sociologia giuridica della devianza e del mutamento sociale

INSEGNAMENTO DI
SOCIOLOGIA GIURIDICA DELLA DEVIANZA E DEL
MUTAMENTO SOCIALE
LEZIONE IV
“LA DEVIANZA COME COSTRUZIONE SOCIALE”
PROF. ALFREDO GRADO
Sociologia Giuridica della devianza e del mutamento sociale
Lezione IV
Indice
1 L’importanza dei paradigmi costruzionisti --------------------------------------------------------- 3 2 Affiliazione ed etichettamento ------------------------------------------------------------------------- 6 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Lezione IV
1 L’importanza dei paradigmi costruzionisti
Se il diritto garantisce, nel tempo, una coesistenza pacifica attraverso la “delimitazione” dei
comportamenti, è pur vero che attraverso l’applicazione delle norme si etichetta un comportamento
deviante. Il ché equivale a dire che «senza diritto non esiste devianza». Del resto ogni forma di
azione umana, in alcune epoche e luoghi, è stata considerata legittima, se non addirittura
auspicabile. La schiavitù, il rapporto non consensuale all’interno del matrimonio e le diverse forme
di esecuzione, solo per fare qualche esempio, sono state ampiamente praticate ed hanno ricevuto
l’approvazione ufficiale. Questo non significa affatto che la gente non abbia trovato nulla da
obiettare contro tali forme di comportamento, ma fino a quando non sono state proibite dalla
giurisprudenza, esse non si sono potute considerare “crimini”. Crimine, pertanto, è un concetto
relativo o legalistico, non assoluto (Douglas, 1971).
Un primo interrogativo per la sociologia giuridica e della devianza riguarda l’origine e lo
sviluppo del diritto. Tale questione può essere analizzata in maniera dettagliata facendo riferimento
ad un gruppo di teorici che più di tutti si sono contraddistinti in tal senso: Edwin Sutherland (18831950), Edwin M. Lemert e Howard Becker.
Ma ancor prima, è necessario soffermarsi sul
significato dell’azione sociale intersoggettivamente significativa, il ché vuol dire soffermarci su una
teoria significativa quale l’interazionismo simbolico.
Il termine interazionismo simbolico nasce con Herbert Blumer secondo il quale è necessario
considerare la «natura del bagaglio con cui il bambino inizia la sua vita per studiare lo sviluppo
sociale dell’individuo. Egli spiega che il suo approccio vede il neonato come un essere
disorganizzato e dipendente, per ogni istruzione e per la stessa sopravvivenza, dagli adulti.
Gli interazionisti simbolici partono dall’assunto che gli elementi chiave nell’ambiente che
circondano il bambino sono rappresentati da un set di simboli e dalle conoscenze che guidano gli
individui attorno a lui. Questi simboli e queste conoscenze condivise sono quello che rende a sua
volta simbolico l’ambiente sociale del bambino. Se ne deduce che l’interazionismo simbolico è
una prospettiva di taglio essenzialmente psicologico, il cui interesse primario è focalizzato
sull’individuo “col proprio io” e sulla interazione tra i pensieri e le emozioni interiori di un
individuo e il suo comportamento sociale.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Tuttavia, va detto che la maggior parte degli elementi interazionisti sono da attribuire al
maestro di Blumer, Gorge Herbert Mead. Egli sostiene che è possibile studiare il mondo psichico
interiore dell’individuo per il fatto che questo non è un a priori indipendente dal comportamento ma
viene anch’esso a formarsi tramite l’interazione. Nell’uomo soltanto il significato ha la possibilità
di diventare cosciente, è pensato, e in questo caso il gesto non ha più un significato diretto ma
assume un significato simbolico, diventa cioè un simbolo significativo
Tramite il processo di simbolizzazione, in particolare tramite il linguaggio, si costituisce una
serie di oggetti dotati di “senso comune”. La mente si sviluppa in questo processo di interazione,
cioè nella società, la quale altro non è che un insieme di significati condivisi. Nell’azione, nel
comportamento, si ha quindi l’origine della vita psichica cosciente così che anche il privato si
spiega risalendo al sociale.
