A SCUOLA DI FAUNA Curiosità, modi di dire, proverbi, aneddoti, miti e leggende sugli animali Graziano Fabris A SCUOLA DI FAUNA Graziano Fabris Graziano Fabris Fin da bambino ha sempre nutrito un grande interesse per gli animali in genere e per gli uccelli in particolare. Appassionato ornitofilo, alleva fin dalla più giovane età uccelli esotici, indigeni, canarini e loro ibridi. Dal 1994 è Presidente della FIMOV e Direttore della rivista OASI aci. Da 3 anni si occupa del Progetto di Educazione Ambientale della Provincia di Treviso. Ricopre inoltre la carica di Presidente dell’Ente Feste Varaghesi che dal 1973 organizza tra l’altro, dei pre- stigiosi appuntamenti per l’uomo Sul retro “Sagra dei Osei di Sacile”, agosto 1953 Foto Archivio Pro Sacile con la flora e con la fauna. Settore Gestione della Fauna Via Cesare Battisti, 30 - 31100 Treviso Tel. 0422.656.341 - Fax 0422 656.032 Disegni di Tiziana Forese, Luca e Marialuisa Dal Poz In copertina disegno di Marialuisa Dal Poz PREFAZIONE Un occhio laico capace di cogliere preziose notizie del mondo animale. Fabris è riuscito a capire con invidiabile eclettismo e curiosità le informazio- ni sugli animali, ovunque esse si siano esplicitate o si siano nascoste. Non importa che esse fossero celate nei suoi ricordi di ragazzo, o nella sua esperienza di allevatore; non importa che esse fossero espresse in testi scien- tifici o nei racconti di vecchi contadini o cacciatori; o che fossero nascoste tra le righe di una favola, nella mitologia o nella letteratura. L’autore, con abilità e passione, ha saputo scovare tutto quello che serve per incuriosirci ovunque abbia ritenuto di poter cogliere un particolare, una tradizione o un aneddoto. Ha saputo porsi come investigatore vivo e curioso per conoscere l’animale nelle sue interazioni con chi lo sta osservando. Auguro agli studenti di apprezzare questa raccolta per far luce sulla cono- scenza del mondo degli animali e degli uomini che con essi condividono una nicchia ecologica. Agli insegnanti va il prezioso compito di aiutare i ragazzi a sistematizzare e organizzare i numerosi e variegati spunti contenuti in questo lavoro. Allo scrittore auguro che questa pubblicazione sia solo l’inizio e attendo con curiosità le sue prossime storie. Leonardo Muraro Presidente Vicario della Provincia di Treviso PRESENTAZIONE DELL’AUTORE Questo libro, è dedicato a tutti i ragazzi in età scolare che ho incontrato nell’ambito del progetto di educazione ambientale voluto dalla Provincia di Treviso. In esso, non sono presenti le solite monografie che si trovano nei vari libri di animali, ma una raccolta di esperienze, di curiosità, di particolarità, di leggende, di aneddoti e di proverbi, che per secoli sono stati vissuti, raccontati e tramandati, quando uomini e animali vivevano gli uni accanto agli altri in un habitat ormai del tutto scomparso. Cari ragazzi, queste mie conoscenze partono da molto lontano, da quando ero un ragazzino come voi e appena tornato da scuola e fatti i compiti, “scappavo” da casa e andavo “per campi” dove potevo incontrarmi con un mondo animale, che viveva in un habitat ideale, in perfetta simbiosi con l’uomo. E davanti ai miei occhi, di bambino innamorato degli animali e della natura, potevo osservare questo mondo fantastico, che con il passare degli anni ha finito con lasciarmi un segno profondo fatto di ricordi, di attese, di incontri, di sensazioni, le stesse che erano state di tanti altri bambini che le avevano vissute prima di me, ma che le mie generazio- ni purtroppo non hanno saputo tramandare e che voi oggi, purtroppo, potete soltanto ascoltare e rivivere con un po’ di immaginazione come in una favola bella. E sì, scappavo proprio di casa ogni qualvolta riuscivo ad eludere la vigilanza di nonna Maria, che non poteva certo competere con la mia vivacità e doveva accon- tentarsi di seguirmi da lontano, timorosa, che andassi, come si soleva dire allora, a “pericolarmi”. Allora, erano i primi anni ‘50, la gente lavorava la terra con la forza delle braccia, e, per questo, la campagna era molto frequentata da un nugo- lo di bambini di tutte le età, da genitori, da nonni e da vicini di casa che prestavano la loro opera e che trascorrevano nei campi l’intera giornata. Il lavoro era così tanto, che, per non perdere troppo tempo, spesse volte il frugale pranzo veniva por- tato direttamente sul posto e i lavoranti si sedevano all’ombra di un albero per man- giare quel poco che era stato cucinato per loro. La vita era disciplinata dal sole e dal canto del gallo, che davano la sveglia e l’inizio al lavoro. Era poi scandita dalla 5 campana che rintoccava il mezzogiorno, allora il lavoro s’interrompeva, e suonava la sera, quando il lavoro cessava. Ed era ancora la campana a suonare a festa, la domenica, quando lavorare era peccato, quando finalmente si poteva mettere il vestito buono e mangiare con tranquillità, magari un po’ di pane, anziché la solita polenta. Nella campagna che si estendeva per qualche kilometro intorno a casa mia, mi conoscevano tutti e nonostante fossero molto gelosi del loro terreno, guai per esempio calpestare l’erba, quando mi vedevano comparire mi accettavano di buon grado, sapendo di questa mia grande pas- sione. Sovente mi intrattenevo con i più vec- chi e chiedevo di raccontarmi le loro espe- rienze, i loro fortuiti incontri con gli anima- li e, da essi, sapevo che in quel determinato luogo potevo vedere un nido di Fringuello o RAMARRO la tana di un Riccio. Raccoglievo tutte queste notizie e questi insegnamenti nel mio (tipico per quegli anni), quadernone con la copertina nera e i fogli bordati di rosso del quale ero gelosissimo. In esso, registravo pure i miei incontri e le mie esperienze. Ricordo ancora adesso quelli con il Ramarro (Boretoeon), un lucertolone lungo una trentina di cen- timetri che incuteva un certo timore anche agli adulti; mi sembra adesso quando lo vedevo attraversare velocissimo un viottolo per scomparire subito dopo nella fitta vegetazione di una siepe o in un campo coltivato. Era un lampo, una visione, che durava pochi secondi, ma mi riempiva il cuore di una gioia immensa che mi ripagava abbondantemente per la passione che nutrivo per questo mondo fantastico. Ricordo del Ramarro i suoi colori bellissimi, quel verde-giallo-azzurro, che ai raggi del sole assumevano dei riflessi intensi e particolari. Qualche volta sul ciglio del fossato quando si sentiva al sicuro, il “sauro”, si fermava e volgeva la testa verso di me, avevo così qualche attimo di più per ammirarlo in tutta la sua bellezza. Ricordo quando, al mattino, sentivo nonna Maria raccontare con partecipe dispia6 cere, che la Donnola (el Puisatt), aveva distrutto il pollaio a “quella” famiglia; e allora correvo in quel luogo, perché sapevo che di lì a poco, sarebbe scattata la “cac- cia” ai piccoli terribili mustelidi artefici del “misfatto”, e allora volevo assistervi, anche se provavo un certo dispiacere per la loro uccisione. Proprio così, mi dispiaceva, perché pur sapendo che quella disinfestazione RAGANELLA era giustificata, la (Bea Donoea) (altro nome dialettale che indicava la Donnola), era così bella ed elegante nelle sue movenze, che mi piangeva il cuore vederla uccidere e quasi tifavo perché qualche esemplare riuscisse a fuggire. Ma la lotta era impari, e quando i mustelidi venivano stanati e uscivano dal loro rifugio, inseguiti dai cani e dagli uomini, pur dimostrando di possedere un’agilità e una vivacità incredibile (vendevano cara la pelle), finivano prima o dopo per cadere nelle fauci dei cani e molto più spesso sotto i randelli degli uomini. Scene cruente, scene che si ripetevano frequentemente nella quiete delle contrade dei nostri paesi, ma che purtroppo erano atti dovuti perché il danno arrecato all’economia della povera famiglia, era già molto grande e nessuno poteva permettersi il rischio che il misfatto si ripetesse dopo qualche giorno. Nel mio continuo peregrinare per la campagna m’imbattevo sovente con la Raganella verde (a Racoeta), che prendevo in mano e con la quale giocavo, divertendomi a farle fare dei saltelli per poi lasciarla libera, in mezzo al verde di un prato, non ancora avvelenato dall’uomo. Nelle ore del mezzogiorno, mi dilettavo ad ascoltare il frinire delle Cicale che cantavano in continuazio- ne, così come la sera, me ne stavo seduto in silenzio in mezzo all’erba ad ascoltare il CICALA canto dei Grilli e il gracidare dei Rospi. Per 7 il gorgheggio dell’Usignolo poi, avevo una particolare predilezione, sapevo dove potevo incontrare e ascoltare questi splendidi cantori, e allora mi nascondevo all’interno della siepe e rimanevo rapito per ore, con la bocca aperta, trattenendo persino il respiro per poter godere intensamente la melodia del principe degli uccelli cantori. Nell’interno della siepe, ero solito trascorrere molto del mio tempo. La siepe, era un luogo dove crescevano alberi di diversi tipi, unitamente a cespugli e arbu- sti, e questo era l’habitat ideale dove trovavano protezione e cibo decine di specie di animali. Nelle siepi, tra gli altri, erano presenti due alberi entrambi tagliati a capitoz- za, un sistema di taglio questo che permetteva di ottenere dalla pianta dei pali dritti e CINCIARELLA vigorosi (atoe), molto utili nelle case per costruire dei recinti e in agricoltura per diversi impieghi. Questi alberi erano il Salice bianco (el Selgher), e il Pioppo (el Talpon), che raggiunta una certa età apri- vano nei loro tronchi una grande quantità di anfratti e buchi diventando così dei veri e propri ricettacoli per mammiferi, uccelli e invertebrati. Su questi tronchi, in parte marcescenti, prosperava una vita che mi appassionava e dove trovavano ospitalità: la Cinciarella (Parussoea), il Picchio, la Passera mattugia, il Pipistrello (Notol), e poi la Donnola, il Topo di campagna, il Riccio, la Lucertola (Boretoea) e via via tanti altri, e proprio questi alberi rappresentavano per questi animali delle vere e proprie dispense, dove, senza tanta fatica, potevano trovare un’infinità di insetti, larve, tenebrioni, mosche, formiche, chioccioline ecc. ecc.. Bastava sostare in silenzio e nell’immobilità più assoluta, per poter assistere al via vai della vita fre- netica di tutti questi animali specialmente quando arrivava la buona stagione. E’ rimanendo nelle siepi, che ho imparato ad affinare la mia vista e il mio udito, è stato lì nelle siepi, che ho potuto assistere al dipanarsi della vita di tanti animali, ed è stato ancora lì nelle siepi, che ho imparato a conoscerli e a capire quanto essi fos8 sero importanti per l’uomo. Sono ricordi molto nitidi, come quando ho avuto la fortuna di osservare nove “pullus” di Cinciarella, uscire dal nido per volare sui rami più alti, e, poi, piano piano allontanarsi seguiti dai genitori instancabili nel nutrirli; o come quando a non più di tre metri, ho potuto vedere una cucciolata di cinque Ricci, che in fila indiana, seguivano la propria madre, che vedendomi si fermò per un attimo per poi, come se non esistessi, attraversare il fosso con la stessa tranquil- lità con la quale era arrivata. Erano anni in cui le strade erano ancora in terra bat- tuta, ed erano percorse da qualche carretto trainato dai buoi e solo raramente dalle poche automobili che le percorrevano sollevando polveroni incredibili, e, il silenzio, era ancora un pregio di cui godere; ecco che allora, si potevano udire suoni, voci, canti di una vita umana e animale che si spargeva nella campagna e nella campagna si propagava. L’inquinamento acustico provocato dai rombi dei motori delle vetture e dalle macchine industriali, era poca cosa, per questo, in primavera, potevo sentire provenire, anche dalle case più lontane, il canto delle galline dopo la deposizione dell’uovo, ed era questo un coro che si ripeteva in continuazione per ore e rappresentava una gradita “comunicazione”, perchè questi canti venivano addirittura contati dalle donne nei campi, le quali al ritorno, sapevano già quante uova potevano raccogliere nei vari covi sparsi nel pollaio e nell’aia. In estate poi, erano mille e mille, le voci che si potevano udire, perchè cantavano gli uomini nei campi, e cantavano gli uccelli nell’aria ed erano tutti inni alla vita e alla gioia. Con l’arrivo dell’inverno, i lavori diminuivano, la vita rallentava i suoi ritmi, ma il mese di dicembre era dedicato all’uccisione del Maiale, così mi capitava di sentire il suo grido di dolore e allora mi dirigevo verso quella casa, dove si stava compiendo quello che era quasi un “rito” e in ogni caso un momento importante che la fami- glia attendeva, e, per il quale, fremevano già da giorni, attese e preparativi. Ricordo, quel pentolone fumante ricolmo di acqua bollente, attorno al quale si affaccendavano uomini e donne, e un gruppo di bambini di tutte le età un po’disco- sti che assistevano in silenzio, così, come ricordo quei visi paonazzi per il freddo, sui quali si vedeva disegnata una gioia immensa, che di certo non proveniva dal fatto che avevano ucciso un animale, ma perché sapevano che esso rappresentava 9 un “bene” immenso, un elemento essenziale per la loro sopravvivenza. Ed era grande la cura e la conoscenza con la quale trattavano quell’animale e le sue carni, dividendole, sezionandole, secondo la loro particolarità, perché ognuna era adatta ad un tipo di salume che successivamente veniva sapientemente lavorato, asciugato e conservato per tutto l’anno. Nell’occasione, non mancava il classico tradizionale, immancabile scherzo, che alla fine provocava risate e scherno da parte degli adulti, e un po’di rabbia da parte di chi lo aveva subito. E’toccato del resto a tutti i ragazzini, ed era un po’il pedaggio che ognuno doveva pagare prima di essere accettato nel mondo dei più grandi. Si soleva infatti dire che dopo que- sto scherzo: “ti saresti fatto uomo, ti saresti svegliato”. Accadeva, che ad un certo punto, si faceva avanti il salumiere e con fare deciso ti diceva: vai in quella casa e chiedi a “Piero”, che ti dia lo “stampo per i salami”. Sembrava quasi che “Il Piero” ti stesse aspettando, che fosse stato nel frattempo informato del tuo arrivo, eppure non c’era ancora il telefono e nessuno lo avrebbe potuto informare anche perché, quel tratto di strada tu lo avevi fatto correndo velocemente. Dopo qualche attimo di attesa, “Piero” ti consegnava un sacco pesantissimo, che con tutte le tue forze riuscivi a stento a trascinare fin da dove eri partito, e consegnarlo al salumiere. Arrivavi sfinito, ma anche felice perché pensavi di esserti reso utile. Una volta però aperto il sacco, vedevi che esso era pieno di mattoni, pezzi di ferro e altri materiali pesanti, che niente avevano a che fare con uno “stampo per i salami”, stampo, che in realtà non poteva esistere. Del resto a farti capire che c’eri “caduto dentro” erano le risate degli adulti, ma per fortuna come per “riparare”, provvedeva la nonna di casa (alla quale facevi pena). La nonna era una figura molto importante nella famiglia (a parona), essa ti faceva sedere attorno al tavo- lo e ti serviva un po’ di pasta fresca di salame, cotta sulla piastra della “cucina economica”, ed allora, anche per te, era un po’festa, tanto che dimenticavi anche lo scherzo e ci facevi insieme ai presenti una bella risata. Ecco, mi rendo conto di aver evocato momenti che non ritorneranno più, momenti, che sembrano d’altri tempi, tempi lontanissimi, ma che invece appartengono a ieri momenti di vita che io ho vissuto e che mi auguro di farvi rivivere attraverso questo libro. 