lavorativa rappresenta un punto di svolta anche e soprattutto per la vita quotidiana di una persona che deve re-impiegare una cospicua parte del proprio
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
356
tempo dedicata precedentemente al lavoro. Ma allo stesso tempo il dibattito
sull’innalzamento dell’età pensionistica ed il prolungamento del ruolo
professionale dell’anziano sembra andare nella direzione opposta alla visione
di una vecchiaia come definitiva e dignitosa uscita dal mondo del lavoro.
Il problema riguarda più in generale l’ organizzazione sociale del lavoro in Italia: una questione estremamente complessa da affrontare per il mondo politicoeconomico e carica di tensioni sociali che si accumulano ormai da decenni. Le riforme del sistema lavorativo e pensionistico sono connesse l’una all’altra, ma
l’opportunità politica legata alla ricerca del consenso diventa sempre più motivo
di immobilismo e mancanza di volontà di cambiamento. Come Ardigò efficacemente sintetizza, «in certi momenti si insiste sul mantenimento degli attuali inizi
del pensionamento e si operano misure di incoraggiamento all’ulteriore anticipazione[…] per far posto ai giovani. [….] Ma non appena si hanno nuove notizie
sui deficit galoppanti degli istituti previdenziali, allora si avanzano controproposte per posticipare l’età della popolazione in relazione alla mutata struttura della
popolazione e alle condizioni di vita migliorate della popolazione anziana» .27
In ogni caso gli anziani diventano soggetti a forte rischio-povertà proprio
per l’inadeguatezza delle misure adottate, che non risolvono il problema di
fondo legato alla speculazione e all’aumento del costo della vita di fronte ad
una situazione economica generale stagnante, con una mancata tutela del consumo che ha conseguenze anche nella sfera dei diritti personali dei soggetti stessi.
La partecipazione politica
La partecipazione alla vita politica, in Italia come negli altri Stati, è un fenomeno complesso, il cui esercizio certamente rafforza le istituzioni democratiche e
il percorso di formazione delle scelte che andranno ad incidere nella vita dei cittadini. Analizzando il comportamento elettorale della popolazione anziana, emergono alcune importanti considerazioni. Innanzitutto, il processo di inve cchiamento demografico ha portato all’innalzamento del cosiddetto “elettore
mediano”, che «tende ad aument are la remuneratività politica di tutti quegli
interventi che tutelano i diritti dei pensionati e dei lavoratori più anziani».28
In pratica le aspettative degli elettori anziani si concentrerebbero sugli interventi che tendono a favorire il mantenimento di un sistema previdenziale che,
dopo gli “anni d’oro” dei decenni 1960-1970, è passato attraverso la crisi degli
anni ’80, le riforme di ri-calibratura degli anni ’90 e l’attuale transizione verso un
“sistema-multipilastro” o di welfare-mix. Ma la convinzione che gli anziani voti27
A. Ardigò, La condizione anziana: tendenze, contraddizioni e prospettive, in A. Ardirò - S. Porcu R. Sutter (eds), Anziani e politiche sociali nella società post-industriale, Milano, Franco Angeli, 1988, p
32.
28
M. Ferrera, Le politiche sociali, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 111.
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357
no come blocco unitario sui temi a loro sensibili, risulta semplicistica. Infatti
intervengono altri fattori, quali l’appartenenza politica, il livello di educazione,
gli stili di vita, i livelli di benessere, la cui variabilità non fornisce prove definite
che gli anziani oggi si esprimano in maniera compatta e decisa. Alla forte presenza in termini quantitativi degli anziani nel corpo elettorale - ma anche nei
sindacati, la cui funzione di tutela dei diritti del lavoratore non si esaurisce
certamente con l’uscita del soggetto dal mondo del lavoro- non corrisponde dunque l’azione sulla collettività che un simile gruppo di interesse è in grado di esercitare, nei termini della presentazione delle istanze e delle misure da adottare.
Queste linee interpretative sono definitorie anche per gli altri soggetti a rischio-marginalizzazione. Le fasce deboli della popolazione infatti sono individuabili rispetto alle variabili generazionali (età), al mo ndo delle relazioni (capitale sociale), allo stato di benessere psico-fisico (salute), alla centralità economica
(lavoro e sicurezza sociale) e alla rappresentanza e partecipazione politica.
Una riflessione conclusiva: la complessità e la differenziazione degli ambiti di
vita, i mutamenti in atto nella società rendono difficile la comprensione e la tipizzazione delle esperienze relative alle generazioni anziane. I cinque aspetti appena individuati si pongono perciò come “assi di strutturazione” dell’essere anziano, su cui operare in termini di conoscenza degli orientamenti e di individuazione delle cause di disagio/marginalizzazione. Questo aspetto si pone ormai come passaggio obbligato per la costruzione di interventi efficaci di “social policy”.
La rilevanza del problema all’interno del disegno complessivo dell’opera si
concreta nell’evidenza del procedimento di tematizzazione degli aspetti fondanti
dell’anzianità; nell’interdipendenza dei rapporti di causa/effetto di cui ognuno
degli indicatori individuati è costituito; nell’assecondare il lettore rispetto alla
necessità di un’esposizione sintetica; nell’offrire all’operatore sociale un possibile strumento di aiuto nel lavoro sul campo. Il contatto diretto con i soggetti bisognosi e la conoscenza delle problematiche che interessano la loro condizione devono inserirsi in un quadro complessivo di solidità teorica/efficacia materiale.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
358
3. I servizi agli anziani: il quadro di riferimento e l’erogazione alle persone
Esistono varie definizioni di “politica sociale”, ognuna delle quali tiene conto
della re-distribuzione delle risorse, degli interventi basati sui bisogni, dei soggetti
a cui vengono erogati i servizi, dei meccanismi economici che regolano la società. Ai fini della nostra riflessione, risulta adeguata la posizione per la quale la politica sociale è l’insieme più o meno coerente di principi e delle azioni che determinano la distribuzione e il controllo sociale del benessere per via politica.29
Il welfare-state così definito quindi, si rivolge ai cittadini-attori sociali e
prevede la politica come forma regolativa, come attivatore di relazioni tra i
cittadini stessi. Per quanto riguarda i servizi erogati, le misure di ”policy” attive
nel nostro Paese si connotano ancora per una visione assistenzialistica, basata
sull’equazione anziano = non autosufficiente. E’ questo uno degli ostacoli
più difficili da rimuovere per il miglioramento del sistema italiano di aiuto/protezione/assistenza. La prospettiva generale del welfare state dunque
«pone l’esigenza di una riorganizzazione delle politiche sociali per la
vecchiaia con forti segni di discontinuità, che non può ridursi a un problema di
differenziazione funzionale di interventi socio-sanitari e socio-assistenziali». 30
Il punto di svolta consiste nel fatto che il bisogno, piuttosto che l’età, dovrebbe
essere la base per i servizi a gruppi mirati e selezionati. In tal modo, individuando con gli strumenti più opportuni le vere necessità degli anziani, le misure adottate risulteranno concretamente efficaci e rispondenti; la selezione degli obiettivi
consentirà, poi, una migliore gestione delle risorse e degli sprechi. Ma non si può
prescindere dal coinvolgimento e dalla partecipazione dei soggetti-attori nel percorso che porta all’implementazione e alla valutazione delle politiche sociali. Un
concetto cardine, che non si riduce unicamente alla codificazione di un sistema di
normative e procedure di difficile applicazione. La partecipazione dovrebbe imporsi come “forma mentis” per i membri di una comunità che vive in un tempo di
crescente differenziazione sociale e culturale. D’altra parte, la conoscenza degli
strumenti legislativi in materia di politica sociale diventa importante per costruire
una cornice di riferimento in cui inserire e coordinare i progetti e gli interventi.
In tal senso, un provvedimento fondamentale risulta essere la Legge-Quadro
328/2000 – Per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Essa prevede la costituzione di un “ sistema attivo di protezione sociale”,
volto a garantire: la qualità della vita, le pari opportunità tra i soggetti, la non discriminazione e i diritti di cittadinanza (ovvero il nucleo delle prestazioni che riguardano i diritti sociali); il passaggio dal mero assistenzialismo all’aiuto inteso
come responsabilità prevede il pieno coinvolgimento di tutti gli stakeholders
29
M. Tognetti Bordogna, Lineamenti di politica sociale, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 24.
S. Porcu, Anziani e politica sociale: innovazioni organizzative e processi sociali di apprendimento in
Ardigò - S. Porcu - R. Setter (eds), Anziani e politiche sociali nella società post-industriale, cit., p. 39.
30
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
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(portatori di interesse), dallo Stato al terzo settore. Il sistema pubblico in particolare è chiamato a misurarsi sul terreno della pianificazione/regolazione della rete
di protezione sociale, oltre all’erogazione delle stesse prestazioni (ma non più in
posizione di esclusività). L’art. 15 è dedicato al sostegno domiciliare per le persone anziane non autosufficienti: in esso sono stabilite le competenze del Servizio Sanitario Nazionale, le ripartizioni dei criteri di finanziamento per il Fondo
Nazionale delle Politiche Sociali, il coordinamento dei livelli progettuali e di intervento tra soggetti pubblici e privati. In sostanza, si ribadisce la volontà di favorire l’autonomia delle persone anziane e la permanenza nell’ambiente familiare.
Per rendere operante la Legge 328/2000 si è preferito un approccio federalista
nei termini della sussidiarietà, principio in base al quale le funzioni pubbliche
devono essere esercitate al livello più vicino ai destinatari, concetto più che mai
valido se si parla di servizi alla persona. In particolare, per l’art. 8 comma 1 della
Legge Quadro “le Regioni esercitano le funzioni di programmazione, coordinamento e indirizzo degli interventi sociali nonché di verifica della rispettiva attuazione a livello territoriale e disciplinano l’integrazione degli interventi stessi”.
Sono, invece, i Comuni, singoli o associati, che governano l’intera rete dei
servizi sociali e concorrono con le Province ai livelli di programmazione stabiliti
dalla legge. Alla base della distribuzione dei livelli appena descritti tra le istituzioni vi è senza dubbio la modifica dell’art 117 del titolo V della Costituzione.
La Legge Costituzionale 3/2001 ha modificato il regime di riparto delle funzioni tra Stato e Regioni, secondo lo schema competenze esclusive dello Stato
(art. 117 comma 2) -competenze concorrenti regionali (comma 3)- competenze
residuali regionali (comma 4). La nuova regolazione ribalta il precedente principio di distribuzione delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni: la
competenza legislativa regionale aumenta e diventa esclusiva in materia di servizi sociali, organizzazione sanitaria, formazione professionale ed istruzione. L’art.
117, comma 2, lettera m della Costituzione prevede che lo Stato mantenga la
competenza a determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
Le misure in favore dell’anziano rappresentano un pilastro portante
nell’impalcatura generale del welfare italiano. Al fine di una maggiore comprensione del fenomeno, verrà preso in considerazione il modo in cui le dinamiche
demografiche in atto e l’incidenza quantitativa del sostegno alla vecchiaia
nella forma di pensioni e assegni sociali influenzano lo stato di questo
pilastro. Che sicuramente necessita di “lavori di manutenzione” inevitabili
ed improrogabili, affinché le fondamenta del castello del welfare non crollino.
L’invecchiamento della popolazione dunque, combinato con un tasso di natalità tra i più bassi del panorama europeo (pari al 9,5 per 1000 abitanti, con una
media UE del 10,4), comporta uno squilibrio della “bilancia sociale”. Al contempo, la popolazione in età lavorativa è sovraccaricata di oneri verso le generazioni
più anziane, come dimostra l’indice di dipendenza. Questo nel 2006 si è attestato
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly 360
al 51,6%, collocando l’Italia al 5° posto della graduatoria Europea dopo Francia,
Svezia, Belgio e Danimarca (tavola 5).
Tavola 5
PIRAMIDE delle ETA' della POPOLAZIONE
in Regione LIGURIA al 2005
95-w
90-94
85-89
80-84
75-79
70-74
65-69
60-64
55-59
50-54
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
10-14
05-09
00-04
80.0 00
60.0 00
40.000
20.000
0
20.000
40.000
60.000
80.000
Gli istogrammi rossi rappresentano la componente femminile, quelli blu
la componente maschile. La conformazione “a botte” della struttura demografica
ligure viene notevolmente accentuata dalla rappresentazione grafica.
Il sistema-welfare deve affrontare una situazione di “disequilbrio generazionale” per cui le risorse destinate alle politiche di protezione sociale sono sempre di
meno, mentre aumenta la domanda dei beneficiari. Il modello di politiche sociali
adottato in Italia si può definire “combinatorio”. Il welfare italiano cioè è da un
lato “universalistico”, dato che i servizi erogati coprono con un unico bacino di
redistribuzione la totalità dei cittadini esposti al rischio; dall’altro la rete di protezione è frammentata secondo demarcazioni occupazionali, che originano particolarismi nel trattamento dei casi di bisogno. In sintesi, lo stato sociale italiano, per
garantire una copertura universale dei propri cittadini-stakeholders, preleva contributi sempre più alti dalle categorie lavorative in attività. Il sistema-welfare,
quindi, presenta una distorsione distributiva per la quale vi è un netto divario di
accesso alle prestazioni e loro generosità fra le diverse categorie occupazionali.
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Per l’Istat (2005) 31, i titolari di pensioni di vecchiaia (corrisposte al raggiungimento di determinati limiti di età anagrafica e di anzianità contributiva)
sono 10,9 milioni, di cui il 55,4% uomini, che percepiscono il 64,2% dei
redditi pensionistici a causa del maggior importo medio delle loro entrate:
Osservando la tabella che mostra la composizione per età, i beneficiari delle
pensioni di vecchiaia sono per la maggioranza compresi nella fascia 65-79 anni
(57%); il 14,9% ha più di 79 anni; ma una quota consistente di precettori (28,1%)
ha un’età compresa fra i 40 e i 64 anni, inferiore ai criteri di “vecchiaia” individuati dal Legislatore. I pensionati della fascia 65-79 anni percepiscono un importo medio annuo di 14,260 euro, gli ultrasettantanovenni raggiungono i 15.487 euro: si nota come le cifre siano inferiori rispetto ai redditi pensionistici degli “under 65”, che ricevono 16.905 euro annui:
31
ISTAT - INPS, I beneficiari delle prestazioni pensionistiche (anno 2005), 11/1/2007. Le tavole riportate relative alle pensioni sociali/di vecchiaia si trovano alle pp. 14 (tav. 7), 16 (tav. 12), 22 (tav. 34), 23
(tav. 37).
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362
Le pensioni o assegni sociali sono erogati ai cittadini ultrasessantacinquenni
sprovvisti di redditi minimi, agli invalidi civili e ai sordomuti al compimento del
65esimo anno di età. I beneficiari sono 769.497 (dato cumulato con altre pensio
ni). Le donne rappresentano il 71,3%, con una spesa pari al 65,3% del totale:
L’82,5% dei fruitori di queste prestazioni di aiuto è compreso fra i 65 e i 79
anni; il 96,2% percepisce redditi di importo inferiori ai 1.500 euro:
Il rischio “vecchiaia” presenta una duplice sfida, sui versanti della dimensione
dei diritti agli assicurati e su quello degli equilibri di spesa pubblica. L’anziano
deve beneficiare di un livello di protezione di base, della sicurezza economica e
di un reddito adeguato che non sia troppo inferiore a quello percepito nella vita
attiva. D’altra parte le scelte di policy-making continueranno ad orientarsi verso
la selettività degli interventi, la riduzione dei costi e la compartecipazione di
soggetti non statali nell’implementazione delle politiche di tutela della vecchiaia.
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363
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PROGETTI E VALUTAZIONI
Riflessione valutativa su un progetto Urban II
Silvia Cervia
Dottoranda in Storia e Sociologia della modernità’ presso l’Università di Pisa, Dipartimento di
Scienze Sociali, è specializzata in programmazione e sviluppo regionale e governance locale. Si
dedica principalmente allo studio degli effetti degli strumenti di programmazione per lo sviluppo territoriale dell’Unione Europea in termini di sviluppo dei capitali presenti sul territorio (naturale, economico,
umano, sociale e simbolico), di capacity building e di attivazione di dinamiche e prassi partecipative.
[email protected]
Abstract
Attraverso il presente articolo si intende offrire una possibile lettura valutativa di uno
dei progetti di sviluppo urbano promossi dall’Unione Europea (progetto Urban II).
Il progetto in questione ha interessato la città di Carrara a partire dall’anno 2000 e si
concluderà nel 2008. Partendo dalla peculiarità dell’Iniziativa in esame e dai suoi
strumenti tipici, l’indagine valutativa condotta è orientata ad indagare le potenzialità
concrete del programma, oggetto della riflessione, di incidere sulla capacity amministrativa e istituzionale. Riteniamo infatti che in tale outcome possa essere riconosciuto
l’obiettivo ultimo perseguito dall’UE attraverso la promozione del programma in
esame - e delle politiche strutturali in genere - in quanto ritenuto capace di dotare
il ‘sistema territoriale’ beneficiario dell’intervento di competenze e strumenti idonei a
innescare e sostenere una auto-rigenerazione socio-economica processiva e sostenibile.
Si precisa, infine, che la riflessione condotta e qui presentata ha potuto svilupparsi grazie al materiale raccolto durante una ricerca sul campo condotta a Carrara a cavallo
tra il 2005 e il 2006, commissionata dal Comune di Carrara, e rivolta a verificare
il coinvolgimento degli attori del territorio nella realizzazione del progetto stesso.
Indice
Introduzione
1. Il concetto di «Capacity»
2. «Capacity» e obiettivi dell’IC Urban
3. La struttura della riflessione valutativa
4. La strategia integrata
5. La struttura intersettoriale
6. L’amministrazione locale e il partenariato
7. I “settori occasione”
8. Partenariato orizzontale a livello europeo
9. Considerazioni conclusive
Bibliografia di riferimento
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Introduzione
Partendo dalla ricerca condotta sul campo rivolta a riscontrare gli effetti prodotti dall’implementazione dell’Iniziativa Comunitaria (IC) Urban II nella città di
Carrara, a cavallo del quarto/quinto anno di attuazione 1, il presente lavoro intende valutare nello specifico gli aspetti del programma rivolti al trasferimento di
know-how, attraverso un processo del learning by doing di conoscenze e competenze afferenti alla cultura del partenariato/governance (cfr. paragrafo 1) in favore degli attori coinvolti, e, in primis, dell’amministrazione comunale.
In considerazione delle peculiarità dell’Iniziativa in esame e dai suoi strumenti
tipici, l’indagine valutativa si rivolgerà nello specifico ad evidenziare le potenzialità concrete del programma, oggetto della riflessione, di incidere sulla capacity
amministrativa e istituzionale – il termine capacity si riferisce alla specifica capacità di una istituzione di mobilitare le risorse presenti nel territorio di riferimento e di elaborare e poi implementare specifiche strategie di azione (Vecchi
2004, 67). Riteniamo infatti, e cercheremo di dimostrarlo, che in tale outcome
possa essere riconosciuto l’obiettivo ultimo perseguito dall’UE attraverso la
promozione dell’IC in esame (e delle politiche strutturali in genere), in quanto ritenuto capace di dotare il ‘sistema territoriale’ beneficiario dell’intervento2 di
competenze e strumenti idonei a innescare e sostenere una auto-rigenerazione socio-economica processiva e sostenibile.
Utilizzando la matrice LFA (Logical Framework Approach) – che puntualizza
la logica dell’intervento del progetto (collegando le attività intraprese ai risultati
perseguiti e agli obiettivi del programma secondo nessi causali) – individueremo
le azioni progettuali, e un set di indicatori, più direttamente riferibili al nostro
oggetto di studio; tale passaggio ci consentirà anche di contestualizzare l’analisi
valutativa sulle potenzialità modificative – definite sulla base della struttura del
programma e del contesto di azione – espresse dallo specifico programma in esame.
Utilizzeremo quindi le informazioni disponibili per misurare il livello degli indicatori individuati, così come registrati al quinto anno di applicazione del programma, per chiudere la riflessione valutativa con delle ipotesi da verificare expost sugli impatti del programma (rilevati dopo un congruo periodo di tempo dalla conclusione dell’implementazione).
1
La ricerca si è svolta in un periodo di tempo di 6 mesi a partire da ottobre 2005. In funzione degli obiettivi della ricerca commissionata sono stati individuati i soggetti che avrebbero costituito il target di
riferimento della ricerca: agenzie immobiliari, anziani, artigiani, commercianti, donne, funzionari del comune, fruitori del centro storico e giovani; l’area geografica di riferimento è stata individuata nel centro
storico, che costituisce una porzione specifica e peculiare dell’area bersaglio del programma. Le metodiche utilizzate: focus group (n.8) e interviste semistrutturate a testimoni privilegiati (n.12).
2
L’accezione di beneficiario, qui utilizzata, è quella data dal regolamento dei Fondi strutturali (Reg.CE
1262/99) che li individua come «gli organismi e le imprese pubbliche o private responsabili della committenza delle operazioni».
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1. Il concetto di «Capacity»
Il miglioramento della capacità amministrativa e istituzionale risulta sempre
più spesso come obiettivo di riferimento dei programmi di sviluppo socioeconomico, qualche volta indicato in modo esplicito ma molto più spesso in modo implicito. Questo perché la pubblica amministrazione è concepita come uno
dei fattori essenziali per lo sviluppo e la competitività di una regione (Vecchi
2004, 68). In riferimento, nello specifico alle politiche di coesione territoriale
dell’UE, alcune ricerche (Batterbury, Kelleher e Stern 1999) sottolineano come i
Fondi strutturali della UE abbiano comportato effetti significativi proprio sulla
capacity building degli Stati Membri.
Se la recente letteratura sulle politiche pubbliche affronta la tematica in due
correnti di riflessione, una legata all’approccio del New public management – orientato ad analizzare le competenze legate al miglioramento dell’efficacia ed
dell’efficienza delle istituzioni pubbliche – e l’altra alla governance – che pone
invece l’attenzione, in un sistema sempre più caratterizzato da una pluralità di attori e interessi, sulle «capacità della pubblica amministrazione di prestare attenzione alle interazioni tra i vari attori, pubblici e privati, che si mobilitano nel corso dei processi di formulazione e attuazione delle politiche» (Vecchi 2004, 74) –,
è a partire dai principi di funzionamento individuati da quest’ultima (integrazione
verticale, integrazione orizzontale, management dei conflitti sociali, sviluppo del
capitale sociale; ivi, 76) che definiremo il nostro campo di indagine.
Il decision maker pubblico si trova nella difficile posizione di mediare tra gli
interessi espressi da una pluralità crescente di attori istituzionali (moltiplicati da
fenomeni quali l’integrazione sovra-nazionale, il decentramento amministrativo,
processi di federalismo/regionalismo spinto ecc…) e non (anch’essi aumentati
dalla crisi dei tradizionali organismi intermedi, a cui va affiancandosi un numero
progressivamente crescente di attori non pubblici, rappresentanti di interessi specifici e settoriali). La letteratura sulla governance3 evidenzia come, in molti ambiti di policy, non sia possibile assumere il punto di vista di un singolo attore,
seppure istituzionale, per impostare delle azioni che si pretendono avere carattere
generale. Allora si comprende come la capacità istituzionale relativa alle modalità con le quali l’attore pubblico «è in grado di perseguire i propri obiettivi selezionando le strategie di interazione con gli altri soggetti, in particolare in una
prospettiva di cooperazione e collaborazione, rafforzando gli strumenti in grado
di supportare queste scelte» (ivi, 75) assuma un ruolo determinante per supportare lo sviluppo territoriale, a qualunque livello. Si intravede, a questo punto, la
portata di impatti programmatici che interessino direttamente, attraverso
l’approccio sperimentale del learning by doing, quest’aspetto della capacità amministrativa e istituzionale, in termini di sostenibilità dei processi di sviluppo.
3
Ci limitiamo a riferirci alla letteratura legata al concetto di governance come strumento per accrescere
il livello democratico di una società, secondo un approccio partecipativo alla democrazia, portato avanti,
ad esempio, dalla Commissione Europea nel famoso Libro Bianco (2001).
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Riprendiamo tra gli elementi proposti da Vecchi (ibidem), a supporto delle ricerche di valutazione dei processi di attuazione, quelli più strettamente afferenti
al nostro ambito di interesse (governance) ricostruendo il quadro logico che dal
principio di riferimento conduce all’obbiettivo generale e conseguentemente a
quello/i specifico/i del singolo programma. Tale operazione ci consentirà di individuare obiettivi e azioni la cui presenza (o assenza) nel programma in esame denuncerà (o meno) il perseguimento di obiettivi legati alla capacity building in
un’ottica di governance.
PRINCIPIO
INTEGRAZIONE
VERTICALE
INTEGRAZIONE
ORIZZONTALE
M ANAGEMENT
DEI CONFLITTI
SOCIALI
SVILUPPO DEL
CAPITALE SOCIALE
CAPACITÀ
Capacità di raggiungere accordi di collaborazione tra i
vari livelli di governo (locale,
regionale, nazionale…), a
partire dalle due direzioni
(top-down e bottom-up)
Interorganizzativa:
Capacità di coordinare e
concentrare gli interventi
condotti dalle varie articolazioni delle istituzioni (integrazione intersettoriale)
Sociale:
Capacità di affrontare problemi collettivi attraverso il
coinvolgimento degli attori
sociali, profit e non profit
OBIETTIVO
CATEGORIE DI AZIONI
SPECIFICO
migliorare la formula- adozione di metodologie e tecniche di valutazione delle politiche zione ex ante
promozione di accordi quadro
sviluppo di progetti in partenariato con altre
sviluppare le relazioamministrazioni
ni intergovernative
sviluppo di forme di coinvolgimento tendenti
alla co-responsabilizzazione
diffusione reti informative
integrazione dei back office tra amministrazioni
sviluppare le ICT
diffusione sportelli unici
utilizzo di tecnologie interattive
sviluppo dei innovazione nella produzione ed
erogazione dei servizi
sostenere le innova- sviluppo di innovazioni organizzative
zioni
sviluppo di esercizi di benchmarking
manutenzione di una cultura orientata al cambiamento
sviluppare la coope- promozione di forme di integrazione in piani,
razione intersettoriale progetti, ecc…
sviluppare la cooperazione orizzontale
promozione di accordi quadro terzo settore e
settore privato
sviluppo di progetti in partenariato con amministrazioni dello stesso livello
sviluppo di forme di coinvolgimento tendenti
alla co-responsabilizzazione
sviluppo di banche dati per sostenere le analisi
sviluppare l’analisi e i monitoraggi per un controllo accurato
sull’ambiente esterno
utilizzo di strumenti di scenario drafting
alle istituzioni
promozione della valutazione ex -post
adozione di processi di consenus building
gestire i conflitti
diffusione del coinvolgimento degli stakeholders
Capacità di mettere in atto
manutenzione delle relazioni con e tra gli staazioni che hanno come obietkeholders
tivo l’aumento del capitale
promozione di processi di deliberative demosociale di un territosviluppare il capitale cracy
rio/regione; in modo da misociale
sviluppo della valutazione indipendente
gliorare l’efficacia delle forma
di partenariato e di coinvolpromozione dell’associazionismo tra i cittadini
gimento degli stakeholders
Capacità di disporre di strumenti per il superamento dei
conflitti sociali che vadano
oltre gli strumenti direttivi, e
verso il problem solving e
dispute resolution
Figura 1: combinazione di due schematizzazioni di Vecchi (2004, 76 e 78) la prima relativa ai principi della governance e la seconda relativa all’individuazione delle azioni dirette all’obiettivo della mo dernizzazione delle strutture pubbliche, questo secondo utilizzato in riferimento alla sua seconda parte,
ritenuta più direttamente riferibile ai principi della governance.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
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2. «Capacity» e obiettivi dell’IC Urban
L’Iniziativa Comunitaria Urban II (relativamente al periodo di programmazione 2000-2006) persegue l’obiettivo esplicito della promozione di strategie innovative per la rigenerazione economica e sociale di paesi e città di piccole e medie
dimensioni e delle aree urbane in crisi negli agglomerati urbani più grandi anche
attraverso il sostengo ad una piattaforma europea per lo scambio delle conoscenze e delle esperienze sulla rigenerazione e sullo sviluppo urbano sostenibile.
Gli strumenti principali utilizzati nell’impianto programmatico dell’Iniziativa 4 possono essere schematizzati attraverso la riconduzione ai seguenti punti:
1. approccio integrato e multisettoriale: che prevede l’individuazione, fin
dalla fase programmatica, di interventi sinergici afferenti ai diversi settori delle
politiche pubbliche (viabilità, attività produttive, edilizia pubblica, formazione e
lavoro, politiche sociali e culturali, ecc.) allo scopo di migliorare l’efficacia
dell’intervento, in termini di promozione dello sviluppo economico e occupazionale, recupero infrastrutturale e integrazione sociale delle fasce di popolazione
più deboli ed emarginate;
2. concentrazione delle risorse finanziarie disponibili in aree ristrette e predeterminate; tale approccio segna il superamento della tradizionale impostazione
delle politiche di intervento ispirata a criteri di "equa ripartizione" – che nelle aree urbane conduceva ad una diffusione egualitaria delle stesse nelle diverse aree
delle città – in favore di una strategia che intende valorizzare specifiche potenzialità ritenute capaci di innescare dinamiche di sviluppo propulsivo per l’intero territorio di riferimento. Questa scelta comporta anche l’individuazione di aree/settori/soggetti «occasione» sui quali concentrare le risorse disponibili in funzione di una loro supposta maggiore e migliore capacità diffusiva, propulsiva e
processiva delle dinamiche virtuose di sviluppo;
3. centralità del partenariato (istituzionale, c.d. ‘verticale’, e non, c.d. ‘orizzontale’); che prevedendo una forte concertazione del programma di intervento, a
partire dalla fase preparatoria e fino alla realizzazione delle iniziative, tra Commissione Europea e le autorità istituzionali competenti (‘partenariato verticale’)
e tra queste ultime e gli attori locali (‘partenariato orizzontale’), è ritenuto elemento determinante per la sostenibilità del progetto di riqualificazione.