Sono tre le premesse su cui si basa l’interazionismo:
1) gli essere umani agiscono nei confronti delle cose sulla base dei significati che
tali cose hanno per loro (tali cose possono essere oggetti fisici, idee, attività degli
altri, situazioni, ecc);
2) il significato di tali cose è derivato dall’interazione sociale che il singolo ha con i
suoi simili o sorge da essa;
3) questi significati sono elaborati e trasformati in un processo interpretativo messo
in atto da una persona nell’affrontare le cose in cui si imbatte.
È attraverso il processo comunicativo, o di simbolizzazione, che gli individui arrivano a
definire se stessi e gli altri. Per comprender e a pieno questa complessa dinamica, Mead individua
nel Self tre componenti che definisce Io, Me e Altro generalizzato
Ma cosa è il Self?
Il Self è una combinazione di almeno due punti di vista: un Self che si comporta da
osservatore e un Self che si comporta da osservato. Gli individui tendono a definire il loro Self
attraverso la posizione sociale che per loro è più rilevante. Il “sé” è l’essere oggetto a se stesso
dell’individuo. Attraverso il sé, attraverso la comunicazione con gli altri, l’individuo impara a
comunicare con sé stesso.
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Il “me” è il self in quanto visto dal punto di vista degli altri, è il self sociale.
L’”io” rappresenta la parte più intima, vera, creativa dell’individuo (sono io che guardo me
allo specchio).
“L’altro generalizzato” è prodotto dalla interiorizzazione dei ruoli sociali, cioè dei compiti
che la società prescrive ai singoli in base alla loro posizione sociale.
È a questo punto che assume una importanza fondamentale la figura di Blumer. Egli infatti
riprende ed approfondisce i concetti proposti da Mead e, in qualche modo, ne sposta il fulcro dal
campo psicologico e filosofico ad uno tipicamente sociologico.
Blumer sottolinea principalmente l’Io. Quest’ultimo, il self attivo, nell’immaginazione
sottopone a prova i vari Me, le immagini del self, in quanto impegnati in differenti azioni possibili,
mentre l’Altro Generalizzato, in veste di testimone internalizzato, agisce da pubblico cosciente di
queste recite immaginarie all’interno della mente.
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2 Affiliazione ed etichettamento
Rielaborando un concetto chiave della prospettiva interazionista, quello secondo cui la
devianza ha un carattere relativo, i teorici dell’etichettamento aprono un nuovo filone di ricerca
orientato a comprendere le condotte illecite.
Edwin Sutherland, ad esempio, chiarisce la sua posizione attraverso l’elaborazione di una
teoria giudicata per certi versi innovativa per altri poco esaustiva, la “Teoria delle Associazioni
differenziali”, il cui significato indica una situazione favorevole all’assunzione di un
comportamento deviante. Trattasi di una situazione che porta gli individui tutti,
sia quelli
appartenenti agli strati più marginali che quelli più agiati, ad essere e ad agire da devianti. In altre
parole, per il sociologo americano l’individuo imparerebbe a deviare In quanto comportamento
appreso per interazione la condotta deviante non può essere innata, non rappresenta un qualcosa di
ben radicato nell’essere umano né desumibile dalle caratteristiche fisiche o dalla reazione al dolore
come sosteneva Cesare Lombroso.
Sutherland orienta la sua attenzione sull’analisi delle dinamiche sociali correlate al crimine,
in special modo sull’interazione tra i membri di un gruppo, e lo fa partendo dal presupposto che la
società, quella americana, moderna e industrializzata, sia disgregata, frammentata e disorganizzata:
incapace di assolvere alla sua funzione socializzatrice, ovvero di far rispettare le norme sociali
ritenute dallo stesso Sutherland come contrastanti e contraddittorie.
All’interno di una società del genere, ove scarso e poco efficace è il controllo sociale,
domina inevitabilmente la disorganizzazione sociale con la conseguente formazione di gruppi. Ogni
individuo entra a far parte di un gruppo, sia che si tratti di gruppi i cui membri adottano condotte
socialmente accettabili sia di gruppi che scelgono un comportamento contrario alla legge.
All’interno del gruppo gli individui acquisiscono e condividono norme e valori propri di
quel gruppo; con i diversi membri instaurano rapporti diversi, in un processo di interazione
comunicativa, sia essa verbale o non verbale.
