MINORANZE AZIONARIE: TRA ETEROTUTELA PUBBLICISTICA E AUTOTUTELA* Maria Laura Pavone SOMMARIO:1. L’interesse pubblico alla tutela delle minoranze azionarie nel T.U 58/98: tra inderogabilità e autonomia 2. Inversione di tendenza rispetto alla riforma operata dalla L.74/216: dall’eterotutela pubblicistica alla tutela diretta. 3. La complessa figura dell’azionista di minoranza. 4. Concentrazione di troppi poteri nelle mani della Consob? La centralità della Consob nel processo di regolamentazione e di controllo sulle società quotate dopo la riforma. 5. Quale “tutela” per le minoranze nell’attuale riforma del diritto societario? 6. Considerazioni conclusive. 1. Il Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, contenente il “Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria”, emanato nei termini previsti dalla legge delega 6 febbraio 1996, n. 52 ha, senza dubbio, rappresentato la prima grande occasione per mettere mano ad alcune importanti trasformazioni, riguardanti sia la disciplina generale del mercato azionario, sia quella delle società emittenti titoli quotati1. A fondamento di tale nuova costruzione normativa vi è la consapevolezza che, al fine di garantire un corretto svolgimento della vita societaria ed al fine di costruire un mercato dei capitali idonei ad attrarre investimenti, fosse necessario procedere ad un *Articolo in attesa di pubblicazione sulla rivista “Il diritto dell’economia”. Si tratta della rielaborazione della tesi di dottorato “Riforma del governo societario e interesse pubblico alla tutela delle minoranze azionarie”, discussa il 25 ottobre 2002. 1 Il D.Lgs. 58/98, si inserisce nell’ampio dibattito economico e giuridico sulla c.d. Corporate Governance che ha coinvolto tutti i Paesi di maggiore sviluppo industriale e finanziario. Il concetto di Corporate Governance non è però univoco, ma ha confini ambigui e spesso sfuggenti (Si veda sul punto le osservazioni di L.A BIANCHI, Considerazioni introduttive sulla Corporate governance, in Riv. Soc., 1996, p. 406 e ss; e di P. MONTALENTI, Corporate Governance: raccomandazioni Consob e prospettive di riforma, in Riv. Soc., 1997, p. 713 e ss). Nella accezione che possiamo definire "ristretta", con tale espressione si fa riferimento ai problemi di equilibrio tra amministrazione e ‘supervisione’, interna ed esterna, in società quotate, oppure ancora più riduttivamente alla questione dei controlli interni all'impresa (In tal senso Cfr. la ricerca internazionale promossa dal Committee of Sponsoring Organization of Treadway Commission), nella accezione più ampia con il termine Corporate Governance si designa "l'insieme delle regole e delle istituzioni volte a conciliare interessi di imprenditori e di investitori al fine di assicurare che il controllo delle imprese sia allocato con efficienza in modo il più possibile indipendente dalla disponibilità finanziaria degli individui" ( In tal senso anche la definizione data dal Rapporto sulla società aperta elaborato dalla Associazione Disiano Preite: "l'insieme di regole e istituzioni volto a conciliare l'interesse alla certezza del controllo sull'impresa da parte di soggetti che lo esercitano (gli imprenditori) e l'interesse degli investitori a una sorveglianza continua e idonea sugli imprenditori al fine di assicurare che tale controllo sia allocato e gestito con efficienza"). Rientrano perciò nel tema gli organi societari di gestione e di supervisione, le assemblee, i poteri delle minoranze, la presenza e l'attivismo degli investitori istituzionale e collettivi, il monitoraggio sulla gestione ad opera delle banche e del mercato, la disciplina dell'informazione, le autorità di vigilanza, l'azione dei tribunali. L'idea alla base del dibattito sulla Corporate Governance pare andare in senso contrario alla communis opinio che vuole la disciplina del mercato di per sé sufficiente ad assicurare un'adeguata tutela a coloro che hanno investito in una società aperta al pubblico risparmio. Si assiste cioè ad un'inversione di tendenza: dal prevalere del diritto del mercato mobiliare ad un rinnovato interesse per i temi del diritto societario. In tal senso G. PRESTI, Le raccomandazioni Consob nella cornice della Corporate Governance, in Riv. soc., 1997, p. 739 e ss. 1 ampliamento dei poteri riconosciuti ai soci non appartenenti al gruppo di comando, al fine di ridurre le distante esistenti tra le varie categorie di soci2. E’ dopo l’emanazione del TUF, che si assiste, atteso il favor verso la formazione di un azionariato diffuso, ad un sostanziale cambiamento nella posizione dottrinale circa la funzione da ascrivere all'intervento delle minoranze: a tale intervento viene riconosciuto un ruolo fondamentale sul versante della crescita e dello sviluppo sociale. E’ la riscoperta del ruolo del mercato, della funzione del capitale di rischio, in un contesto di globalizzazione dei mercati e di declino della presenza pubblica nell’economia3, che pone con forza il problema dell’adeguatezza della disciplina vigente e delle sue linee ispiratrici ad attrarre capitali verso le imprese e ad assicurarne l’efficienza. Tutto questo nella consapevolezza che una modernizzazione organizzativa e strutturale del mercato finanziario sarebbe stata vana, se ad essa non si fosse accompagnata la rivisitazione delle regole di Corporate Governance degli emittenti titoli quotati 4. 2 Tra i criteri direttivi ed ispiratori la legge delega n. 52/96 indicava, infatti, il “rafforzamento della tutela del risparmio e degli azionisti di minoranza”. 3 Non è un caso che nell'Europa continentale il problema della Corporate Governance si sia posto soprattutto quando, a causa delle privatizzazioni, le società sono state costrette a rivolgersi al mercato per il loro fabbisogno di capitale. Per far questo, era necessario creare un più adeguato equilibrio e bilanciamento tra gli interessi degli imprenditori e quelli degli investitori. Da qui la scelta di volgere una rinnovata attenzione ai meccanismi di funzionamento interno delle società per azioni. Come osservava R. COSTI, in Privatizzazione e diritto delle società per azioni, in Giur. comm. 1995, pagg. 77 e ss., il d.l. 31 maggio 1994, n. 332, convertito con l. 30 luglio 1994, n.474 intitolato “norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni delle Stato e degli enti pubblici in società per azioni”, non si limita a introdurre norme procedurali per la privatizzazione delle partecipazioni azionarie pubbliche, ma “incide profondamente sulla disciplina delle società oggetto di dismissione, introducendo norme diverse da quelle di diritto comune, con riferimento sia all’organizzazione societaria sia al contenuto e alla circolazione della partecipazione sociale”. Il processo di privatizzazione, che ha preso le mosse nel nostro Paese nel 1992, è apparso fondamentale sia per allargare le dimensioni del mercato mobiliare, sia per ridurre gli eccessi della concentrazione proprietaria, tipica del sistema imprenditoriale italiano. Il processo di privatizzazione ha contribuito alla predisposizione di una normativa più attenta agli strumenti di tutela degli azionisti di minoranza, attraverso i quali cercare di garantire un loro maggiore coinvolgimento nella vita societaria. Dalle norme in tema di società privatizzate, infatti, emergevano già la necessità di riconoscere un ruolo maggiore (rispetto a quello consentito dal diritto comune) all’autonomia privata nella determinazione delle regole che debbono disciplinare i rapporti fra i soci e l’organizzazione delle società, nonché la necessità di una maggiore tutela delle minoranze azionarie, anche nella prospettiva di una più efficiente gestione delle imprese. Le soluzioni legislativamente adottate per le società privatizzate (o privatizzande) potevano e dovevano offrire spunti di riflessione per un riforma generale del diritto delle società per azioni. La legge 474/1994 apriva cioè uno spazio di riflessione: in che misura essa avrebbe influenzato nella interpretazione delle norme di diritto societario generale? Ci si chiedeva, in sostanza, se fosse stata opportuna una disciplina giuridica particolare per le società privatizzate o se non fosse stato auspicabile un intervento più sistematico sul diritto societario. Sul punto Cfr. L. FULGHIERI- P.ZINGALES., Privatizzazioni e struttura del controllo societario. Il ruolo della ‘public company’, in F. GIAVAZZI - A. PENATI – G. TABELLINI (a cura di), Liberalizzazione dei mercati e privatizzazioni, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 107ss; G. GROS-PIETRO, Privatizzazioni e Corporate Governance, intervento al Convegno di studio su “Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?”, Courmayeur, 28-29 settembre 2001. 4 Il lavoro, come è stato osservato, muove da una prospettiva di ‘relativo’ ottimismo circa i metodi e gli strumenti della Corporate Governance. La critica espressa da G. ROSSI, in Il mito della Corporate Governance, intervento al Convegno di studio su “Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?”, Courmayeur, 28-29 settembre 2001, secondo cui la Corporate Governance appartiene alla “nuova mitologia societaria”, è da condividersi se riferita a certi eccessi di fede nella capacità delle nuove regole e strutture a “disinfestare” le società per azioni. L’autore parla di corporate governance come di un mito. “I miti offrono misteriose e imprevedibili suggestioni che stimolano congetture e vitalizzano le ricerche. E così il governo societario, seppur questa traduzione possa ritenersi inadeguata ad indicare le molteplici sfaccettature che tale espressione contiene, sembra essere divenuto l’ultimo dei possibili riferimenti idonei a risolvere istituzionalmente, cioè nell’ambito di una corretta disciplina, i problemi, ma soprattutto i conflitti, che tormentano dall’interno e dall’esterno il diritto 2 La nuova disciplina disegnata dal Testo Unico, è nata quindi con lo scopo di favorire l’incontro tra domanda ed offerta d’investimento, attraverso un’accurata regolamentazione dei ruoli e delle responsabilità di chi gestisce e di chi investe nell’impresa, che assicuri al contempo un’efficace tutela dei variegati interessi che si concentrano nell’istituto societario: quello dello Stato al corretto e produttivo funzionamento delle imprese produttrici di nuova ricchezza, quello degli investitoririsparmiatori alla redditività del proprio investimento, quello degli azionisti di maggioranza, detentori del capitale di comando, alla stabilità della gestione aziendale. Più urgente rispetto agli altri Paesi europei, inoltre, appariva la necessità di una riforma del governo societario in Italia. L'anomalia del sistema di Corporate Governance italiano, dovuta ad una proprietà azionaria notevolmente concentrata, si traduceva in un elevato rischio di collusione tra la stessa proprietà e il management, a scapito degli azionisti di minoranza e dello sviluppo del mercato5. Occorreva valutare quali potessero essere i mezzi più adeguati con cui raggiungere gli obiettivi relativi agli interessi da tutelare. Si poteva tutelare l’investitore diffuso, la contendibilità e la stabilità della società dettando norme imperative da rispettare, oppure lasciare larghi spazi all’autonomia statutaria. Il successo dell’autoregolamentazione, come testimoniano numerose analisi sul tema, presupponeva però un mercato efficiente, un'economia aperta alla competitività e alla concorrenza; mentre il mercato italiano è stato, viceversa, da sempre legato alla scarsa distinzione tra competenze pubbliche e competenze private; si è sviluppato nella logica di un'economia "mista", dove l'intervento pubblico era spesso determinato più da ragioni assistenziali, che da reali esigenze di gestione di servizi pubblici. societario (…). Le regole di corporate governance, trovano il loro prototipo nei Principi dell’American Law Institute del 1994, nascono in un contesto economico e in una cultura giuridica societaria ben individuati e precisi sotto il profilo temporale, sia sotto quello istituzionale. La corporate governance ha guadagnato una reputazione come “disinfettante” per le “infezioni” delle società per azioni. Ma non lo è. La creazione di nuove regole relative al funzionamento delle società può essere utile per i Paesi nei quali dominano le public companies e nei quali tali regole possono essere effettivamente imposte (…). In altri Paesi, caratterizzati da diverse tradizioni storiche e culturali, l’efficacia di un mero trapianto di tali regole è assolutamente dubbia, se non addirittura rischiosa”. Cfr. anche G. FERRARINI, Valore per gli azionisti, in Riv. soc., 2002, pagg. 62 e ss, incline ad una valutazione, nel complesso positiva della materia oggetto d’esame, pur nella consapevolezza dei limiti degli strumenti disponibili. Egli afferma, infatti, “non sono preoccupato della forza della path-dependency in questo campo e della possibilità di importare soluzioni elaborate in contesti diversi, nei quali dominano le società con azionariato diffuso”. Ancora sul punto l’intervento di D. SINISCALCO, Importare la Corporate Governance?, intervento al Convegno di studio su “Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?”, Courmayeur, 2829 settembre 2001. Il relatore, dopo aver constatato l’evidenza empirica che i Paesi con una migliore tutela delle minoranze hanno strutture di governance più efficienti, si chiede se sia possibile ‘importare’ nel nostro ordinamento regole migliori. Egli afferma che “il trapianto degli istituti giuridici appropriati all’interno di tradizioni legali di origine diversa, è possibile attraverso una riforma legislativa. In Italia, il TUF Draghi ha disciplinato la nostra normativa, facendo salire l’indice della tutela delle minoranze, vicino al valore medio dei Paesi di common law”. Però poi conclude che “importare una governance migliore è difficile, e l’Italia vi è riuscita solo in parte. La path dependence, cioè le tradizioni legali, che approssimano le diversità profonde della governance e dei capitalismi, hanno effetti di lungo periodo”. 