Antlitz der Zeit. La fotografia monumentaria di August Sander di

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n. 6 Marzo/Maggio 2013
Antlitz der Zeit. La fotografia monumentaria di August Sander
di Alessandra Nappo
Il presente saggio si propone di mettere in luce quella peculiare forma di
monumentalizzazione che si realizza nel fotolibro Antlitz der Zeit (1929) di August
Sander,1 uno dei massimi esponenti della fotografia della Nuova Oggettività tedesca (Neue
Sachlichkeit) della fine degli anni ’20. Seppur una certa tendenza ‘monumentalizzante’ non
si possa dire estranea neppure all’opera degli altri due grandi protagonisti della fotografia
sachlich, Albert Renger-Patzsch e Karl Blossfeldt – e, anzi, senza il timore di incorrere in
pericolose forzature si possa ritenere una sorta di Leitmotiv nei loro celebri fotolibri Die
Welt ist schön (1928) e Urformen der Kunst (1928) – mi curerò in questa sede di
analizzare unicamente il lavoro sanderiano. Quest’ultimo, più degli altri, mi pare
esemplificare quel sottile equilibrio tra intenti documentari, da un lato, e intenti artistici ed
estetizzanti, dall’altro; detto in altri termini, nell’opera di Sander sembrerebbero coesistere
due fattori apparentemente opposti e contrastanti: la documentazione oggettiva, neutrale
dell’uomo tedesco della Repubblica di Weimar e la sua monumentalizzazione. Tenendo
dunque sullo sfondo tali premesse, è innanzitutto indispensabile delineare i tratti
essenziali di Antlitz der Zeit per poter comprendere le ragioni che ci porteranno a definire
la fotografia di August Sander come monumentaria.2
Antlitz der Zeit3 (Il volto del tempo) [fig. 1], pubblicato nel 1929 dalla Kurt Wolff Verlag
(che l'anno precedente aveva dato alle stampe Die Welt ist schön di Renger-Patzsch),4
1
2
3
Per un approfondimento biografico su August Sander, cfr. Gunther Sander, “Aus dem Leben eines
Photographen”, in August Sander, Menschen ohne Maske. Photographien 1906-1952, Schirmer/Mosel,
München 1976, pp. 7-28.
Tale neologismo è stato coniato da Thierry de Duve in riferimento all’opera dei fotografi tedeschi Bernd e
Hilla Becher, i quali avrebbero inventato, secondo il critico, il genere monumentario, vale a dire un
peculiare connubio tra monumentale e documentario. Cfr. Thierry De Duve, “Bernd und Hilla Becher
oder die monumentarische Photographie”, in Bernd und Hilla Becher. Grundformen, Schirmer/Mosel,
München 1993, p. 20.
Mi sembra interessante ricordare che nella biblioteca di Sander si trovavano numerose pubblicazioni che
contenevano nel titolo il termine Antlitz o che erano strettamente connesse a tale concetto. Inoltre, una
serie di disegni a penna del 1921 realizzata dal pittore Franz Wilhelm Seiwert (dal quale Sander fu
fortemente influenzato), in cui si intendeva offrire un'immagine della società della Repubblica di Weimar,
era proprio intitolata 7 Antlitze der Zeit. Cfr. Anne Gantefürer-Trier, “Zeitgenossen”, in Susanne Lange (a
1
conteva una selezione di 60 ritratti in bianco e nero, e doveva costituire la prima tappa di
un progetto artistico di portata colossale, Menschen des 20. Jahrhunderts (Uomini del XX
secolo), finalizzato a dar vita a un ritratto della società del tempo che immortalasse le
figure tipiche di tutte le professioni e le classi sociali senza alcun ritocco o abbellimento,
con assoluta precisione. La prefazione5 è redatta dallo scrittore e psichiatra Alfred Döblin
ed è accompagnata da un elenco delle fotografie riprodotte, i cui titoli, concisi,
corrispondono all'intenzione di Sander di «rappresentare gli uomini come tipi, come
rappresentanti di un gruppo specifico».6 Per tal motivo, il nome del personaggio ritratto è
quasi sempre taciuto; a venire menzionata è invece la sua professione (fabbro, ingegnere,
contadino, ecc.) e, soltanto nel caso di alcune personalità note, compaiono anche le iniziali
del nome (per esempio Il tenore L.A., Lo scrittore e critico letterario D.H.S.).
