Itinerari algerini, scenari urbani: esempi di emancipazione e di

Itinerari algerini, scenari urbani: esempi di emancipazione e di deterritorializzazione
delle classi medie nel commercio mondiale
di Michel Peraldi
Nella rappresentazione dominante nei paesi occidentali, i fenomeni migratori appaiono
oggi contrassegnati dal sigillo dell'inutilità o del parassitismo. Non più «controllati» - secondo
l'espressione di A. Sayad (1999) - cioè incanalati dalle grandi imprese fordiste, i flussi migratori
sembrano non obbedire più a nessuna razionalità economica, dal momento che fuoriescono
dall’ordine razionale dominato dall'economia politica, dalle relazioni tra lo Stato e le grandi
imprese. La figura del clandestino appare così come un anti-eroe a quanti intendono dimostrare che
non vi è politica migratoria possibile se non nella regolazione dei flussi e nel controllo delle
destinazioni, e che il solo possibile sbocco legittimo per gli immigrati è quello del lavoro salariato
precario nella grande industria. Qui non si intende certo negare consistenza reale ai viaggi della
disperazione, che costituiscono alcune delle forme di migrazione più mediatizzate. Il punto è che è
difficile pensare le dinamiche migratorie contemporanee, il loro ruolo e il loro posto nell’ambito dei
cambiamenti economici e sociali in corso, elencandole semplicemente e mettendo in primo piano le
forme estreme di mobilità. Altre forme, più discrete e finanche nascoste, giocano un ruolo strategico
più importante ed assumono un valore sintomatico, dando un volto umano – relazionale e
territoriale – ai processi di globalizzazione che gli economisti trattano in modo astratto e meccanico,
e, al tempo stesso, alle nuove dimensioni dell’urbano, non interpretabili confinando l’analisi negli
spazi angusti della città.
In questo scritto dedicato in particolare alle nuove migrazioni algerine, dopo alcune
considerazioni sui caratteri generali del fenomeno, guarderò da vicino due diversi contesti urbani
segnati dalla presenza algerina. In conclusione proporrò qualche breve riflessione che riprende i
ragionamenti proposti nel primo paragrafo.
1. Itinerari e radici (routes are not roots)
A differenza dell’immagine dominante oggi nei media e nelle sedi istituzionali dei paesi
occidentali, i miei lavori su alcune piazze mercantili, diventate crocevia strategici di itinerari
migratori e commerciali (M. Peraldi, 2001), individuano flussi che si distinguono dalle migrazioni
dell'era fordista per la combinazione di quattro caratteristiche essenziali:
1) essi si fondano sull’attrazione delle vecchie migrazioni e sulle nicchie di legittimità che
queste hanno saputo creare nelle società d'accoglienza, cosicché l’emigrazione non è più – com’era
in precedenza - un salto verso l’ignoto, ma un percorso da «vicino a vicino» tra diversi luoghi della
diaspora tradizionale;
2) il modello di riferimento dell’imprenditore ha sostituito, nei sogni della maggior parte
degli emigranti, quello del salariato, anche se resta generalmente irrealizzato;
3) in parte a causa della normativa restrittiva dei paesi occidentali, in parte perché va
diventando sempre più una sorta di ricerca individuale, la migrazione non comporta più un
cambiamento duraturo, ma costituisce una fase di un ciclo in cui si alternano soggiorni nelle terre di
emigrazione e ritorni nelle terre di origine;
4) percorsi migranti e attività commerciali si combinano, e sono rari i casi di «migranti» che
non si diano da fare in una piazza o in un’altra, che non siano inseriti in uno dei dispositivi
commerciali transnazionali che collegano i Nord produttori ai Sud consumatori.
L’esempio degli itinerari algerini, cioè della rete territoriale disegnata dalle mobilità
«discrete» degli algerini, illustra perfettamente le nuove forme di organizzazione.
Oggi più di uno centinaio di algerini sono installati ad Istanbul, lavorano nelle botteghe di
Lalelli, uno dei quartieri commerciali della città, in società con dei Mardinli1 arabofoni e
musulmani; qui essi accolgono le migliaia di «turisti con la valigia» che arrivano dall’Algeria e
1
Curdi originari della regione di frontiera fra la Siria e la Turchia, specificatamente della città di Mardin (Turchia).
1
dalla Tunisia per fare i loro acquisti mensili a Istanbul (M. Peraldi, 2001). Una presenza
significativa di algerini è attestata a Dubaï (A. Battegay, 2000), ad Aleppo e Damasco, dove essi
vanno a rifornirsi, e da qualche tempo anche a lavorare, nei laboratori o nelle botteghe del bazar.
Alicante, diventata a sua volta un porto importante nel commercio europeo verso l'Algeria e un
nodo commerciale simile all’«emporio» marsigliese (A. Tarrius, 1995), deve il suo sviluppo
all’iniziativa di imprenditori algerini e marsigliesi (A. Tarrius, 2002; J. Sempere, 2000). Un numero
consistente di giovani algerini sono coinvolti nell’economia di strada a Milano (A. Colombo, 1998),
la loro presenza a Genova risale agli anni Ottanta, mentre a Napoli essi hanno un ruolo di spicco
nelle botteghe e nel commercio di strada (C. Schmoll, 2000). Uno studio recente conta trentadue
algerini presenti a Gorizia, città bazar alla frontiera italo-slovena (L. Leonidou, 2001).
Fin dagli anni Settanta, gruppi numerosi di studenti algerini hanno abbandonato la carriera
tradizionale dei loro genitori che andavano a studiare nelle università francesi, e hanno scelto di
completare i loro studi nelle università inglesi o americane. Giovani algerini o franco-algerini, figli
di immigranti installatisi in Francia, hanno scelto l'emigrazione verso il Québec (M. Hachimi
Alaoui, 1997). Sembra invece improprio parlare di circolazioni migratorie per gli algerini presenti
in Marocco, in particolare nella regione di frontiera del Rif e nei porti del Marocco del nord, Nador
ed Oujda, e per quelli che commerciano regolarmente con la Tunisia. La loro presenza in queste
aree è di vecchia data ma si è considerevolmente rafforzata negli ultimi due decenni. Reti
commerciali durature legano l’Algeria del sud, attraverso il Niger, il Ciad e il Mali, a tutta l'Africa
francofona (E. Grégoire, 1998). La piccola comunità degli algerini di Istanbul mi raccontava di un
abitante di Orano che, dopo un primo soggiorno in città, si era stabilito in Bulgaria, dove aveva
sposato la figlia di un ex ministro dell'ultimo governo comunista, quindi era diventato un grande
importatore di pezzi di ricambio d’auto e di automobili usate. Del resto, capita spesso di incontrare
degli algerini sui mercati delle auto d'occasione in Germania e in Belgio. Infine, nel suo viaggio in
Qatar, G. Kepel dice di aver riconosciuto, dal loro gergo, alcuni giovani algerini che facevano
acquisti in uno dei grandi centri commerciali degli Emirati (le Monde, 31/01/02).