10 “Le parole diventano piume e raccontano storie da me vissute, silenziose e timide, come speranze che ricamano giorni, che il tempo colora di malinconia e ripercorrono la mia favola bella Sono frammenti di ricordi che continuo a raccontare un po’ orgoglioso che altri non sappiano”. Graziano Fabris 11 Graziano Fabris A SCUOLA DI FAUNA Curiosità, modi di dire, proverbi, aneddoti, miti e leggende sugli animali Disegni di Tiziana Forese, Luca e Marialuisa Dal Poz LA COLORAZIONE DEGLI UCCELLI ………in precedenza, secondo il racconto biblico, Dio aveva creato la luce, le acque, gli alberi, il sole, la luna e le stelle, i pesci e gli uccelli. Il settimo giorno si riposò. Il giorno dopo Dio passeggiando fra le nuvole scorse che su una di esse erano riuniti in “assemblea”, tutti gli uccelli che aveva creato. Si avvicinò senza farsi scorgere e ascoltò i loro discorsi. Essi, si lamentavano perché erano sì diversi in quanto a forma, ma erano tutti del medesimo colore: bianco/ grigio e non avevano nemmeno un nome. Dio capì che con gli uccelli non aveva fatto cosa buona e giusta e allora, presa tavolozza e colori, si avvicinò ad essi, li chiamò presso di sé uno dopo l’altro e incominciò a colorarli e a battezzarli. Lavorò tutto il giorno finchè arrivò sera. Stava per andarsene quando guar- dando meglio in fondo alla nuvola si accorse che alcuni uccelli stavano ancora chiacchierando fra di essi e li sollecitò a presentarsi al suo cospetto per rice- vere la loro colorazione. Arrivò quindi la prima coppia di questi ritardatari; Dio osservò la sua tavolozza dove i colori erano pressoché finiti, erano rimasti solo dei rimasugli. Raccolse allora con il pennello un po’ di nero, un po’ di rosso, un po’ di bianco, un po’ di giallo, un po’ di grigio e un po’ di bruno con i quali dipinse i nuovi arrivati; guardò il suo lavoro e rivolgendosi al maschio disse: “Scendi sulla terra; sei veramente bello, ti chiamerai Cardellino.” Subito dopo arrivò una nuova coppia. Dio si rese conto che nella sua tavolozza era rimasto solo un po’ di bruno e un po’ di grigio, pennellò il dorso di bruno, il petto e il ventre di grigio agli uccelli che aveva davanti e disse loro: “figli miei ho CARDELLINO esaurito i colori dovete accontentarvi di 14 quello che ho potuto fare per voi. Scendete sulla terra”. Ma il maschio pro- testò, si sentiva troppo brutto; allora Dio nella sua infinita bontà lo richiamò nuo- vamente presso di sé, con un dito toccò la sua gola e gli disse: “Vai adesso, tu sarai USIGNOLO l’ Usignolo e sarai il più grande cantore”. E venne ancora una coppia e Dio raschiò veramente il fondo della sua tavolozza tanto che a malapena riuscì a mettere insieme una pennellata di bruno, anco- ra più sbiadito del precedente, e un’altra di grigio e anche in questo caso ci furono proteste, ma Dio questa volta fu però irremovibile e disse: non posso proprio fare di meglio, ma abbiate fede, non preoccupatevi, sarà sulla terra che il figlio mio, terminerà la mia opera nei vostri confronti. Andate con fiducia. Arrivò infine l’ultima coppia, i due si presentarono tenendosi “sotto l’ala” al cospetto di Dio che non aveva più colori nella sua tavolozza. Aveva solamen- te un po’ di giallo rimasto su di un pennello, con il quale dipinse il becco del maschio. Li guardò e disse loro: “Siete dei Merli scendete sulla terra così come siete, non posso fare più niente per voi”. I due, intristiti e sempre tenendosi “sotto l’ala” percorsero il tragitto dal cielo alla terra e arrivarono a desti- nazione che era molto freddo; era infatti inverno inoltrato ed esattamente il 29 di gennaio. La femmina si guardò intorno e, scorto che da un camino usciva del fumo nero, pensò che se c’era del fumo, signi- ficava che c’era pure del fuoco e quindi del calore. Con un breve cenno del capo, indicò al proprio compagno quella fonte di calore e i due volarono insieme sul 15 COPPIA DI MERLI tetto della casa avvicinandosi a quel camino dove rimasero per 3 giorni a riscaldarsi. Quando scesero, si accorsero con gioia di essere diventati neri, a causa del fumo che li aveva avvolti e il maschio era più nero della femmina perché, più freddoloso, era stato più vicino al fumo. Quei tre giorni il 29, 30 e 31 di gennaio, solitamente i giorni più freddi dell’anno, sono da tempo immemore ricordati: come “i giorni della Merla”. C’era ancora un uccellino che girava per il mondo alla ricerca della sua colorazione. Dio, lassù su quella nuvola, qualche tempo prima, gli aveva promesso che il suo lavoro lo avrebbe terminato suo figlio. Così, nel suo girovagare per il mondo, questo uccellino volò un giorno PETTIROSSO sul monte Calvario dove vide un uomo in croce con una corona di spine attorno alla testa. Mosso da compassione egli volò sul capo del Crocefisso e con il becco tanto lavorò, che riuscì a togliere una spina che era profondamente conficca- ta sulla sua testa. A questo punto una goccia di sangue gli cadde sul petto. Sentì allora che con un filo di voce il Crocefisso, che era Gesù Cristo il Figlio di Dio, gli disse: “Sei stato buono e caritatevole, il rosso del mio sangue rimarrà per sempre sul tuo petto. Da oggi ti chiamerai “Pettirosso”. 16 “Cos’è l’uomo senza gli animali? Se tutti gli animali scomparissero l’uomo morirebbe di una grande solitudine di spirito. Poiché qualunque cosa capiti agli animali, presto capiterà anche all’uomo”. Capo Pellerossa Sealt I CHIODI DI MIO NONNO Era il 28 agosto 1953. Allora poco più che decenne, convinsi mio padre ad accompagnarmi a Sacile dove avrei potuto vedere per la prima volta la grande fiera degli uccelli di cui tanto avevo sentito parlare. “Beppi”, mio padre, a dif- ferenza di suo padre, mio nonno, non c’era mai stato e conosceva a malapena la strada per arrivarci. Ricordava solamente che “nonno Nino” partiva da Varago, ovviamente a piedi, dopo la frugale cena del sabato sera, quando il sole non era ancora del tutto calato, attraversava la Piave fra Maserada e Cimadolmo, là dove il guado era più facile e con in tasca qualche “palanca” andava puntualmente ogni anno alla “Sagra dei Osei”. Nonno Nino amava gli animali, anche se aveva una particolare predilezione per gli uccelli, e, a ricordarlo anche dopo la sua morte, sono rimasti per anni conficcati sul muro davanti a casa i chiodi fatti a mano sui quali appendeva le gabbie con dentro ORGANETTO Fringuelli e Tordine. Dalla fiera, egli tornava sempre con qualche esemplare che, con infinito amore, deteneva allietandosi del loro canto. Quando nonno Nino morì, io non ero ancora nato; i suoi uccelli furono donati ad altri appassionati e, a testimoniare quella sua grande passione, rimasero per lunghi anni quei chiodi sul muro, che nonna Maria, non volle mai togliere. Ricordo, quella mia prima volta, dopo oltre cinquant’anni, come se fosse ieri. Andai a letto molto presto, perché la sveglia era prevista per l’una di notte, ma ovviamente non chiusi occhio; finalmente sarei andato alla fiera, finalmente avrei visto tanti uccelli tutti insieme e questo stato d’animo, non mi permetteva certo di addormentarmi. Mio padre, falegname provetto, mi aveva costruito tre bellissime gabbie, così avevo evitato di spendere dei soldi per il loro acquisto e potei conservare interamente quelle mille lire, frutto di tante pic19 cole “mancette” per i vari lavoretti fatti in casa. Con quei soldi, avrei potuto acquistare (ma temevo tanto che non bastassero) un fringuello, un lucherino, un cardellino e magari anche qualche altro piccolo uccellino. Quando mio padre venne in camera per svegliarmi, mi trovò già in piedi, vestito e con una dose abbondante di brillantina sui capelli, ero già pronto per la partenza. Sistemate due gabbie sul portapacchi della bici di mio padre e una sulla mia (in realtà la bici, era di mia madre), partimmo per la “grande avventura”. Sulla Piave non c’era acqua e così, sia pure con qualche difficoltà di orientamento (era una notte senza luna), riuscimmo ad attraversare le Grave di Papadopoli, per pro- seguire “di là” della Piave alla volta di Sacile. Dopo Codognè fummo sorpassa- ti e sorpassammo altri ciclisti e soprattutto pedoni, vecchi e giovani che si diri- gevano sicuramente verso la stessa meta, trainando dei carrettini carichi di gabbie: seppi più tardi che erano i concorrenti ai concorsi canori, ma pure vendito- ri e compratori che provenivano dalla sinistra Piave. Cento e più volte chiesi a mio padre quanta strada mancasse e che ora fosse, quando finalmente, comparve un cartello con la scritta “SACILE”, che la fioca luce dei fanali rischiarò per un attimo. Eravamo arrivati e, sulle strade, erano ormai le quattro del mattino, c’era già molta gente. Sistemate le bici in “custo- dia”, ci avviammo con le gabbie in mano verso quello che, lo comprendemmo fatti pochi passi, era il centro del paese, il cuore della fiera. Un forte e sgrade- vole odore di vischio e un vociare sempre più intenso, mi fece capire che eravamo davvero arrivati. Man mano che albeggiava, potei vedere quella gente: me la ricordo ancora con il cappello all’alpina e la piuma di fagiano sulla tesa, i pantaloni alla “zuava” (abbottonati appena sotto il ginocchio) e la giacca di velluto (ad agosto) “ciuciata” (strettissima) da non starci quasi dentro. Mi ricordo di tantissi- CIUFFOLOTTO mi giovani, ragazzi e bambini di tutte le 20 età, con i pantaloni corti, con gli zoccoli, e con i capelli tagliati all’“umberta” (una moda di quei tempi che voleva i capelli tagliati cortissimi, come li porta- va il Re, ma in realtà per andare meno volte dal barbiere e quindi risparmiare dei soldi), o con la testa ricoperta da un berretto dalle fogge più svariate. E poi, le tante gabbie posate per terra, lunghe e basse e tutte piene di uccelli in vendita. Sopra queste gabbie su di un pezzo di carta gialla (fatta con la paglia) i vari prezzi: Lucherini 250£, Fringuelli 300£, Cardellini 280£. Con un rapido calcolo, capii che i soldi, che tenevo stretti nel pugno dentro la tasca, mi sarebbero bastati e che, finalmente, avrei potuto avere i LUCHERINO miei primi animaletti, nello specifico degli uccellini. Ripercorrendo a ritroso sotto il sole allo zenith, la stessa strada percorsa nel buio pesto della notte pre- cedente, mi sembrò enormemente più lunga, interminabile. Tuttavia non senza qualche peripezia, giunsi nel tardo pomeriggio finalmente a casa con i miei pic- coli Amici. Quei chiodi, piantati sul muro davanti a casa molti anni prima da mio nonno, ritornarono utili, perché vi appesi quelle mie prime gabbie. E qui, ricordo il volto di mia nonna, che, sorprendendomi davanti alle stesse con l’identica espressione negli occhi che per tanti anni aveva visto a mio nonno, pianse com- mossa. Ho desiderato raccontare quella mia prima volta, perchè penso a quanti altri bambini e ragazzi avranno iniziato prima di me proprio così, e a quanti altri, negli anni, animati dalla mia stessa passione rivivranno attimi e sensazio- ni come le mie. Sì, perché il rapporto uomo-animale, rimarrà tale, credo anzi che diventerà ancora più forte, perché mai come adesso, l’uomo ha tanto biso- gno della compagnia di un animale da accarezzare, da sentire vicino, e al quale dedicare tutte le sue cure. 21 PILLOLE DI SAPERE: GLI UCCELLI Sono animali vertebrati omeotermi, hanno il corpo ricoperto da piume e penne e con arti superiori trasformati in ali, nella maggior parte dei casi atte al volo. In fatto di lunghezza il più piccolo degli uccelli è una specie di Colibrì, l’Acestrura bombus, che non raggiunge i 6 cm, il Pavone raggiunge i 230 cm e una razza di Gallo giapponese, il Phoenix, prezioso per le sue penne, supera in qualche esemplare i 600 cm. Il più alto è lo Struzzo che raggiunge i 300 cm. Il primato dell’aper- tura alare spetta all’Albatros urlatore con i suoi 340 cm, superato sino ad una cin- quantina di anni fa solo dall’Avvoltoio del Nevada con i suoi 5 m. Questo gigantesco uccello oggi è estinto. Il peso dei pullus al momento della schiusa varia dai 0,19 gr del Colibrì, ai 1000 gr dello Struzzo; STRUZZO anche se un suo consimile, lo Struzzo del Madagascar (oggi estinto anch’esso) raggiungeva i 6.500 gr. Il peso degli uccelli adulti varia dai 1,6 gr del Colibrì ai 140kg dello Struzzo, ancora una volta superato finchè era presente sulla terra dalla varietà del Madagascar che raggiungeva lo straordinario peso di 450 kg. Le piccolissime ali del Colibrì battono in maniera vorticosa arrivando a 75-80 battiti al secondo, ciò consente a questo pic- colo uccello di rimanere sospeso nel- l’aria mentre si nutre aspirando il nettare dai fiori. Un Rondone può compiere ogni giorno la straordinaria distanza di 7/800km alla ricerca del cibo, ma neppure la COLIBRI Cinciallegra scherza superando i 100 km. 23 Sempre i Rondoni passano oltre 14 ore al giorno in volo mantenendo una velocità di 60-65 km orari. In quanto a velocità in volo, il Codirosso è il più lento con i suoi 30-35km orari, mentre il più veloce è il Rondone del Tibet che in picchiata può raggiungere e superare i 375. Per salire verso l’alto, il Passero lo fa in maniera quasi verticale, ma come tanti altri uccelli non va oltre 110 m, il record di altitudine appartiene ad un’Oca selvatica che può raggiungere gli 8.800m. Durante le migrazioni, gli uccelli compiono migliaia di km. La Rondine di mare artica è l’uccello che percorre più strada arrivando a 40.000 km, la Cicogna arriva a 23.000, il Rondone a 13.000. Nelle traversate dei mari gli uccelli in alcuni casi volano senza mai posarsi anche per 3.500 km, tuttavia la distanza media che percorrono giornalmente varia dai 300 ai 700 km. I più lenti nella migrazione, sono i Corvidi in genere, il Fringuello e le Rondini che hanno una velocità massima di 50/55 km orari, mentre i più veloci sono gli Anatidi che raggiungono e talvolta superano gli 80km orari. L’espirazione e l’inspirazione negli uccelli hanno una frequenza assai notevole. Nel Colibrì, per esempio, l’uccello a riposo ha una frequenza di circa 230 atti di respirazione al minuto e questi atti salgono fino a 3100 quando è in volo; nel Colombo questi atti scendono a 450 quando è in volo, a 200 quando si muove sul terreno e scendono a 30 quando è a riposo. Molto varia è la lunghezza della vita degli uccelli. I Pappagalli sono ritenuti i più longevi e alcuni esemplari di grande taglia come Cenerini, Are e Cacatua, possono arrivare anche a 80-85 anni; qualche naturalista sostiene che certi esemplari di Cenerino siano arrivati al secolo di vita, anche i Gabbiani reali vivono a lungo con una aspettativa intor- no ai 28 anni. Generalmente gli uccelli di piccola taglia come i fringillidi, allo stato libero, vivono mediamente dai 3 agli 8-9 anni. L’uovo più grande è quello dello Struzzo: esso è pari a circa 25-30 uova di Gallina e a 1 kg di peso; può essere conservato in frigorifero per un anno intero e per renderlo sodo sono necessa- rie 2 ore di cottura. Sempre lo Struzzo è l’uccello più veloce; lanciato in corsa compie 3m ad ogni falcata e raggiunge una velocità di “crociera” di circa 50km orari con punte anche di 70-75. Un naturalista tedesco grande appassionato del 24 Picchio in genere, ha analizzato 665 pasti del Picchio rosso. Ebbene contò che la sua dieta è composta in totale da 2347 animaletti diversi; fra essi vi erano molti parassiti di alberi e circa 2000 bruchi dello stesso genere (Limantria monaca). Un biologo finlandese ha invece osservato il Picchio rosso maggiore e ha cercato di valutare numericamente i pinoli consumati da questo uccello; ebbene, ha stabili- to che in un’ora esso è capace di divorarne circa 165-170. Calcolando che la sua attività giornaliera si protrae per un massimo di 17 ore vorrà dire che questo uccello divorerà circa 2850 di questi semi. Il Torcicollo nutre i suoi piccoli prevalen- temente con le ninfe di formica, ed una covata di piccoli abbisogna giornalmente di circa 11-12.000 di queste prede. Anch’esso possiede una lunga lingua vischiosa particolarmente adatta a catturare le formiche. Quando la introduce in un formicaio e la ritrae, ad essa rimangono attaccate larve, ninfe e insetti adulti che vengono successivamente inoltrati nel sacco della gola, il quale riesce a con- tenerne fino a 160. Aiutata da dispositivi particolari posti nel cranio, la lingua dei Picchi può uscire dal becco in maniera incredibile. Nel caso del Picchio verde fuoriesce per oltre 11cm. Diversi studiosi hanno inciso su nastri il rullio di diver- se specie di Picchi; ebbene è risultato che il Picchio nero è il campione in asso- luto con i suoi 39-45 colpi al minuto, il Picchio cenerino 28-31, seguono tutti gli altri con 12-18 colpi al minuto. L’Allodola è fra i piccoli uccelli quello che sulla terraferma riesce a muoversi più velocemente, infatti grazie alle sue grandi zampe raggiunge, e talvolta supera, una velocità di 8 km/h. Questo uccello non fa mai il bagno nell’acqua, ma si limita a strofinarsi su steli d’erba bagnati dalla rugiada e preferisce un bagno nella polvere in piccole fossette appositamente scava- te per lo scopo. Il Tordo bottaccio è uno dei magnifici cantori che compongono il “coro delle fiere degli uccelli”. Il suo canto melodioso e variabile è composto da 3-4 TORDO BOTTACCIO strofe, ognuna delle quali è costituita da 25 varie sillabe che intercala a brevi pause riprendendo subito dopo con grande rapi- dità. Un alimento importante per la sua dieta estiva è costituito dagli acini dell’uva, da cui deriva la denominazione dialettale: “tordo da ua”. Un’altra preda di cui egli è ghiotto sono le lumache, il cui guscio viene infranto sbattendolo con forza contro un sasso (sempre lo stesso) che viene chiamato “fucina del Tordo”. Contrariamente agli altri uccelli che portano all’interno del loro nido materiale soffice, sul quale deporre le uova e far nascere i propri piccoli, il Tordo spalma il suo interno con una mistura di fango e legno marcito intriso di saliva che funziona da collante. Si ritiene che ciò sia dovuto al fatto che la schiusa delle uova abbisogna di un alto tasso di umidità, prerogativa, questa, che si ottiene proprio sostituendo piume