minoranze azionarie - Dipartimento di Giurisprudenza

MINORANZE AZIONARIE: TRA ETEROTUTELA PUBBLICISTICA E
AUTOTUTELA*
Maria Laura Pavone
SOMMARIO:1. L’interesse pubblico alla tutela delle minoranze azionarie nel T.U 58/98: tra
inderogabilità e autonomia 2. Inversione di tendenza rispetto alla riforma operata dalla
L.74/216: dall’eterotutela pubblicistica alla tutela diretta. 3. La complessa figura
dell’azionista di minoranza. 4. Concentrazione di troppi poteri nelle mani della Consob?
La centralità della Consob nel processo di regolamentazione e di controllo sulle società
quotate dopo la riforma. 5. Quale “tutela” per le minoranze nell’attuale riforma del
diritto societario? 6. Considerazioni conclusive.
1. Il Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, contenente il “Testo Unico
delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”, emanato nei termini
previsti dalla legge delega 6 febbraio 1996, n. 52 ha, senza dubbio, rappresentato la
prima grande occasione per mettere mano ad alcune importanti trasformazioni,
riguardanti sia la disciplina generale del mercato azionario, sia quella delle società
emittenti titoli quotati1.
A fondamento di tale nuova costruzione normativa vi è la consapevolezza che, al
fine di garantire un corretto svolgimento della vita societaria ed al fine di costruire un
mercato dei capitali idonei ad attrarre investimenti, fosse necessario procedere ad un
*Articolo in attesa di pubblicazione sulla rivista “Il diritto dell’economia”. Si tratta della rielaborazione
della tesi di dottorato “Riforma del governo societario e interesse pubblico alla tutela delle minoranze
azionarie”, discussa il 25 ottobre 2002.
1
Il D.Lgs. 58/98, si inserisce nell’ampio dibattito economico e giuridico sulla c.d. Corporate
Governance che ha coinvolto tutti i Paesi di maggiore sviluppo industriale e finanziario. Il concetto di
Corporate Governance non è però univoco, ma ha confini ambigui e spesso sfuggenti (Si veda sul punto
le osservazioni di L.A BIANCHI, Considerazioni introduttive sulla Corporate governance, in Riv. Soc.,
1996, p. 406 e ss; e di P. MONTALENTI, Corporate Governance: raccomandazioni Consob e
prospettive di riforma, in Riv. Soc., 1997, p. 713 e ss). Nella accezione che possiamo definire "ristretta",
con tale espressione si fa riferimento ai problemi di equilibrio tra amministrazione e ‘supervisione’,
interna ed esterna, in società quotate, oppure ancora più riduttivamente alla questione dei controlli interni
all'impresa (In tal senso Cfr. la ricerca internazionale promossa dal Committee of Sponsoring
Organization of Treadway Commission), nella accezione più ampia con il termine Corporate Governance
si designa "l'insieme delle regole e delle istituzioni volte a conciliare interessi di imprenditori e di
investitori al fine di assicurare che il controllo delle imprese sia allocato con efficienza in modo il più
possibile indipendente dalla disponibilità finanziaria degli individui" ( In tal senso anche la definizione
data dal Rapporto sulla società aperta elaborato dalla Associazione Disiano Preite: "l'insieme di regole e
istituzioni volto a conciliare l'interesse alla certezza del controllo sull'impresa da parte di soggetti che lo
esercitano (gli imprenditori) e l'interesse degli investitori a una sorveglianza continua e idonea sugli
imprenditori al fine di assicurare che tale controllo sia allocato e gestito con efficienza"). Rientrano perciò
nel tema gli organi societari di gestione e di supervisione, le assemblee, i poteri delle minoranze, la
presenza e l'attivismo degli investitori istituzionale e collettivi, il monitoraggio sulla gestione ad opera
delle banche e del mercato, la disciplina dell'informazione, le autorità di vigilanza, l'azione dei tribunali.
L'idea alla base del dibattito sulla Corporate Governance pare andare in senso contrario alla communis
opinio che vuole la disciplina del mercato di per sé sufficiente ad assicurare un'adeguata tutela a coloro
che hanno investito in una società aperta al pubblico risparmio. Si assiste cioè ad un'inversione di
tendenza: dal prevalere del diritto del mercato mobiliare ad un rinnovato interesse per i temi del diritto
societario. In tal senso G. PRESTI, Le raccomandazioni Consob nella cornice della Corporate
Governance, in Riv. soc., 1997, p. 739 e ss.
1
ampliamento dei poteri riconosciuti ai soci non appartenenti al gruppo di comando, al
fine di ridurre le distante esistenti tra le varie categorie di soci2.
E’ dopo l’emanazione del TUF, che si assiste, atteso il favor verso la formazione
di un azionariato diffuso, ad un sostanziale cambiamento nella posizione dottrinale circa
la funzione da ascrivere all'intervento delle minoranze: a tale intervento viene
riconosciuto un ruolo fondamentale sul versante della crescita e dello sviluppo sociale.
E’ la riscoperta del ruolo del mercato, della funzione del capitale di rischio, in un
contesto di globalizzazione dei mercati e di declino della presenza pubblica
nell’economia3, che pone con forza il problema dell’adeguatezza della disciplina
vigente e delle sue linee ispiratrici ad attrarre capitali verso le imprese e ad assicurarne
l’efficienza. Tutto questo nella consapevolezza che una modernizzazione organizzativa
e strutturale del mercato finanziario sarebbe stata vana, se ad essa non si fosse
accompagnata la rivisitazione delle regole di Corporate Governance degli emittenti
titoli quotati 4.
2
Tra i criteri direttivi ed ispiratori la legge delega n. 52/96 indicava, infatti, il “rafforzamento della
tutela del risparmio e degli azionisti di minoranza”.
3
Non è un caso che nell'Europa continentale il problema della Corporate Governance si sia posto
soprattutto quando, a causa delle privatizzazioni, le società sono state costrette a rivolgersi al mercato per
il loro fabbisogno di capitale. Per far questo, era necessario creare un più adeguato equilibrio e
bilanciamento tra gli interessi degli imprenditori e quelli degli investitori. Da qui la scelta di volgere una
rinnovata attenzione ai meccanismi di funzionamento interno delle società per azioni. Come osservava R.
COSTI, in Privatizzazione e diritto delle società per azioni, in Giur. comm. 1995, pagg. 77 e ss., il d.l. 31
maggio 1994, n. 332, convertito con l. 30 luglio 1994, n.474 intitolato “norme per l’accelerazione delle
procedure di dismissione di partecipazioni delle Stato e degli enti pubblici in società per azioni”, non si
limita a introdurre norme procedurali per la privatizzazione delle partecipazioni azionarie pubbliche, ma
“incide profondamente sulla disciplina delle società oggetto di dismissione, introducendo norme diverse
da quelle di diritto comune, con riferimento sia all’organizzazione societaria sia al contenuto e alla
circolazione della partecipazione sociale”. Il processo di privatizzazione, che ha preso le mosse nel
nostro Paese nel 1992, è apparso fondamentale sia per allargare le dimensioni del mercato mobiliare, sia
per ridurre gli eccessi della concentrazione proprietaria, tipica del sistema imprenditoriale italiano. Il
processo di privatizzazione ha contribuito alla predisposizione di una normativa più attenta agli strumenti
di tutela degli azionisti di minoranza, attraverso i quali cercare di garantire un loro maggiore
coinvolgimento nella vita societaria. Dalle norme in tema di società privatizzate, infatti, emergevano già
la necessità di riconoscere un ruolo maggiore (rispetto a quello consentito dal diritto comune)
all’autonomia privata nella determinazione delle regole che debbono disciplinare i rapporti fra i soci e
l’organizzazione delle società, nonché la necessità di una maggiore tutela delle minoranze azionarie,
anche nella prospettiva di una più efficiente gestione delle imprese. Le soluzioni legislativamente adottate
per le società privatizzate (o privatizzande) potevano e dovevano offrire spunti di riflessione per un
riforma generale del diritto delle società per azioni. La legge 474/1994 apriva cioè uno spazio di
riflessione: in che misura essa avrebbe influenzato nella interpretazione delle norme di diritto societario
generale? Ci si chiedeva, in sostanza, se fosse stata opportuna una disciplina giuridica particolare per le
società privatizzate o se non fosse stato auspicabile un intervento più sistematico sul diritto societario. Sul
punto Cfr. L. FULGHIERI- P.ZINGALES., Privatizzazioni e struttura del controllo societario. Il ruolo
della ‘public company’, in F. GIAVAZZI - A. PENATI – G. TABELLINI (a cura di), Liberalizzazione
dei mercati e privatizzazioni, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 107ss; G. GROS-PIETRO, Privatizzazioni e
Corporate Governance, intervento al Convegno di studio su “Le nuove funzioni degli organi societari:
verso la Corporate Governance?”, Courmayeur, 28-29 settembre 2001.
4
Il lavoro, come è stato osservato, muove da una prospettiva di ‘relativo’ ottimismo circa i metodi e gli
strumenti della Corporate Governance. La critica espressa da G. ROSSI, in Il mito della Corporate
Governance, intervento al Convegno di studio su “Le nuove funzioni degli organi societari: verso la
Corporate Governance?”, Courmayeur, 28-29 settembre 2001, secondo cui la Corporate Governance
appartiene alla “nuova mitologia societaria”, è da condividersi se riferita a certi eccessi di fede nella
capacità delle nuove regole e strutture a “disinfestare” le società per azioni. L’autore parla di corporate
governance come di un mito. “I miti offrono misteriose e imprevedibili suggestioni che stimolano
congetture e vitalizzano le ricerche. E così il governo societario, seppur questa traduzione possa ritenersi
inadeguata ad indicare le molteplici sfaccettature che tale espressione contiene, sembra essere divenuto
l’ultimo dei possibili riferimenti idonei a risolvere istituzionalmente, cioè nell’ambito di una corretta
disciplina, i problemi, ma soprattutto i conflitti, che tormentano dall’interno e dall’esterno il diritto
2
La nuova disciplina disegnata dal Testo Unico, è nata quindi con lo scopo di
favorire l’incontro tra domanda ed offerta d’investimento, attraverso un’accurata
regolamentazione dei ruoli e delle responsabilità di chi gestisce e di chi investe
nell’impresa, che assicuri al contempo un’efficace tutela dei variegati interessi che si
concentrano nell’istituto societario: quello dello Stato al corretto e produttivo
funzionamento delle imprese produttrici di nuova ricchezza, quello degli investitoririsparmiatori alla redditività del proprio investimento, quello degli azionisti di
maggioranza, detentori del capitale di comando, alla stabilità della gestione aziendale.
Più urgente rispetto agli altri Paesi europei, inoltre, appariva la necessità di una
riforma del governo societario in Italia. L'anomalia del sistema di Corporate
Governance italiano, dovuta ad una proprietà azionaria notevolmente concentrata, si
traduceva in un elevato rischio di collusione tra la stessa proprietà e il management, a
scapito degli azionisti di minoranza e dello sviluppo del mercato5.
Occorreva valutare quali potessero essere i mezzi più adeguati con cui
raggiungere gli obiettivi relativi agli interessi da tutelare. Si poteva tutelare l’investitore
diffuso, la contendibilità e la stabilità della società dettando norme imperative da
rispettare, oppure lasciare larghi spazi all’autonomia statutaria. Il successo
dell’autoregolamentazione, come testimoniano numerose analisi sul tema, presupponeva
però un mercato efficiente, un'economia aperta alla competitività e alla concorrenza;
mentre il mercato italiano è stato, viceversa, da sempre legato alla scarsa distinzione tra
competenze pubbliche e competenze private; si è sviluppato nella logica di un'economia
"mista", dove l'intervento pubblico era spesso determinato più da ragioni assistenziali,
che da reali esigenze di gestione di servizi pubblici.
societario (…). Le regole di corporate governance, trovano il loro prototipo nei Principi dell’American
Law Institute del 1994, nascono in un contesto economico e in una cultura giuridica societaria ben
individuati e precisi sotto il profilo temporale, sia sotto quello istituzionale. La corporate governance ha
guadagnato una reputazione come “disinfettante” per le “infezioni” delle società per azioni. Ma non lo è.
La creazione di nuove regole relative al funzionamento delle società può essere utile per i Paesi nei quali
dominano le public companies e nei quali tali regole possono essere effettivamente imposte (…). In altri
Paesi, caratterizzati da diverse tradizioni storiche e culturali, l’efficacia di un mero trapianto di tali regole
è assolutamente dubbia, se non addirittura rischiosa”. Cfr. anche G. FERRARINI, Valore per gli azionisti,
in Riv. soc., 2002, pagg. 62 e ss, incline ad una valutazione, nel complesso positiva della materia oggetto
d’esame, pur nella consapevolezza dei limiti degli strumenti disponibili. Egli afferma, infatti, “non sono
preoccupato della forza della path-dependency in questo campo e della possibilità di importare soluzioni
elaborate in contesti diversi, nei quali dominano le società con azionariato diffuso”. Ancora sul punto
l’intervento di D. SINISCALCO, Importare la Corporate Governance?, intervento al Convegno di
studio su “Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?”, Courmayeur, 2829 settembre 2001. Il relatore, dopo aver constatato l’evidenza empirica che i Paesi con una migliore
tutela delle minoranze hanno strutture di governance più efficienti, si chiede se sia possibile ‘importare’
nel nostro ordinamento regole migliori. Egli afferma che “il trapianto degli istituti giuridici appropriati
all’interno di tradizioni legali di origine diversa, è possibile attraverso una riforma legislativa. In Italia, il
TUF Draghi ha disciplinato la nostra normativa, facendo salire l’indice della tutela delle minoranze,
vicino al valore medio dei Paesi di common law”. Però poi conclude che “importare una governance
migliore è difficile, e l’Italia vi è riuscita solo in parte. La path dependence, cioè le tradizioni legali, che
approssimano le diversità profonde della governance e dei capitalismi, hanno effetti di lungo periodo”.