Queste «diapositive» (C. Geertz, 1986) mettono in evidenza i cambiamenti profondi che
hanno interessato gli itinerari algerini negli ultimi anni. Le migrazioni erano iscritte, fino agli anni
Settanta, nel quadro territoriale, politico, economico e sociale dello spazio-tempo neocoloniale
franco-algerino. A partire da allora se ne sono radicalmente liberate, modificando le destinazioni, le
modalità del viaggio, le attività svolte e il profilo dei «nuovi migranti» nelle società di accoglienza.
I lavoratori immigrati hanno gradualmente ceduto il posto agli ambulanti, ai viaggiatori di
commercio, ai contrabbandieri o ai grossisti, che rappresentano ormai la maggioranza degli algerini
migranti. Se vi si aggiunge che su queste strade si incrociano persone giovani, a volte molto
giovani, e donne più spesso che uomini maturi, si completerà il quadro inedito di queste nuove
migrazioni.
Gli itinerari algerini attuali sono prima di tutto quelli del pellegrinaggio religioso: verso la
Mecca e verso gli altri luoghi santi dell’Islam, come Istanbul, nei quali incontrare dei correligionari
che possono diventare interlocutori fidati quel tanto che basta per poter fare affari assieme. Ma gli
itinerari degli algerini sono anche quelli aperti dalla costruzione della Comunità europea: dalla
Francia essi si spostano verso l’intero territorio europeo, verso i mercati belgi e tedeschi delle
automobili d'occasione, frequentati dai giovani delle periferie urbane venuti dalla regione parigina,
dall’Alsazia o, per il Belgio, dal dipartimento del Nord Pas-de-Calais, così come da Marsiglia. Essi
acquistano per se stessi o per i loro amici e trasportano i veicoli fino in Maghreb. Sono europei
anche gli itinerari degli psicotropi, dalla tollerante Amsterdam verso Parigi e Lilla (D. Duprez,
M.Kokoreff, 2000), anche se le droghe vengono prodotte in Sudamerica, in Marocco o in Libano.
Gli itinerari algerini sono inoltre quelli della francofonia (l’itinerario africano è al tempo stesso
musulmano e francofono), e giungono fino al Québec. Sono, ancora, gli itinerari aperti
dall'internazionale dei paesi del vecchio impero socialista; l’itinerario siriano, ad esempio, incrocia
quello socialista e quello musulmano, il dispositivo commerciale russo incontra quello algerino ad
Istanbul. Sono infine gli itinerari del bazar che collegano, come facevano le vecchie carovane,
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quelle piazze mercantili la cui reputazione si costruisce sulla base delle relazioni fiduciarie annodate
nelle moschee e nei caffè, sulle barche o negli autobus: Marsiglia, Alicante, Napoli, Istanbul, Dubaï.
Queste piazze mercantili sono, del resto, centri nodali in cui si incrociano molti itinerari e logiche
diverse di mobilità: ad Istanbul si incontrano i commercianti e i pellegrini, i giovani avviati al
trabendo2 e i veterani del commercio passati alle nuove pratiche del container sotto la protezione
degli «apparatchik» del regime, le mogli dei doganieri e le avventuriere che hanno fatto la vita nei
bar e nelle bische di Parigi o Marsiglia.
Ad inaugurare l’itinerario verso Istanbul sono stati senza dubbio quei giovani algerini,
tunisini o marocchini, ingaggiati dai venditori armeni del bazar egiziano per servire i turisti
occidentali. Si tratta di giovani che hanno compiuto studi universitari, perfettamente francofoni e
spesso anglofoni, arrivati seguendo le schiere di turisti europei diretti a Santa Sofia. Ma anche altri
percorsi hanno trovato sbocco a Istanbul. Alì, uno dei più vecchi algerini della filiera commerciale
giunto agli inizi degli anni Novanta, è oggi socio di un turco in un negozio di abbigliamento che
rappresenta uno dei punti di passaggio obbligati per gli algerini ad Istanbul. Originario di Algeri,
Alì deve il suo successo nel mondo del commercio alla sua perfetta padronanza di russo, polacco e
rumeno, acquisita in parte durante gli studi universitari fatti a Mosca, ai tempi in cui l’Algeria
socialista mandava le sue élites a formarsi nei paesi fratelli, e in parte vivendo fra gli equipaggi
delle navi sulle quali ha lavorato. Questi navigatori, impiegati su navi metaniere o petroliere
provenienti dall’Algeria, che approvvigionano regolarmente i terminali industriali di Smirne, fanno
da pionieri. Così Nacer, marinaio su una metaniera algerina dagli anni Ottanta, ad ogni scalo va a
rifornirsi nelle botteghe di Beyazit (Istanbul) e già ci veniva ben prima che gli algerini vi si
installassero, quando il quartiere era interamente destinato al commercio con i russi.
Queste nuove destinazioni possono essere considerate come il risultato
dell’internazionalizzazione o, diciamolo, della globalizzazione delle società algerine: quella di
Algeri prodotta dall’indipendenza, quella migrante della «diaspora», che ha finito per installarsi in
Francia. Ma si tratta di una «globalizzazione dal basso» (A. Portes, 1999), né desiderata né
auspicata dalle istituzioni degli Stati nazione. Il fatto che continuino ad esserci mobilità provocate
da sofferenze considerate intollerabili occulta o maschera la razionalità delle scelte, gli itinerari e le
carriere dei migranti.
A considerare troppo le circolazioni migratorie come strategie di sopravvivenza proprie dei
più sprovveduti, si perdono di vista le logiche della mobilità e il fatto che esse collochino ormai nel
cuore delle società locali un gruppo sociale in grado di liberarsi, in parte o del tutto, dagli ordini
normativi in vigore. Questo gruppo, lungi dall’essere composto da esclusi o marginali, costituisce,
come diceva P. Bourdieu (1979) a proposito delle classi medie, una classe in movimento. Mano a
mano che conducevo indagini nelle piazze mercantili da cui passano folle sempre più numerose e
rinnovate di «shop turisties» (per generalizzare il termine con il quale si designavano ad Istanbul le
folle russe della prim’ora dopo la caduta del Muro), mano a mano che incontravo gente nelle strade
di Istanbul, Marsiglia, Napoli, Trieste, mano a mano che si accumulavano i risultati delle ricerche
empiriche su questi nuovi ambulanti a Dubaï, Alicante, Anversa, Amburgo, ho maturato la
convinzione che queste nuove mobilità, che certo non esauriscono il registro delle circolazioni
migratorie che legano i Sud ai Nord, mobilitano in primo luogo dei «figli di famiglia» (A. Colombo,
1998), dei diplomati, dei funzionari e delle mogli di funzionari, degli infermieri o delle hostess
dell'aria, più spesso e più regolarmente che dei diseredati.
In Maghreb, nell’Africa francofona e nella maggior parte dei paesi dell’Est, il «turismo con
la valigia» non può più semplicemente concepirsi oggi come un epifenomeno sociale della crisi
economica mondiale. Le valige ricolme di merci sono oggi sostituite dai containers; il «commercio
con la valigia» e l’andirivieni dei piccoli mercanti, cioè, partecipano dei dispositivi commerciali in
cui trovano spazio imprese di dimensione, consistenza ed organizzazione considerevoli. Questo
fenomeno è caratterizzato anche da forme di specializzazione. L'Algeria ad esempio, sembra
2
Il termine è un neologismo, di origine araba, usato tanto in italiano che in francese, che allude alle pratiche legate al
mercato nero e al contrabbando (ndt).