È agevole a questo punto dimostrare come i punti appena elencati siano direttamente collegabili a capacità dell’amministrazione che costituiscono il contenuto dei principi della capacity building in un’ottica di governance (indicati in figura 1): il primo elemento non rappresenta altro che una declinazione del principio
dell’integrazione orizzontale interorganizzativa, nel secondo elemento si possono
4
Individuati dalla Commissione UE attraverso un percorso durato oltre dieci anni di pratica progettuale
– improntata al Project Cycle Management – di riqualificazione urbana. Le prime sperimentazioni sono
iniziate, a partire dai primi anni ‘90, con i Progetti Pilota in ambito Urbano, per essere poi strutturate
all’interno delle ord inarie politiche di coesione dell’UE, con la definizione dell’Iniziativa Comunitaria
Urban (1994/1999) confermata anche per l’attuale fase di programmazione (2000-2006, Urban II).
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
369
individuare contenuti collegabili al principio dello sviluppo del capitale sociale e
al management dei conflitti sociali – considerando che i/il settori/e occasione
rappresentano un ambito di sperimentazione di azioni atte a migliorare la conoscenza e la pratica dell’amministrazione rispetto all’ambiente esterno alle istituzioni, diffondere il coinvolgimento degli stakeholders, sostenere relazioni con e
tra gli stakeholders, promuovere l’associazionismo tra i cittadini, sperimentare
(nel senso di fare pratica di) processi di consenus building e di deliberative democracy – mentre il terzo è chiaramente l’applicazione del principio di integrazione verticale e orizzontale (sociale).
Se è vero, come è vero, che la finalità prima dell’Azione Strutturale Comunitaria è orientata a diffondere un know-how – fatto di conoscenze, competenze tecniche e gestionali – capace di informare stabilmente il sistema beneficiario, in
questo caso sembra che il contenuto di know-how riguardi la “diffusione della
cultura del partenariato” e che il destinatario primo sia proprio l’ente istituzionale
coinvolto più direttamente (nel caso italiano: il Comune).
L’obiettivo della valorizzazione/capitalizzazione delle risorse presenti sul territorio è perseguito attraverso un vincolo progettuale, che obbliga il beneficiario
dell’intervento (amministrazione locale) a programmare e implementare in
partnership con gli altri attori del territorio, allo scopo di far “sperimentare” (in
ottemperanza alla strategia del learning by doing) l’efficacia della strategia partenariale e di trasformarla nel modus operandi preferenziale dell’amministrazione locale.
Ulteriori elementi, a sostegno dell’attribuzione di centralità nell’IC Urban
all’obiet-tivo dell’aumento di competenze e capacità dell’amministrazione pubblica, possono essere individuati negli esiti della valutazione compiuta a conclusione della fase precedente della stessa iniziativa 5 (Urban I, 1994/1999) – che
dimostrano la rilevanza attribuita dal valutatore europeo a tale aspetto, in riferimento alla sua capacità di influenzare e condizionare l’efficacia dell’intero impianto progettuale – nonché negli elementi di modifica dell’impianto programmatico introdotti nella seconda fase dell’iniziativa 6 – rivolti ad aumentarne
l’efficacia alla luce dei primi risultati di valutazione in itinere compiuti sulla
prima fase 7. Entrambe queste fonti confermano la rilevanza strategica attribuita
alle competenze e al modus operandi della pubblica amministrazione. La valutazione ex-post ha individuato i seguenti elementi favorenti il successo dei programmi Urban8.
5
GHK, Ex-post evaluation, Urban Community Initiative (1994-1999), Bruxelles, agosto 2003.
Commissione europea, Orientamenti relativi all'iniziativa comunitaria concernente la rivitalizzazione
economica e sociale delle città e delle zone adiacenti in crisi, per promuovere uno sviluppo urbano sostenibile. Urban II, Comunicazione del 28.4.2000, pubblicata nella GU C 141 del 19.5.2000
7
Commission européenne, Initiative communautaire URBAN 1994-1999. Un premier bilan, Document
d’information des services, Bruxelles, Janvier 2000
8
L’ordine di importanza riportato è riferito ai soli programmi italiani, in quanto uno degli elementi che
influenza le valutazioni risulta essere il complesso burocratico amministrativo in cui le città sono inserite.
6
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
370
SCALA
ELEMENTI FAVORENTI IL SUCCESSO PROGETTUALE
VAL ORIALE
I.
II.
III.
IV.
IV.
IV.
IV.
VIII.
VIII.
VIII.
aver condotto una predisposizione del programma completa, caratterizzata da azioni rivolte alla
pianificazione e alla valutazione dei bisogni;
forte capacità di direzione in tutte le fasi di attuazione del programma;
supporto politico e cooperazione (istituzionale);
la combinazione di Urban con pre-esistenti programmi di rigenerazione;
la selezione e la combinazione dei progetti;
la predisposizione di un approccio integrato con un forte partenariato;
forte supporto e cooperazione da parte del settore privato;
percezione da parte della popolazione residente del progetto Urban;
marketing e promozione del progetto stesso;
forte comunicazione tra i vari livelli di management del programma Urban.
Tabella 1: nell’ultima colonna è indicato il tipo di “rete” potenzialmente coinvolto nella realizzazione
della caratteristica riportata nella colonna centrale. Abbiamo evidenziato sottolineando il testo, gli elementi che riguardano più direttamente il “sistema rete” implementato (cfr. GHK 2003, 31)
Tale sistematizzazione deve essere letta in parallelo con una ulteriore categorizzazione che riguarda gli elementi indicati, dallo stesso target di riferimento,
come elementi di ostacolo/impedimento al raggiungimento degli obiettivi del
programma:
ELEMENTI DI OSTACOLO PER IL SUCCESSO PROGETTUALE
carenza di supporto al programma da parte del settore privato;
resistenze interne alla comunità locale rispetto al programma Urban;
carenza di partecipazione della comunità locale negli aspetti legati all’organizzazione e
all’implementazione del programma;
scarso livello di completezza nella predisposizione del programma, con assenza/scarsità di azioni di pianificazione
e di valutazione dei bisogni.
Tabella 2: in questo caso non è riportata la posizione degli elementi in funzione della scala valoriale in quanto risultano posizionati tutti al primo posto (cfr. GHK 2003, 32).
Notiamo anzitutto come gli elementi critici riguardino tutti direttamente la
struttura partenariale – nello specifico quella orizzontale – e bilancino in questo
modo il criterio ordinativo degli elementi favorenti che, pur citando i fattori legati alla condivisione della strategia di intervento, li relegavano in posizioni di secondo piano rispetto ad altri fattori più direttamente collegabili all’impianto programmatico in senso stretto. In riferimento al primo elemento della prima tabella,
e ultimo – in ordine di citazione – della seconda, le sperimentazioni condotte, e
sistematizzate in buone prassi amministrative (Interact 2004, 22 e ss9), sottolineano come la fase relativa all’analisi ex-ante risulti determinante per la costruzione di un partenariato (verticale e, soprattutto, orizzontale) effettivo capace di sostenere il programma in tutte le sue fasi e di garantirne la sostenibilità nel tempo:
a condizione che venga condotta in modo partecipato e allargato agli attori (isti-
9
Interact è una rete tematica realizzata nell’ambito dell’Azione Chiave : «Città del futuro e patrimonio
culturale» (V° Programma quadro di ricerca dell’UE)
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
371
tuzionali e non) del territorio10. Inoltre, ai nostri fini, rileva evidenziare come la
valutazione condotta sul programma Urban I si riferisca agli effetti rilevati a conclusione dell’iniziativa, mentre una valutazione della capacità di autopropulsività delle dinamiche di sviluppo innescate, sulle quali gli elementi della
nostra riflessione dovrebbero assumere rilevanza determinante, avrebbe bisogno
di una valutazione ex-post effettuata dopo un congruo periodo di tempo
dall’inizio del funzionamento a regime del progetto. A supporto della nostra tesi
ci basta evidenziare come la valutazione ex-post conclusiva rilevi la centralità
degli elementi oggetto della nostra riflessione per gli stessi esiti progettuali.
In riferimento invece alla questione relativa alle modifiche apportate alla struttura dell’Iniziativa Urban II rispetto alla precedente, rileviamo come, al di là di
modifiche tecniche – legate alla dimensione delle città ammesse a beneficiare del
programma, al finanziamento monofondo (FESR) e alla definizione di un set di
indicatori comuni per la valutazione – le modifiche a carattere più strutturale riguardino da vicino due elementi legati alle potenzialità di apprendimento di capacity da parte dell’amministrazione, attraverso lo strumento del partenariato. La
prima modifica afferisce al partenariato verticale – nello strutturare il ruolo
dell’amministrazione locale la Commissione ha voluto recuperare una struttura di
rapporto diretto UE-città, intendendo in questo modo garantire le migliori occasioni in termini di acquisizione di conoscenze – e la seconda all’inserimento nel
programma di una linea di finanziamento diretta alla costruzione di una rete europea per lo scambio di “buone prassi” tra le città coinvolte dai programmi di rigenerazione urbana – la Commissione ha inteso in questo modo favorire occasioni tematiche di auto-apprendimento e scambio reciproco. Il finanziamento diretto
da parte della Commissione europea di una simile piattaforma di scambio testimonia la significatività attribuita a livello europeo alla strutturazione di “reti” di
scambio, di riflessione comune, di elaborazione di strategie di intervento; a ciò si
aggiunga che, andando ad osservare gli items di riflessione comune in cui le città
hanno strutturato il programma11, la riflessione e lo sviluppo di strategie e metodi
rivolti all’elaborazione di policy making condivise assurge a un ruolo centrale
nella riflessione delle stesse città coinvolte – in riferimento alla partecipazione
della cittadinanza: Young citizen’s project; Young people: from exclusion to inclusion; Partecipando; Citiz@move; al tema più specifico del coinvolgimento
della cittadinanza nei processi di rigenerazione urbana: Regenera; nonché
all’attivazione di un partenariato pubblico-privato: Partners4action; Cit-um;
Phyre 12.
10
Del resto è piuttosto intuitivo che la sintesi, anche programmatica, discenda dall’analisi, se questa
non è comune con maggiore difficoltà si troverà un accordo sulla sintesi …
11
Il bando per l’assegnazione dei finanziamenti dedicati alla realizzazione della piattaforma europea
per lo scambio delle buone prassi in ambito urbano, è stato vinto da un programma francese denominato
Urbact (sito web di riferimento: www.urbact.org )
12
Della generazione Urban I non risultano ad oggi inserite in modo attivo nelle reti di Urbact: Cagliari,
Catanzaro, e Trieste; mentre della generazione in corso di programmazione, Urban II, risulta non partecipare alle attività di nessuna delle reti, oltre a Carrara, solo la città di Caserta.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
372
3. La struttura della riflessione valutativa
Avendo dimostrato la centralità dell’obiettivo dell’aumento di competenze e
capacità dell’amministrazione pubblica (nello specifico: diffusione della cultura
del partenariato/governance a livello locale), che seppur implicito risulta determinante per il buon esito dell’obiettivo operativo dell’IC Urban (riqualificazione
urbana: infrastrutturale, economica e sociale), lo trasponiamo nella matrice LFA
(Commissione europea, 2001a, 14, figura 3), per collegarlo secondo nessi causali
ad azioni specifiche dell’IC in esame, per poi da queste dedurre gli ambiti in cui
individuare gli indicatori che andremo a rilevare nello specifico programma in
esame.
OBIETTIVI
GENERALI
OBIETTIVI
SPECIFICI
RISULTATI
diffondere la cultura del partenariato / governance a livello locale
partenariato orizzontale
partenariato verticale
interorganizzativo
sociale
diffondere l’approccio intersettoriale nelle politiche pubbliche
coinvolgere gli attori locali nelle
varie fasi del processo di programmazione
acquisizione consapevolezza
efficacia politihe intersettoriali
aumentato
consapevolezza importanza condivisione delle scelte progetuali,
aumentato
grado di collaborazione intersettoriale aumentato
aumento del ricorso a progetti/interventi intersettoriali
AZIONI
STRATEGICHE
forte grado di intersettorialità tra
gli assi/misure/azioni
consapevolezza possibilità della
p.a. di favorire meccanismi di sviluppo del capitale sociale, aumentato
grado di fiducia nella pa , aumentato
grado di partecipazione di cittadini e stakeholders nelle scelte della
pa , aumentato
diffondere la conoscenza di strumenti e metodi
della programmazione comunitaria
aumentare occasioni di scambio diretto tra
amministrazione locale e Ue
diffondere le buone prassi sperimentate
in ambito urbano
grado di consapevolezza in riferimento alle
occasioni di sviluppo derivanti da progetti promossi da vari livelli istituzionali fino all’ue, aumentato
patrimonio relazionale aumentato tra i vari livelli isituzionali, fino all’Ue
elevato grado di concertazione del
progetto in tutte le sue fasi
rete di scambio tra le città europee, finanziata
espressamente dalla commissione
utilizzo di settori occasione
anche come veicolo di diffusione
del rapporto partenariale con la
p.a.
struttura di partenariato istituzionale a due livelli (Ue – amministrazione locale)
Figura 2: trasposizione nella Matrice del LFA
L’ultima riga della figura individuando le azioni strategiche dell’Iniziativa
Comunitaria, così come definite dalla Commissione e direttamente connesse con
l’obiettivo oggetto dell’analisi, circoscrive il nostro campo di indagine e gli ambiti nei quali individuare gli indicatori.
Le azioni strategiche individuate dalla Commissione rappresentavano un vi ncolo (ad eccezione dell’adesione alla rete europea) per l’impianto strategicoprogrammatico dei programmi di riqualificazione urbana delle città che si candidavano ai finanzi amenti – rappresentavano infatti elementi di valutazione ai fini
dell’ammissione dei singoli programmi all’iniziativa e quindi al finanziamento
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
373
UE – tale vincolo però risultava mitigato dalla considerazione dell’eterogeneità
di caratteristiche/problemi delle realtà urbane sulle quali il programma intendeva
intervenire. Il grado di realizzazione delle diverse attività risulta pertanto articolato in modo differente da programma a programma, in funzione delle peculiarità
del contesto regionale, urbano e, ovviamente, delle criticità dell’area bersaglio.
Tale differente modulazione, incidendo sulla struttura programmatica, interviene
anche a modificare le potenzialità di trasferimento/apprendimento di capacity ,
che sono l’oggetto della nostra analisi. Per ciascuna azione strategica individueremo, attraverso un’analisi del PIC (del Complemento di programmazione e del
Programma Operativo), il grado di realizzazione del programma e solo quel punto individueremo gli indicatori; indicatori che, alla luce delle caratteristiche intrinseche agli elementi che configurano la capacity amministrativa in un’ottica di
governance, saranno di natura qualitativa e andranno a registrare in l’aumento o
la diminuzione della stessa.
Il programma della città di Carrara sarà quindi valutato:
− nel grado di integrazione delle azioni del programma con gli strumenti delle
politiche di sviluppo territoriale pre-esistenti, e nel livello di intersettorialità interno al programma, relativo all’integrazione tra le misure settoriali previste
all’interno di assi/misure/azioni. Sarà pertanto analizzato il tipo di partenariato
istituzionale venutosi a realizzare in fase di programmazione e come si sia strutturato in fase di implementazione e quali effetti abbia prodotto in termini di capacity; e, stante la eterodefinizione (da parte della Commissione Europea) della
struttura di partenariato istituzionale a due livelli (UE – amministrazione locale)
standard per tutti i programmi, cercheremo di cogliere i benefici in termini di acquisizione di competenze e di creazione di reti tra i vari livelli territoriali, derivata da tale rapporto e dalle scelte discrezionali compiute in tale ambito da parte
dell’amministrazione locale (integrazione verticale). Si passerà quindi ad analizzare il livello di intersettorialità interna alla strategia di intervento, ipotizzando
una correlazione tra il numero di misure a carattere intersettoriale e la possibilità
per l’amministrazione di sperimentare l’efficacia dell’approccio intersettoriale e
l’utilità trasversale di strutturare momenti/occasioni di condivisione/programmazione intersettoriale (integrazione orizzontale interorganizzativa).
Andremo quindi ad evidenziare il percorso compiuto dall’amministrazione in
questi due ambiti;
− nel grado di concertazione del progetto in tutte le sue fasi (integrazione orizzontale sociale, management dei conflitti e sviluppo del capitale sociale). Sarà
analizzata la qualità/quantità, nonché le modalità specifiche, del coinvolgime nto
del partenariato nelle varie fasi della programmazione, cercando di portare alla
luce segni che manifestino eventuali mutamenti – attraverso una maggiore/minore attenzione e ricerca di occasioni di confronto – nell’attribuzione di valore alla pratica stessa da parte dell’amministrazione (soggetto attuatore del programma) ;
− nell’utilizzo di settori occasione come veicolo di diffusione del rapporto
partenariale con l’amministrazione locale. In particolare si analizzerà il tipo di re-
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
374
lazioni che si instaurano tra amministrazione e partner rappresentanti del settore
individuato come “settore occasione”, nel senso che cercheremo di cogliere eve ntuali potenzialità di questo settore di rappresentare una palestra per
l’amministrazione nella sperimentazione di metodi volti al superamento dei conflitti sociali che vadano oltre gli strumenti direttivi e verso il problem solving e il
dispute resolution e un’occasione di diffusione del coinvolgimento degli stakeholders attraverso la pubblicizzazione di un rapporto collaborativo con
l’amministrazione, capace di stimolare comportamenti di emulazione negli altri
attori del territorio (sviluppo del capitale sociale). Si evidenzieranno gli effetti
registrati da entrambi i punti di vista.;
− nell’utilizzo della piattaforma di scambio tra le città predisposta a livello europeo (integrazione orizzontale sociale) in riferimento a implicazioni quali lo sviluppo di progetti in partenariato con amministrazioni dello stesso livello,
l’esercizio di benchmarking, lo sviluppo di innovazioni organizzative e la manutenzione/diffusione di una cultura orientata al cambiamento.
4. La strategia integrata
La fase di definizione delle linee programmatiche e della struttura
dell’intervento Urban sulla città di Carrara non è stata oggetto della ricerca empirica, pertanto non potrà essere materia di una approfondita riflessione. Tuttavia,
vista la sua rilevanza in termini di ricadute sull’intero ciclo progettuale (Interact,
2004) si è ritenuto importante poter disporre, in questa sede, di elementi conoscitivi riferibili a tale fase programmatica (reperiti attraverso fonti documentali: documenti programmatici, verbali del comitato di sorveglianza e articoli dei quotidiani locali); tale ricostruzione, pur nei limiti, consente di utilizzare una serie di
informazioni importanti per analizzare il grado di integrazione, tra i vari strumenti programmatici, e di intersettorialità realizzate dal programma in esame (e come vedremo nei prossimi paragrafi anche per comprendere altre dinamiche oggetto della nostra riflessione; cfr. paragrafi seguenti) .
In riferimento all’integrazione gli elementi da prendere in esame riguardano
strettamente accordi di collaborazione, accordi quadro, tra i livelli di governo
che, attraverso metodologie e tecniche di valutazione ex-ante, consentano di pervenire a una programmazione integrata (sinergica) con le linee di sviluppo tracciate dagli strumenti di programmazione del contesto territoriale di riferimento.
Nel caso specifico il Comune ha preferito non dedicarsi direttamente alla predisposizione del programma di intervento, avvalendosi della collaborazione di un
ente terzo (Ater13). Tale opzione pur sollevando il Comune dalle scelte operative,
sembra aver comunque garantito la partecipazione e concertazione delle scelte
operative tra i vari livelli di governo locale, provinciale e regionale, grazie alla
sottoscrizione di protocolli di partenariato di adesione al programma (si registrano protocolli tra Comune e Ater, Comune - Provincia e Ater, Comune - Regione
13
Azienda territoriale per l’edilizia residenziale della provincia di Massa e Carrara.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
375
e Ater, Comune - Cat 14 e Ater, Comune - Progetto Carrara Spa15 e Ater) specificamente rivolti a garanzia della predisposizione di interventi integrati, rispetto alle strategie di sviluppo dell’area territoriale e dei settori di competenza.
Si rileva inoltre come l’analisi SWOT, (punti di forza, punti di debolezza, opportunità e rischi) condotta in fase di valutazione ex-ante e riportata nel documento di programmazione, espliciti chiaramente l’attribuzione all’integrazione
del valore di opportunità da cogliere, in modo da garantire una moltiplicazione
dell’efficacia degli interventi pubblici (Comune di Carrara 2004b, 28). «Il contenuto e gli obiettivi del programma si pongono in maniera sinergica e necessariamente coordinata, anche nei tempi, con altri strumenti della programmazione
questo al fine di innescare politiche positive per una compiuta realizzazione del
modello di sviluppo economico, ambientale ed infrastrutturale, secondo i principi di sostenibilità» (Comune di Carrara 2004b, 52). In linea con tale analisi il
documento di programmazione è ricco di riferimenti a contenuti e strumenti di
altre politiche pubbliche perseguite a livello comunale (Piano Strutturale comunale, Piano regolatore del porto, Regolamento Agri-marmiferi ...) provinciale
(Patto Territoriale provinciale) regionale (PIT, Piano di Indirizzo Territoriale regionale e PSR, Piano di Sviluppo Regionale) nazionale (Fondo di rotazione per la
progettazione; Leggi di finanziamento per Edilizia Residenziale Pubblica) e comunitaria (Docup ob. 2 della Regione Toscana e POR dell’Ob.3 della Regione
Toscana).
Il programma predisposto a Carrara, risulta, da questa analisi, caratterizzato da
un buon grado di integrazione, e informato ad un’ottica di “fare sistema” – tra i
vari livelli di governo e tra i relativi strumenti di programmazione strategica. Inoltre è di rilievo la procedura seguita per giungere a tale integrazione, procedura
che ha privilegiato il dialogo diretto e la collaborazione tra i vari livelli di gove rno, attraverso la sottoscrizione di accordi quadro.
A seguito dell’approvazione del programma, e dell’assunzione del ruolo di
Autorità di Gestione da parte del Comune, la scelta strategica compiuta in fase di
programmazione ha trovato soluzione di continuità attraverso la decisione di coinvolgere nel Comitato di Sorveglianza, oltre alla maggior parte delle rappresentanze espressive della città di cui parleremo in seguito (si veda paragrafo 6), anche tutti i rappresentanti e i livelli istituzionali coinvolti nella fase di programmazione 16.
14
CAT S.p.a., di gestione del trasporto pubblico, società per azioni a totale partecipazione pubblica.
Società mista pubblico-privata denominata “PROGETTO CARRARA” Spa, cui aderiscono: il Comune di Carrara, l’Amministrazione Provinciale, la Camera di Commercio, le Associazioni produttive:
Associazione degli Industriali, Confartigianato, Confederazione Nazionale Artigianato, Lega delle Cooperative, Associazione Piccola Impresa; (Comune di Carrara 2004b, 24 e 50).
16
Fanno, infatti, parte del Comitato di Sorveglianza i seguenti soggetti pubblici: rappresentati della
Commissione Europea, del governo nazionale (Presidenza del Consiglio, dei ministeri delle infrastrutture
e dei trasporti, dell’economica e delle finanze, dell’ambiente, pari opportunità), della soprintendenza per
i beni artistici, archeologici e paesaggistici per la provincia di Massa-Carrara, della Regione Toscana, della Provincia di Massa-Carrara, dell’Agenzia regionale per la Promozione Ambientale della Toscana (Arpat),
15
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
376
L’investitura del Comune, direttamente nei propri uffici, della effettiva implementazione del piano, ha permesso di ottenere il maggiore beneficio in termini di diffusione delle competenze maturate nell’applicazione del programma17.
Nonostante questi effetti positivi risultino ridotti a causa del ristretto numero di
risorse umane assegnate, nei vari uffici, all’implementazione del programma, è
stato riconosciuto che la “pratica sul campo” dell’applicazione di un programma
come Urban, ha sicuramente portato un valore aggiunto tangibile in termini di
competenza, relativamente alle pratiche europee e agli strumenti della progr ammazione. Ha inoltre permesso la creazione di una importante rete di rapporti a
tanti livelli (dal livello europeo a quello locale), che è valutata come un bagaglio
importante; acquisizione favorita senz’altro dalla scelta strategica compiuta, e
sopraricordata, di coinvolgere direttamente nel Comitato di Sorveglianza tutti i
rappresentanti e i livelli istituzionali coinvolti nella fase di programmazione.
Per quanto riguarda l’aspetto dell’integrazione orizzontale interorganizzativa,
che dovrebbe seguire di pari passo quella verticale, si registra da un lato uno
scarso coinvolgimento dei differenti settori dell’amministrazione comunale nella
fase di programmazione vera e propria – in occasione delle interviste sul campo
si è infatti rilevata la sensazione, da parte dei dirigenti dei settori, di essere stati
coinvolti nel programma quando questo era già stato scritto – e dall’altro si rileva, pur nell’assenza di forme di integrazione formalizzate in piani e progetti intersettoriali (della struttura intersettoriale del programma in sé diremo più avanti), l’istituzione di un apposito ufficio Urban II 18 «cui sono affidati compiti di
programmazione e coordinamento dell’attuazione del programma» (Comune di
Carrara 2004b, 85), coordinamento che si esplica anche specificatamente verso
gli uffici a vario titolo coinvolti: «Ufficio Ambiente, Ufficio Cultura, Ufficio Tecnico, Ufficio Attività Produttive, Ufficio Servizi Sociali, Ufficio del Traffico» (ibidem) e una azione esplicitamente dedicata alla «creazione di una rete affidabile
fra le strutture coinvolte negli interventi (ossia definizione di procedure, creazione di reti interne, ecc… )» (ibidem). Nella pratica l’ufficio Urban II si è caratterizzato come ufficio di supporto tecnico alla programmazione e
all’implementazione del programma (dedicato soprattutto agli aspetti procedurali, di monitoraggio fisico e finanziario di tutto il programma, e meno al coordinamento delle azioni afferenti ai vari settori19) mentre non si è trovata traccia rilevante dell’azione dedicata alla creazione di una rete interna. La rilevazione sul
campo registra dichiarazioni da parte dei responsabili delle misure che affermano
di avere accesso a informazioni significative relative alle misure afferenti ad altri
settori, e potenzialmente collegate/collegabili a misure afferenti al settore di loro
17
Nella quale tra i punti forti di Urban si cita la sviluppo della capacità a livello comunale, nonché tra
gli effetti significativi registrati: cambiamenti a strutture istituzionali e di governo.
18
Istituito con DGR n.9 del 12/01/2001
19
In merito però sarebbe da analizzare l’importante elemento della dotazione di personale adibito a tale
ufficio, e in generale a tutti gli uffici impegnati nel programma, infatti se nel PIC si dichiarava la volontà
di assegnare una sufficiente disponibilità di personale alle strutture, la prassi poi si è dovuta scontrare con
i vincoli del patto di stabilità interno.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
377
competenza, attraverso modalità di comunicazione informale: colloqui incidentali con i referenti delle altre misure … .
Devono però citarsi in merito alcune esperienze di collaborazione intersettoriale e interorganizzativa, contestuali e indipendenti dall’implementazione del
programma, la cui presenza ha sortito un effetto di amplificazione e rafforzamento di alcuni degli effetti di acquisizione di consapevolezza da parte
dell’amministrazione. Nello specifico si tratta dell’apertura dello SUAP, Sportello Unico per le Attività Produttive – tale sportello ha permesso agli uffici coinvolti dall’implementazione del programma Urban, di sperimentare l’efficacia di
pratiche di semplificazione amministrativa e di un unico sportello che ha consentito di controllare unitariamente le pratiche legate alla ristrutturazione edilizia ed
alla parte commerciale; efficacia che, a detta dei funzionari, si è manifestata anche in termini di facilitazione del rapporto con i partner sociali, i quali hanno accolto con favore la semplificazione, interpretandolo come segnale di cambiamento e innovazione – e della realizzazione di un portale unico
(www.cadienellarete.it) per tutti i comuni aderenti della Provincia – il portale
consente di scaricare modulistica e normative, di inoltrare on line richieste di autorizzazione firmate digitalmente (previa registrazione ed autenticazione), di verificare, sempre on line, lo stato della pratica, di effettuare pagamenti sicuri
(Bank Pass). Queste due innovazioni vengono presentate dai funzionari intervistati come un primo passo in direzione di un adeguamento della PA alle esigenze
della cittadinanza (di semplificazione e velocizzazione burocratica) e alla cultura
e alla pratica delle ICT nell’amministrazione stessa e nella cittadinanza.
Si rileva quindi un aumentato grado di consapevolezza, da parte
dell’amministrazione comunale, della necessità di sostenere processi di innovazione e di sviluppare le ICT, attraverso la diffusione di reti informative,
l’integrazione dei back office tra settori e tra amministrazioni, la diffusione di
sportelli unici, l’utilizzo di tecnologie interattive, lo sviluppo di innovazione nella produzione ed erogazione dei servizi, di innovazioni organizzative di manutenzione e diffusione di una cultura orientata al cambiamento.
5. La struttura intersettoriale
A lato di una interessante esperienza di integrazione verticale realizzata grazie
alla programmazione e all’implementazione del programma, che ha permesso
anche la realizzazione di una rete relazionale inter-governativa (si rimanda al paragrafo 8 per la riflessione sulla integrazione verticale inter-governativa tra città
europee) sembra di poter intravedere una scarsa potenzialità del programma di
implementare quelle reti di relazione e scambio intersettoriale che afferiscono più
direttamente all’altro aspetto che andremo adesso ad analizzare e che può essere
influenzato fortemente dal più o meno elevato grado di intersettorialità di azioni
e misure.
Il programma di intervento sulla città di Carrara è stato costruito attorno
all’emergenza peculiare della città di liberare la stessa dall’attraversamento del
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
378
traffico pesante (TIR) proveniente dalle cave di marmo, e per questo prevede la
realizzazione di interventi di mobilità urbana rivolti, in primis, alla realizzazione
di un by-pass urbano che dirotti il traffico pesante fuori dal centro della città e,
quindi, di interventi di rifacimento dell’arredo urbano per restituire alla città il
suo decoro. Tale priorità connota in modo tipico la struttura del programma condizionandone le destinazioni finanziarie; la sua unicità trova infatti evidenza nella incidenza della percentuale di finanziamenti destinata al sistema trasporti che,
come si evince dalla tabella riportata (si veda tab.3), eccede notevolmente le media di destinazione dei fondi dei programmi delle altre città, italiane e europee,
beneficiarie degli stessi finanziamenti.