5
Come emerge dalla relazione di accompagnamento al Dlgs.58/98, ad una situazione gravemente
carente in tema di efficienza dei mercati, si aggiungeva l'esiguità di monitoraggio dall'esterno ad opera dei
c.d "investitori istituzionali", nonché la presenza di una struttura proprietaria che non è in grado di
attrarre capitali e risorse. E' noto che in linea generale possono distinguersi due modelli di assetti
societari: quello di tipo tedesco o giapponese incentrato sul ruolo degli investitori istituzionali (per lo più
"banco-centrico") e quello fondato su un più attivo ruolo del mercato di tipo statunitense o britannico.
Nessuno di questi due modelli può essere assimilato al sistema di corporate governance italiano, anzi,
come ha ben evidenziato G. PRESTI, op. cit., pag. 746, il modello italiano "è notoriamente una miscela
esplosiva dei due modelli". Non sono presenti intermediari finanziari di dimensioni paragonabili a quelle
di un sistema "banco-centrico", ma non esiste neppure un sistema azionario caratterizzato da adeguati
livelli di ampiezza, liquidità ed efficienza.
3
Solo una volta create le condizioni per la creazione di strutture societarie sempre
più efficienti e che presentino le massime garanzie di trasparenza nei rapporti tra
proprietà e gestione, l'opzione dell'autoregolamentazione, appariva la soluzione più
valida per l'organizzazione delle società con azionariato diffuso6. Il T.U.F sembra
essersi basato sulla consapevolezza che un modello efficiente di governo delle imprese
non trova necessariamente esclusivo fondamento in norme imperative e che, anzi,
l'eccessiva rigidità delle norme, pure poste a tutela degli "interessi deboli", può condurre
a indesiderati effetti involutivi.
In realtà il ruolo che il Testo Unico ha assegnato, in materia societaria,
all'autodeterminazione delle società emittenti, non va, per così dire ‘enfatizzato’.
Centralità del mercato e dell’autonomia privata si accordano, quindi, in un intervento
pubblico ‘correttivo’, che si fonda ancora oggi sulla tradizionale esigenza di contrastare
le “imperfezioni” e i “fallimenti” del mercato e permettere il conseguimento di obiettivi
microeconomici (efficienza degli intermediari e del mercato, tutela dei risparmiatori e
della concorrenza) e macroeconomici (stabilità del sistema, controllo della moneta e dei
cambi), che un mercato “imperfetto” non è in grado di raggiungere spontaneamente.
In quest’ottica la riforma Draghi si pone come una tipica espressione della
funzione, al contempo tradizionale e moderna dello “Stato regolatore”, che si manifesta
con interventi ‘indiretti’ nell’economia, abbandonando ogni finalità dirigistica.
Possiamo senza dubbio affermare che il Testo Unico n. 58/98 segna il fallimento del
tentativo ideologico di tenere separati Stato ed economia, diritto e mondo produttivo,
come realtà contrapposte e rette da regole proprie7. La ratio legis sottesa alla riforma,
permette di attribuire una connotazione “pubblicistica” alla normativa contenuta nel
Testo Unico, anche nella parte relativa alla disciplina degli emittenti, che pur contiene
norme che appartengono al diritto societario tradizionalmente inteso. Istituti di stampo
tipicamente societario (e quindi privatistico) vengono, infatti, regolati in un’ottica di
tutela degli interessi collettivi degli azionisti di minoranza e del pubblico risparmio
Il nuovo Testo Unico dell’intermediazione finanziaria, intitola la sezione
seconda del Capo II del titolo III della parte IV, dedicata alla disciplina degli emittenti,
“Tutela delle minoranze”. In tali articoli (art. 125-135) si disciplinano, tra gli altri, i
poteri delle minoranze azionarie di richiedere la convocazione dell’assemblea (art. 125),
di presentare le denuncia previste dagli artt.2408 e 2409 del codice civile (art. 128) e,
per il profilo forse di maggiore novità, di proporre l’azione sociale di responsabilità nei
confronti degli amministratori, sindaci e direttori generali (art. 129).
In realtà, essendo la tutela delle minoranze, criterio ispiratore della complessiva
disciplina dettata dal Testo Unico in materia di società emittenti, un commento alla
tematica della tutela delle minoranze, imporrebbe in effetti l’analisi dell’intero sistema
delineato dal Testo Unico stesso e non solo della sezione II della Parte IV. Anzi, la
rubrica della specifica sezione del Testo Unico dedicata alla tutela delle minoranze,
risulta addirittura fuorviante. Per un verso, infatti, gli strumenti di tutela delle minoranze
azionarie sono contemplati e disciplinati anche in altre parti del Testo Unico, per altro
verso la sezione in commento detta norme estranee all’ambito tradizionalmente definito
della tutela delle minoranze.
6
In tal senso F. CHIAPPETTA, Brevi note in tema di interventi sullo statuto sociale a seguito
dell'entrata in vigore del T.U delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, in Riv. soc.,
1999, pag. 73.
7
Secondo S. CASSESE., Stato e finanza privata, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 1991, II, pag. 1090, “nei
rapporti tra Stato ed economia (…) vi è una tendenza al superamento della contrapposizione tra moduli di
diritto pubblico e moduli di diritto privato e alla loro convergenza in una famiglia unitaria”.
4
A tutela delle minoranze azionarie e del pubblico risparmio si pongono infatti i
maggiori obblighi di informazione e trasparenza in materia di offerte pubbliche di
acquisto (artt. 102-112), di patti parasociali e di partecipazioni rilevanti (artt. 120-124);
la nuova disciplina e composizione del collegio sindacale (artt. 148-154); il
trasferimento del potere esclusivo di verificare la regolare tenuta della contabilità alle
società di revisione (art. 155-165).
Profili di tutela delle minoranze sono chiaramente presenti anche in via indiretta,
attraverso la tutela del risparmio. Quindi già la disciplina degli intermediari, contenuta
nella parte II del T.U, ha la finalità di garantire al risparmio l’accesso ai mercati
regolamentati e così anche la partecipazione in società quotate attraverso la mediazione
di soggetti abilitati, in possesso di requisiti di professionalità e onorabilità e che
assicurino, sotto la vigilanza della Banca d’Italia e della Consob, “la sana e prudente
gestione” delle attività amministrate, avendo “specifico riguardo alla tutela degli
investitori e alla stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del sistema
finanziario” (art. 5 T.U). A tale finalità di ordine generale è correlato l’intento
legislativo di incentivare le minoranze diffuse ad affidarsi alla gestione collettiva del
risparmio.
Una tutela anticipata dei risparmiatori viene infine perseguita dal legislatore con
la previsione di una nuova e più rigida disciplina sull’abusivismo (abuso di
informazioni privilegiate e aggiotaggio su strumenti finanziari, artt.180-187 TUF).
2. Quello della tutela delle minoranze è un tema che possiamo definire
“classico” del diritto societario, “coessenziale alla regola stessa del principio
maggioritario”8.
Sin dagli anni ’50 si sono fatte sempre più pressanti le istanze per una riforma
delle società, anche se nel dibattito italiano il tema della tutela delle minoranze ha
vissuto un ciclo storico oscillante.
Nel progetto di riforma delle società per azioni, redatto da Tullio Ascarelli
insieme agli Amici del Mondo nel 1955, e tradotto in disegni di legge, rimasti poi
inattuati, si individuava nella tutela dei creditori sociali, nella tutela dei creditori
particolari del socio e nella tutela della minoranza, i tre problemi fondamentali della
società per azioni. In particolare Ascarelli precisava che “la tutela della minoranza
diviene, nelle grandi società con azioni diffuse nel pubblico, la tutela della
maggioranza”9.
Possiamo senza dubbio affermare quindi che il padre spirituale di ciò che oggi è
diventato legge, riferendoci in particolare alla parte societaria del decreto 58/98, resta il
progetto Ascarelli, le cui proposte anticipano di quasi mezzo secolo l’attuale riforma10.
8
Si esprime in tal senso P. MONTALENTI, Corporate governance : la tutela delle minoranze nella
riforma delle società quotate, in Giur. comm, 1998, pag. 330. La disciplina delle società per azioni,
risultava già inadeguata al momento dell’emanazione del codice civile del ’42. Essa era posta con
riferimento alle società per azioni di medie dimensioni, ed appariva inadeguata per le grandi società, con
capitale ingente, ma polverizzato presso una elevata quantità di piccoli azionisti. In queste società, che
sono state individuate in quelle i cui titoli sono ammessi alle quotazioni di borsa, per il disinteresse dei
piccoli azionisti, la gestione sociale spetta ad una minoranza, per cui si verifica quello sfasamento
espresso con le parole “dissociazione del rischio dalla gestione dell’impresa”. Questa dissociazione non
veniva temperata o neutralizzata dall’esistenza di un controllo rigoroso e i poteri delle minoranze
restavano sulla carta, non potendo, a causa della polverizzazione del capitale sociale, raggiungere le
aliquote necessarie al loro esercizio.
9
Cfr. il progetto di riforma redatto da Ascarelli insieme agli Amici del Mondo, pubblicato in Riv. soc.
1956, pagg. 599 e ss.
10
In particolare si segnalano per la loro modernità le proposte in tema di diritti delle minoranze, dirette
a favorire sindacati e associazioni di azionisti, a ridurre i quorum per le denunce al collegio sindacale ex
5
E’ col successivo progetto De Gregorio che comincia ad intravedersi un
cambiamento di rotta rispetto al Progetto ascarelliano, là dove il fulcro del progetto
stesso è costituito dalla previsione dell’organo di vigilanza. Tale prospettiva teorica,
troverà pieno riconoscimento nella riforma del 1974, con la quale si abbandonano le c.d.
illusioni della democrazia societaria e dell’autotutela per perseguire l’obiettivo della
tutela indiretta, sul duplice piano della vigilanza pubblicistica e della trasparenza
dell’informazione. Con tale riforma emerge, infatti con chiarezza che l’idea di un
rafforzamento degli strumenti di autotutela degli azionisti investitori viene accantonata,
sul presupposto del disinteresse dell’azionista alla vita della società, per lasciare il posto
ad una tutela indiretta, realizzata attraverso l’istituzione di un organo di vigilanza, la
Commissione Nazionale per la società e la Borsa (Consob).
La legge 7 giugno 1974, n. 216 detta una disciplina speciale per le società con
azioni quotate in Borsa, e introduce a carico delle stesse obblighi di trasparenza più
accentuati sia nei confronti della Consob sia, e soprattutto, nei confronti del mercato11.
La Consob, alla quale nel 1985 è stata attribuita la “personalità di diritto
pubblico”, svolge oggi la sua funzione con piene potestà organizzative e decisorie, in
due fondamentali settori: il mercato e l’informazione. Quest’ultima attiene non solo al
mondo societario legato alla borsa, ma all’intero settore degli strumenti finanziari e
della sollecitazione del pubblico risparmio. Per questo aspetto, la Consob si affianca
alla Banca d’Italia nel controllo della raccolta del risparmio con il preciso e specifico
compito di garantire veridicità e completezza all’informazione. Per lo svolgimento di
questi compiti la legge assicura alla Consob una serie di poteri e fissa una serie di
obblighi che i soggetti, la cui attività è oggetto del suo controllo, hanno verso di lei. Tra
i poteri va in particolare segnalata la maggiore potestà regolamentare riconosciutale dal
d.legs.58/98.
Nonostante la summenzionata potestà regolamentare attribuita alla Consob, che
di fatto aumenta i poteri della stessa, la riforma Draghi sembra in realtà segnare
un’inversione di tendenza rispetto alla riforma del 1974, dal momento che numerosi
sono gli strumenti di tutela, anche diretta, attribuiti alle minoranza azionarie.