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occupare un posto particolare sul mercato internazionale dell'automobile d'occasione, collocata al
punto strategico di collegamento tra l'Europa, da dove provengono i veicoli, e il Maghreb e l’Africa
francofona che ospitano i mercati «di seconda mano». A Biserta, avamposto tunisino prima della
frontiera algerina, si sono installati oggi grossisti specializzati nei pezzi di ricambio d’auto
saldamente collegati a questo dispositivo. La Tunisia, da parte sua, sembra occupare un posto
strategico in un’organizzazione equivalente, specializzata in abiti usati o di fattura economica, che
passa per Parigi, dove gli imprenditori tunisini hanno conquistato un posto molto visibile sul
mercato, o per Napoli, dove i tunisini fanno gli intermediari commerciali per conto di piccoli
mercanti mobili o grossisti sui mercati all’ingrosso; infine in Tunisia dove l’usato, la contraffazione
di marchi europei e la confezione «discount» invadono i mercati della maggior parte delle grandi
città del paese. È precisamente la combinazione di forme individualizzate di mobilità, che vanno dal
viaggio occasionale al pendolarismo specializzato per prodotti e per destinazione, e di logistica
commerciale internazionale, che fa oggi di queste forme commerciali non solo un epifenomeno
reattivo e vernacolare, ma un settore economico a pieno titolo che mobilita, in modo più o meno
intenso, una parte consistente delle classi medie tunisine.
Le scienze sociali si lasciano talvolta ingannare dalle tassonomie amministrative e
poliziesche, attribuendo valore sociale alle classificazioni dei migranti a seconda della loro
condizione - di rifugiati, clandestini, migranti legali, turisti - oggi contrassegnate da una logica
globale di «criminalizzazione» delle dinamiche migratorie (S. Palidda, 2000). È tuttavia possibile,
cambiando prospettiva, considerare le logiche di mobilità lungo gli itinerari della migrazione.
Adottando questo punto di vista, emergono quattro grandi concatenazioni migratorie mentre si
riduce l’importanza di una forma migratoria precedente. Un primo flusso è costituito da studenti,
che vengono a proseguire i loro studi in Francia e in Europa, ma anche in tutte le università poste
allo sbocco degli itinerari internazionali già evocati. Un secondo flusso è composto da giovani delle
città, talvolta molto giovani, reclutati generalmente fra i ranghi più bassi dell’economia criminale
(S. Palissa, 2000; A. Colombo, 1998). Un terzo tipo è rappresentato da chi viaggia, per ragioni
famigliari, personali, politiche, fra i diversi luoghi (principalmente europei) della diaspora delle
antiche migrazioni algerine: i matrimoni, le feste, tutte le questioni di famiglia e quelle legate ai
luoghi di culto producono mobilità. Un quarto flusso è caratterizzato dagli uomini e dalle donne che
praticano il «commercio con la valigia», in maniera occasionale o professionale, fra le diverse
piazze mercantili, da Marsiglia ad Alicante, da Nador a Napoli, da Damasco a Istanbul, che
compongono la rete commerciale algerina. Gli algerini invece sono poco presenti su quei mercati
del lavoro che avevano massicciamente occupato dagli anni Settanta, BTP e industria, e ancor meno
sui mercati oggi sregolati che assorbono mano d’opera clandestina, come quello alberghiero e
dell’abbigliamento.
Trascurando (forse troppo) le altre forme di mobilità, è al cosiddetto «commercio con la
valigia» che si sono principalmente rivolti i ricercatori negli ultimi anni, quelli almeno – fra i quali
io stesso – interessati ai nuovi paradigmi migratori. Si tratta in realtà di un tipo di migrazione che
presenta il vantaggio di rappresentare tutte le altre: oggi sono infatti rari i migranti che viaggiano
con le mani libere o la borsa vuota ... E molte storie di migrazione, cominciate da studenti, per
cercare un'occupazione o semplicemente andare a trovare i genitori immigrati, finiscono nel
commercio o nel cambio di valuta.
2. Un dispositivo commerciale maghrebino: il quartiere di Belsunce a Marsiglia
È nel cuore della vecchia città portuale, tra la stazione e il porto, che si sviluppa a Marsiglia
fin dagli anni Settanta, un dispositivo commerciale molto attivo rivolto alle vicine popolazioni
maghrebine (A. Tarrius, 1995; M. Peraldi, 2001). Nel 1982 si contano circa cinquecento
commercianti di nazionalità algerina installati a Marsiglia, concentrati generalmente nel cuore della
città. Si tratta ovviamente solo di una piccola parte, la più stabile, della mobilitazione prodotta dal
vasto e instabile mercato di un’Algeria che scopre allo stesso tempo una relativa abbondanza di
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denaro, prodotta dalla rendita petrolifera, e una marcata penuria di beni di consumo, disponibili
invece nei bazar di Belsunce. Se la facciata commerciale è algerina, i clienti sono soprattutto
algerini, e i prodotti pensati per loro, l’«emporio» marsigliese impone le proprie regole: gli attori
economici devono adeguare le loro attività alle logiche di questo spazio urbano degradato. Coloro
che lavorano negli alberghi e nelle officine meccaniche sono dei rimpatriati dell’Africa del Nord
che hanno investito il loro modesto capitale in un mercato fondiario degradato; i grossisti ed i
fabbricanti di capi d’abbigliamento sono armeni e sefarditi; alcuni proprietari di bar sono corsi,
eredi della malavita corsa che regnava sulla zona nel dopoguerra (P. Monzini, 1999). Se
l’«emporio» è originariamente appannaggio degli algerini, e più esattamente della coppia formata
dai grossisti sefarditi e i dettaglianti algerini, esso lascia spazio ad altre iniziative straniere che siano
in grado di creare nuove opportunità commerciali. Dagli anni Ottanta compaiono commercianti
siriani, prima, tunisini, senegalesi, marocchini, poi e, infine, libanesi.
Tra il 1974 ed il 1985, il traffico dei passeggeri transitati sulla rotta Algeri-Marsiglia è
aumentato da 219.000 a 550.000 unità. Se si aggiunge il traffico aereo, si passa da poco più di
500.000 persone nel 1976 a quasi 1,2 milioni nel 1985.
Ciò che tiene assieme le tessere di questo mosaico non è l’«orientalità» presente soltanto
nell'immaginario occidentale, ma in primo luogo la loro alterità ed estraneità alle norme, agli
apparati e ai dispositivi applicati dalle società locali al campo dell’economia. Le iniziative
economiche fanno a meno delle banche per la loro capitalizzazione, vengono portate avanti come
fossero avventure personali, mobilitano reti relazionali e legami personali piuttosto che competenze
gerarchizzate e una divisione funzionale del lavoro. Si collocano dunque in una dimensione di
informalità, se si vuole dare a questo termine un senso meno stretto di quello che di solito gli viene
attribuito. Gli affari di Belsunce non si fanno al di fuori dello Stato, francese o algerino che sia,
delle sue istituzioni poliziesche, contabili, legali o penali; la gran parte dei commercianti di
Belsunce pagano le tasse, o finiscono per pagarle, violano la legge né più né meno di altri. Ma essi
restano dentro nicchie di attività e costruiscono le loro imprese secondo modalità che le norme
dominanti giudicano obsolete, inefficaci e svantaggiose. Si può concordare con A. Tarrius (1995)
quando afferma che la società dell’«emporio» è una società cosmopolita, di un cosmopolitismo che
reinventa, ‘pacificamente’, quello che l'ordine coloniale urbano nel Maghreb aveva imposto. Ma si
tratta di un cosmopolitismo collocato al di fuori dei quadri morali e cognitivi delle economie
politiche dominanti nelle società locali in cui si inscrive.