SUDDIVISIONE % IN ASSI DI INTERVENTO: PIC URBAN II
UE
Assi di intervento
Fuori
Ob 1
Ob 2
Media
ob.
Riqualificazione ambientale e materiale
53 % 40 % 34 % 40 %
Attività di supporto imprenditoria e occupazione 20 di cui:
15 % 15 % 24 % 21 %
Italia (? )
Carrara
56 %
8%
46,91 %
17,43%
? dirette
15 %
15 %
24 %
21 %
8%
8,61%
? indirette: organizzazione di manifestazioni ed eventi
18 %
5%
22 %
11 %
20 %
9%
21 %
8%
10 %
14 %
8,82%
5,91 %
24,25 %
2%
5%
8%
4%
6%
0,00 %
6%
6%
6%
6%
6%
5,51 %
Iniziative sull’integrazione sociale
Trasporto
Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione21
Assistenza tecnica
Tabella 3: tabella comparativa della distribuzione % dei finanziamenti, tra il Progra mma Urban II della
città di Carrara e le medie registrate dai Programmi Urban II delle città coinvolte, in Italia e in Europa. La
registrazione della destinazione dei finanziamenti per assi è quella indicata dall’UE e non ricalca la struttura degli assi indicati dal PIC Urban Carrara, le destinazioni finanziarie sono state ricostruite in funzione
delle singole misure. Fonte: Commissione europea, 2002c, p33 tab.5 e p.35 ss tab.8.
Di questo eccesso di finanziamento ne da giustificazione lo stesso PIC (Comune di Carrara, 2004b, 48-49), il quale spiega sia le ragioni della centralità
dell’intervento per lo sviluppo della città sia ne giustifica l’ammontare economico. Ai nostri fini, ciò che rileva non è tanto l’ammontare economico in sé, quanto
l’effetto di tale spesa sull’impianto programmatico soprattutto se collegata con la
configurazione delle misure a sostegno dell’imprenditoria e dell’occupazione e
con i finanziamenti dedicati all’integrazione sociale. Il quadro d’insieme risulta
20
Il dato relativo alle destinazioni del programma di Carrara, dedicate alle attività di supporto
all’imprenditoria e all’occupazione, richiede, ai fini della comparazione, una ulteriore scomposizione nelle sue due componenti (diretta e indiretta, quest’ultima dedicata al finanziamento di attività di pubblicizzazione e pro mozione). Il dato riferito a questo asse e contenuto nei programmi delle altre città è infatti
quasi interamente costituito dai finanziamenti diretti.
21
Non ci soffermiamo nell’analisi al dato relativo alla carenza di destinazioni per le TIC (Tecnologie
dell’Informazione e della Comunicazione), in quanto potrebbe esso stesso costituire un interessante amb ito di approfondimento dell’analisi della valutazione della strategia dei programmi Urban II.
(*)
nostra elaborazione su dati tabella n.8 (ibidem).
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
379
intaccato: le % di finanziamento sugli assi dedicati all’integrazione sociale e al
supporto diretto all’imprenditoria e all’occupazione risultano sensibilmente ridotte rispetto alle destinazioni degli altri programmi, di oltre 10 punti percentuali in
media. E la giustificazione addotta nel PIC, il quale rimanda a strumenti e finanziamenti previsti nel Docup della Regione Toscana a sostegno del rilancio produttivo ed occupazionale del sistema delle imprese e nel POR per quel che riguarda le problematiche del mercato del lavoro (ivi, 31 e 49), trova la sua risposta nelle medie di destinazione registrare nelle città ob.1 e ob.2. In questo senso
si configura il rischio di una errata interpretazione della integrazione verticale
che risulta tradursi in una delega ad altri strumenti di programmazione piuttosto
che in un’azione sinergica con essi.
Dato il basso grado di integrazione intersettoriale realizzato dal programma in
esame si ritiene opportuno individuare un indicatore soft: consapevolezza importanza di concentrare e coordinare le azioni dei settori (aumentata – costante – diminuita).
Nonostante il deficit programmatico, i dirigenti risultano, dalle interviste condotte, ben consci della necessità e dell’importanza di una maggiore collaborazione tra settori dell’amministrazione comunale, per poter collegare tra loro singole
misure settoriali massimizzandone i benefici, tant’è che dichiarano di cercare occasioni informali di dialogo per poter creare una maggiore sinergia tra le azioni
finanziate dai vari settori.
La necessità di definizioni di strategie intersettoriali per l’attuazione di Urban
sembra pertanto divenuto patrimonio condiviso, si tratterà di comprendere se
questa sensibilità si tramuterà in un mutato atteggiamento programmatico, se cioè
si passerà dalla contingenza del programma Urban (necessariamente intersettoriale) a una diffusione dell’approccio intersettoriale e verticale come ordinario
metodo di programmazione e attuazione delle politiche comunali, in ragione di
una riconosciuta maggiore efficacia di tale approccio rispetto al tradizionale approccio mono-settoriale.
6. L’amministrazione locale e il partenariato
La fase di programmazione dell’iniziativa a Carrara ha coinciso con un periodo (lungo per la verità alcuni anni) di riflessione/confronto, tra gli attori locali,
circa le scelte strategiche per il futuro della città – in particolare attorno alla questione dell’attraversamento del Centro storico da parte del traffico pesante proveniente dalle cave di marmo e di un possibile dirottamento della stesso tramite la
realizzazione di una arteria dedicata: “via dei marmi” – riflessione che però non
riusciva a risolversi in un accordo soddisfacente a causa delle difficoltà incontrate nella composizione degli interessi coinvolti. La programmazione
dell’iniziativa Urban ha permesso di “sbloccare” l’empasse e disegnare un progetto di rivitalizzazione urbana strettamente connesso e integrato con il progetto
“via dei marmi”. Degna di nota è la realizzazione di una società mista pubblico-
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
380
privata, la già citata Progetto Carrara Spa (si veda nota n.15), che configura una
vera e propria esperienza di partenariato e di co-responsabilizzazione, a dimostrazione della condivisione tra amministrazione e parti sociali attorno all’idea
progettuale “strada dei marmi” – ragione sociale della Spa.
Un simile grado di concertazione e condivisione all’interno del programma
Urban sembra non potersi ravvisare: i pur numerosi protocolli di intesa firmati tra
Ater (ente al quale, come abbiamo visto, il comune ha devoluto la programmazione) Comune e Camera di Commercio, Associazioni dei commercianti (Confcommercio e Confesercenti) Associazioni degli industriali (Associazione della
piccola impresa, Assindustria) Associazioni artigiane (Cna e Confartigianato),
Lega delle cooperative, Internazionale marmi e macchine, enti vari e associazioni
di categoria presenti sul territorio (Comune di Carrara, 2004b, 49), si configurano, diversamente da quelli che abbiamo visto in riferimento agli enti pubblici,
come protocolli di diffusione del programma e non di adesione allo stesso. Il fine
di tali protocolli è quello di rendere noti alla città i contenuti e gli obiettivi strategici di Urban II. Il coinvolgimento dei soggetti si configura come strumentale alla divulgazione di contenuti già definiti. Anche se in fase di valutazione ex-ante è
stato inserito un elemento di partecipazione attraverso l’analisi dei bisogni espressi dalla società (i bisogni rilevati riguardano però soprattutto la qualità urbana rispetto alla vita e all’ambiente, al lavoro e alle pari opportunità); tale rilevazione, certo interessante e utile, non può essere però assunta come indicatore di
partecipazione, da un lato a causa dell’oggetto specifico della rilevazione e
dall’altro perché la valutazione compiuta non è stata partecipata e condivisa: gli
elementi di conoscenza provenienti dalla cittadinanza sono stati mediati e valutati
dal programmatore. Le rilevazioni condotte in occasione della ricerca empirica
confermano la nostra tesi. Prendiamo ad esempio quanto rilevato attraverso le dichiarazioni dei commercianti, per i quali ci si aspetterebbe, vista la loro individuazione a “settore occasione” (cfr. paragrafo successivo), un elevato grado di concertazione nella definizione delle linee di intervento loro dedicate: ebbene, i
commercianti interrogati sul tipo di rapporti avuti con l’amministrazione, hanno
in prevalenza ricondotto gli stessi alla gestione delle pratiche collegate ai finanziamenti. Ancora di più gli artigiani del marmo i quali, come vedremo nel paragrafo successivo, hanno chiaramente manifestato insoddisfazione per non essere
stati coinvolti nella fase “a monte” (fase ascendente) della programmazione degli
interventi e dei finanziamenti, oltre che il quella “a valle” (fase discendente); lamentando l’inefficacia di interventi orientati verso obiettivi non in linea con i bisogni e le peculiarità di cui sono portatori.
In fase di implementazione il coinvolgimento dei partner diventa più intenso –
anche se andrebbero fatte delle distinzioni 22 – e la volontà del Comune di consentire agli attori locali di partecipare attivamente alle scelte operative e al monito-
22
Il settore più coinvolto e partecipe sembra essere il commercio mentre per altri settori profit il livello
di compartecipazione non è altrettanto elevato, per non parlare dei partner del settore no profit, ma vedremo meglio la questione nel paragrafo seguente.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
381
raggio dei lavori risulta evidente dalla scelta strategica di partecipazione compiuta in riferimento alla composizione del Comitato di Sorveglianza23.
Della collaborazione instaurata tra amministrazione e “settori occasione” si dirà nel paragrafo seguente, a questo punto ci interessa comprendere il percorso effettuato dall’amministrazione comunale in riferimento alla creazione/consolidamento di una relazione di scambio con il tessuto sociale nel suo
complesso e/o ad una progressiva presa di coscienza delle difficoltà connesse con
la realizzazione di progetti orientati in tale senso in una realtà sociale complessa
e conflittuale.
Nel paragrafo precedente si è accennato della difficoltà incontrata nella composizione degli interessi, che operativamente è stata in parte superata proprio
grazie alla programmazione di Urban, e che esprime un clima sociale del quale
l’amministrazione non può non tenere conto (nell’ottica della capacità di analizzare l’ambiente esterno alle istituzioni per poter egire efficacemente). Nel PIC il
tessuto sociale è descritto in modo contraddittorio, inizialmente sembra caratterizzato da una «rete di attori sociali costituita da comitati di quartiere e associazioni culturali» e da una «forte identità cittadina» (Comune di Carrara, 2001a,
28), ma poi, quando si scende nel dettaglio emerge la criticità che sembra rilevarsi, e che emerge anche nella ricerca sul campo come motivo dominante: «questa
propensione dei cittadini ad individuare momenti associativi di rappresentanza
di interessi condivisi, si è concretizzata, per quanto in particolare attiene al
PIC, nella costituzione di un Comitato di protesta contro l’inquinamento prodotto dal traffico pesante nel centro storico» (ivi, 36), cioè sembra una capacità aggregativa legata alla protesta e alla manifestazione di dissenso. L’analisi riportata
nel PIC riconduce tale caratterizzazione al forte disagio diffuso tra i residenti dal
«le condizioni di congestione e di inquinamento ambientale create dal traffico
pesante, (…) causa di conflittualità sociale e di momenti di forte contrapposizione sia con il livello amministrativo che tra le categorie di cittadini (es. abitanti
contro trasportatori)» (ivi, 38). Le interviste e i focus group condotti sul campo
sembrano indicare una radice diversa: una mancanza di fiducia e una disaffezione
diffusa verso l’amministrazione locale che viene accusata di avere, nel tempo,
compiuto scelte scellerate nella gestione del territorio, di non avere perseguito un
sentiero di sviluppo chiaro e di non avere partecipato la popolazione.
L’immagine dell’amministrazione locale, così come restituita dal tessuto economico diffuso (artigiani e commercianti, piccole imprese …), si caratterizza per
una posizione di distanza e viene percepita con diffidenza, emerge l’orgoglio per
avere condotto la propria attività senza alcun sostegno o collaborazione da parte
dell’amministrazione (e talvolta nonostante l’amministrazione) e una scarsa fiducia verso una storia di governo locale, descritta come caratterizzata da progetti
23
Fanno, infatti, parte del Comitato di Sorveglianza soggetti pubblici e associazioni produttive, sociali e
culturali a livello locale tra i quali: la Commissione comunale progetto donna, la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa (Cna), la Confartigianato, la Confcommercio, la Confesercenti, la Lega delle cooperative, le rappresentanze sindacali, la Camera di commercio, Italia Nostra e
Legambiente, l’Accademia di Belle Arti, la Cassa di Risparmio di Carrara e i Presidenti delle Circoscrizioni.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
382
annunciati e poi abbandonati, dove l’unica continuità sembra essere stata la discontinuità … . La storia della comunicazione istituzionale del territorio viene
descritta, in particolare dai soggetti portatori della memoria storica (in primis anziani e quindi dalle altre categorie socio-economiche coinvolte dalla ricerca sul
campo), come caratterizzata da una drammatica incapacità di comunicare da parte dell’amministra-zione locale, incapacità che da alcuni viene addirittura considerata volontaria, quasi l’amministrazione non apprezzasse come valore la conoscibilità all’intera popolazione delle iniziative promosse.
In un simile contesto sociale ben si capisce come possa essere rilevante indagare la costruzione della strategia di comunicazione dell’iniziativa e eventuali effetti in termini di acquisizione di elementi conoscitivi dell’ambiente esterno.
La strategia di comunicazione disegnata segue la stessa filosofia che ha informato la struttura e i contenuti dei protocolli di intesa firmati con le parti sociali:
la comunicazione persegue l’obiettivo della diffusione di informazioni relative a
misure e azioni di Urban, in particolare in favore dei destinatari delle stesse; il
paragrafo intitolato: «Trasparenza e comunicazione» (ivi, 86) mette in stretta
correlazione l’efficacia «delle azioni messe in atto con il PIC» con
«l’accessibilità da parte dei potenziali beneficiari all’informazione e alle opportunità offerte dai Fondi strutturali» (ibidem). La strategia di comunicazione diventa allora strategia di informazione mirata: a ciascuna categoria di beneficiari
dovrà essere fatta conoscere l’opportunità inserita nel PIC. Infatti il Comune, in
qualità di Autorità di gestione, si assume la responsabilità dell’organiz-zazione di
«campagne di informazione adeguate e correttamente mirate (…); della periodicità dell’informazione; dell’organizzazione di riunioni periodiche con le parti locali e la stampa» (ibidem) e «provvede a rendere pubblico il PIC, informandone
i potenziali beneficiari finali, le organizzazioni professionali, le parti economiche
e sociali, gli organismi per la promozione delle pari opportunità tra uomini e
donne e le organizzazioni non governative che possono essere interessate alle
possibilità offerte dall'intervento» (ivi, 87).
Riportiamo di seguito quanto emerso in occasione della ricerca sul campo in
relazione all’efficacia della strategia di comunicazione, e all’obiettivo informativo sopra menzionato.
Le osservazioni rilevate attraverso i focus group manifestano chiaramente la
scarsa efficacia dei canali utilizzati per informare i cittadini del programma in
corso di implementazione; si evidenziano alcune peculiarità a seconda della categoria target di riferimento. I giovani sembrano essere del tutto estranei al programma di rivitalizzazione della città in corso di realizzazione, i canali di comunicazione utilizzati sembrano, in relazione a questo target, non efficaci24. Le donne, pur raggiunte dai progetti realizzati da Urban, sembrano essere escluse dalla
24
I “totem” (parallelepipedi a base triangolare che, disseminati per l’area comunale, descrivono con testi e immagini, i singoli progetti di rifacimento dell’arredo urbano) non attirano l’attenzione, il giornale
Agorà (pubblicazione interna curata dal Comune, attraverso la quale si informa delle iniziative comunali e
quindi anche dello stato di avanzamento del programma) non è diffuso in circuiti per loro facilmente accessibili, non leggono i giornali locali e l’unico canale da loro stessi individuato: la scuola, è stato utilizzato in modo non opportuno, come diremo più avanti
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
383
partecipazione diretta alle iniziative del programma e, in particolare di fronte ad
alcune pianificazioni non condivise (ad esempio collocare il centro di aggregazione per le donne c/o l’ex mulino Forti), manifestano di non riuscire a cogliere
la strategia di fondo che sottende al programma di intervento. Gli anziani, coinvolti direttamente come beneficiari e partner di alcune misure del programma, risultano essere i più coinvolti e partecipi delle singole realizzazioni; nonostante la
loro partecipazione e la loro frequentazione gli strumenti informativi praticati dal
Comune per diffonde le informazioni sul programma, in primis i giornali, assumono con difficoltà alcune informazioni che sembrano loro essere un’assurdità
(come i finanziamenti ai commercianti) o un segnale allarmante per Carrara (essendo il programma rivolto a aree urbane caratterizzate da indicatori di sviluppo
al di sotto di certi parametri individuati), e questo a causa della non adeguata comunicazione della strategia di fondo del programma, che risulta non conosciuta.
I soggetti indagati, pur dimostrando, in alcuni casi, di ricondurre alcuni degli
interventi realizzati al programma Urban, non riescono a ricondurre le singole azioni ad un progetto unitario. La non capacità di trasmettere la strategia di rivitalizzazione della città che sottende la pianificazione dei singoli interventi 25, non
deve stupire più di tanto perché è una delle naturali conseguenze
dell’impostazione informativa mirata, scelta dal PIC di Carrara, ma non può, in
questa sede, non evidenziarsi la criticità di una strategia di informazione che non
trasmetta un progetto, un obiettivo di restyling che possa trovare condivisione, ed
entusiasmo nella popolazione, emozionandola e quindi coinvolgendola… . Non
possiamo che sottolineare come l’amministrazione abbia esplicitato, in occasione
del mandato relativo alla ricerca sul campo, la volontà di raccogliere un feedback della popolazione in merito alla programmazione in corso, dimostrando così
un grado aumentato di consapevolezza della complessità sociale e una attenzione
all’individuazione di strategie comunicative non più meramente informative, ma
improntate a una vera comunicazione a doppio binario, in uscita e in entrata
dall’amministrazione, capaci di sostenere la cultura del partenariato e di aumentare il coinvolgimento del capitale sociale.
Sembra in merito di poter individuare un percorso di aumentata conoscenza
del tessuto sociale da parte dell’amministrazione la quale, probabilmente sulla
scia di esperienze condotte in altre città, ha cercato, già nella fase iniziale di implementazione del programma, di individuare un possibile canale di dialogo a
doppio binario con la popolazione, per coinvolgerla e renderla protagonista del
progetto di rivitalizzazione in corso. Se però all’inizio (febbraio 2003) sulla scia
della ottimistica valutazione compiuta nel PIC e sopra riportata, l’opzione individuata era rappresentata dalla apertura di sportelli dedicati alla raccolta di idee
progettuali – che avrebbero dovuto essere presentati spontaneamente da cittadini
e da associazioni di promozione sociale, associazioni di categoria, partiti e comitati – dopo quattro anni di implementazione lo strumento effettivamente posto in
25
In merito deve essere ricordato il dato rilevato in occasione della valutazione su Urban I (GHK, 2003,
p.62) risulta assestarsi su una media di conoscenza del programma da parte degli intervistati pari al 35%,
dato che per i programmi italiani si eleva fino al 50%.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
384
essere dall’amministrazione è stato una ricerca sociale condotta sul campo orientata a intercettare umori e atteggiamenti, rivolta a restituire un feed-back
all’amministrazione rispetto alla effettiva conoscenza e condivisione del programma da parte degli attori sociali e dei cittadini.
Se è vero che l’apertura del citato sportello avrebbe potuto rappresentare
un’occasione di comunicazione a doppio binario – in uscita
dall’amministrazione, per una maggiore e migliore conoscenza dei suoi programmi da parte dei cittadini, e in entrata nell’amministrazione, la quale avrebbe
potuto sfruttare le ricchezze di punti di vista, di conoscenze, di esperienze e di
capacità dei propri cittadini per arricchire la propria programmazione e i propri
progetti – è altrettanto vero che una simile esperienza necessita, per poter funzionare, di un retroterra fatto di informazione e comunicazione adeguata, nonché di
un elevato grado di fiducia nell’amministrazione e nella sua propensione a partecipare la cittadinanza, maturato attraverso una costante pratica di ascolto reciproco e collaborazione. Risulta evidente come, stante questi presupposti, non esistesse il retroterra adeguato perché tale esperienza potesse funzionare adeguatamente.
La scelta compiuta dall’amministrazione può essere letta come la manifestazione di una accresciuta attenzione all’analisi dell’ambiente esterno, come una
aumentata consapevolezza dell’importanza di conoscere le dinamiche sociali in
atto, la percezione del rapporto tra cittadini, territorio e amministrazione per poter aumentare la partecipazione degli stakeholders nei processi decisionali e, di
conseguenza, l’efficacia delle politiche.
7. I “settori occasione”
La struttura programmatica di Urban prevede, come anticipato in apertura del
paragrafo precedente, l’individuazione di “settori occasione”, dai quali
l’intervento di “rivitalizzazione” si aspetta di ricavare il massimo risultato in termini di disseminazione di risultati benefici su settori/soggetti più ampi di quelli
beneficiari dell’intervento finanziario diretto. In riferimento al nostro specifico
ambito di indagine rileva evidenziare, da un lato, l’eventuale contributo che
l’implementazione del programma possa avere apportato, in termini di consapevolezza, competenza e metodo, al dialogo tra amministrazione e “settori occasione” e, dall’altro, le potenzialità di questi ultimi in riferimento alla loro capacità
moltiplicativa e diffusiva, tra gli attori locali, di un “modus operandi” e “adiuvandi” tra amministrazione pubblica e soggetti privati.
Nel programma di Carrara il settore “occasione” è individuato nel commercio
latu sensu e nel turismo culturale; la nostra analisi si concentrerà sul settore
commercio, in quanto la ricerca sul campo ha dedicato uno specifico ambito di
approfondimento a tale settore di indagine mentre non è stato possibile un uguale
approfondimento sul settore turismo in quanto lo stato di avanzamento delle misure relative non consentiva una valutazione di percorso.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
385
Settori “occasione” per l’implementazione del dialogo
Anzitutto merita una osservazione la individuazione del commercio come
“settore occasione” del programma di riqualificazione urbana di Carrara. Tale
individuazione risulta infatti pienamente supportata dalle rilevazioni in sede di
focus group, nei quali emerge la consapevolezza del ruolo rilevante attribuito ai
commercianti nella definizione del sentiero di sviluppo della città. L’attenzione
dei programmatori del programma di intervento a Carrara sul settore commerciale sembra essere quindi adeguata, e condivisa risulta l’attribuzione di rilevanza
del settore specifico come potenziale agente di trascinamento della ripresa socioeconomica della città.
I commerciati sono stati oggetto di una particolare attenzione e di un coinvolgimento particolare nell’attuazione delle azioni previste dal Programma Urban.
L’amministrazione ha, infatti, coinvo lto i rappresentati delle associazioni di categoria per la definizione di alcuni elementi attuativi, in modo da garantirne la rispondenza ai bisogni rilevati ed espressi dalle categorie beneficiarie. I commercianti risultano essere, dai focus group e dalle interviste condotte, i più coinvolti
e consapevoli della progettualità dell’amministrazione: pur essendo al corrente ed
interessati solo alle iniziative che li coinvolgono direttamente, e non essendo in
grado di ricostruire la progettualità in senso ampio del programma Urban, manifestano un grado di consapevolezza maggiore rispetto alle altre categorie intervistate, che li porta a “sopportare” i disagi relativi ai cantieri aperti in città, in prospettiva del futuro vantaggio che ne dovrebbero derivare (ad es. in relazione alla
situazione parcheggi e alla ridotta percorribilità della città).
In particolare, in riferimento all’implementazione del programma Urban, si rileva come sia stato percepito positivamente il coinvolgimento dei propri rappresentanti in sede di definizione delle singole azioni, che sono state rimodulate in
funzione delle esigenze espresse26 e di ulteriori analisi economico-territoriali
commissionate ad hoc27. Questa rilevazione dimostra la rilevanza dei processi di
implementazione per il raggiungimento di livelli positivi di efficacia nelle politiche (Vecchi, 2004, 69) e potrebbe avere effetti significativamente rilevanti ove
l’amministrazione coinvolta trasformasse l’aumentata consapevolezza della rile26
I cambiamenti apportati sono relativi al bando sull’artigianato, che nella prima stesura prevedeva, tra
i beneficiari, i laboratori dell’artigianato artistico e del lardo; la modifica è consistita nell’eliminazione,
tra i beneficiari, degli artigiani del lardo in favore dell’artigianato, esteso anche a tutti gli artigiani del
marmo e non solo a quelli artistici; la concertazione ha portato alla conciliazione delle diverse esigenze
attraverso il mantenimento della volontà di promuovere la peculiarità del territorio e preservare i saperi,
attraverso l’attribuzione di un punteggio aggiuntivo all’artigianato artistico.
27
In particolare si sottolinea come la modifica più significativa apportata riguardante la ripartizione del
contributo economico (in favore dei commercianti e delle attività turistiche e a discapito degli artigiani)
sia derivata da una valutazione di opportunità tesa all’ottimizzazione dei finanziamenti, per la quale sono
stati elementi di valutazione la proporzione della categoria economica destinataria (commercianti o art igiani) rispetto alle attività presenti sul territorio e uno studio sulle potenzialità del territorio (studio affidato all’Istituto di Studi e Ricerche – ISR - della CCIAA della Provincia di Massa-Carrara) finalizzato a
verificare il concreto interesse degli operatori locali per il potenziamento dell’offerta di strutture ricettive,
offerta che al momento risulta molto carente ma che deve necessariamente essere ampliata per poter assorbire i flussi generati dalle politiche di attrazione turistica che l’amministrazione intende attuare.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
386
vanza della fase di implementazione – se interpretata come un passaggio concertato nella trasformazione degli input (decisioni, risorse finanziarie, conoscitive,
tecnologiche …) in output – in prassi istituzionale.
Rileva , ai fini dell’analisi, sottolineare un effetto significativo : la collaborazione stretta con l’amministrazione comunale28 si è concretizzata in riferimento
allo spirito di categoria. Si registra, infatti, il progressivo “compattamento” delle
associazioni di categoria che nei primi due anni di programmazione manifestarono serie difficoltà ad esprimere una rappresentanza effettiva e condivisa; dopo
due anni di dialogo con l’amministrazione e nella prospettiva della gestione delle
misure dedicate al commercio, le associazioni si sono compattate riuscendo a esprimere rappresentati risultati efficaci tramiti tra gli associati e l’amministrazione: «Negli ultimi due anni le associazioni di categoria si sono attivate concretamente dopo aver superato problemi interni sorti negli anni precedenti che hanno impedito una efficace rappresentanza degli interessi dei commercianti». 29
Tale elemento può essere significativo in un territorio che, come risulta dalle
interviste, manifesta una spiccata tendenza all’individualismo. La convinzione di
poter ottenere dei benefici esponendosi come “massa critica” risulterebbe, quindi,
un utile elemento da utilizzare per scalfire la tradizionale chiusura e conflittualità
delle categorie economiche. Anche tale effetto rileva significativamente in termini di acquisizione di consapevolezza da parte dell’amministrazione la quale si
rende consapevole dell’importanza del suo ruolo di “controparte”, capace di influenzare la struttura e la disponibilità del capitale sociale, e delle sue potenzialità
in riferimento ad azioni rivolte alla promozione dell’associazionismo tra i cittadini e alla diffusione del coinvolgimento degli stakeholders.
Alcuni effetti propulsivi si rilevano già ad oggi: il rapporto quasi quotidiano
tra amministrazione e associazioni di categoria ha costituito il retroterra nel quale
hanno preso forma nuovi progetti di collaborazione che proiettano il partenariato
in un orizzonte temporale che va oltre la programmazione dell’intervento comunitario in esame. Numerose sono le iniziative, già svolte e ancora in corso, che
testimoniano questo spirito collaborativo quali, ad esempio, la creazione del
CCN (Centro Commerciale Naturale) di Carrara Capoluogo (grazie anche ad un
finanziamento regionale acquisito in collaborazione con una associazione di categoria) e gli accordi sottoscritti, già nel 2002, per la nascita di consorzio tra
commercianti in tutte le più importanti aree commerciali del territorio e la realizzazione di programmi integrati di intervento (es: PISL) 30. Con gli ulteriori soste-
28
Va sottolineato come i rapporti tra Amministrazione, Associazioni di Categoria e singoli imprenditori (che si recano ogni giorno presso la struttura comunale per informazioni, pratiche ecc…) erano comu nque precedenti il programma Urban, l’attuazione del programma ha rappresentato l’occasione per il consolidamento degli stessi.
29
Estratto da un’intervista sul campo
30
L’esperienza maturata dalla gestione delle misure dedicate al commercio dimostra anche la necessità
e l’importanza di politiche di sostegno alle singole misure intraprese con Urban, che in questo caso hanno
anche il vantaggio di essere politiche di sostegno condivise tra amministrazione e destinatari che valutano
insieme le esigenze e le possibilità e insieme si mobilitano per attirare fondi e finanziamenti sul territorio.
Ne siano esempi i finanziamenti regionali ottenuti dal Comune per sostenere le botteghe storiche e quali
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
387
gni economici, avviati sin dal 2002 e con una azione di sensibilizzazione svolta
anche con il supporto delle Associazioni si è andata creando, nei commercianti,
una diversa consapevolezza dei problemi da affrontare e delle possibili soluzioni,
irrealizzabili uti singuli. La spinta dell’amministrazione è stata determinante affinché i commercianti si consorziassero per svolgere un’attività di promozione
dell’area e del prodotto; l’amministrazione comunale ha infatti sostenuto finanziariamente la realizzazione di manifestazioni promozionali e di spettacoli all’interno del centro storico del Comune Capoluogo, con lo scopo di contribuire in
modo incisivo al consolidamento di uno spirito di corpo tra i commercianti.