Si fa dunque strada, nel lavoro di Sander, la volontà di fornire uno spaccato della società
del tempo, una forma di interesse sociologico ed enciclopedico che si potrebbe relazionare
alla frequentazione, da parte del fotografo, del gruppo degli artisti progressisti di Colonia –
i cosiddetti Kölner Progressiven – guidato da Franz Wilhelm Seiwert, Heinrich Hoerle e
Gerd Arntz. Proprio quest'ultimo – da cui Sander fu fortemente influenzato – era stato
sollecitato dal filosofo ed economista Otto Neurath, Direttore del Museo sociale ed
economico di Vienna, a elaborare, partendo dai propri pittogrammi, «una sorta di alfabeto
visivo» (Isotype) [fig. 2], «una lingua comune»,7 neutra, che potesse essere utilizzata da
una folta schiera di grafici. Lo stile personale di Arntz doveva perciò diventare, secondo gli
intendimenti di Neurath, così impersonale da poter essere ripreso da altri. Come non ha
mancato di evidenziare lo storico dell'arte francese Olivier Lugon, questo aspetto, in base
al quale «uno stile personale viene promosso al rango di lingua collettiva, mostra fino a che
punto […] l'anonimato sia una costruzione e l'impersonalità uno stile da elaborare
lavorandoci sopra, non uno stadio primario dell'espressione collettiva che sarebbe
4
5
6
7
cura di), Zeitgenossen. August Sander und die Kunstszene der 20er Jahre im Rheinland, (catalogo
mostra, Köln, Josef-Haubrich-Kunsthalle, 19 maggio – 30 luglio 2000), Steidl, Göttingen 2000, p. 17.
Walter Benjamin elogiò senza riserve il lavoro di Sander, criticando invece aspramente l'opera Die Welt
ist schön (Il mondo è bello) di Albert Renger-Paztsch (senza dubbio anche a causa del titolo dell’opera,
destinato a suscitare numerosi fraintendimenti circa gli intenti dell’autore). Il libro di Sander è per
Benjamin un libro radicale e moderno che renderebbe possibile una nuova Alphabetisierung
(alfabetizzazione), proprio nel senso in cui l'aveva intesa Moholy-Nagy parlando della fotografia come
alfabeto del futuro. «August Sander», così si pronuncia Benjamin, «ha raccolto una serie die teste che non
hanno nulla da invidiare alla poderosa galleria di fisionomie di un Ejzenštejn o di un Pudovkin, e lo ha
fatto da un punto di vista scientifico. […]. L'opera di Sander è più di una raccolta di fotografie: è un atlante
su cui esercitarsi», Walter Benjamin, “Piccola storia della fotografia”, in L’opera d’arte all’epoca della sua
riproducibilità tecnica. Arte e società di massa (1937), Einaudi, Torino 2000, pp. 72-73.
Alfred Döblin, “Von Gesichtern, Bildern und ihrer Wahrheit”, in August Sander. Antlitz der Zeit. Sechzig
Aufnahmen deutscher Menschen des 20. Jahrhunderts (1929), Schirmer/Mosel, München 1990, pp. 7-15.
Gabriele Conrath-Scholl (a cura di), August Sander. Menschen des 20. Jahrhuderts, Schirmer/Mosel,
München 2010, p. 14, traduzione di chi scrive.
Olivier Lugon, Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920-1945,
Electa, Milano 2008, pp. 160.