e sottilissimi steli con questo rigido e impermeabile rivesti- mento. Fino ad una sessantina d’anni fa era d’uso raccogliere i nidi di Pendolino e conservarli per l’inverno quando venivano usati dai bambini piccoli come calde pantofole. Il primato per il maggior numero di uova deposte in una covata spetta alla Starna che ne può covare da 16 a 28. La fiaba “Il Gracchio e gli uccelli” Zeus volendo dare un Re agli Uccelli, fissò loro un appuntamento; essi doveva- no presentarsi al suo cospetto affinché egli potesse scegliere il più bello di tutti per poterlo far regnare sopra di essi. Allora tutti gli uccelli incominciarono a lisciarsi le piume e le penne e a farsi più belli. Il Gracchio, nero e brutto resosi conto che non avrebbe mai potuto competere, pensò di raccogliere tutte le piume e le penne che erano cadute agli altri uccelli e di attaccarsele al proprio corpo. Con questo espediente, gli riuscì di essere il più bello di tutti. Il giorno stabilito tutti gli uccelli sfilarono davanti a Zeus, e fra di essi anche il Gracchio coperto di piume di ogni colore, e Zeus colpito da tanta bellezza stava già per designar- lo Re. Ma gli altri uccelli si indignarono e gli strapparono ognuno le proprie piume e le proprie penne; spogliato di ciò che non era suo, il povero Gracchio ritornò ad essere quello che in realtà era. (Esopo) 26 “Gli alberi sono il sostegno del mondo, se li tagliamo il firmamento cadrà sopra di noi.” …da un’antica leggenda Indios IL CIGNO REALE Il Cigno reale con la sua maestosa bellezza dovuta all’armoniosa figura, nello stesso tempo fiera e dolce, rende nobile qualsiasi laghetto o corso d’acqua, che diversamente, sarebbe misero e squallido. Famosi sono i Cigni del Tamigi volu- ti dalla Regina Vittoria intorno al 1.850. Rispetto agli altri Cigni (quello minore, quello selvatico e quello nero) è decisamente più grande. Si caratterizza anche per il colore del becco giallo arancio con una protuberanza nera più mar- cata nel maschio. In acqua si distingue anche in lontananza per la caratteristica posizione a “S” del collo mentre negli altri cigni è eretta. I “pullus” nascono ricoperti da un piumino color beige-grigio che poi, alla prima “muta” diventa bianco, ma per una ragione sconosciuta, i “pullus” di Cigno che nascono in Polonia sono di color bianco come gli adulti. L’elegante bellezza e austerità di questo animale ha sempre stimolato la fantasia degli uomini, del resto quando si pavoneggia gonfio e impettito specchiandosi sulla superficie dell’acqua, continua a stimolare sempre sensazioni estetiche che mai un corvo potrebbe suscitare. Un’antica leggenda lo fa nascere per mano di Apollo che avrebbe trasformato nel candido uccello il re dei Liguri Cinco, musico e cantore che disperato piangeva la morte dell’amato amico Fetonte con melodiosi lamenti. In seguito Apollo, non soddisfatto del pur grande privilegio accordato a Cinco, lo condusse in cielo e lo trasformò in una costellazione che ancora oggi dal Cigno prende il nome. Tanta è la leggiadria del Cigno, che il divino Giove, che non disdegnava gli inganni più astuti per far cadere nelle sue brame anche fem- mine note per la loro castità e molto fedeli ai propri compagni, avrebbe assun- to le sue sembianze per affascinare e sedurre Leda che finì con l’accoppiarsi con il bellissimo pennuto. Quella stessa notte Leda, evidentemente non appa- gata dal rapporto divino, giacque anche con il marito Tindaro re di Sparta. Da questa tumultuosa attività amorosa, Leda generò un uovo da cui nacquero i due gemelli Castore e Polluce, uno figlio di “Zeus Cigno” e l’altro figlio del sovrano marito. Anche il colore bianco è stato motivo di lode e di infamia per que29 sti poveri e inconsapevoli pennuti. Basti pensare alla celebre fiaba di Andersen in cui l’anatroccolo, brutto e grigio, si trasforma, dopo tutta una serie di incredibili peripezie, per la sua gioia e per quella degli altri animali dello stagno, in un regale bianco Cigno. E non va dimenticato come anche l’arte, attraverso la musica di Cajkovskij e il libretto di Begicev, sia stata affa- scinata da questo straordinario pennuto. La storia vuole che il principe Sigfrido si innamori di Odette, la regina dei Cigni, una donna che di giorno si trasforma in Cigno a causa di un incantesi- mo operato da uno stregone. Odette racconta che è destinata a rimanere nelle sembianze di questa creatura finchè non verrà salvata dal grande ed eterno amore di un uomo. Incantato dalla sua bellezza il principe le promette il suo eterno amore ottenendo così la fine dell’incantesimo. Ma in seguito, durante una festa, egli viene ingannato dallo stesso stregone che lo convince a dichiarare il suo amore a Odile, la malvagia sorella di Odette. Sigfrido invita Odile a ballare con lui, ma in quel momento una grande nuvola oscura per un attimo il cielo e il principe si accorge che Odette si è nuovamente trasformata in Cigno. Compreso il suo involontario tradimento egli si precipita al lago. Odette con il cuore spezzato per quello che considera un tradimento cerca conforto fra le sue compagne in riva al lago. Raggiuntala, Sigfrido ne scongiura il perdono, ma la fanciulla muore di crepacuore tra le sue braccia. Gli antichi credevano che il Cigno cantasse e che il suo canto più bello, fosse quello che precedeva la sua morte. Ha un’apertura alare di circa 220 cm, una lunghezza di 150/155 cm, un peso corporeo intorno ai 12/16 kg e una aspettativa di vita di 12/15 anni. Depone da 5 a 8 uova, di color grigio verde brunastro, che cova per 35/37 gior- CIGNO ni. Ha uno status esistenziale ottimo. 30 La Fiaba “Il Cigno preso per un’Oca” Un Uomo allevava nel medesimo cortile un Cigno ed un’Oca . Il Cigno per il canto e l’Oca per la sua prelibata carne. Venne il momento che l’Oca dove- va fare la fine per la quale era stata allevata, quella notte era molto buio e l’uomo recatosi dove i due Uccelli dormivano non fu in grado di distinguere l’uno dall’altra, e così fu preso il Cigno al posto dell’Oca. Ma a questo punto ecco che esso intona un canto che prelude la morte; in questo modo rivela la sua identità e, grazie a ciò, evita di essere ucciso. (Esopo) L’ OCA SELVATICA Pur iniziando gli accoppiamenti già a 18/20 mesi di età, raggiunge la sua piena maturità sessuale solamente al quarto anno di vita. Il vincolo della cop- pia rimane tale fino alla morte di uno dei due partners. Grande volatrice, durante il periodo della muta perde in pochi giorni, e non gradatamente, le penne delle ali e della coda; per questo rimane, gioco forza, a terra dove riesce a spostarsi da un pascolo all’altro o sfuggi- re a qualche predatore, correndo molto velocemente. Riacquisterà però la padro- nanza del volo dopo solo quattro settima- ne. Durante questo periodo l’Oca è parti- colarmente sospettosa e timorosa. Si suole dire che coloro che hanno in casa delle Oche non abbisognano della guar- dia di un Cane. Leggendarie rimangono OCA SELVATICA infatti, le Oche del Campidoglio che con il loro schiamazzo misero in allerta i difensori che intervennero contro gli invasori. Molto apprezzato è il suo piu- mino con il quale si imbottiscono dei caldi piumoni e dei preziosi giubbotti. 31 Nelle Oche non esiste un notevole dimorfismo sessuale in quanto maschi e femmine sono pressoché uguali; si possono tuttavia riconoscere a prima vista dalla taglia, che è molto più grande nei maschi. Un altro aspetto curioso e unico riguarda la disposizione delle piume nella parte alta del collo; esse assu- mono una singolare disposizione che le allinea in rilevate striature verticali, per cui il collo di questi uccelli assume un aspetto zigrinato. Vivono in branchi numerosissimi ed essendo volatili molto timorosi e prudenti, hanno l’abitudine di piazzare delle sentinelle incaricate di dare l’allarme in caso di pericolo. Un tempo si tendeva ad ingrassare forzatamente le Oche all’inverosimile. Questo risultato veniva ottenuto per mezzo dell’ingozzamento a forza, prati- ca questa in uso fin dai tempi più antichi. L’animale veniva immobilizzato, dopo di che si introduceva un imbuto nel suo esofago lungo il quale si face- va scendere una gran quantità di granoturco, sfarinati vari e, in tempi più anti- chi, anche fichi e noci, fino al totale riempimento del gozzo. Con questo sistema il peso delle povere Oche raddoppiava. L’ingozzamento veniva praticato per oltre un mese e richiedeva una notevole esperienza per non soffocare l’animale. In questo modo la sua carne diventava saporita e tenera, ma altret- tanto prelibato era il suo grasso che fatto bollire con il latte, una volta raffreddato e conservato, veniva usato al posto del burro. Fra le tante razze d’Oca, molto celebre è l’Oca di Tolosa allevata in Francia per la produzione del “fegato grasso” dal quale si ricava il famoso “patè de foi gras”. Il peso del fegato di quest’Oca, sottoposta anch’essa all’ingrasso con gli stessi metodi dell’ingozzamento, aumenta a dismisura passando dai 3/400 grammi della norma, ai 2-3 kilogrammi. Ha un’apertura alare di circa 155 cm, una lunghezza di 75/80 cm, un peso cor- poreo di 4/6 kg e un’aspettativa di vita di 9/13 anni. Depone da 6/9 uova, di colore bianco grigio, che cova per 27/28 giorni. Ha uno status esistenziale ottimo. 32 L’AIRONE CENERINO Fa parte della grande famiglia degli “Ardeidi” nella quale troviamo anche la Garzetta, tipica abitatrice di canali, piccoli corsi d’acqua e addirittura degli scoli in campo aperto. L’Airone ha abitudini gregarie e nidifica in numerose colonie note con il nome di “Garzaie”. Possiede un collo molto lungo, un becco anch’esso lungo e appuntito e gambe lunghissime che sembrano dei veri e propri trampoli. Molto allungate sono pure le quattro dita, mentre, fatto curioso è rappresentato dall’unghia del dito medio dotata di una dentellatura sul margine interno che viene usata per riassettare il piumaggio. Un’altra curiosità dell’Airone è la pressocché mancanza della coda. Ha abitudini diur- ne, ma nel periodo della riproduzione quando deve alimentare i suoi piccoli, esce anche di notte. Molto rumoroso durante il periodo della riproduzione, diventa estremamente silenzioso nei periodi di riposo. Una curiosa abitudine dei pullus nel nido, che è anche un efficace metodo di difesa, è quella di “vomi- tare” addosso ai disturbatori della colonia. La credenza popolare ritiene che questo comportamento sia dovuto al fatto che con lo stomaco vuoto sia più facile e veloce sfuggire alla cattura da parte dei loro consimili adulti, tutti potenziali predatori. Una singolare curiosità deriva dal fatto che in questo uccello, la ghiandola dell’uropigio è atrofizzata. Ma tanto AIRONE l’Airone Cenerino, quanto pure tutti gli altri componenti della sua famiglia, suppliscono la mancanza della secrezione protettiva per le piume e per le penne (indispensabile per gli altri uccelli), distribuendo sul suo piumaggio dei minutissimi frammenti della desquamazione, prodotti da particolari cuscinet- ti di piume situati nella zona inguinale e sul petto. In questi cuscinetti, le 33 piume crescono in continuazione, e, disgregandosi alle estremità, producono una specie di cipria, che viene raccolta dal becco dell’uccello e cosparsa sul suo piumaggio rendendolo in tal modo impermeabile. Questa operazione, come del resto tutta la lisciatura del piumaggio viene facilitata dalla partico- lare conformazione del dito medio della zampa che, possiede come già detto, un bordo dentellato. Ha un’apertura alare di circa 185 cm, una lunghezza di 85/90 cm, un peso cor- poreo intorno ai 1800/2000 gr e un’aspettativa di vita di 11/20 anni. Depone 4/6 uova, di color verde azzurrino, che cova per 25/27 giorni. Ha uno status esistenziale buono. IL GERMANO REALE E’ il più comune dei nostri uccelli acquatici ed è famoso per la sua peculiari- tà di sollevarsi in volo senza bisogno di prendere nessuna rincorsa, così come fa un elicottero. Un’altra curiosità deriva dal fatto che le due timoniere centrali non sono dritte e rigide, bensì dei morbidi ricci rivolti verso l’alto. Molto caratteristico è lo specchio alare, uguale sia nel maschio che nella femmina, di un bel colore viola/porporino delimitato da due barre bianche che si evi- denzia quando il Germano è in volo. Il maschio assume il piumaggio comple- to da ottobre a maggio e va in eclisse, da giugno a settembre; in questo periodo il suo piumaggio perde le caratteristi- che e i colori tipici, tanto da poter essere confuso con quello delle femmine se non fosse per la sua maggiore mole e per alcune parti del corpo dove il piumaggio è più scuro e rossiccio. Non è raro che il Germano reale nidifichi sopra la capitozza di qualche pianta anziché sul terreno GERMANO REALE in mezzo ai cespugli, come tendenzial34 mente è portato a fare. In questo caso, quando i piccoli nasceranno, saranno portati a terra con il becco dai genitori che li reggeranno per le zampe; in altri casi i pullus si butteranno letteralmente al suolo o nell’acqua circostante. I Germani in cattività sono molto longevi e possono superare agevolmente i vent’anni di vita. Nei Germani reali è sempre la femmina a conquistare il maschio. Uno degli atteggiamenti al quale ricorre con maggiore frequenza è, ad esempio, il nuoto serpentino, una specie di parata nuziale al femminile, che si conclude davan- ti al maschio prescelto; se questi l’accetterà, incomincerà a nuotare dietro di lui in segno di sottomissione. Per secoli le sue soffici piume sono state utilizzate per cucire dei soffici e vaporosi piumoni da letto, le famose “colsare” che riparavano dal freddo pungente durante le notti. Ha un’apertura alare di circa 80/90 cm, una lunghezza di 55/58 cm, un peso corporeo intorno ai 900/1100 gr e una aspettativa di vita di 5/10 anni. Depone 8/12 uova, di color oliva-beige, che cova per 28/29 giorni. Ha uno status di presenza ottimo. IL CORMORANO Uccello pescatore per antonomasia compie vere e proprie razzie in alleva- menti ittici. Nei suoi luoghi originari in buona parte dell’Asia, l’uomo lo preleva dal suo nido subito dopo la schiusa dell’uovo e lo alleva “allo stecco”, sostituendosi quindi alla madre, in questo modo lo abitua alla sua presenza tanto che il piccolo, lo seguirà ovunque come se fosse proprio la madre. Appena svezzato egli sarà addestrato alla pesca e seguirà sul bordo della barca insieme ad altri suoi consimili, “l’uomo madre” che, giunto sul luogo di pesca, gli infilerà attorno al collo un anello e lo farà scendere in acqua per pescare. Il Cormorano, risalirà di lì a poco con il becco e il collo pieno di pesci che non potrà ingoiare a causa dell’anello che gli stringe la gola e che, rigurgiterà dopo una leggera pressione delle mani “dell’uomo madre” sul 35 collo. Continuerà instancabile a fare questo “lavoro”, fino a che non avrà ottenu- to una buona pesca e così giorno dopo giorno, in cambio di qualche pesciolino o di scarti di quel pesce più pregiato da lui stesso pescato. Quando è posato a terra, CORMORANO assume la caratteristica posa eretta che lo fa assomigliare ad un pinguino, ancora caratteristico è il suo atteggiamento ad ali aperte che assume frequentemente per accelerare i tempi di asciugatura del suo piumaggio. Ha un’apertura alare di circa 150 cm, una lunghezza di 85/95 cm, un peso cor- poreo intorno ai 2100/2400 gr ed un’aspettativa di vita di 13/15 anni. Depone da 3 a 5 uova di color bruno chiaro, che cova per 27/28 giorni. Ha uno status esistenziale molto buono. IL TUFFETTO Lo dice il suo nome: è un’Anatra tuffatrice ed è uno spettacolo osservare le sue esibizioni. Si tuffa in continuazione per cercare nel fondo del corso d’acqua insetti, lumache, crostacei e, d’inverno, anche piccoli pesci dei quali si nutre unitamente alle alghe più tenere. Rimane sott’acqua anche 35/40 secondi per riapparire nello stesso posto, ma molto più spesso anche molti metri più in là. Il Tuffetto non supera mai i sette metri di profondità. In genere vive in acque dolci e raggiunge il mare soltanto al termine del periodo riproduttivo. Il fittissimo rivestimento di piume, molto morbide e perfettamente impermea- bilizzate, protegge durante le sue continue immersioni il corpo dall’acqua. In passato queste “piume-pelliccia” vennero impiegate nella fabbricazione di colletti e accessori, proprio in luogo delle vere pellicce. I piccoli sono rivesti36 ti da un piumino variopinto e striato, e, non appena usciti dall’uovo, si raccol- gono sotto le ali dei genitori e tra le folte piume che ne ricoprono il dorso; in questo modo, si immergono e nuotano insieme ad essi finchè, trascorse alcu- ne settimane, imparano a nuotare e a tuf- farsi da soli. In genere i Tuffetti raggiungono un aspetto simile a quello dei geni- tori solamente al loro secondo anno di vita. Il Tuffetto sa anche catturare insetti volanti compiendo un salto in alto fuori