Questa finalità evidenzia l’effettiva aumentata consapevolezza nell’amministrazione della rilevanza e dell’importanza di interfacciarsi con un tessuto
socio-produttivo capace di rappresentarsi e organizzarsi per interessi comuni, e,
in un contesto sociale fortemente individualista, rappresenta un primo tentativo di
mettere in atto strategie a sostegno delle dinamiche di aggregazione sociale; processo quest’ultimo indispensabile al fine di esprimere, valorizzare e capitalizzare
le potenzialità presenti nel territorio. È adesso agevole sostenere che l’implementazione del programma ha consentito di sviluppare e consolidare il rapporto
di dialogo e collaborazione tra l’amministrazione e le associazioni di categoria31
del “settore occasione” creando un’abitudine e una prassi ormai consolidata, si
tratta a questo punto di comprendere se e come questa prassi sia stata percepita
all’esterno, e se e come abbia determinato volontà di “imitazione” in altri settori
dell’amministrazione o del tessuto sociale e produttivo. Tale eventualità dimostrerebbe la capacità del settore occasione di essere una occasione anche dal punto
di vista specifico dell’analisi fin qui condotta e cioè della capacità di disseminare
un “modus adiuvandi” improntato ai criteri del partenariato pubblico-privato.
“Settori occasione” e disseminazione
La potenzialità di diffusione del settore occasione deve essere valutata in riferimento anzitutto con settori produttivi affini e, possibilmente, in relazione alla
capacità di rendere visibile alla cittadinanza il grado e il risultato della modalità
di collaborazione attuata tra amministrazione e privati; diffondendo la consapevolezza della centralità di un rapporto di “rete” tra tessuto socio-economico e
amministrazione, perché capace di aumentare, non solo l’efficacia delle politiche
pubbliche ma anche, il soddisfacimento di bisogni e interessi specifici.
In riferimento al primo punto utilizzeremo a parametro di riferimento la categoria economica dell’artigianato, che per tipologia di attività, diffusione sul territorio e modalità di aggregazione di categoria, ben si presta al confronto, per di
più risulta essere particolarmente adatta in quanto inclusa nella programmazione
dedicati allo sviluppo dei Centri Commerciali Naturali; progetti per i quali amministrazione e associazioni
di categoria hanno lavorato fianco a fianco
31
Il rapporto di partenariato instaurato tra amministrazione e associazioni di categoria è stato più volte
menzionato, anche nel corso delle riunioni con la Comunità Europea ed in sede di Comitato di Sorveglianza per la verifica del programma, tra quelli più forti e consolidati.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
388
di Urban (è destinataria di una linea di finanziamento dedicata all’artigianato artistico del marmo) e, per questo, più facilmente esposta a occasioni di confronto.
Ciò che emerge dalle interviste realizzate sembra sostenere in pieno la tesi di
una forte potenzialità diffusiva del settore commercio, infatti, gli artigiani intervistati hanno manifestato una attenzione e una volontà di imitazione del tipo di
dialogo realizzato dai commercianti; si evince infatti dalle dichiarazioni rilasciate
(trasversale a tutte le interviste realizzate con gli operatori del settore) un progressivo abbandono di un approccio che considerava come punto d’onore avere
avviato e mantenuto un’attività artigianale senza il minimo sostegno/contatto con
l’amministrazione locale, in favore di una consapevolezza dell’importanza, nella
società odierna, di realizzare rapporti di collaborazione con l’amministrazione
comunale, in prospettiva di una reciproca promozione e sostegno. Sembra un notevole passo in avanti anche se non interamente imputabile al programma in esame (si ritiene impraticabile il tentativo di separare l’effetto netto dall’effetto
lordo).
In merito si sottolinea come sia stata chiaramente percepita da questa categoria, l’attenzione dell’amministrazione verso il settore del commercio, e come sia
stato interpretato in modo assolutamente positivo il tipo di dialogo e di collaborazione instaurato con l’amministrazione, tanto da far desiderare di ottenere, anche per la propria categoria, una simile attenzione, per poter instaurare un altrettanto proficuo dialogo.
Anche in questo ambito non è facile separare gli effetti netti da quelli lordi, ma
non può non essere segnalato come, dopo decenni caratterizzati da tentativi falliti, nel 2003 gli artigiani artisti del marmo abbiano cominciato un percorso di aggregazione di categoria, dando vita a una associazione che attualmente consorzia
14 laboratori (i più grandi per produzione), con l’auspicio di poter in futuro rappresentare tutti gli operatori del settore. Significativo risulta essere il primo atto
del consorzio: garantire la disponibilità dei laboratori aderenti a sostenere una iniziativa del Comune (Disegnare il marmo) con la precisa e dichiarata volontà di
creare le premesse di un rapporto collaborativo e dialogico con
l’amministrazione locale. Il mancato raggiungimento dell’esito auspicato, unito
alla valorizzazione di quanto fatto per i commercianti, sta diffondendo la sensazione di essere considerati come interlocutori di serie B da parte
dell’amministrazione comunale; questo sentimento rischia di minare le neonate
aperture. «Noi non siamo considerati dal comune, si è visto anche in occasione
della predisposizione di un corso, finanziato attraverso Urban, per la formazione
di formatori e di artigiani del marmo, per la realizzazione del quale siamo stati
coinvolti solo a “pacchetto ultimato”, con i corsisti già selezionati. Questo approccio del Comune è stato letto da parte di tutti i consorziati come un sintomo
della scarsa considerazione e valorizzazione del nostro lavoro, nonché delle difficoltà che ci troviamo ad affrontare ogni giorno. Per questo nessuno si è reso disponibile». 32 Tale realtà non fa che suffragare gli esiti della valutazione già conclusa per Urban I in riferimento all’importanza di una fase pre-programmatoria
32
Estratto da un’intervista sul campo
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
389
approfondita e condivisa, che conduca gli attori del territorio ad una lettura valoriale condivisa e a un reciproco riconoscimento di ruolo.
Questo elemento emerge chiaramente anche in riferimento al secondo punto in
esame, la percezione della cittadinanza: se, come anticipato, ai commercianti
viene trasversalmente attribuito un ruolo rilevante nella definizione del sentiero
di sviluppo della città, questo riconoscimento è spesso collegato a un responsabilità in negativo. Questo determina un sentimento che rasenta quasi il “giustizialismo” non si vorrebbe che l’amministrazione stanziasse dei fondi destinati per rivitalizzare la rete commerciale in quanto quest’ultima è ritenuta colpevole del
suo stesso stato di inadeguatezza e della scarsa attrattività della città. «Il comune
non deve dare soldi ai negozianti. E’ gente infame! Se vai nei loro negozi sembra
che ti facciano un favore a servirti. C’è una mancanza di sensibilità, di atteggiamento adeguato da parte dei commercianti; parlo di tutti, dal tabacchino al negozio di abbigliamento». 33 La mancanza di condivisione dell’idea progettuale di
fondo e della sua comunicazione (di cui sopra) determina dei fraintendimenti di
non poca rilevanza: «Urban è una bella cosa. Magari questi soldi non si sa bene
come vengono usati. Dal giornale si sa che anche qualche commerciante ha usufruito di questi soldi. Non credo che i soldi per migliorare le cose pubbliche debbano essere dati ai commercianti, per abbellire i loro negozi». 34 Il rischio concreto riguarda la possibilità che una pratica di partenariato effettivo e efficiente, come quella realizzatasi tra il comune e la categoria dei commercianti, venga letta
secondo il vecchio (e del tutto contrario ala logica del partenariato) modello del
consociativismo e delle connivenze tra poteri locali forti, che piuttosto che avvicinare la cittadinanza all’amministrazione e stimolare al dialogo rischia
di
creare una incomunicabilità/ incomprensione e una progressiva disaffezione.
8. Partenariato orizzontale a livello europeo
Come abbiamo avuto modo di anticipare nel paragrafo 2, la Commissione Europea ha inteso migliorare l’efficacia progettuale dell’iniziativa Urban II rispetto
alla precedente apportando alcune modifiche alla sua struttura. Tra queste rileva,
ai fini della valutazione delle acquisizioni in termini di sviluppo di relazioni intergovernative, tra amministrazioni dello stesso livello, l’inserimento di una linea
di finanziamento diretta alla costruzione di una rete europea per lo scambio di
“buone prassi” tra le città coinvolte in programmi di rigenerazione/riqualificazione urbana. Il finanziamento ha consentito non solo di confrontare
e diffondere le buone prassi, ma, come anticipato, ha rappresentato l’occasione
per la costituzione di tavoli di studio comuni, su tematiche auto-definite.
L’approccio manifestato dall’amministrazione comunale in merito a tale rete
di città riflette quello tenuto in riferimento alla comunicazione del programma e
al rapporto di partenariato stabilito con le parti sociali, in cui il ruolo di tali attori
33
34
Estratto da un intervento in un focus group
Estratto da un intervento in un focus group
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
390
risultava acquisire rilevanza in termini di disseminazione di informazioni: il Comune, in qualità di Autorità di gestione, si dichiara responsabile della «partecipazione alla costituenda rete delle città, UrbanI-II e Urban programma nazionale, ai
fini della diffusione dei risultati ottenuti in tema di politiche urbane del massimo
scambio delle buone pratiche» (Comune di Carrara 2001a, 87). L’accento, anche
in questo caso, è posto solo sul primo obiettivo del programma: la diffusione delle migliori prassi, in un esercizio, certamente utile ma riduttivo, di benchmarking.
Andando ad indagare di fatto il ruolo giocato dalla città di Carrara in tale rete
si scopre che la città di Carrara non risulta ad oggi inserita in alcuno degli items
di studio nei quali si è articolata la piattaforma europea. La partecipazione attiva
ad uno degli items di studio avrebbe rappresentato una interessante occasione di
confronto e di scambio, consentendo alla città di approfondire i nodi tematici a
lei più cari, e avrebbe permesso anche la diffusione di maggiori competenze
all’interno del personale in organico dell’amministrazione; superando il rischio
insito nel benchmarking e relativo al perseguimento strumentale di obiettivi
quantitativi definiti ex ante al solo fine di ottenere buoni risultati in termini di
graduatorie, in favore di un approccio rivolto alla creazione di occasioni di stimolo per una riflessione condivisa riguardo a strumenti, metodi e anche rischi, legati
allo sviluppo e all’implementazione di una certa azione/politica (Vesan, 2006, 9).
A testimonianza dell’approccio dell’amministrazione comunale si cita
l’accordo stipulato tra la città di Carrara e l’associazione di città “Petra” (che
coinvolge alcune città del mediterraneo) al fine della trasferibilità del programma; d’altro canto non può non menzionarsi l’inserimento attivo della città nella
Rete città antiviolenza Urban. La portata di tale esperienza risulta però ridotta a
causa da un lato del non inserimento della stessa nel programma Urbact, che
permette uno scambio tra i contenuti di riflessione maturati nei tavoli dedicati ai
diversi items, e dall’altro a causa della tematica oggetto dell’aggregazione che risulta specifica e ridotta …. Vista la disponibilità e la sensibilità manifestata
dall’amministrazione con l’adesione a tale rete, ci si sarebbe aspettati una maggiore attenzione e partecipazione al progetto di piattaforma europea.
Sembra ad oggi che dirigenti e amministratori stiano guardando con crescente
interesse alle possibilità derivanti dall’inserimento della città in qualcuno degli
items, un inserimento attivo della città pur nel limite intrinseco dovuto alla tempistica dimostrerebbe l’effettivo percorso compiuto anche in tal senso e consentirebbe di dare un segnale della consapevolezza e della volontà maturate in termini di sviluppo di progetti (anche di studio) in partenariato e di sostegno alla
diffusione di una cultura orientata al cambiamento, e proiettata pienamente nella
realtà europea. Restiamo in attesa di un segnale concreto in tal senso.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
391
9. Considerazioni conclusive
In conclusione riteniamo utile sintetizzare i contenuti della riflessione in
una tabella riepilogativa delle azioni analizzate e degli indicatori scelti e rilevati:
P
R
O
G
R
A
M
M
A
Z
I
O
N
E
I
M
P
L
E
M
E
N
T
A
Z
I
O
N
E
CAPACITY BUILDING IN UN’OTTICA DI PARTENARIA TO / GOVERNANCE
ELEMENTI INTERNI ALL ’ INTERVENTO URBAN
ELEMENTI DI CONTESTO
P RINCIPIO DI
RILEVAZIONE
ELEMENTI A SOSTEAZIONE STRATEGICA
INDICATORE
ELEMENTI IMPEDIMENTI
RIFERIMENTO
a marzo 2006
GNO
Tipologia degli accorCoinvolgimento di altri
Sottoscrizione di proelevato
di: adesione al prolivelli istituzionali
gramma
Integrazione
tocolli di adesione al
vert icale
programma con altre
Integrazione con altri
Rischio di delega di alcuamministrazioni
strumenti della proBuono
ne tipologie di azioni ad
grammazione territoriale
altri strumenti
coinvolgimento dei differenti settori
Devoluzione della prodell’amministrazione
assente
assente
grammazione ad un ente
comunale nella fase di
terzo “Ater”
programmazione vera e
propria
Realizzazione ufficio
Realizzato
Previsione istit uzione
compiti assegnati
Integrazione
di un apposito ufficio
prettamente di
Scarsa dotazione di perorizzontale inter- Urban II con compiti
Destinazione ufficio
assistenza tecnica
sonale
governativa
di coordinamento tra
e del monitoraguffici
gio
Previsione di azione
dedicata alla creazione di una rete affidaRealizzazione rete
assente
bile fra le strutture
coinvolte negli interventi
I Partner sociali sono visti
come beneficiari delle
Integrazione
Sottoscrizione di proScarso (strumenazioni, e non come risorsa
orizzontale sotocolli di intesa di
coinvolgimento dei sog- tale alla divulga- Creazione della società Tipologia accordi sottociale /
diffusione del progetti
zione di contenuti Progetto Carrara Spa
scritti: di diffusione
Management dei
gramma
già definiti)
Valutazione
top-down dei
conflitti sociali
bisogni rilevati tra la popolazione
capacità di coinvolgiOrientata alla diffusione
Sviluppo del
Strategia comunicat imento attorno all’idea
Scarsa
di informazioni in favore
capitale sociale
va
progettuale
dei destinatari delle azioni
? Apertura sportello
Livello delle competenze
SUAP
ristretto numero di risorse
del personale relativa? Realizzaz. portale: umane assegnate, nei vari
mente alle pratiche euAumentato
uffici,
cadinellarete.it ; uniropee e agli strumenti
co tra i comuni ade- all’implementazione del
della programmazione
programma
renti a livello proInserimento nel Covinciale
mitato di sorveglian- Creazione di una rete di
Rilevata e giudiza di rapp. di tutti i
rapporti a tanti livelli
Integrazione
cata importante
partner ist ituzionali
(dal livello europeo a
vert icale
dai protagonisti
quello locale)
grado di consapevolezza
della necessità di sost enere processi di innovaaumentato
zione e di sviluppare le
ICT
Interpretazione della rete
Partecipazione a reti Livello di partecipazione
basso
come occasione di diffudi scambio tra città
attiva a rete Urbact
sione risultati
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
Consapevolezza importanza di sviluppare progetti in partenariato con
altre città a sostegno di
una cult ura orientata al
cambiamento
Inserimento nel CoIntegrazione
mitato di sorveglianorizzontale inter- za dei responsabili
governativa
delle diverse misure e
azioni
I
M
P
L
E
M
E
N
T
A
Z
I
O
N
E
Integrazione
orizzontale sociale
Management dei
conflitti sociali
consapevolezza importanza di concentrare le
azioni dei settori
consapevolezza importanza di coordinare le
azioni dei settori
aumentato
392
? Gestione diretta
amm. comunale di
tutto iter progettuale
? Rilevazione feedback strategie di azione
aumentato
aumentato
Inserimento nel Comitato di sorveglianza dei rapp. di tutti i
partner sociali
Partecipazione delle parti sociali
aumentata
Azioni specifiche
dedicate alla strategia
di comunicazione
Grado di partecipazione
/ conoscenza della cittadinanza al progetto in
corso
basso
Co-decisione con i
partner (“settore occasione”) nella fase
di implementazione
Consapevolezza rilevanza ruolo del Comune nel
coinvolgimento stakeholders
Consapevolezza importanza analisi ambiente
esterno
all’amministrazione
Comunicazione interpretata come informazione
vs “settore occasione”
Effetto di “compattamento” nelle associaaumentato
zioni di categoria
coinvolte
Storia amministrativa
percepita come caratterizzata da una scarsa continuità nelle polit iche
aumentato
Effetto diffusivo
Individuazione di un
“settore occasione”
anche in rif. alle potenzialità diffusive
Sviluppo del
capitale sociale
Co-decisione con i
partner nella fase di
implementazione
vs “settore occasione”
Grado di conoscibilità
del rapporto tra amm. e
“settore occasione”
Consapevolezza importanza per l’amm. di coltivare le relazioni con e
tra stakeholders
Consapevolezza rilevanza ruolo del Comune
nello sviluppo del capitale sociale
Scarsa efficacia della strategia di comunicazione
(rischio di errata interpretazione del “rapporto preferenziale”)
Disaffezione e sfiducia de
i cittadini verso
l’amministrazione (scarsa
continuità delle politiche)
elevato
aumentato
aumentato
Effetto di “compattamento” nelle associazioni di categoria
coinvolte
Come anticipato in occasione dell’introduzione al disegno di riflessione gli indicatori scelti sono a carattere qualitativo, una tale tipologia di indicatore ha il
vantaggio, che è contemporaneamente uno svantaggio, di evidenziare modificazioni ordinali in termini di consapevolezza ed esperienza dell’amministrazione,
senza rilevare effetti quantificabili di strategie di azione derivate dalle acquisizioni stesse. I tempi di svolgimento della ricerca, sia relativamente
all’implementazione del programma sia al ridotto lasso di tempo dell’indagine (6
mesi) oltre che il carattere sussidiario di tale riflessione rispetto alla ricerca principale, hanno suggerito di percorrere tale strada. Si tratterà pertanto di verificare,
in tempi successivi e possibilmente dopo un congruo periodo di tempo dalla conclusione del programma, il percorso che dal risultato in termini di aumentata consapevolezza della rilevanza delle pratiche di governance per l’efficacia
dell’azione politica, nonché della centralità del ruolo dell’amministrazione nella
gestione di tale processo e nel radicamento della cultura della governance, dovrà
condurre l’amministrazione ad una traduzione delle stesse in prassi amministrative, permeando l’azione di tutta l’organizzazione e informandone i processi deci-
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
393
sionali e gestionali. A questo punto gli indicatori dovranno avere carattere quantitativo e rilevare oltre che gli strumenti implementati la loro efficacia rispetto agli obiettivi di riferimento.
A chiusura della riflessione si ritiene inoltre importate porre l’attenzione del
lettore, e ancora di più dell’amministratore, su due momenti del processo di programmazione che assumono un ruolo determinante per la riuscita delle stesse: innanzitutto la fase di programmazione della politica, che deve assolutamente prevedere una fase di condivisione con gli attori del territorio che conduca ad una
lettura valoriale condivisa e a un reciproco riconoscimento di ruolo, e quindi (in
senso temporale) la fase di impleme ntazione che deve coinvolgere il più possibile
i destinatari della politica in una stretta collaborazione con l’amministrazione – i
«‘piccoli momenti decisionali’, spesso considerati come secondari e dati per direttamente conseguenti alle decisioni strategiche di alto livello, hanno in realtà la
capacità di modificare i contenuti della politica ed, eventualmente, comprometterne la buona riuscita» (Sisti 2006, 99). La rilevanza dei due momenti ai fini del
buon esito progettuale richiedono competenze e capacità specifiche dell’amministrazione che devono essere sviluppate e supportate adeguatamente, e che
non possono essere improvvisate a costo di gravi ripercussioni in termini di legittimazione della rappresentanza, e su cui l’amministrazione deve acquisire un grado di consapevolezza tale da condizionarne gli investimenti in termini di risorse.
L’obiettivo di “fare sistema” – tanto citato in tutti i documenti di programmazione comunitari, nazionali e regionali e ripreso dallo stesso documento di programmazione dell’iniziativa Urban II a Carrara – non può che assegnare un ruolo
centrale all’amministrazione, la quale deve farsi carico di sostenere e sviluppare
il “sistema” locale, e per poterlo fare non può prescindere dalle competenze che
favoriscono l’integrazione verticale (capacità di raggiungere accordi di collaborazione tra i vari livelli di governo a partire dalle due direzioni: top-down e bottom-up), l’integrazione orizzontale sia interorganizzativa (capacità di coordinare
e concentrare gli interventi condotti dalle varie articolazioni delle istituzioni (integrazione intersettoriale) che sociale (capacità di affrontare problemi collettivi
attraverso il coinvolgimento degli attori sociali, profit e non profit), il
management dei conflitti sociali (capacità di disporre di strumenti per il superamento dei conflitti sociali che vadano oltre gli strumenti direttivi, e verso il problem solving e dispute resolution) e lo sviluppo del capitale sociale (capacità di
mettere in atto azioni che hanno come obiettivo l’aumento del capitale sociale di
un territorio/regione; in modo da migliorare l’efficacia delle forma di partenariato e di coinvolgimento degli stakeholders).
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
394
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STORIA DELLE IDEE
Il concetto di modernità in Jürgen Habermas. Un indice ragionato
Luca Corchia
Dipartimento di Scienze Sociali
Università di Pisa
[email protected]
+39 050 2212420
Abstract
Nella Premessa al Discorso filosofico della modernità (1985) Habermas scrive, in
maniera enfatica, che il tema, ricco di sfaccettature, della “modernità come progetto incompiuto” segna l’inizio la sua riflessione e dagli anni ’80 “non gli ha dato più pace”. 1
In effetti, la “modernità” si presenta come un “oggetto d’analisi obbligato” anche solo dal punto di vista del necessario auto-chiarimento disciplinare. È con la formazione
delle società moderne che si differenziano come “forme del sapere specialistico”, la
scienza politica, l’economia politica, l’antropologia culturale e la sociologia. Ed è, ancora, dalla prospettiva della “riflessione filosofica” che si avvia dal tardo secolo XVIII una
rinnovata consapevolezza intellettuale intorno alla coscienza storica del tempo moderno,
ai principi costitutivi del “nuovo mondo” e alle “cesure” rispetto alla cultura passata.
Non si deve, però, ridurre il concetto di modernità alla visione filosofica del mo ndo.
Anche questa prospettiva – peraltro presente negli scritti di Habermas –, deve essere ricondotta all’interno del programma di ricerca della “teoria dell’evoluzione sociale”,
considerando assieme i processi di “razionalizzazione culturale” del mondo vitale e la
“differenziazione” di nuovi “principi di organizzazione sociale” rispetto a quelli con cui
si erano riprodotte le formazioni tradizionali. Il merito dei suoi studi, una volta ricondotti a unità, è di seguire la trasformazione delle sfere culturali di valore alla luce dei problemi che coinvolgono la riproduzione delle strutture sociali e delle forme di vita tradizionali, mediando le esigenze della teorizzazione astratta e le vicende della storia concreta. In tal senso, egli segue la tradizione di ricerca dei classici del pensiero sociale, da
A. Comte sino alla scuola di T. Parsons, attraverso K. Marx, E. Durkheim e M. Weber.
Dopo aver esposto in che cosa consiste, secondo il nostro Autore, il “razionalismo
occidentale”, qui, ci limitiamo a fornire un indice ragionato dei temi con cui Habermas
ha ricostruito il concetto “formazione sociale moderna” attraverso l'analisi degli “albori
della modernità”, delle “società capitalistico- liberali” e delle “società contemporanee”.
Indice
1. Il razionalismo occidentale
2. Gli arbori della modernità
3. Le società capitalistico-borghesi
4. Le società contemporanee: dopo il ‘45
5. Le società contemporanee: i problemi di oggi
1
397
402
404
410
416
J. Habermas, trad. it. Premessa, in Id., Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni (PDM), Ba ri-Roma, Laterza, 1987, p. VII.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
397
1. Il razionalismo occidentale
Habermas esamina i fenomeni che circoscrivono il “concetto di razionalismo
occidentale”, sistemando nel quadro della “teoria dell’evoluzione sociale”, le indicazioni dei classici del pensiero sociale e avvalendosi della suddivisione tra 1.
i “sistemi sociali”, 2. le “tradizioni culturali” e 3. le “strutture della personalità”.
1.1. Riguardo ai sistemi sociali, egli definisce “modernizzazione ” il graduale
sviluppo del mercato e dello stato di diritto regolate con lo strumento del “diritto
formale”. Si tratta dell’istituzionalizzazione complementare di un’“amministrazione statale” con un’organizzazione razionale di funzionari che opera sulla base
del diritto statuito e monopolizza il potere politico e di un’“impresa capitalistica”
che separa giuridicamente il patrimonio familiare da quello imprenditoriale,
organizza la forza lavoro formalmente libera secondo criteri di efficienza, utilizza
le conoscenze scientifiche e persegue il profitto sul mercato concorrenziale. 2
Il processo di “modernizzazione” avviatosi a partire dal XVIII° secolo in parte
dell’Europa occidentale costituisce il “fenomeno centrale” da spiegare sia all’interno della tradizione marxista che per gli studiosi che si sono accostati al
“problema della modernità” attraverso gli studi weberiani.3 Questa definizione
del “principio organizzativo” delle società moderne dovrebbe essere sufficiente
al fine di seguire l’argomentazione di Habermas. Nei punti 3.1 - 3.3 descriverò
meglio la dinamica di tali complessi istituzionali implementati appieno nelle
società capitalistico-borghesi, mentre, qui, mi interessa rilevare che cosa significhi che in essi sono “incarnate” le “strutture della coscienza moderna”. Cosa
c’è “razionale” nell’evoluzione della società capitalistica e degli stati territoriali?
La “modernizzazione” è processo di “razionalizzazione sociale” in quanto il
potenziale di razionalizzazione delle immagini del mondo ha prodotto una “implementazione sociale”, tramite l’ancoramento delle strutture della “razionalità
rispetto allo scopo” nel sistema della personalità e la materializzazione dei principi universalistici nel sistemi del “lavoro sociale”, del diritto privato e nel potere legale di un’amministrazione pubblica modellata da idee giusprivatistiche.4
2
J. Habermas, tr. it. Storia ed evoluzione, in Id., Per la ricostruzione del materialismo storico (RHM),
Milano, Etas Libri, 1979, cit., p. 187.
3
«Max Weber concepisce la modernizzazione della società, in modo analogo a Marx, come differenziazione dell’economia capitalistica e dello Stato moderno. Entrambi si integrano nelle loro funzioni al punto
di stabilizzarsi reciprocamente. Il nucleo organizzativo dell’economia capitalistica è costituito
dall’impresa capitalistica che - è separata dall’amministrazione domestica – con l’aiuto del calcolo del
capitale (contabilità razionale) – orienta le decisioni sugli investimenti sulla base delle opportunità offerte
dal mercato dei beni, del capitale e del lavoro – impiega in modo efficiente forza-lavoro formalmente libera – utilizza tecnicamente le conoscenze scientifiche. Il nucleo organizzativo delle Stato è costituito
dall’apparato statale razionale che – sulla base di un sistema fiscale centralizzato e continuativo –
dispone di una forza militare permanente guidata a livello centrale – monopolizza la statuizione del diritto e l’uso legittimo della forza – organizza l’amministrazione burocraticamente, vale a dire sotto forma di
un potere di funzionari specializzati. Il diritto formale fondato sul principio di statuizione funge da strumento organizzativo per l’economia capitalistica e lo Stato moderno, nonché per il rapporto tra di essi»
[J. Habermas, tr. it. La teoria della razionalizzazione di Max Weber, in Id., Teoria dell’agire comunicativo (TKH), Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 246-247].
4
Ibidem, pp. 315-317.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
398
1.2. Habermas dedica molto spazio alla cultura della prima modernità, in quanto per spiegare il “potenziale necessario” alla modernizzazione sociale ritiene di
dover esaminare la “razionalizzazione” delle immagini religioso-metafisiche del
mondo, sotto l’aspetto della sistemazione interna e, soprattutto, sotto quello del
“disincanta mento” della cultura tardo-medioevale con l’approfondirsi della “riflessività” e dell’“auto-nomizzazione” delle differenti “sfere di sapere culturale”.
Il mutamento nell’esperienza simbolica dei mondi “naturale”, “sociale” e “soggettivo”, che favorisce lo sviluppo delle “scienze sperimentali” nella spiegazione
dei fenomeni naturali, sociali e psichici, delle “dottrine morali e giuridiche postconvenzionali” nella giustificazione del potere socio-politico e di un’arte profana
che rappresenta una “nuova soggettività” ed è mediata dalla “critica estetica”.
Secondo lo studioso tedesco, dal “processo storico-universale” della razionalizzazione delle immagini religioso-metafisiche del mondo emergono le “strutture della coscienza moderna”. Si tratta di un modo di essere che non conosce “sfere risparmiate dalla forza critica del pensiero ipotetico” e che egli indica con i
termini “riportare a principi” e “decentramento delle prospettive del mondo”. 5
Habermas riassume i caratteri che deve possedere una tradizione culturale affinché la produzione istituzionalizzata del sapere specialistico si apra un varco
sul piano della comunicazione quotidiana sostituendo il sapere tradizionale nella
sua funzione di guida. Se nella prima modernità si sono realizzati le condizioni
di una differenziazione e razionalizzazione delle sfere di valore, solamente a partire dalle società borghesi questo potenziale culturale è stato istituzionalizzato.6
1.3. Habermas svolge, quindi, alcune riflessioni sul processo di razionalizzazione che coinvolge il “sistema della personalità”, esaminando il concetto webe5
Ibidem, pp. 312-313.