Queste forme mercantili non basterebbero da sole a creare le condizioni di sviluppo
dell’«emporio» se non vi fosse anche la capacità di portare sulla piazza i prodotti richiesti dagli
algerini. Il ruolo delle reti tessute dai grossisti sefarditi nel Sentier parigino, e di quelle altrettanto
robuste degli armeni residenti a Marsiglia, collegati ai laboratori tessili di Issy Moulineaux (M.
Hovanessian, 1992) o al distretto della scarpa della Drome, risulta decisivo per convogliare su
Marsiglia una parte della domanda. Ma occorre anche che ci sia disponibilità di merci nei vari punti
delle filiere che collegano i produttori ai mercati. I consumatori algerini sbarcano al momento
opportuno, quando nei cicli di produzione si verificano una serie di micro-rivoluzioni che rendono
possibile la frammentazione del mercato e l'accesso alle merci. Come i professionisti della nuova
distribuzione, i commercianti di Belsunce conoscono le strade che portano ai distretti spagnoli e
italiani della scarpa, dell’abbigliamento e degli elettrodomestici; incontrano nelle strade del Sentier
parigino gli importatori dei prodotti asiatici, quando questi fanno la loro comparsa sul mercato
europeo; imparano a setacciare i depositi e le fabbriche, le aste pubbliche e i pignoramenti, per
recuperare gli stocks di scarti e di invenduto, le giacenze o le séries courtes. La differenza fra gli uni
e gli altri sta essenzialmente nel volume delle attività economiche; in effetti, ad eccezione della
cinquantina scarsa di commercianti insediati, che costituiscono il retrobottega stabile di Belsunce, la
costituzione dell’«emporio» è anzitutto l’affare di commercianti che qui cominciano una carriera
alla quale nulla li predestinava, ma che non oltrepasseranno mai, se non eccezionalmente o per
brevissime fasi, lo stadio critico del commercio in piccolo.
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Tutti gli algerini che emigrano a Marsiglia negli anni Settanta-Ottanta, anche se
generalmente vanno a raggiungere i famigliari che fanno i commercianti a Belsunce o gli operai nei
quartieri nord della città, arrivano in un mondo che non li attende più. Il posto è occupato, il
marciapiede è stretto. La stessa possibilità di assumere operai si è esaurita prima dell’inizio dei
grandi tagli dell’occupazione nelle fabbriche e sui cantieri. Per i deboli margini di profitto che
ricavano sui prodotti venduti e sugli investimenti che continuano a fare in Algeria, per la variabilità
della nicchia di mercato nella quale sono inseriti, sono pochi i commercianti insediati stabilmente a
Marsiglia in grado di trovare un lavoro ai nuovi parenti immigrati. Del resto, anche se lo volessero,
il permesso di soggiorno non si ottiene più così facilmente; le autorità francesi concedono in questi
casi solo dei visti validi tre mesi. Per i ‘cugini’ algerini diventa la norma, passati i tre mesi di
validità del permesso, far perdere le loro tracce per alcuni giorni in Italia o in Spagna, per poi
tornare, forniti di un nuovo visto di tre mesi. Durante questi periodi, essi compiono visite regolari
ad altri mercati come quello di Ventimiglia, e ne approfittano per rifornirsi di novità da smerciare a
Belsunce. Se gli affari a Marsiglia ristagnano, se il mercato si deprime, essi partono alla volta di
Lione, Belfort o Parigi, presso altre famiglie, portando alcuni prodotti da vendere, racimolando altre
informazioni ed elogiando il fascino e i vantaggi di Belsunce, cosa che indurrà i loro famigliari a
fermarvisi quando passeranno per Marsiglia, sulla strada del ritorno in Algeria. In alternativa, essi
tornano in Algeria carichi di borse, e smaltiscono le merci nelle reti famigliari, su banchi
improvvisati nelle vie commerciali dei centri urbani o alle frontiere; ritornano quindi a Belsunce,
provvisti di nuove ordinazioni. Sulle strade e alle frontiere, essi incrociano tunisini o marocchini,
raccolgono nuove informazioni, tentano un «colpo» alla prossima scadenza del loro visto, in
Germania ad esempio, dove le automobili d'occasione sono abbondanti e poco costose. Nei bar e nei
ristoranti di Belsunce essi divulgano le informazioni, citano dei luoghi, si vantano delle loro
imprese, e intanto nuove strade si aprono. Un paradosso: quando la Francia, inesorabilmente, si
chiude, è l'Europa che si apre. Ma più le porte si chiudono, più i passaggi sono stretti, più è
necessario e vitale essere da soli. L’emancipazione dalla famiglia, dal clan o dalla tribù è
condizione indispensabile alla mobilità, anche se la migrazione e l'instabilità sviluppano sociabilità
laterali fra chi condivide la stessa condizione.
Ma chi sono questi ‘cugini’ algerini e cosa cercano nel commercio? Negli anni ‘75-‘85, essi
erano generalmente figli di piccoli commercianti o di funzionari, neodiplomati, studenti, figli di
quei primi imprenditori che avevano tentato, nella stessa Algeria, un'avventura imprenditoriale
spesso coronata da insuccesso (J. Peneff, 1982). Al di là della loro sete d'avventura e di
emancipazione, secondo le logiche di una gioventù «globale» i cui riti imparano a conoscere
attraverso la televisione, la loro partenza mette in evidenza le difficoltà che ha la società algerina a
fare posto a tutti, in particolare a quelli che, in virtù dei loro studi o della posizione dei loro padri, si
sentono in diritto di rivendicare un «buon posto». A mano a mano che la destabilizzazione
economica e politica aumenta, l'Algeria allontana i ‘sovrannumerari’ e i diseredati. Non si tratta di
poveri in senso proprio, contrariamente alla leggenda umanitaria che si forgia attorno ai clandestini,
ma più precisamente di coloro i quali, direttamente o per successione, dovrebbero poter occupare un
posto apprezzabile nella società e che lo Stato invece ha scaricato. Si tratta di studenti che hanno
intrapreso o concluso gli studi, in Algeria o all'estero, di operai che le imprese nazionali hanno
licenziato, di sindacalisti, quadri, intellettuali, liberi professionisti, funzionari che hanno perso il
lavoro. Essi cercano nel commercio non solo il mezzo per arricchirsi e raggiungere la libertà,
quanto piuttosto il modo di riconquistare una qualche dignità personale, una propria condizione
sociale; ma lo fanno a proprie spese, fuori dallo Stato e dal suo appoggio morale, fuori dalla
famiglia e dall'ordine patriarcale. Il sogno di questi nuovi commercianti è spesso quello di fare un
buon matrimonio, di rappresentare cioè un «buon partito» agli occhi delle ragazze da marito,
fondare un focolare e costruire una casa, trovare una propria stabilità sociale. Pochi di loro hanno
obiettivi imprenditoriali o sogni manageriali.