5 Come emerge dalla relazione di accompagnamento al Dlgs.58/98, ad una situazione gravemente carente in tema di efficienza dei mercati, si aggiungeva l'esiguità di monitoraggio dall'esterno ad opera dei c.d "investitori istituzionali", nonché la presenza di una struttura proprietaria che non è in grado di attrarre capitali e risorse. E' noto che in linea generale possono distinguersi due modelli di assetti societari: quello di tipo tedesco o giapponese incentrato sul ruolo degli investitori istituzionali (per lo più "banco-centrico") e quello fondato su un più attivo ruolo del mercato di tipo statunitense o britannico. Nessuno di questi due modelli può essere assimilato al sistema di corporate governance italiano, anzi, come ha ben evidenziato G. PRESTI, op. cit., pag. 746, il modello italiano "è notoriamente una miscela esplosiva dei due modelli". Non sono presenti intermediari finanziari di dimensioni paragonabili a quelle di un sistema "banco-centrico", ma non esiste neppure un sistema azionario caratterizzato da adeguati livelli di ampiezza, liquidità ed efficienza. 3 Solo una volta create le condizioni per la creazione di strutture societarie sempre più efficienti e che presentino le massime garanzie di trasparenza nei rapporti tra proprietà e gestione, l'opzione dell'autoregolamentazione, appariva la soluzione più valida per l'organizzazione delle società con azionariato diffuso6. Il T.U.F sembra essersi basato sulla consapevolezza che un modello efficiente di governo delle imprese non trova necessariamente esclusivo fondamento in norme imperative e che, anzi, l'eccessiva rigidità delle norme, pure poste a tutela degli "interessi deboli", può condurre a indesiderati effetti involutivi. In realtà il ruolo che il Testo Unico ha assegnato, in materia societaria, all'autodeterminazione delle società emittenti, non va, per così dire ‘enfatizzato’. Centralità del mercato e dell’autonomia privata si accordano, quindi, in un intervento pubblico ‘correttivo’, che si fonda ancora oggi sulla tradizionale esigenza di contrastare le “imperfezioni” e i “fallimenti” del mercato e permettere il conseguimento di obiettivi microeconomici (efficienza degli intermediari e del mercato, tutela dei risparmiatori e della concorrenza) e macroeconomici (stabilità del sistema, controllo della moneta e dei cambi), che un mercato “imperfetto” non è in grado di raggiungere spontaneamente. In quest’ottica la riforma Draghi si pone come una tipica espressione della funzione, al contempo tradizionale e moderna dello “Stato regolatore”, che si manifesta con interventi ‘indiretti’ nell’economia, abbandonando ogni finalità dirigistica. Possiamo senza dubbio affermare che il Testo Unico n. 58/98 segna il fallimento del tentativo ideologico di tenere separati Stato ed economia, diritto e mondo produttivo, come realtà contrapposte e rette da regole proprie7. La ratio legis sottesa alla riforma, permette di attribuire una connotazione “pubblicistica” alla normativa contenuta nel Testo Unico, anche nella parte relativa alla disciplina degli emittenti, che pur contiene norme che appartengono al diritto societario tradizionalmente inteso. Istituti di stampo tipicamente societario (e quindi privatistico) vengono, infatti, regolati in un’ottica di tutela degli interessi collettivi degli azionisti di minoranza e del pubblico risparmio Il nuovo Testo Unico dell’intermediazione finanziaria, intitola la sezione seconda del Capo II del titolo III della parte IV, dedicata alla disciplina degli emittenti, “Tutela delle minoranze”. In tali articoli (art. 125-135) si disciplinano, tra gli altri, i poteri delle minoranze azionarie di richiedere la convocazione dell’assemblea (art. 125), di presentare le denuncia previste dagli artt.2408 e 2409 del codice civile (art. 128) e, per il profilo forse di maggiore novità, di proporre l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, sindaci e direttori generali (art. 129). In realtà, essendo la tutela delle minoranze, criterio ispiratore della complessiva disciplina dettata dal Testo Unico in materia di società emittenti, un commento alla tematica della tutela delle minoranze, imporrebbe in effetti l’analisi dell’intero sistema delineato dal Testo Unico stesso e non solo della sezione II della Parte IV. Anzi, la rubrica della specifica sezione del Testo Unico dedicata alla tutela delle minoranze, risulta addirittura fuorviante. Per un verso, infatti, gli strumenti di tutela delle minoranze azionarie sono contemplati e disciplinati anche in altre parti del Testo Unico, per altro verso la sezione in commento detta norme estranee all’ambito tradizionalmente definito della tutela delle minoranze. 6 In tal senso F. CHIAPPETTA, Brevi note in tema di interventi sullo statuto sociale a seguito dell'entrata in vigore del T.U delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, in Riv. soc., 1999, pag. 73. 7 Secondo S. CASSESE., Stato e finanza privata, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 1991, II, pag. 1090, “nei rapporti tra Stato ed economia (…) vi è una tendenza al superamento della contrapposizione tra moduli di diritto pubblico e moduli di diritto privato e alla loro convergenza in una famiglia unitaria”. 4 A tutela delle minoranze azionarie e del pubblico risparmio si pongono infatti i maggiori obblighi di informazione e trasparenza in materia di offerte pubbliche di acquisto (artt. 102-112), di patti parasociali e di partecipazioni rilevanti (artt. 120-124); la nuova disciplina e composizione del collegio sindacale (artt. 148-154); il trasferimento del potere esclusivo di verificare la regolare tenuta della contabilità alle società di revisione (art. 155-165). Profili di tutela delle minoranze sono chiaramente presenti anche in via indiretta, attraverso la tutela del risparmio. Quindi già la disciplina degli intermediari, contenuta nella parte II del T.U, ha la finalità di garantire al risparmio l’accesso ai mercati regolamentati e così anche la partecipazione in società quotate attraverso la mediazione di soggetti abilitati, in possesso di requisiti di professionalità e onorabilità e che assicurino, sotto la vigilanza della Banca d’Italia e della Consob, “la sana e prudente gestione” delle attività amministrate, avendo “specifico riguardo alla tutela degli investitori e alla stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del sistema finanziario” (art. 5 T.U). A tale finalità di ordine generale è correlato l’intento legislativo di incentivare le minoranze diffuse ad affidarsi alla gestione collettiva del risparmio. Una tutela anticipata dei risparmiatori viene infine perseguita dal legislatore con la previsione di una nuova e più rigida disciplina sull’abusivismo (abuso di informazioni privilegiate e aggiotaggio su strumenti finanziari, artt.180-187 TUF). 2. Quello della tutela delle minoranze è un tema che possiamo definire “classico” del diritto societario, “coessenziale alla regola stessa del principio maggioritario”8. Sin dagli anni ’50 si sono fatte sempre più pressanti le istanze per una riforma delle società, anche se nel dibattito italiano il tema della tutela delle minoranze ha vissuto un ciclo storico oscillante. Nel progetto di riforma delle società per azioni, redatto da Tullio Ascarelli insieme agli Amici del Mondo nel 1955, e tradotto in disegni di legge, rimasti poi inattuati, si individuava nella tutela dei creditori sociali, nella tutela dei creditori particolari del socio e nella tutela della minoranza, i tre problemi fondamentali della società per azioni. In particolare Ascarelli precisava che “la tutela della minoranza diviene, nelle grandi società con azioni diffuse nel pubblico, la tutela della maggioranza”9. Possiamo senza dubbio affermare quindi che il padre spirituale di ciò che oggi è diventato legge, riferendoci in particolare alla parte societaria del decreto 58/98, resta il progetto Ascarelli, le cui proposte anticipano di quasi mezzo secolo l’attuale riforma10. 8 Si esprime in tal senso P. MONTALENTI, Corporate governance : la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, in Giur. comm, 1998, pag. 330. La disciplina delle società per azioni, risultava già inadeguata al momento dell’emanazione del codice civile del ’42. Essa era posta con riferimento alle società per azioni di medie dimensioni, ed appariva inadeguata per le grandi società, con capitale ingente, ma polverizzato presso una elevata quantità di piccoli azionisti. In queste società, che sono state individuate in quelle i cui titoli sono ammessi alle quotazioni di borsa, per il disinteresse dei piccoli azionisti, la gestione sociale spetta ad una minoranza, per cui si verifica quello sfasamento espresso con le parole “dissociazione del rischio dalla gestione dell’impresa”. Questa dissociazione non veniva temperata o neutralizzata dall’esistenza di un controllo rigoroso e i poteri delle minoranze restavano sulla carta, non potendo, a causa della polverizzazione del capitale sociale, raggiungere le aliquote necessarie al loro esercizio. 9 Cfr. il progetto di riforma redatto da Ascarelli insieme agli Amici del Mondo, pubblicato in Riv. soc. 1956, pagg. 599 e ss. 10 In particolare si segnalano per la loro modernità le proposte in tema di diritti delle minoranze, dirette a favorire sindacati e associazioni di azionisti, a ridurre i quorum per le denunce al collegio sindacale ex 5 E’ col successivo progetto De Gregorio che comincia ad intravedersi un cambiamento di rotta rispetto al Progetto ascarelliano, là dove il fulcro del progetto stesso è costituito dalla previsione dell’organo di vigilanza. Tale prospettiva teorica, troverà pieno riconoscimento nella riforma del 1974, con la quale si abbandonano le c.d. illusioni della democrazia societaria e dell’autotutela per perseguire l’obiettivo della tutela indiretta, sul duplice piano della vigilanza pubblicistica e della trasparenza dell’informazione. Con tale riforma emerge, infatti con chiarezza che l’idea di un rafforzamento degli strumenti di autotutela degli azionisti investitori viene accantonata, sul presupposto del disinteresse dell’azionista alla vita della società, per lasciare il posto ad una tutela indiretta, realizzata attraverso l’istituzione di un organo di vigilanza, la Commissione Nazionale per la società e la Borsa (Consob). La legge 7 giugno 1974, n. 216 detta una disciplina speciale per le società con azioni quotate in Borsa, e introduce a carico delle stesse obblighi di trasparenza più accentuati sia nei confronti della Consob sia, e soprattutto, nei confronti del mercato11. La Consob, alla quale nel 1985 è stata attribuita la “personalità di diritto pubblico”, svolge oggi la sua funzione con piene potestà organizzative e decisorie, in due fondamentali settori: il mercato e l’informazione. Quest’ultima attiene non solo al mondo societario legato alla borsa, ma all’intero settore degli strumenti finanziari e della sollecitazione del pubblico risparmio. Per questo aspetto, la Consob si affianca alla Banca d’Italia nel controllo della raccolta del risparmio con il preciso e specifico compito di garantire veridicità e completezza all’informazione. Per lo svolgimento di questi compiti la legge assicura alla Consob una serie di poteri e fissa una serie di obblighi che i soggetti, la cui attività è oggetto del suo controllo, hanno verso di lei. Tra i poteri va in particolare segnalata la maggiore potestà regolamentare riconosciutale dal d.legs.58/98. Nonostante la summenzionata potestà regolamentare attribuita alla Consob, che di fatto aumenta i poteri della stessa, la riforma Draghi sembra in realtà segnare un’inversione di tendenza rispetto alla riforma del 1974, dal momento che numerosi sono gli strumenti di tutela, anche diretta, attribuiti alle minoranza azionarie. Da tempo è infatti convincimento diffuso che lo strumento della eterotutela pubblicistica non sia sufficiente a garantire l’efficienza e la neutralità del mercato. La previsione di strumenti di autotutela diretta, anche individuale, è funzionale infatti alla creazione di un mercato trasparente ed efficiente, che rappresenta uno stimolo per una gestione più corretta ed efficace delle imprese. art. 2408 del codice civile e al Tribunale ex art.2409 del codice civile e a prevedere infine l’azione di responsabilità sociale su iniziativa di una minoranza rappresentante il 10% del capitale. E’ vero che il filone riformatore di allora faceva perno su strumenti di controllo interno, non attribuendo alcun ruolo alla disciplina del mercato mobiliare e degli intermediari finanziari, anche perché il sistema finanziario di allora coincideva nella sostanza con il sistema bancario iperprotetto, vigilato e essenzialmente pubblico, ed è vero anche l’unico mercato era la borsa e che non esistevano né intermediari finanziari (ad eccezione degli agenti di cambio), né investitori istituzionali, ma possiamo sempre cogliere la straordinaria modernità del progetto Ascarelli. L’autorevole studioso aveva inoltre intuito fin dall’inizio che non bastava limitarsi soltanto a riformare o ritoccare la disciplina delle società per azioni ma occorreva anche por mano alle cc.dd riforme strutturali. Ascarelli aveva, insomma, compreso che bisognava “creare” un mercato dei titoli che allora non esisteva o almeno “irrobustire” il mercato esistente al fine di favorire la canalizzazione del risparmio verso investimenti produttivi; introdurre una seria disciplina della concorrenza, dei gruppi di imprese, del controllo, delle partecipazioni reciproche. Il successivo progetto De Gregorio del 1966, raccoglie il messaggio ascarelliano e contiene alcuni ulteriori affinamenti degli strumenti di protezione delle minoranze, quali la riduzione dei quorum per la convocazione dell’assemblea su richiesta delle minoranza, la nomina del presidente del Collegio sindacale da parte dell’organo di vigilanza nelle quotate, anticipazione della soluzione ora introdotta del sindaco di minoranza, l’introduzione delle azioni di risparmio, con privilegio del 5%, l’integrazione dell’ordine del giorno su richiesta della minoranza. 