«a) La tradizione culturale deve apprestare concetti formali per il mondo oggettivo, sociale e soggettivo, deve ammettere pretese differenziate di validità (verità proposizionale, giustezza normativa, veridicità
soggettiva) e stimolare ad una corrispondente differenziazione di atteggiamenti di fondo (oggettivante,
conforme a norme ed espressivo). Allora si potranno produrre espressioni simboliche ad un livello formale, su cui esse sono collegate sistematicamente con ragioni e risultano accessibili ad una valutazione oggettiva; b) La tradizione culturale deve consentire un rapporto riflessivo verso se stessa. Deve essere privata della propria dogmatica in modo che le interpretazioni alimentate dalla tradizione possano essere
messe in discussione in linea di principio e sottoposte a una revisione critica. Allora si potranno analizzare sistematicamente i nessi interni di senso e si potranno analizzare metodicamente interpretazioni alternative. Si assiste così alla nascita di attività cognitive di secondo grado: processi di apprendimento – guidati
da ipotesi e filtrati mediante argomenti – in sfere del pensiero oggettivante, del convincimento praticomorale e della percezione estetica. c) La tradizione culturale nelle sue componenti cognitive e valutative
si deve lasciar accompagnare da argomentazioni specialistiche così che i corrispondenti processi di apprendimento possano essere istituzionalizzati socialmente. Per questa via possono sorgere sottosistemi
culturali per la scienza, la morale e il diritto, per la musica, l’arte e la letteratura, nei quali si formano tradizioni suffragate in modo argomentativo, fluidificate grazie alla critica permanente, ma nel contempo
tutelate dalla professionalità. d) La tradizione culturale deve infine interpretare il mondo vitale in modo
che l’agire orientato al successo possa essere affrancato dagli imperativi dell’agire comunicativo e possa
essere, quantomeno parzialmente, sganciato dall’agire orientato all’intesa. In tal modo diventa possibile
una istituzionalizzazione sociale dell’agire razionale rispetto allo scopo per finalità generalizzate, ad es. la
formazione di sottosistemi regolata da denaro e potere per un agire economico razionale e
un’amministrazione razionale» [J. Habermas, tr. it. Introduzione: approcci alla problematica della razionalità, in Id., TKH, cit., pp. 139-140].
6
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399
riano di “condotta metodica razionale di vita” e chiarendo la “genesi storica” delle “motivazioni” che favorirono la sua diffusione delle istituzioni moderne. Nella
definizione del concetto egli segue le riflessioni che Weber ha compiuto
sull’equivalente concetto di “razionalità pratica” sotto cui sono sussumibili i)
l’“agire razionale rispetto allo scopo” e ii) l’“agire razionale rispetto al valore”.7
Secondo Habermas, per quanto entrambi gli aspetti della razionalità dell’agire
possano presentarsi indipendentemente l’uno dall’altro, se le persone o i gruppi
sociali generalizzano al di là dello specifico contesto temporale e sociale azioni
che soddisfano le condizioni della “razionalità pratica nel suo insieme” ricorrono
i termini descritti nel concetto di “condotta di vita metodico-razionale”. Ora secondo Habermas questo potenziale etico e cognitivo che sorge con la razionalizzazione delle visioni del mondo necessità di una “implementazione” in strati più
ampi della società moderna affinché le “nuove idee” possano riorientare, compenetrare e vincolare le motivazioni e razionalizzare appieno gli ordinamenti sociali
profani.8 Egli segue, quindi, l’ipotesi che la socializzazione tramite l’interiorizzazione nelle strutture della personalità di nuovi valori culturali da parte di gruppi sociali esemplari, si sia estesa all’intero sistema sociale. Esemplare sarebbe, in
particoalre, la genesi di una “morale retta da principi e individuale” da cui
sono sorti sia lo “spirito capitalismo” dell’“imprenditore” che l’“etica professionalizzata” del “burocrate” 9 a tre “sistemi culturali di azione” in cui le “tradizioni
morali” sono elaborate sistematicamente: a) una “comunità religiosa” i cui
membri condividono un’etica della convinzione che sistematizza tutti gli ambiti e
che, in modo razionale rispetto al valore, fissa gli orientamenti di azione razionali
rispetto allo scopo nel sistema della personalità; b) una “comunità giuridica” in
cui viene elaborato un sistema di norme coercitive che per la sua struttura formale è adeguato a pretendere dagli agenti come comportamento legittimo il perseguimento dei propri interessi di parte in modo razionale rispetto allo scopo orientato al successo in una sfera d’azione eticamente neutralizzata; c) un “comunità
scientifica” che elabora un quadro teorico delle strutture economiche, e dei meccanismi di riproduzione di una mercato in cui la produzione e lo scambio delle merci passa da un sistema mercantilistico a un regime di concorrenza tra imprese e a un regime di contrattazione nei rapporti tra il capitale e la forza lavoro.
1.4. Con questa sistematizzazione analitica, egli recupera l’ipotesi che la società moderna si è formata dalla combinazione di una serie di fenomeni che han7
«Weber ha differenziato il concetto di razionalità pratica sotto tre aspetti seguenti: l’impiego dei mezzi,
la determinazione degli scopi e l’orientamento ai valori. La razionalità strumentale si commisura
all’effettiva pianificazione dell’impiego dei mezzi dati alcuni scopi; la razionalità della scelta si commisura alla giustezza del calcolo degli scopi tenendo conto dei valori esattamente intesi, di mezzi e condizioni marginali date; la razionalità normativa di un’azione si commisura alla forza unificatrice, sistematizzante e alla penetrazione dei criteri di valore e dei principi che stanno alla base delle preferenze di azione. Weber definisce razionali rispetto allo scopo le azioni che soddisfano condizioni della razionalità
dei mezzi e della scelta e razionali rispetto al valore le azioni che soddisfano condizioni della razionalità
normativa» [J. Habermas, tr. it. La teoria della razionalizzazione di Max Weber, in Id., TKH, cit., p. 263].
8
Ibidem, pp. 318-319.
9
Ibidem, p. 253.
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400
no generato il suo mutamento sui piani della “riproduzione materiale” e “simbolica”. Dal punto di vista della “delimitazione metodologica” tra l’“analisi empirica” delle “determinanti esterne” dei contenuti culturali delle forme di sapere (i
problemi della “dinamica di sviluppo”) e la “ricostruzione razionale” dei “nessi
interni di senso” da punto di vista (la “logica di sviluppo”) Habermas non solo si
impegna in un programma Per la ricostruzione del materialismo storico ma suggerisce altresì una “lettura non ufficiale” di Weber a partire dai suoi scritti sulla
sociologia della religione e sull’etica economica. Il quadro teoretico di riferimento, da un lato, allarga il concetto di razionalità all’interno della “teoria dell’azione” con il fine di ricomprendere i processi di razionalizzazione morale nel
mondo vitale, dall’altro, restringe la portata esplicativa della stessa teoria dell’azione all’interno della “teoria della società” a favore di una concezione parsoniana (e luhmanniana) dei “sistemi sociali” più attenta ai “problemi sistemici”. 10
1.5. Questa “impostazione scientifica” favorirebbe la ripresa sia della questione se la nascita della società moderna possa essere concepita come un “processo
di razionalizzazione” che del problema se il “razionalismo occidentale” vada
concepito come peculiarità della moderna cultura europea (e americana) oppure
come un “fenomeno universale” insito nello “sviluppo di ogni uomo civile”. 11
Il concetto di “formazione sociale moderna” si costruisce a partire dalla memoria collettiva della storia sociale europea, ma mantiene il carattere ideal-tipico
che permette di comparare società diverse su aspetti rilevanti, come ad esempio
l’estensione della vita urbana, l’imporsi di un’amministrazione centrale, la secolarizzazione dei valori e delle norme, la separazione tra religione e stato, la realizzazione dello stato di diritto, del benessere sociale e della democrazia, lo sviluppo dell’economia, ma anche il ruolo della scienza, della morale e dell’arte, la
formazione delle astratte identità egoiche dell’individualismo istituzionalizzato,
ecc.12 Habermas contesta l’uso specialistico del termine “modernizzazione” nella
prospettiva comparativa di un funzionalismo sociologico che separa questo fascio
di processi cumulativi che si rafforzano a vicenda dal loro contesto storico.13 E al
pari di Weber, Habermas ritiene che esista un “rapporto interiore”, ossia non contingente, fra la “modernità” e la “società occidentale” che egli sceglie come terreno privilegiato delle proprie indagini. Ma la “costellazione moderna” non è ideograficamente propria solo del nostro mondo occidentale. L’insieme di fenomeni che definiamo “moderni” si riferisce a possibilità implicite nelle forme cul10
J. Habermas, tr. it. Considerazione conclusiva: da Parsons attraverso Weber sino a Marx, in Id., TKH,
cit., pp. 953-956.
11
J. Habermas, tr. it. La teoria della razionalizzazione di Max Weber, in Id., TKH, cit., pp. 271-278.
12
J. Habermas, tr. it. Il mutamento di paradigma in Mead e Durkheim, in Id., TKH, cit., pp. 656-662.
13
«La teoria della modernizzazione apporta un’astrazione gravida di conseguenze al concetto weberiano
della modernità: ossia, separa la modernità dalle sue origini europee moderne e la schematizza in un modello di processi sociali di sviluppo generali, prescindendo dalle determinazioni spaziali e temporali; inoltre interrompo i collegamenti interni fra modernità e il contesto del razionalismo occidentale, di modo che
i processi di modernizzazione non possono più venir concepiti come razionalizzazione, ossia come
un’oggettivazione storica di strutture razionali» [J. Habermas, tr. it. La coscienza temporale della modernità e la sua esigenza di rendersi conto di se stessa, in Id., PDM, cit., pp. 2-3.]
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401
turali di vita, che egli ricostruisce a partire dallo sviluppo delle “funzioni universali” di comprensione, interazione e socializzazione del linguaggio umano di
fronte a sfide sistemiche che le comunità sociali debbono risolvere innovandosi.
1.6. Nella ricostruzione della “cultura occidentale” Habermas ha specificato,
inoltre, le condizioni per cui è possibile identificare un’implementazione “selettiva” dei potenziali contenuti nella razionalizzazione delle immagini del mondo.14
Ciò che mi interessa, qui, evidenziare è che, interrogandosi sulle ragioni che hanno prodotto uno specifico sfruttamento di “possibilità pragmatico-formali” del
“discorso”, il sociologo tedesco ha saputo indirizzare i propri studi verso le forme
di sapere – scienze naturali e sociali, dottrine morali e giuridiche, arti ed estetica
– che sociologicamente hanno risposto, evidentemente, ai “bisogni storico-evolutivi” e su cui le società moderne hanno investito risorse materiali e simboliche.
Al contempo, però, egli ha avvertito che il “grandioso processo di smembramento” delle visioni del mondo in sfere di valore autonome ha lasciato aperti dei
“problemi di mediazioni” che sono divenuti il terreno privilegiato di “controculture” il cui pungolo critico è l’aspetto speculare del moderno sviluppo cultur ale.15
Habermas concepisce la sua opera come una “teoria post-marxista della società” che cerca di sfruttare il potenziale argomentativo delle scienze sociali, per
formulare asserti sulla costituzione e lo sviluppo della società moderna: «Queste
diagnosi restano controverse anche se sono motivate in modo abbastanza attendibile. Esse rendono soprattutto un servizio critico possono far svanire le reciproche prevenzioni di teorie affermative del progresso e di teorie negativiste
della decadenza, di ideologie dell’imperfezione e di totalizzazione affrettate». 16
In tale contesto, la tesi sulle “razionalizzazioni mancate” o “incompiute” si accompagna a quella della scissione tra il “sapere specialistico” degli esperti e il
sapere di senso comune, a cui sono ricondotti sia l’“impoverimento culturale”
che caratterizza la costruzione condivisa del senso delle cose, delle relazioni e di
sé che la “reificazione indotta sistemicamente” del sapere specialistico utilizzato
come mero strumento di manipolazione a fini economici, politico-amministrativi,
ecc. degli atteggiamenti quotidiani dei consumatori, degli utenti di servizi, ecc.
Con questa riflessione, Habermas sposta radicalmente il piano problematico
indicato dal M. Weber con la nota tesi sull’odierna “perdita di senso” culturale.
14
J. Habermas, tr. it. La teoria della razionalizzazione di Max Weber, in Id., TKH, cit., p. 342
«Così, ad esempio, le impostazioni non-oggettivistiche della ricerca fanno valere, all’interno delle
scienze umane, e senza minacciare il primato delle questioni di verità, anche i punti di vista della critica
morale ed estetica. Così la discussione sull’etica della responsabilità e l’etica della convinzione, e la maggiore considerazione di motivi utilitaristici all’interno di etiche universalistiche, mettono in gioco quegli
aspetti del calcolo delle conseguenze e dell’interpretazione dei bisogni, che si collocano nell’ambito di
validità del cognitivo e dell’espressivo. L’arte post-avanguardistica, infine, è caratterizzata dalla singolare compresenza di correnti realistiche e politicamente impegnate con l’autentica prosecuzione della
modernità classica, che aveva fatto emergere il senso proprio dell’estetico; ma appunto con quest’arte realistica e politicamente impegnata si fanno valere, sul livello di quella ricchezza di forme che è stata messa
in libertà dall’avanguardia, momenti del cognitivo e del morale» [J. Habermas, tr. it. La funzione vicaria e
interpretativa della filosofia, in Id., Etica del discorso (MB), Roma -Bari, Laterza, 1985, p. 22].
16
J. Habermas, tr. it. Excursus: trascendenza dall’interno, trascendenza nel mondo, in Id., Testi filosofici
e contesti storici (TuK), Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 149.
15
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2. La genesi delle istituzioni della prima modernità
Definito il “razionalismo occidentale”, Habermas delinea il quadro storico in
cui si formarono le “istituzioni” che diedero avvio agli “arbori della modernità”.
2.1. Habermas introduce i problemi sistemici che “sovraccaricano” le capacità
di sviluppo di una società medioevale, le cui istituzioni fondamentali, l’impero, il
feudalesimo e la chiesa, non risolvono all’interno delle limitate possibilità date
dal sistema esistente. Pervengono alla coscienza collettiva come risorsa scarsa
l’effettività dell’ordine politico e l’accrescimento del valore economico.17 La soluzione di queste crisi viene ricondotta all’istituzionalizzazione dell’“economia
capitalistica” e dello “stato borghese”, la cui genesi passa tramite lo sviluppo
dell’“urbanesimo” e degli “stati territoriali” – in particolare di quest’ultimi
Habermas esamina il “mercantilismo commerciale”18 e l’“assolutismo politico”
nella giustificazione del potere regale avanzata dal giusnaturalismo di Ho bbes.19
Da un lato, egli riprende l’ipotesi della storiografia francese che la rinascita
delle città italiane, tedesche, ecc. a partire dai secoli XII-XIII abbia avviato un
processo che, dal punto di vista economico, favorì l’affermazione della “mentalità del mercante”, dal punto di vista sociale, determinò una ridefinizione nella
stratificazione tra i ceti sociali, dal punto di vista politico, apportò innovazioni al
sistema del feudalesimo, e dal punto di vista culturale, creò il fertile terreno sui
cui maturò l’umanesimo. D’altro lato, Habermas esamina l’affermarsi di una economica mercantilista diretta dagli interventi dell’autorità centrale e la formazione di un potere assoluto che intorno alla monarchia si innalza al di sopra di
una società cetuale privatizzata. La nascita degli “stati territoriali” incardinati su
un’“amministrazione stabile”, un “esercito permanente” e un “fisco centralizzato”, costituisce una precondizione per lo sviluppo del mercato capitalistico e
dello stato costituzionale borghese, sebbene il mercantilismo sia una forma di interventismo nell’economia difforme dai principi della libera concorrenza elaborato dalle teorie liberiste e l’assolutismo sia una forma di governo sulla società,
antitetica ai principi della divisione dei poteri sostenuti dal liberalismo politico.
2.2. Habermas ricostruisce le “fonti della legittimazione” degli stati territoriali
introducendo il problema che viene a determinarsi nell’epoca delle eresie, chiese
nazionali e guerre civili di religione con la crisi della “fondazione teologica
dell’ordine sociale”. 20 Risultano, qui, interessanti le note che egli svolge sul
“concetto di tolleranza” – anzitutto religiosa – nel quadro della “secolarizzazione” delle società europea e del graduale passaggio dalle dottrine politiche assolutiste a quelle “liberali” e “repubblicane”. Nella ricerca delle condizioni affinché il
17
J. Habermas, tr. it. Tesi per la ricostruzione del materialismo storico, in Id., Dialettica della razionalizzazione. Vecchi e nuovi saggi inediti in italiano (DR), Milano, Unicopli, 1983, p. 163.
18
J. Habermas, tr. it. Storia e critica dell’opinione pubblica (SWÖ), Bari, Laterza, 1971, pp. 26-38.
19
J. Habermas, tr. it. Ricostruzione del diritto (1): Il sistema dei diritti, in Id., Fatti e norme. Contributi a
una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (FuG), Milano, Guerini e Associati, 1996, p. 112113.
20
J. Habermas, tr. it. Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza, in
Id., L’inclusione dell’altro: studi di teoria politica (EdA) , Milano, Feltrinelli, 1988, p. 125.
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403
dissenso e la comprensibile riprovazione tra fedeli di confessioni diverse siano
neutralizzate dall’accordo su ragioni imparziali, Habermas segue l’ipotesi di R.
Forst21, evidenziando nel “concetto di tolleranza” della “prima modernità” il passaggio dalla “concezione di permesso” a quella di “rispetto” e rileggendo le fondazioni filosofiche del diritto al libero esercizio della fede di Locke e di Bayle.
2.3. Habermas introduce, il nucleo del “progetto illuministico della modernità”, ricostruendo i “mutamenti di struttura” che si manifestano nella “sfera
dell’opinione pubblica”, l’emergere di una concezione illuministica del tempo
moderno come “età nuova”, la lotta contro l’autorità delle tradizioni culturali al
fine di realizzare l’“uscita dell’uomo dallo stato di minorità” e l’“impegno degli
intellettuali” nella divulgazione a un largo pubblico del sapere scientifico e morale che faccia progredire le condizioni dell’umanità. Sebbene, egli non abbia esaminano l’illuminismo come “problema storiografico”, dai suoi scritti emergono
tre elementi che caratterizzano un “movimento di idee”, che a partire dagli inizi
del XVIII secolo allarga la sua influenza a tutta la società europea con la divulgazione a un largo pubblico di un sapere scientifico e morale che faccia progredire
le condizioni del genere umano. L’illuminismo ha significato un radicale mutamento dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti degli arcana Dei, degli arcana
naturae e degli arcani imperi. Il saggio di Kant esemplifica bene il nesso moderno tra la libertà e l’autonomia, in una prospettiva di filosofia della storia dominata dalle idee del “progresso materiale” e “spirituale”. Habermas esamina questa
concezione negli assunti del Quadro di Condorcet, svolgendo una critica articolata in quattro brevi riflessioni su: a) l’equiparazione tra il sapere scientifico
e le forme di apprendimento, b) la sua funzione di illuminazione nello svalutare
le immagini religiose-metafisiche del mondo, c) l’estensione della idea di progresso scientifico al perfezionamento morale degli uomini, e d) l’impegno degli
intellettuali a ridefinire le forme della convivenza civile che possono favorire
le libertà, la pace perpetua, la crescita economica e la ricchezza sociale, ecc.22
2.4. Nella teoria della cultura moderna conserva una certa autonomia espositiva la rivisitazione del “mutamento paradigmatico” all’interno della storia del
pensiero filosofico. Egli identifica il principio della filosofia moderna nella “soggettività”, esaminando le caratteristiche della “filosofia della coscienza” rispetto
alla riflessione antica sull’“essere degli enti” e la riflessione contemporanea sulla
“funzione semantica” di apertura del mondo da parte del linguaggio.23 Il confronto con le critiche kantiane e la filosofia di Hegel è il filo conduttore attrave rso cui
egli segue la rielaborazione dei temi filosofici nelle sfere teoretiche, morali ed estetiche intorno ai concetti di “autocoscienza del “soggetto epistemico”, “autonomia del soggetto pratico” e “realizzazione del soggetto sensibile”. In ogni ambito di riflessione filosofica Habermas individua una reazione della cultura idealistica e romantica dei primi ’800 che problematizza la “razionalità illuminista”.
21
J. Habermas, tr. it. Dalla tolleranza alla democrazia, in «Micromega», V, 2003, pp. 311-328
J. Habermas, tr. it. La teoria della razionalizzazione di Max Weber, in Id., TKH, cit., p. 235.
23
J. Habermas, tr. it. La metafisica dopo Kant, in Id., Il pensiero post-metafisico (NMD), Bari-Roma, Laterza, 1991, pp. 16-17.
22
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404
3. Le società capitalistico-liberali
Habermas elabora un’analisi dettagliata delle “società capitalistico-borghesi”.
3.1. Il sociologo tedesco introduce, anzitutto, il concetto di “modernizzazione
sociale”, con cui intende – come abbiamo già anticipato, l’imporsi a partire dal
XVIII secolo in parte dell’Europa di una “formazione sociale” organizzata intorno alle istituzioni dell’“impresa capitalista” e dello “stato moderno”.24 L’ambito
d’analisi è costituita dal reciproco rapporto istituzionale tra le amministrazioni
statali e le imprese capitalistiche – due organizzazioni che operano razionalmente
in vista di propri fini costitutivi grazie a funzionari e imprenditori. Il diritto formale fondato sul principio di statuizione da parte del potere politico costituisce lo
strumento organizzativo per l’economia capitalistica e lo stato moderno e regola
la loro relazione. D’altra parte, nelle società moderne si compie il processo di differenziazione dei sotto-sistemi funzionali con compiti di “integrazione sistemica”
dagli ambiti del mondo della vita che assolvono compiti di “riproduzione culturale”, “integrazione sociale” e “socializzazione”. Mentre Weber aveva spiegato la
“modernizzazione sociale” lasciandosi guidare dall’idea della “razionalità rispetto allo scopo” dell’“agire economico” e dell’“agire amministrativo” – poiché
l’impresa privata e l’amministrazione pubblica sono organizzate da imprenditori
e funzionari, i quali calcolano razionalmente l’uso dei mezzi rispetto agli obiettivi e alle condizioni delle situazioni di azione –, secondo Habermas, la misurazione dell’incidenza degli “orientamenti razionali dell’azione dei membri” sulla razionalità dell’organizzazione non coglie la specificità del “fenomeno burocratico”.25 In “condizioni di appartenenza all’organizzazione” si affermano forme di
“interazione regolate giuridicamente” e “integrate” non già attraverso processi di
intesa su “valori” e “norme” veicolati da “media linguistici” bensì “sistemicamente” attraverso “me dia non linguistici” – il “denaro” e il “potere”. 26 Nello studio della burocratizzazione, egli abbandona gli strumenti concettuali della teoria
dell’azione e segue la strategia neofunzionalista favorendo la teoria sistemica.
A differenza di Luhmann, Habermas sostiene, però, che – all’interno di ambiti
di azione “organizzati formalmente” – le interazioni si “intrecciano” e “dipendono” dal mondo vitale. Senza le competenze, le solidarietà e le motivazioni dei
membri i programmi formali dell’organizzazione non potrebbero assolutamente
perseguire e realizzare gli obiettivi. La funzionalità dei sotto-sistemi sociali e il
riconoscimento pubblico dei loro “media di regolazione e controllo” mantengono
il legame con il “centro virtuale di auto intesa” della “sfera pubblica fluidificata”
e traggono conferma nei processi di “socializzazione” della “sfera privata”. 27
24
J. Habermas, tr. it. Storia ed evoluzione, in Id., RHM, cit., p. 187.
J. Habermas, tr. it. Considerazione conclusiva: da Parsons attraverso Weber sino a Marx, in Id., TKH,
cit., p. 962.
26
J. Habermas, tr. it. Il diritto: una categoria di mediazione tra i fatti e le norme, in Id., FuG, pp. 51-52
27
J. Habermas, tr. it. Seconda considerazione intermeda: sistema e mondo vitale, in Id., TKH, cit., 786.
25
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405
3.2. Habermas ripercorre l’origine dell’“ancoramento motivazionale” nelle
“strutture della personalità moderna” dello “spirito del capitalismo” integrando i
noti studi di Weber sull’etica religiosa delle sette protestanti con l’analisi
dell’etica laica delle dottrine dell’utilitarismo morale scozzese. Ma l’“istituzionalizzazione” negli ordinamenti del diritto privato nel tardo ‘700 rende il “modo di
produzione capitalistico” indipendente dai “motivi esterni” degli individui. Coloro che sono coinvolti nei processi produttivi e nelle relazioni di scambio intrattengono tra loro “interazioni sociali smondanizzate”, cioè rapporti sociali “tra
equivalenti” finalizzati dalla logica di mercato e regolati da contratti di “dipendenza lavorativa”. Il “vissuto interiore” dei singoli e le “forme della vita” delle
comunità sociali sono oramai divenute, secondo il sociologo tedesco, l’“ambiente” di un sistema sociale regolato da una economia di mercato capitalistica.28
Habermas non intende spiegare la dinamica del sistema economico capitalista,
quanto piuttosto le relazioni fra l’economia moderna e la società nel complesso.
A tal fine, egli mette in evidenza, in primo luogo, come il “modo di produzione
capitalistico” non abbia origine per la volontà di un “legislatore politico” che attraverso strumenti giuridici costituisce un “nuovo modo di produzione”.
L’organizzazione delle forme dell’“agire economico è stata ceduta”, per così dire, dallo Stato al sistema decentrato delle relazioni di mercato; in ogni modo,
l’amministrazione statuale non controlla più la funzione di indirizzo sociale legata alla riproduzione delle condizioni materiali dei cittadini. Con il linguaggio
funzionalista di Parsons, Habermas afferma che nelle società moderne si forma
un sotto-sistema economico che si specializza in “funzioni di adattamento”. Un
ultimo aspetto della sua analisi riguarda lo studio della “rivoluzione industriale”.
3.3. Habermas descrive lo “stato borghese”, esaminando il modello sviluppato
da Weber di “moderno stato amministratore” fondato su di un “potere razionalelegale”, distinguendo gli aspetti funzionali che lo stato moderno, in quanto “apparato amministrativo” svolge come “istituzione complementare” del traffico autoregolantesi del mercato capitalistico, e la sua legittimazione in una cultura politica improntata ai principi “liberali” e “repubblicani”. Con la nuova “forma
di riproduzione materiale” lo “stato moderno”, infatti, rinnova i propri compiti.
Da un lato, l’“amministrazione statale” sancisce e protegge la “volontà capitalistica globale”. A tale proposito Habermas afferma che «la forma di apparato
statale che può meglio di altre soddisfare il bisogno di ordine in una società industriale è un’amministrazione moderna, che mobilita le risorse (fiscali e forza lavoro), garantisce le relazioni giuridiche fra i soggetti privati e fa fronte ai compiti
collettivi (infrastrutturali, militari, ecc.)». 29 D’altro lato, le società moderne sono
“integrate sistemicamente” tramite il “denaro” e il “potere”, ma questi “media
non-linguistici” di integrazione sistemica sono ancorati in un “mondo vitale integrato socialmente”, cioè attraverso “valori”, “norme” e “processi di intesa”.
28
J. Habermas, trad. it. Seconda considerazione provvisoria: sistema e mondo vitale, in Id., TKH, cit., p.
774.
29
J. Habermas, trad. it. Storia ed evoluzione, in Id., RHM, cit., p. 170.
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Habermas esamina come nell’economia di mercato, regolata amministrativamente, si affermino quelle istituzioni tipicamente bourgeois che preparano il terreno per il “mondo vitale post-tradizionale” dell’homme (nella “sfera privata”)
ma anche del citoyen (nella “sfera pubblica”).30 Qui, egli precisa, quindi, i concetti di “separazione dei poteri”, di “diritti soggettivi” e di “sovranità popolare”,
ricostruendo i capisaldi delle dottrine politiche di Locke, di Rousseau e di Kant.
All’interno della dottrina naturale giusnaturalistica, Habermas distingue la tradizione politica del “liberalismo” e quella del “repubblicanesimo”, secondo cui, in
mancanza d’una copertura religiosa o metafisica, il diritto coercitivo “ritagliato
su misura per l’esercizio egoistico” dei diritti individuali potrà salvaguardare la
sua forza d’integrazione sociale se i “destinatari” delle norme giuridiche saranno
anche in grado di cogliersi, nel loro insieme, come “autori” di queste norme.
Le “libertà civili” sono integrate da “diritti di cittadinanza politica” che tengono
conto non solo della “libertà d’arbitrio” ma anche dell’“autonomia pubblica”.31
Lo “stato liberale di diritto” rappresenta la “seconda grande spinta alla giuridificazione” che trova piena realizzazione nel “costituzionalismo del XIX secolo”.32
3.4. Habermas sostiene che, malgrado gli “effetti disfunzionali secondari”
l’economia capitalistica ha sviluppato una grande forza di affermazione e tenuta,
grazie alla sua capacità di produrre e reinvestire la ricchezza. L’efficienza del
principio di organizzazione capitalistico è stata una novità straordinaria: esso ha
liberato il sistema economico dai vincoli dei sistemi social-integrativi restituendolo ai suoi compiti riproduttivi ma è anche in condizione di contribuire
all’integrazione sociale. E’ il nuovo principio di organizzazione che apre un largo
margine per lo sviluppo di concezioni normative che guidano l’“accelerazione”
negli eventi delle “rivoluzioni borghesi” – le rivoluzioni americana (1776) e
francese (1789).33 Fin dal saggio Diritto naturale e rivoluzione (1963)34, Habermas aveva sottolineato la “grande forza esplosiva” della dottrina giusnaturalistica
dei diritti naturali e il loro nesso con l’economia capitalistica. Seguendo la celebre interpretazione hegeliana di una rivoluzione “partita dalla filosofia”35, egli interpreta “l’epoca delle rivoluzioni” come il tentativo di giustificare l’ordinamento politico in “base alla coazione della sola ragione”. Habermas, affronta, in
secondo luogo, il problema delle “radici” di cultura politica delle rivoluzioni americana e francese, evidenziando come, nonostante il comune riferimento al di30
J. Habermas, tr. it. Considerazioni conclusive: da Parsons attraverso Weber a Marx, in Id., TKH, cit.,
p. 987.
31
J. Habermas, tr. it. Ragionevole contro vero. La morale delle visioni del mondo, in Id., EdA, cit., pp.
114-115.
32
J. Habermas, tr. it. Introduzione: Il materialismo storico e le strutture normative, in Id., RHM, cit., p.
35.
33
J. Habermas, tr. it. Un concetto sociologico di crisi, in Id., La crisi di razionalità nel capitalismo maturo (LPS), Bari, Laterza, 1975, p. 26.
34
J. Habermas, trad. it. Diritto naturale e rivoluzione, in Id., Prassi politica e teoria critica della società
(TuP), Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 127-175.