dall’acqua per afferrarli. Possiede ali molto corte e nuota anche sott’acqua, aiutandosi quasi esclusivamente con le zampe che hanno il tarso compresso late- ralmente e le dita lobate. Considerata TUFFETTO infine la sua spiccata abilità nel nuoto e nel tuffo, la natura per contro lo ha reso poco incline al volo. Ha un’apertura alare di circa 43 cm, una lunghezza di 26/28 cm, un peso cor- poreo intorno ai 100/120 gr e una aspettativa di vita di 8/13 anni. Depone da 4 a 7 uova, di colore bianco brunastro, che cova per 20/22 giorni. Ha uno sta- tus esistenziale discreto. LO SVASSO MAGGIORE Lo Svasso, durante il periodo degli amori acquisisce sul capo vari ornamenti (sia nel maschio che nella femmina), che vengono usati nel corteggiamento e nel cerimoniale amoroso, ma che servono pure per “rinforzare”particolari atteggiamenti del comportamento sociale o di difesa del proprio territorio. Questi ornamenti, tra l’altro molto belli e caratteristici, con l’arrivo dell’au- tunno e dell’inverno cadranno per ricomparire d’incanto la primavera succes- siva. Curiosa e caratteristica è la struttura delle sue piume che hanno un aspet37 to serico, ma anche “peloso”, a causa del rapido consumarsi delle barbule. Questa particolarità, unita alla distribuzione fitta e continua delle piume sulle parti inferiori, rende il piumaggio degli Svassi molto simile ad una pelliccia, tanto che fino a una cinquantina d’anni fa le “pelli di Svasso” erano usate per foderare cappotti e mantelli, per fabbricare dei caldi manicotti per protegger- si dal freddo e molto più spesso per fasciare le parti del corpo colpite da artrosi e artriti. Un’altra curiosità tipica degli Svassi (e anche del Tuffetto), è quella di ingerire abitualmente piume del proprio corpo. La funzione digestiva che ne deriva, pur non essendo chiara, deve essere molto importante dato che i piccoli vengono imbeccati dai genitori con una grande quantità di piume fin dalla loro nascita. A questo proposito esiste una SVASSO MAGGIORE credenza popolare che attribuisce alle piume nello stomaco la proprietà di trat- tenere le spine più grosse di alcuni pesci e le parti indigeribili di molti invertebra- ti acquatici. Come nei Rapaci anche lo Svasso (e il Tuffetto suo consimile pur se molto più piccolo) espelle queste sostanze attraverso le “borre”. I piccoli di Svasso, contrariamente ad altri uccelli acquatici, non nascono con il piu- maggio impermeabile ma lo acquisiscono nel tempo, per questo si arrampica- no da tergo sul dorso dei genitori e da essi si fanno trasportare. Anche quando gli adulti si tuffano loro rimangono attaccati al corpo dei genitori. Una volta però che saranno diventati indipendenti non saranno più tollerati sul dorso degli adulti che li scacceranno a colpi di becco. Ha un’apertura alare di circa 85 cm, una lunghezza di 45/48 cm, un peso cor- poreo intorno ai 800/900 gr ed un’aspettativa di vita di 8/14 anni. Depone da 3 a 6 uova, biancastre con riflessi celesti, che cova per 27/29 giorni. Ha uno status esistenziale discreto. 38 LA GALLINELLA D’ACQUA Pur essendo un uccello acquatico, non possiede le zampe palmate caratteristi- che della specie. Riesce però a nuotare abbastanza agevolmente aiutandosi con movimenti ritmici, “avanti e indietro”, del capo e del collo. Un altro par- ticolare che non sfugge all’occhio attento dell’osservatore, è che nuota man- tenendo il corpo più emerso rispetto a quello di altri uccelli acquatici: sembra infatti che galleggi; ciò per avere un minore attrito con l’acqua e spostarsi così il più velocemente possibile. E’ molto abile nel tuffarsi e nel nuotare sott’acqua dove può restare in apnea per oltre un minuto. Compie dei brevi voli tenendo le zampe pendenti. Quando decide di alzarsi in un volo medio lungo, ha bisogno di correre sul pelo dell’acqua per diverse decine di metri prima di potersi sollevare. Come la Folaga, GALLINELLA D’ACQUA costruisce quasi sempre un nido galleggiante che può spostarsi dal sito origi- nario con l’alzarsi dell’acqua in seguito a temporali e con il perdurare del mal- tempo. Durante il periodo della muta questi uccelli, per la contemporanea caduta delle remiganti, divengono inetti al volo e di conseguenza sono molto vulnerabili. La loro carne tuttavia risulta pressoché immangiabile, sicché sono pochi i pericoli che essi corrono. Ha un’apertura alare di circa 53 cm, un peso corporeo intorno ai 190/250 gr ed un’aspettativa di vita di 11/13 anni. Depone da 6 a 10 uova di color beige giallastro punteggiate di marroncino che cova per 20/22 giorni. Ha uno sta- tus esistenziale ottimo. 39 LA MARZAIOLA E’ una piccola e aggraziata anatra che prende il nome di Marzaiola perché la sua migrazione di ritorno si conclude nel mese di Marzo. E’ l’anatra che ha il più lungo periodo di eclisse del piumaggio. Il maschio perde i suoi colori in luglio e li riacquista solamente a febbraio, quando inizia il periodo della riproduzione. Nei mesi eclissali assomiglia molto alla femmina e si differenzia da essa uni- camente perché mantiene la tinta grigio-bluastra delle copritrici alari. Caratteristica del maschio è una lunga e larga barra bianca che parte dall’oc- chio e finisce dietro la nuca. In un primo momento si potrebbe confondere con l’Alzavola, ma in pratica la distinzione avviene a prima vista, osservando la colorazione dello specchio alare che è di colore assai meno intenso nella Marzaiola. Come tutte le Anatre anche la Marzaiola ha le zampe molto spostate all’indie- tro, per questo si muove con grande difficoltà sulla terraferma; è infatti priva del lobo del dito posteriore, per questo motivo dondola lateralmente tanto da sembrare zoppicante. Ha ali lunghe e appuntite che le consentono di sollevarsi dall’acqua con una certa facilità, senza dover prendere un lungo slancio. Queste anatre, si tuffano assai di rado, preferiscono immergere il capo, il collo e la parte anteriore del corpo cercando accuratamente il cibo sul fondo, mentre la regione posteriore emerge completamente dall’acqua. Ha un’apertura alare di circa 55 cm, una lunghezza di 35/37 cm, un peso corporeo intorno ai 250/ 350 gr ed un’aspettativa di vita di 8/10 anni. Depone da 7 a 12 uova, di color bruno oliva chiaro, che cova per 22/23 MARZAIOLA giorni. Ha uno status esistenziale precario. 40 LA VOLPOCA E’ la più grande delle anatre ed è consi- derata, per la bellezza dei suoi colori, una delle più attraenti. La curiosità sta nel fatto che la colorazione del maschio e della femmina è pressoché uguale. Il maschio però si differenzia dalla femmi- na per il grosso tubercolo che gli orna il becco partendo dall’attaccatura dello stesso con la testa. Nel periodo della riproduzione, la colorazione del becco tende ad essere di un bel colore rosso che VOLPOCA sbiadisce nei mesi estivi fino a diventare arancio giallo. Vive e si alimenta nei corsi d’acqua, ma nidifica anche molto lontano dalla riva scegliendo tane abbandonate dai conigli selvatici o anfratti naturali. Covando in questi siti riparati, nascosta alla vista dei predatori, anche la femmina si può permettere un piumaggio intensamente colorato. Contrariamente, i piccoli quando nascono sono dotati invece di un piumaggio mimetico, e rimangono più a lungo di anatroccoli di altre specie in prossimi- tà della “tana nido” prima di avventurarsi in acqua seguendo i genitori. Un’ultima curiosità di questa specie è rappresentata dalle sue uova, che ten- dono ad avere una forma stranamente arrotondata. Ha un’apertura alare di circa 125 cm, una lunghezza di 56/58 cm, un peso corporeo intorno ai 900/1350 gr ed un’aspettativa di vita di 6/13 anni. Depone da 8 a 14 uova, di colore beige chiaro, che cova per 28/30 giorni. Ha uno status esistenziale buono. 41 L’ANATRA MANDARINA E’ sicuramente la più famosa anatra nella letteratura e nell’arte sia giapponese che cinese. Simbolo della fedeltà coniugale, è stata addirittura considerata sacra in certi villaggi. Il ciuffo sul capo, la colorazione da “ stampa giapponese”, le sue vele che si uniscono tanto da sembrare il tetto di una pagoda, i suoi colori vivaci, la fanno apprezzare dagli appassionati. E’ considerata un’anatra di bosco in quanto nidifica nei vecchi tron- chi d’albero; il nido rivestito di morbido piumino, viene sempre collocato anche a notevole altezza dal suolo. Quando i pic- ANATRA MANDARINA coli nascono, sono muniti di unghie affi- latissime adatte ad arrampicarsi lungo il tronco dell’albero per ritornare nel nido dal quale, per scendere, si lanciano letteralmente nel vuoto da qualunque altezza. Quasi mai avvengono incidenti in seguito a questi spericolati atterraggi, infatti lo scarso peso e le piccole “alucce” anche se ancora poco sviluppate, riescono in qualche modo ad attutire la caduta. Gli antichi Samurai hanno sicuramente copiato per foggia e colori i loro costumi da questa splendida anatra. Naturalmente anche il maschio di questa specie, va in eclisse di piu- maggio e nei mesi estivi assomiglia molto alla femmina perdendo quasi totalmente il suo splendido e particolare apparato nuziale. Ha un’apertura alare di circa 70 cm, una lunghezza di 42/48 cm, un peso cor- poreo intorno ai 500/600 gr ed un’aspettativa di vita di 8/12 anni. Depone da 9 a 10 uova, di color beige chiaro, che cova per 28/30 giorni. Ha uno staus esistenziale buono. 42 IL MARTIN PESCATORE Da secoli il Martin pescatore, nonostante non sia un uccello tipico da compa- gnia o da canto, continua a richiamare l’attenzione dell’uomo eccitandone la fantasia. Secondo antiche leggende si dice che originariamente il suo piumaggio avesse una colorazione grigiastra e quindi insignificante. Narra una leg- genda che Noè avesse comunque provveduto a caricare sulla sua arca anche una coppia di questi uccelli. Al termine del diluvio universale quando tutti gli animali abbandonarono l’arca per tornare sulla terraferma e nei cieli, il Martin pescatore lo fece con un tale impeto che andò a sbattere contro il sole al tra- monto con la parte ventrale del suo corpo che divenne brunita, mentre il dorso, sbattuto dall’impatto con il sole, andò a cozzare contro il cielo pren- dendone il colore azzurro acciaio. Un’altra leggenda racconta che gli antichi Greci erano convinti che questo uccello deponesse e covasse in un nido costruito sopra le onde in mare aperto, da cui il nome greco “halkyon” (colui che concepisce sul mare). E si pensava che gli dèi fossero cosi propizi nei suoi confronti che durante il periodo riproduttivo spianassero le onde del mare per tutta la durata del ciclo riproduttivo. Un’altra leggenda mitologica narra che un Martin pescatore sposò Ceice figlia della stella della sera Espero. Quando l’uccello morì annegato, Ceice disperata si precipitò in mare a gridare tutta la sua disperazione, fu così che gli dèi, impietositi la tramutarono in Martin pescatore. Questo uccello si nutre di pesciolini scegliendo sempre i più piccoli del branco o esemplari malati e vecchi, per farlo usa una tecnica particolare: si posa su di un ramo che passa sopra un corso d’ acqua, per lo più sempre limpidissima, e quando avvista la preda pre- scelta si tuffa catturandola con il forte becco lungo un terzo del suo corpo. Una 43 MARTIN PESCATORE volta portata la preda sul ramo prende a sbatacchiarla ripetutamente fino a che la lisca e le spine non si staccheranno dal corpo rimanendo conficcate nel legno del ramo, dopo di che porta la preda alla femmina in attesa accanto al nido, che successivamente alimenta i suoi piccoli. La razione giornaliera dei “pullus” di Martin pescatore è di 6-7 pesciolini, va da sé che una nidiata composta mediamente da 6 piccoli abbisogna di una quarantina di prede al giorno. Questo uccello ha un’altra particolarità, non si vede mai in branchi, ma sempre e solo in coppia e ha bisogno di un habitat abbastanza esteso di circa 150 metri lungo un corso d’acqua, all’interno del quale non tollera la presenza di suoi consimili. Teme in modo particolare il freddo e in certi inverni molto rigidi la sua popo- lazione può ridursi anche del 70-80%. Ha un’apertura alare di circa 25 cm, una lunghezza di 14/16 cm, un peso cor- poreo intorno ai 35 gr ed un’aspettativa di vita di 6/9 anni. Depone in una cavità del terreno da 5 a 7 uova, di color bianco, che cova per 19/21 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante. 44 “Dio si fa conoscere attraverso la maestosa bellezza della natura.” Galileo Galilei LA RONDINE Costruisce il suo nido in maniera molto singolare. Non sceglie né rami di alberi né cavità né anfratti, ma da provetto muratore qual è, la Rondine costruisce il suo nido sui muri sotto i tetti o sotto una trave sia in legno che in cemento. Per far ciò si posa al suolo e con il becco, appallottola la terra con degli steli d’erba mescolandoli con la saliva; ottiene così tanti piccoli matton- cini che attacca uno sotto l’altro, ottenendo una coppa semicircolare perfettamente attaccata al muro. All’interno però, il suo nido è foderato di materiale molto soffice costituito da sottili fili d’erba e piume di Gallina. Si ritiene che gli antichi, quando iniziaro- no a costruire i primi mattoni per edifica- re le loro case, si siano ispirati proprio al lavoro della Rondine impastando paglia e fango e pigiando il tutto con i piedi. Un tempo, quando non si sapeva che gli uccelli migravano verso i paesi più caldi, si pensava che la Rondine, che con il giungere del freddo scompariva, andasse in letargo o si ibernasse. Un’altra credenza popolare, del resto molto verosimile, diceva che quando la Rondine volava RONDINE alta il tempo era buono, quando invece volava bassa sarebbe arrivata una per- turbazione e quindi la pioggia. Ciò perché la Rondine, dovendo catturare gli insetti volatili di cui si nutre, era costretta a seguirli in alto o in basso a seconda delle condizioni atmosferiche in arrivo. E’ vero infine che la Rondine ritorna al suo nido. Lo si è scoperto spruzzando un po’ di vernice indelebile su diversi esemplari in partenza per la migrazione, alcuni dei quali, quelli sopravvissuti alla grande fatica, sono infatti tornati al loro nido lasciato l’anno precedente. In questo caso si limitano a riassettarlo e a ristrutturarlo, laddove 47 necessita, per poter così accogliere una nuova covata. Ha un’apertura alare di circa 33 cm, una lunghezza di 16/18 cm, un peso cor- poreo intorno ai 20 gr ed un’aspettativa di vita di 3/5 anni. Depone da 4 a 6 uova, di color bianco, picchiettate di marrone, che cova per 13/14 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante. La fiaba “L’Usignolo e la Rondine” Una Rondine molto amica di un Usignolo lo invitò a nidificare come lei, sotto il tetto delle case degli uomini e a condividere la loro dimora, ma quello rispose:“scusami ma non desidero rivivere le mie antiche sventure che ho subito vivendo accanto all’uomo; per questo voglio vivere in luoghi solitari”. (Esopo) IL RONDONE Costruisce il suo nido nelle cavità degli alberi e dei muri, sotto le tegole e non disdegna i “nidi artificiali”. Un tempo andato, i torrioni dei castelli, intere pareti di palazzi e di campanili presentavano dei fori collegati con l’interno e chiusi da uno sportellino. Su questi fori andavano a nidificare i Rondoni i cui pullus, una volta raggiunta la maturità e quindi poco prima dell’involo, veni- vano prelevati dalla servitù per arricchire le mense dei loro signori. Si diceva che fossero “el boccon dei siori e dei preti”. Questo uccello si accoppia più frequentemente in volo, non si posa al suolo per bere, ma lo fa rasentando il corso d’acqua; terminato il periodo della riproduzione trascorre tutto il gior- no e anche la notte in volo. Non si posa mai per terra o su di un ramo, prefe- rendo riposarsi per brevi periodi, aggrappato ad un tronco di un albero, su una parete verticale o su di una roccia. Il Rondone si nutre solo ed esclusivamente di insetti volanti catturati in volo; questi insetti sono abbondanti con il tempo buono e ovviamente scarseggiano 48 con il perdurare delle cattive giornate, ed è ovvio che, in queste situazioni, egli sia costretto per sopravvivere a cercare il cibo a decine e decine, e talvolta anche a centinaia, di chilometri lontano dal suo nido. In questi periodi di magra, fatto davvero curioso ed inspiegabile, la fem- mina interromperà per alcuni giorni la sua deposizione se questa fosse già ini- RONDONE ziata, per riprenderla di lì a qualche giorno; ma nel caso stesse già covando abbandonerà le uova per alcuni giorni, senza che queste, pur raffreddandosi, rallentino il loro sviluppo embrionale. Anche i piccoli già nati possono rima- nere a digiuno senza morire per diversi giorni, cadendo in uno stato di inedia durante il quale, per sopravvivere, attingeranno alle loro riserve di grasso. Se il digiuno perdurerà, i piccoli Rondoni perderanno il controllo della tempera- tura corporea, diventeranno cioè a “sangue freddo” cadendo in una specie di torpore che però consentirà loro di sopravvivere fino a quando non potranno essere nuovamente alimentati regolarmente. Fino a qualche anno fa era fre- quente ammirare il suo volo in stormo, molto bello e spettacolare, ad altissi- ma velocità intorno a chiese e campanili. Al Rondone del Tibet, che del resto non si discosta molto da quello che conosciamo, spetta il primato della velo- cità in picchiata che raggiunge i 375 kilometri orari. Ha un’apertura alare di circa 45 cm, una lunghezza di 15/18 cm, un peso cor- poreo intorno ai 45/55 gr ed un’aspettativa di vita di 7/9 anni. Depone da 2 a 5 uova, di colore bianco grigio, che cova per 13/14 giorni. Ha uno staus esi- stenziale preoccupante. 