11 Cfr. R. COSTI, Il mercato mobiliare, Torino, Giappichelli editore, 2000, pag. 26. 6 La scelta operata dalla commissione Draghi è dunque orientata a garantire oltre alla stabilità della gestione, anche la possibilità per gli investitori di avere a propria disposizione oltre ad un potere di exit tempestivo e informato, anche diritti di voice (diritti cioè di intervento diretto), che vanno dal sindaco di minoranza, al sistema di c.d. blocco delle minoranze, alla sollecitazione e raccolta delle deleghe, alla azione sociale di responsabilità. Il filo interrotto dell’impostazione ascarelliana sembra, improvvisamente, riannodato con la riforma attuale: i nuovi istituti sono indicativi della volontà del legislatore di fornire i soci di minoranza di poteri di autotutela più incisivi12. 3. Il mercato finanziario italiano degli anni Novanta, appare comunque profondamente mutato rispetto a quello degli anni cinquanta, di scarso spessore e povero di protagonisti. Il nuovo contesto economico si è, infatti, arricchito di intermediari professionali13 . Il medesimo concetto di “minoranza” muta significato. In modo più tradizionale, si intendono per soci di minoranza, tutti gli azionisti non di controllo. Nell’ottica della riforma del 1974, per socio di minoranza, si intendeva l’insieme degli azionisti risparmiatori. Oggi, invece, “minoranza” deve includere anche gli intermediari mobiliari, il cui peso tende sempre più a crescere nella compagine delle società italiane. Individuare a quale minoranza si faccia riferimento nel nuovo contesto legislativo, non è ovviamente solo una questione di concetti, ma di interessi che in concreto vengono ad essere tutelati dalle norme. Gli azionisti di minoranza di società quotate rappresentano, quindi, una figura che possiamo definire complessa, che ricomprende il mero investitore (detentore di un numero esiguo di azioni), il disturbatore professionale, l’azionista stravagante, il detentore di quote minoritarie ma significative (in grado di incidere sugli assetti del potere assembleare, in forza di alleanze, di azioni di concerto di fatto o di accordi di 12 Alcuni studiosi tendono a raggruppare le norme del Testo Unico che concretizzano in capo agli interessati il principio della tutela degli azionisti, in tre grandi categorie. La triade sarebbe cioè costituita dalle norme sulla trasparenza (che soddisfano contemporaneamente anche l’interesse generale del mercato), dalle norme sull’exit (cioè sul diritto dei soci di disinvestire a condizioni eque), dalle norme sulla voice (che conferiscono, direttamente o indirettamente, poteri specifici che consentono alle minoranze di far valere proprie istanze all’interno della società o nei confronti di singoli componenti dei suoi organi). Altri (Cfr. V. SANTORO, Profili della disciplina della tutela delle minoranze, in Studi e note di economia, 1999, II, pag. 165) all’interno della sezione II del Capo II del TUF, distinguono prevalentemente due categorie fondamentali di norme: quelle che riconoscono diritti a qualsiasi socio; e quelle che riconoscono diritti ai soci qualificati da un quorum determinato. Nella prima categoria vi farebbero rientrare la disciplina del voto per corrispondenza (art.127); quella dell’informazione dei soci (art.130); del diritto di recesso in caso di fusioni e scissioni (art. 131). Nella seconda categoria rientrerebbe invece la disciplina della convocazione dell’assemblea su richiesta della minoranza (art.125); la denuncia al collegio sindacale e al Tribunale (art. 128); l’azione sociale di responsabilità; la costituzione delle associazioni di azionisti per la raccolta delle deleghe di voto (art. 141); la nomina dei sindaci di minoranza (art.148). Seguendo questa classificazione si può dire, in prima approssimazione, che la prima categoria sottende un concetto di socio di minoranza uti singulus, mentre il secondo quello di minoranza organizzata. Infine, c’è chi individua diverse categorie di strumenti di tutela, funzionalmente caratterizzate, che si articolano in: tutela patrimoniale (nuova disciplina delle opa; nuova disciplina delle azioni di risparmio); tutela diretta (es: nuovi strumenti di informazione diretta: art.130) e indiretta (es: strumenti di informazione indiretta: flussi informativi tra amministratori e collegio sindacale, ai sensi dell’art. 150); autotutela delegata (es: sindaco di minoranza. art. 148); autotutela diretta sia di minoranze qualificate sia di singoli azionisti (convocazione dell’assemblea, poteri di denuncia al collegio sindacale e al Tribunale, azione sociale di responsabilità). 13 A partire dai Fondi comuni negli anni ottanta a finire, recentemente, ai fondi pensione. 7 intensità e stabilità variabile contenuti in patti parasociali) e l’investitore istituzionale, il cui ruolo, come vedremo, appare suscettibile di evoluzione verso una funzione di controllo dell’operato dei gestori. Prendendo atto di questa frastagliata articolazione della figura dell’azionista di minoranza, non stupisce che le norme del TUF poste a tutela della minoranza, siano state valutate da taluno come volte alla tutela dell’azionariato diffuso, da altri come volte alla tutela di un gruppo di comando. La prima interpretazione muove dall’affermazione che le minoranze delle cui sorti il legislatore ha inteso curarsi rappresentano l’insieme degli azionisti investitori, che in ogni società quotata non fanno parte del nucleo, più o meno compatto, costituito dagli azionisti che detengono il potere di controllo. Il TUF cioè prenderebbe in considerazione gli azionisti di minoranza, anche e in via concettualmente preliminare “come cittadini di una comunità molto più ampia che è il mercato mobiliare”14. Sviluppando questa premessa, gli azionisti investitori appaiono tutti portatori ideali di uno stesso interesse, che è l’interesse alla valorizzazione del proprio investimento in un mercato trasparente. Secondo questa logica questo interesse tende a coincidere con l’interesse generale, condiviso da tutti i partecipanti al mercato mobiliare, a che lo stesso funzioni correttamente. Tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate e tutela del corretto funzionamento del mercato sono, secondo questo punto di vista, due facce della stessa medaglia, “due esigenze, due valori condannati ad essere perseguiti congiuntamente, perché esprimenti interessi largamente coincidenti”. Ne deriva come ulteriore corollario che l’interesse sociale “vero” è quello di tutti gli azionisti investitori in quanto tali. Tale interesse è presidiato e non insidiato dal principio della tutela delle minoranze e che, per altro verso, come evidenziato, tende a coincidere con l’interesse generale al corretto funzionamento del mercato. Sul fronte opposto, come accennato, non mancano le critiche alle nuove norme introdotte dal TUF per aver fallito proprio l’obiettivo della tutela delle minoranze intesa quale tutela degli interessi diffusi15. Analizzando questi istituti di tutela emerge come proprio su questo versante la riforma presenta le incertezze e i limiti più evidenti. Le norme dettate dalle minoranze appaiono frutto di un disegno riformatore ‘compromissorio’. Assicurare una maggiore funzionalità e stabilità al governo societario e, al contempo, promuovere una maggiore 14 Cfr. A. MAZZONI, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate, op. cit., pag. 487. Cfr. G. VISENTINI, Osservazioni sulla recente disciplina delle società azionarie e del mercato mobiliare, Spunti di riflessione sulla sensibilità democratica nella formulazione delle scelte politiche, in Riv. soc., 1998, pagg. 172 e ss., secondo il quale “il decreto delegato si occupa principalmente di tutelare il nocciolo di controllo (…)”. Presentare la nuova disciplina per le grandi società, come esclusivamente progettata a tutela delle minoranze, è dunque, secondo l’autore, “improprio e contraddittorio”. Altri autori, si veda per tutti C. ANGELICI, Le “minoranze” nel decreto 58/98: “tutela” e “poteri”, in Riv. comm., 1998, n.1, pagg. 207 e ss., arrivano alle medesime conclusioni, partendo dall’osservare come la scelta di tutelare le minoranze mediante l’attribuzione ad esse di “poteri” significa a ben guardare, negare tutela (o comunque fornirla in misura ben limitata) a chi è per così dire “razionalmente apatico”, come il piccolo azionista, per il quale i costi per una partecipazione attiva alla vita societaria eccedono in larga misura i vantaggi economici che gli potrebbero derivare. A detta dell’autore, quindi, non ha senso discorrere in maniera indifferenziata di tutela delle minoranze, ma occorre chiarire a quale tipo di minoranza il legislatore appresta effettiva tutela. Egli considera in primo luogo la nuova disciplina dell’azione sociale di responsabilità che in virtù dell’art. 129 può essere proposta da “tanti soci, iscritti da almeno sei mesi nel libro dei soci, che rappresentano almeno il cinque per cento del capitale sociale o la minore percentuale stabilita nell’atto costitutivo”. Per il piccolo azionista la strada più conveniente per reagire nei confronti di un’attività di gestione della società non condivisa, è quella c.d dell’exit. Risulterebbe economicamente irrazionale affrontare i costi per un’azione positiva, sia essa l’esercizio del diritto di voto oppure la proposizione di una domanda giudiziaria. Discorso inverso quando siamo di fronte invece ad una quota di partecipazione significativa (e tale deve considerarsi il 5% del capitale sociale). 15 8 partecipazione degli azionisti alle decisioni societarie e quindi una maggiore contendibilità delle società quotate, si è rilevato cosa non semplice. Proprio per questo il legislatore, nel dettare la disciplina dei vari istituti, ci è sembrato “costretto” a compiere scelte contraddittorie. A giustificazione c’è, è vero, la volontà di trovare un ‘non facile’ equilibrio tra una disciplina capace di stimolare la partecipazione alle decisioni societarie e regole tendenti a precluderne un uso strumentale, tuttavia la sensazione è quella che le regole “prudenti” che ne sono derivate, possano favorire, in ultima analisi, coloro che sono già detentori del potere16. 