Nelle vie di Belsunce essi incontreranno, e talvolta si scontreranno con altri pionieri,
anch’essi algerini, migrati prima di loro, per la gran parte operai. Ma le condizioni di lavoro nella
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zona di Marsiglia, per degli immigrati, sono molto diverse da quelle delle aree industriali del nord
del paese. Arrivati essenzialmente negli anni Settanta, a Marsiglia essi vengono impiegati
nell’edilizia, nei settori dell’artigianato e del commercio, inseriti in un tessuto economico in gran
parte dominato dalla piccolissima impresa. Nelle stesse fabbriche, le loro condizioni di lavoro e i
loro statuti sono molto più precari che nei distretti industriali dei sobborghi parigini, di Lione o di
Lilla. La precarietà della mano d’opera è a Marsiglia una tradizione e una condizione inerente al
«dispositivo industriale portuale» (B. Morel, 2000). Alla fine degli anni Settanta, in piena crisi, gli
immigrati sono fra i primi ad essere licenziati. Molti di loro tentano la riconversione sui marciapiedi
di Belsunce, cosa tanto più naturale per loro in quanto hanno acquisito, nei ritorni periodici in
patria, il «saper trasportare», la conoscenza dei gusti e dei bisogni algerini, la familiarità con le
operazioni di cambio, e le relazioni sociali; insomma, l'essenziale della competenza tecnica
necessaria al «commercio con la valigia». Alcuni, con i propri risparmi accumulati in Francia e in
Algeria, o con la somma ricevuta come indennizzo al momento del licenziamento, avviano una
attività commerciale. I muratori diventano rappresentanti di pezzi di ricambio di auto, o di articoli
di abbigliamento. Si sa ad esempio che la maggior parte dei meccanici ha lavorato presso i
concessionari di auto della regione prima di mettersi in proprio. Altri, più prudentemente, si
accontentano di comperare vecchi appartamenti che affittano ai migranti «di passaggio». Altri
infine, male in arnese, si limitano a far circolare le merci fra le due rive del Mediterraneo. Costoro
condividono con i loro ‘cugini’ algerini la sensazione che il mondo nel quale vivono, dal posto che
vi occupano in Francia, non garantirà più quella promozione sociale alla quale, un tempo, la
condizione di salariati aveva permesso loro di aspirare. Essi sognano di diventare proprietari, di
offrire ai loro figli la possibilità di compiere studi superiori e di entrare infine a far parte di quella
classe media della quale hanno appena intravisto i vantaggi.
A Marsiglia le carriere capitaliste per gli algerini sono rare, provvisorie, o seguono logiche
improduttive di capitalizzazione. Gli algerini che si arricchiscono nel commercio investono più
volentieri il loro denaro nell’edilizia e nella rendita fondiaria che nell'industria. A questo livello del
commercio, fra i bottegai e gli ambulanti regolari, le ‘dinastie’ famigliari vanno di rado oltre la
seconda generazione: i figli e le figlie dei commercianti diventano più volentieri medici, infermieri,
avvocati o geometri, che commercianti. Succede l’incontrario al livello superiore, dove le dinastie
famigliari sono la norma. Al livello più basso, presso i piccoli commercianti, i «passatori»
occasionali o regolari, i trafficanti, la logica di solidarietà dominante è quella delle bande o delle
coppie di amici; tutte solidarietà «laterali» rispetto all'universo famigliare e patriarcale
predominante nel Maghreb. Si tratta di amici d'infanzia che hanno frequentato le stesse zone di
Algeri o di Orano, di vicini o parenti alla lontana che fanno insieme il loro primo viaggio e i loro
primi affari, ma anche di amicizie di bar e di hotel. Le unità stabili vanno di rado oltre il paio, le
«formiche» formano «bande» provvisorie che si ritrovano puntualmente negli stessi hotel dove
condividono le stesse stanze, prendono gli stessi voli aerei, ma portano a termine da soli il processo
commerciale.
La «guerra di posizione» che da tempo impegna i poteri locali contro questa presenza
‘invadente’ del commercio di bazar (M. Peraldi, 2001), la restrizione della circolazione tra l'Europa
e il Maghreb e più ancora tra l'Algeria e la Francia, hanno senza dubbio pesantemente condizionato
la ristrutturazione e la dispersione dell’«emporio» commerciale. Anche se Marsiglia resta un centro
strategico importante, con una reputazione su scala mediterranea, altre piazze mercantili hanno
tratto vantaggio dal suo indebolimento accogliendo una parte dei flussi algerini precedentemente
concentrati esclusivamente su di essa. Alicante, Napoli, Istanbul, Dubaï: ogni settore
precedentemente concentrato a Marsiglia si è in un certo qual modo autonomizzato, generando
flussi di mobilità che prima confluivano tutti nelle botteghe di Belsunce. Questa autonomizzazione
dei settori corrisponde in parte a una logica di insediamento dei grandi commercianti che, con
modalità diverse, hanno «containerizzato» ciò che prima passava per le «valige» (M. Peraldi, 2001).
Un commerciante che ha iniziato la sua attività a Belsunce vendendo pezzi di ricambio per auto, si è
ora installato in un deposito della zona franca di Biserta in Tunisia. È oggi in treno (Biserta è
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l’ultima stazione tunisina prima della frontiera algerina) che le sue merci raggiungono l'Algeria, ma
anche l'Africa francofona. Questa «containerizzazione» è anche la conseguenza dell’acquisizione,
da parte di reti di protezione politica situate ai posti chiave degli apparati di potere maghrebini, dei
settori commerciali che producono più redditizi. Una parte dei doganieri non si è più accontentata di
semplici bustarelle, ma ha cominciato ad organizzare direttamente questi traffici commerciali,
differenziandoli rispetto alle opportunità, organizzando convogli di piccoli mercanti diretti a Napoli,
ad Alicante, a Istanbul, e sempre meno a Marsiglia. Questo processo ha dunque costretto gli
«indipendenti» e gli avventurieri ad allungare le filiere dei prodotti, ad «inventare» nuovi itinerari,
ad esplorare nuove piazze mercantili. La sedentarizzazione degli uni, che implica l’acquisizione del
controllo su settori e profitti, e non può essere realizzata senza protezione politica, produce la
mobilità degli altri.
3. Come olio sull'acqua: nel quartiere di Beyazit ad Istanbul
I dispositivi commerciali tra i quali circolano gli algerini non sono nicchie etniche ma
società cosmopolite articolate in «collegialità» (E. Lazega, 1999) fondate sulla condivisione di vari
tipi di alterità (dal «sospetto» alla clandestinità) e sfere comuni e circostanziate di interessi: secondo
la buona vecchia legge del mercato, gli attori presenti hanno complessivamente molte più ragioni
per intendersi che per litigare. A Istanbul, il ruolo di «minoranza intermediaria» (Bonachich)
giocato a Marsiglia dagli ebrei sefarditi francesi è rivestito invece dai curdi di Mardin, a loro volta
grossisti, fabbricanti, banchieri e anche, poiché la legge turca vieta agli stranieri di fare commercio,
prestanome dei bottegai algerini. La divisione dei compiti è assai ineguale, se si considera che gli
uni si assicurano «il livello capitalista» di questa macchina economica - commercio all'ingrosso,
confezione, sistema bancario - gli altri la vendita al dettaglio.