49 IL CUCULO Si pensava un tempo che il suo canto portasse poco di buono. Va premesso che il Cuculo più che cantare, emette a brevi sequenze un suono un po’ lugu- bre; ebbene si pensava che a chi capitava di sentire questi versi, venissero comunicati gli anni che ancora aveva da vivere…e questi versi purtroppo per lui erano sempre pochi. Tutto ciò, per fortuna, non è affatto vero, ma in pas- sato (ancora oggi nella zona del Cansiglio), qualcuno ci credeva. Piuttosto è vera, ed è da sempre confermata, la fama di parassita del Cuculo: infatti que- sto uccello, non ha voglia di fare niente, non vuole cercarsi il sito dove costruirsi il nido e ovviamente non lo costruisce, non vuole covare le proprie uova e men che mai intende allevare i suoi piccoli. Ecco che allora ha sviluppato alcune caratteristiche che gli consentono in ogni modo (pur fasendo el mestier del Miceasso, magnar e bevar e andar a spasso) senza fare nulla, di dare continuità alla sua specie. In una stagione riproduttiva una femmina di Cuculo deposita, a giorni alterni, fino ad una quindicina di uova, uno in ogni nido di specie anche diverse l’una dall’altra. Le sue uova inspiegabilmente si avvicinano alla colorazione di quelle deposte nel nido ospitante, pur essendo ovviamente più grandi. E qui, viene da chiedersi quali conoscenze di chimica esso abbia acquisito per ottenere questi risultati. Generalmente tutti gli uccelli depongono le loro uova nelle prime ore del mattino, contrariamente al Cuculo che invece le depone il pomeriggio. Dopo la deposizione del proprio uovo, questo autentico parassita provvede ad asportarne uno di quelli che già si trovano nel nido “ospitante” (a volte l’uovo viene mangiato, a volte viene buttato via), in modo che il numero rimanga invariato. Per la sua deposizione egli sceglie sempre nidi di piccolissimi insettivori con netta preferenza per Cannaiole, Pigliamosche, Magnanine e Capinere. E anche in questo caso si rimane colpiti da questa sua conoscenza, se infatti andasse a deporre in nidi di uccelli granivori la sua prole non vivrebbe. L’uovo del Cuculo, anche que- sto è straordinario, si schiude sempre un giorno prima degli altri; appena nato 50 l’istinto del piccolo Cuculo lo porta a sospingere fuori dal nido le uova che ha intorno a sé e quasi sempre riesce a disfarsene, ma se non ce la facesse a fare piazza pulita e il giorno dopo dovesse nascere qualche piccolo, terminerebbe il suo “misfatto” buttando letteralmente fuori dal nido anche questo, in modo da rimanere da solo. Questo perché il cibo CUCULO che riusciranno a portare i suoi ignari genitori adottivi sarà sufficiente sola- mente per lui, che alla fine risulterà essere almeno venti volte più grande e grosso di essi. Il Cuculo adulto è un animale vorace che si nutre in prevalenza dei bruchi pelosi trascurati dagli altri volatili a causa delle sostanze urticanti in essi contenute. Esaminando l’interno dello stomaco del Cuculo, si è trovato la membrana gastrica ricoperta da “peletti” di questi bruchi tanto da apparire come un tessuto vellutato; l’eliminazione di queste sostanze indige- ribili avviene periodicamente mediante la muta della stessa membrana gastrica. Non essendo animale commestibile, non viene né cacciato né predato. Ha un’apertura alare di circa 63 cm, una lunghezza di 30/33 cm, un peso cor- poreo intorno ai 110/125 gr ed un’aspettativa di vita di 8/10 anni. Depone da 12 a 15 uova, di colore vario, su nidi di altri uccelli, che schiudono dopo 12 giorni di cova. Ha uno status esistenziale buono. 51 IL PICCHIO Nel suo genere è un uccello dalle diverse curiosità. Possiede una coda molto rigida, infatti le sue timoniere servono da supporto quando si arrampica o rimane appeso per scavare il nido negli alberi o per cercare il cibo. Per il Picchio, la coda è talmente importante che nel periodo della muta le timonie- re centrali cadono solamente quando quelle laterali sono già cresciute, in modo da non lasciarlo privo di questo prezioso sostegno. Il suo becco, molto forte a forma di punteruolo, gli permette di scavare nel tronco di un albero con una certa facilità. Le sue narici sono ricoperte di piume setolose che lo ripa- rano dalla polvere quando scava nei tronchi. La sua particolare caratteristica è però rappresentata dalla sua lingua, incredibilmente lunga, che riesce a spingere fuori dal palato in maniera notevole, ciò grazie alla particolare struttura e dimensione delle ossa del cranio che la sostengono. La punta della lingua è rigida e orlata di setole e barbe uncinate. Ma non basta, perché questo organo è anche ricoperto da una sostanza collosa, prodotta da ghiandole secernenti muco PICCHIO vischioso, il tutto nel suo insieme costituisce un efficacissimo strumento per catturare le prede più ambite come larve, tenebrioni, insetti in genere e formiche, ma anche per succhiare la linfa degli alberi. Quando è spaventato, allunga a dismisura il collo e lo fa ondeggiare lateralmente imitando in tal modo il comportamento dei serpenti. I piccoli sono in grado di abbandonare il nido arrampicandosi sui tronchi e sui rami già prima di saper volare. Il Picchio, è stato considerato fin dall’antichità un uccello sacro e numerose sono le leggende e i simbolismi che lo accompagnano. In antichità secondo 52 un mito, veniva considerato come un inviato sulla terra di Marte e Giove e dunque capace di trasmettere la loro volontà, per cui, un essere importantissi- mo al quale rivolgersi, per i buoni auspici nell’andamento delle guerre e delle pacifiche attività agricole e pastorali. Un Picchio appare anche nella leggen- da della fondazione di Roma. Infatti, sotto l’ombra del fico, dove si sarebbe arenata la cesta con Remo e Romolo, giunsero una Lupa e un Picchio per nutrirli e allevarli. E Plutarco infatti scrive di quanto questi due animali furo- no ritenuti sacri e come i Latini abbiano sempre avuto per il Picchio una venerazione particolare. Il Picchio infine, nelle sembianze del re di Albalonga (che si chiamava Pico cioè Picchio), era non solo l’istitutore del matrimonio, il protettore delle nascite e il detentore del potere oracolare, ma, tramite il potere di intercessione su Giove, dominava sul fulmine, sul tuono, e sulle piogge benefiche che permettevano un buon raccolto. Questi forti simbolismi si ritroveranno poi sia nel Medioevo come nel Rinascimento, tanto che si arri- vò a vedere nel Picchio predatore dei vermi nascosti che scova con il becco appuntito, un simbolo del Cristo che contrasta dappertutto il nemico. Ha un’apertura alare di circa 37 cm, una lunghezza di 21/22 cm, un peso cor- poreo intorno ai 75/90 gr ed un’aspettativa di vita di 5/9 anni. Depone da 4 a 8 uova, di colore bianco grigiastro, che cova per 15/16 giorni. Ha uno status esistenziale buono. L’USIGNOLO E’ il re degli uccelli cantori. Il maschio si pone sulla cima di un albero della siepe nella quale ha il suo nido e, da quel sito, emette forte e melodioso il suo canto. Con il canto l’Usignolo intende soprattutto far capire ad eventuali intrusi che quello è il suo territorio e che non accetta vicini; è molto raro infat- ti, sentir cantare nei paraggi altri Usignoli. Racconta un chioccolatore (imita- tore del canto degli uccelli), che un giorno volle “sfidare” un Usignolo per studiarne la reazione. Messosi un sacco di juta sopra la testa, entrò nella siepe 53 dove, sopra un albero, un Usignolo stava cantando. Mimetizzandosi a dovere e coprendosi con il sacco e delle frasche, incominciò a cantare imitandolo, questi reagì alzando il tono della sua voce; il chioccolatore fece altrettanto e iniziò USIGNOLO così la sfida fra i due. Ad un certo punto l’Usignolo si avvicinò all’uomo e gli si pose sopra la testa mimetizzata con il sacco e cominciò a colpirlo con il becco; ma l’uomo imperterrito continuò a cantare e allora successe l’incredibile; il maschio, comprendendo di aver per- duto il “confronto” volò via e la femmina, che stava covando poco più in là, abbandonò il nido e si avvicinò all’uomo con fare sottomesso: aveva accetta- to il nuovo maschio. L’uomo ad un certo punto smise e se ne andò e allora la femmina “scoperto il giochetto” ritornò nel suo nido, così come l’Usignolo ritornò a cantare sul suo albero. Ha un’apertura alare di circa 24 cm, una lunghezza di 15/16 cm, un peso cor- poreo intorno ai 22/25 gr ed un’aspettativa di vita di 3/4 anni. Depone da 4 a 6 uova di color grigio piombo, che cova per 12/13 giorni. Ha uno status esi- stenziale preoccupante. LA CINCIALLEGRA La Cinciallegra è un bell’uccellino che costruisce il suo nido all’interno di un buco di un albero. Questo nido è il più soffice che esista in quanto interna- mente è tutto rivestito di lana vergine, infatti la Cinciallegra percorre chilo- metri e chilometri alla ricerca dei ciuffetti di lana lasciati negli arbusti e nei rami bassi degli alberi dalle pecore durante la loro transumanza. La femmina depone nove-dodici uova, una al giorno, e durante questo lasso di tempo non cova e si allontana dal nido. Prima di abbandonare le uova, le 54 copre accuratamente nascondendole sotto lo stesso materiale con il quale ha costruito il nido. Nel corso di una stagione riproduttiva una Cinciallegra può dunque deporre in tre covate fino a trenta uova dalle quali nasceranno altrettanti pullus. Durante l’allevamento però circa un terzo dei nati muore per vari fattori, e se ciò non bastasse, la mortalità continuerà a colpire le giovani Cinciallegre anche in seguito, tanto che dei venti giovani che potrebbero essere mediamen- te svezzati, ben il 70/80% perirà entro i primi dieci mesi di vita, così che arriverà in età adulta e quindi all’attività produttiva un numero piuttosto esiguo di esemplari. Anche la vita media della Cinciallegra adulta è comunque molto bassa, essa può vivere in media dai due ai tre anni pur se alcuni esemplari, molto raramente però, possono arrivare anche a 6-7. I suoi piccoli vengono alimentati in continuazione tant’è vero che si calcola CINCIALLEGRA che una coppia in allevamento porti l’imbeccata ai piccoli per oltre cinquan- tamila volte. Un detto popolare dice che la Cinciallegra porti la primavera: è infatti il primo uccello che si sente cantare e il suo verso sembra dire: “fuori tutti, fuori tutti fuori tutti”……che l’inverno è finito e la bella stagione sta per iniziare. Ha un’apertura alare di circa 24 cm, una lunghezza di 13/15 cm, un peso cor- poreo intorno ai 18/22 gr ed un’aspettativa di vita di 2/3 anni. Depone da 6 a 12 uova di color bianco punteggiate di beige che cova per 12/13 giorni. Ha uno status esistenziale discreto. Nell’ambito del progetto di educazione ambientale della Provincia di Treviso, vengono inseriti nei cortili delle scuole delle cassette nido per la reintroduzione nel territorio di alcuni uccelli. La Cinciallegra fra gli altri è quella maggiormente presente. 55 L’ AVERLA E’ tipico abitatore dei vigneti e di zone ricche di cespugli; se eccitato muove la coda in qua e in là. Non è un rapace pur avendo tante affinità con questa specie. E’ infatti dotato di un forte becco leggermente adunco e dentato e pos- siede dei veri e propri artigli al posto delle unghie. Ad accostarlo ancora di più ai falconidi è la sua alimentazione in quanto le sue prede preferite sono quelle tipiche degli uccelli predatori: arvicole, topo- lini, piccoli rettili, lucertole, anfibi e piccoli uccelli che dopo la cattura ama infilzare su spine e ramoscelli lasciandoli “appassire” per qualche giorno prima di nutrirsene. Svariate sono le interpretazioni per questo curioso e strano comportamento: per taluni sarebbe un modo più comodo per poter dila- niarne le carni, mentre la tradizione popolare ha sempre ritenuto che questo fosse un modo per poter contare su delle scorte alle quali ricorrere nei momenti di magra, dovuta magari a giornate piovose. Che il motivo di questo comportamento sia appunto quello di avere delle “dispense” di riserva, risulterebbe anche dal fatto che molte di queste prede vengono sapientemente infilzate sulle spine all’altezza delle prime vertebre, dietro l’articolazione del capo, così da rimanere paralizzate, ma ancora in vita e durare quindi più a lungo evitando la decomposizione anticipata. Anche nel caso si trattasse di insetti, l’Averla, prima di cibarsene, ha nei loro confronti un trattamento particolare: mantiene la preda ben stretta nel becco strappando con i piccoli, ma forti artigli le parti chitinose più ampie; se si tratta di bruchi, a colpi di becco ne estrae addirittura l’intestino e quando cattura un imenottero lo priva del suo pungiglione sfregandolo ad arte contro un ramo. AVERLA PICCOLA E’ raro 56 poter ascoltare il canto dell’Averla e comunque, sempre e solo, dopo il suo immediato ritorno dai luo- ghi di svernamento. I fortunati fruitori del suo canto hanno così modo di apprezzare le sue qualità canore e di vivere un’esperienza particolare. Oltre al tipico verso della sua specie, questo uccello ha modo di farsi apprez- zare per le varie imitazioni del canto di numerosi altri volatili, riunite in una armoniosa ed eccellente composizione, che esegue per lungo tempo. Ha un’apertura alare di circa 25 cm, una lunghezza di 16/17 cm, un peso cor- poreo intorno ai 23/28 gr ed un’aspettativa di vita di 2/4 anni. Depone da 4 a 6 uova, di colore variabile verdino giallino e rossiccio picchiettate di bruno, che cova per 14/15 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante. IL CROCIERE La curiosità maggiore di questo uccello è quella di possedere un becco incro- ciato, forse unico nel mondo degli uccelli, che dà appunto origine al suo nome: Crociere. La sua dieta è composta quasi essenzialmente di semi di conifere, che estrae dalle squame legnose delle pigne, grazie alla conforma- zione incrociata delle punte di questo becco che funziona come un apriscato- le. Un altro particolare significativo è dovuto all’abbondanza anche nei mesi freddi del cibo di cui si nutre, quindi è in grado di nidificare molto precocemente; si possono trovare nidi di Crociere infatti fin da gennaio. Per questo loro trafficare incessantemente con i frut- ti di conifere, i Crocieri hanno spesso il piumaggio ricoperto da un leggero strato di resina il che talvolta impedisce ai corpi dei volatili morti di decomporsi, restando soggetti ad un processo di mummificazione naturale. Questi uccelli sono anche famosi per i grandi stormi che formano durante le loro migrazioni 57 CROCIERE provocate da sovrappopolamento o a scarsità di cibo. Spesso, a causa della loro entità numerica molto elevata, questi stormi destano un’attenzione note- vole. Ricorda un cronista inglese che nel lontano 1251 un enorme stormo di Crocieri aveva letteralmente “sommerso” il suo paese. Ha un’apertura alare di circa 28 cm, una lunghezza di 15/16 cm, un peso cor- poreo intorno ai 36 gr ed un’aspettativa di vita di 2/4 anni. Depone da 3 a 4 uova, di color beige chiaro con rare macchie brunastre, che cova per 14 /16 giorni. Ha uno status esistenziale buono. IL FROSONE Questo uccello dalla struttura corporea corta e tozza, che lo rende un animale molto vigoroso, presenta una particolare curiosità: un becco talmente forte da diventare oggetto di studio e di approfondimento da parte di tanti studiosi e zoologi. Il Frosone è un uccello granivoro e per arrivare al seme della ciliegia, dell’oliva o del susino deve spolpare il frutto e arrivare al nocciolo che con estrema facilità riesce a rompere. Un noto studioso francese di Frosoni scrive in un suo testo: “Il loro cranio è stato ammirato da ingegneri meccanici come un esempio perfetto di adattamento a sollecitazioni particolarmente forti. In questo cranio ogni linea retta e curva è rinfor- zata, puntellata e ingrossata, in modo da aumentarne la robustezza. La forza necessaria per rompere tali semi è stata misurata per mezzo di speciali apparecchi costruiti a imitazione del becco di questi uccelli. In uno di questi congegni per rompere dei noccioli di ciliegia fu necessario esercitare una forza da 27,5 a 43,2 kg; mentre per rompe- re i