16 La disciplina del potere di convocazione dell’assemblea da parte dei soci di minoranza (art. 125 TUF), ad esempio, è una disciplina ‘di equilibrio’, in quanto si offre, al contempo, ai soci una maggiore protezione ed al gruppo di comando una garanzia di stabilità ed efficacia della gestione. Infatti, la possibilità per gli amministratori di vagliare la compatibilità della domanda dei soci alla luce dell’interesse sociale consente di contemperare le esigenze dell'intera compagine azionaria. La norma attribuisce ai soci un mero diritto a che il consiglio di amministrazione provveda in ordine alla propria istanza o, comunque, un diritto di convocazione ‘condizionato’, la cui efficacia è subordinata ad una valutazione di compatibilità della domanda con l’interesse sociale. Cfr. sul punto Cfr. P. MONTALENTI, Corporate governance: la tutela delle minoranze nella riforma delle società quotate, in Giur. Comm., 1998, pag. 330; per un quadro dell’istituto Cfr. D. FORMICHELLI, Commento all’art. 125, in Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, Giuffrè, Milano, 1998. Anche la disciplina dell’azione di responsabilità attivata dalle minoranze azionarie è frutto dello stesso compromesso tra l’esigenza di tutelare la società da eventuali ‘eccessi’ di sparuti gruppi di azionisti. Per questo, la facoltà di proporre direttamente l’azione è stata concessa a quei soci che diano sufficiente garanzia di serietà e prudenza, o perché titolari di una quota significativa di capitale oppure perché intenzionati a partecipare durevolmente alla società, come dimostra la loro avvenuta iscrizione nel libro dei soci. Quindi, se è indubbio, che la ratio della norma sia perfettamente in linea con l’esigenza di tutela delle minoranze, superando i limiti della disciplina dettata dall’art. 2393 c.c., è altrettanto vero che il legislatore, sempre per la paura di un utilizzo smodato della norma ad opera di minoranze ‘capricciose’ ed imprevedibili o di coalizioni azionarie costituite ad hoc, non si spinge ad attribuire la facoltà di azione anche al singolo azionista, indipendentemente dalla quota di capitale posseduta. Sul punto Cfr. F. CAPRIGLIONE, Azione sociale di responsabilità, in Commentario al Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria, (a cura di) G. ALPA- F. CAPRIGLIONE, II, Padova, Cedam, 1998, pagg. 1190 e ss; e R MAVAGLIA, Commento all’art. 129, in Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI,op. cit., pagg. 704 e ss. Una considerazione analoga può essere fatta relativamente ai quorum necessari per promuovere la denuncia al collegio sindacale ed al Tribunale. Le nuove soglie, infatti, possono risultare, se riferite a società con capitale frammentato, eccessivamente elevate per un’effettiva applicazione pratica dell’iniziativa. Sul punto Cfr. A. PATRONI GRIFFI, La denuncia al Tribunale ex art. 2409 c.c.. Gli interessi tutelati, in Le Società, 1998, pagg. 127 e ss; F. GUARRACINO, Denuncia al collegio sindacale e al Tribunale, in Commentario al Testo unico in materia di intermediazione finanziaria, (a cura di) G. ALPA- F. CAPRIGLIONE, II, op. cit., pagg. 1178 e ss. Relativamente all’introduzione del voto per corrispondenza, non va sottaciuto come esso sia stata accolta tutt’altro che favorevolmente da quella parte della dottrina preoccupata per i possibili riflessi dell’istituto sul ruolo e sulla funzione istituzionale dell’assemblea. Se, infatti, il diritto di voto postale consente il rispetto del principio maggioritario, non altrettanto può dirsi per il principio di collegialità. E’ fuori di dubbio, infatti, che l’esercizio del diritto di voto per corrispondenza impedisca l’instaurazione di un ‘contraddittorio’ tra il socio medesimo, gli altri soci e la società stessa, con conseguente limitazione del diritto di discussione spettante a ciascun azionista in sede assembleare. In tal senso Cfr. G. LAURINI, La disciplina delle assemblee di società quotate, in Giur. comm., 2000, pagg. 655 e ss. L‘ambiguità’ dell’istituto, che caratterizza le altre disposizioni dettate a tutela delle minoranze, è accentuata dal fatto che il voto per corrispondenza viene configurato dal legislatore non già come l’oggetto di un diritto ex-lege dell’azionista, ma come il portato di una clausola statutaria, assolutamente facoltativa, di necessaria approvazione da parte della maggioranza assembleare. Per un quadro dell’istituto Cfr. E. PAGNONI, Voto per corrispondenza, in Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, op. cit., pagg. 697 e ss. Relativamente alla raccolta di deleghe di voto, aver consentito all’associazione degli azionisti di votare in modo divergente, in conformità alle indicazioni espresse da ciascun associato, significa sminuire il peso e il valore dell’associazione, che, per costituire un reale contrappeso all’imprenditore-committente, dovrebbe, invece, esteriormente palesarsi come struttura compatta. Altrettanto criticabile è la scelta di consentire la raccolta delle deleghe anche nell’interesse di colui che le sollecita, che, nel caso sia il socioamministratore, prevedibilmente agirà in proprio personale favore, in palese conflitto di interessi con 9 Dall’analisi della nuova normativa emerge come, a ben vedere, il legislatore abbia, forse inconsapevolmente privilegiato l’esigenza di stabilità delle imprese, a scapito della auspicata tutela delle minoranze e dell’aumento della contendibilità. Tutto l’assetto regolamentare della riforma, di fatto, evidenzia questo spostamento dalla tutela del piccolo azionista all’investitore istituzionale, quale intermediario professionale fra il pubblico disorganizzato degli investitori e i destinatari finali dell’investimento. A questo punto è necessario chiedersi se le scelte operate dal decreto 58/98 possano servire, almeno indirettamente, alla tutela del risparmiatore-investitore. Alcuni studiosi ritengono, infatti, che proprio la presenza degli investitori istituzionali vada salutata con favore, poiché è l’unico modo per rompere la tradizionale l’azionariato diffuso, intenzionato a svolgere un controllo ‘deterrente’ sui gestori dell’impresa. E’ da chiedersi se, nella dialettica interna alle società, gli intermediari abilitati alla sollecitazione delle deleghe non finiranno col rappresentare un ulteriore ‘puntello’ all’uno o all’altro gruppo di controllo. Per un’ analisi dell’istituto Cfr. G. PRESTI, La nuova disciplina delle deleghe di voto, in Banca, Impresa, società, 1999, pagg. 35 e ss; E. PAGNONI- S. PROVIDENTI, Commento agli artt. 136-144, in Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, op. cit., pagg. 130 e ss. Anche dal riconoscimento dei patti parasociali, addirittura a tempo indeterminato, consegue lo stesso risultato. Lo scopo della legittimazione di tali patti deve essere ricercato, da un lato, nell’intento di creare un assetto organizzativo che accresca, all’interno della società, l’influenza di ciascun socio aderente al sindacato e, dall’altro lato, nell’intento di sfruttare tale assetto per assicurare stabilità, continuità e coerenza di indirizzo gestionale. D’altra parte, l’effetto di ‘cristallizzazione’ degli assetti di controllo societario non sarà efficacemente contrastato dalla facoltà di recesso, riconosciuta al socio aderente al sindacato, in caso di offerta pubblica di acquisto o di scambio. Per un’analisi dell’istituto Cfr. F. CHIAPPETTA, I patti parasociali nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, in Riv. soc., 1998, pagg. 988 e ss; R. COSTI, I patti parasociali, in Quad. dir. comm., 1998, pagg. 113 e ss. A favore della stabilità del controllo si spiega anche la disciplina complessiva delle partecipazioni incrociate. Infine, al dichiarato scopo di garantire le minoranze azionarie, si introduce l’obbligo di Opa totalitaria superato il 30% del capitale sociale. Tuttavia è evidente che, in tal modo, le scalate divengono più costose e le società meno contendibili. In tal senso Cfr. P. MONTALENTI, OPA: la nuova disciplina, in BBTC, 1999, pag. 54 e ss. Per un quadro della nuova disciplina in tema di OPA, si veda anche R. WEIGMANN, La nuova disciplina delle opa, in AA.VV., La riforma delle società quotate, Atti del Convegno di studio di Santa Margherita Ligure, 13-14 giugno 1998, pagg. 197 e ss; F. CARBONETTI, La nuova disciplina delle offerte pubbliche di acquisto, in Riv. soc., 2000, pagg. 1352 e ss; R. LENER, La nuova disciplina delle offerte pubbliche di acquisto e scambio, in Riv. dir. civ., 1999, II, pagg. 241 e ss; G. PRESTI, OPA: nuove regole in attesa di una riforma?, in Le società, 2000, pagg. 655 e ss; CANNELLA, art. 106, in La nuova disciplina delle società quotate, Commentario, (a cura di) Marchetti e Bianchi, I, Milano, 1999, pagg. 980 e ss. Le stesse conclusioni possono trarsi anche in ordine alla nuova disciplina dei quorum costitutivi e deliberativi delle assemblee straordinarie. L’art. 126 del T.U.F, riducendo i coefficienti azionari richiesti, risponde all’intento del legislatore di accrescere la funzionalità dell’assemblea straordinaria, facilitando l’adozione delle deliberazioni di sua competenza, ma questa disposizione, inserita in un mercato come quello italiano, caratterizzato dal diffuso assenteismo dei piccoli azionisti, si traduce di fatto nel rafforzamento della posizione degli azionisti di controllo, sicuramente più partecipi dei primi alle assemblee societarie, e avvantaggiati dalla previsione di un quorum deliberativo inferiore a quello precedente. Perplessità ulteriori, inoltre, suscita l’introduzione del c.d. ‘sindaco di minoranza’. Nonostante la previsione della riserva alla minoranza assembleare del potere di nomina di almeno un sindaco sia stata esaltata dagli autori della riforma, quale momento di particolare tutela della minoranza stessa, l’istituto appare di ‘peso’ scarsamente significativo, dubitandosi che i sindaci ‘di minoranza’ possano bilanciare adeguatamente le pressioni della maggioranza e costituire uno strumento di effettiva emancipazione del collegio dalla proprietà-controllante. Poco incisiva si presenta anche la disciplina dettata in materia di informazione dei soci. Gli studiosi che, nell’esaminare il T.U.F., hanno fermato la propria attenzione sull’art. 130 ‘Informazione dei soci’, non hanno potuto fare a meno di rilevare la singolare contraddizione tra “l’altisonanza della rubrica e il modesto contenuto precettivo della norma”. Sul punto Cfr. G. TERRANOVA, Commento all’art. 130, in Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, op. cit., pagg. 187 e ss. 10 passività dei piccoli azionisti e di mettere in moto iniziative che possono portare a cambiamenti significativi nel governo della società e, nel controllo della medesima17. Si potrebbe ritenere infatti che gli investitori istituzionali assumano il ruolo per così dire di enti esponenziali del risparmio diffuso, anche di quello da essi non gestito. C’è chi lamenta anzi che per lungo tempo, sia nel dibattito dottrinale, sia negli interventi del legislatore, non vi sia stata piena consapevolezza delle potenzialità derivanti dal possibile ruolo di “monitoraggio” e di incentivo al ricambio del controllo societario che gli investitori istituzionali potevano svolgere18. In realtà, già negli anni Sessanta vi era chi sottolineava come il problema della tutela delle minoranze fosse ancor più grave in quei sistemi (come il nostro) “dove non opera l’automatica provvidenziale garanzia rappresentata dai così detti azionisti istituzionali; enti cioè, istituzionalmente chiamati a investimenti azionari, che sono in molti Paesi i più qualificati, sensibili, agguerriti tutori dell’interesse dell’azionista”19. Solo di recente comunque è emerso con chiarezza come gli investitori istituzionali, se adeguatamente informati dai propri rappresentanti negli organi di governo della società, possano agire sul management professionale, in primo luogo tramite un dialogo ricorrente con il management stesso, che consenta un reciproco arricchimento di competenze e quindi un miglioramento decisionale; in secondo luogo tramite coalizioni occasionali tra di loro al fine di rimuovere, pur possedendo quote relativamente modeste, il management20. Il terreno dei rapporti tra investitori istituzionali e corporate governance, naturalmente non è privo di ostacoli. Si è posto l’accento anche sui rilevanti costi, in termini di acquisizione di informazioni e di adeguate competenze, legati all’attività di supervisione, così come è emerso il rischio di conflitti di interesse in grado di penalizzare i risparmiatori ed incidere negativamente sulle performance delle società partecipate21. 4. Apertura alla concorrenza, globalizzazione dei mercati finanziari, ossequio alle regole comunitarie hanno, come abbiamo precedentemente evidenziato, aperto la strada ad una massiccia privatizzazione. Si assiste al passaggio da un sistema ad economia mista, in cui lo Stato è proprietario di ampi settori di imprese, ad un’economia privatizzata, in cui gli obiettivi di politica economica vengono perseguiti non con la gestione diretta da parte dello Stato, ma da uno Stato soltanto “regolatore”, che si limita a dettare le regole generali cui le imprese, privatisticamente gestite devono 17 Cfr. L. ENRIQUES, Attivismo degli investitori istituzionali negli Stati uniti: una rassegna degli studi empirici, in Riv. Soc., 1998, pagg. 592 e ss; e A. IRACE, Il ruolo degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate, Milano, Giuffrè, 2001. 18 Cfr. R. COSTI, Il governo delle società quotate tra ordinamento dei mercati e diritto delle società, in Dir. Comm. Int., 1998, pag. 72. 19 Cfr. M. ROTONDI, Come fare e come non fare la riforma delle società per azioni, in Riv. dir.civ., 1965, I, pag.105. 20 Cfr. D. PREITE, Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, in Riv. soc., 1993, pag. 552. 21 Cfr. A. CORTESI e V. LAZZAROTTI, Lo “shareholder activism” e la tutela delle minoranze, in Riv. Dott. Comm., 1996, pagg. 811 e ss. Sicuramente gli interventi attuati col TUF volti a regolamentare il meccanismo della sollecitazione al conferimento di deleghe di voto (sez. III, capo II, titolo III della parte IV del TUF); a favorire l’aggregazione di piccoli azionisti ai fini della raccolta di deleghe al proprio interno (art.141); rimuovere vincoli civilistici (art. 2372, comma 4, c.c.) in ordine al rilascio di deleghe ad aziende e istituti di credito, non solo ai fini della sollecitazione al rilascio (art. 137), ma anche ai fini del conferimento di deleghe passive (art. 210); ad introdurre il voto per corrispondenza come facoltà generalizzata per tutte le società quotate (art. 127), si pongono tutti nell’ottica di eliminare i notevoli ostacoli all’esercizio di un ruolo di supervisione efficace da parte degli investitori istituzionali. 