Da tempo è infatti convincimento diffuso che lo strumento della eterotutela
pubblicistica non sia sufficiente a garantire l’efficienza e la neutralità del mercato. La
previsione di strumenti di autotutela diretta, anche individuale, è funzionale infatti alla
creazione di un mercato trasparente ed efficiente, che rappresenta uno stimolo per una
gestione più corretta ed efficace delle imprese.
art. 2408 del codice civile e al Tribunale ex art.2409 del codice civile e a prevedere infine l’azione di
responsabilità sociale su iniziativa di una minoranza rappresentante il 10% del capitale. E’ vero che il
filone riformatore di allora faceva perno su strumenti di controllo interno, non attribuendo alcun ruolo alla
disciplina del mercato mobiliare e degli intermediari finanziari, anche perché il sistema finanziario di
allora coincideva nella sostanza con il sistema bancario iperprotetto, vigilato e essenzialmente pubblico,
ed è vero anche l’unico mercato era la borsa e che non esistevano né intermediari finanziari (ad eccezione
degli agenti di cambio), né investitori istituzionali, ma possiamo sempre cogliere la straordinaria
modernità del progetto Ascarelli. L’autorevole studioso aveva inoltre intuito fin dall’inizio che non
bastava limitarsi soltanto a riformare o ritoccare la disciplina delle società per azioni ma occorreva anche
por mano alle cc.dd riforme strutturali. Ascarelli aveva, insomma, compreso che bisognava “creare” un
mercato dei titoli che allora non esisteva o almeno “irrobustire” il mercato esistente al fine di favorire la
canalizzazione del risparmio verso investimenti produttivi; introdurre una seria disciplina della
concorrenza, dei gruppi di imprese, del controllo, delle partecipazioni reciproche. Il successivo progetto
De Gregorio del 1966, raccoglie il messaggio ascarelliano e contiene alcuni ulteriori affinamenti degli
strumenti di protezione delle minoranze, quali la riduzione dei quorum per la convocazione
dell’assemblea su richiesta delle minoranza, la nomina del presidente del Collegio sindacale da parte
dell’organo di vigilanza nelle quotate, anticipazione della soluzione ora introdotta del sindaco di
minoranza, l’introduzione delle azioni di risparmio, con privilegio del 5%, l’integrazione dell’ordine del
giorno su richiesta della minoranza.
11
Cfr. R. COSTI, Il mercato mobiliare, Torino, Giappichelli editore, 2000, pag. 26.
6
La scelta operata dalla commissione Draghi è dunque orientata a garantire oltre
alla stabilità della gestione, anche la possibilità per gli investitori di avere a propria
disposizione oltre ad un potere di exit tempestivo e informato, anche diritti di voice
(diritti cioè di intervento diretto), che vanno dal sindaco di minoranza, al sistema di c.d.
blocco delle minoranze, alla sollecitazione e raccolta delle deleghe, alla azione sociale
di responsabilità.
Il filo interrotto dell’impostazione ascarelliana sembra, improvvisamente,
riannodato con la riforma attuale: i nuovi istituti sono indicativi della volontà del
legislatore di fornire i soci di minoranza di poteri di autotutela più incisivi12.
3. Il mercato finanziario italiano degli anni Novanta, appare comunque
profondamente mutato rispetto a quello degli anni cinquanta, di scarso spessore e
povero di protagonisti. Il nuovo contesto economico si è, infatti, arricchito di
intermediari professionali13 .
Il medesimo concetto di “minoranza” muta significato.
In modo più tradizionale, si intendono per soci di minoranza, tutti gli azionisti
non di controllo. Nell’ottica della riforma del 1974, per socio di minoranza, si intendeva
l’insieme degli azionisti risparmiatori. Oggi, invece, “minoranza” deve includere anche
gli intermediari mobiliari, il cui peso tende sempre più a crescere nella compagine delle
società italiane.
Individuare a quale minoranza si faccia riferimento nel nuovo contesto
legislativo, non è ovviamente solo una questione di concetti, ma di interessi che in
concreto vengono ad essere tutelati dalle norme.
Gli azionisti di minoranza di società quotate rappresentano, quindi, una figura
che possiamo definire complessa, che ricomprende il mero investitore (detentore di un
numero esiguo di azioni), il disturbatore professionale, l’azionista stravagante, il
detentore di quote minoritarie ma significative (in grado di incidere sugli assetti del
potere assembleare, in forza di alleanze, di azioni di concerto di fatto o di accordi di
12 Alcuni studiosi tendono a raggruppare le norme del Testo Unico che concretizzano in capo agli
interessati il principio della tutela degli azionisti, in tre grandi categorie. La triade sarebbe cioè costituita
dalle norme sulla trasparenza (che soddisfano contemporaneamente anche l’interesse generale del
mercato), dalle norme sull’exit (cioè sul diritto dei soci di disinvestire a condizioni eque), dalle norme
sulla voice (che conferiscono, direttamente o indirettamente, poteri specifici che consentono alle
minoranze di far valere proprie istanze all’interno della società o nei confronti di singoli componenti dei
suoi organi). Altri (Cfr. V. SANTORO, Profili della disciplina della tutela delle minoranze, in Studi e
note di economia, 1999, II, pag. 165) all’interno della sezione II del Capo II del TUF, distinguono
prevalentemente due categorie fondamentali di norme: quelle che riconoscono diritti a qualsiasi socio; e
quelle che riconoscono diritti ai soci qualificati da un quorum determinato. Nella prima categoria vi
farebbero rientrare la disciplina del voto per corrispondenza (art.127); quella dell’informazione dei soci
(art.130); del diritto di recesso in caso di fusioni e scissioni (art. 131). Nella seconda categoria
rientrerebbe invece la disciplina della convocazione dell’assemblea su richiesta della minoranza (art.125);
la denuncia al collegio sindacale e al Tribunale (art. 128); l’azione sociale di responsabilità; la
costituzione delle associazioni di azionisti per la raccolta delle deleghe di voto (art. 141); la nomina dei
sindaci di minoranza (art.148). Seguendo questa classificazione si può dire, in prima approssimazione,
che la prima categoria sottende un concetto di socio di minoranza uti singulus, mentre il secondo quello di
minoranza organizzata. Infine, c’è chi individua diverse categorie di strumenti di tutela, funzionalmente
caratterizzate, che si articolano in: tutela patrimoniale (nuova disciplina delle opa; nuova disciplina delle
azioni di risparmio); tutela diretta (es: nuovi strumenti di informazione diretta: art.130) e indiretta (es:
strumenti di informazione indiretta: flussi informativi tra amministratori e collegio sindacale, ai sensi
dell’art. 150); autotutela delegata (es: sindaco di minoranza. art. 148); autotutela diretta sia di minoranze
qualificate sia di singoli azionisti (convocazione dell’assemblea, poteri di denuncia al collegio sindacale
e al Tribunale, azione sociale di responsabilità).
13
A partire dai Fondi comuni negli anni ottanta a finire, recentemente, ai fondi pensione.
7
intensità e stabilità variabile contenuti in patti parasociali) e l’investitore istituzionale, il
cui ruolo, come vedremo, appare suscettibile di evoluzione verso una funzione di
controllo dell’operato dei gestori.
Prendendo atto di questa frastagliata articolazione della figura dell’azionista di
minoranza, non stupisce che le norme del TUF poste a tutela della minoranza, siano
state valutate da taluno come volte alla tutela dell’azionariato diffuso, da altri come
volte alla tutela di un gruppo di comando.
La prima interpretazione muove dall’affermazione che le minoranze delle cui
sorti il legislatore ha inteso curarsi rappresentano l’insieme degli azionisti investitori,
che in ogni società quotata non fanno parte del nucleo, più o meno compatto, costituito
dagli azionisti che detengono il potere di controllo. Il TUF cioè prenderebbe in
considerazione gli azionisti di minoranza, anche e in via concettualmente preliminare
“come cittadini di una comunità molto più ampia che è il mercato mobiliare”14.
Sviluppando questa premessa, gli azionisti investitori appaiono tutti portatori ideali di
uno stesso interesse, che è l’interesse alla valorizzazione del proprio investimento in un
mercato trasparente. Secondo questa logica questo interesse tende a coincidere con
l’interesse generale, condiviso da tutti i partecipanti al mercato mobiliare, a che lo
stesso funzioni correttamente. Tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate e
tutela del corretto funzionamento del mercato sono, secondo questo punto di vista, due
facce della stessa medaglia, “due esigenze, due valori condannati ad essere perseguiti
congiuntamente, perché esprimenti interessi largamente coincidenti”. Ne deriva come
ulteriore corollario che l’interesse sociale “vero” è quello di tutti gli azionisti investitori
in quanto tali. Tale interesse è presidiato e non insidiato dal principio della tutela delle
minoranze e che, per altro verso, come evidenziato, tende a coincidere con l’interesse
generale al corretto funzionamento del mercato.
Sul fronte opposto, come accennato, non mancano le critiche alle nuove norme
introdotte dal TUF per aver fallito proprio l’obiettivo della tutela delle minoranze intesa
quale tutela degli interessi diffusi15.
Analizzando questi istituti di tutela emerge come proprio su questo versante la
riforma presenta le incertezze e i limiti più evidenti. Le norme dettate dalle minoranze
appaiono frutto di un disegno riformatore ‘compromissorio’. Assicurare una maggiore
funzionalità e stabilità al governo societario e, al contempo, promuovere una maggiore
14
Cfr. A. MAZZONI, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate, op. cit., pag. 487.
Cfr. G. VISENTINI, Osservazioni sulla recente disciplina delle società azionarie e del mercato
mobiliare, Spunti di riflessione sulla sensibilità democratica nella formulazione delle scelte politiche, in
Riv. soc., 1998, pagg. 172 e ss., secondo il quale “il decreto delegato si occupa principalmente di tutelare
il nocciolo di controllo (…)”. Presentare la nuova disciplina per le grandi società, come esclusivamente
progettata a tutela delle minoranze, è dunque, secondo l’autore, “improprio e contraddittorio”. Altri
autori, si veda per tutti C. ANGELICI, Le “minoranze” nel decreto 58/98: “tutela” e “poteri”, in Riv.
comm., 1998, n.1, pagg. 207 e ss., arrivano alle medesime conclusioni, partendo dall’osservare come la
scelta di tutelare le minoranze mediante l’attribuzione ad esse di “poteri” significa a ben guardare, negare
tutela (o comunque fornirla in misura ben limitata) a chi è per così dire “razionalmente apatico”, come il
piccolo azionista, per il quale i costi per una partecipazione attiva alla vita societaria eccedono in larga
misura i vantaggi economici che gli potrebbero derivare. A detta dell’autore, quindi, non ha senso
discorrere in maniera indifferenziata di tutela delle minoranze, ma occorre chiarire a quale tipo di
minoranza il legislatore appresta effettiva tutela. Egli considera in primo luogo la nuova disciplina
dell’azione sociale di responsabilità che in virtù dell’art. 129 può essere proposta da “tanti soci, iscritti da
almeno sei mesi nel libro dei soci, che rappresentano almeno il cinque per cento del capitale sociale o la
minore percentuale stabilita nell’atto costitutivo”. Per il piccolo azionista la strada più conveniente per
reagire nei confronti di un’attività di gestione della società non condivisa, è quella c.d dell’exit.
Risulterebbe economicamente irrazionale affrontare i costi per un’azione positiva, sia essa l’esercizio del
diritto di voto oppure la proposizione di una domanda giudiziaria. Discorso inverso quando siamo di
fronte invece ad una quota di partecipazione significativa (e tale deve considerarsi il 5% del capitale
sociale).
15
8
partecipazione degli azionisti alle decisioni societarie e quindi una maggiore
contendibilità delle società quotate, si è rilevato cosa non semplice. Proprio per questo
il legislatore, nel dettare la disciplina dei vari istituti, ci è sembrato “costretto” a
compiere scelte contraddittorie. A giustificazione c’è, è vero, la volontà di trovare un
‘non facile’ equilibrio tra una disciplina capace di stimolare la partecipazione alle
decisioni societarie e regole tendenti a precluderne un uso strumentale, tuttavia la
sensazione è quella che le regole “prudenti” che ne sono derivate, possano favorire, in
ultima analisi, coloro che sono già detentori del potere16.
16
La disciplina del potere di convocazione dell’assemblea da parte dei soci di minoranza (art. 125
TUF), ad esempio, è una disciplina ‘di equilibrio’, in quanto si offre, al contempo, ai soci una maggiore
protezione ed al gruppo di comando una garanzia di stabilità ed efficacia della gestione. Infatti, la
possibilità per gli amministratori di vagliare la compatibilità della domanda dei soci alla luce
dell’interesse sociale consente di contemperare le esigenze dell'intera compagine azionaria. La norma
attribuisce ai soci un mero diritto a che il consiglio di amministrazione provveda in ordine alla propria
istanza o, comunque, un diritto di convocazione ‘condizionato’, la cui efficacia è subordinata ad una
valutazione di compatibilità della domanda con l’interesse sociale. Cfr. sul punto Cfr. P. MONTALENTI,
Corporate governance: la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, in Giur. Comm.,
1998, pag. 330; per un quadro dell’istituto Cfr. D. FORMICHELLI, Commento all’art. 125, in
Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI,
Giuffrè, Milano, 1998. Anche la disciplina dell’azione di responsabilità attivata dalle minoranze azionarie
è frutto dello stesso compromesso tra l’esigenza di tutelare la società da eventuali ‘eccessi’ di sparuti
gruppi di azionisti. Per questo, la facoltà di proporre direttamente l’azione è stata concessa a quei soci
che diano sufficiente garanzia di serietà e prudenza, o perché titolari di una quota significativa di capitale
oppure perché intenzionati a partecipare durevolmente alla società, come dimostra la loro avvenuta
iscrizione nel libro dei soci. Quindi, se è indubbio, che la ratio della norma sia perfettamente in linea con
l’esigenza di tutela delle minoranze, superando i limiti della disciplina dettata dall’art. 2393 c.c., è
altrettanto vero che il legislatore, sempre per la paura di un utilizzo smodato della norma ad opera di
minoranze ‘capricciose’ ed imprevedibili o di coalizioni azionarie costituite ad hoc, non si spinge ad
attribuire la facoltà di azione anche al singolo azionista, indipendentemente dalla quota di capitale
posseduta. Sul punto Cfr. F. CAPRIGLIONE, Azione sociale di responsabilità, in Commentario al Testo
Unico in materia di intermediazione finanziaria, (a cura di) G. ALPA- F. CAPRIGLIONE, II, Padova,
Cedam, 1998, pagg. 1190 e ss; e R MAVAGLIA, Commento all’art. 129, in Commentario al Decreto
Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI,op. cit., pagg. 704 e ss. Una
considerazione analoga può essere fatta relativamente ai quorum necessari per promuovere la denuncia al
collegio sindacale ed al Tribunale. Le nuove soglie, infatti, possono risultare, se riferite a società con
capitale frammentato, eccessivamente elevate per un’effettiva applicazione pratica dell’iniziativa. Sul
punto Cfr. A. PATRONI GRIFFI, La denuncia al Tribunale ex art. 2409 c.c.. Gli interessi tutelati, in Le
Società, 1998, pagg. 127 e ss; F. GUARRACINO, Denuncia al collegio sindacale e al Tribunale, in
Commentario al Testo unico in materia di intermediazione finanziaria, (a cura di) G. ALPA- F.