Ad Istanbul, la micro-società algerina di commercianti, bottegai o ambulanti, non forma né
una vera e propria comunità trapiantata, né una minoranza straniera strutturata tessendo fili di
solidarietà nei mondi variegati della città. Forma piuttosto una «società di esilio», sospesa tra due
tempi di erranza, intessuta di legami provvisori e contingenti tra individui, senza vero ancoraggio
alle società locali.
La maggior parte degli algerini incontrati ad Istanbul non ama questa città. Ne hanno
soltanto una pratica minima, limitata ai microspazi commerciali nei quali si muovono, dicono di
avere solo contatti di tipo affaristico con i turchi, che descrivono come rozzi e selvaggi. Hanno un
atteggiamento nostalgico tanto di un’Algeria oggi scomparsa, che evocano come un universo di
pace e di solidarietà, che della Francia, dove tutti sono andati almeno una volta, dove tutti hanno
pezzi di famiglia il cui successo diventa per loro un punto di riferimento. Nei racconti dell’esilio, i
fratelli, le sorelle, gli zii o le zie evocati sono di rado operai oppressi o disoccupati depressi, né
tanto meno giovani di periferia senza morale né futuro.
La gran parte di questi venditori è giovane, raramente supera i trent’anni, ad eccezione di
Alì, il veterano, che raggiunge la quarantina. La quasi totalità di questi stanziali dice di avere
lasciato precipitosamente l'Algeria mentre lavorava o studiava, riversati sulle strade dell’esilio dalla
società. Sono laici scacciati dal ritorno del fondamentalismo religioso, e religiosi scacciati dal
ritorno dell'esercito, ex clercs caduti in disgrazia e delinquenti. Hassen, ad esempio, si preparava a
diventare ingegnere elettrico; indagato per la sua attività religiosa e sindacale nell’università che
frequentava ad Orano, lascia l'Algeria e va prima in Tunisia, poi in la Siria dove vivacchia per
qualche tempo a Damasco lavorando nei negozi del souk dove vengono a rifornirsi gli algerini; da lì
raggiunge Istanbul. Lavora oggi come «intermediario» nella bottega di Alì e sogna sia di riprendere
gli studi interrotti, ma in Svizzera, sia di raggiungere il fratello a Londra. Come tutti gli algerini, ha
soltanto un visto turistico, valido tre mesi; il rinnovo gli costa 20 dollari o, nel caso non lo rinnovi e
gli capiti di dover mostrare i documenti per strada, 5 milioni di lire turche (circa 80 franchi francesi
nel 1999) in «bustarelle» da allungare ai poliziotti che lo hanno fermato. Hassen organizza perciò la
sua giornata in modo da evitare al massimo i controlli. Conosce della città soltanto le zone
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commerciali: Beyazit dove alloggia e lavora in una bottega, e Merter, che percorre instancabilmente
quasi ogni giorno alla ricerca di prodotti nuovi. Il suo vocabolario turco, appreso stando a contatto
con i commercianti, si limita al glossario dei termini tecnici, si mescola all’arabo e all’inglese, se
necessario. Egli è, secondo le sue stesse parole, «come olio sull'acqua».
La maggior parte dei commercianti algerini «installati» ad Istanbul descrive il proprio
mondo professionale come un mondo di relazioni mercantili, governate e dominate quasi
unicamente dagli scambi monetari. Dalla condizione di straniero a quella di commerciante, dai
particolarismi ai legami privilegiati con i fornitori, ai piccoli favori della vita quotidiana, tutto si
compera e si vende, tutto ha un prezzo. L'associazione tra proprietario turco e socio algerino
costituisce un esempio di questo modo di fare affari: ogni socio immette una quota di capitale, ma
quella del proprietario turco è inferiore perché si conteggia anche la protezione che egli garantisce
al suo socio straniero. Nel negozio di Alì ad esempio, come in quello di Brahim, un altro «vecchio»
del settore, ogni socio ha il suo stock, i suoi fornitori e i suoi clienti, e il negozio funziona su due
contabilità separate. Dato che i due soci non sono sempre presenti contemporaneamente nel
negozio, dovendo anche tenere i contatti con i fornitori, essi parlano tutti e due arabo e turco, quanto
basta almeno per garantire il contatto con la clientela; e dato inoltre che i prodotti fanno spesso
parte degli stessi stock, si può facilmente immaginare che le relazioni tra soci siano generalmente
segnate dalla diffidenza, attraversate da discussioni e conflitti o trattative infinite sulla ripartizione
dei vantaggi. In questo contesto, le società non durano mai molto a lungo e il posto degli algerini in
questo sistema è tanto più precario in quanto essi non possono contare su alcun aiuto di tipo
istituzionale in caso di disonestà conclamata del loro socio.
I maghrebini incontrati nei mondi del bazar attribuiscono generalmente questa «barbarie»
alla mentalità turca che descrivono come brutalmente mercantile, chiusa agli stranieri e che produce
una società dominata dalle relazioni d'interesse. Non ha ovviamente senso polemizzare su una
visione così negativa della società turca, ma è utile sceglierla come punto di partenza per
comprendere le modalità immaginarie e concrete di questa esperienza vissuta dagli algerini. O, per
dirla diversamente, questi discorsi spesso pessimisti ed esasperati ci dicono molto di più sugli
algerini stessi che sui loro partners di affari, dal momento che il loro tirarsi indietro o ripiegarsi su
se stessi rispetto all'ambiente culturale e sociale in cui vivono denuncia la loro incapacità di trarre
vantaggio sociale dalla posizione economica acquisita. Nel dispositivo commerciale del
«commercio con la valigia» essi occupano la posizione paradossale di «teste di ponte», cioè di
intermediari che al tempo stesso aprono spazi ai consumatori, che senza di loro si perderebbero
nella «giungla urbana» e commerciale di Istanbul, ma anche a quanti portano nel mondo degli
imprenditori locali informazioni sui mercati. A differenza dei pendolari, che mantengono la presa
sulle società locali dalle quali provengono, i commercianti si sono distaccati, per loro volontà o per
forza di cose, dai loro luoghi d'origine. A differenza dei grandi imprenditori, essi non possono
raggiungere un volume di affari tale da riconquistare la loro posizione sociale originaria, tanto in
patria quanto altrove. Tra un ritorno impossibile alle condizioni politiche e sociali, sia della società
algerina che hanno lasciato, sia della società francese che costituisce l'altra faccia del loro mondo, e
una ‘sedentarizzazione’ altrettanto impossibile alle condizioni fissate dalla società turca, essi sono
condannati alla migrazione, quali moderni erranti di una città globale che non ha ancora definito
una condizione politica e sociale dell’esistenza diversa da quella di un «divenire nomade» (G.
Deleuze, F. Guattari, 1980) per quanti vedono i loro mondi sociali crollare sotto il peso dell'ordine
mondiale.