2
sufficiente ritrovare».8 Si potrebbe pensare che, nel caso di Sander, fosse più semplice
avvicinarsi a quell'ideale di impersonalità cui Neurath anelava, in quanto lavorava con la
fotografia, un medium meccanico, e non con il disegno, come Arntz. Tuttavia, come ha
perfettamente messo in luce Lugon, «perché le immagini vengano percepite come
impersonali non basta lasciare che l'apparecchio scatti meccanicamente; bisogna restituire
tale qualità attraverso dei segni. […] L'impersonalità di Sander è in buona parte un effetto
stilistico, costruito sapientemente a partire da un fascio di segni: rifiuto di espressioni forti
nel modello, uniformità delle immagini, sistematica frontalità».9
L'intento di Sander consiste dunque nel voler svelare «come il potere collettivo della
società umana, la classe sociale e il livello culturale, tra gli altri fattori, producano
somiglianze di gruppo e tipologie comuni».10 Sander aveva, in tal senso, un'illustre e
consolidata tradizione alle spalle, risalente al XV e XVI secolo: all'epoca era infatti
consuetudine raffigurare le varie classi sociali in base a gerarchie dipendenti dalle
professioni esercitate. Un formato molto diffuso e dedicato a tale scopo era lo
Ständebuch,11 o libro dei mestieri;12 uno di questi era, ad esempio, Das Ständebuch [fig. 3],
pubblicato nel 1568, con illustrazioni di Jost Amman e versi di Hans Sachs. Se si pensa al
fotolibro di Sander, la somiglianza è sorprendente: entrambi mirano a rappresentare la
società in base alle differenti classi sociali e contengono, in ogni pagina, un'immagine
rappresentativa di un certo mestiere o rango, con il nome della professione
corrispondente. Nel libro dei mestieri, però l'immagine è anche accompagnata da una
poesia che descrive dettagliatamente l’azione svolta dai personaggi nella scena
rappresentata. Das Ständebuch segue, inoltre, una precisa gerarchia: inizia con il clero
sino ad arrivare alle classi considerate più umili e termina con la figura del folle. Sander, da
parte sua, capovolge questa rigida gerarchia esordendo con la figura del contadino, esibito
come fondamento dell'intera società. Analogamente al libro di Sachs e Amman, Sander
conclude l'opera con quello che egli definisce l’‘ultimo uomo’, categoria nella quale fa
rientrare anche l'idiota.
Tornando all'analisi dell’opera sanderiana, mi sembra interessante evidenziare come anche
il montaggio sia un aspetto di primaria importanza e si strutturi in modo assai complesso,
su tre differenti livelli. Innanzitutto, il montaggio si rendeva necessario allo stadio
8
9
10
11
12
Ibidem, pp. 160-162.
Ibidem, p. 162.
Beaumont Newhall, Robert Kramer (a cura di), August Sander. Photographs of an epoch 1904-1959,
Aperture, New York 1980, p. 19, traduzione di chi scrive.
Ibidem.
In realtà, il termine “mestiere” è fuorviante perché questi libri includevano anche membri degli strati
sociali più elevati come, ad esempio, papi, re, imperatori, vale a dire persone che generalmente sono
concepite più in termini di rango che di professione.
3
dell'ideazione dell'opera. Il metodo di lavoro adottato dal fotografo per dar vita a un
inventario della società sistematicamente ordinato prevedeva, infatti, un lungo processo di
raccolta, classificazione e suddivisione del materiale in liste, cartelle e gruppi tematici.13 Il
corpus fotografico era quindi gestito secondo un procedimento degno del rigore di un
archivista, meticolosamente ripartito in gruppi e sottogruppi. Secondariamente, Sander si
avvaleva della tecnica del montaggio per gestire la disposizione e giustapposizione delle
fotografie all'interno del volume, dando così origine a una struttura seriale. Il lavoro di
Sander, infatti, è pensato proprio sulla base della serie e si rende perciò comprensibile e
fruibile non attraverso la singola immagine – che, in sé considerata, perde in un certo
senso la propria ragion d'essere –, bensì attraverso uno sguardo d'insieme sull'intero
progetto.14 Il concetto di Mosaikbild (immagine mosaico), evocato dallo stesso Sander in
una lettera privata, 15 rimanda proprio all'idea di un'immagine che acquisisce senso
solamente per vicinanza e risonanza con altre immagini.
Infine il montaggio, dopo essere risultato indispensabile per la classificazione del materiale
e per la sua disposizione seriale all’interno del volume, è esercitato anche a un terzo livello,
vale a dire nella composizione della singola immagine, nella quale il personaggio ritratto si
presenta come il risultato della coesistenza di singole componenti, di segni che, alla stregua
delle parole all'interno di un testo scritto, possano essere letti, decodificati, interpretati.