CAPRIGLIONE, II, op. cit., pagg. 1178 e ss. Relativamente all’introduzione del voto per corrispondenza,
non va sottaciuto come esso sia stata accolta tutt’altro che favorevolmente da quella parte della dottrina
preoccupata per i possibili riflessi dell’istituto sul ruolo e sulla funzione istituzionale dell’assemblea. Se,
infatti, il diritto di voto postale consente il rispetto del principio maggioritario, non altrettanto può dirsi
per il principio di collegialità. E’ fuori di dubbio, infatti, che l’esercizio del diritto di voto per
corrispondenza impedisca l’instaurazione di un ‘contraddittorio’ tra il socio medesimo, gli altri soci e la
società stessa, con conseguente limitazione del diritto di discussione spettante a ciascun azionista in sede
assembleare. In tal senso Cfr. G. LAURINI, La disciplina delle assemblee di società quotate, in Giur.
comm., 2000, pagg. 655 e ss. L‘ambiguità’ dell’istituto, che caratterizza le altre disposizioni dettate a
tutela delle minoranze, è accentuata dal fatto che il voto per corrispondenza viene configurato dal
legislatore non già come l’oggetto di un diritto ex-lege dell’azionista, ma come il portato di una clausola
statutaria, assolutamente facoltativa, di necessaria approvazione da parte della maggioranza assembleare.
Per un quadro dell’istituto Cfr. E. PAGNONI, Voto per corrispondenza, in Commentario al Decreto
Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, op. cit., pagg. 697 e ss.
Relativamente alla raccolta di deleghe di voto, aver consentito all’associazione degli azionisti di votare in
modo divergente, in conformità alle indicazioni espresse da ciascun associato, significa sminuire il peso e
il valore dell’associazione, che, per costituire un reale contrappeso all’imprenditore-committente,
dovrebbe, invece, esteriormente palesarsi come struttura compatta. Altrettanto criticabile è la scelta di
consentire la raccolta delle deleghe anche nell’interesse di colui che le sollecita, che, nel caso sia il socioamministratore, prevedibilmente agirà in proprio personale favore, in palese conflitto di interessi con
9
Dall’analisi della nuova normativa emerge come, a ben vedere, il legislatore
abbia, forse inconsapevolmente privilegiato l’esigenza di stabilità delle imprese, a
scapito della auspicata tutela delle minoranze e dell’aumento della contendibilità. Tutto
l’assetto regolamentare della riforma, di fatto, evidenzia questo spostamento dalla tutela
del piccolo azionista all’investitore istituzionale, quale intermediario professionale fra il
pubblico disorganizzato degli investitori e i destinatari finali dell’investimento.
A questo punto è necessario chiedersi se le scelte operate dal decreto 58/98
possano servire, almeno indirettamente, alla tutela del risparmiatore-investitore.
Alcuni studiosi ritengono, infatti, che proprio la presenza degli investitori
istituzionali vada salutata con favore, poiché è l’unico modo per rompere la tradizionale
l’azionariato diffuso, intenzionato a svolgere un controllo ‘deterrente’ sui gestori dell’impresa. E’ da
chiedersi se, nella dialettica interna alle società, gli intermediari abilitati alla sollecitazione delle deleghe
non finiranno col rappresentare un ulteriore ‘puntello’ all’uno o all’altro gruppo di controllo. Per un’
analisi dell’istituto Cfr. G. PRESTI, La nuova disciplina delle deleghe di voto, in Banca, Impresa,
società, 1999, pagg. 35 e ss; E. PAGNONI- S. PROVIDENTI, Commento agli artt. 136-144, in
Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, op.
cit., pagg. 130 e ss. Anche dal riconoscimento dei patti parasociali, addirittura a tempo indeterminato,
consegue lo stesso risultato. Lo scopo della legittimazione di tali patti deve essere ricercato, da un lato,
nell’intento di creare un assetto organizzativo che accresca, all’interno della società, l’influenza di ciascun
socio aderente al sindacato e, dall’altro lato, nell’intento di sfruttare tale assetto per assicurare stabilità,
continuità e coerenza di indirizzo gestionale. D’altra parte, l’effetto di ‘cristallizzazione’ degli assetti di
controllo societario non sarà efficacemente contrastato dalla facoltà di recesso, riconosciuta al socio
aderente al sindacato, in caso di offerta pubblica di acquisto o di scambio. Per un’analisi dell’istituto Cfr.
F. CHIAPPETTA, I patti parasociali nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione
finanziaria, in Riv. soc., 1998, pagg. 988 e ss; R. COSTI, I patti parasociali, in Quad. dir. comm., 1998,
pagg. 113 e ss. A favore della stabilità del controllo si spiega anche la disciplina complessiva delle
partecipazioni incrociate. Infine, al dichiarato scopo di garantire le minoranze azionarie, si introduce
l’obbligo di Opa totalitaria superato il 30% del capitale sociale. Tuttavia è evidente che, in tal modo, le
scalate divengono più costose e le società meno contendibili. In tal senso Cfr. P. MONTALENTI, OPA:
la nuova disciplina, in BBTC, 1999, pag. 54 e ss. Per un quadro della nuova disciplina in tema di OPA, si
veda anche R. WEIGMANN, La nuova disciplina delle opa, in AA.VV., La riforma delle società quotate,
Atti del Convegno di studio di Santa Margherita Ligure, 13-14 giugno 1998, pagg. 197 e ss; F.
CARBONETTI, La nuova disciplina delle offerte pubbliche di acquisto, in Riv. soc., 2000, pagg. 1352 e
ss; R. LENER, La nuova disciplina delle offerte pubbliche di acquisto e scambio, in Riv. dir. civ., 1999,
II, pagg. 241 e ss; G. PRESTI, OPA: nuove regole in attesa di una riforma?, in Le società, 2000, pagg.
655 e ss; CANNELLA, art. 106, in La nuova disciplina delle società quotate, Commentario, (a cura di)
Marchetti e Bianchi, I, Milano, 1999, pagg. 980 e ss. Le stesse conclusioni possono trarsi anche in ordine
alla nuova disciplina dei quorum costitutivi e deliberativi delle assemblee straordinarie. L’art. 126 del
T.U.F, riducendo i coefficienti azionari richiesti, risponde all’intento del legislatore di accrescere la
funzionalità dell’assemblea straordinaria, facilitando l’adozione delle deliberazioni di sua competenza,
ma questa disposizione, inserita in un mercato come quello italiano, caratterizzato dal diffuso assenteismo
dei piccoli azionisti, si traduce di fatto nel rafforzamento della posizione degli azionisti di controllo,
sicuramente più partecipi dei primi alle assemblee societarie, e avvantaggiati dalla previsione di un
quorum deliberativo inferiore a quello precedente. Perplessità ulteriori, inoltre, suscita l’introduzione del
c.d. ‘sindaco di minoranza’. Nonostante la previsione della riserva alla minoranza assembleare del potere
di nomina di almeno un sindaco sia stata esaltata dagli autori della riforma, quale momento di particolare
tutela della minoranza stessa, l’istituto appare di ‘peso’ scarsamente significativo, dubitandosi che i
sindaci ‘di minoranza’ possano bilanciare adeguatamente le pressioni della maggioranza e costituire uno
strumento di effettiva emancipazione del collegio dalla proprietà-controllante. Poco incisiva si presenta
anche la disciplina dettata in materia di informazione dei soci. Gli studiosi che, nell’esaminare il T.U.F.,
hanno fermato la propria attenzione sull’art. 130 ‘Informazione dei soci’, non hanno potuto fare a meno di
rilevare la singolare contraddizione tra “l’altisonanza della rubrica e il modesto contenuto precettivo della
norma”. Sul punto Cfr. G. TERRANOVA, Commento all’art. 130, in Commentario al Decreto
Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, op. cit., pagg. 187 e ss.
10
passività dei piccoli azionisti e di mettere in moto iniziative che possono portare a
cambiamenti significativi nel governo della società e, nel controllo della medesima17.
Si potrebbe ritenere infatti che gli investitori istituzionali assumano il ruolo per
così dire di enti esponenziali del risparmio diffuso, anche di quello da essi non gestito.
C’è chi lamenta anzi che per lungo tempo, sia nel dibattito dottrinale, sia negli interventi
del legislatore, non vi sia stata piena consapevolezza delle potenzialità derivanti dal
possibile ruolo di “monitoraggio” e di incentivo al ricambio del controllo societario che
gli investitori istituzionali potevano svolgere18. In realtà, già negli anni Sessanta vi era
chi sottolineava come il problema della tutela delle minoranze fosse ancor più grave in
quei sistemi (come il nostro) “dove non opera l’automatica provvidenziale garanzia
rappresentata dai così detti azionisti istituzionali; enti cioè, istituzionalmente chiamati a
investimenti azionari, che sono in molti Paesi i più qualificati, sensibili, agguerriti tutori
dell’interesse dell’azionista”19.
Solo di recente comunque è emerso con chiarezza come gli investitori
istituzionali, se adeguatamente informati dai propri rappresentanti negli organi di
governo della società, possano agire sul management professionale, in primo luogo
tramite un dialogo ricorrente con il management stesso, che consenta un reciproco
arricchimento di competenze e quindi un miglioramento decisionale; in secondo luogo
tramite coalizioni occasionali tra di loro al fine di rimuovere, pur possedendo quote
relativamente modeste, il management20.
Il terreno dei rapporti tra investitori istituzionali e corporate governance,
naturalmente non è privo di ostacoli. Si è posto l’accento anche sui rilevanti costi, in
termini di acquisizione di informazioni e di adeguate competenze, legati all’attività di
supervisione, così come è emerso il rischio di conflitti di interesse in grado di
penalizzare i risparmiatori ed incidere negativamente sulle performance delle società
partecipate21.
4. Apertura alla concorrenza, globalizzazione dei mercati finanziari, ossequio
alle regole comunitarie hanno, come abbiamo precedentemente evidenziato, aperto la
strada ad una massiccia privatizzazione. Si assiste al passaggio da un sistema ad
economia mista, in cui lo Stato è proprietario di ampi settori di imprese, ad
un’economia privatizzata, in cui gli obiettivi di politica economica vengono perseguiti
non con la gestione diretta da parte dello Stato, ma da uno Stato soltanto “regolatore”,
che si limita a dettare le regole generali cui le imprese, privatisticamente gestite devono
17
Cfr. L. ENRIQUES, Attivismo degli investitori istituzionali negli Stati uniti: una rassegna degli studi
empirici, in Riv. Soc., 1998, pagg. 592 e ss; e A. IRACE, Il ruolo degli investitori istituzionali nel
governo delle società quotate, Milano, Giuffrè, 2001.
18
Cfr. R. COSTI, Il governo delle società quotate tra ordinamento dei mercati e diritto delle società, in
Dir. Comm. Int., 1998, pag. 72.
19
Cfr. M. ROTONDI, Come fare e come non fare la riforma delle società per azioni, in Riv. dir.civ.,
1965, I, pag.105.
20
Cfr. D. PREITE, Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, in Riv. soc.,
1993, pag. 552.
21
Cfr. A. CORTESI e V. LAZZAROTTI, Lo “shareholder activism” e la tutela delle minoranze, in
Riv. Dott. Comm., 1996, pagg. 811 e ss. Sicuramente gli interventi attuati col TUF volti a regolamentare il
meccanismo della sollecitazione al conferimento di deleghe di voto (sez. III, capo II, titolo III della parte
IV del TUF); a favorire l’aggregazione di piccoli azionisti ai fini della raccolta di deleghe al proprio
interno (art.141); rimuovere vincoli civilistici (art. 2372, comma 4, c.c.) in ordine al rilascio di deleghe ad
aziende e istituti di credito, non solo ai fini della sollecitazione al rilascio (art. 137), ma anche ai fini del
conferimento di deleghe passive (art. 210); ad introdurre il voto per corrispondenza come facoltà
generalizzata per tutte le società quotate (art. 127), si pongono tutti nell’ottica di eliminare i notevoli
ostacoli all’esercizio di un ruolo di supervisione efficace da parte degli investitori istituzionali.