I «commercianti con la valigia» sono piuttosto giovani. Il più giovane algerino, incontrato
negli alberghi di Beyazit, aveva quattordici anni, faceva i viaggi già da quattro anni, da solo, ma
saldamente protetto dai gruppi di uomini e soprattutto di donne che talvolta si formano
all'aeroporto; il più vecchio aveva una cinquantina di anni, un’eccezione in un mondo generalmente
composto da trentenni. Le donne algerine, pure presenti su questo mercato, sono però meno
numerose degli uomini. La «società di esilio» degli algerini di Istanbul è complessivamente una
società di uomini celibi, resi tali per forza di cose o che lo sono statutairement. Al contrario, i
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«commercianti con la valigia» che provengono dalla Tunisia sono quasi esclusivamente donne, in
una proporzione vicina alle otto su dieci. Alla partenza e all'arrivo dei voli di Tunisi, i pochi uomini
presenti o sono degli algerini che scelgono questo tragitto per proseguire poi il viaggio attraverso
una frontiera terrestre, giudicata più «porosa» di quella aerea, o sono fratelli, mariti, fidanzati delle
donne che dicono di accompagnare. Uomini piuttosto giovani dunque, e donne invece di ogni età: il
«commercio con la valigia» fa mettere in viaggio quanti nelle «società di lignaggio e patriarcali» (L.
Addi, 1999) maghrebine, sono in soprannumero e in posizione di inferiorità al tempo stesso.
Occorre qui eliminare un'ambiguità e un falso problema. I «commercianti con la valigia»
non sono poveri o diseredati nei mondi sociali e urbani da cui provengono. La gran parte dei
giovani che abbiamo incontrato hanno un titolo di studi superiori, talvolta hanno anche iniziato ad
esercitare in Algeria una professione che potrebbe essere considerata gratificante. Questa frequenza
di giovani diplomati fra i commercianti certo non esclude la presenza di una popolazione di giovani,
ugualmente algerini, spesso analfabeti, che parlano poco o niente di francese. Spesso più giovani
dei diplomati, essi rappresentano una sorta di «seconda generazione» del trabendo, più conforme al
profilo dei clandestini che si concentrano alle frontiere europee e vengono trattati come bestiame
umano dai «passatori» professionisti. La differenza di statuto è qui molto chiara nella misura in cui,
al contrario degli altri che sono indipendenti e gestiscono in proprio i loro affari, questi ultimi vanno
molto spesso in gruppi, guidati dai più anziani che vengono descritti come «grossisti», o al seguito
degli «installati», ‘sponsorizzati’ da doganieri, commissari di polizia o militari, che lucrano su
questi traffici, di cui gli immigrati dicono di essere con humour feroce i «somari». Tuttavia, quelli
in possesso di un titolo di studio restano ancora la maggioranza nel mondo del «commercio con la
valigia».
La stessa varietà di condizione si trova fra le donne, dove gruppi più solidari e più uniti di
quelli maschili sono composti da donne spesso anch’esse diplomate, che lavorano, come insegnanti,
infermiere, hostess dell'aria (fra le professioni incontrate più di frequente nelle strade di Beyazit),
ma sono anche casalinghe, mogli di funzionari, o infine – anche se in numero nettamente inferiore donne arrivate con le ultime ondate di migrazioni contadine verso le città, algerine o tunisine, in
gran parte vedove, divorziate o ripudiate. Si incontrano fra le algerine – a differenza delle tunisine donne precedentemente emigrate in Francia che spesso si sono mosse negli ambienti loschi dei bar,
a volte della prostituzione, piuttosto che fra le occupazioni solite dell'emigrazione.
Se si vuole dunque rintracciare una caratteristica generale ai percorsi dei commercianti con
la valigia, e che possa dare ragione della loro mobilità, è che essi sono tutti «orfani» di società
fondate sul patriarcato e sul lignaggio. Molti dei giovani incontrati nelle strade di Beyazit sono
generalmente figli minori piuttosto che primogeniti, ai quali spesso non viene riservato alcun posto
nella società. E inoltre, dalle donne divorziate ai diplomati disoccupati o condannati ad attività
dequalificate, alle donne che la migrazione ha distaccato dall’universo famigliare di appartenenza,
le «valige» hanno rappresentato per tutti costoro, che lo volessero o meno, un punto di arrivo che li
ha emancipati dai mondi sociali di provenienza. Essi condividono dunque la duplice certezza di non
trovare posto nel mondo d'origine e al tempo stesso di aver acquisito la condizione di individuo
singolo, senza obblighi, o comunque svincolato da ordini sociali stabiliti. Sono insomma dei
«marginali», non nel senso criminologico del termine, ma nell’accezione utilizzata da Park (1928) :
marginale è quell’uomo che, installato tra molti mondi sociali e culturali, non appartiene a nessuno
di essi.
Questa specificità svolge un ruolo determinante nello sviluppo delle sociabilità e delle reti
intessute nel mondo del «commercio con la valigia». Gli algerini stanno tra di loro, le tunisine tra di
loro; gli uomini e le donne del «commercio con la valigia» si mescolano poco alla società locale
turca. Dividono camere di albergo che sono quasi esclusivamente riservate a loro, o, quelli con più
esperienza, affittano appartamenti alla settimana dai commercianti di Beyazit. E vi si stipano dentro,
il tempo del loro soggiorno, a volte più di una decina. Non è raro ad esempio trovare un gruppo di
dieci o dodici donne tunisine alloggiate in un bilocale, dove dormono per terra. Questi gruppi
migranti si dividono i bagagli, si passano le informazioni sugli affari possibili, si prestano del
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denaro; sono molto spesso gruppi che condividono una stessa origine, che declina l'eternità dei
quadri territoriali. Al loro interno le relazioni sono strette : Aïcha è cugina di Naima che l’ha
condotta ad Istanbul, Alì fa dei prezzi speciali ai suoi amici d'infanzia di Bab el Oued, ecc. Ma
questo registro identitario, che sembra governare le sociabilità, non ha senso se non incrociato con
un altro registro, che definiremo situazionale poiché tesse legami nelle situazioni condivise dai
viaggiatori. Gruppi di donne che si formano all'aeroporto per suddividersi il supplemento da pagare
sul peso del bagaglio, amicizie che nascono durante le lunghe ore di attesa nei corridoi degli hotel o
nelle hall degli aeroporti, solidarietà spontanee che si mobilitano attorno allo «sfortunato» che deve
affrontare una delle tante norme contro le quali si scontrano i passeggeri; sono tutte occasioni, che,
anche se reinventano origini e ancoraggi dati, fanno dell'individuo il principio attivo di sociabilità.
L'impegno personale sostituisce l'identità assegnata dalla nascita ed apre spazi in cui si inserisce
l’incontro con l’estraneo, per quanto casuale e momentaneo esso sia.