35
J. Habermas, trad. it. Ancora una volta: sul rapporto tra teoria e prassi, in Id., Verità e giustificazione.
Saggi filosofici (VuR), Bari-Roma, Laterza, 2001, pp. 315-316.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
407
ritto naturale come fonte di legittimazione e la concordanza nella lettera dei testi
delle rispettive dichiarazione dei diritti, le “innegabili differenze” non riguardano
solo il contesto storico degli eventi – l’indipendenza dall’impero britannico per
gli americani, l’abbattimento dell’ancien régime per i francesi ma soprattutto due
diverse “costruzioni giusnaturalistiche” della società civile e dello Stato. Se la
cultura anglosassone privilegia la sfera dei “diritti di libertà” (“autonomia privata”), la cultura continentale sottolinea la “sovranità popolare “(“autonomia pubblica”).36 Questa retrospettiva permette di introdurre l’“autocomprensione dei costituenti” e di criticare l’interpretazione delle “due rivoluzioni” di H. Arendt . 37
3.5. In seguito, si possono introdurre le riflessioni di Habermas sulla “filosofia
hegeliana dello Stato”. Nell’interpretazione dell’etica – la sfera superiore dello
“spirito oggettivo”, egli ricostruisce il concetto hegeliano di “società civile” ed
evidenzia un “istituzionalismo forte” nei rapporti tra la “società civile” e lo “Stato” che, pur proclamando il primato etico dello “spirito del popolo”, privilegia il
“volere del monarca” e sottomette l’opinione pubblica alla “ragion di stato”.38
La retrospettiva sulla “soluzione tendenziosa” della filosofia statuale hegeliana39
–che espone, per certi versi, l’“autocomprensione” del “liberalismo di stato” della Prussia e, poi, della Germania – ci permette di recuperare, in parte, l’esame di
una delle forme di stato che denota l’800 europeo: la “monarchia costituzionale”.
3.6. Il “sistema delle relazioni internazionale” dell’800 viene preso in considerazione da Habermas solo come termine di riferimento nelle sue analisi
sull’attuale organizzazione dei rapporti tra gli stati nazionali. In tal senso, salvo
un riferimento ai studi di K. Polany sull’“equilibrio del potere” tra i grandi stati
europei durante il XIX secolo, egli non affronta né la storia europea dal Congresso di Vienna alla guerra mondiale né la storia dei paesi extraeuropei. Habermas
non approfondisce l’esame dei meccanismi che regolarono la “Santa alleanza”
(1815-46) e il “Concerto europeo” (1871-1904), limitandosi a sottolineare come
tale trasformazione non modifichi il sostanziale primato di una “ragion di stato”
definita secondo i principi di una prudente “politica di potenza” – includente lo
strumento della guerra limitata. II “sistema delle potenze” è un “sistema di stati
sovrani” reciprocamente riconosciuti tramite trattati e diplomazie, e protetto dal
meccanismo della guerra – ossia dal “diritto internazionale classico” che ha retto
le sorti dell’Europa dalla pace di Vestfalia sino alla prima guerra mondiale (1). 40
Habermas descrive, in secondo luogo, i tentativi di I. Kant di elaborare il progetto di una “condizione cosmopolita” che oltrepassi il diritto internazionale rife36
J. Habermas, tr. it. Diritto naturale e rivoluzione, in Id., TuP, cit., p. 132.
J. Habermas, tr. it. Hannah Arendt 1. La storia delle due rivoluzioni, in Id., Profili politico-filosofici
(PPP), Milano, Guerini Associati, 2000, pp. 173-178.
38
J. Habermas, tr. it. Il concetto hegeliano della modernità, in Id., PDM, cit., pp. 39-41.
39
J. Habermas, tr. it. Percorsi della detrascendentalizzazione. Da Kant a Hegel e ritorno, in Id., WuR,
cit., pp. 199-200.
40
J. Habermas, tr. it. La costituzionalizzazione del diritto internazionale ha ancora una possibilità?, in
Id., L’occidente diviso (DGW KPS X), Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 111-113.
37
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
408
rito unicamente agli Stati sovrani. Nel quadro della riflessione sulla “guerra settecentesca”, egli ha definito l’orizzonte di una “pace perpetua” da realizzare tramite una “costituzionalizzazione del diritto internazionale”41 che all’idea di una
“repubblica mondiale” – lo “Stato dei popoli” – finisce per preferire la proposta
“più debole” di una sorta di associazione volontaria e derogabile tra Stati – la
“lega dei popoli”. In questo contesto, Kant individua alcune “tendenze favorevoli” che, secondo Habermas, sono riscontrabili solo in parte e mettono in luce le
“ingenuità” delle attese presenti nella sua “filosofia della storia”. I timori verso il
potere di una “repubblica mondiale” sarebbero dovuti, inoltre, a una prospettiva
storica troppo “ristretta” e a una “contraddizione” della sua dottrina politica (2).
Infine, Habermas ripercorre la riflessione di Hegel sul problema del “riconoscimento internazionale” della sovranità statale e la sua giustificazione della
provvidenza della guerra nel cammino dello “spirito del mondo”. 42 Dalla filosofia della storia di Hegel risulta una soluzione al problematico rapporto tra teoria e
prassi che egli chiarisce nel passaggio alla filosofia dello “spirito assoluto” (3).
Occorre precisare che la disamina delle dottrine del “diritto internazionale” in
Kant e del “diritto statuale esterno” in Hegel, non solo è interna alla storia del
pensiero ma non esaurisce affatto la totalità delle concezioni delle relazioni tra
gli stati elaborate nel corso dell’ottocento, sopratutto se si intendono mettere in
luce i rapporti tra Stati europei e resto del mondo. Solo recentemente, in ragione
dell’interesse su questioni di stretta attualità, Habermas ha precisato che la politica esterna delle nazioni europee, dopo il ’48, sia stata improntata, a un nazionalismo liberale che si considerava legittimato a diffondere in tutto il mondo i valori
universalistici del proprio ordinamento, se necessario anche a sostegno delle armi, soggiogando e sfruttando, al contempo, i popoli delle colonie sorretto in
quest’opera di forzata civilizzazione dall’autorità di un’ecclesia triumphans (4).43
3.7. Si possono, quindi, considerare due orientamenti della “sfera pubblica politica dell’’800” che, secondo Habermas, connotano la cultura politica moderna. 44
Da un lato, l’affermarsi di “identità collettive” che fissano in termini “nazionalistici”, a livello statuale, l’appartenenza e la partecipazione dei cittadini alla comunità politica. Di fronte ai mutamenti radicali prodotti dalle rivoluzioni politiche e industriali dell’Europa del ‘700-’800, Habermas affronta, anzitutto,
l’affermarsi dei “movimenti nazionalistici”, ovvero il “coagularsi dell’identità
collettiva” dei cittadini intorno all’idea di “patria”. Il principio ottocentesco che
la sovranità popolare presuppone un’“omogeneità etnica” ha alimentato sia le rivendicazioni risorgimentali da parte delle popolazioni soggette al giogo di potenze straniere, ma anche forti prevaricazioni verso le “minoranze interne”. Questo
tentativo di ripensare la sovranità statuale come “sovranità del popolo” ricorrendo a connotazioni pre-politiche, “etniche”, fu particolarmente sostenuto laddove i
41
J. Habermas, tr. it. L’idea kantiana della pace perpetua - due secoli dopo, in Id., EdA, cit., pp. 178-185.
J. Habermas, tr. it. La critica hegeliana della rivoluzione francese, in Id., TuP, cit., pp. 186-199.
43
J. Habermas, tr. it. Israele o Atene? A chi appartiene la ragione anamnestica, in Id., Tempo di passaggi
(ZÜ. KPS IX), Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 150, 156.
44
J. Habermas, tr. it. Possono le società moderne formare un’identità razionale , in Id., RHM, cit., p. 90.
42
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
409
processi di modernizzazione sociale e di unificazione politica furono, per
così dire, “storicamente in ritardo”. E proprio in tali esperienze risorgimentali,
secondo Habermas, si annidarono i germi di quella autoaffermazione strategica
dello stato verso i “nemici esterni” e i “nemici interni” che finì per divenire
l’“autoaffermazione esistenziale di una nazione” nella “storia del mondo” (1).45
Habermas ripercorre, d’altro lato, la genesi dell’altra forma storicamente significativa di identità collettiva – la classe – diffusasi nel “movimento operaio
europeo” fin dalla metà dell’800, in gran parte sotto l’influenza teorica del socialismo e del marxismo. In tal senso, egli scrive che “in una fase di antagonismo di
classe la sfera pubblica era lacerata dalla spaccatura delle two nations” facendo
assumere agli “interessi privati un valore politico”. 46 Del pensiero politico del
giovane Marx, Habermas mette in evidenza, soprattutto, le puntuali critiche nei
confronti dei precursori del socialismo, dell’economia politica classica, della democrazia borghese, l’individuazione della lotta di classe come vero motore della
storia e la proposta romantico-speculativa di una società di liberi produttori (2).
3.8. Risultano, poi, interessanti le considerazioni che Habermas svolge sugli
atteggiamenti verso la “propria natura interna” da parte di un soggetto borghese
che trova affermazione in una “sfera privata” costruita sulla professione e sulla
famiglia in un nesso di legami “universalistici” e “individualistici”. Purtroppo,
egli non conduce l’analisi affrontando direttamente i mutamenti nei processi di
socializzazione delle famiglie borghesi, né raffronta il loro sistema di valori con i
modelli educativi degli altri strati sociali. Habermas sostiene che l’idea della famiglia come “comunità volontaria degli affetti” rimane compromessa da rapporti
gerarchici che rispecchiano la stratificazione del “mondo esterno”, per cui un il
raggiungimento di un’effettiva “autonomia” e “autorealizzazione” è discutibile,
in quanto la sua formazione è inseparabile dallo sviluppo dei rapporti capitalistici. Secondo Habermas, l’“intimità familiare, apparentemente libera dalla costrizione sociale”, è il sigillo sulla “verità” di un’autonomia privata che, invece,
nega la sua origine economica. Tuttavia, la fonte principale delle riflessioni è
rappresentata da materiale letterario. La centralità della famiglia nelle rappresentazioni artistiche orientate con finalità pedagogiche, in particolare nel romanzo
familiare, era già stata ben evidenziata sino dalla tesi di abilitazione sulla Storia e
critica dell’opinione pubblica (1961).47 In seguito egli conferma nei risultati della critica d’arte e letteraria di ispirazione marxista (Lukács, Bloch, Benjamin,
Adorno, Löwenthal ecc.) l’ipotesi di un’ambivalenza irresolubile presente nelle
opere dell’arte e letteratura borghese, le quali pur svolgendo funzioni “legittimatorie dell’ordine sociale”, al contempo, veicolano un forte “contenuto utopico”. 48
3.9. Habermas affronta, infine, il problema delle “crisi della società capitalistico-borghese” ripercorrendo gli assunti fondamentali elaborati da Marx nella “teo45
J. Habermas, tr. it., Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza, in
Id., EdA, cit., pp. 119-130.
46
J. Habermas, tr. it. Mutamenti nelle funzioni politiche della sfera pubblica, in Id., SWÖ, cit., p. 217.
47
J. Habermas, tr. it. Strutture sociali della sfera pubblica, in Id., SWÖ, cit., pp. 60-64.
48
J. Habermas, tr. it. Considerazione conclusiva: da Parsons attraverso Weber sino a Marx, in Id., TKH,
cit., pp. 1064-1065.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
410
ria del valore”. I problemi di controllo che si manifestano nel sistema
economico capitalistico, segnato dall’alternarsi congiunturale di periodi ciclici di
crisi e di crescita, proprio in quanto i rapporti di produzione ha assunto anche
funzioni di integrazione sociale si ripercuotono “immediatamente” sui processi di
riproduzione simbolica del mondo vitale. Il sistema capitalistico provoca due
fenomeni connessi: da un lato, riduce il numero dei capitalisti, accrescendo il
dominio della grande borghesia a spese della piccola; d’altro lato, allarga la classe proletaria che acquista, così il carattere di “massa popolare”. Una volta che si è
interrotto il processo di accumulazione della ricchezza, il “contrasto di interessi”
fondato nel “rapporto diseguale tra lavoro e capitale” si manifesta immediatamente nella polarizzazione della società in due “classi antagoniste”, cioè nella
“lotta di classe” (1). Sennonché la “concentrazione dei capitali” che si aprono al
mercato mondiale e l’“intervento dello stato” nel mercato segna, nell’ultimo
trentennio dell’800 l’avvio di una “crisi del capitalismo concorrenziale e liberale” culminata nella prima metà del ‘900.49 A partire da questo mutamento di
struttura sociale, Habermas mette in luce i limiti di fondo della teoria marxiana
della rivoluzione, alla luce delle successive riflessioni sull’“imperialismo” (2).50
4. Le società contemporanee: dopo il ‘45
Ho distinto maggiormente da questo nucleo unitario le indagini che egli compie sulle società contemporanee in cui, per così dire, i nodi irrisolti della razionalizzazione sociale emergono e hanno alimentano tensioni sociali tutt’ora aperte.
4.1. Habermas ripercorre la formazione delle società contemporanee - già avviata sul finire dell’8oo, menzionando appena quel potente “fattore di accelerazione” che fu la prima guerra mondiale. Egli non si interessa delle cause che determinarono la rottura dell’equilibrio internazionale i cui “effetti destabilizzatori”
si protrassero oltre il conflitto. Nell’ottica della teoria dell’evoluzione sociale anche la “Grande guerra” è un evento “contingente” che aggrava le possibilità adattive del “principio di organizzazione” delle “società tardo-liberali”. Secondo Habermas, come “reazione” alla drammatica crisi economico-sociale si sono sviluppati in Europa tre diversi modelli di organizzazione statale: lo “Stato fascista”
(in Italia, Germania, Austria, Spagna, ecc.), lo “Stato socialista” (dapprima Russia, poi stati aderenti al patto di Varsavia, oltre alla Cina, Cuba, ecc.) e lo “Stato
di democrazia di massa e sociale” (Francia, Inghilterra, Stati Uniti, dopo il ’45 in
Europa occidentale). Egli elabora questa distinzione, condivisa nelle scienze sociali, ricorrendo a studi comparativi condotti da sociologi e politologi americani e
tedeschi. Se applicata nella comparazione storica, la teoria dell’evoluzione sociale definisce il quadro teorico dei “modelli di stato” in base all’esame del “principio di organizzazione sociale”. Tuttavia, per evitare il rischio che le “necessità a49
J. Habermas, tr. it. Su alcune condizioni necessarie al rivoluzionamento delle società capitalistiche, in
Id., Cultura e Critica. Riflessione sul concetto di partecipazione politica e altri scritti (KuK), Torino, Einaudi, 1970, pp. 61-72.
50
J. Habermas, tr. it. Sul rapporto tra politica e morale, in Id., DR, cit., pp. 127-128.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
411
stratte” della teoria dell’evoluzione sociale rendano incomprensibile le sue ipotesi, Habermas avverte il bisogno di introdurre una riflessione sulle “cesure” che
scandiscono il flusso temporale della “storia del ‘900”. Lo scritto Imparare dalle
catastrofi? Ripensando il “secolo breve” (1988)51 è, finalmente, un intervento
sul problema dei “criteri di periodizzazione” del ventesimo secolo. In garbato
dissenso rispetto alle tesi di Hobsbawm, Furet e Hildebrand, Habermas rivendica,
per così dire, al tentativo compiuto con la raccolta Per la ricostruzione del materialismo storico di aver chiuso il problema delle “tendenze critiche” delle società
post-liberali. Recentemente, si interroga, poi, sulla situazione mo ndiale seguita
all’11 settembre. Sul finire del 2001, egli risponde alla domanda di G. Borradori
se il recente attacco terroristico e gli attuali scenari di guerra rappresentano degli
“eventi senza precedenti” che modificano in modo radicale l’“esperienza della
nostra vita e dei rapporti con gli altri”. Qui mi preme anticipare solo che, secondo
Habermas per una “diagnosi di lungo periodo” forse “non è così importante ciò
che noi contemporanei proviamo sul momento”. Egli attribuisce, invece, grande
rilievo alla “linea di frattura”, all’interno dell’occidente, tra gli Stati Uniti e
l’Europa. Sebbene le tensioni, anche gravi, nelle loro relazioni vi sono state in
passato, la crisi attuale, a suo giudizio, la svolta della politica estera americana è
la più seria e la più gravida di conseguenze per il futuro dell’Alleanza, in quanto
ha determinato delle nuove ondate di antieuropeismo e di antiamericanismo. 52
4.2. Il rilievo del “totalitarismo” all’interno della teoria dell’evoluzione sociale
non ha mai assunto particolare evidenza rispetto alle continue riflessioni sulle
“democrazie di massa”. Non è un mistero che tra i movimenti politici che hanno
avanzato progetti di sistema - il “fascismo”, il “comunismo sovietico” e la “s ocial-democrazia”, le simpatie di Habermas sono rivolte al “socialismo borghese”,
il quale, senza la pretesa di poter assicurare la “crescita economica senza capitalisti”, ricerca l’egemonia nella formazione dell’opinione pubblica e si introduce,
una volta legalizzato, nelle istituzioni della “sovrana volontà pubblica” al fine di
concordare un compromesso tra le classi sociali che rispetti il cittadino e l’uomo.
Il centro principale della sua riflessione è l’Europa occidentale dopo il 1945.
A dispetto delle intenzioni intellettuali e politiche, Habermas affronta la storia
dei “regimi fascisti” come qualcosa da scongiurare, da consegnare al lavoro storiografico; salvo poi dover intervenire sempre più spesso per difendere la scelta
giudiziosa del tedesco di oggi a favore dello “stato sociale” e dello “stato di diritto a partecipazione democratica”. Egli limita a esaminare l’affermazione degli
stati fascisti europei della prima metà del secolo scorso, nella cui analisi continua
a impiegare il “modello teorico” di K. Offe, esaminando le relazioni tra i sistemi
economici e politici e le sfere pubblica e privata. Egli definisce, anzitutto, il
concetto di “ordinamento totalitario” attraverso l’analisi delle trasformazioni a
cui sono soggetti gli stati tardo liberali sotto il profilo normativo. Habermas introduce, poi, l’esame delle tendenze alla “concentrazione industriale privata” e
51
J. Habermas, tr. it. Imparare dalle catastrofi? Ripensando il secolo breve, in Id., La costellazione
postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia (PNK), Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 6-14.
52
J. Habermas, tr. it. Fondamentalismo e terrore. Un dialogo con J. Habermas, in Borradori G. (ed.), Filosofia del terrore. Dialoghi con J. Habermas e J. Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 30-31.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
412
all’“interventismo pubblico”, accentuate da un’idea del “compromesso interclassista” di tipo “corporativistico” che spiega il nesso tra l’amministrazione statale e
l’economia capitalistica. 53 Inoltre, egli esamina i mutamenti nella riproduzione
simbolica del mondo vitale, mettendo in luce i tratti basilari di un’“ideologia
nazionalistica su basi prepolitiche” che segna in modo specifico la struttura
della “sfera pubblica politica” nei regimi nazisti e fascisti.54 Infine, egli affronta il
tema dell’influenza dell’amministrazione statale nella “sfera di vita privata”, precisando taluni aspetti dell’analisi del fascismo della scuola di Francoforte (1).55
Le lacune nelle ricerche sui “regimi comunisti”, si spiegano sempre, con le
“finalità pratiche” che egli assegna alla teoria dell’evoluzione sociale. La “dissoluzione dell’URSS” non fu neppure ipotizzata perché l’interesse era rivolta verso
altri “contro-modelli” più credibili. Habermas ha messo in luce, soprattutto, i
“tratti regressivi” dell’“ideologia nazionalistica” dei regimi nazi-fascisti e il “tradimento della rivoluzione” da parte dei regimi comunisti. Nei suoi scritti, egli ha
posto l’attenzione su quattro aspetti del “comunismo sovietico”: il modello istituzionale della concentrazione del potere nei soviet centrali e locali56; la dottrina
marxista ufficiale – il Diamat – egemonizzata dal partito comunista57; il soffocamento dell’autonomia dei cittadini in ogni aspetto della sfera privata; la collettivizzazione forzata dell’economia ad opera della burocrazia pianificatrice (2).58
Habermas si interessa di chiarire la trasformazione dei sistemi economicoamministrativi e delle strutture del mondo vitale che negli Stati Uniti, in Inghilterra e nei “paesi continentali liberi” determina un “modello sociale” al quale si è
ispirata la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite. Lo studio sulle formazioni
sociali pre-moderne è un graduale avvicinamento all’esame delle democrazie di
diritto a stato sociale nel quadro instabile dell’assetto dei rapporti capitalistici.
4.3. Il sociologo tedesco, delinea, anzitutto, un modello descrittivo delle caratteristiche che segnano il passaggio, assai complesso, al “capitalismo organizzato”. Sul versante del sistema economico, si tratta della concentrazione di imprese
e capitali – la “fine del capitalismo concorrenziale” – e dell’organizzazione
scientifica della produzione e del lavoro; sul versante del sistema amministrativo,
concerne la “politica interventista dello Stato” sia nella regolazione e controllo
dei cicli economici che dei rapporti sociali – la “fine del capitalismo liberale”. 59
4.4. Le funzioni sostitutive del mercato e compensative delle “conseguenze
dis-funzionali del processo di accumulazione” sono tipiche del capitalismo rego53
J. Habermas, tr. it. Da Lukács ad Adorno: razionalizzazione come reificazione, in Id., TKH, cit., p. 489.
J. Habermas, tr. it. Riflessioni sul concetto di partecipazione politica, in Id., KuK, cit., pp. 31-32.
55
J. Habermas, tr. it. Considerazione conclusiva: da Parsons attraverso Weber fino a Marx, in Id., TKH,
cit., pp. 1054-1055.
56
J. Habermas, trad. it. Rivoluzione recuperante ed esigenza di revisione della sinistra, in Id., La rivoluzione in corso (NR KPS VII), Milano, Feltrinelli, 1990, pp. 188-189.
57
J. Habermas, tr. it. Sulla discussione filosofica intorno a Marx e ai marxismi, in Id., DR., cit., p. 28.
58
J. Habermas, tr. it. Considerazione conclusiva: da Parsons attraverso Weber fino a Marx, in Id., TKH,
cit., pp. 1061-1064.
59
J. Habermas, tr. it. Tendenze di crisi nel capitalismo maturo, in Id., LSP, cit, pp. 37-40.
54
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
413
lato dallo Stato. Questi fenomeni definiscono il passaggio al “capitalismo maturo”, in cui sotto taluni aspetti la “politica neomercantilista” dell’intervento statale
procede di pari passo, anche, con una “rifedualizzazione della società” da parte di
“interessi organizzati”. Con gli strumenti della “politica economica keynesiana”
la regolazione dello scambio tra economia e stato ha creato le condizioni strutturali del compromesso tra le classi economiche. Secondo Habermas, il “compromesso sociale” assicurava ai cittadini l’attesa di vivere in condizioni di relativa
giustizia distributiva tra classi e di crescente benessere individuale. Nelle economie miste, lo Stato disponendo di una quota di prodotto sociale, ha il margine di
azione richiesto per mettere in atto, attraverso prestazioni di trasferimento e sovvenzione, un’efficace politica sociale e occupazionale. Esso può influenzare le
condizioni della produzione e della distribuzione avendo come obiettivo la “crescita economica”, la “stabilità dei prezzi” e la “piena occupazione”. Lo Stato si
accolla i costi esternalizzati dall’economia privata e compensa le “conseguenze
disfunzionali” del processo di accumulazione capitalistica, soprattutto a favore
della classe operaia e di altri gruppi capaci di organizzazione che possiedono delle forme di minaccia efficaci.60 Se la “selettività” dell’intervento statale lascia
scoperte altre aree di tensione sociale, il quadro in cui l’amministrazione svolge
le funzioni di regolazione e controllo, e la pressione di “interessi organizzati”,
determina una “crisi di razionalità” nelle decisioni – un “deficit di output” – che
Habermas riconduce alle “contraddizioni strutturali” del sistema capitalistico.61
4.5. Nelle democrazie occidentali il problema di legittimazione dell’organi zzazione sociale può essere considerato sotto i tre aspetti dello “stato di diritto”, dello “stato sociale” e della “democrazia politica”, ossia della tutela dei “diritti di libertà soggettiva”, del “sistema di sicurezza sociale” e del grado ragionevole di
“partecipazione politica”, che non si limiti alla sola “rappresentanza”, ma metta
in relazione le istituzioni e i cittadini, al fine di determinare processi di “formazione della volontà politica” rispondenti a “interessi generali”. Secondo Habermas, sebbene non vi sia una “connessione concettualmente necessaria” tra la democrazia politica, i diritti civili e lo stato sociale, la liberalizzazione delle forme
di vita nella sfera privata e la realizzazione dello stato sociale hanno determinato
una stretta “connessione empirica” favorevole un’effettiva partecipazione dei cittadini alle forme costituzionalmente previste di esercizio della loro sovranità popolare.62 All’interno delle sfere dei diritti, secondo Habermas, i diritti sociali di
redistribuzione servo no ad assicurare l’“equo valore”, ossia come scrive J.
Rawls, gli effettivi presupposti per “pari opportunità di utilizzo”, dei classici diritti alle libertà individuali (“civili” e “politiche”). 63 Ogni potere dello Stato democratico discende da una “sovranità popolare” che trova una concreta manifestazione attraverso “forme di partecipazione politica” dei cittadini sia nella costi60
J. Habermas, tr. it. Considerazione conclusiva: da Parsons attraverso Weber fino a Marx, in Id., TKH,
cit., pp. 1011-1017.
61
J. Habermas, tr. it. Tendenze di crisi nel capitalismo maturo, in Id., LPS, cit., pp. 67-69.
62
J. Habermas, tr. it. Sociologia del diritto e filosofie della giustizia, in Id., FuG, cit., p. 96.
63
J. Habermas, tr. it. Legittimazione tramite diritti umani, in Id., EdA, cit., p. 223.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
414
tuzione degli “organi di rappresentanza” che nella formazione dell’“opinione
pubblica”. 64 Dopo aver svolto considerazioni sulla trasformazione dell’equilibrio
dei poteri costituzionali, con la sempre maggiore importanza del governo sul parlamento e indicato le principali regole del gioco democratico nelle società pluralistiche, Habermas mette in luce come il consenso pubblico risulti, al tempo stesso, sia il “primo anello” nella “catena della formazione legittima della volontà e
dell’opinione politica”, sia l’“ultimo anello” nella “catena della produzione della
lealtà di massa” di cui si munisce il sistema politico per rendersi indipe ndente
dalle restrizioni provenienti dal mondo vitale. Questa “tensione dilemmatica” tra
differenti “meccanismi di integrazione” è elusa, secondo Habermas, dalle interpretazioni unilateralmente normative o empiriche.65 La definizione della teoria
procedurale della democrazia e l’esame sulle condizioni per una sua traduzione
sociologica riporta al centro dell’analisi il ruolo dei mass-media. Habermas condivide con la Arendt l’idea di rivitalizzare la sfera pubblica contro il “privatismo
civico” di una popolazione spoliticizzata e contro il procacciamento di lealtà di
massa messo in atto dal “sistema partitocratico”. Solo il recupero di una “cittadinanza attiva” può contrastare un potere statale burocraticamente autonomizzato.66
4.6. Lo sviluppo dello stato sociale e della democrazia politica hanno modificato profondamente la rappresentanza degli interessi nelle società capitalistiche
avanzate, producendo, altresì, un mutamento nelle modalità e nell’intensità del
“conflitto di classe”. Certo, rimangono tensioni sociali dovuti al permanere di
povertà e diseguaglianze tra i ceti sociali e tra le aree geografiche, ma queste non
mettono in pericolo il sistema. Vi sono, invece, delle “lotte di riconoscimento”
che riguardano la “grammatica di forme di vita”. In tal senso, egli discute la contestazione di un liberalismo radicale, con echi esistenziali, dapprima, nella forma
immatura del movimento studentesco, quindi nella protesta civile alimentata negli anni ’70 dai movimenti di rivendicazione per i diritti universali dell’uomo.
Habermas ricostruisce, in primo luogo, le rivendicazioni del “movimento
femminista”, esaminando le prime lotte per l’eguaglianza giuridica, la “critica alla società patriarcale”, il problema difficile della “differenza sessuale femminile”
– non senza effetti nella definizione delle identità maschili -, la critica alla scissione tra sfera privata e sfera pubblica, e infine, la ridefinizione delle “politiche
delle pari opportunità” che al fine di materializzare i diritti formalmente riconosciuti, tramite lo strumento dello stato sociale hanno prodotto, peraltro, anche,
provvedimenti che non rispondono alle esigenze delle donne poiché paternalisticamente elaborati e attuati senza che esse abbiano “voce in capitolo” (1).67
Habermas affronta, poi, lotta delle “minoranze etnico-culturali” provenienti da
paesi extracomunitari per il riconoscimento delle loro identità collettive e forme
di vita. Le “società multiculturali” si trovano di fronte a una serie di scelte deci64
J. Habermas, tr. it. Il nesso interno tra stato di diritto e democrazia, in Id., NR KPS VII, cit., p. 255.
J. Habermas, tr. it. Ricostruzione del diritto (2): I principi dello stato di diritto, in Id., FuG, cit., p. 163.
66
J. Habermas, tr. it. Tre modelli normativi di democrazia, in Id., EdA, cit., p. 243.
67
J. Habermas, tr. it. Paradigmi del diritto, in Id., FuG, cit., pp. 498-505.
65
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
415
sive, quali la decisione se avviare politiche di integrazione di tipo “assimilatorio”
che impongono la “disponibilità all’acculturazione” o politiche che richiedono
solo una “socializzazione politica,” l’alternativa se introdurre o meno nei nostri
ordinamenti costituzionali dall’“impianto individualista” dei “diritti collettivi” alla tutela e/o alla promozione di “determinate forme di vita”. Habermas discute
con C. Taylor se considerare “inconciliabile” con lo stato di diritto una tutela di
tali forme di vita attraverso l’intervento politico (“Liberalismo 2”) che oltrepassa
il classico principio del pari rispetto per ciascuno individuo del “Liberalismo 1”.