11
attenersi. Le disposizioni normative generali vengono specificate da disposizioni
autoritative emanate da Authorities, vale a dire da Autorità amministrative indipendenti,
dotate di poteri di vigilanza e controllo.
Il T.U. 58/98 nasce in questo rinnovato contesto economico e culturale. Esso,
come precedentemente sottolineato, da un lato riconosce maggiori spazi all’autonomia
privata, ma dall’altra introduce anche norme di protezione degli interessi che giudica
meritevoli di tutela. Non vieta, ma regola22. E lo fa, assegnando alla Consob ampi poteri
regolamentari.
Occorre ricordare che un peso indiscutibile sull’affermarsi dello Stato
regolatore, l’ha avuto sicuramente la c.d rivolta del mercato contro
l’amministrativizzazione dell’economia. Non è un caso, infatti, che il primo comparto a
reagire è stato quello finanziario dove lo Stato al fine di garantire almeno la trasparenza,
la stabilità degli operatori finanziari, la tutela dei contraenti più deboli, ha dovuto
cambiare il suo modo di intervento23. Ha rinunciato alla direzione in favore di un
intervento correttivo, lasciando il campo alla Consob24.
Il Testo Unico della finanza in esame quindi si è limitato per molte materie ad
indicare principi generali affidando ai regolamenti della Consob il compito di attuarli
trovando di volta in volta le soluzioni più efficaci. Proprio sul processo di
delegificazione, sul notevole rafforzamento dei poteri della Consob e dell’ampia
discrezionalità regolamentare ad essa affidata dal D.lgs 58/98 sono sorte molte
perplessità e sollevate anche vivaci critiche25. Alcuni commentatori, hanno parlato, con
brutto neologismo, di “iperregolamentazione”26. La preoccupazione principale
concerneva il chi avrebbe controllato che i regolamenti emanati da autorità indipendenti
non avessero“tracimato” dai limiti fissati dalla legge, su chi avrebbe accertato che essi
fossero conformi a legge ed ai principi generali dell’ordinamento. Osservazioni
giustificate se si osserva che nella maggior parte dei casi la norma che abilita l’ente ad
emanare il regolamento indica solo la materia e non anche i criteri, i limiti cui l’autorità
stessa deve attenersi. Per l’importanza di alcune materie da disciplinare sarebbe dunque
stata preferibile l’opzione legislativa. Altri, basandosi sul criterio guida della “tutela
delle minoranze”, si chiedevano perché gli interessi degli investitori dovevano essere
22
Cfr. R. COSTI, Il Governo delle società quotate: tra ordinamento dei mercati e diritto delle società,
in Dir. comm. internaz. 1998, pagg. 65 e ss.
23
Cfr. F. MERUSI, Considerazioni generali sulle amministrazioni indipendenti, in Lo Stato delle
istituzioni italiane. Problemi e prospettive, Milano, Giuffrè, 1994, pag. 392.
24
Cfr. E. BANI, Stato regolatore e autorità indipendenti, in Diritto pubblico dell’economia, (a cura) di
M. GIUSTI, Cedam, 1997, pag.19.
25
Critico in tal senso anche R. ROVERSI, Le regole sullo svolgimento delle offerte pubbliche di
acquisto previste dal nuovo testo unico sulla intermediazione finanziaria, in Dir. Impresa, 1999, pag.
106, il quale soffermandosi ad analizzare le norme fondamentali in materia di OPA, contenute nel Cap II
del titolo II (appello al pubblico risparmio) della parte IV del Testo Unico, tenta di delimitare l’estensione
del potere regolamentare della Commissione, al fine di individuare quale fosse l’effettivo contenuto della
“delega” attribuita alla Consob e quali le indicazioni del legislatore in merito alle concrete soluzioni che
la Commissione avrebbe dovuto adottare in sede di definizione delle norme di attuazione. In primo luogo
egli mette in evidenza l’ampiezza della delega relativamente alla regolamentazione delle modalità di
svolgimento dell’offerta, tale da far sorgere qualche dubbio circa la sua legittimità. In secondo luogo,
merita segnalazione l’approccio del legislatore che, a suo avviso, assai opportunamente, ha vincolato la
Commissione all’adozione di determinate soluzioni in sede regolamentare: in particolare, sul delicato
punto delle offerte concorrenti e del diritto del rilancio, è stata esclusa (art. 103 comma 4, lett. c TUF) la
possibilità di prevedere limitazioni al diritto di rilancio, ferma l’esigenza di imporre un limite temporale
massimo del periodo di offerta; rispetto alla sezione II (offerte pubbliche di acquisto obbligatorie), l’art.
112 attribuisce alla Consob il potere generale, e secondo l’autore eccessivamente generico, di dettare “con
regolamento disposizioni di attuazione di tale sezione”.
26
Cfr. V. BUONOCORE, La riforma delle società quotate, in La riforma delle società quotate, Atti del
convegno di studio di Santa Margherita Ligure, 13-14 giugno 1998, Milano, Giuffrè, 1998, pag. 46.
12
confinati in una disciplina di livello sub-primario o regolamentare e pur ammettendo,
tenuto conto della pregressa esperienza in materia di mercati finanziari, che il potere
regolamentare sarebbe stato esercitato dalla Consob “nel modo più acconcio”,
auspicavano un ripensamento dell’intero sistema delle fonti: quali sono i valori e gli
interessi di cui si debbono far carico le autorità indipendenti? La regolamentazione del
mercato deve cioè essere affidata solo ed esclusivamente ad esse?27.
Discutere sul ruolo primario assegnato alla Consob dal D.Lgs. n. 58/1998,
significa anche dover esprimere una valutazione circa il sistema dei controlli delineato
dallo stesso testo unico della finanza.
Nella prospettiva di semplificazione e di maggiore incisività della funzione di
controllo interno si collocano la nuova disciplina che affida il controllo contabile in via
esclusiva ad un unico organo, la società di revisione, nonché gli accresciuti compiti e
poteri di vigilanza assegnati alla Consob, che rappresentano nell’economia del nuovo
testo unico l’essenziale strumento il cui adeguato impiego dovrebbe essere garanzia per
gli investitori di risparmio nel capitale societario.
I nuovi poteri di intervento e di vigilanza nei confronti degli organi di controllo
affidati alla Consob dal TUF, contribuiscono al maggior rispetto da parte dei sindaci dei
propri doveri. Numerosi, ad oggi, sono i casi rilevati dalla Consob che mettono in luce
come i collegi sindacali abbiano iniziato ad utilizzare i poteri e gli strumenti loro
assegnati dal TUF attraverso la segnalazione alla Consob delle irregolarità rilevate
nell’operato degli amministratori e, nei casi più gravi, mediante l’attivazione dei poteri
di denuncia al Tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c28. Non sono poi mancati i casi in cui
27 Cfr. G. ALPA, Qualche rilievo civilistico sulla disciplina dei mercati finanziari, in Scritti in onore di
Pietro De Vecchis, Banca d’Italia, Roma, 2000, I, pag. 13. Poco prima dell’approvazione definitiva del
testo del decreto legislativo, i poteri attribuiti alla Commissione di via Isonzo, erano stati giudicati da più
parti eccessivi, al punto che qualcuno aveva parlato di “delega in bianco” data all’Authorithy.
28
Il Testo Unico, all’art. 149, stabilisce ex novo un obbligo di comunicazione alla Consob a carico del
collegio sindacale della società quotata, introducendo così uno stabile raccordo informativo tra
quest’ultimo e l’autorità di vigilanza. Il legislatore, come è stato giustamente osservato, non fa altro che
generalizzare per tutte le società quotate, a prescindere dall’attività da esse condotta, un meccanismo
finora presente solo in alcune normative di settore, come per le banche, le società assicurative ed una serie
di altri soggetti. Cfr. P. VALENSISE, La disciplina del collegio sindacale, in Intermediari finanziari,
mercati e società quotate, (a cura di) A. PATRONI GRIFFI, M. SANDULLI, V. SANTORO, Torino,
Giappichelli, 1999, pag. 1101. Tale norma ha fatto emergere , inevitabilmente, una questione di
inquadramento sistematico dell’attività del collegio sindacale, o meglio di individuazione di interessi che
quest’ultimo si trova a proteggere. In effetti se si esamina la disciplina del collegio sindacale e ci si
domanda quali siano gli interessi affidati alla sua tutela, la risposta appare tutt’altro che agevole. A prima
vista, in un tipo di società caratterizzato da un elevato numero di soci e da una rapida circolazione delle
partecipazioni, l’istituzione di un organo deputato a controllare continuativamente la correttezza
dell’azione amministrativa sembrerebbe rispondere “alla coerente idea di un meccanismo tutorio
rigorosamente interno, predisposto in chiave sostitutiva di quel controllo individuale di cui l’azionista
deve essere necessariamente espropriato”. Cfr. G. CAVALLI, Il controllo interno societario e gli
interessi protetti, in Le società, 1998, p. 888 e ss. In tal senso il collegio sindacale sarebbe un organo
preposto alla tutela dei diritti degli azionisti. Nel c.d. “sindaco di minoranza” parte della dottrina vede
nelle minoranze azionarie i soggetti protetti dal controllo sindacale, sulla base del rilievo che i gruppi
dominanti dispongono di ben più penetranti strumenti di riscontro ed appaiono in grado di formulare da sé
ogni appropriato giudizio sull’andamento dell’impresa. E’ noto peraltro che questa visione in chiave
“privatistica” delle funzioni del collegio sindacale non riscuote il consenso di larga parte della dottrina e
della pressochè unanime giurisprudenza.Proprio dai rapporti del collegio sindacale con la Commissione di
vigilanza sulla società e la borsa, regolamentati dal testo unico, emerge la tutelabilità diretta o mediata, da
parte del collegio sindacale, di interessi che possiamo definire ‘extrasociali’. L’art. 149 del TUF, fa
dunque emergere un riflesso pubblicistico dell’attività sindacale, istituendo un sistema di collaborazione
informativa, nel quale il collegio assolve ad una funzione di “tramite” verso l’autorità di vigilanza. A
quest’ultima spetta poi la valutazione delle notizie ricevute nonché l’eventuale conseguente adozione di
ulteriori provvedimenti. Dalle suesposte considerazioni discende che i sindaci potrebbero e dovrebbero
agire, di volta in volta, a difesa di interessi eteronomi: di quelli della società e delle minoranze azionarie,
13
la Consob ha dovuto esercitare i poteri di enforcement avendo rilevato irregolarità
proprio nell’operato dei sindaci.
Dopo un periodo di “rodaggio”, quindi, il sistema dei controlli delineato dal
TUF inizia a mostrare i suoi effetti positivi e quindi, come è stato osservato29, si renderà
necessario, anche in considerazione delle difficoltà che si incontreranno nella prima fase
di attuazione della riforma del diritto societario, incentivare i rapporti di collaborazione
tra la Consob e i collegi sindacali ovvero i nuovi organi di controllo endosocietario30.
5. La necessità di prestare attenzione anche alle problematiche delle società non
quotate, allo scopo prioritario di attirarle sul mercato dei capitali, costituiva un
passaggio cruciale per l’economia italiana. Come è stato autorevolmente affermato,
anche in queste imprese, si pongono, a prescindere dalle dimensioni aziendali, esigenze
ma anche degli interessi di tutti coloro che si trovano in qualche misura coinvolti dall’azione della società.
Il dato saliente di queste proposte ricostruttive, al di là delle diverse modulazioni, sta nel superamento di
una concezione che vede nei sindaci un semplice meccanismo di autotutela, per fare del collegio un
organo deputato alla protezione di valori di vario tipo: sociali, misti ed extrasociali.
Cfr. per tutti sull’art. 149 TUF F. PARRELLA , Commento sub artt. 148, 150 , 151, in Commentario al
Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, Giuffrè, Milano, 1998.
29
Cfr. M. TEZZON, Testo Unico della finanza: l’impatto della riforma ed il ruolo della Consob, in
Giornale dei dottori commercialisti, 11 novembre 2002, il quale rileva come anche in Italia, infatti, dopo
il caso Enron americano, ci si sia interrogati sull’affidabilità del sistema dei controlli. Il ministro
dell’Economia e delle Finanze ha così costituito un’apposita commissione di studi presieduta dal prof. F.