noccioli di oliva decisamente più duri furono necessari da 45,8 a 68,3 kg”. Lo studioso in questione evidenzia il fatto che que- sti dati da capogiro devono essere confron- FROSONE tati con il peso corporeo dei Frosoni non 58 superiore ai 55 gr. Un’altra curiosità del Frosone è rappresentata dal fatto che, al contrario di altri uccelli, esso si presenta in grande quantità tra resti fossili; in uno di questi resti, scoperto in Polonia nel 1910 in un deposito dell’era glaciale, fu recu- perato addirittura lo stomaco dell’uccello, all’interno del quale furono rinvenuti semi di ciliegie selvatiche, piante tuttora presenti nella stessa regione ed ancora predilette dai Frosoni presenti in quei luoghi. Ha un’apertura alare di circa 31 cm, una lunghezza di 16/18 cm, un peso corporeo di circa 55 gr ed un’aspettativa di vita di circa 2/4 anni. Depone da 3 a 7 uova di color grigio azzurrastro con mac- chie bruno-oliva, che incuba per 12/14 giorni. Ha uno status esistenziale buono. IL RIGOGOLO È conosciuto con diversi nomi dialettali: “Compare Piero”, “Miglioro” e “Uccello della Pentecoste”. (Poichè ritorna nei luoghi di nidificazione piuttosto tardi a primavera inoltrata). Per costruire il suo nido sceglie sempre un grande albero con delle chiome molto frondose e nella parte alta ed esterna, da quel gran “artigiano” qual’è, intreccia in maniera perfetta e con grande maestria lunghi fili d’erba nella biforcazione orizzontale del ramo in RIGOGOLO modo che alla fine del suo lavoro il nido risulterà una specie di amaca sospe- sa nel vuoto. Particolare curioso: per far si che i fili d’erba non si sfilaccino e che il nido non cada, il Rigogolo, a opera conclusa, passa ogni stelo con la sua saliva che è un ottimo collante così da rendere i fili d’erba, che sostengono il nido, particolarmente resistenti. Nonostante i colori vistosi del maschio è difficile scorgerlo mimetizzato com’è nel folto del fogliame, la sua presenza si avverte soltanto in seguito al suo canto che difficilmente sfugge all’ascolto. Il 59 dimorfismo (la differenza) sessuale tra il maschio e la femmina è notevole, e i giovani Rigogoli fino a muta conclusa hanno lo stesso piumaggio della madre. La femmina porta a termine una sola covata in quanto già ad agosto per que- sta specie inizia la grande avventura della migrazione; questi uccelli attraversano tutta l’Africa e svernano nella parte meridionale del continente nero. Ecco perché partono presto e arrivano tardi rispetto alle altre specie. Ha un’apertura alare di circa 35 cm, una lunghezza di 23/25 cm, un peso corporeo di 52/55 gr ed un’aspettativa di vita di 3/5 anni. Depone da 4 a 5 uova di colore bianca- stro, tendente al rosa, picchiettate di bruno violaceo e le cova per 14/15 giorni. Ha uno status esistenziale discreto. LA GAZZA In dialetto “Gaia” o “Checa”. Un tempo veniva allevata e addomesticata dal- l’uomo che la lasciava libera nel cortile della casa colonica unitamente agli altri volatili, come galline, colombi, tacchini e altri. È ovvio che non era dete- nuta per la sua carne (si dice non sia buona) bensì per compagnia. Obbediente, intelligente, per molti appassionati è pure stata una spalla ideale in spettacoli televisivi e teatrali. L’appellativo di “ladra” le è appropriato poi- chè è attratta da tutto ciò che luccica e quindi anche dai gioielli. Un tempo si cercavano i nidi di gazza proprio per ritrovare, la catenina o il braccialetto d’oro, improvvisamente scomparsi, molto spesso si aveva la bella sorpresa di ritrovarli proprio all’interno del nido, insieme a pezzettini di vetro, frammenti di specchio e altro ancora, tutti oggetti che la Gazza riteneva utili per adornare la sua “casa”. Volatile ciarliero e chiasso- so (alcuni linguisti fanno derivare da Gazza il termine “gazzarra”), ha una 60 GAZZA LADRA voce rauca e sgradevole che rivela chiaramente nelle varie intonazioni lo stato d’animo dell’animale. Si nutre di qualsiasi alimento: insetti, molluschi, picco- li invertebrati, granaglie, frutta e bacche, ma non disdegna nemmeno le caro- gne di animali morti pur se il suo cibo preferito è costituito da uova e da pullus di uccelli, che, famelica, preda dai loro nidi. Molti soggetti hanno l’abitudine di premunirsi contro periodi di carestia accu- mulando scorte di cibo e nascondendole nelle cavità degli alberi o in altri nascondigli. Gli antichi Romani usavano tenere presso la porta di casa una gabbia con dentro una Gazza addestrata a rivolgere il saluto ai visitatori. Ha un’apertura alare di circa 55 cm, una lunghezza di 43/45 cm, un peso cor- poreo di 220/250 gr ed un’aspettativa di vita di 12/13 anni. Depone 6/8 uova di colore grigio verde azzurrognolo con macchie olivastre, e le cova per 25/27 giorni. Ha uno staus esistenziale in esasperato aumento. L’ UPUPA Presente in molti esemplari nel nostro territorio fino ad una quarantina d’anni fa, oggi sopravvive a stento in pochissimi esemplari a causa della scomparsa del suo habitat preferito: la siepe con i salici selvatici che, invecchiando, lasciavano degli anfratti sui quali, appunto, l’Upupa nidificava. Era molto facile pertanto trovare il suo nido, bastava visitare questi siti, attirati anche da un odore nauseabondo che si spargeva tutto intorno. Gli uccelli in genere, mantengono puliti i loro nidi dalle deiezioni dei piccoli, per evitare che il cat- tivo odore attiri i predatori; cosa questa che l’Upupa non fa lasciando tutte le feci intorno al nido. A difendere la sua nidiata ha però provveduto madre natura; i “pullus” infatti sono dotati di sostanze puzzolenti che in caso di pericolo vengono “spruzzate” dalla ghiandola uropigia contro il predatore che sarà così costretto ad abbandonare le potenziali prede. Questi schizzi sono prece- duti da un primo avvertimento: un forte sibilo emesso, sia in coro che singo- larmente, con l’intento di allontanare i predatori. Spesso questo sibilo intimo61 riva anche l’uomo che, prima di introdur- re la mano nell’anfratto, ci pensava due volte temendo la presenza, di qualche altro animale. A contribuire e ad aumentare il cattivo odore prodotto dalle deie- zioni e dagli schizzi, è la stessa femmina UPUPA in cova nel nido; essa secerne una sostan- za maleodorante che impregna il nido stesso e ovviamente i piccoli, ma non basta, perchè a completare il quadro anche i “pullus” producono la stessa sostanza puzzolente e maleodorante. L’Upupa possiede un’altra curiosità meritevole di essere segnalata: essa si nutre di vermi, grillotalpe, coleotteri e bruchi di ogni genere, cercati nel terreno, fra i sassi e nello sterco del bestiame. Prima di inghiottire le prede più grosse, le libera delle parti chitinose sbat- tendole più volte a terra fino a che le ali, la testa e le zampe non si staccano dal corpo riducendone in questo modo le dimensioni, ma l’Upupa ha un becco troppo sottile e la piccola lingua non riesce ancora a spingere all’interno del gozzo il prelibato “boccone”. Allora ricorre ad uno stratagemma tutto suo. Lancia in alto la preda e la afferra con il becco spalancato così da inghiottirla di colpo senza molta fatica. L’Upupa in volo sembra una grossa farfalla per il suo battito d’ali molto lento e per la traiettoria piuttosto ondulata. Ha un’apertura alare di circa 45 cm, una lunghezza di 25/27 cm, un peso cor- poreo intorno ai 65/70 gr ed un’aspettativa di vita di 8/9 anni. Depone da 6 a 8 uova color bianco grigioverde, e le cova per 17/19 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante. 62 “Con tutti gli esseri e tutte le cose noi saremo fratelli.” Proverbio Pellerossa LA GRACULA La Gracula religiosa detta anche Maina o ancora Merlo indiano, è originaria dell’India anche se ormai fa parte degli uccelli frequentemente allevati e dete- nuti per affezione da parte di tanti appassionati. Allo stato selvatico nei luoghi d’origine è molto apprezzata dagli indigeni nonostante le dannose scorrerie nei campi coltivati. Sin dai tempi antichissi- mi era uso in India tenere questi volatili in cattività e bisogna dire che le Gracule per il bell’aspetto, la vivace intelligenza, la perfetta adattabilità alla vita captiva, risultano piacevolissimi pennuti ornamentali. Ma il pregio mag- giore di questo volatile risiede nelle notevoli capacità mimiche che lo rendo- no capace non solo di riprodurre il canto di altri uccelli, il verso di altri ani- mali e di apprendere a fischiettare sem- plici “ariette”, ma soprattutto di ripetere con estrema chiarezza alcune parole del linguaggio umano. A questo riguardo le Gracule superano di molto i Pappagalli, non solo perché riescono a ripetere un maggior numero di parole, ma per il tono della voce che assomiglia in modo sor- prendente a quello umano. All’uso della “parola” anche le Gracule, come i Pappagalli, vanno pazientemente adde- GRACULA strate. Un’altra particolarità curiosa è dovuta al fatto che questi uccelli, se par- ticolarmente addestrati, sono capaci di seguire passo dopo passo il proprietario e di accorrere, con una prontezza incredibile, al suo richiamo. Ha un’apertura alare di circa 42 cm, una lunghezza di 28/32 cm, un peso cor- poreo intorno ai 130/140 gr e una aspettativa di vita di 15/20 anni. Depone da 2 a 4 uova di colore biancastro e le cova per 27/29 giorni. Ha uno status esistenziale buono. 65 I PAPPAGALLI Primo particolare curioso che riguarda questa specie è rappresentato dal fatto che è presente in tutti i continenti fatta eccezione per l’Europa, tuttavia grazie al ritrovamento di fossili di Pappagalli Cenerini africani, se n’é potuta dimo- strare la presenza, risalente a circa 40-50 milioni di anni fa, anche nel nostro continente. Il Pappagallo è molto apprezzato per i suoi variopinti colori e per la sua particolare capacità di imitare le parole umane. Quasi tutti i Pappagalli usano il becco come se fosse la loro terza zampa, principalmente quando si arrampicano su di un albero. Già migliaia di anni fa l’uomo si interessò ai Pappagalli: fu un timoniere di una nave di Carlo Magno a portare in Europa i primi esemplari vivi. Nell’antica Roma già si allevavano Pappagalli, come ricorda Plinio il Vecchio dissertando, a proposito di questi uccelli, che sem- bravano capaci di parlare. Egli descrisse un singolare metodo per indurli a farlo: “si prenda un bastone duro quanto il becco dell’animale e con esso lo si picchi sul capo”. In una nota della Curia, che risale al quattordicesimo seco- lo e conservata negli archivi Vaticani, si cita un “custode dei Pappagalli”. Sempre in questo periodo l’imperatore tedesco Federico 2°, considerato il fondatore dell’ornitologia scientifica, possedeva un Cacatua Alba, donatogli dal sultano di Babilonia. Un’altra curiosità su questi volatili, vuole che abbiano contribuito alla scoperta dell’America. Uno stormo di questi uccelli, secondo certi racconti, avrebbe indotto Colombo a un decisivo mutamento di rotta per seguirlo; il celebre navigatore collegò la presenza dei Pappagalli alla vicinanza della terra ferma, intuizione felice che poi si realizzò. I Pappagalli sono molto longevi: gli Ondulati possono arrivare facilmente ai 13 anni, ma aumentando le dimensioni si sono avuti casi di Cacatua, Amazzoni e Are che hanno raggiunto gli 80 anni e talvolta superato anche il secolo di vita. Il più ciarliero dei pappagalli è il Cenerino; certi esemplari di questa specie Africana riescono a ripetere anche 90 parole. Un artista di un circo poneva al suo “pupillo” ben 30 domande in quattro diverse lingue, l’uccello dava le 66 risposte imparate a memoria nella lingua giusta. Il celebre Perzina, riconosciuto come il padre dei Pappagalli, riusciva a far rappresentare dai suoi Uccelli una scena di addio alla stazione ferroviaria con le diverse parti perfettamente distribuite: “salire sulla carrozza e chiudere la porta”, “non sporgersi dai finestrini”; continuava poi con il fischio, il rumore PAPPAGALLO CENERINO del convoglio che partiva e concludeva con “arrivederci mamma”. Questi risultati si ottengono in quanto l’animale tende a creare un rapporto stretto con il suo tutore, che viene ad assumere il ruolo di compagno mancante. Tutti i Pappagalli hanno un comportamento sociale e farli vivere soli è per essi una grande sofferenza. Ecco perché l’uomo deve trascorrere molte delle sue ore creando questo rapporto sostitutivo. I grandi Pappagalli tenuti isolati purtroppo molto spesso si strappano da soli le penne delle ali e della coda. La causa di questo comportamento molto spiacevole va ricercata nella noia della solitudine. Sono molte le specie di Pappagalli ormai allevate dall’uomo e soprattutto sono molte diverse le loro dimensioni, il loro peso corporeo, il numero delle uova deposte e la loro longevità. 67 L’ AQUILA REALE E’ indubbiamente uno degli uccelli più imponenti e maestosi. Per tale ragione sin dai tempi dell’antichità è assurta a simbolo di nobiltà e di fierezza, e la sua immagine è stata riprodotta su innumerevoli stemmi gentilizi. Leggermente più picco- la solo dell’Aquila di mare, è comunque la più forte, grazie soprattutto alla poten- za dei suoi artigli. Per avere ragione anche delle prede più combattive, l’Aquila reale gioca soprattutto sul fattore sorpresa: durante la caccia esamina infatti con molta attenzione il territorio, abbassandosi a breve distanza dalla terra, una volta individuata la preda anziché cacciarla con il rischio di vedersela sfuggire, preferisce “ allontanarsi” e risalire rapidamente a grandi altezze, per poi calare su di essa con una picchiata fulminea e inaspettata, atterrendo in tal senso la preda con la sua improvvisa apparizione, tanto che questa rimarrà immobile come pietrificata. Riuscirà così a ucciderla facilmente. Una volta affondati gli artigli sulla preda, se si tratta di un animale vigoroso, si lascerà trasportare anche per centinaia di metri senza mollare la presa, finchè la vittima cadrà sfinita per le profonde ferite e le abbondanti perdite di sangue. Le prede preferite vanno dai cuccioli di Camosci, Caprioli e Cervi, a Marmotte, Volpi, Conigli selvatici e Lepri, che vengono por- tati successivamente in un luogo aperto per venire dilaniati a colpi del suo pos- sente becco adunco. Se si tratterà di uccelli, l’Aquila li ghermirà in volo e li ucciderà con un ben assestato colpo dell’unghia del dito posteriore prima di trasportarli nel suo nido. In certi paesi asiatici, è ancora attuale il mercato delle Aquile che vengono addestrate per la caccia in partico- lare a Volpi, Caprioli, e Lupi. Il loro prezzo è fissato in due o più Cavalli o in due o più Cammelli, a seconda della bontà dell’adde- stramento del rapace. L’ Aquila ha bisogno di un habitat molto esteso (8.000/10.000 AQUILA ha) sul quale costruisce alcuni nidi che 68 sono usati alternativamente nel corso degli anni. L’Aquila depone generalmente due sole uova con un intervallo, tra il primo e il secondo, anche di quattro giorni; in qualche rara occasione può deporne anche tre. I pullus lasciano il nido dopo 70 giorni circa e raggiungono la maturità sessuale solamente al quarto anno di età. Come gli altri rapaci, una volta compiuta la digestione anche l’Aquila rigurgita le cosiddette “borre piumate”, un ammasso di piume e ossa delle prede che non riesce a defecare. Ha un’apertura alare di circa 200 cm, una lunghezza di 78/83 cm, un peso corporeo di 4/6 kg ed un’aspettativa di vita di circa 25 anni. Depone generalmente 2 uova di colore bianco con grandi chiazze color rosso-bruno e le cova per circa 45 giorni. Ha uno status esistenziale preoccupante. La fiaba “L Aquila e la Volpe” Un’Aquila e una Volpe divennero amiche e decisero di abitare una accanto all’al- tra, convinte di rafforzare il loro sentimento. Così l’Aquila volò sopra ad una rupe e vi costruì il suo nido dove nacquero i suoi piccoli, la Volpe scelse un cespuglio sotto la stessa rupe dove scavò la sua tana e partorì i suoi cuccioli. Un giorno, mentre mamma Volpe era a caccia di prede per nutrire i suoi cuccioli, l’Aquila osservandoli mentre giocherellavano al di fuori della tana, piombò su di essi e se li portò nel suo nido dove, insieme ai suoi piccoli, li divorò. Al ritorno dalla caccia, mamma Volpe scoprendo il misfatto fu colta da un grande sconforto, sia per la morte dei suoi cuccioli sia per il tradimento subito da parte dell’amica. Da allora, pur se impotente perché mai avrebbe potuto arrivare fin sopra la rupe, pensò solo alla vendetta. E non passò molto tempo. Un giorno l’Aquila osservò dall’alto della sua dimora, che a valle si stava offrendo in sacrificio una capra agli dèi, essa piombò giù e ghermì uno dei visceri dell’animale sacrificato senza accorgersi che stava prendendo fuoco; una volta tornata sul nido, lo depose fra la paglia e i rami sec- chi, ma una folata di vento accese una vivida fiammata che investi i suoi piccoli che in breve bruciarono e caddero al