«Tutto ciò che entra nell'immagine, o quasi», puntualizza Lugon, «deve possedere lo stesso
valore segnaletico e rivelatore: […] tutto ha funzione di attributo».16 In primo luogo, la
posa del personaggio e la conformazione del suo corpo: il viso, per esempio –
generalmente inespressivo, neutrale –, ma anche le mani diventano un elemento sul quale
richiamare l'attenzione, in quanto trattengono una serie di informazioni sul conto del
personaggio, diventano cioè leggibili mediante la loro conformazione e gestualità. Non di
rado, le mani stesse si fanno utensili per esercitare un mestiere (si pensi alle mani del
contadino o del Manovale [fig. 4]) oppure afferrano un oggetto che richiama una specifica
professione (la vanga dei lavoratori della Ruhr, le chiavi del fabbro) o, in altri casi, un
oggetto dal valore simbolico (la sigaretta del bohème). Anche gli abiti del personaggio e la
loro foggia ci parlano del suo mestiere o della categoria sociale alla quale appartiene (è il
13
14
15
16
L'opera, così come era stata originariamente concepita da Sander in un elenco risalente al 1925/27,
prevedeva una ripartizione del materiale fotografico in sette gruppi: il contadino (Der Bauer), l'artigiano
(Der Handwerker), la donna (Die Frau), le città (Die Städte), gli artisti (Die Künstler), la metropoli (Die
Großstadt), gli ultimi uomini (Die letzen Menschen). Ciascun gruppo era poi ulteriormente ripartito. Cfr.
Gabriele Conrath-Scholl (a cura di), August Sander. Menschen des 20. Jahrhuderts, cit., p. 12.
Proprio in quest'ottica si comprende il senso dell'espressione di Alfred Döblin «vergleichende
Photographie» (fotografia comparativa) coniata in riferimento all'opera di Sander. Cfr. Alfred Döblin,
“Von Gesichtern, Bildern und ihrer Wahrheit”, cit., p. 14.
Lettera di August Sander a Peter Abelen, Brief von 16. Januar 1951. Dokument REWE-Bibliothek.
Olivier Lugon, Lo stile documentario in fotografia, cit., p. 215.
4
caso della divisa del funzionario di polizia o degli abiti sporchi e sgualciti della donna delle
pulizie). L'uomo è plasmato anche dal proprio ambiente;17 per tal motivo, decisivo è anche
il contesto nel quale il personaggio è collocato: Sander non si limita infatti a fotografare in
atelier (al quale rimanda il neutrale sfondo bianco di alcune fotografie), ma si adopera per
cercare di immortalare il protagonista in un contesto caratteristico, conforme a una
determinata professione o status sociale. Il Pasticciere [fig. 5], ad esempio, indossa un
camice bianco e si trova in cucina – della quale si intravedono lateralmente il piano cottura
e il forno aperto – e, con il mestolo, accenna all'atto di mescolare all'interno di una pentola.
La composizione, il montaggio di tutti questi elementi (postura, gestualità, indumenti,
contesto), concentrati in ogni singola fotografia, fa dei ritratti di Sander «non solo
immagini caratteristiche di una persona, ma anche documenti universalmente validi di
uno specifico tipo umano».18
Alla luce dunque degli aspetti sopra menzionati (montaggio e scelte stilistiche), e
tenendo al tempo stesso conto degli intenti documentari ed enciclopedici che soggiaciono
al progetto sanderiano, mi sembra proficuo ricondurre i ritratti di August Sander a quel
«genere monumentario»19 tratteggiato dallo storico dell’arte Thierry de Duve per fare
riferimento al progetto di documentazione seriale dei reperti di archeologia industriale
avviato alla fine degli anni ’50 dai fotografi tedeschi Bernd e Hilla Becher. Se, infatti, i
soggetti fotografati dai Becher (gasometri, silos, serbatoi per l’acqua, altoforni, miniere)
non possono essere considerati propriamente dei monumenti20, e se, d’altra parte, essi non
possono nemmeno dirsi meri documenti21 di reali impianti industriali perché soggetti a
una rappresentazione che risente di una rigorosa tecnica estetizzante,22 la formula che,
17
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19
20
21
22
Cfr. Olivier Lugon, “August Sander. Landschaftsphotographie”, in Susanne Lange (a cura di), August
Sander. Landschaften, Schirmer/Mosel, München, 1999, p. 37.
Gabriele Conrath-Scholl (a cura di), August Sander. Menschen des 20. Jahrhuderts, cit., p. 24, traduzione
di chi scrive.
«Monumentarische Genre», Thierry De Duve, “Bernd und Hilla Becher oder die monumentarische
Photographie”, cit., p. 20.