11 attenersi. Le disposizioni normative generali vengono specificate da disposizioni autoritative emanate da Authorities, vale a dire da Autorità amministrative indipendenti, dotate di poteri di vigilanza e controllo. Il T.U. 58/98 nasce in questo rinnovato contesto economico e culturale. Esso, come precedentemente sottolineato, da un lato riconosce maggiori spazi all’autonomia privata, ma dall’altra introduce anche norme di protezione degli interessi che giudica meritevoli di tutela. Non vieta, ma regola22. E lo fa, assegnando alla Consob ampi poteri regolamentari. Occorre ricordare che un peso indiscutibile sull’affermarsi dello Stato regolatore, l’ha avuto sicuramente la c.d rivolta del mercato contro l’amministrativizzazione dell’economia. Non è un caso, infatti, che il primo comparto a reagire è stato quello finanziario dove lo Stato al fine di garantire almeno la trasparenza, la stabilità degli operatori finanziari, la tutela dei contraenti più deboli, ha dovuto cambiare il suo modo di intervento23. Ha rinunciato alla direzione in favore di un intervento correttivo, lasciando il campo alla Consob24. Il Testo Unico della finanza in esame quindi si è limitato per molte materie ad indicare principi generali affidando ai regolamenti della Consob il compito di attuarli trovando di volta in volta le soluzioni più efficaci. Proprio sul processo di delegificazione, sul notevole rafforzamento dei poteri della Consob e dell’ampia discrezionalità regolamentare ad essa affidata dal D.lgs 58/98 sono sorte molte perplessità e sollevate anche vivaci critiche25. Alcuni commentatori, hanno parlato, con brutto neologismo, di “iperregolamentazione”26. La preoccupazione principale concerneva il chi avrebbe controllato che i regolamenti emanati da autorità indipendenti non avessero“tracimato” dai limiti fissati dalla legge, su chi avrebbe accertato che essi fossero conformi a legge ed ai principi generali dell’ordinamento. Osservazioni giustificate se si osserva che nella maggior parte dei casi la norma che abilita l’ente ad emanare il regolamento indica solo la materia e non anche i criteri, i limiti cui l’autorità stessa deve attenersi. Per l’importanza di alcune materie da disciplinare sarebbe dunque stata preferibile l’opzione legislativa. Altri, basandosi sul criterio guida della “tutela delle minoranze”, si chiedevano perché gli interessi degli investitori dovevano essere 22 Cfr. R. COSTI, Il Governo delle società quotate: tra ordinamento dei mercati e diritto delle società, in Dir. comm. internaz. 1998, pagg. 65 e ss. 23 Cfr. F. MERUSI, Considerazioni generali sulle amministrazioni indipendenti, in Lo Stato delle istituzioni italiane. Problemi e prospettive, Milano, Giuffrè, 1994, pag. 392. 24 Cfr. E. BANI, Stato regolatore e autorità indipendenti, in Diritto pubblico dell’economia, (a cura) di M. GIUSTI, Cedam, 1997, pag.19. 25 Critico in tal senso anche R. ROVERSI, Le regole sullo svolgimento delle offerte pubbliche di acquisto previste dal nuovo testo unico sulla intermediazione finanziaria, in Dir. Impresa, 1999, pag. 106, il quale soffermandosi ad analizzare le norme fondamentali in materia di OPA, contenute nel Cap II del titolo II (appello al pubblico risparmio) della parte IV del Testo Unico, tenta di delimitare l’estensione del potere regolamentare della Commissione, al fine di individuare quale fosse l’effettivo contenuto della “delega” attribuita alla Consob e quali le indicazioni del legislatore in merito alle concrete soluzioni che la Commissione avrebbe dovuto adottare in sede di definizione delle norme di attuazione. In primo luogo egli mette in evidenza l’ampiezza della delega relativamente alla regolamentazione delle modalità di svolgimento dell’offerta, tale da far sorgere qualche dubbio circa la sua legittimità. In secondo luogo, merita segnalazione l’approccio del legislatore che, a suo avviso, assai opportunamente, ha vincolato la Commissione all’adozione di determinate soluzioni in sede regolamentare: in particolare, sul delicato punto delle offerte concorrenti e del diritto del rilancio, è stata esclusa (art. 103 comma 4, lett. c TUF) la possibilità di prevedere limitazioni al diritto di rilancio, ferma l’esigenza di imporre un limite temporale massimo del periodo di offerta; rispetto alla sezione II (offerte pubbliche di acquisto obbligatorie), l’art. 112 attribuisce alla Consob il potere generale, e secondo l’autore eccessivamente generico, di dettare “con regolamento disposizioni di attuazione di tale sezione”. 26 Cfr. V. BUONOCORE, La riforma delle società quotate, in La riforma delle società quotate, Atti del convegno di studio di Santa Margherita Ligure, 13-14 giugno 1998, Milano, Giuffrè, 1998, pag. 46. 12 confinati in una disciplina di livello sub-primario o regolamentare e pur ammettendo, tenuto conto della pregressa esperienza in materia di mercati finanziari, che il potere regolamentare sarebbe stato esercitato dalla Consob “nel modo più acconcio”, auspicavano un ripensamento dell’intero sistema delle fonti: quali sono i valori e gli interessi di cui si debbono far carico le autorità indipendenti? La regolamentazione del mercato deve cioè essere affidata solo ed esclusivamente ad esse?27. Discutere sul ruolo primario assegnato alla Consob dal D.Lgs. n. 58/1998, significa anche dover esprimere una valutazione circa il sistema dei controlli delineato dallo stesso testo unico della finanza. Nella prospettiva di semplificazione e di maggiore incisività della funzione di controllo interno si collocano la nuova disciplina che affida il controllo contabile in via esclusiva ad un unico organo, la società di revisione, nonché gli accresciuti compiti e poteri di vigilanza assegnati alla Consob, che rappresentano nell’economia del nuovo testo unico l’essenziale strumento il cui adeguato impiego dovrebbe essere garanzia per gli investitori di risparmio nel capitale societario. I nuovi poteri di intervento e di vigilanza nei confronti degli organi di controllo affidati alla Consob dal TUF, contribuiscono al maggior rispetto da parte dei sindaci dei propri doveri. Numerosi, ad oggi, sono i casi rilevati dalla Consob che mettono in luce come i collegi sindacali abbiano iniziato ad utilizzare i poteri e gli strumenti loro assegnati dal TUF attraverso la segnalazione alla Consob delle irregolarità rilevate nell’operato degli amministratori e, nei casi più gravi, mediante l’attivazione dei poteri di denuncia al Tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c28. Non sono poi mancati i casi in cui 27 Cfr. G. ALPA, Qualche rilievo civilistico sulla disciplina dei mercati finanziari, in Scritti in onore di Pietro De Vecchis, Banca d’Italia, Roma, 2000, I, pag. 13. Poco prima dell’approvazione definitiva del testo del decreto legislativo, i poteri attribuiti alla Commissione di via Isonzo, erano stati giudicati da più parti eccessivi, al punto che qualcuno aveva parlato di “delega in bianco” data all’Authorithy. 28 Il Testo Unico, all’art. 149, stabilisce ex novo un obbligo di comunicazione alla Consob a carico del collegio sindacale della società quotata, introducendo così uno stabile raccordo informativo tra quest’ultimo e l’autorità di vigilanza. Il legislatore, come è stato giustamente osservato, non fa altro che generalizzare per tutte le società quotate, a prescindere dall’attività da esse condotta, un meccanismo finora presente solo in alcune normative di settore, come per le banche, le società assicurative ed una serie di altri soggetti. Cfr. P. VALENSISE, La disciplina del collegio sindacale, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate, (a cura di) A. PATRONI GRIFFI, M. SANDULLI, V. SANTORO, Torino, Giappichelli, 1999, pag. 1101. Tale norma ha fatto emergere , inevitabilmente, una questione di inquadramento sistematico dell’attività del collegio sindacale, o meglio di individuazione di interessi che quest’ultimo si trova a proteggere. In effetti se si esamina la disciplina del collegio sindacale e ci si domanda quali siano gli interessi affidati alla sua tutela, la risposta appare tutt’altro che agevole. A prima vista, in un tipo di società caratterizzato da un elevato numero di soci e da una rapida circolazione delle partecipazioni, l’istituzione di un organo deputato a controllare continuativamente la correttezza dell’azione amministrativa sembrerebbe rispondere “alla coerente idea di un meccanismo tutorio rigorosamente interno, predisposto in chiave sostitutiva di quel controllo individuale di cui l’azionista deve essere necessariamente espropriato”. Cfr. G. CAVALLI, Il controllo interno societario e gli interessi protetti, in Le società, 1998, p. 888 e ss. In tal senso il collegio sindacale sarebbe un organo preposto alla tutela dei diritti degli azionisti. Nel c.d. “sindaco di minoranza” parte della dottrina vede nelle minoranze azionarie i soggetti protetti dal controllo sindacale, sulla base del rilievo che i gruppi dominanti dispongono di ben più penetranti strumenti di riscontro ed appaiono in grado di formulare da sé ogni appropriato giudizio sull’andamento dell’impresa. E’ noto peraltro che questa visione in chiave “privatistica” delle funzioni del collegio sindacale non riscuote il consenso di larga parte della dottrina e della pressochè unanime giurisprudenza.Proprio dai rapporti del collegio sindacale con la Commissione di vigilanza sulla società e la borsa, regolamentati dal testo unico, emerge la tutelabilità diretta o mediata, da parte del collegio sindacale, di interessi che possiamo definire ‘extrasociali’. L’art. 149 del TUF, fa dunque emergere un riflesso pubblicistico dell’attività sindacale, istituendo un sistema di collaborazione informativa, nel quale il collegio assolve ad una funzione di “tramite” verso l’autorità di vigilanza. A quest’ultima spetta poi la valutazione delle notizie ricevute nonché l’eventuale conseguente adozione di ulteriori provvedimenti. Dalle suesposte considerazioni discende che i sindaci potrebbero e dovrebbero agire, di volta in volta, a difesa di interessi eteronomi: di quelli della società e delle minoranze azionarie, 13 la Consob ha dovuto esercitare i poteri di enforcement avendo rilevato irregolarità proprio nell’operato dei sindaci. Dopo un periodo di “rodaggio”, quindi, il sistema dei controlli delineato dal TUF inizia a mostrare i suoi effetti positivi e quindi, come è stato osservato29, si renderà necessario, anche in considerazione delle difficoltà che si incontreranno nella prima fase di attuazione della riforma del diritto societario, incentivare i rapporti di collaborazione tra la Consob e i collegi sindacali ovvero i nuovi organi di controllo endosocietario30. 5. La necessità di prestare attenzione anche alle problematiche delle società non quotate, allo scopo prioritario di attirarle sul mercato dei capitali, costituiva un passaggio cruciale per l’economia italiana. Come è stato autorevolmente affermato, anche in queste imprese, si pongono, a prescindere dalle dimensioni aziendali, esigenze ma anche degli interessi di tutti coloro che si trovano in qualche misura coinvolti dall’azione della società. Il dato saliente di queste proposte ricostruttive, al di là delle diverse modulazioni, sta nel superamento di una concezione che vede nei sindaci un semplice meccanismo di autotutela, per fare del collegio un organo deputato alla protezione di valori di vario tipo: sociali, misti ed extrasociali. Cfr. per tutti sull’art. 149 TUF F. PARRELLA , Commento sub artt. 148, 150 , 151, in Commentario al Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, (a cura di) C. RABITTI BEDOGNI, Giuffrè, Milano, 1998. 29 Cfr. M. TEZZON, Testo Unico della finanza: l’impatto della riforma ed il ruolo della Consob, in Giornale dei dottori commercialisti, 11 novembre 2002, il quale rileva come anche in Italia, infatti, dopo il caso Enron americano, ci si sia interrogati sull’affidabilità del sistema dei controlli. Il ministro dell’Economia e delle Finanze ha così costituito un’apposita commissione di studi presieduta dal prof. F. Galgano, con lo specifico scopo di esaminare l’idoneità dell’ordinamento interno a fornire al mercato una rappresentazione veritiera della situazione economia , finanziaria e patrimoniale delle imprese quotate. La commissione ha redatto una relazione finale in cui individua alcune carenze della normativa e raccomanda alcune modifiche normative. In particolare la Commissione ha espresso l’orientamento di massima che la fonte da preferire per gli interventi normativi segnalati sia costituita dai regolamenti Consob, mentre alla fonte legislative dovrà farsi riferimento quando si tratterà di modificare vigenti norme di legge oppure di regolare materie che esulano dai poteri normativi della Consob. La preferenza espressa dalla Commissione per i regolamenti Consob è stata motivata con la maggiore duttilità e con la maggiore capacità di rapido intervento di questa fonte di normazione. E’evidente, peraltro, che la Consob si trovi in posizione privilegiata per tradurre in precetti normativi le esigenze di tutela del mercato. In tale contesto, osserva conclusivamente l’autore, ovvia conseguenza è la necessità di rafforzare la struttura della Consob per far fronte ai nuovi compiti e alle nuove responsabilità alla stessa demandati. Al riguardo evidenzia come negli stati Uniti, per prevenire ulteriori situazioni di crisi come quelle che hanno investito la Enron e la World Com, si sia ritenuto indispensabile potenziare la Sec sia incrementando i suoi poteri sia dotandola di ulteriori risorse finanziarie, in parte da utilizzare per l’assunzione di personale ad alta professionalità. 