suolo. La Volpe allora accorse e se li divorò sotto gli occhi atterriti della madre che osservava dall’alto della rupe. (Esopo) 69 FALCO PECCHIAIOLO La buona riuscita della sua covata dipende dalla quantità di vespe, api e cala- broni allo stato larvale che riesce a trovare. E’ meno interessato agli insetti adulti dei quali tuttavia non teme le punture, protetto com’è, da un piumaggio forte e ispido disposto regolarmente tra il becco e gli occhi con il compito di proteggere la vista durante la cattura di questi insetti. Nello stomaco e nel gozzo di alcuni Pecchiaioli furono rinvenute vespe e api prive di pungiglione, e questo portò a ritenere che questo falconide provvedesse ad eliminare il pericoloso organo, prima di inghiottire gli insetti. Un Pecchiaiolo, intento a raspare sul ter- FALCO PECCHIAIOLO reno alla ricerca dei nidi di vespe è tal- mente preso da questo lavoro, che non si accorgerebbe nemmeno dell’avvicinarsi dell’uomo che lo potrebbe facilmente catturare con le mani, se esso non fosse circondato da un nugolo di insetti ronzanti. Alcuni anziani raccontano di aver osservato più volte che dei Pecchiaioli di fronte alla carcassa di animali morti da giorni, non si nutrivano della loro carne, bensì delle larve di mosconi che trovavano nelle carogne. Naturalmente questi rapaci si cibano anche di retti- li, uccelli e piccoli mammiferi ma talvolta non disdegnano nemmeno frutta e bacche. Il Pecchiaiolo non si costruisce il nido da sé, ma opportunamente sfrutta un vecchio nido abbandonato di Astori o Poiane, restaurandolo. Generalmente nascono due pullus, solo raramente tre, ma quasi sempre sarà uno solo ad arrivare alla maturità. I piccoli depongono le loro deiezioni sul fondo del nido e non oltre il bordo del medesimo, come fanno generalmente gli uccelli; queste deiezioni, tra l’altro, molto dense e scure, imbrattano il nido e di conseguenza i genitori devono portare in continuazione del fogliame fre70 sco per isolarle. Contrariamente alla maggior parte degli altri uccelli, i Pecchiaioli non provvedono ad eliminare i resti del pasto dal nido dopo aver nutrito i pullus, per cui con il trascorrere dei giorni i favi finiscono per accu- mularsi gli uni sugli altri sino a impedirne i movimenti. Un’altra curiosità, questa volta assurda, riguarda l’abbattimento sistematico di questo splendido rapace quando questi rientra in Italia dopo lo svernamento. I Pecchiaioli vengono abbattuti a centinaia ogni anno intorno allo stretto di Messina dall’uo- mo della strada, convinto che una volta abbattuto un Pecchiaiolo la propria moglie non lo tradirà mai…. Ha un’apertura alare di circa 130 cm, una lunghezza di 50/55 cm, un peso cor- poreo di 750/1150 gr ed un’aspettativa di vita di 23 anni. Depone 2/3 uova di color biancastro picchiettate di porpora scuro e le cova per 33/35 giorni. Ha uno status esistenziale discreto. LA POIANA E’ sicuramente il rapace più diffuso e popolare nella nostra zona. Essa nidifi- ca nelle foreste, mentre caccia in prevalenza nelle zone agricole aperte, che esplora dall’alto con volo planato, librandosi talvolta immobile nell’aria. Alcuni studiosi hanno dimostrato che la preda preferita dalla Poiana è il topo campagnolo; tale roditore costituisce circa il 40% delle sue prede; se si tiene poi conto delle altre specie di topi cattu- rate, si raggiunge una percentuale di oltre il 50%. Questo rapace non disdegna cibarsi anche di uccelli, locuste, serpenti, coleotteri e lombrichi con i quali integra la propria dieta. Un tempo era considerato un grave peri- colo per i pulcini di gallina o altri animali da cortile domestici. Il volteggiare in 71 POIANA cielo della Poiana, metteva in allerta le donne delle campagne, che si passa- vano parola del pericolo incombente e correvano nei cortili e nei campi cir- costanti le abitazioni per portare al riparo nei recinti e nelle stalle i piccoli ani- mali, preservandoli dall’attacco del predatore. Particolare curioso: chi percor- re l’autostrada, che porta da Padova a Bologna (ma pure altrove), potrà osser- vare diverse Poiane appollaiate sulla rete di recinzione che delimita l’arteria stradale dall’aperta campagna. La scarsità di cibo e un habitat davvero stra- volto, ha trasformato questi abili rapaci in veri e propri opportunisti; essi infatti attendono che qualche uccello o qualche mammifero venga travolto dal traffico per volare su di esso, ghermirlo dalla sede stradale e portarselo sul ter- reno aperto per potersene cibare. Ha un’apertura alare di circa 115 cm, una lunghezza di 52/55 cm, un peso corporeo di 700/1100 g ed un’aspettativa di vita di circa 20 anni. Depone 2/3 uova di color biancastro con macchie brunoruggine e le cova per 27/28 giorni. Ha uno status esistenziale buono. IL BARBAGIANNI E’ uno dei rapaci notturni più diffusi, tipico abitatore di campanili, granai, soffitte e anfratti di vecchie case. Una sua stranezza deriva dal fatto che inizia a covare dopo la deposizione del primo uovo; in questo modo i piccoli della sua covata avranno svariate dimensioni, i piccoli potranno avere cinque o anche sei giorni di differenza l’uno dall’altro. Come tutti i rapaci notturni, possiede un piumaggio molto folto e ciò gli consente un volo molto silenzioso grazie anche ad una particolare struttura petti- nata della parte più esterna dell’ala, che impedisce la vibrazione dell’aria spostata. Ciò dà al Barbagianni un grande vantaggio all’atto della cattura della preda prescelta. Le zampe sono piuttosto lunghe e ricoperte di piume, gli arti- gli hanno un rado rivestimento di peli, l’artiglio esterno è reversibile, può, cioè, essere spostato sia lateralmente che all’indietro. Come altri predatori della notte possiede un udito molto sviluppato che gli permette di localizzare la 72 preda anche nell’oscurità più profonda. Il Barbagianni non si spinge sulle montagne nemmeno per cacciare, in quanto è molto sensibile al freddo e non possiede la proprietà di poter immagazzinare, in autunno, grandi quantità di grasso. Negli inverni più rigidi, quando la neve copre il terreno, molti barbagianni non riescono a sopravvivere e muoiono. Anche i piccoli BARBAGIANNI nel nido sono piuttosto freddolosi ed è sufficiente che la temperatura scenda di qualche grado perché si addossino l’uno all’altro per riscaldarsi, così come del resto fanno pure i mammiferi. Il Barbagianni è molto fedele al suo territorio, quindi nemmeno i giovani in età riproduttiva si allontanano di molto dall’habitat in cui sono nati. Le sue prede preferite sono quelle tipiche degli Stringiformi in genere: Topi, Topi campagnoli, Arvicole terrestri, Ratti, Talpe e piccoli Uccelli. Ma la preda preferita dal Barbagianni è costituita dai Pipistrelli che vengono catturati in volo quando escono dai loro antri emetten- do i tipici squittii che richiamano l’attenzione del predatore. Per secoli è stato considerato il “marito” della Civetta. Effettivamente i due uccelli notturni fre- quentano spesso gli stessi ambienti, perciò vederli insieme nei casolari e nei fienili contribuì ad accomunarli in un modo tanto improprio. Ha un’apertura alare di circa 90 cm, una lunghezza di 33/37 cm, un peso cor- poreo intorno ai 350 gr e una aspettativa di vita di 7/9 anni.Depone da 4 a 7 uova di color biancastro e le cova per 32/34 giorni. Ha uno status esistenzia- le molto precario. 73 LA CIVETTA Tipica abitatrice delle vecchie case coloniche, trova tuttavia habitat ideale anche in buchi di alberi, anfratti e altre cavità. E’ il rapace notturno più conosciuto e popolare. Diverse sono le curiosità che riguardano la Civetta. Il suo canto, per chi avesse la sventura di sentirlo, sarebbe portatore di disgrazie, ma ciò non è certamente veritiero; contrariamente agli altri rapaci notturni la Civetta si può osservare, sia pure raramente, anche di giorno posata su pali, tetti e altri posatoi; caratteristici sono i suoi rapidi movimenti da destra a sini- stra, in alto e in basso del capo e del corpo, conosciuti come delle “riverenze” che indicano la sua titubanza quando si sente scoperta; durante gli inverni più rigidi molti esemplari di Civetta muoiono di inedia. Come del resto per altri rapaci notturni, il numero di cellule visive nella retina è altissimo e abbonda- no soprattutto quelle che consentono la visione in “bianco e nero” anche di notte. La posizione frontale degli occhi non permette a questi rapaci una buona visione laterale, ciò significa che la loro vista sarà naturalmente precisa, ma solo in una ristretta zona del campo visivo, appunto quella frontale, ciò rende possibile una buona visione in profondità e quindi una sicura percezio- ne delle distanze. Gli occhi della Civetta, come del resto quella di tutti i rapaci notturni, sono assai grandi e, come si è detto, immobili; di conseguenza gli uccelli devono volgere il capo ogni qualvolta vogliono mutare la direzione dello sguardo. Questo rapace come del resto gli altri della sua famiglia, è allora in grado di girare la testa fino a 270° (riesce in pratica a roteare il capo e a portare gli occhi dietro le spalle) e questa incredibile opportunità è necessaria per poter controllare tutto intorno alla ricerca delle prede in maniera silenziosa, senza CIVETTA doversi spostare sul ramo. Un udito finis74 simo è infine il senso maggiormente sviluppato che aiuterà il rapace notturno nelle sue cacce. Nell’antica Grecia la Civetta era sacra e il suo nome scientifico, Athene noctua, ci ricorda che era associata ad Atena, la dèa della sapien- za. Per gli indiani d’America le Civette rappresentano, ancora oggi, l’incarnazione del Grande Spirito che ammonisce gli uomini per la mancanza di rispetto verso gli animali; gli aborigeni australiani infine credono che le Civette racchiudano l’anima femminile. Una espressione assai comune e attuale, definisce la donna truccata ed elegante: un po’ “civettuola”. Ha un’apertura alare di circa 55 cm, una lunghezza di 20/22 cm, un peso cor- poreo intorno ai 180/190 gr ed una longevità di 6/10 anni. Depone da 4 a 8 uova di colore bianco e le cova per 25/27 giorni. Ha uno status esistenziale molto precario. IL GUFO COMUNE E REALE E’ un rapace notturno, ma la sua prerogativa consiste nel cacciare già nel pomeriggio per alimentare i suoi piccoli sempre piuttosto numerosi e quindi sempre affamati. Abita boschi e boscaglie dove non costruisce il suo nido, ma utilizza quelli di Gazze e Cornacchie abbandonati. I piccoli, quando nascono, sono coperti da un piumino bianco rosato, mutato con il passare dei giorni con il piumaggio da adulti. Molto simile all’Assiolo, si differenzia dallo stesso per le dimensioni quasi doppie, per il colore del suo piumaggio di un caldo mar- rone, per i suoi occhi gialli e per due ciuffetti di penne poste sulla punta delle orecchie anch’essi molto più evidenti. La femmina generalmente è più gran- de del maschio. Accanto al Gufo comune si distingue il Gufo reale. Decisamente più grande e più grosso si differenzia anche per la posizione dei ciuffetti di penne posti sulle orecchie: anziché essere ben ritti verticalmente, sono spostati lateral- mente. Il Gufo reale vive in particolari gole dalle pareti ripide che offrono la protezione di nicchie e caverne. Compare però anche in selve, foreste acqui75 trinose e macchie di pini selvatici. Nidifica prevalentemente nei nidi abbandonati di Corvidi, di Colombacci e di Garzette; in alcuni casi sono state notate deposizioni sul terreno, fra i cespugli. Sono uccelli stanziali e rimangono fedeli GUFO COMUNE al loro territorio personale ricco di quelle prede che maggiormente apprezzano come Lepri, Conigli selvatici, Colombi, Ricci, Scoiattoli, e di altre meno gradite ma comunque ricercate come Ratti, Topi e Arvicole. Le “borre” vomitate dal Gufo reale sono estremamente lun- ghe (circa 10 cm x 3), nonostante questi rapaci siano portati a scuoiare e a spennare le prede più grosse, eliminando così quasi tutte le parti non comme- stibili. Sovente sono stati trovati sotto i fili dell’alta tensione dei Gufi reali morti perché fulminati dalla corrente elettrica; ciò è dovuto alla loro grande apertura alare che può arrivare sino ai 170 cm. di larghezza. Queste dimensio- ni impediscono al volatile di passare tra un cavo e l’altro della linea elettrica, andando ad urtare i due poli dell’alta tensione provocando il contatto che li uccide sul colpo. Le uova del Gufo reale hanno una insolita forma cilindrica e vengono deposte a intervalli irregolari, da 1 a 4 giorni di distanza uno dal- l’altro. La vita del Gufo reale è piuttosto lunga, dato che arrivano frequentemente ai 25 anni. Il Gufo Comune, ha un’apertura alare di circa 90 cm, una lunghezza di 35/37 cm, un peso corporeo intorno ai 250/320 gr ed un’aspettativa di vita di 10/13 anni. Depone 2/3 uova di color bianco e le cova per 34/35 giorni. Ha uno status esistenziale discreto. Il Gufo reale ha un’apertura alare di circa 160 cm, una lunghezza di 56/73 cm, un peso corporeo intorno ai 2.800 g ed un’aspettativa di vita di 15/25 anni. Depone da 2 a 5 uova di colore bianco grigio, covate per 33/35 giorni. Ha uno status esistenziale molto a rischio. 76 IL PAVONE Originario dell’India, dove pare sia apparso circa 4.000 anni orsono, il Pavone è oggi diffuso in tutto il mondo come Uccello ornamentale, ma anche per le sue carni pregiate. I maschi possiedono le penne copritrici della coda molto allungate, dotate di una forte rachide e sfarzosamente colorate. Esse si prolungano sopra la coda formata da 20 penne e costituiscono lo strascico provvisto di tanti cerchietti che sembrano occhi; durante la parata nuzia- le questo strascico viene sollevato e allargato come una ruota, che viene soste- nuta dalle timoniere che risultano molto più corte e quindi non si vedono. Fin da piccoli i giovani Pavoni si esercitano nell’arte del sollevare la coda, anche se questa non è ancora provvista delle penne per fare la ruota: infatti la loro crescita è piuttosto lenta e lo strascico si completerà solamente al terzo anno di vita anche se continuerà a crescere fino a raggiungere, in certi casi, la lun- ghezza di 150/160 centimetri. Secondo alcuni etologi, la magnifica e multico- lore ruota del maschio è un segnale visibile da lontano dalle femmine pronte per l’accoppiamento; secondo altri inve- ce la ruota serve per richiamare presso di sé la femmina ed offrirle del cibo. Il Pavone domestico curato dall’uomo e lontano dai predatori, è molto longevo e può arrivare con una certa facilità ai 30 anni di vita. Nei luoghi di origine il Pavone è protetto dagli indù come sim- bolo di una loro divinità, il dio Krishna, in quanto svolge delle funzioni importan- tissime per quelle popolazioni: gode la fama di essere uno spietato sterminatore di cobra e di segnalare all’uomo con le PAVONE sue forti grida la presenza di tigri nelle 77 vicinanze di villaggi. In realtà è il Pavone, più che l’uomo, ad essere predato dal felino. Il grido del Pavone è tradotto dagli indù con un “manhao” (assomiglia al miagolio del gatto a 100 decibel) che significa “arriva la pioggia”; effettivamente i Pavoni fanno sentire in continuazione questo grido prima del- l’arrivo di forti temporali. Ha un’apertura alare di circa 110 cm, una lunghezza coda compresa di 220/250 cm, un peso corporeo di circa 4/5 kg ed un’aspettativa di vita di 8/10 anni. Depone da 3 a 5 uova di color bianco macchiate di bruno e le cova per 27/28 giorni. Ha uno status esistenziale buono. La Fiaba “Il Pavone e la Gru” Il Pavone rideva della Gru e criticava il colore del suo piumaggio dicendo: ”io sono vestito di porpora e di oro, mentre tu non hai nulla di bello ne sulle tue piume, ne sulle tue penne”, “ma io” rispose l’altra, “canto vicino alle stelle e volo nell’alto dei cieli, tu invece, giri per terra come un galletto in mezzo alle galline”. (Esopo) 78 “Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio, che non nella tua filosofia.” William Shakespeare I FAGIANI Già Marco Polo, nel 13° secolo, ritornando dalla Cina (allora Catai) riferì notizie di uno splendido e grosso uccello. Si trattava del Fagiano Venerato dagli svariati colori e dalla lunga coda che può arrivare anche a 160 centime- tri di lunghezza. Questa specie di Fagiano, per vivere bene, ha bisogno di grandi spazi e ha la sua caratteristica principale nella litigiosità sia con i pro- pri simili, sia con altri fasianidi. I suoi pullus, ancora in tenera età, si esibisco- no in rabbiose lotte tra fratelli che talvolta si concludono con la morte dei più deboli. Un Fagiano Venerato che fugge trascinando la lunghissima coda, offre un meraviglioso spettacolo. La coda del resto non lo ostacola affatto, anzi, se ne serve addirittura a guisa di timone o freno. Durante il corteggiamento arruffa il piumaggio, tiene il corpo inclinato verso la femmina e compie inspiegabilmente dei grandi salti verso