Galgano, con lo specifico scopo di esaminare l’idoneità dell’ordinamento interno a fornire al mercato una
rappresentazione veritiera della situazione economia , finanziaria e patrimoniale delle imprese quotate. La
commissione ha redatto una relazione finale in cui individua alcune carenze della normativa e
raccomanda alcune modifiche normative. In particolare la Commissione ha espresso l’orientamento di
massima che la fonte da preferire per gli interventi normativi segnalati sia costituita dai regolamenti
Consob, mentre alla fonte legislative dovrà farsi riferimento quando si tratterà di modificare vigenti
norme di legge oppure di regolare materie che esulano dai poteri normativi della Consob. La preferenza
espressa dalla Commissione per i regolamenti Consob è stata motivata con la maggiore duttilità e con la
maggiore capacità di rapido intervento di questa fonte di normazione. E’evidente, peraltro, che la Consob
si trovi in posizione privilegiata per tradurre in precetti normativi le esigenze di tutela del mercato. In tale
contesto, osserva conclusivamente l’autore, ovvia conseguenza è la necessità di rafforzare la struttura
della Consob per far fronte ai nuovi compiti e alle nuove responsabilità alla stessa demandati. Al riguardo
evidenzia come negli stati Uniti, per prevenire ulteriori situazioni di crisi come quelle che hanno investito
la Enron e la World Com, si sia ritenuto indispensabile potenziare la Sec sia incrementando i suoi poteri
sia dotandola di ulteriori risorse finanziarie, in parte da utilizzare per l’assunzione di personale ad alta
professionalità.
30
Anche le società quotate, infatti, in virtù del nuovo D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, potranno optare,
oltre che per il modello tradizionale a cui fa riferimento il Testo unico della finanza fondato su di un
organo amministrativo e sul collegio sindacale, anche per il modello dualistico, articolato su di un
consiglio di gestione che amministra la società sotto la propria responsabilità e su un consiglio di
sorveglianza (che ha come compiti tra gli altri quello di nominare e revocare i componenti del consiglio di
gestione, approvare il bilancio di esercizio e promuovere l’esercizio dell’azione di responsabilità nei
confronti dei componenti del consiglio di gestione) o per quello monistico che si articola su di un
consiglio di amministrazione nominato dall’assemblea e un comitato per il controllo sulla gestione,
costituito all’interno del consiglio di amministrazione. La Consob ritiene fondamentale che le innovazioni
in materia di amministrazione e controllo che verranno introdotte con la riforma del diritto societario non
alterino in alcun modo i risultati raggiunti con il sistema dei controlli delineato dal Testo Unico della
finanza. Per mantenere inalterati gli obblighi di trasparenza e correttezza sinora imposti alle società
quotate, conseguentemente, si ritiene essenziale estendere, in quanto compatibili, le previsioni del Tuf
concernenti il collegio sindacale anche agli organi di controllo sulla gestione e previsti dai nuovi modelli.
Secondo Montalenti l’opzione fra diversi sistemi di gestione e controllo, è una “scelta condivisibile”,
“potenzialmente foriera di circolazione di modelli e di regolatory competition”, ma che può comportare
una “concorrenza ineguale” tra i diversi modelli. Cfr P. MONTALENTI, Gli amministratori, intervento al
convegno di studio: Verso il nuovo diritto societario. Dubbi ed attese, Firenze, 16 novembre 2002, in
corso di pubblicazione.
14
di ‘buon governo’31. Era indispensabile, dunque, varare nuove regole di Corporate
Governance anche per le piccole e medie imprese, perlopiù a conduzione familiare32,
per offrire alle stesse altre e nuove opportunità di espansione.
Gli obiettivi del legislatore del 1998, infatti, al di là delle perplessità che si è
avuto modo di esprimere nel corso di questo lavoro in ordine all’efficacia delle scelte
compiute, sarebbero stati difficilmente raggiungibili senza un deciso intervento anche
sulle piccole e medie imprese, che formano l’80% del tessuto economico italiano. Il
‘solco’ esistente tra società quotate e non, che il D.Lgs. 58/1998 ha accentuato, poteva,
oltretutto, divenire paradossalmente, un disincentivo alla quotazione.
In quest’ottica, gli studiosi italiani, prendendo anche spunto dalla disciplina
vigente nell’ordinamento di altri Paesi, hanno elaborato, già alcuni anni fa, una
distinzione nell’ambito delle società di capitale, fra società ‘aperta’ e società ‘chiusa’.
Oggi la società ‘aperta’ non viene più individuata solo con riferimento alle società
quotate, ma più in generale a tutte le imprese per cui è rilevante l’apporto del capitale
esterno e per le quali, quindi, si pongono, indipendentemente dalla quotazione in Borsa,
esigenze di efficienza della gestione, efficacia dei controlli sia interni che esterni,
garanzia della possibilità di ricambio nella gestione.
Partendo da questo dibattito dottrinale il progetto di riforma del diritto
societario, elaborato dalla Commissione Mirone33 insediatasi all’indomani
dell’approvazione della riforma Draghi, non ha avuto solo lo scopo di proporre la
riduzione, se non la eliminazione, della rilevante differenza fra la disciplina dettata dal
D.lgs. n.58/98 per le società quotate in mercati regolamentati e quella contenuta nel
codice civile per le società per azioni non quotate, ma è stato motivato anche
dall’intento di “svecchiare” l’ordinamento societario, ancora ancorato a principi desueti.
L’intento della ‘Bozza Mirone’, è stato soprattutto quello di eliminare la
vincolatività di molte regole organizzative, che inceppavano la gestione delle imprese, e
quello di sostituire regole più snelle che permettessero alle società di adattarsi
rapidamente alle mutevoli esigenze del mercato. In questo contesto riformatore, il
progetto indicava, infatti, come essenziale criterio che doveva guidare la concreta
elaborazione delle nuove norme, la concezione della società di capitali come soggetto
gestore di impresa e quindi bisognoso di una disciplina semplice ed elastica della
propria organizzazione e dei modi di formazione delle proprie decisioni.
All’esito di questa riforma34, va sottolineato come sia stato esaltato l’aspetto
dell’autonomia statutaria, intesa come potere dei soci di elaborare regole di
organizzazione e funzionamento adatte al tipo di attività economica svolta dalla
società35. L’impostazione adottata sembra quella diretta a sostenere l’idea secondo cui il
31
Cfr. A. GAMBINO, Verso la riforma delle società per azioni non quotate, in Riv. soc., 1998, p. 1585.
Cfr. G. BRUNETTI, Stato e prospettive di governance nelle medie imprese familiari, intervento al
Convegno di studio su “Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?”,
Courmayeur, 28-29 settembre 2001.
33
L’insediamento della Commissione Mirone (Commissione mista Giustizia-Tesoro) è avvenuto il 30
luglio 1998. La commissione rivisitando la disciplina di tutte le società non quotate (anche di quelle che
non fanno appello al pubblico risparmio) ha dato vita ad uno schema di disegno di legge, approvato e
trasfuso nella legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, avente quale obiettivo primario quello di favorire la
nascita, la crescita e la competitività tra le imprese, anche attraverso il loro accesso ai mercati interni ed
internazionali di capitali.
34
Con la pubblicazione del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 “Riforma organica della disciplina
delle società di capitali e società cooperative” e del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 “Definizione
dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia
bancaria e creditizia”, emanati in attuazione della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 e pubblicati sulla
Gazzetta Ufficiale del 22 gennaio 2003, n. 17, supplemento ordinario n. 8.
35
Come afferma lo stesso Michele VIETTI in Flessibilità e trasparenza, sulla Guida Normativa del
Sole 24 ore, febbraio 2003, pag. 4, “Nella riforma è prevalsa una concezione dell’autonomia privata, forse
32
15
legislatore dovrebbe limitarsi a dettare modelli dispositivi, affidando all’autonomia
privata l’introduzione di strumenti di protezione degli interessi coinvolti, in particolare
di tutela delle minoranze in termini di informazione, di monitoring, di voice e di exit36.
Il “mercato delle norme statutarie” dovrebbe selezionare positivamente le regole
più protettive per risparmiatori/investitori, attraendo i capitali nelle società che abbiano
adottato strumenti di corporate governance più avanzati. In ogni caso appare però
difficile immaginare, anche in linea di principio, un rapido e spontaneo passaggio a
comportamenti più attivi di protezione dell’investimento attraverso l’utilizzazione di
strumenti endosocietari messi a disposizione degli investitori stessi.
Il legislatore italiano, come emerge dal testo unico del 1998, ha seguito una
strada parzialmente diversa e maggiormente equilibrata, riassumibile nella
predisposizione di norme inderogabili, che possono essere però modificate
dall’autonomia statutaria in melius, cioè in funzione maggiormente protettiva delle
minoranze azionarie37.
Anche quella scelta pur rivelandosi equilibrata, allo stesso tempo, è stata, forse,
eccessivamente ottimistica sotto il profilo dell’auspicato intervento migliorativo da
parte dell’autonomia statutaria38. Allo stato attuale, infatti, le maggiori società quotate si
sono limitate a recepire il nucleo minimo inderogabile delle regole legislative. Alla luce
di tale esperienza, una riforma organica in materia di società di capitali e di società
cooperative, non avrebbe forse dovuto, come è stato giustamente osservato, nutrire
eccessiva fiducia nell’autonomia statutaria come strumento di introduzione delle regole
ottimali, quanto meno sotto il profilo degli strumenti di protezione delle minoranze39.
Soltanto per le società “aperte”, che fanno ricorso al mercato dei capitali, si
prevede l’introduzione di norme inderogabili a tutela delle minoranze. Per queste
società il legislatore della riforma sembra, dunque, voler ripercorrere le tracce della
riforma Draghi40.
più matura ed adeguata ai tempi: una concezione che nasce sul presupposto di una sussidiarietà della
regola rispetto al libero dispiegamento degli interessi, con la precisazione, tuttavia, che la regola si
giustifica ed ha senso solo se assolve alla funzione di tutela degli interessi fondamentali della comunità e
se la tutela di tali interessi possa essere realizzata con mezzi tecnici che rendano non illusoria la loro
protezione e non eludibile il precetto che ne diventa patrono”,
36
Non c’è dubbio che la legge delega in attuazione della quale sono stati elaborati i decreti legislativi di
riforma, spingendo per l’autonomia statutaria, abbia aderito alla tendenza, proveniente dal sistema
americano, per un sostanziale rifiuto, per chi partecipa al mondo degli affari, di una tutela paternalistica
proveniente dagli stati. Si veda in tal senso R. WEIGMANN, I diritti delle minoranze, intervento al
Convegno di studio di Como “La Corporate Governance nelle società non quotate”, in Quad. giur.
comm., 2001, n. 227, pag. 13.
37
Così è, come abbiamo visto, per i quorum assembleari, per le percentuali di possesso qualificato ai
fini delle denunce al collegio sindacale e al Tribunale, per l’esercizio sociale di responsabilità, da parte
della minoranza.
38
Anzi, là dove il legislatore consentiva soluzioni meno incisive, è su questa linea che le società quotate
si sono attestate. E’ l’ipotesi del collegio sindacale, rispetto alla quale si è optato per il numero meno
elevato di componenti (tre anziché cinque), presumibilmente per sterilizzare il potere di convocazione
dell’assemblea da parte dei sindaci designati dalle minoranze.
39
In tal senso P. MONTALENTI, La riforma del diritto societario nel progetto della Commissione
Mirone, Giur. comm., I, 2000, pagg. 385 e ss. e R. WEIGMANN, op. cit., pag. 16, nt. 37, secondo il
quale le osservazione esposte ci porterebbero “a rivalutare il ruolo del paternalismo, anche se
l’opportunità di introdurre in un ordinamento leggi protettive per i soci di minoranza viene ora scossa
dall’instaurarsi di una concorrenza fra gli stati, come offerenti di regole societarie. Considerata,
comunque, la scarsa propensione dei privati a rafforzare i diritti delle minoranze”, egli osserva, “come
fosse raccomandabile l’idea di imporre necessariamente alcune tecniche di tutela, purchè efficaci”.
40
Analizzando la legge delega, risulta evidente come il grado di autonomia statutaria della disciplina
diminuisca con l’aumentare del ricorso dell’ente societario al mercato dei capitali. Per la società per
azioni si prevede, infatti, una disciplina obbligatoria relativamente alla sua organizzazione, che assume
particolare rigidità nelle società che fanno ricorso al mercato dei capitali. Per queste si dispone che il
16
Il problema, invece, resta aperto per la società a responsabilità limitata, per le
quali la legge delega si era espressamente prefissa, come principio generale di
“prevedere un’ampia autonomia statutaria” (art. 3, comma 1, lett.b), che doveva
spaziare da tutte le “strutture organizzative”, ai “procedimenti decisionali”, agli
“strumenti di tutela degli interessi dei soci, con particolare riferimento alle azioni di
responsabilità”, al “contenuto”, e non solo al “trasferimento” della “partecipazione
sociale”, al “recesso”.
Analizzando in particolare gli interventi normativi sulle nuove S.r.l, nell’ottica di
una maggiore semplificazione e di una maggiore libertà di scelte organizzative, è da
interpretarsi anche l’eliminazione del giudizio di omologazione, così come la
semplificazione sul sistema dei controlli.