Tale caratterizzazione può essere stata facilitata dall’accostamento, sollecitato dagli stessi Becher, fra gli
edifici industriali e le forme scultoree: i due fotografi intitolarono infatti Anonyme Skulpturen una loro
storica mostra che si tenne a Düsseldorf nel 1969. La formula coniata dai Becher si rivelò poi
sorprendentemente attuale in occasione della XLIV Biennale di Venezia del 1990, quando venne loro
conferito il Leone d’oro per la scultura. Dal richiamo alla scultura al rinvio al monumento scultoreo e alla
sua funzione memoriale, il passo sembrava breve: il lavoro dei Becher è stato ben presto interpretato
come una sorta di commemorazione dedicata all’architettura industriale anonima realizzata a partire dal
1870 e in via d’estinzione. Cfr. Anonyme Skulpturen. Formvergleiche industrieller Bauten. Fotos von
Bernd und Hilla Becher, (catalogo della mostra, Düsseldorf, Städtische Kunsthalle, 24 gennaio – 9 marzo
1969), Städtische Kunsthalle, Düsseldorf 1969 e cfr. Susanne Lange, Bernd und Hilla Becher. Was wir
tun, ist letzlich Geschichten erzählen...Einführung in Leben und Werk, Schirmer/Mosel, München 2005.
I Becher, infatti, mossi dall’esigenza di preservare il ricordo degli impianti industriali in via di demolizione
(di qualcosa, cioè, che di lì a poco sarebbe irrimediabilmente scomparso), s’inseriscono in una tradizione
di fedele documentazione della città e del patrimonio architettonico prodotta a partire dalla metà
dell’Ottocento (la Mission Héliographique, Charles Malville, Eugène Atget, Walker Evans ecc.). Cfr.
Susanne Lange, Bernd und Hilla Becher. Was wir tun, ist letzlich Geschichten erzählen..., cit.
Da un punto di vista stilistico, i Becher si avvalgono di un metodo estremamente rigoroso che prevede il
5
secondo de Duve, potrebbe allora essere la più consona a cogliere la natura di queste
fotografie sarebbe un neologimo: “genere monumentario”. Con tale espressione, (derivata
dalla fusione degli aggettivi “monumentale” e “documentario”), de Duve intende allora
evidenziare come le fotografie dei Becher, grazie a particolari scelte stilistiche, eccedano la
condizione di semplici documenti – andando oltre ciò che banalmente possiamo vedere
nella realtà che ci circonda – per acquisire monumentalità ed extratemporalità.
Ecco allora che la formula di de Duve sembra potersi rivelare particolarmente efficace per
descrivere il progetto di catalogazione della società di Weimar di Sander, soprattutto se
richiamiamo in causa le parole del critico: «ogni fotografia, soprattutto il ritratto, la
fotografia intima o ufficiale, quella di gruppo o di famiglia, l’album-souvenir [...], in breve:
la fotografia concepita come “posa” trasforma gli esseri e le cose in monumenti personali,
famigliari o esplorati su scala sociale».23
Monumentarie, e non monumentali, sono quindi anche le fotografie in posa di Sander, in
cui la monumentareità, proprio come nel lavoro dei Becher, non è da intendersi come
meramente reale ed effettiva, bensì come appartenente alla sfera del simbolico. La qualità
monumentaria nelle fotografie sanderiane è, analogamente ai Becher, frutto di ben precisi
espedienti tecnici: la posa del personaggio, la sua frontalità e inespressività, la centralità
del soggetto nell’inquadratura, la nitidezza, la resa del dettaglio, l’uso sistematico del
bianco-nero. Sugli uomini di Sander, anche su coloro che appartengono agli strati sociali
più umili, si posa uno sguardo «che innalza ed eroizza»24 e che consente di «mostrare gli
uomini come monumenti [Denkmäler] di se stessi».25
IMMAGINI:
1. August Sander, Antlitz der Zeit, copertina del fotolibro, 1929.
2. Gerd Arntz, esempi di Isotype, 1928-1965.
3. Jost Amman, Hans Sachs, Das Ständebuch, 1568.
4. August Sander, Der Handlanger, 1926.
5. August Sander, Der Konditor, 1928.
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ricorso al bianco-nero, condizioni di luce omogenee (con cielo nuvoloso, per evitare forti contrasti chiaroscurali), assenza di ombre, nitidezza, neutralità, serialità, soggetti in posizione centrale a occupare
interamente lo spazio dell’inquadratura, nessuna presenza umana.
Thierry De Duve, Bernd und Hilla Becher oder die monumentarische Photographie, cit., p. 20,
traduzione di chi scrive.
Uwe Beitz, Ingrid Höpel, Claudia Gabriele Philipp, “August Sander – Fotograf (1976-1964)”, “Tendenzen”,
n. 120, luglio/agosto 1978, pp. 23-27, traduzione di chi scrive.
Ibidem.
6
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