30 Anche le società quotate, infatti, in virtù del nuovo D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, potranno optare, oltre che per il modello tradizionale a cui fa riferimento il Testo unico della finanza fondato su di un organo amministrativo e sul collegio sindacale, anche per il modello dualistico, articolato su di un consiglio di gestione che amministra la società sotto la propria responsabilità e su un consiglio di sorveglianza (che ha come compiti tra gli altri quello di nominare e revocare i componenti del consiglio di gestione, approvare il bilancio di esercizio e promuovere l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dei componenti del consiglio di gestione) o per quello monistico che si articola su di un consiglio di amministrazione nominato dall’assemblea e un comitato per il controllo sulla gestione, costituito all’interno del consiglio di amministrazione. La Consob ritiene fondamentale che le innovazioni in materia di amministrazione e controllo che verranno introdotte con la riforma del diritto societario non alterino in alcun modo i risultati raggiunti con il sistema dei controlli delineato dal Testo Unico della finanza. Per mantenere inalterati gli obblighi di trasparenza e correttezza sinora imposti alle società quotate, conseguentemente, si ritiene essenziale estendere, in quanto compatibili, le previsioni del Tuf concernenti il collegio sindacale anche agli organi di controllo sulla gestione e previsti dai nuovi modelli. Secondo Montalenti l’opzione fra diversi sistemi di gestione e controllo, è una “scelta condivisibile”, “potenzialmente foriera di circolazione di modelli e di regolatory competition”, ma che può comportare una “concorrenza ineguale” tra i diversi modelli. Cfr P. MONTALENTI, Gli amministratori, intervento al convegno di studio: Verso il nuovo diritto societario. Dubbi ed attese, Firenze, 16 novembre 2002, in corso di pubblicazione. 14 di ‘buon governo’31. Era indispensabile, dunque, varare nuove regole di Corporate Governance anche per le piccole e medie imprese, perlopiù a conduzione familiare32, per offrire alle stesse altre e nuove opportunità di espansione. Gli obiettivi del legislatore del 1998, infatti, al di là delle perplessità che si è avuto modo di esprimere nel corso di questo lavoro in ordine all’efficacia delle scelte compiute, sarebbero stati difficilmente raggiungibili senza un deciso intervento anche sulle piccole e medie imprese, che formano l’80% del tessuto economico italiano. Il ‘solco’ esistente tra società quotate e non, che il D.Lgs. 58/1998 ha accentuato, poteva, oltretutto, divenire paradossalmente, un disincentivo alla quotazione. In quest’ottica, gli studiosi italiani, prendendo anche spunto dalla disciplina vigente nell’ordinamento di altri Paesi, hanno elaborato, già alcuni anni fa, una distinzione nell’ambito delle società di capitale, fra società ‘aperta’ e società ‘chiusa’. Oggi la società ‘aperta’ non viene più individuata solo con riferimento alle società quotate, ma più in generale a tutte le imprese per cui è rilevante l’apporto del capitale esterno e per le quali, quindi, si pongono, indipendentemente dalla quotazione in Borsa, esigenze di efficienza della gestione, efficacia dei controlli sia interni che esterni, garanzia della possibilità di ricambio nella gestione. Partendo da questo dibattito dottrinale il progetto di riforma del diritto societario, elaborato dalla Commissione Mirone33 insediatasi all’indomani dell’approvazione della riforma Draghi, non ha avuto solo lo scopo di proporre la riduzione, se non la eliminazione, della rilevante differenza fra la disciplina dettata dal D.lgs. n.58/98 per le società quotate in mercati regolamentati e quella contenuta nel codice civile per le società per azioni non quotate, ma è stato motivato anche dall’intento di “svecchiare” l’ordinamento societario, ancora ancorato a principi desueti. L’intento della ‘Bozza Mirone’, è stato soprattutto quello di eliminare la vincolatività di molte regole organizzative, che inceppavano la gestione delle imprese, e quello di sostituire regole più snelle che permettessero alle società di adattarsi rapidamente alle mutevoli esigenze del mercato. In questo contesto riformatore, il progetto indicava, infatti, come essenziale criterio che doveva guidare la concreta elaborazione delle nuove norme, la concezione della società di capitali come soggetto gestore di impresa e quindi bisognoso di una disciplina semplice ed elastica della propria organizzazione e dei modi di formazione delle proprie decisioni. All’esito di questa riforma34, va sottolineato come sia stato esaltato l’aspetto dell’autonomia statutaria, intesa come potere dei soci di elaborare regole di organizzazione e funzionamento adatte al tipo di attività economica svolta dalla società35. L’impostazione adottata sembra quella diretta a sostenere l’idea secondo cui il 31 Cfr. A. GAMBINO, Verso la riforma delle società per azioni non quotate, in Riv. soc., 1998, p. 1585. Cfr. G. BRUNETTI, Stato e prospettive di governance nelle medie imprese familiari, intervento al Convegno di studio su “Le nuove funzioni degli organi societari: verso la Corporate Governance?”, Courmayeur, 28-29 settembre 2001. 33 L’insediamento della Commissione Mirone (Commissione mista Giustizia-Tesoro) è avvenuto il 30 luglio 1998. La commissione rivisitando la disciplina di tutte le società non quotate (anche di quelle che non fanno appello al pubblico risparmio) ha dato vita ad uno schema di disegno di legge, approvato e trasfuso nella legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, avente quale obiettivo primario quello di favorire la nascita, la crescita e la competitività tra le imprese, anche attraverso il loro accesso ai mercati interni ed internazionali di capitali. 34 Con la pubblicazione del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 “Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative” e del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 “Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia”, emanati in attuazione della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 22 gennaio 2003, n. 17, supplemento ordinario n. 8. 35 Come afferma lo stesso Michele VIETTI in Flessibilità e trasparenza, sulla Guida Normativa del Sole 24 ore, febbraio 2003, pag. 4, “Nella riforma è prevalsa una concezione dell’autonomia privata, forse 32 15 legislatore dovrebbe limitarsi a dettare modelli dispositivi, affidando all’autonomia privata l’introduzione di strumenti di protezione degli interessi coinvolti, in particolare di tutela delle minoranze in termini di informazione, di monitoring, di voice e di exit36. Il “mercato delle norme statutarie” dovrebbe selezionare positivamente le regole più protettive per risparmiatori/investitori, attraendo i capitali nelle società che abbiano adottato strumenti di corporate governance più avanzati. In ogni caso appare però difficile immaginare, anche in linea di principio, un rapido e spontaneo passaggio a comportamenti più attivi di protezione dell’investimento attraverso l’utilizzazione di strumenti endosocietari messi a disposizione degli investitori stessi. Il legislatore italiano, come emerge dal testo unico del 1998, ha seguito una strada parzialmente diversa e maggiormente equilibrata, riassumibile nella predisposizione di norme inderogabili, che possono essere però modificate dall’autonomia statutaria in melius, cioè in funzione maggiormente protettiva delle minoranze azionarie37. Anche quella scelta pur rivelandosi equilibrata, allo stesso tempo, è stata, forse, eccessivamente ottimistica sotto il profilo dell’auspicato intervento migliorativo da parte dell’autonomia statutaria38. Allo stato attuale, infatti, le maggiori società quotate si sono limitate a recepire il nucleo minimo inderogabile delle regole legislative. Alla luce di tale esperienza, una riforma organica in materia di società di capitali e di società cooperative, non avrebbe forse dovuto, come è stato giustamente osservato, nutrire eccessiva fiducia nell’autonomia statutaria come strumento di introduzione delle regole ottimali, quanto meno sotto il profilo degli strumenti di protezione delle minoranze39. Soltanto per le società “aperte”, che fanno ricorso al mercato dei capitali, si prevede l’introduzione di norme inderogabili a tutela delle minoranze. Per queste società il legislatore della riforma sembra, dunque, voler ripercorrere le tracce della riforma Draghi40. più matura ed adeguata ai tempi: una concezione che nasce sul presupposto di una sussidiarietà della regola rispetto al libero dispiegamento degli interessi, con la precisazione, tuttavia, che la regola si giustifica ed ha senso solo se assolve alla funzione di tutela degli interessi fondamentali della comunità e se la tutela di tali interessi possa essere realizzata con mezzi tecnici che rendano non illusoria la loro protezione e non eludibile il precetto che ne diventa patrono”, 36 Non c’è dubbio che la legge delega in attuazione della quale sono stati elaborati i decreti legislativi di riforma, spingendo per l’autonomia statutaria, abbia aderito alla tendenza, proveniente dal sistema americano, per un sostanziale rifiuto, per chi partecipa al mondo degli affari, di una tutela paternalistica proveniente dagli stati. Si veda in tal senso R. WEIGMANN, I diritti delle minoranze, intervento al Convegno di studio di Como “La Corporate Governance nelle società non quotate”, in Quad. giur. comm., 2001, n. 227, pag. 13. 37 Così è, come abbiamo visto, per i quorum assembleari, per le percentuali di possesso qualificato ai fini delle denunce al collegio sindacale e al Tribunale, per l’esercizio sociale di responsabilità, da parte della minoranza. 38 Anzi, là dove il legislatore consentiva soluzioni meno incisive, è su questa linea che le società quotate si sono attestate. E’ l’ipotesi del collegio sindacale, rispetto alla quale si è optato per il numero meno elevato di componenti (tre anziché cinque), presumibilmente per sterilizzare il potere di convocazione dell’assemblea da parte dei sindaci designati dalle minoranze. 39 In tal senso P. MONTALENTI, La riforma del diritto societario nel progetto della Commissione Mirone, Giur. comm., I, 2000, pagg. 385 e ss. e R. WEIGMANN, op. cit., pag. 16, nt. 37, secondo il quale le osservazione esposte ci porterebbero “a rivalutare il ruolo del paternalismo, anche se l’opportunità di introdurre in un ordinamento leggi protettive per i soci di minoranza viene ora scossa dall’instaurarsi di una concorrenza fra gli stati, come offerenti di regole societarie. Considerata, comunque, la scarsa propensione dei privati a rafforzare i diritti delle minoranze”, egli osserva, “come fosse raccomandabile l’idea di imporre necessariamente alcune tecniche di tutela, purchè efficaci”. 40 Analizzando la legge delega, risulta evidente come il grado di autonomia statutaria della disciplina diminuisca con l’aumentare del ricorso dell’ente societario al mercato dei capitali. Per la società per azioni si prevede, infatti, una disciplina obbligatoria relativamente alla sua organizzazione, che assume particolare rigidità nelle società che fanno ricorso al mercato dei capitali. Per queste si dispone che il 16 Il problema, invece, resta aperto per la società a responsabilità limitata, per le quali la legge delega si era espressamente prefissa, come principio generale di “prevedere un’ampia autonomia statutaria” (art. 3, comma 1, lett.b), che doveva spaziare da tutte le “strutture organizzative”, ai “procedimenti decisionali”, agli “strumenti di tutela degli interessi dei soci, con particolare riferimento alle azioni di responsabilità”, al “contenuto”, e non solo al “trasferimento” della “partecipazione sociale”, al “recesso”. Analizzando in particolare gli interventi normativi sulle nuove S.r.l, nell’ottica di una maggiore semplificazione e di una maggiore libertà di scelte organizzative, è da interpretarsi anche l’eliminazione del giudizio di omologazione, così come la semplificazione sul sistema dei controlli. Dai dati testuali della legge delega emerge che mentre per le società per azioni l’invito ad ampliare gli ambiti di autonomia statutaria è temperato da un perentorio “tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti”, per le società a responsabilità limitata non vi sono altrettanto precisi ed espliciti limiti. E’ stato allora osservato, come il silenzio della norma, segnala che la società a responsabilità limitata abbia “per così dire” minori contatti con interessi esterni e quindi la sua disciplina possa prevedere più decisamente un programma di valorizzazione dell’autonomia statutaria. In sostanza “il mondo della società a responsabilità limitata, più circoscritto e più appartato, meno variegato quanto ad interessi sottesi, può sicuramente prestarsi ad