Dai dati testuali della legge delega emerge che mentre per le società per azioni
l’invito ad ampliare gli ambiti di autonomia statutaria è temperato da un perentorio
“tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti”, per le società a
responsabilità limitata non vi sono altrettanto precisi ed espliciti limiti. E’ stato allora
osservato, come il silenzio della norma, segnala che la società a responsabilità limitata
abbia “per così dire” minori contatti con interessi esterni e quindi la sua disciplina possa
prevedere più decisamente un programma di valorizzazione dell’autonomia statutaria. In
sostanza “il mondo della società a responsabilità limitata, più circoscritto e più
appartato, meno variegato quanto ad interessi sottesi, può sicuramente prestarsi ad una
disciplina meno intricata ed ad un ambito dell’autonomia statutaria più ampio di quello
della società per azioni”41. In una società come la srl non vocata alla presenza di soci
che siano puri investitori, la tutela dei soci non poteva avere carattere imperativo.
Ci si chiedeva comunque, se, sia a protezione dei terzi, sia a protezione degli
eventuali investitori, non si fosse dovuto stabilire, anche con riferimento a tale modello,
nuclei minimi di norme inderogabili, o quanto meno, se non fosse necessario prevedere
un modello dispositivo di riferimento da cui l’autonomia statutaria potesse discostarsi in
misura precisata42.
A seguito delle suesposte considerazioni, occorre, a questo punto, porsi, come ha
già fatto prima di noi un autorevole studioso della materia43, una domanda
“preliminare”: “quali sono i motivi per i quali, con riferimento alle società non quotate e
controllo sulla contabilità, da affidare a un revisore esterno, debba essere separato da quello sulla
gestione; che l’azione sociale di responsabilità sia consentita ad una minoranza di soci; che le assemblee
straordinarie decidano con maggioranze qualificate a tutela della minoranza dei soci, ed, infine, che sia
prevista la legittimazione del collegio sindacale a ricorrere direttamente al tribunale per denunciare le
gravi irregolarità in cui siano incorsi gli amministratori. Tuttavia, sia per le società che ricorrono al
mercato dei capitali, sia per le altre che non lo facciano, si prevede spazi di autonomia statutaria, che pur
non essendo così ampi come quelli riconosciuti alla società a responsabilità limitata, sono ugualmente
importanti
41
In una società che è ‘affare’ dei soci che direttamente la gestiscono, con il minimo di forme
indispensabili, ed in un regime di piena autonomia statutaria, secondo alcuni, non vi è necessità di un
controllo legale dei conti affidato al collegio sindacale. Certamente, nel caso della società ‘chiusa’, che
adotta il tipo giuridico della S.r.l. e che non supera determinate dimensioni, le esigenze di tutela di
interessi extrasociali di cui abbiamo parlato e di cui i sindaci si fanno garanti, sono minori. Inoltre , a
giustificazione di tale autonomia, si afferma che in tali società il socio è tendenzialmente anche
amministratore ed in ogni caso è posto in condizione di controllare direttamente la gestione, in modo non
molto diverso da quanto avviene nelle società di persone. Cfr. sul punto V. DI CATALDO, La società a
responsabilità limitata, intervento al Convegno di studio di Como su “La Comportare Governance nelle
società non quotate”, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, n. 227, pag. 36 e ss.
42
Cfr. P. MONTALENTI, op. cit., pag 389, nt. 39. In tal senso anche BELCREDI, La corporate
governance delle società non quotate, in Mercato, concorrenza, regole, 2000, II, pagg. 384 e ss.
43
Cfr. C. ANGELICI, La tutela delle minoranze azionarie, intervento al Convegno di studi di Alba,
Dalla riforma Draghi alla riforma delle società non quotate, 28 novembre 1998, in Le società, 1999,
pagg. 781 e ss.
17
a società per le quali, come osservato, non vi è un diretto rapporto con il mercato e
neppure un’esigenza di tutela di investitori anonimi, vi sia comunque l’esigenza di
tutelare le minoranze?”
Allontanando suggestioni di tipo moralistico occorre considerare solo se vi sia
un’esigenza e una utilità alla tutela delle minoranze. Una prima risposta che viene data è
che per le società non quotate non vi è un mercato esterno relativo alle partecipazioni,
per cui i diritti dei soci, per definizione, sono difficilmente negoziabili, o meglio sono
negoziabili solo tra i soci. Questo rende indispensabile che all’allocazione dei diritti
provveda, almeno in parte, l’ordinamento in via imperativa44.
Sotto il profilo delle regole sostanziali di tutela, proprio la sostanziale difficoltà
nelle società non quotate di perseguire da parte dei soci di minoranza la via dell’exit,
avrebbe allora dovuto suggerire qualche cautela in più nell’affidarsi integralmente
all’autonomia statutaria45.
Ad oggi il recente decreto legislativo recante “La riforma organica della
disciplina delle società di capitali e società cooperative”, emanato in attuazione della
legge 3 ottobre 2001, n. 366, introduce alcuni innovativi interventi in tal senso, ma essi
saranno suscettibili, se non saranno mortificati da letture interpretative restrittive, di
apprestare una sufficiente tutela?
Il decreto legislativo di riforma per esempio innova sotto molti profili la
preesistente disciplina in tema di responsabilità di amministratori e sindaci46.
Particolarmente significativi sono inoltre gli interventi sul tema del ruolo
assegnato ai soci di srl ed alle loro decisioni nell’attività sociale. In considerazione della
struttura personalistica del tipo societario, la regola di principio è che spetta al contratto
sociale determinare quali materie siano di competenza dei soci, ma che qualsiasi materia
può essere sottoposta alla loro valutazione quando richiesto dagli amministratori o da
un numero qualificato dei soci stessi (primo comma dell’art. 2479).47
44
Cfr. M. RESCIGNO, La corporate governance nelle società non quotate, intervento al Convegno di
studio di Como su “La Corporate Governance nelle società non quotate”, in Quaderni di Giur. comm.,
2001, n. 227, pag. pag. 71 e ss, in cui egli osserva come manca cioè nelle società non quotate la
caratteristica propria della corporate governance delle società quotate: la quotazione in borsa delle società
dà, infatti, ai soci di minoranza-investitori due possibilità di reazione al mancato accoglimento delle
richieste di inserimento di regole statutarie di corporate governance, e cioè la c.d voice (la protesta) e
l’exit, da intendersi come l’uscita dal capitale della società, grazie alla normale liquidabiltà
dell’investimento.
45
In tale prospettiva taluni avevano suggerito, elencandoli, possibili strumenti normativi di tutela
suscettibili di formare oggetto di un intervento legislativo, Cfr. M. RESCIGNO, op.cit. , pag. 71 e ss, nt.
45.
46
Con riferimento alle azioni di responsabilità occorre distinguere la disciplina dettata dal legislatore
con riferimento alle spa e con riferimento alle srl. La disciplina dell’azione sociale di responsabilità nella
s.p.a (“aperta”) sembra ripercorrere sostanzialmente la strada tracciata dal TUF per le società quotate
(art. 129) con l’attribuzione dell’azione ad una minoranza qualificata. Con riferimento all’azione di
responsabilità nelle società a responsabilità limitata: la tutela in proposito riconosciuta ai soci dall’art.
2476 c.c. si impernia sul principio secondo il quale, sulla base della struttura contrattuale della società, ad
ogni socio è riconosciuto il diritto di ottenere notizie dagli amministratori in merito allo svolgimento degli
affari sociali e di procedere ad una diretta ispezione dei libri sociali e dei documenti concernenti
l’amministrazione della società. Da questa soluzione consegue coerentemente il potere di ciascun socio di
promuovere l’azione sociale di responsabilità e di chiedere con essa la provvisoria revoca giudiziale
dell’amministratore in caso di gravi irregolarità (art. 2476 c.c, terzo comma). Come si legge dalla
relazione allo schema di decreto legislativo “si tratta di una disciplina che corrisponde alla prospettiva
secondo cui viene accentuato il significato contrattuale dei rapporti sociali”(Cfr. Relazione a pag. 103).
Sulla base di questa soluzione si è escluso per le società a responsabilità limitata l’assoggettamento alla
procedura ex art. 2409 c.c., considerandola superflua e in buona parte contraddittoria con il sistema.
47
Spetta, in sostanza, al contratto sociale distribuire le competenze tra soci e amministratori, mentre nel
secondo comma dell’art. 2479 c.c. si sono soltanto individuate alcune materia che data la loro particolare
rilevanza non possono essere statuariamente sottratte alla competenza dei soci. Anche quando comunque
18
Altro significativo aspetto toccato dalla riforma è quello concernente la
disciplina del recesso48.
Con riferimento ai controlli sui conti nelle società a responsabilità limitata la
scelta operata dal decreto legislativo è quella di conservare la soluzione prevista dall’art.
2488 del codice civile, secondo la quale è obbligatoria la nomina del collegio sindacale
quando il capitale sociale non è inferiore a quello minimo previsto per le società per
azioni oppure vengono superati i limiti dimensionali dell’impresa individuati dall’art.
2435 bis del codice civile. Come si legge nella relazione allo schema di decreto
legislativo “si è ritenuto infatti che l’utilizzazione di altri parametri, come per esempio
quelli relativi alle dimensioni del patrimonio netto o dell’indebitamento, in buona parte
disponibili da parte dei soci, non fosse in grado di conseguire l’obiettivo di assicurare
una effettiva tutela agli interessi che si vogliono salvaguardare”.
Per quanto concerne la designazione dei sindaci ad opera della minoranza,
cosiddetto “sindaco di minoranza”, importante elemento di novità previsto dal TUF, nel
nuovo decreto di riforma non v’è traccia alcuna, neppure limitatamente alle società che
fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio. In questo modo, poiché al collegio
sindacale delle società quotate continueranno ad applicarsi le disposizioni del TUF
(estese in quanto compatibili, al consiglio di sorveglianza ed al comitato di controllo
interno49), e poiché l’idea di un sindaco designato dalla minoranza che “ficchi il naso
nella gestione della società”50 è una di quelle che tradizionalmente più disturbano i soci
di maggioranza, si rischia di generare un ulteriore disincentivo alla quotazione.
Sempre in tema di tutela delle minoranze è, infine, necessario accennare alla
disciplina dei gruppi, questione non affrontata dalla precedente riforma Draghi51, e che
in ordine alla presente trattazione assume un’importanza significativa.
la competenza dei soci è inderogabile, d’altra parte, è rimessa all’autonomia privata l’adozione del
metodo assembleare: solo limite insopprimibile è rappresentato dall’esigenza, dettata per ragioni di
certezza, che siffatte decisioni risultino da atto scritto. E’ apparso comunque opportuno imporre un
ulteriore limite: la riunione assembleare è necessaria per le decisioni che alterano significativamente la
struttura della società e la posizione dei soci.
48
Per le società a responsabilità limitata la nuova disciplina è contenuta nell’art. 2473 c.c. Essa
comporta, come già si prevede nell’art. 2437 c.c. per le società per azioni dove si dà allo statuto delle
società che non fanno ricorso al mercato dei capitali la possibilità di prevedere “ulteriori cause di
recesso”, un rilevante ampliamento delle ipotesi attualmente previste. Si amplia così quello che in questi
tipi di società risulta concretamente lo strumento più efficace di tutela per il socio. Con riguardo alle srl la
normativa di riforma introduce, inoltre, la facoltà statutaria finora sconosciuta, di prevedere l’esclusione
del socio.
49
La Consob si è adoperata affinché nello schema di decreto legislativo sulla riforma del diritto
societario, fosse inserita una specifica norma di coordinamento tra la disciplina del Testo Unico della
finanza concernente il collegio sindacale e i nuovi modelli di amministrazione previsti dalla riforma.
Nello schema è presente l’articolo 223 septies , secondo comma , con la quale è stato precisato che “ogni
riferimento al collegio sindacale o ai sindaci presenti nelle leggi speciali è da intendersi effettuato anche
al consiglio di sorveglianza e al comitato per il controllo sulla gestione o ai loro componenti, ove
compatibile con le specificità di tali organi”. La norma di coordinamento non fa riferimento solo alla
disciplina sui sindaci delle società con azioni quotate prevista dal Testo unico della finanza, ma
genericamente, ad ogni legge speciale nella quale sia presente un riferimento ai sindaci o al collegio
sindacale. La soluzione scelta, pertanto, richiederà un attento e delicato lavoro interpretativo per valutare
la compatibilità delle singole norme del TUF con le specificità dei nuovi organi. Conseguentemente,
occorrerà un’attenta attività interpretativa volta a conservare un’analoga tutela delle minoranze.
50
In tal senso R. RORDORF, I controlli, intervento al Convegno di studio “Verso il nuovo diritto
societario. Dubbi ed attese”, Firenze- 16 novembre 2002, in corso di pubblicazione.
51
Benché la legge delega contenesse un espresso riferimento alla materia, chi scorra, anche rapidamente
il ponderoso D.lgs. n.58/98 inutilmente andrà a cercare anche una sola norma dedicata alla disciplina
organica dei gruppi. Se di “dimenticanza” si può parlare, si tratta senza dubbio di una grave dimenticanza,
sia per la diffusione del ‘gruppo’ sia per la sua potenziale pericolosità per le minoranze azionarie. Sono
proprio i ‘pericoli’ insiti nel fenomeno, infatti, che rendono necessaria una rigorosa regolamentazione
della materia. Risale al 1942 la scelta di non dettare una normativa specifica per il ‘gruppo societario’.