Ma cosa favorisce l’acquisizione della condotta deviante?
Per Sutherland, un individuo viene etichettato come soggetto deviante nel momento in cui
accetta e condivide positivamente le norme e i valori favorevoli alla violazione della legge, che
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collimano cioè con quelle norme e quei valori imposti dal rigore sociale. Dunque, per Sutherland
chi commette un reato lo fa perché si conforma alle aspettative del suo gruppo.
Tuttavia, la validità della teoria di Sutherland è tale da riuscire a spiegare anche la
criminalità economica e del mondo degli affari così come quella delle classi subalterne. Nei
principali passi del saggio del 1940 dal titolo “White collar criminality”, è possibile evidenziare il
nesso intrinseco tra struttura capitalistica e alcune forme di criminalità economica, di impresa o di
affari rilevato da lui rilevato, nesso la cui naturalità, ancorché negata, appare come fondante la
diversa considerazione dei criminali a seconda del loro ruolo e status sociale.
Se per l’interazionismo simbolico la devianza è espressione dei bisogni e delle tendenze
individuali, per Lemert e Becker non vi è alcuna differenza né in termini di bisogni né in termini di
valori fra coloro che commettono reati e coloro che mantengono una condotta socialmente
accettabile. Secondo gli autori, nel corso della propria esistenza gran parte dei soggetti commette
atti devianti, ma solo alcuni suscitano una reazione sociale tale da essere etichettati e condannati
dalla massa. A tale proposito Lemert distingue la devianza in primaria e secondaria.
La devianza primaria definisce una condotta deviante che non scatena una reazione sociale
di condanna. Questo tipo di devianza comprende essenzialmente quelle infrazioni che cadono presto
nel dimenticatoio da parte di chi le compie e da parte di chi le valuta. In questo caso, il soggetto che
ha commesso un reato non si percepisce come un deviante né viene percepito come tale dall’intera
comunità. Egli ha piuttosto grandi possibilità di adottare nuovamente una condotta legale, conforme
alle norme sociali.
La devianza secondaria si riferisce alla fase dell’identificazione sociale. Essa si ha quando
l’atto commesso da un soggetto viene giudicato, stigmatizzato dalla collettività come azione
contraria al vivere civile. Tale valutazione comporta importanti effetti psicologici sull’individuo il
quale, conformandosi al suo nuovo ruolo, all’etichetta che gli è stata posta, si percepisce come
soggetto deviante, come un delinquente e inizia a comportarsi come tale.
In breve, un individuo diventa deviante quando è accreditato, etichettato come tale. La
stigmatizzazione che lo colpisce lo farà sentire sempre più isolato dal resto della società e questo lo
spingerà ad avvicinarsi a gruppi che hanno subito la stessa stigmatizzazione. In questo modo
proseguirà quella che Howard Becker definisce carriera deviante.
Il concetto di carriera deviante si presenta come quel percorso di vita che conduce il
soggetto, individuato e definito dal controllo sociale come autore di reato, all'assunzione
dell'identità e del ruolo deviante all'interno di un gruppo sociale (Tav 18-A). Trattasi un continuum
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che prevede l'apprendimento, via via più raffinato e specifico, delle tecniche delinquenziali, delle
regole di comportamento vigenti nel mondo deviante, delle giustificazioni e delle motivazioni per
continuare a compiere reati, delle convinzioni e degli interessi che legittimano, almeno agli occhi di
chi devia, le proprie scelte (Tav 18-B). Al termine di questo percorso, il soggetto ha perso le
normali opportunità di vita e di relazione sociale e ha acquisito stabilmente l'identità e il ruolo del
trasgressore; egli entra a far parte della subcultura delinquente che lo stimola e lo sostiene nel
comportamento deviante ulteriore.
La grande novità della teoria dell’etichettamento, definita anche Labelling approach 1 , sta
nel fatto che la devianza e la criminalità non vanno viste come comportamenti riprovevoli o
colpevoli, ma come frutto di un processo di etichettamento sociale negativo. Pertanto, «il deviante
non è tale perché compie certe azioni, ma perché la società bolla come deviante chi commette
quegli atti».
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