Egli sostiene l’ipotesi che la dottrina dei diritti soggettivi, “correttamente intesa”,
non è “cieca” nei confronti della salvaguardia delle differenze culturali se vi è
“democrazia partecipativa”. 68 Il “patriottismo costituzionale” non richiede l’accordo sui valori in relazione a cui ogni subcultura continua a riprodotte le “peculiarità identitarie” ma solo sulle procedure relative ad una legittima produzione
giuridica, ad un legittimo esercizio del potere politico. Su tale modello si inserisce come “surrogato” della “solidarietà civica” la “solidarietà tra estranei” (2).69
Per altro verso, negli ultimi decenni i fenomeni della globalizzazione economica e della cosiddetta “crisi fiscale” degli stati nazionali hanno riportato
l’interesse di Habermas sui classici problemi della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale. Nell’ottica della discussione sulle “lotte di riconoscimento” negli Stati democratici di diritto, egli ha, dunque, affrontato il tema
della “disobbedienza civile” come “mezzo estremo” di “moralizzazione” a disposizione dei “gruppi emarginati e/o gruppi discriminati” per ridestare l’attenzione
nella maggioranza verso i “principi costituzionali e/o di legalità disattesi” (3).70
4.7. A partire dal modello di C. Offe sulle relazioni sociali contemporanee, egli afferma che i processi di “monetarizzazione” e “burocratizzazione” investono
progressivamente tutte e quattro le figure sociali che si situano nei “punti di sutura” tra Lebenswelt e System (il “lavoratore” e il “cliente”, il “cittadino” e
l’“utente”), minacciando sia la “sfera privata” che quella “pubblica”.71 Il problema della “colonizzazione” delle sfere pubbliche e private – in cui si ricreano
quegli apprendimenti che riproducono la cultura, l’integrazione sociale e la socializzazione privata – è esaminato principalmente a partire dagli “effetti collaterali
“della amministrazione pubblica.72 Tale indagine chiarisce perché il tentativo di
rispondere politicamente ai problemi di oggi deve conservare la prioritaria difesa
dell’autonomia privata contro interventi eccessivi dello Stato nelle sfere di vita –
una “cartina di tornasole” del liberalismo. Tuttavia, quel modello di scambio
tra economia e amministrazione statuale, da un lato, e il mondo vitale, dall’altro,
68
J. Habermas, tr. it. Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas – Ch. Taylor, tr. it. di L. Ceppa, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento (M), Milano, Feltrinelli, 1998, pp.
63-68, 81-89.
69
J. Habermas, tr. it. La costellazione post-nazionale e il futuro della democrazia, in Id., PNK, cit., p. 50.
70
J. Habermas, tr. it. Monopolio della violenza, coscienza giuridica e processo democratico, in Id., NR
KPS VII, cit., pp. 170-173.
71
J. Habermas, tr. it. Considerazione conclusiva: da Parsons attraverso Weber sino a Marx, in Id., TKH,
cit., p. 981.
72
Ibidem, pp.1039-1044.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
416
non riguarda soltanto la dialettica tra sistemi sociali e società. La sua indagine riguarda, inoltre, i “processi di colonizzazione” della personalità e della cultura in
cui si riproducono le motivazioni che l’alimentano la società e i valori che la legittimano. Queste due componenti del mondo vitale – il sistema della personalità
e il sistema culturale –, pur essendo espressione di comunità sociali, mantengono
una loro logica di sviluppo. Secondo Habermas, la colonizzazione del mondo
vitale rischia di produrre non solo l’“anomia sociale” ma anche la “rottura
della tradizione culturale” e vere “psicopatologie” a causa di una regolazione
dei nessi di azione dei media di controllo, il denaro e il potere, a scapito di una
“tradizione culturale libera” e di un’“autochiarificazione interiore autentica”. 73
4.8. Habermas è intervenuto nella riflessione sull’eredità e sulle prospettive del
socialismo sia dal punto di vista teorico – la revisione del materialismo storico –
che pratico-politico in merito alle linee-guida di un “riformismo” che non tradisca gli ideali emancipativi e riesca a coniugare “gli ideali di giustizia e libertà”. 74
5. Le società contemporanee: i problemi d’oggi
5.1. All’interno di questo quadro teorico, il concetto di “globalizzazione non si
riferisce solo alla nuova dimensione in cui si muovono l’impresa capitalistica e il
capitale finanziario, di fronte a cui gli stati nazionali si trovano impotenti. Si tratta di processi che coinvolgono anche la “globalizzazione della comunicazione” di
notizie, dati e sistemi tecnologici, e la “globalizzazione delle popolazioni”. Questo fenomeno di “allargamento” e “addensamento” è raffigurato dall’“immagine
della rete” (1). Habermas esamina, soprattutto, come la trasformazione del sistema economico, commerciale e finanziario globale stia determinando a seguito
della “globalizzazione del capitale” un mutamento qualitativo, per cui la produzione, gli scambi e la finanza sono talmente interconnessi, soprattutto nelle potenti imprese transnazionali Questo mutamento limita a tal punto la capacità di
azione degli stati-nazionali che essi non possono con i mezzi a loro disposizione,
“ammortizzare” a sufficienza le conseguenze indesiderabili, socialmente e politicamente, di un mercato transnazionale che mette alla prova l’“autocomprensione
normativa” che nel “mondo occidentale” risale alla fine del ‘700 (2).75 L’analisi
delle “reazioni alla crisi” della politica economica e sociale degli stati nazionali –
il “liberismo”, il “protezionismo” e le “terza vie” (“all’attacco” e “in difesa” – ripropongono la necessità di appropriati interventi di regolazione politica non
solo a livello nazionale con un “concorrenza di posizione” ma soprattutto, sul
73
Ibidem, pp. 1065-1066.
J. Habermas, tr. it. Rivoluzione recuperante ed esigenza di revisione della sinistra, in Id., NR KPS VII,
cit., pp. 177-198.
75
J. Habermas, tr. it. La costellazione postnazionale e il futuro della democrazia, in Id., PNK, cit., pp. 3942.
74
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
417
piano transnazionale (global players) e mondiale (Nazioni Unite), nella consapevolezza, peraltro, che “non esistono alternative al sistema capitalistico” (3).76
5.2. Habermas descrive, alcuni scenari sul “prossimo futuro” in cui si trovano
le “società del rischio”. Con l’analisi di tali tendenze egli recupera, al di là delle
trasformazioni economiche, molti altri aspetti che caratterizzano i processi di
globalizzazione – un processo che si sviluppa a una “velocità superiore” alla capacità di reazione statuale. Le interdipendenze crescenti della società mondiale
rendono inefficaci i tentativi di soluzione che collocano nel quadro territoriale di
una politica esautorata dei mezzi adeguati per rispondere agli effetti di processi
che oltrepassano i confini nazionali. Oltre alla “crisi emergente dell’equilibrio
ecologico”77 (1) e allo “squilibrio tra nord e sud del mondo” (1)78, Habermas affronta i “conflitti etnici” seguiti alla decolonizzazione europea (3)79, i “nazionalismi” risorti dopo il crollo dell’impero sovietico (4)80 e gli “indipendentismi” che
nelle società democratiche agitano alcune minoranze (5).81 Negli ultimi anni, poi,
si assiste all’emergere di un “terrorismo globale” che si alimenta sulle miserie e
sulle ingiustizie che la globalizzazione ha reso ancora più profonde – un terrorismo che trova una legittimazione su “fondamentalismi religiosi” che, con armi
moderne, attaccano l’estensione nel mondo dei processi di modernizzazione sociale (6).82 Dopo aver definito i contorni del nuovo fenomeno, egli svo lge delle
riflessioni sul rischio fondato che questa “guerra al terrorismo” possa generare
una “militarizzazione della vita quotidiana” nelle democrazie occidentali (7). 83
5.3. L’11 settembre ha posto all’attenzione mondiale non solo sulle “tensioni
esplosive” tra le “società secolari” e i “fondamentalismi religiosi” nel “mondo
musulmano” ma anche su quelle nel “mondo occidentale”. Habermas esamina,
infatti, le conflittualità sempre più frequenti tra il “secolarismo” e le “visioni religiose del mondo” all’interno delle moderne società multiculturali, la “proliferazione di esperienze religiose” nelle società occidentali (il “nuovo politeismo”), e
il destino della religione giudaico-cristiana di fronte alle altre religioni universaliste, alle prese con il dilemma tra il “dialogo ecumenico” sui principi di fede
comuni e lo “scontro di civiltà”. 84 Dopo avere definito una “politica secolare” ma
“non laicista”, che salvaguardi la “neutralità dello stato” e i principi costituzionali, riconoscendo “il diritto culturale” alle “professioni di fede”85, Habermas sottolinea, infine, che la società secolare dovrebbe accogliere non soltanto l’opera so76
J. Habermas, tr. it. Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione, in Id., PNK, cit., pp.
110-123.
77
J. Habermas, tr. it. Tendenze di crisi nel capitalismo maturo, in Id., LPS, cit., pp. 46-48.
78
J. Habermas, tr. it. Imparare dalle catastrofi? Ripensando il “secolo breve”, in Id., PNK, cit., p. 17.
79
J. Habermas, tr. it. Dalla “Machpolitik” verso una società cosmopolita, in Id., ZÜ KPS IX, cit., p. 20.
80
J. Habermas, tr. it. Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas – Ch. Taylor (eds.), M, cit., pp. 75 - 76
81
J. Habermas, tr. it. Inclusione: coinvolgere o assimilare, in Id., EdA, cit., pp. 157-158.
82
J. Habermas, tr. it. Fondamentalismo e terrore. Un dialogo con J. Habermas, in Borradori G. (ed.), Filosofia del terrore, cit., p. 32.
83
J. Habermas, tr. it. Sulla guerra e la pace, in Id., DgW. KPS X, cit., pp. 85-88
84
J. Habermas, tr. it. Dialogo su Dio e il mondo, in Id., ZU. KPS IX, cit., pp. 129-130.
85
J. Habermas, tr. it. Dalla tolleranza alla democrazia, in «Micromega», cit., pp. 317-228.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
418
lidaristica delle chiese a favore dei più bisognosi, ma anche i motivi di riflessione
che, pur sorte da “premesse teologiche”, sollevano dei seri “problemi morali”.86
5.4. Negli ultimi anni, Habermas si è sempre più interessato alle applicazioni
della ricerca genetica, oggi, uno degli ambiti più promettenti della scienza biologica aprendo dei nuovi orizzonti ed inediti problemi etici e morali. Se a una osservazione sociologica la situazione di fatto si presenta quasi pregiudicata data la
coincidenza di interessi tra capitale e scienza, Habermas domanda se non sia il
caso di ritornare indietro allo status quo ante e fermarsi a riflettere nelle istituzioni e nell’opinione pubblica sulla “giustificazione normativa” dell’“eugenetica
liberale”. Contro la “forza normativa del fattuale”, egli ritiene che il diffondersi
di “interventi migliorativi” e il “reificante” uso sperimentale degli embrioni, apra
delle prospettive “non più irrealistiche” sulla “clonazione riproduttiva” ed evoca
l’“eugenetica selettiva sulla razza umana” – ma vi sono sostanziali differenze tra
i “modelli autoritari” e quelli “liberali”. L’argomento dell’“argine che si rompe”
viene inteso come uno “scossone alla leggerezza di alcuni lobbisti dell’ingegneria genetica” per affrontare in maniera “più rilassata” i problemi di oggi.
Il problema, secondo lo studioso tedesco, è come regolamentare una ricerca
scientifica che apre la possibilità tecnica di modificare il patrimonio genetico e
creare “artificialmente” la “natura umana”, alla luce degli ordinamenti giuridici,
dei principi morali e dell’“autocomprensione etica” che il “genere umano” ha
di sé - evitando gli atteggiamenti di chi diffida pregiudizialmente dalle applicazioni tecnologiche in genere e chi che da esse ha attese miracolistiche – ma anche
di coloro che vo rrebbe proibire tout court la ricerca scientifica e di coloro che
la vorrebbero svincolata dal controllo della comunità sociale e della politica. 87
5.5. L’urgenza di una “chiusura politica” che governi le sfide che la globalizzazione, a seguito dell’“apertura economica” dei mercati mondiali degli anni ‘70,
ha posto in primo piano, ripropone il problema del ruolo e dell’efficacia delle istituzioni transnazionali, l’Unione europea e le Nazioni Unite, ma anche le organizzazioni non governative. Habermas precisa, dapprima, l’orizzonte passato e
futuro dell’U.E., intervenendo nella odierna discussione sui problemi della costituzione e delle sue “radici identitarie”. Egli affronta, almeno quattro aspetti cruciali dell’attuale politica comunitaria: la scelta strategica dell’allargamento a Est
(1), le politiche per l’immigrazione (2), la questione delle politiche economicosociali (3) e la definizione di una politica estera comune (4). Sullo sfondo il tema
del “nucleo d’Europa” e la possibilità delle “collaborazioni rafforzate” come
estrema soluzione per procedere verso la nascita degli “Stati Uniti d’Europa”. 88
86
J. Habermas, tr. it. Fede e sapere, in Id., Il futuro della natura umana (ZMN), Torino, Einaudi, 2002,
cit., pp. 101-107.
87
J. Habermas, tr. it. I rischi di una genetica liberale, in Id., ZMN, cit., pp. 19-74; Id., tr. it. Poscritto, in
Id., ZMN, cit., pp. 77-98.
88
J. Habermas, trad. it. Perché l’Europa ha bisogno di una costituzione?, in ZÜ. KPS IX, cit., p. 57.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
419
5.6. Nella ricostruzione delle ambivalenti tendenze verso una “costituzionalizzazione del diritto internazionale”, Habermas ridiscute, poi, i problemi della
struttura e del ruolo dell’Onu. Alla luce delle tesi kantiane, rilette con
l’esperienza maturata negli ultimi duecento anni, egli sostiene che se il modello
della “lega dei popoli” è troppo debole, il modello della “repubblica mondiale” è
troppo forte.89 Un “sistema a più livelli” – mondiale, continentale e nazionale –
che redistribuisca le funzioni militari, politiche ed economiche a soggetti differenti, potrebbe costituire l’“infrastruttura cooperativa” per una “politica interna
mondiale” senza “governo mondiale” – sotto il controllo di una nascente “opinione pubblica mondiale” (1). A partire da questa valutazione, Habermas affronta
il problema dell’ordinamento internazionale regolato dal “principio di noningerenza”, che in base alla Carta del 1948 demanda alle Nazioni Unite non solo
il compito di tutelare la pace e la sicurezza mondiale, ma anche di proteggere gli
individui contro le violazione dei “diritti umani” (2). Egli risponde, quindi, allo
screditamento dell’“universalismo umanitario” – fonte di “guerre totali” – da parte dello schieramento realista di C. Schmitt, e critica le limitazioni poste da M.
Walzer alla legittimità degli interventi umanitari (3)90. Si possono raffrontare le
riflessioni sulle “guerre giuste” con quelle sugli interventi in Kosovo, Afganistan
e Iraq (4). Il tema della legittimità di interventi militari che limitino la sovranità
nazionale di stati membri dell’Onu, in nome della “lotta al terrorismo” e agli
“stati canaglia” che minacciano l’ordine mondiale ritorna nella recente critica al
falso universalismo con cui l’amministrazione di G.W. Bush ha giustificato la
“svolta” della politica estera americana, passata dal “realismo multilaterale” alla
Kissinger all’“unilateralismo missionario” dei neo-conservatori, Habermas afferma che, nonostante l’“astratta coincidenza degli obiettivi” – la diffusione della
democrazia e dei diritti umani su scala mondiale – la concezione delle relazioni
mondiali dei neo-conservatori si distanzia dal progetto di un ordine cosmopolitico sia riguardo alla “strada” intrapresa, lontana dal diritto internazionale, sia rispetto alla “forma concreta” in cui debbono realizzarsi, il “capitalismo neoliberista” e il “potere neo-imperiale degli Usa” (5).91 Il principio di inclusione, a fondamento delle Nazioni Unite dovrebbe, invece, significare la fine del “monopolio
interpretativo” dell’Occidente sul diritto internazionale. In tale contesto si colloca la riflessione su diritti umani tra “valori occidentali e valori asiatici” (6).92
5.7. Esaminando le contraddizioni tra le “ragioni del dover essere” e le “dure
repliche della storia”, Habermas ha svolto, infine, alcune riflessioni sulle linee di
“divisione” che attraversano l’Occidente e sulle possibili strategie per sanarle.93
89
J. Habermas, tr. it. L’idea kantiana della pace perpetua - due secoli dopo, in Id., EdA, cit., p. 190.
J. Habermas, tr. it. Inclusione: coinvolgere o assimilare, in Id., EdA, cit., pp. 158-161.
91
J. Habermas, tr. it. La costituzionalizzazione del diritto internazionale è ancora possibile?, in Id., DgW.
KPS X, cit., p. 186.
92
J. Habermas, tr. it. Legittimazione tramite diritti umani, in id., EdA, cit., pp. 223-232.
93
J. Habermas, tr. it. Il 15 febbraio, ovvero ciò che unisce gli europei, in Id., DgW. KPS X, cit., pp. 29-30.
90
L’opinione pubblica e il sovrano in Machiavelli
Mascia Ferri
Dottoranda di ricerca in “Storia e sociologia della modernità” presso l’Università di Pisa,
collabora con le cattedre di Sociologia della conoscenza e Storia del pensiero sociologico presso
la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Ha presentato i suoi
studi in numerosi congressi internazionali di sociologia ed è autrice di diversi articoli su riviste
di scienze sociali e della monografia Come si forma l’Opinione pubblica. Il contributo sociologico di Walter Lippmann (FrancoAngeli, 2006)
Indice
Introduzione
1. L’opinione e la Florentina libertas
2. Il sostegno al sovrano
Bibliografia
421
423
424
433
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
421
Introduzione
L’espressione opinion publique è apparsa per la prima volta nei testi di Nicolas Chamfort, di Jean-Antine de Condorcet e di Bernardin de Saint-Pierre. Furono questi autori che, all’inizio del XVIII secolo, utilizzarono congiuntamente le
parole opinion e publique per descrivere il sentimento e le idee collettive che il
popolo francese esprimeva su argomenti di interesse comune. Il significato politico di opinion publique risale tuttavia a Jean-Jacques Rousseau che, nel 1758
nella Lettera a d’Alambert scritta in risposta all’articolo «Genève» pubblicato
sull’Encyclopédie, lo utilizza per indicare sia un sentimento collettivo nei confronti degli usi e dei costumi dell’epoca, sia una forma di controllo per contrastare la dissolutezza dei costumi [cfr. Ferri, 2003]. Nelle opere successive invece,
Rousseau amplia il concetto di opinion publique inserendolo in un discorso morale in qualità di strumento civico e infine in un progetto riformatore come vero e
proprio strumento politico1.
Grazie al contributo critico di Rousseau, dei Philosophes e alla concomitante
esplosione rivoluzionaria del 1789, l’opinion publique diventa quindi protagonista delle strade parigine e di tutta l’Europa. Non è un caso che i leaders rivoluzionari francesi si rivolgessero proprio all’opinion publique nell’idea di restituire
all’uomo la possibilità di guardare la società senza bisogno di alcuna mediazione,
soprattutto di quella religiosa, e con l’intento di riconoscere al popolo un nuovo
ruolo politico. Tuttavia, nonostante questa evidente connessione tra esordio linguistico dell’opinion publique ed emancipazione del popolo attraverso la Rivoluzione, il valore politico dell’opinione pubblica non può essere fatto risalire ad un
periodo così recente come quello illuminista. Con una diversa terminologia e con
un significato meno riformista infatti, nel Rinascimento italiano ”l’opinione del
popolo”, “l’opinione collettiva” e “il sentimento pubblico” animarono il discorso
politico fiorentino [cfr. Cadoni, 1994] .
Per procedere nella direzione di mostrare il valore politico riconosciuto
all’”opi nione pubblica”2 in epoca rinascimentale, bisogna però liberarsi dal
“pregiudizio ontologico” che le conferisce a priori uno status superiore
all’individuo. Infatti l’Illuminismo ha attribuito all’opinion publique una sorta di
volere razionale che poteva essere acquisito attraverso delle dinamiche collettive.
Questo pregiudizio ha influenzato, e continua a farlo, gli studi politici e sociologici che utilizzano spesso acriticamente il paradigma habermasiano della nascita
1
Nelle opere maggiori di Rousseau è possibile individuare due aspetti dell’opinione pubblica: uno legato
alla dimensione sociale e l’altro a quella strettamente politica. L’aspetto sociale può essere attribuito agli scritti autobiografici, all’Eloisa, all’Emilio e alla Lettera a D’Alambert; l’aspetto politico al Discorso
sulla disuguaglianza, al Progetto per la costruzione della Corsica e alle Considerazioni sul governo
della Polonia.
2
Userò successivamente questa espressione in modo forzato solo per indicarne le diverse declinazioni.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
422
dell’opinione pubblica [cfr. Veysman, 2004].
Habermas in Storia e critica dell’opinione pubblica parte da un punto di vista
meramente storico, individuando nel periodo e nello spirito rivoluzionario della
Francia illuminista la comparsa del moderno concetto di opinione pubblica.
L’emergere di peculiari condizioni tra cui il configurarsi della società, intesa come spazio intermedio tra la sfera privata e la sfera pubblica statuale, il progressivo affermarsi dell’idea di eguaglianza formale dei soggetti di fronte alla legge e
lo sviluppo di luoghi fisici preposti alla discussione e al confronto (caffè, circoli,
ecc.), avrebbero provocato, secondo l’autore, la frattura comunicativa tra i cittadini borghesi e i monopoli culturali che caratterizzavano i secoli precedenti. In
questo clima e in questi luoghi si sarebbe manifestata la necessità di descrivere
uno stile inedito di comunicazione basato sul confronto e la partecipazione.
Questa visione lineare della genesi dello “spazio pubblico”, nel quale sarebbe
appunto possibile esprimere una differente forma comunicativa, comporta la svalutazione o comunque la considerazione in termini residuali di altri elementi che
entrano a far parte della fenomenologia dell’opinione pubblica, vale a dire le diverse forme di manipolazione deliberata [cfr. Landi, 2002] . Nel discorso politico, infatti, la “censura” e l'opinione pubblica non sono due elementi necessariamente antitetici, ma fanno parte di uno stesso procedimento di forzatura della realtà che deve essere valutato all’interno di una qualunque prassi di governo. Probabilmente è proprio a causa di questo elemento di “cecità” che gli studi politici
sono stati focalizzati soprattutto dal ‘700 francese in poi - tranne qualche eccezione paradossalmente proprio di autori francesi - tralasciando le “forme” e le “espressioni” dell’opinione pubblica dei periodi precedenti e di paesi differenti.
Nel ‘500 fiorentino emerge per esempio un concetto di opinione pubblica che
evidenzia come anche il popolo potesse avere delle caratteristiche intrinseche per
attivare una differente formula di governo. Ad un autore come Niccolò Machiavelli è dunque chiaro che la sovranità del principe non può più fare a meno di
strumenti intellettuali e comunicativi per integrare ogni componente sociale.
All'inizio del XVI secolo infatti, l’insicurezza, ma soprattutto la precarietà del sistema politico fiorentino, fanno emergere il problema del consenso nei confronti
delle istituzioni della Repubblica [cfr. Cadoni, 1994]. In particolare viene rimessa
in discussione l’idea di sovranità del popolo e la sua effettiva capacità di saper
valutare correttamente le questioni di ordine civico. Con la fine del Medioevo il
popolo cittadino era effettivamente divenuto una presenza costante e sotterranea
che non poteva più essere totalmente ignorata in vista di un suo sviluppo economico e politico, ormai fin troppo evidente, e della possibilità di riconoscere o disconoscere le istituzioni. Certamente il popolo in questo periodo non deteneva
alcun potere direttamente riconducibile alla sfera politica ma autori attenti come
Machiavelli non mancarono di considerarne le potenzialità e le debolezze.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
423
1. L’opinione e la Florentina libertas
La grande mutazione della doxa avviene in Italia in epoca Rinascimentale
quando la contrapposizione tra “opinione” e “conoscenza”, che aveva caratterizzato gli studi di impostazione platonica, non è più assimilabile alla dicotomia falso/vero. L’”opinione” diventa dunque, anche in senso linguistico, il luogo privilegiato delle espressioni di una nuova generazione di autori che a Firenze trovano
la possibilità di coltivare la loro formazione culturale e politica [Brown, 1988].
Tra questi Niccolò Machiavelli che attraverso l’utilizzo dell’espressione “verità
effettuale” [Il Principe, XV, 70] mostra un cambi amento ontologico radicale: la
verità non si riferisce più esclusivamente all’essere o a ciò che è - come appunto
voleva la filosofia platonica - ma anche al possibile, a quello che “potrebbe essere” attraverso l’azione umana. Le opinioni collettive possono a questo punto irrompere nella prassi politica o addirittura farne parte riformulando il rapporto tra
sovrano e governati.
Il ruolo del popolo e il problema delle minoranze politiche è infatti un tema
fondamentale del discorso politico fiorentino [cfr. Gilbert, 1972] in tutto il periodo repubblicano e fino alla sua dissoluzione avvenuta nel 1532. Dopo il Tumulto
dei Ciompi (1378) e la svolta oligarchica che ne è seguita, la classe dirigente repubblicana era composta da un numero esiguo di grandi famiglie che fondavano
la loro legittimità su una concezione del popolo puramente istituzionale. Vale a
dire che nella retorica umanista il popolo era il fondamento della libertà repubblicana (Florentina libertas) ma nei fatti corrispondeva ad un piccolo numero di
persone che potevano essere elette nelle magistrature. Il regime mediceo seguito
ai Savonarola aveva invece alterato le forme tradizionali di politicizzazione, sia
modificando la partecipazione rituale alla vita della città sia ampliando la base
sociale del potere. Il Consiglio Maggiore - precedentemente istituito da Girolamo
Savonarola - portò infatti ad una trasformazione significativa della partecipazione
politica permettendo ad una consistente proporzione di cittadini di potersi sedere
nell’Assemblea.
Proprio durante il periodo del Consiglio Maggiore (1494-1512), tuttavia, si aprono parallelamente due discorsi politici. Uno interno al Consiglio e dunque alle
vecchie oligarchie repubblicane, l’altro tra il popolo che rimane escluso. Si consolida allora un pensiero politico di opposizione che demarca la distanza tra il
luogo rappresentativo del potere, ossia il Palazzo della Signoria, e il luogo in cui
la gente si riunisce senza alcuna distinzione di ceto, vale a dire la piazza.
L’opinione del popolo entra faticosamente nel dibattito intellettuale ma Machiavelli, come ha evidenziato Alison Brown [1988], ha avuto il merito di essere stato tra i primi ad inserirlo in termini politici.
Il Trimestrale del Laboratorio/The Lab’s Quarterly
424
2. Il sostegno al sovrano
Niccolò Machiavelli fu direttamente coinvolto negli episodi politici del suo
tempo grazie ad un’attività diretta svolta prima in qualità di segretario di cancelleria nella Repubblica fiorentina e poi al servizio dei Medici. Questo coinvolgimento in prima persona ispirò la stesura di due delle sue opere più importanti - Il
Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio3 - che abbiamo preso in
considerazione per mostrare come il tema dell’opinione pubblica fosse presente
all’interno del dibattito politico fiorentino già in epoca rinascimentale.
Machiavelli non utilizza mai l’espressione “opinione pubblica”, che risale al
‘700 francese, ma comunque riconosce al popolo e al suo modo di pensare un
ruolo tutt’altro che secondario. È dunque necessaria una chiarificazione del termine “opinione” prima di procedere ad un’analisi dettagliata delle sue opere. Dagli studi compiuti da Chiappelli [1952, 1969] è emerso che nella corrispondenza
tra Machiavelli e Francesco Guicciardini i due autori non si riferiscono ad
un’opinione del volgo ma ad una communis opinio doctorum. Questa opinione
deve essere intesa in termini aristotelici dove la sua verità rispetto ad altre opinioni è data dal riconoscimento delle persone di intelletto. Vale a dire che
un’opinione può essere considerata valida quando esiste una condivisione tra coloro che pubblicamente sono degni di stima. Nelle lettere Machiavelli faceva riferimento a questa opinione per esprimersi polemicamente nei confronti delle autorità impermeabili alle sue proposte politiche. Ma quando ne Il Principe e nei
Discorsi utilizza la parola “opi nione” non si riferisce a quella degli studiosi ma
piuttosto ad una opinione intermedia scaturita dalla capacità di saper prendere le
distanze dalle proposizioni fondate solo sull’autorità. L’opinione del popolo ha
dunque valore positivo quando è costruita sulla base dell’esperienza e quando il
pensiero condiviso ha un fine utile.
Tra il 1400 e il 1500 tutta l’Europa attraversava un periodo piuttosto complesso in cui l’entità politica dell’Italia era ancora piuttosto vaga. Soltanto la Repubblica di Firenze, dove nacque Machiavelli nel 1469, poteva essere considerata
uno stato fiorente nonostante l’assillo delle lotte intestine per il potere. Nelle
prime due parti de Il Principe, pubblicato postumo nel 1532, Machiavelli descrive dunque i vari tipi di Stato analizzandone gli aspetti positivi e quelli negativi in
prospettiva di offrire una sorta di manuale per il sovrano interessato alla formazione e al mantenimento di un governo. Nella terza parte, che è sicuramente quella che ha suscitato maggior interesse nella critica contemporanea, l’autore espone
le doti personali che un sovrano dovrebbe possedere per ottenere sia l’ubbidienza
e il rispetto dell’esercito sia la benevolenza del proprio popolo e di quelli conquistati. Queste doti alle quali Machiavelli dà il nome di “virtù” sono in sintesi uno
3
Da ora abbreviato in Discorsi.
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strumento di governo necessario anche alla formazione dell’opinione pubblica.
Senza un’opinione favorevole infatti, nessun sovrano sarebbe in grado di garantire la durata dello Stato:
Debbe pertanto uno che diventi principe mediante el favore del populo mantenerselo
amico: il che li fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno
che contro al populo diventi principe con il favore de’grandi, debbe innanzi a ogni altra
cosa cercare di guadagnarsi el populo: il che li fia facile quando pigli la protezione sua
[…]. [Il Principe, 46].