19
E’ stato lo Schema predisposto dalla Commissione Mirone a prestare finalmente
attenzione al fenomeno dei gruppi societari. Peraltro nel progetto venivano lasciati
aperti problemi di fondo. Infatti la formula usata nell’art. 9 lett.a), poi confermata
nell’art. 10 della legge delega n. 366, secondo cui i principi e i criteri direttivi a cui la
riforma deve ispirarsi in materia di gruppi consistono, tra l’altro, nella previsione di una
disciplina del gruppo “tale da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento
contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di
minoranza di queste ultime”, è formula che è stata giudicata di un tenore molto
generico, suscettibile di letture notevolmente diverse tra loro da parte del legislatore
delegato.
In ogni modo, il fatto che il Progetto Mirone confermasse una tendenza a
riconoscere la possibilità di ingerenze nella gestione della società del gruppo, poneva
anche l’esigenza di introdurre correttivi idonei a fronteggiare i rischi di abusi che tali
ingerenze potevano implicare. Un primo correttivo è rappresentato dalla previsione di
forme di pubblicità dell’appartenenza al gruppo (art. 9 lett. c) del Progetto Mirone e art.
10 lett. c) legge delega n. 366) e dalla prescrizione secondo cui la disciplina del gruppo
deve essere improntata a principi di trasparenza52.
Nell’attuare la delega lo schema di decreto legislativo approvato dalla
Commissione Vietti ha optato per non dare o richiamare una qualunque nozione di
gruppo o di controllo. Con tale schema si afferma per la prima volta un principio
generale di responsabilità di chi a qualunque titolo esercita l’attività di direzione e
Indubbiamente, nel diritto italiano sono presenti delle norme che ne regolano specifici aspetti e che
perlopiù attengono al controllo societario, ma si tratta di disposizioni che non permettono di enucleare
principi elevabili a sistema (Tutto ciò non vale per il fenomeno del ‘gruppo’ nel settore bancario, che con
il D.Lgs. 385/1993 ha ricevuto una disciplina specifica. Sull’argomento, si rinvia a P.G. JAEGER.P.MARCHETTI, Profili di disciplina del gruppo creditizio, in Quaderni giuridici dell’impresa, n. 1/1991,
p. 5 e R. SACCHI, Sui gruppi nel Progetto Mirone, in Giur. Comm., 2000, pagg. 358 e ss.). Il legislatore
del 1998 avrebbe potuto scegliere fra due possibili linee di azione: introdurre, predisponendo una
disciplina ad hoc, una nozione sostanzialmente innovativa, facendo ricorso al concetto di ‘direzione
unitaria, per cui propendeva una parte della dottrina. Cfr. G. ROSSI, Il fenomeno dei gruppi e il diritto
societario: un nodo da risolvere, in Riv. Soc., 1995, p. 1040 che ritiene che tale locuzione correttamente
qualifichi un potere che viene attuato attraverso una pluralità di modalità e di strumenti); oppure riferirsi
al ‘controllo’, mantenendo uno stretto legame tra il concetto di gruppo e quello di controllo, cui si
indirizzava altra parte della dottrina, nella convinzione che l’individualismo delle singole società
appartenenti al gruppo non fosse in alcun modo superabile. In entrambe i casi, la necessaria contropartita
avrebbe dovuto risolversi nell’offerta di maggiori garanzie per i soci di minoranza. Il legislatore ha optato
per la seconda soluzione e, pur non facendo alcun riferimento ai gruppi societari, ha dettato un’ampia
definizione di ‘controllo’ all’art. 93 del TUF. Ha assunto in tema di gruppi, per meglio dire, un
atteggiamento ‘neutrale’, scegliendo di non dare peso alla strutturazione dell’attività economica, in forma
di gruppo societario o di società divisionalizzata, e limitandosi esclusivamente a definire il concetto di
‘controllo’, eliminando da tale definizione qualsiasi riferimento al gruppo per evitare probabilmente
un’immediata connessione tra gruppo e controllo. Forse, ha colto nel segno un autorevole Autore
nell’aver affermato che i tempi non erano “ancora maturi per incidere sul regime di responsabilità e
quindi sulla struttura giuridica stessa del gruppo”, né per estendere a tutte le imprese una disciplina che
tutelasse la stabilità del gruppo sul modello del gruppo bancario. Così A. GAMBINO, Governo
societario e mercati mobiliari, in Giur. comm., 1997, I, pag. 798
52
L’art. 10 della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 in particolare recita: “La riforma in materia di
gruppi è ispirata ai seguenti principi e criteri direttivi:
a) prevedere una disciplina del gruppo secondo principi di trasparenza e tale da assicurare che l’attività
di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società controllate e
dei soci di minoranza di queste ultime;
b) prevedere che le decisioni conseguenti ad una valutazione dell’interesse del gruppo siano motivate;
c) prevedere forme di pubblicità dell’appartenenza al gruppo;
d) individuare i casi nei quali riconoscere adeguate forme di tutela al socio al momento dell’ingresso e
dell’uscita della società dal gruppo, ed eventualmente il diritto di recesso quando non sussistono le
condizioni per l’obbligo di offerta pubblica di acquisto”.
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coordinamento53. Il limite all’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, limite
che ne riconosce la legittimità di base, è apparso essere costituito dal rispetto dei valori
essenziali da tutelare da individuarsi nei principi di continuità dell’impresa sociale,
redditività e valorizzazione del “bene” partecipazione sociale. La responsabilità dettata
da questa impostazione normativa è fondamentalmente di stampo “aquiliano”, e
necessariamente della controllante direttamente verso i danneggiati ed il danno a base
dell’azione è quello derivante dal risultato complessivo dell’attività della controllante.
In tale impostazione, come è stato osservato nella relazione allo schema del decreto
legislativo, “la pubblicità prevista dall’art. 2497 bis appare una logica necessità”54.
6. In sintesi uno dei principali leitmotiv del diritto societario italiano, che sta
vivendo una stagione di radicali mutamenti, è quella della “tutela delle minoranze”, da
elevare a strumento indispensabile per agevolare l’afflusso di capitale verso le imprese,
garantendone così lo sviluppo.
Il disegno riformatore, iniziato con la Legge Draghi (D.lgs. 24 febbraio 1998, n.
58), proseguito con i lavori della Commissione Mirone, concretizzatosi con
l’approvazione della delega per la riforma del diritto societario (L. 3 ottobre 2001, n.
366) e della nuova disciplina penale commerciale, ed ora giunto a termine, si è, infatti
trovato a dover affrontare, tenendo conto di una vasta gamma di strumenti e di interessi
in gioco, il tema complesso del rapporto tra tutela delle minoranze e corporate
governance. Compito difficile, nel quale occorreva coniugare autotutela ed eterotutela,
norme imperative ed autonomia statutaria.
Per le società quotate la riforma Draghi non ha optato per ridurre
significativamente le aree soggette a inderogabilità, ma ha invece mantenuto, da un lato,
la inderogabilità delle norme ritenute imprescindibili rispetto al fine di tutelare le
minoranze, dall’altro, la suppletività della disciplina legale là dove si è ritenuto che
potessero essere le stesse clausole statutarie a dettare regole volte ad elevare la soglia di
protezione legale delle minoranza (e ciò in tema di tecniche di funzionamento e
caratteristiche soggettive del collegio sindacale, di rapporti con l’organo
amministrativo, di azioni di risparmio, di reazione all’opa ostile, di partecipazioni
reciproche, di voto per corrispondenza, di deroghe a regole di legge come per i quorum
assembleari). La riforma Draghi si pone, dunque, come una tipica espressione della
funzione, al contempo tradizionale e moderna dello “Stato regolatore”, che si manifesta
con interventi ‘indiretti’ nell’economia, abbandonando ogni finalità dirigistica e quindi
segnando un’inversione di tendenza rispetto alla precedente riforma del 1974.
Il T.U. 58/98 non vieta, ma lasciando ampi spazi all’autonomia privata, regola,
introducendo norme di protezione degli interessi che giudica meritevoli di tutela. E per
regolare investe la Consob di ampi poteri regolamentari. Da qui, basandosi sul criterio
guida della tutela delle minoranze, è stato anche sollevato il dubbio di una
concentrazione di “troppo” potere nelle mani della Consob. “Perché gli interessi degli
investitori debbono essere confinati in una disciplina di livello sub-primario o
53
La Relazione governativa afferma espressamente che il problema centrale del fenomeno del gruppo è
quello della responsabilità della controllante nei confronti dei soci e dei creditori sociali della controllata.
A tal fine si è posto a base della disciplina il “fatto” dell’esercizio di attività di direzione e coordinamento
di una società da parte di un diverso soggetto, chiunque esso sia, e qualunque sia il titolo per cui il
soggetto esercita questa attività.
54
Appare altresì coerente all’impianto generale della nuova normativa attenta a prevedere regole di
trasparenza, la previsione che le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento
siano analiticamente motivate (2497-ter). Si è infine riconosciuto all’art. 2497 quater “nel quadro di una
concezione generale del recesso che vi riconosce l’attribuzione al socio di un potere di negoziare la sua
permanenza in società davanti ad alterazioni rilevanti del quadro originario”, il diritto di recesso del socio.
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regolamentare?” è stata infatti la domanda che alcuni si sono posta, alla vigilia della
approvazione definitiva del testo del decreto legislativo.
Nelle società non quotate, invece, dove si pongono esigenze di tutela non meno
importanti rispetto a quelle proprie delle società quotate, l’elaborazione di un
appropriato sistema di corporate governance è, come abbiamo osservato, per alcuni
versi più complessa: all’esigenza di assicurare l’efficienza e la correttezza della gestione
sociale a tutela dei soci estranei al gruppo di controllo, attraverso la predisposizioni di
strumenti in parte diversi, si affianca, infatti l’esigenza di favorire lo sviluppo e la
crescita delle piccole e medie imprese attraverso una maggiore libertà e quindi minori
oneri nella gestione.
Tutto ciò comporta dover porre una maggiore attenzione alla ricerca di un
equilibrio tra la tutela imperativa offerta dalla legge ai soci di minoranza e l’apertura a
formule pattizie di regolamentazione degli interessi in gioco.
Il ragionamento seguito dagli autori del Progetto Mirone, fatto proprio dalla
legge delega 366, è stato quello di adeguare la disciplina dei modelli societari “alle
esigenze delle imprese, anche in considerazione della composizione sociale e delle
modalità di finanziamento”.
La miscela fra autonomia e norme imperative andava, dunque, graduata in
funzione della struttura e delle caratteristiche proprie dell’impresa.
A tal fine, la relazione al progetto affermava che “ le imprese che non
necessitano di fonti di finanziamento esterne, con compagine societaria relativamente
ristretta ed eventualmente caratterizzata da legami familiari, non devono sopportare gli
stessi vincoli normativi imposti alle società quotate” dove entrano in gioco istanze di
protezione degli investitori, e dunque, prosegue la relazione “il tasso di imperatività
potrà crescere solo man mano che l’attività di impresa si muove verso forme più
complesse e aperte in cui si avverte maggiormente l’esigenza di tutela dei terzi”.
Tutto ciò ben sintetizza il ragionamento che ha portato gli autori del Progetto
Mirone prima e del recente decreto legislativo di attuazione dopo, ad adottare la
soluzione della massima autonomia statutaria per la società a responsabilità limitata.
Pur condividendo la complessiva filosofia liberale che ispira l’intero progetto di
riforma, in funzione di una piena valorizzazione dell’imprenditorialità, l’esigenza di un
intervento imperativo del legislatore a tutela degli interessi dei soci, come abbiamo
avuto modo di osservare, non è affatto estranea alla realtà della società a compagine
ristretta. E anzi, la tutela imperativa del socio è, forse e quasi paradossalmente, più
avvertita proprio in questo tipo di società dove manca per definizione un mercato delle
quote per l’impossibilità di far ricorso al pubblico risparmio.
Da qui, una volta formulato il suddetto apprezzamento di principio, è stato
necessario esprimere qualche perplessità circa la sufficienza dei limiti che la riforma
pone all’autonomia privata sotto il profilo della tutela dei soci di minoranza.
L’interrogativo, emerso dagli spunti critici sopra illustrati, se fosse stato
opportuno procedere ad una ulteriore individuazione dei limiti all’autonomia statutaria
non vuole quindi certo ‘rimpiangere’ un ritorno all’impronta anacronisticamente
dirigistica e istituzionalistica del passato, ma semplicemente assicurarsi che
l’ordinamento controlli al meglio l’espletamento dell’autodeterminazione dello statuto,
come fa su ogni altra manifestazione dell’autonomia contrattuale, alla luce dei propri
principi fondamentali quale è, appunto, quello di controllare che il potere di una parte
sull’altra (e dunque, fondamentalmente, della maggioranza sulla minoranza) non si
eserciti in modo abusivo o arbitrario, ma secondo i canoni della correttezza e della
buona fede.
Sarà soprattutto il confronto con la realtà economico-sociale che ci dirà se gli
auspici di autonomia imprenditoriale che hanno retto la delega legislativa e che sono
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stati recepiti e attuati dall’Esecutivo, si esplicheranno nel mantenimento di un corretto
equilibrio con tutte le esigenze di tutela che ruotano intorno al mondo imprenditoriale.
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