Il commercio diventa un'esperienza intensa, alla stregua dello sport, dell’arte o della fede - i
tre raffronti che utilizzano generalmente gli attori sociali quando definiscono la loro attività. Fare
commercio è un impegno, personale, individuale, che individualizza. Le solidarietà e le amicizie,
per quanto intense, durano giusto il tempo necessario a concludere un affare, in un universo in cui
l’individualizzazione è la norma. Ci sono i «buoni» e i «cattivi», gli eroi dei quali si narrano le
prodezze, la sera negli hotel, nei bar, nei ristoranti, durante le lunghe ore d'attesa negli aeroporti, sui
marciapiedi, nei corridoi degli uffici di dogana, nelle file d'attesa davanti ai negozi. Tutti luoghi
cardine dove si dispiegano le sociabilità che organizzano l'universo del «commercio con la valigia»,
fatto tanto di lavoro, reale e stancante, che di feste e di allegria. Spazio di libertà individuale e
vincolante al tempo stesso, il «commercio con la valigia» non può essere semplicemente ricondotto
a una fatalità o al compimento sistematico di un obbligo collettivo. Ecco perché, anche se il
dispositivo commerciale cui appartiene questo tipo di attività può essere definito etnico, dato che
mobilita catene relazionali tra persone consapevoli di condividere beni e servizi, di scambiare
informazioni e denaro dal momento che sentono di appartenere allo stesso contesto identitario,
questa marcatura etnica non può da sola descrivere e qualificare l'esperienza sociale del commercio.
4. Transnazionalismo, deterritorializzazione, promozione sociale
Niente nelle forme sociali di questo commercio lascia intravedere la presenza di
imprenditori schumpteriani, che reinventino un nuovo capitalismo mercantile sulle rovine della
società fordista. Si tratta piuttosto di vedere in questi processi qualche elemento che allude alla
formazione di una classe media, iniziata come un percorso di protezione sociale sotto la protezione
statale, attraverso la scuola, l’accesso alle professioni intellettuali o alla condizione di colletti
bianchi. Ma questo ciclo è stato interrotto dalle trasformazioni economiche dei mondi
contemporanei, che questi gruppi sono pertanto obbligati a completare poggiandosi esclusivamente
sui propri mezzi. Essi lo fanno alle condizioni, sociali, simboliche e culturali, esaltate e valorizzate
dalla organizzazione socio-economica fondata sul lavoro salariato, alle condizioni cioè di una
liberazione e di una realizzazione personale, di un atto di emancipazione. Le relazioni commerciali
costituiscono un terreno d'avventura per quanti, dopo aver intrapreso un percorso di promozione
sociale sotto l’egida del welfare, non trovano le condizioni per portarlo a compimento.
D’altronde la loro localizzazione ha ben poco a che fare con la territorialità statale. Lo stesso
termine di migrazione diventa sempre più improprio per qualificare circolazioni talvolta pendolari e
talaltra cicliche, così come esplorazioni di mondi nuovi o percorsi carovanieri tra luoghi delle
vecchie migrazioni e ritorni periodici al «paese». Molti di questi viaggiatori, per la distanza che
realizzano dalla società algerina e lo strappo culturale che sembrano vivere, restano in cuor loro dei
migranti. Coloro i quali praticano con regolarità il viaggio a fini commerciali tra Istanbul ed Algeri
dicono di sentirsi immediatamente stranieri tanto «qui» che «laggiù», segnati da questa «doppia
assenza» che per Sayad era la caratteristica costitutiva della mentalità del migrante (A. Sayad,
1999). La permanenza di una rappresentazione anacronistica di sé costituisce uno degli enigmi di
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fronte al quale ci pongono questi viaggiatori, che è difficile definire con il vocabolario scientifico a
nostra disposizione.
La questione centrale sta allora nel comprendere le forme di sociabilità e di relazione dei
migranti che si allontanano dai loro mondi di appartenenza ma restano degli estranei anche nelle
«società di accoglienza». Per dirla diversamente, le nuove forme di mobilità ci presentano degli
individui che formano bande, gruppi effimeri riuniti da solidarietà occasionali, ma che non
necessariamente fanno gruppo sociale. Relativamente delocalizzati rispetto al loro mondo sociale e
culturale d'origine, tanto almeno da non condividerne più tutti i valori, ed incapaci di inserirsi
pienamente in un altro mondo di cui potrebbero condividere codici e valori, costoro costituiscono
una umanità in movimento. Se si può osare la metafora, vivono in una più o meno perfetta
imponderabilità sociale, poiché sembrano appartenere soltanto a quelle «comunità affettive» di cui
parla A. Appadurai (1996), al quale, per inciso, queste riflessioni devono molto: «un gruppo di
individui che si mette a condividere i sogni e le sensazioni», piuttosto che i valori e le norme.
Una sola conclusione si impone: il quadro territoriale degli Stati nazione non è più l’ambito
in cui descrivere e valutare le dinamiche culturali, gli impegni relazionali e le carriere sociali e
professionali che segnano la vita di queste popolazioni. Esse vivono tra molti mondi, ma il loro
universo è allo stesso tempo più ridotto del quadro territoriale degli Stati nazione perché è prima di
tutto urbano, metropolitano – essi praticano le città e percorrono «reti di città» (non conoscono la
Francia ma Marsiglia, non praticano la Turchia ma Istanbul, e non l'Europa ma Marsiglia, Napoli,
Milano, Dusseldorf) - e più ampio perché produce continuità e porosità tra mondi separati da
frontiere politiche e culturali: dallo spazio-tempo musulmano alle «regioni morali» del commercio,
le sociabilità che prendono forma consistono in relazioni di posizioni più che in territori, segnate dal
triplo sigillo dell’affrancamento, della deterritorializzazione e del transnazionalismo.
Cosicché la comparsa di queste nuove mobilità, caratterizzate dal commercio pendolare e
dalla necessità di essere imprenditori di se stessi, produce solidarietà effimere e circoscritte fra
nicchie urbane costruite dalle società migranti e finisce per contribuire al riposizionamento e alla
reinvenzione delle classi medie nate nell’era fordista, dopo i mutamenti indotti dalla
globalizzazione. Sfociato in una crisi spettacolare nel blocco socialista nell’Europa dell’est, risoltosi
in maniera apparentemente meno devastante in Maghreb, questo nuovo ciclo è segnato
dall’indebolimento e dalla scomparsa di settori economici nei quali il ruolo centrale dello Stato
garantiva uno status e una sicurezza a quelle classi medie formatesi dalla generalizzazione della
scolarizzazione e della formazione secondaria superiore. Gli sconvolgimenti economici di questi
ultimi decenni hanno interrotto il processo con il quale la combinazione di una scolarizzazione
lunga e dello sviluppo delle occupazioni di servizio nel settore pubblico permetteva la strutturazione
di una classe media il cui profilo e la cui stabilità erano garantiti dal potere pubblico. Le mobilità
legate al commercio non sono altro che uno dei mezzi pratici, tattici, con il quale queste classi
medie entrano in «resistenza», tentando di perpetuare il proprio ciclo di promozione sociale,
mobilitando le loro risorse sociali e relazionali fuori dai circuiti e dai settori legittimi e
pubblicamente garantiti da cui o sono state escluse o che comunque non garantiscono più il tenore
di vita al quale ritengono di poter aspirare.
Queste mobilità partecipano alla ricomposizione delle economie locali nelle quali gli
«ambulanti» si iscrivono in momenti diversi del loro migrare. Nel mentre i «protetti» trovano nella
sedentarietà e nella legittimità le condizioni per perpetuare la loro condizione, i nuovi migranti si
ritagliano i propri spazi al di fuori dei quadri legali e territoriali con i quali gli Stati cercano di
controllare i processi di trasformazione delle società locali, cioè nella mobilità e nella informalità.
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