una disciplina meno intricata ed ad un ambito dell’autonomia statutaria più ampio di quello della società per azioni”41. In una società come la srl non vocata alla presenza di soci che siano puri investitori, la tutela dei soci non poteva avere carattere imperativo. Ci si chiedeva comunque, se, sia a protezione dei terzi, sia a protezione degli eventuali investitori, non si fosse dovuto stabilire, anche con riferimento a tale modello, nuclei minimi di norme inderogabili, o quanto meno, se non fosse necessario prevedere un modello dispositivo di riferimento da cui l’autonomia statutaria potesse discostarsi in misura precisata42. A seguito delle suesposte considerazioni, occorre, a questo punto, porsi, come ha già fatto prima di noi un autorevole studioso della materia43, una domanda “preliminare”: “quali sono i motivi per i quali, con riferimento alle società non quotate e controllo sulla contabilità, da affidare a un revisore esterno, debba essere separato da quello sulla gestione; che l’azione sociale di responsabilità sia consentita ad una minoranza di soci; che le assemblee straordinarie decidano con maggioranze qualificate a tutela della minoranza dei soci, ed, infine, che sia prevista la legittimazione del collegio sindacale a ricorrere direttamente al tribunale per denunciare le gravi irregolarità in cui siano incorsi gli amministratori. Tuttavia, sia per le società che ricorrono al mercato dei capitali, sia per le altre che non lo facciano, si prevede spazi di autonomia statutaria, che pur non essendo così ampi come quelli riconosciuti alla società a responsabilità limitata, sono ugualmente importanti 41 In una società che è ‘affare’ dei soci che direttamente la gestiscono, con il minimo di forme indispensabili, ed in un regime di piena autonomia statutaria, secondo alcuni, non vi è necessità di un controllo legale dei conti affidato al collegio sindacale. Certamente, nel caso della società ‘chiusa’, che adotta il tipo giuridico della S.r.l. e che non supera determinate dimensioni, le esigenze di tutela di interessi extrasociali di cui abbiamo parlato e di cui i sindaci si fanno garanti, sono minori. Inoltre , a giustificazione di tale autonomia, si afferma che in tali società il socio è tendenzialmente anche amministratore ed in ogni caso è posto in condizione di controllare direttamente la gestione, in modo non molto diverso da quanto avviene nelle società di persone. Cfr. sul punto V. DI CATALDO, La società a responsabilità limitata, intervento al Convegno di studio di Como su “La Comportare Governance nelle società non quotate”, in Quaderni di Giur. Comm., 2001, n. 227, pag. 36 e ss. 42 Cfr. P. MONTALENTI, op. cit., pag 389, nt. 39. In tal senso anche BELCREDI, La corporate governance delle società non quotate, in Mercato, concorrenza, regole, 2000, II, pagg. 384 e ss. 43 Cfr. C. ANGELICI, La tutela delle minoranze azionarie, intervento al Convegno di studi di Alba, Dalla riforma Draghi alla riforma delle società non quotate, 28 novembre 1998, in Le società, 1999, pagg. 781 e ss. 17 a società per le quali, come osservato, non vi è un diretto rapporto con il mercato e neppure un’esigenza di tutela di investitori anonimi, vi sia comunque l’esigenza di tutelare le minoranze?” Allontanando suggestioni di tipo moralistico occorre considerare solo se vi sia un’esigenza e una utilità alla tutela delle minoranze. Una prima risposta che viene data è che per le società non quotate non vi è un mercato esterno relativo alle partecipazioni, per cui i diritti dei soci, per definizione, sono difficilmente negoziabili, o meglio sono negoziabili solo tra i soci. Questo rende indispensabile che all’allocazione dei diritti provveda, almeno in parte, l’ordinamento in via imperativa44. Sotto il profilo delle regole sostanziali di tutela, proprio la sostanziale difficoltà nelle società non quotate di perseguire da parte dei soci di minoranza la via dell’exit, avrebbe allora dovuto suggerire qualche cautela in più nell’affidarsi integralmente all’autonomia statutaria45. Ad oggi il recente decreto legislativo recante “La riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative”, emanato in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366, introduce alcuni innovativi interventi in tal senso, ma essi saranno suscettibili, se non saranno mortificati da letture interpretative restrittive, di apprestare una sufficiente tutela? Il decreto legislativo di riforma per esempio innova sotto molti profili la preesistente disciplina in tema di responsabilità di amministratori e sindaci46. Particolarmente significativi sono inoltre gli interventi sul tema del ruolo assegnato ai soci di srl ed alle loro decisioni nell’attività sociale. In considerazione della struttura personalistica del tipo societario, la regola di principio è che spetta al contratto sociale determinare quali materie siano di competenza dei soci, ma che qualsiasi materia può essere sottoposta alla loro valutazione quando richiesto dagli amministratori o da un numero qualificato dei soci stessi (primo comma dell’art. 2479).47 44 Cfr. M. RESCIGNO, La corporate governance nelle società non quotate, intervento al Convegno di studio di Como su “La Corporate Governance nelle società non quotate”, in Quaderni di Giur. comm., 2001, n. 227, pag. pag. 71 e ss, in cui egli osserva come manca cioè nelle società non quotate la caratteristica propria della corporate governance delle società quotate: la quotazione in borsa delle società dà, infatti, ai soci di minoranza-investitori due possibilità di reazione al mancato accoglimento delle richieste di inserimento di regole statutarie di corporate governance, e cioè la c.d voice (la protesta) e l’exit, da intendersi come l’uscita dal capitale della società, grazie alla normale liquidabiltà dell’investimento. 45 In tale prospettiva taluni avevano suggerito, elencandoli, possibili strumenti normativi di tutela suscettibili di formare oggetto di un intervento legislativo, Cfr. M. RESCIGNO, op.cit. , pag. 71 e ss, nt. 45. 46 Con riferimento alle azioni di responsabilità occorre distinguere la disciplina dettata dal legislatore con riferimento alle spa e con riferimento alle srl. La disciplina dell’azione sociale di responsabilità nella s.p.a (“aperta”) sembra ripercorrere sostanzialmente la strada tracciata dal TUF per le società quotate (art. 129) con l’attribuzione dell’azione ad una minoranza qualificata. Con riferimento all’azione di responsabilità nelle società a responsabilità limitata: la tutela in proposito riconosciuta ai soci dall’art. 2476 c.c. si impernia sul principio secondo il quale, sulla base della struttura contrattuale della società, ad ogni socio è riconosciuto il diritto di ottenere notizie dagli amministratori in merito allo svolgimento degli affari sociali e di procedere ad una diretta ispezione dei libri sociali e dei documenti concernenti l’amministrazione della società. Da questa soluzione consegue coerentemente il potere di ciascun socio di promuovere l’azione sociale di responsabilità e di chiedere con essa la provvisoria revoca giudiziale dell’amministratore in caso di gravi irregolarità (art. 2476 c.c, terzo comma). Come si legge dalla relazione allo schema di decreto legislativo “si tratta di una disciplina che corrisponde alla prospettiva secondo cui viene accentuato il significato contrattuale dei rapporti sociali”(Cfr. Relazione a pag. 103). Sulla base di questa soluzione si è escluso per le società a responsabilità limitata l’assoggettamento alla procedura ex art. 2409 c.c., considerandola superflua e in buona parte contraddittoria con il sistema. 47 Spetta, in sostanza, al contratto sociale distribuire le competenze tra soci e amministratori, mentre nel secondo comma dell’art. 2479 c.c. si sono soltanto individuate alcune materia che data la loro particolare rilevanza non possono essere statuariamente sottratte alla competenza dei soci. Anche quando comunque 18 Altro significativo aspetto toccato dalla riforma è quello concernente la disciplina del recesso48. Con riferimento ai controlli sui conti nelle società a responsabilità limitata la scelta operata dal decreto legislativo è quella di conservare la soluzione prevista dall’art. 2488 del codice civile, secondo la quale è obbligatoria la nomina del collegio sindacale quando il capitale sociale non è inferiore a quello minimo previsto per le società per azioni oppure vengono superati i limiti dimensionali dell’impresa individuati dall’art. 2435 bis del codice civile. Come si legge nella relazione allo schema di decreto legislativo “si è ritenuto infatti che l’utilizzazione di altri parametri, come per esempio quelli relativi alle dimensioni del patrimonio netto o dell’indebitamento, in buona parte disponibili da parte dei soci, non fosse in grado di conseguire l’obiettivo di assicurare una effettiva tutela agli interessi che si vogliono salvaguardare”. Per quanto concerne la designazione dei sindaci ad opera della minoranza, cosiddetto “sindaco di minoranza”, importante elemento di novità previsto dal TUF, nel nuovo decreto di riforma non v’è traccia alcuna, neppure limitatamente alle società che fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio. In questo modo, poiché al collegio sindacale delle società quotate continueranno ad applicarsi le disposizioni del TUF (estese in quanto compatibili, al consiglio di sorveglianza ed al comitato di controllo interno49), e poiché l’idea di un sindaco designato dalla minoranza che “ficchi il naso nella gestione della società”50 è una di quelle che tradizionalmente più disturbano i soci di maggioranza, si rischia di generare un ulteriore disincentivo alla quotazione. Sempre in tema di tutela delle minoranze è, infine, necessario accennare alla disciplina dei gruppi, questione non affrontata dalla precedente riforma Draghi51, e che in ordine alla presente trattazione assume un’importanza significativa. la competenza dei soci è inderogabile, d’altra parte, è rimessa all’autonomia privata l’adozione del metodo assembleare: solo limite insopprimibile è rappresentato dall’esigenza, dettata per ragioni di certezza, che siffatte decisioni risultino da atto scritto. E’ apparso comunque opportuno imporre un ulteriore limite: la riunione assembleare è necessaria per le decisioni che alterano significativamente la struttura della società e la posizione dei soci. 48 Per le società a responsabilità limitata la nuova disciplina è contenuta nell’art. 2473 c.c. Essa comporta, come già si prevede nell’art. 2437 c.c. per le società per azioni dove si dà allo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato dei capitali la possibilità di prevedere “ulteriori cause di recesso”, un rilevante ampliamento delle ipotesi attualmente previste. Si amplia così quello che in questi tipi di società risulta concretamente lo strumento più efficace di tutela per il socio. Con riguardo alle srl la normativa di riforma introduce, inoltre, la facoltà statutaria finora sconosciuta, di prevedere l’esclusione del socio. 49 La Consob si è adoperata affinché nello schema di decreto legislativo sulla riforma del diritto societario, fosse inserita una specifica norma di coordinamento tra la disciplina del Testo Unico della finanza concernente il collegio sindacale e i nuovi modelli di amministrazione previsti dalla riforma. Nello schema è presente l’articolo 223 septies , secondo comma , con la quale è stato precisato che “ogni riferimento al collegio sindacale o ai sindaci presenti nelle leggi speciali è da intendersi effettuato anche al consiglio di sorveglianza e al comitato per il controllo sulla gestione o ai loro componenti, ove compatibile con le specificità di tali organi”. La norma di coordinamento non fa riferimento solo alla disciplina sui sindaci delle società con azioni quotate prevista dal Testo unico della finanza, ma genericamente, ad ogni legge speciale nella quale sia presente un riferimento ai sindaci o al collegio sindacale. La soluzione scelta, pertanto, richiederà un attento e delicato lavoro interpretativo per valutare la compatibilità delle singole norme del TUF con le specificità dei nuovi organi. Conseguentemente, occorrerà un’attenta attività interpretativa volta a conservare un’analoga tutela delle minoranze. 50 In tal senso R. RORDORF, I controlli, intervento al Convegno di studio “Verso il nuovo diritto societario. Dubbi ed attese”, Firenze- 16 novembre 2002, in corso di pubblicazione. 51 Benché la legge delega contenesse un espresso riferimento alla materia, chi scorra, anche rapidamente il ponderoso D.lgs. n.58/98 inutilmente andrà a cercare anche una sola norma dedicata alla disciplina organica dei gruppi. Se di “dimenticanza” si può parlare, si tratta senza dubbio di una grave dimenticanza, sia per la diffusione del ‘gruppo’ sia per la sua potenziale pericolosità per le minoranze azionarie. Sono proprio i ‘pericoli’ insiti nel fenomeno, infatti, che rendono necessaria una rigorosa regolamentazione della materia. Risale al 1942 la scelta di non dettare una normativa specifica per il ‘gruppo societario’. 