Concluderò solo che a uno principe è necessario avere el populo amico: altrimenti
non ha nelle avversità remedio. [Il Principe, 46].
Il Principe è uno di quei testi, insieme ai Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio, che la Chiesa mise immediatamente all’indice sia per le posizioni palesemente contrarie al potere temporale espresse dall’autore, sia per il carattere opinabile con il quale ve ngono presentati i valori cristiani. Infatti il termine “virtù”
per Machiavelli non è riconducibile ad una nozione cristiana di morale individuale capace di salvare l’anima per una vita ultraterrena, ma è riferibile alle caratteristiche che un uomo deve possedere a fini politici. Paradossalmente alcune di queste caratteristiche, per esempio la forza intesa come atto di costrizione, sono addirittura esecrabili dall’etica stabilita dalla Chiesa. Anche la “pietà” secondo Machiavelli deve essere ridimensionata nell’esercizio del potere se lo scopo da raggiungere ha un valore più grande del benessere individuale:
Debbe per tanto uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere
e’sudditi sua uniti et in fede; perché con pochissimi esempli sarà più pietoso che quelli
e’quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’disordini, di che ne nasca occisioni o rapine:
perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particolare [Il Principe, XVII, 75-76].
Questo non significa tuttavia che per Machiavelli un principe debba essere
spietato ma che per lui è comunque “più sicuro essere temuto che amato”. Persino la fama di crudele in questo progetto può essere necessaria per farsi rispettare
dal proprio esercito e dal proprio nemico, soprattutto in considerazione della gratitudine e della fedeltà degli uomini sulle quali in definitiva si basano i governi:
Concludo adunque, tornando allo essere temuto et amato, che, amando li uomini a
posta loro e temendo a posta del principe, debbe uno principe savio fo ndarsi in su quello
che è suo, non in quello che è d’altri: debbe solamente ingegnarsi di fuggire lo odio,
come è detto [ibidem, 79].
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426
Machiavelli individua quindi nella persuasione un mezzo fondamentale del
potere politico e per questo riconosce alla religione un ruolo di “instrumentum
regni” [cfr. Discorsi, I, XI-XIV]. Sono soprattutto la spinta alla coesione e il controllo, esercitati attraverso le forme di premi e di sanzioni, a rappresentare il vero
punto di forza della religione:
E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei
[Discorsi, I, XI, 8, 92].
Il riconoscimento del ruolo della religione [Cutinelli-Rendina, 1998] non impedisce tuttavia a Machiavelli di procedere ad una critica comparativa tra la corruzione della Chiesa e la concezione romana dell’aspetto spirituale:
Abbiano adunque con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati senza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la
seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa [Discorsi, I, XII 17, 96].
Ai tempi dell’antica Roma era invece il potere civile, osserva Machiavelli, ad
utilizzare la religione come collante sociale. La contrapposizione è quindi tra un
uso strumentale della religione per mantenere l’ordine sul popolo, e la politica
mondana della Chiesa coperta da un mistificato potere spirituale e religioso. Infatti mentre nella Roma repubblicana e in quella imperiale tutte le divinità erano
riunite nel Pantheon al fine di mantenere salda e unita la città, la Chiesa attraverso la religione cristiana logora l’amore del popolo verso la patria e addirittura
verso se stesso compromettendo il bene civico.
In Machiavelli troviamo dunque un’idea di storia come magistra vitae che si
presta sia ad una critica implacabile sia all’elaborazione di soluzioni per un futuro possibile lasciando da parte delle ambizioni riformatrici che, come dimostrato
nei secoli, non hanno cambiato sostanzialmente la natura dell’uomo. Questa natura secondo Machiavelli è protesa verso l’ambizione, l’avidità e l’acquisizione
di potere personale e sugli altri popoli. Dal mondo umano è pertanto possibile solo aspettarsi periodi di splendore e di decadenza in un ciclo ininterrotto in cui:
“Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi”. Ma questo approccio nei confronti della storia dell’uomo non deve in Machiavelli essere considerato di tipo deterministico. La “virtù” umana che risiede nel popolo e nei suoi magistrati, quindi non solo nel principe, può infatti cambiare il corso degli eventi
nonostante le esperienze del passato. Questo aspetto permette di inserire Machiavelli tra gli autori che hanno caratterizzato la storiografia rinascimentale animata
dalle discussioni sulle vicende umane accantonate invece nel periodo medioeva-
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le. Ne Il Principe, infatti, il pragmatismo dei primi capitoli4 viene abbandonato
nella conclusione 5, dove il tono più idealistico esorta i sovrani italiani a ricostruire uno Stato sulla base della caratteristica etnica che costituisce la civiltà italiana.
In particolare Machiavelli auspica la liberazione dell’Italia per opera di un principe che possa contrastare il potere temporale della Chiesa. Egli cerca soluzioni
concrete a situazioni reali e mostra come la storia e il passato possano diventare
un vero e proprio mezzo di conoscenza:
Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti
si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che
colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la
ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno
principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità [Il Principe, XV, 70].
La morale e la politica si fondono dunque soprattutto ne Il Principe in cui
l’autore riconosce al sovrano la necessità di operare anche con la forza e con
l’astuzia. Il problema che si pone è invece quello di circoscrivere le caratteristiche che questo principe e il suo popolo dovrebbero avere per creare e mantenere
uno Stato. Per esempio un principe deve fare esperienza del passato ed essere disponibile ad imitare il comportamento degli uomini che lo hanno preceduto, ma
soprattutto deve considerare l’opinione del popolo come il risultato delle sue azioni e il presupposto della continuazione del suo potere:
Ingegnarsi che nelle azioni sua si riconosca grandezza, animosità, gravità, fortezza, e
circa maneggi privati de’sudditi volere che la sua sentenzia sia irrevocabile; e si mantenga in tale opinione, che alcuno non pensi né a ingannarlo né ad aggirarlo.
Quel principe che dà di sé questa opinione, è reputato assai; e contro a chi è reputato
con difficultà si congiura, con difficultà è assaltato, purché s’intenda che sia eccellente e
reverito da’ sua [Il Principe, XIX, 84].
Per un principe il favore del popolo rappresenta quindi una forza più potente
delle armi, perché se queste possono in un primo momento conquistare una provincia non consentono tuttavia di mantenerne a lungo il dominio:
4
5
Nei capitoli da I al XI sono descritti i vari tipi di stato: ereditario, misto e nuovo. Nel VI capitolo viene nominato Cesare Borgia detto il Valentino, che Machiavelli individua come colui
che possiede le caratteristiche del Principe.
Il riferimento è alla quarta parte dove tra l’altro Machiavelli nell’ultimo capitolo lancia
un’esortazione a Lorenzo II de’ Medici, al quale è dedicato il libro, affinché unisca l’Italia e
scacci gli stranieri.
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Perché sempre, ancora che uno sia fortissimo in sulli eserciti, ha bisogno del favore
de’ provinciali ad intrare in una provincia. Per queste ragioni Luigi XII re di Francia occupò subito Milano, e subito lo perdé, e bastò a torgnene la prima volta le forze proprie
di Lodovico; perché quelli populi che gli aveano aperte le porte, trovandosi ingannati
della opinione loro e di quello futuro bene che si avevano presupposto, non potevono
sopportare e’ fastidii del nuovo principe [Il Principe, III, 8].
Riportando il Regno di Francia come esempio Machiavelli può sottolineare
ancora una volta la necessità per un sovrano di ottenere l’appoggio del popolo:
Intra regni bene ordinati e governati a’ tempi nostri è quello di Francia; et in esso si
truovano infinite constituzione buo ne, donde depende la libertà e sicurtà del re; delle
quali la prima è il parlamento e la sua autorità. Perché quello che ordinò quel regno, conoscendo l’ambizione de’ potenti e la insolenzia loro, e iud icando esser loro necessario
uno freno in bocca che li correggessi, e dall’altra parte, conoscendo l’odio dello universale contro a’ grandi fondato in sulla paura, e volendo assicurarli, non volse che questa
fussi particulare cura del re, per torli quel carico che potessi avere co’ grandi favorendo
li populari, e co’ populari favorendo e’ grandi; e però constituì uno iudice terzo, che
fussi quello che sanza carico del re battessi e’ grandi e favorissi e’ minori. Né possé essere questo ordine migliore né più prudente, né che sia maggiore cagione della securtà
del re e del regno. Di che si può trarre un altro notabile: che li principi debbono le cose
di carico fare sumministrare ad altri, quelle di grazia a loro medesimi. Di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e’ grandi, ma non si fare ordiare dal populo [Il Principe, XIX, 86-87].
In riferimento alla possibilità di governare solo con l’esercizio della forza e
quindi di essere odiato scrive:
Le quali cose feciono che quelli imperatori che, per natura o per arte, non aveano una
grande reputazione, tale che con quella tenessino l’uno e l’altro in freno, sempre ruinavono; e li più di loro, massime quelli che come uomini nuovi venivano al principato,
conosciuta la difficultà di questi dua diversi umori, si volgevano a satisfare a’ soldati,
stimando poco lo iniuriare el populo. Il quale partito era necessario: perché, non potendo e’ principi mancare di non essere odiati da qualcuno, si debbano prima forzare di non
essere odiati dalla universalità; e, quando non possono conseguire questo, si debbono
ingegnare con ogni industria fuggire l’odio di quelle universalità che sono più potenti [Il
Principe, XIX, 89].
Secondo Machiavelli Severo fu l’unico sovrano della Roma antica a dominare
con il consenso del popolo e pertanto a non perire miseramente come fecero
Commodo, Antonino Caracalla e Massimino. Questi, nonostante fossero temuti
per la loro crudeltà non ebbero l’astuzia di conquistare la benevolenza dell’unica
forza che poteva tenerli saldamente al potere:
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Perché in Severo fu tanta virtù che, mantenendosi soldati amici, ancora che i populi
fussino da lui gravati, possé sempre regnare felicemente; perché quelle sua virtù lo facevano nel cospetto de’ soldati e de’ populi sì mirabile, che questi rimanevano quodammodo attoniti e stupidi, e quelli altri reverenti e satisfatti [ibidem, 90-91].
Diventa quindi essenziale per il principe un rapporto di comunicazione continua con il suo popolo, comunicazione che spazia dalla simulazione di beneficienza fino all’uso della forza. Questa apparente contraddizione tra benevolenza
e sopraffazione ha animato un dibattito nel quale l’annosa questione “s’elli è
meglio essere amato che temuto o e converso” [Il Principe, XVII, 76] ha
diviso la critica contemporanea. A prescindere dalla critica resta ferma in Machiavelli una concezione realistica della storia in cui la perfezione del principe
non potendo essere auspicabile deve tendere ad una figura “umana” e realizzabile. Per questo suggerisce al principe che vorrà ascoltarlo di non curarsi troppo
“di quelli vizii sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si cons iderrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina
sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la sicurtà et il bene essere
suo” [Il Principe, XV, 71-72].
Vizi e virtù sono, infatti, secondo Machiavelli, relativi alla loro efficacia: sono
positivi quando riescono a conservare il potere acquisito al fine della sicurezza e
del benessere dello Stato. In questo modo l’autore può infine, in nome
dell’interesse pubblico, relativizzare anche le più importanti “virtù” cristiane:
Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li
uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e
non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro [Il Principe, XVIII,
80-81].
Ad un principe non sono quindi necessarie le vi rtù ritenute positive da una
morale condivisa: “Sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare
contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione” [Il
Principe,XVIII, 82], ma solo quelle utili al mantenimento del governo. Addirittura egli potrebbe mentire per rassicurare il suo popolo se fosse necessario ad evitare i tradimenti e gli inganni. Avere un popolo nemico per il principe di Machiavelli è un errore di governo che non deve mai essere commesso:
Concludo, per tanto, che uno principe debbe tenere delle congiure poco conto, qua ndo el populo li sia benivolo; ma, quando li sia nimico et abbilo in odio, debbe temere
d’ogni cosa e d’ognuno. E li stati bene ordinati e li principi savi hanno con ogni diligen-
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zia pensato di non desperare e’ grandi e di satisfare al populo e tenerlo contento; perché
questa è una delle più importanti materie che abbia uno principe [Il Principe, XIX, 86].
Il rapporto di scambio comunicativo tra principe e popolo è essenziale soprattutto nel Principato civile, perché la mancanza del sostegno pubblico può rappresentare un pericolo più grande persino rispetto a quello di avere lo stesso popolo
come nemico:
[…] Si ascende a questo principato o con il favore del populo o con quello de’ grandi. Perché in ogni città si truovano questi dua umori diversi; e nasce da questo, che il
populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano
comandare et opprimere el populo: e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno
de’ tre effetti, o principato o libertà o licenzia.
El principato è causato o dal populo o da’grandi, secondo che l’una o l’altra di queste
parte ne ha occasione: perché, vedendo e grandi non potere resistere al populo, cominciano a voltare la reputazio ne ad uno di loro, e fannolo principe per potere, sotto la sua
ombra, sfogare l’appetito loro. El populo ancora, vedendo non potere resistere a’grandi,
volta la reputazione a uno, e lo fa principe, per essere con la autorità sua difeso. Colui
che viene al principato con lo aiuto de’grandi, si mantiene con più difficultà che quello
che diventa con lo aiuto del populo: perché si truova principe con di molti intorno, che li
paiano essere sua eguali, e per questo non gli può né comandare né maneggiare a suo
modo. Ma colui che arriva al principato con il favore populare, vi si truova solo, et ha
intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati ad obedire. Oltre a questo, non si
può con onestà satisfare a’ grandi e sanza iniuria d’altri, ma sì bene al populo; perché
quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere e
quello non essere oppresso [Il Principe, IX, 44-45].
El peggio che possa espettare uno principe dal populo inimico, è lo essere abbandonato da lui; ma da’grandi, inimici, non solo debbe temere di essere abbandonato, ma etiam che loro li venghino contro; perché, sendo in quelli più vedere e più astuzia, ava nzono sempre tempo per salvarsi, e cercano gradi con quelli che sperano che vinca. È necessitato ancora el principe vivere sempre con quello medesimo populo; ma può ben fare sanza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dì, e tòrre e dare a sua
posta, reputazione loro [ibidem, 45].
Machiavelli aggiunge quindi al principe una dote di comunicatività e persuasività che consiste nel far credere di avere alcune virtù. Questo non è difficile da
ottenete secondo l’autore perché il volgo, di cui gran parte del mondo è composto, tende a seguire l’opinione dei potenti e della maggioranza piuttosto che a
formarsene una propria:
A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è
bene necessario parere di averle [Il Principe, XVIII, 81].
E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere
a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu
se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti, che abbino la maestà
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dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove
non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e
mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati;
perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e ne l mondo
non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi [ibidem, 82-83].
Bisogna allora capire dove effettivamente risieda la saggezza del popolo che
Machiavelli ha più volte declamato. La sua riflessione sul modo in cui si forma
l’opinione è rintracciabile nel XLVII capitolo del primo libro dei Discorsi dedicato proprio a questo argomento e che, non a caso, è intitolato “Gli uomini, come
ch’e’ s’ingannino ne’ generali, ne’ particolari non s’ingannono”. Machiavelli fa
l’esempio di quando nell’antica Roma la volontà del popolo fu quella di conferire
la carica consolare anche ai plebei e di come il Senato avesse acconsentito ad un
compromesso creando quattro Tribuni con potestà consolare. Il popolo accettò
con favore questa decisione pensando di aver acquisito parte dell’autorità. Ma
quando conobbe le persone che specificatamente ottennero la carica si rese conto
di aver sbagliato e volle destituirle.
Per Machiavelli l’opinione si forma dunque attraverso dei processi cognitivi
influenzati in particolare dalla distanza dal problema. Se le persone non conoscono formulano opinioni generali che non hanno alcun fondamento empirico, se invece sono direttamente coinvolte la loro opinione si orienta in modo strumentale
al proprio bene. Dietro questa ovvia osservazione risiede però un aspetto fondamentale che consiste nell’individuare la correttezza di un comportamento politico
che potrebbe venire sia direttamente dal Palazzo, ossia dall’autorità costituita, sia
dalla Piazza ovvero dal popolo. Riemerge allora l’annoso problema della sperequazione tra governo e governati che ha animato il dibattito fiorentino nell’arco
del’500. Nel primo libro dei Discorsi Machiavelli si sofferma, infatti, sulle qualità morali e intellettuali del popolo qui inteso come una forza storica e politica
impersonale. Egli vuole mostrare contro l’opinione comune che il popolo può essere più saggio, coerente e informato di quanto non lo sia un principe:
E non senza cagione si assomiglia la voce d’un popolo a quella di Dio: perché si vede una opinione universale fare effetti meravigliosi ne’ pronostici suoi; talchè pare che
per occulta virtù ei prevegga il suo male e il suo bene [Discorsi, I, LVIII, 23, 182].
In Machiavelli l’opinione del popolo è in diversi casi presentata con caratteristiche assai diverse, ma in queste righe la posizione dell’autore è ancora più ambigua perché sembra che voglia attribuire alla “voce del popolo”, e dunque non al
popolo, la possibilità di esprimersi sulle questioni che lo riguardano. In tal senso
il concetto di opinione sembra assumere l’identità di un soggetto univoco e for-
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midabile che supera il popolo stesso, e potremmo quindi azzardare, in questo caso, a chiamarla “opinione pubblica”.
Guicciardini che è stato uno dei primi critici contemporanei di Machiavelli ad
esprimersi su questo argomento, ha fatto notare come “la costanzia et la prudenzia” [Guicciardini, 2000, 375] del popolo fosse una considerazione difficile da
sostenere. Quentin Skinner [1990] individua invece nella crisi delle istituzioni
repubblicane fiorentine la necessità di trovare delle alternative plausibili, e per
questo nel LVIII capitolo dei Discorsi Machiavelli sembra manifestare simpatia
verso un orientamento repubblicano e democratico. Skinner e Guicciardini concordano tuttavia su un punto, e cioè che le affermazioni di Machiavelli sono intellegibili alla luce del dibattito che animava la vita intellettuale e politica fiorentina sulla migliore forma di governo realizzabile. In particolare le diverse posizioni riguardavano la possibilità di fondare una sovranità sulla base di una grande
assemblea di cittadini (governo largo), oppure la necessità di conferire il governo
della città ad un’oligarchia (governo stretto).
All’inizio dell’articolo abbiamo sostenuto una visione sostanzialmente ottimista da parte di Machiavelli nei confronti del popolo e della sua opinione tanto da
esaltarne le qualità di “prudenzia” di “stabilità”. Queste qualità secondo l’autore
possono essere superiori a quelle di un solo uomo che invece “erra ancora […]
nelle sue passioni, le quali sono molte più che quelle de’ popoli [Discorsi, I,
LVII, 25, 182]. La prova di saggezza viene data soprattutto in occasione delle elezioni quando tra diversi candidati il popolo non si lascia persuadere di votare
"un uomo infame e di corrotti costumi” [ibidem, 26, 182]. L’esempio riportato
dall’autore è ancora quello del popolo romano che per quattro elezioni consecutive non si è evidentemente mai pentito delle sue scelte. Nonostante questa visione
ottimista del nostro autore, nel LIII capitolo del primo libro dei Discorsi è possibile trovare diversi casi in cui il popolo romano “ingannato da una falsa immaginazione di bene” [Discorsi, I, LIII, 6, 169] ha invece commesso degli errori che
lo hanno portato alla rovina. Le esemplificazioni di Machiavelli sono piuttosto
ampie e mostrano ancora una volta come la storia può essere maestra e testimone
del fallimento anche della più grande repubblica. È facile immaginare che Machiavelli in questi passi volesse fare riferimento proprio alla Repubblica fiorentina ma soprattutto è indicativa l’importanza che attribuisce, ancora una volta,
all’opinione pubblica diversamente chiamata “opinione”.
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RECENSIONI
Mark Buchanan, L'atomo sociale. Il comportamento umano e le leggi della fisica
Marco Chiuppesi
Dipartimento di Scienze Sociali
Università di Pisa
[email protected]
+39 050 2212420
Mark Buchanan si è formato come fisico teorico, è stato redattore di riviste
scientifiche (Nature, New Scientist), condirettore della rivista (pubblicata fino al
2006) ComPlexUs, dedicata alla modellizzazione sistemica complessa, ed ha già
pubblicato due testi divulgativi riconducibili all'approccio transdisciplinare degli
studi sulla complessità, a cavallo tra scienze sociali e scienze naturali: Ubiquity
(2000, ed. it. 2001) e Nexus (2002, ed. it. 2003).
Anche questa nuova opera è divulgativa, rivolta ad un lettore generico; la mia
recensione intende evidenziare alcuni possibili punti d'interesse per studenti e ricercatori nel campo delle scienze sociali, sottolineando al tempo stesso quelli che
possono essere i limiti del testo per questo tipo di pubblico.
Il filo unificante del libro è il concetto di “fisica sociale”. Il termine non è impiegato nel senso comtiano; Buchanan lo utilizza per identificare quell'ambito di
ricerche volte ad indagare le regolarità nei comportamenti sociali emergenti dalle
microinterazioni individuali, ambito che dovrebbe essere il filo conduttore del testo. Il termine “fisica sociale” viene usato come se fossimo di fronte, se non a
una vera e propria nuova scienza, ad un nuovo paradigma; l'autore giunge enfaticamente a sostenere che «Stiamo assistendo a qualcosa di simile a una “rivoluzione quantistica” nelle scienze sociali» (pag.6). L'enfasi di Buchanan su questo
punto sembra eccessiva; gli studi che passa in rassegna nel proseguimento dell'opera non mostrano il panorama coerentemente strutturato di un nuovo paradigma
scientifico, né quello di uno stato emergente nel quale si possa effettivamente intravedere in prospettiva futura una direzione comune di sforzi compiuti da singoli
ricercatori o da diverse équipe; piuttosto, siamo di fronte a uno scenario frammentato, eterogeneo, talvolta contraddittorio, ben lontano dal rappresentare i
prodromi di una “rivoluzione quantistica”. La metafora sottostante il concetto di
“fisica sociale” è trasparente fin dal titolo del libro: come la fisica studia sistemi
complessi le cui caratteristiche possono essere modellizzate a partire dai loro
componenti semplici (atomi) e dalle possibili interazioni, così la “fisica sociale”
può studiare i sistemi complessi nei quali gli uomini sono coinvolti, attraverso
modellizzazioni che partano dagli individui e dalle loro possibili interazioni.
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La presentazione di quello che si pretende un nuovo approccio scientifico richiede che venga delimitato il campo nei confronti delle discipline che già si occupano dello stesso oggetto di studio, in questo caso dell'agire umano associato.
Le scienze sociali vengono contestate per quello che Buchanan ritiene essere il
loro approccio dominante, identificato nella mera ricerca di correlazioni tra variabili senza un approfondimento dei meccanismi causali; e qui il bersaglio potrebbe in realtà essere circoscritto a una certa microsociologia empirica di impianto strettamente quantitativo, senza necessariamente coinvolgere l'intero campo delle scienze sociali. D'altro canto, la riflessione critica sul pensiero sociologico viene rigettata come una sterile rimasticazione su «che cosa Hobbes, Weber,
Durkheim o Adam Smith volessero davvero dire, al contrario di ciò che sembra
abbiano detto o di ciò che qualcuno ha detto che hanno detto» (pagg. 25-26). Ce
n'è anche per l'approccio postmodernista, attaccato duramente nelle sue posizioni
costruttiviste (di passaggio: ironicamente, in una nota che approfondisce l'argomento, l'Alan Sokal del “Transgressing boundaries” diventa in un paio di occorrenze Alan Sokol; l'errore è presente anche nella versione originale in lingua inglese, a pag. 207).
L'economia per parte sua viene attaccata per l'ampio utilizzo del concetto di
agente razionale, dichiarando la fallacia di tutti i modelli basati su quel presupposto irrealistico che non tiene conto dei margini di istintualità ed adattabilità di origine evolutiva del comportamento umano.
Ad ogni modo, dal punto di vista di Buchanan non c'è da preoccuparsi per
questo stato pietoso delle scienze umane, visto che è convinto che «[...] queste
sue versioni stiano divenendo in fretta, per fortuna, relitti storici.» (p.26).
La teoria dell'agente razionale ed i modelli su di essa basati vengono in particolare contestati nel cap.IV, nel quale viene mostrata l'inefficacia di questi strumenti per predire i comportamenti dei mercati azionari.
Buchanan identifica una serie di motivi - la complessità dei comportamenti
umani, il libero arbitrio, il problema dell'oggettività nel rapporto tra ricercatore e
oggetto di studio – per i quali nelle scienze umane non si è raggiunta l'enunciazione di leggi generali, contrariamente a quanto avvenuto ad esempio nella fisica.
Dato però che l'impredicibilità dei comportamenti del singolo non impedisce l'emergere di strutture, in gran parte originate dalla ripetizione di comportamenti
elementari, spostando l'attenzione su queste strutture si può secondo Buchanan
giungere a modellizzazioni efficaci dei vari fenomeni sociali.
I presupposti corretti dai quali partire sono per l'autore l'accettazione della natura opportunistica-adattiva dei comportamenti umani, la compresenza di comportamenti cooperativi e competitivi, l'importanza dei fenomeni imitativi.
Quest'ultimo tipo di presupposto è approfondito in particolare nel cap.V, dove oltre agli studi di Granovetter sulle sommosse vengono presentate le ricerche di
Bouchad e Michard sull'importanza dell'imitazione in una serie di ambiti, come i
trend demografici, la diffusione dei telefoni cellulari o l'andamento degli applausi
al termine dei concerti.
Per quello che riguarda la compresenza di fenomeni competitivi e cooperativi,
Buchanan sostiene (appoggi andosi a teoria dei giochi ed antropologia evoluzionistica) l'affermarsi come strategia evolutivamente vantaggiosa di un misto di
competizione, applicata principalmente nei confronti di chi viene percepito come
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estraneo, e cooperazione, applicata nei confronti di chi viene percepito come appartenente allo stesso gruppo. L'utilizzo, storicamente e culturalmente variabile,
di diversi indicatori di appartenenza e l'impiego di risposte competitive di intensità variabile viene presentato come esplicativo di fenomeni differenti quali i contemporanei scontri etnici in Ruanda e nei balcani, la persecuzione contro gli ebrei
nella Germania nazista, o l'emergere di prevalenze etniche nei quartieri residenziali statunitensi.
Non poteva mancare in un libro come questo una discussione della quasi ubiquitaria presenza di distribuzioni basate sulle leggi di potenza, con particolare attenzione al mondo economico. Quella che in altri casi è stata utilizzata come giustificazione di una presunta base naturale dell'ineguaglianza nella distribuzione
della ricchezza viene da Buchanan affrontata in maniera meno ideologica, nel
tentativo di identificare gli aspetti dinamici di queste distribuzioni.
In conclusione, questo testo ha il pregio di introdurre in maniera semplice anche se a tratti troppo enfatica una serie di concetti e di studi di non amplissima
diffusione nelle scienze sociali nostrane, illustrando posizioni assenti soprattutto
dai programmi d'esame dei corsi di studio universitari di primo livello; la lettura
è consigliata soprattutto agli studenti in cerca di stimoli e spunti transdisciplinari
da approfondire poi per proprio conto.
L'abilità di Buchanan come divulgatore sta anche nel suo affiancare diversi esempi a sostegno delle proprie posizioni, ma questo distoglie l'attenzione da un
paio di questioni importanti: Qual'è la reale portata predittiva dei modelli presentati da Buchanan? Quanto sono generalizzabili i risultati? Buchanan rifiuta diverse assunzioni riduzionistiche delle scienze sociali “tradizionali” (vedi l'accanimento contro la teoria dell'agente razionale) ma sembra sorvolare bonariamente
sulle semplificazioni che stanno alla base di molti modelli elaborati negli studi di
“fisica sociale” da lui presentati. Ovviamente ogni modello, come ogni rappresentazione in genere, deve ridurre la complessità della realtà modellizzata, ma
senza una analisi condotta su presupposti scientifici del perché un certo tipo di
riduzione sia più efficace di un'altro nel condurre a modelli efficaci, si rischia di
chiedere a un lettore di prendere per buone le proprie posizioni sulla base di fatti
appunto extrascientifici. Ogni trattazione divulgativa demanda per forza di cose
l'onere della dimostrazione scientifica ad altre sedi e si regge su costrutti retorici
in maniera più cospicua di quanto avvenga nelle trattazioni scientifiche vere e
proprie; tuttavia, essendo lo scopo di questa particolare divulgazione non la presentazione di una disciplina scientifica già affermata e riconosciuta come tale, ma
la presentazione di quella che l'autore vuole riconosciuta come nuova disciplina a
tutti gli effetti, va da sé che si carica di aspettative maggiori di quelle di altri
testi di divulgazione scientifica, aspettative in parte destinate ad andare deluse.
Per il lettore più avanzato negli studi di scienze sociali, il libro quindi fallisce
nello scopo di presentare un programma scientifico coerente alternativo a quelli
tradizionali, il numero di stimoli eterogenei forniti dalla lettura diminuisce drasticamente per chi abbia già affrontato per altre vie i temi della complessità nelle
scienze sociali (curiosa, a proposito, l'assenza nel libro di citazioni di autori come
Morin, Prigogine, o di autori legati al Santa Fe Institute), il cui panorama al di là
delle singole discipline non è certo drammaticamente arretrato su queste tematiche come Buchanan, per sostenere le proprie posizioni, vorrebbe far credere.
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Bibliografia
Mark Buchanan, 2000, Ubiquity: The Science of History... or Why the World is Simpler than We
Think , London, Weidenfeld & Nicolson, trad. it. Ubiquità. Dai terremoti al crollo dei mercati, dai trend della moda alle crisi militari: la nuova legge universale del cambiamento , Milano, Mondadori, 2001.
– 2002, Nexus: Small Worlds and the New Science of Networks, New York, W.W. Norton &
Co, trad. it. Nexus. Perché la natura, la società, l'economia, la comunicazione funzionano
allo stesso modo, Milano, Mondadori, 2003.
– 2007, The Social Atom, New York, Bloomsbury Press, trad. it. L'atomo sociale. Il comportamento umano e le leggi della fisica, Milano, Mondadori, 2008.
Dipartimento di Scienze Sociali, Università di Pisa