19 E’ stato lo Schema predisposto dalla Commissione Mirone a prestare finalmente attenzione al fenomeno dei gruppi societari. Peraltro nel progetto venivano lasciati aperti problemi di fondo. Infatti la formula usata nell’art. 9 lett.a), poi confermata nell’art. 10 della legge delega n. 366, secondo cui i principi e i criteri direttivi a cui la riforma deve ispirarsi in materia di gruppi consistono, tra l’altro, nella previsione di una disciplina del gruppo “tale da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime”, è formula che è stata giudicata di un tenore molto generico, suscettibile di letture notevolmente diverse tra loro da parte del legislatore delegato. In ogni modo, il fatto che il Progetto Mirone confermasse una tendenza a riconoscere la possibilità di ingerenze nella gestione della società del gruppo, poneva anche l’esigenza di introdurre correttivi idonei a fronteggiare i rischi di abusi che tali ingerenze potevano implicare. Un primo correttivo è rappresentato dalla previsione di forme di pubblicità dell’appartenenza al gruppo (art. 9 lett. c) del Progetto Mirone e art. 10 lett. c) legge delega n. 366) e dalla prescrizione secondo cui la disciplina del gruppo deve essere improntata a principi di trasparenza52. Nell’attuare la delega lo schema di decreto legislativo approvato dalla Commissione Vietti ha optato per non dare o richiamare una qualunque nozione di gruppo o di controllo. Con tale schema si afferma per la prima volta un principio generale di responsabilità di chi a qualunque titolo esercita l’attività di direzione e Indubbiamente, nel diritto italiano sono presenti delle norme che ne regolano specifici aspetti e che perlopiù attengono al controllo societario, ma si tratta di disposizioni che non permettono di enucleare principi elevabili a sistema (Tutto ciò non vale per il fenomeno del ‘gruppo’ nel settore bancario, che con il D.Lgs. 385/1993 ha ricevuto una disciplina specifica. Sull’argomento, si rinvia a P.G. JAEGER.P.MARCHETTI, Profili di disciplina del gruppo creditizio, in Quaderni giuridici dell’impresa, n. 1/1991, p. 5 e R. SACCHI, Sui gruppi nel Progetto Mirone, in Giur. Comm., 2000, pagg. 358 e ss.). Il legislatore del 1998 avrebbe potuto scegliere fra due possibili linee di azione: introdurre, predisponendo una disciplina ad hoc, una nozione sostanzialmente innovativa, facendo ricorso al concetto di ‘direzione unitaria, per cui propendeva una parte della dottrina. Cfr. G. ROSSI, Il fenomeno dei gruppi e il diritto societario: un nodo da risolvere, in Riv. Soc., 1995, p. 1040 che ritiene che tale locuzione correttamente qualifichi un potere che viene attuato attraverso una pluralità di modalità e di strumenti); oppure riferirsi al ‘controllo’, mantenendo uno stretto legame tra il concetto di gruppo e quello di controllo, cui si indirizzava altra parte della dottrina, nella convinzione che l’individualismo delle singole società appartenenti al gruppo non fosse in alcun modo superabile. In entrambe i casi, la necessaria contropartita avrebbe dovuto risolversi nell’offerta di maggiori garanzie per i soci di minoranza. Il legislatore ha optato per la seconda soluzione e, pur non facendo alcun riferimento ai gruppi societari, ha dettato un’ampia definizione di ‘controllo’ all’art. 93 del TUF. Ha assunto in tema di gruppi, per meglio dire, un atteggiamento ‘neutrale’, scegliendo di non dare peso alla strutturazione dell’attività economica, in forma di gruppo societario o di società divisionalizzata, e limitandosi esclusivamente a definire il concetto di ‘controllo’, eliminando da tale definizione qualsiasi riferimento al gruppo per evitare probabilmente un’immediata connessione tra gruppo e controllo. Forse, ha colto nel segno un autorevole Autore nell’aver affermato che i tempi non erano “ancora maturi per incidere sul regime di responsabilità e quindi sulla struttura giuridica stessa del gruppo”, né per estendere a tutte le imprese una disciplina che tutelasse la stabilità del gruppo sul modello del gruppo bancario. Così A. GAMBINO, Governo societario e mercati mobiliari, in Giur. comm., 1997, I, pag. 798 52 L’art. 10 della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 in particolare recita: “La riforma in materia di gruppi è ispirata ai seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere una disciplina del gruppo secondo principi di trasparenza e tale da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime; b) prevedere che le decisioni conseguenti ad una valutazione dell’interesse del gruppo siano motivate; c) prevedere forme di pubblicità dell’appartenenza al gruppo; d) individuare i casi nei quali riconoscere adeguate forme di tutela al socio al momento dell’ingresso e dell’uscita della società dal gruppo, ed eventualmente il diritto di recesso quando non sussistono le condizioni per l’obbligo di offerta pubblica di acquisto”. 20 coordinamento53. Il limite all’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, limite che ne riconosce la legittimità di base, è apparso essere costituito dal rispetto dei valori essenziali da tutelare da individuarsi nei principi di continuità dell’impresa sociale, redditività e valorizzazione del “bene” partecipazione sociale. La responsabilità dettata da questa impostazione normativa è fondamentalmente di stampo “aquiliano”, e necessariamente della controllante direttamente verso i danneggiati ed il danno a base dell’azione è quello derivante dal risultato complessivo dell’attività della controllante. In tale impostazione, come è stato osservato nella relazione allo schema del decreto legislativo, “la pubblicità prevista dall’art. 2497 bis appare una logica necessità”54. 6. In sintesi uno dei principali leitmotiv del diritto societario italiano, che sta vivendo una stagione di radicali mutamenti, è quella della “tutela delle minoranze”, da elevare a strumento indispensabile per agevolare l’afflusso di capitale verso le imprese, garantendone così lo sviluppo. Il disegno riformatore, iniziato con la Legge Draghi (D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), proseguito con i lavori della Commissione Mirone, concretizzatosi con l’approvazione della delega per la riforma del diritto societario (L. 3 ottobre 2001, n. 366) e della nuova disciplina penale commerciale, ed ora giunto a termine, si è, infatti trovato a dover affrontare, tenendo conto di una vasta gamma di strumenti e di interessi in gioco, il tema complesso del rapporto tra tutela delle minoranze e corporate governance. Compito difficile, nel quale occorreva coniugare autotutela ed eterotutela, norme imperative ed autonomia statutaria. Per le società quotate la riforma Draghi non ha optato per ridurre significativamente le aree soggette a inderogabilità, ma ha invece mantenuto, da un lato, la inderogabilità delle norme ritenute imprescindibili rispetto al fine di tutelare le minoranze, dall’altro, la suppletività della disciplina legale là dove si è ritenuto che potessero essere le stesse clausole statutarie a dettare regole volte ad elevare la soglia di protezione legale delle minoranza (e ciò in tema di tecniche di funzionamento e caratteristiche soggettive del collegio sindacale, di rapporti con l’organo amministrativo, di azioni di risparmio, di reazione all’opa ostile, di partecipazioni reciproche, di voto per corrispondenza, di deroghe a regole di legge come per i quorum assembleari). La riforma Draghi si pone, dunque, come una tipica espressione della funzione, al contempo tradizionale e moderna dello “Stato regolatore”, che si manifesta con interventi ‘indiretti’ nell’economia, abbandonando ogni finalità dirigistica e quindi segnando un’inversione di tendenza rispetto alla precedente riforma del 1974. Il T.U. 58/98 non vieta, ma lasciando ampi spazi all’autonomia privata, regola, introducendo norme di protezione degli interessi che giudica meritevoli di tutela. E per regolare investe la Consob di ampi poteri regolamentari. Da qui, basandosi sul criterio guida della tutela delle minoranze, è stato anche sollevato il dubbio di una concentrazione di “troppo” potere nelle mani della Consob. “Perché gli interessi degli investitori debbono essere confinati in una disciplina di livello sub-primario o 53 La Relazione governativa afferma espressamente che il problema centrale del fenomeno del gruppo è quello della responsabilità della controllante nei confronti dei soci e dei creditori sociali della controllata. A tal fine si è posto a base della disciplina il “fatto” dell’esercizio di attività di direzione e coordinamento di una società da parte di un diverso soggetto, chiunque esso sia, e qualunque sia il titolo per cui il soggetto esercita questa attività. 54 Appare altresì coerente all’impianto generale della nuova normativa attenta a prevedere regole di trasparenza, la previsione che le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento siano analiticamente motivate (2497-ter). Si è infine riconosciuto all’art. 2497 quater “nel quadro di una concezione generale del recesso che vi riconosce l’attribuzione al socio di un potere di negoziare la sua permanenza in società davanti ad alterazioni rilevanti del quadro originario”, il diritto di recesso del socio. 21 regolamentare?” è stata infatti la domanda che alcuni si sono posta, alla vigilia della approvazione definitiva del testo del decreto legislativo. Nelle società non quotate, invece, dove si pongono esigenze di tutela non meno importanti rispetto a quelle proprie delle società quotate, l’elaborazione di un appropriato sistema di corporate governance è, come abbiamo osservato, per alcuni versi più complessa: all’esigenza di assicurare l’efficienza e la correttezza della gestione sociale a tutela dei soci estranei al gruppo di controllo, attraverso la predisposizioni di strumenti in parte diversi, si affianca, infatti l’esigenza di favorire lo sviluppo e la crescita delle piccole e medie imprese attraverso una maggiore libertà e quindi minori oneri nella gestione. Tutto ciò comporta dover porre una maggiore attenzione alla ricerca di un equilibrio tra la tutela imperativa offerta dalla legge ai soci di minoranza e l’apertura a formule pattizie di regolamentazione degli interessi in gioco. Il ragionamento seguito dagli autori del Progetto Mirone, fatto proprio dalla legge delega 366, è stato quello di adeguare la disciplina dei modelli societari “alle esigenze delle imprese, anche in considerazione della composizione sociale e delle modalità di finanziamento”. La miscela fra autonomia e norme imperative andava, dunque, graduata in funzione della struttura e delle caratteristiche proprie dell’impresa. A tal fine, la relazione al progetto affermava che “ le imprese che non necessitano di fonti di finanziamento esterne, con compagine societaria relativamente ristretta ed eventualmente caratterizzata da legami familiari, non devono sopportare gli stessi vincoli normativi imposti alle società quotate” dove entrano in gioco istanze di protezione degli investitori, e dunque, prosegue la relazione “il tasso di imperatività potrà crescere solo man mano che l’attività di impresa si muove verso forme più complesse e aperte in cui si avverte maggiormente l’esigenza di tutela dei terzi”. Tutto ciò ben sintetizza il ragionamento che ha portato gli autori del Progetto Mirone prima e del recente decreto legislativo di attuazione dopo, ad adottare la soluzione della massima autonomia statutaria per la società a responsabilità limitata. Pur condividendo la complessiva filosofia liberale che ispira l’intero progetto di riforma, in funzione di una piena valorizzazione dell’imprenditorialità, l’esigenza di un intervento imperativo del legislatore a tutela degli interessi dei soci, come abbiamo avuto modo di osservare, non è affatto estranea alla realtà della società a compagine ristretta. E anzi, la tutela imperativa del socio è, forse e quasi paradossalmente, più avvertita proprio in questo tipo di società dove manca per definizione un mercato delle quote per l’impossibilità di far ricorso al pubblico risparmio. Da qui, una volta formulato il suddetto apprezzamento di principio, è stato necessario esprimere qualche perplessità circa la sufficienza dei limiti che la riforma pone all’autonomia privata sotto il profilo della tutela dei soci di minoranza. L’interrogativo, emerso dagli spunti critici sopra illustrati, se fosse stato opportuno procedere ad una ulteriore individuazione dei limiti all’autonomia statutaria non vuole quindi certo ‘rimpiangere’ un ritorno all’impronta anacronisticamente dirigistica e istituzionalistica del passato, ma semplicemente assicurarsi che l’ordinamento controlli al meglio l’espletamento dell’autodeterminazione dello statuto, come fa su ogni altra manifestazione dell’autonomia contrattuale, alla luce dei propri principi fondamentali quale è, appunto, quello di controllare che il potere di una parte sull’altra (e dunque, fondamentalmente, della maggioranza sulla minoranza) non si eserciti in modo abusivo o arbitrario, ma secondo i canoni della correttezza e della buona fede. Sarà soprattutto il confronto con la realtà economico-sociale che ci dirà se gli auspici di autonomia imprenditoriale che hanno retto la delega legislativa e che sono 22 stati recepiti e attuati dall’Esecutivo, si esplicheranno nel mantenimento di un corretto equilibrio con tutte le esigenze di tutela che ruotano intorno al mondo imprenditoriale. 23