di essa come se fosse un canguro, prima di effettuare l’accoppiamento. Allo stato domestico, ospitato in parchi o grandi voliere, se trattato bene il Venerato arriva all’età di 25 anni. Ancora più antico e noto è il Fagiano Comune. Della sua esistenza ne parla- no già gli antichi Greci e sembrerebbe che Giasone, di ritorno dopo una bat- taglia vittoriosa in una terra che si estendeva vicino al Mar Nero, avesse por- tato come bottino di guerra, appunto, dei Fagiani. Ciò è confermato anche da Pericle, che parla già a quei tempi di allevamenti del gustoso pennuto. Ma il vocabolo “Fagiano” si riconduce al lati- no “phasianus” ed è allora ovvio pensare che anche gli antichi Romani conosces- sero questo Fagiano; del resto si fatica a pensare ad un antico e sontuoso banchetto senza la presenza di questo prelibato volatile. Dell’esistenza del Fagiano comune fra gli antichi Romani ce ne dà FAGIANO infatti conferma la storia che racconta 81 come lo sfrenato imperatore Eliogabalo, si divertisse a vedere sbranati questi Fagiani dai leoni nel loro serraglio. In Inghilterra attorno al 1050, un Abate ottenne il permesso di dar la caccia a questi Fagiani e fu da allora che questo FAGIANO DORATO fasianide viene considerato come selvag- gina. Il Fagiano vive molto bene in comunità con i suoi simili, tanto che in un chilometro quadrato vi si possono contare oltre 20 coppie. Il Fagiano Dorato è sicuramente il più ammirato per la bellezza dei suoi colori. Esso riu- nisce in sé tutte le qualità per essere considerato un uccello ideale da ornamento. In Cina, suo paese d’origine, è ancora oggi preso a modello per esse- re riprodotto in opere d’arte. Molto timoroso, è piuttosto raro poterlo osservare in un terreno aperto; allo stato selvatico, infatti, vive in un ambiente dalla vegetazione intricata che lo protegge e lo nasconde; da questo fitto ricovero, esce raramente per ritornarvi assai velocemente. Nel mese di maggio, quando la sua livrea è al massimo del suo splendore, viene “bracconato” molto inten- samente e offerto in vendita nei mercati di quei paesi. Per evitare che si rovi- ni il piumaggio, ogni uccello di questa specie viene rinchiuso in una gabbia oblunga costruita con sottili canne di bambù, simile al rivestimento di paglia che fodera i nostri fiaschi, questo contenitore è così stretto, che il prigioniero non può né rizzarsi sulle gambe né rigirarsi. Tuttavia i Fagiani Dorati resisto- no anche per un mese in queste condizioni e quando vengono acquistati, e rimessi in libertà, sono così anchilosati che per una settimana non riescono a muoversi. Il Fagiano Comune ha un’apertura alare di circa 85 cm, una lunghezza di 80/90 cm, un peso corporeo intorno ai 1150 gr ed un’aspettativa di vita di 6/7 anni. Depone da 8 a 15 uova di color marrone olivastro, covate per 23/25 gior- ni. Ha uno status esistenziale ottimo, perché viene allevato. 82 LA QUAGLIA La sua forma corta e tozza e le ali piuttosto piccole, non le consentono di esse- re una buona volatrice, ma essa ha bisogno di svernare in territori molto caldi e per questo si deve spingere fino al sud del Sahara. Nella grande trasvolata del mar Mediterraneo, dalla punta della Sicilia alle coste dell’Africa e vice- versa al suo ritorno, questa specie perde un buon 75% della propria popola- zione. Quando le Quaglie, dopo lo strenuo sforzo della trasvolata raggiungono le coste si buttano sfinite sulla spiaggia, dove ad attenderle ci sono gli indi- geni, che muniti di cesti e sacchi le raccolgono ormai incapaci di opporre la benchè minima reazione. Un tempo essa viveva nelle vaste steppe erbose coperte da vegetazione bassa e varia, ma da qualche secolo si è avvicinata sempre di più all’ambiente agricolo creato dall’uomo, tanto da poterla incontrare sui campi di foraggio e den- tro le piantagioni di cereali. Non disdegna nemmeno i terreni incolti e il limi- tare degli stessi in prossimità delle siepi. Soprattutto nelle ore notturne, si ha la possibilità di ascoltare il canto del maschio composto di poche note espres- se in maniera forte e decisa. Con questo canto egli tende a far capire ad even- tuali altri maschi che lui è presente su quel territorio con le sue femmine e non tollera la presenza di intrusi. Il canto viene un po’ addolcito con una specie di miagolio finale quando invece sta avvicinandosi una femmina. A questo punto il maschio, dopo il “richiamo canoro”, ricorre anche ad un altro stratagemma nell’intento di conquistare una nuova compagna; l’avvicina con il piumaggio arruffato tenendo nel becco del cibo quasi a farle notare quanta abbondanza ci sia nel suo territorio, la femmina accetta e a ciò segue subito dopo l’accoppiamento. I piccoli, dopo la 83 QUAGLIA schiusa, sono già in grado di seguire la madre procurandosi il cibo da soli, e all’età di 13/14 giorni riescono a compiere dei brevi voli; saranno sufficienti altri 4/5 giorni, perché questi giovani siano in grado di volare perfettamente. Dovranno tuttavia rimanere ancora con la madre per alcune settimane, dopo di che saranno autosufficienti del tutto. Raggiungeranno la maturità sessuale solamente a 10/11 mesi di vita. La Quaglia è diventata da qualche decennio un animale domestico allevato in batteria, sia per la sua carne, sia per le uova. Dopo un mese dalla nascita, la giovane Quaglia può essere già macellata e venduta sui mercati, mentre le femmine destinate alla produzione di uova dopo 40/45 giorni avranno raggiunto la maturità sessuale e deporranno il loro primo uovo e continueranno così a intervalli di 18/24 ore l’uno dall’altro per 10/11 mesi. Recentemente le Quaglie hanno anche acquisito una certa importanza come animali da esperimento. Ha un’apertura alare di circa 33 cm, una lunghezza di 15/17 cm, un peso cor- poreo intorno ai 100 gr ed un’aspettativa di vita di 6/7 anni. Depone da 8 a 12 uova di color oliva chiaro picchiettate di bruno, e le cova per 15/16 giorni. Ha uno status esistenziale ottimo perché viene allevata. IL COLOMBO Si nutre generalmente di semi, sia coltivati che selvatici, per questo possiede un ventriglio robusto e muscoloso che contiene ghiaietta e altri materiali duri che servono per triturare appunto questi alimenti e un lungo intestino per digerirli meglio; caratteristica tipica del resto di tutti gli Uccelli granivori. Un’altra curiosità sta nel fatto che si nutre di piccole chiocciole e invertebra- ti, ma anche di frutta della quale inghiotte pure il nocciolo. Questo una volta evacuato, potrà cadere in un terreno adatto e dare vita ad una nuova pianta. I genitori, per i primi otto dieci giorni, nutrono i propri pullus con una sostan- za biancastra prodotta dalle ghiandole del gozzo, nota con il nome di “latte di piccione”. Per nutrirsi di questa “pappa” i piccoli Colombi, introducono pro84 fondamente il loro becco nell’angolo di quello dei genitori per ricevere diret- tamente questo prezioso alimento. Per non ostacolare questo tipo di alimenta- zione, che dura circa 10 giorni, nei giovani Colombi le piume della fronte e del collo spuntano per ultime. Dopo questo primo periodo, la produzione del “latte” cessa e i piccoli riceveranno dai genitori semi e frutta in quantità sem- pre maggiore. Sono note le grandi attitudini al volo dei Colombi: opportunamente addestra- ti, possono percorrere centinaia di chilometri a grande velocità ritrovando, grazie ad un infallibile senso dell’orientamento, il luogo della loro residenza. L’utilizzazione dei Colombi viaggiatori da parte dell’uomo, ha origini anti- chissime e la storia ricorda esempi singo- lari di importanti messaggi recapitati per mezzo di questi volatili anche in tempi di guerra. Certi esemplari riescono a per- correre anche mille chilometri al giorno. I Colombi venivano allevati con certezza in Egitto già nel quarto secolo avanti Cristo e in Asia centrale anche prima. Presso certi popoli era d’uso sacrificare agli dèi dei Colombi, infatti innumerevoli furono immolati per secoli nel tem- PICCIONE SELVATICO pio di Gerusalemme. Sul Monte degli Ulivi si tenevano a tale proposito delle colombaie, nelle quali venivano allevati migliaia di Colombi in attesa dei sacrifici. Attendibili testimonianze ricordano come presso i più antichi popoli dell’oriente i Colombi godessero di grande rispetto: potevano nidificare nei templi e non era permesso né disturbarli, nè tanto meno ucciderli. Fatto del tutto particolare e curioso: tutti i Columbiformi bevono immergendo il becco nell’acqua aspirandola, un modo quindi veramente insolito fra gli uccelli che raccolgono normalmente con il becco una sorsata d’acqua e sollevano la testa per deglutirla. 85 L’accrescimento numerico dei Colombi cittadini è diventato un vero proble- ma. Un tempo essi avevano numerosi nemici, per cui non si poteva certo par- lare di una loro eccessiva moltiplicazione, rimanendo invariato l’equilibrio biologico. I principali nemici erano il Falco pellegrino, l’Astore, lo Sparviero, le Civette e tutti i Mustelidi, predatori questi che negli anni si sono sempre più rarefatti. I Colombi, oggi, sono portatori di numerosi parassiti come Acari, Cimici, Zecche e altri ancora che possono diffondersi nelle abitazioni dell’uomo. Una forte presenza di Colombi può portatore l’ornitosi, una malattia che talvolta colpisce anche l’uomo e non va neppure sottovalutato che la maggior parte dei Colombi di città è ammalato di salmonellosi, un germe patogeno che può portare il tifo. I Colombi provocano danni a monumenti e palazzi a causa dell’alto potere corrosivo dei loro escrementi, medesimi danni provocano su grondaie e cornicioni. In tante città sono in atto mezzi meccanici, acustici, chimici ed elet- trici nell’intento di limitare questi danni; in altre ci sono dei tentativi di rego- lare la loro riproduzione ricorrendo all’uso di anticoncezionali. Parente stretta del Colombo è la Tortora comune, indubbiamente un animale molto grazioso sia per la forma che per i colori. E’ però un uccello timoroso e timidissimo, (sono davvero pochi gli esemplari che si possono contare nel nostro territorio) ragion per cui è stata scacciata dalla Tortora dal collare orientale più forte ed aggressiva impadronitasi del suo habitat. Questa Tortora è oggi presente in maniera abnorme e fa ormai parte della fauna cittadina nidi- ficando un po’ ovunque. E’ arrivata da noi durante il periodo della seconda guerra mondiale intorno al 1944, importata forse da qualche soldato alleato; in poco più di mezzo seco- lo è riuscita a insediarsi in maniera incredibile. Va ricordata, infine, la Colomba bianca che posandosi sull’arca di Noè con un ramoscello d’ulivo sul becco comunicò al patriarca la fine del diluvio universale. Il Colombo selvatico ha un’apertura alare di circa 70 cm, una lunghezza 30/34 cm, un peso corporeo intorno ai 280/300 gr ed un’aspettativa di vita di 6/8 86 anni. Depone 2 uova di color bianco grigio e le cova per 16/17 giorni. Ha uno status esistenziale ottimo, perché esistono molte razze diverse allevate in cattività. La fiaba “ Il Gracchio e i Colombi” Un Gracchio osservando che i Colombi in piccionaia mangiavano bene, si dipinse il corpo di bianco e volò in mezzo ad essi per avere lo stesso tratta- mento. I Colombi, credendolo uno di loro, lo accettarono e lo ammisero alla loro mensa. Ma un bel giorno il Gracchio aperse la bocca e incominciò a gracchiare, allora i Colombi riconoscendo l’intruso lo cacciarono via. Così allontanato dalla piccionaia il povero Gracchio ritornò tra i suoi. Ma dato il nuovo colore, questi non lo riconobbero e anch’ essi lo cacciarono dalla loro pastura. E così avendo voluto mangiare da due parti non mangiò più né da una né dall’altra. (Esopo) LA GALLINA Non si hanno dati precisi circa l’epoca in cui l’uomo incominciò ad allevare allo stato domestico questi uccelli, ma sembra che questo abbia avuto inizio oltre 5 mila anni fa presso alcuni popoli dell’India. l’allevamento di questi galliformi si estese in tutto l’emisfero orientale, soprattut- In pochi secoli to nell’antica Persia e Mesopotamia (le attuali Iran e Iraq), ma fu in Egitto, a par- tire dalla quinta dinastia faraonica che, secondo Aristotele, iniziò l’incubazione artificiale e quindi i grandi allevamenti. Da antichi manoscritti, e soprattutto da Catone nel suo poema “de re rustica”, ci 87 GALLO viene tramandato che gli antichi Romani avessero già allora selezionato ben 6 razze diverse di questo pollame. Da sempre l’uomo si pone il dilemma: è nato prima l’uovo, o prima la gallina? E questo è un bel dilemma al quale non si sa ancora dare una spiegazione logica. La Gallina a causa del suo corpo pesante e delle ossa con il midollo (e quindi non cave) è inetta al volo. E’ un’ottima chioccia che può covare senza scendere dal covo anche per due o tre covate consecutive, lasciando i pulcini alle cure dell’allevatore. Un tempo, quando si avevano uova fertili e ancora nessuna Gallina chiocciava, si provvedeva forzatamente. A tale scopo si faceva bere del vino all’animale; subito dopo lo si introduceva in un sacco e lo si faceva roteare con una certa forza in aria per qualche tempo. Quindi si estraeva la Gallina dal sacco per posarla sul covo dove erano state poste precedentemente le uova. La povera bestia stordita e “ubriaca” si accovacciava, abbassava la testa, chiudeva gli occhi e si abbandonava ad un leggero sonno. Quando lo stordimento unito alla sbornia passava, essa si era “innamorata” del covo e lì vi rimaneva. Terminate le covate, la chioccia non serviva più, ma se questa non intendeva abbandonare il covo anche in questo caso si provvedeva di “brutto” a schiocciarla. Si riprendeva il famoso sacco, vi si introduceva la chioccia e la si immergeva ripetutamente per alcuni istanti nell’acqua fredda. Aperto il sacco, la povera Gallina, ancora un po’ frastornata, si guardava intorno, si scuoteva (a se sveiava), e poi tranquillamente se ne tornava nel pollaio per riprendere a deporre di lì a qualche giorno. In dialetto trevigiano la Chioccia in cova, viene chiamata “Cioca”, come una persona ubriaca. Considerata infine la scarsa intelligenza di questo galliforme, va ricordato un altro detto popolare: “te ha na testa come na gaina”, (sei intelligente come una Gallina). I Galli cantano in GALLINA maniera più spiccata al sorgere del sole e 88 questo per molti anni è stata la sveglia della gente che si avviava poi al lavo- ro nei campi; un vecchio detto soleva dire: “andar in letto coe gaine e vegner su col gaeo” (a letto molto presto e alzarsi altrettanto presto). Il canto e lo schiamazzo delle ali che battono assieme sul dorso testimoniano la possente attività del Gallo. Un altro vecchio detto recita così: “do gai in te un puner no i va d’accordo” infatti sono frequenti le liti nello stesso pollaio fra maschi che si combattono ferocemente. Da ciò la sadica e condannata selezione dei Galli da combattimento iniziata molti secoli orsono e ancora praticata, specie in Sud America e in Asia. Il curioso comportamento dei Polli è quello di fare ogni giorno il loro bagno di terra, necessario per eliminare i parassiti e gli acari che si annidano nel loro piumaggio; non amano invece l’acqua e quando piove cercano sempre riparo. La fiaba “La Donna e la gallina” Una Donna vedova aveva una Gallina, che tutti i giorni deponeva un uovo. Pensò che dandole forse del becchime in più la gallina ne avrebbe fatti due e così raddoppiò la razione giornaliera. E la Gallina mangiò con tanta avidità che ingrassò così tanto che non riuscì a deporne nemmeno più uno. (Esopo) IL GABBIANO E’ un uccello tipicamente marino, anche se da qualche tempo ama trascorre- re dei periodi più o meno lunghi sia in campagna che in collina. Questo suo “migrare giornaliero” è dovuto alla continua ricerca di cibo che trova abbon- dante nelle discariche e nei campi arati. Tuttavia la sua vita si svolge maggior- mente sulle coste, vicino al mare, è perciò facile scorgerlo all’interno dei porti e nei pressi dei centri abitati costieri dato che in tali zone questi volatili repe- riscono rifiuti con cui nutrirsi. Infatti, pur cibandosi di preferenza con animaletti acquatici e pesci, questi volatili appetiscono ogni genere di rifiuto orga89 nico, carogne comprese. Sono pertanto da considerarsi onnivori e svolgono un’utile azione da spazzini ripulendo porti e spiagge. I Gabbiani hanno carni non commestibili, né per l’uomo né per probabili predatori; tuttavia in molte zone vengono cacciati per le loro piume e in altre è attiva la raccolta delle uova utilizzate a scopo alimentare. Queste uova non sono appetibili se consu- mate crude perché hanno un forte sapore di pesce, che scompare del tutto dopo la cottura che le rende del tutto simili a quelle della gallina. Ma il parti- colare più curioso è rappresentato dal fatto che l’albume delle uova di Gabbiano rimane trasparente anche dopo la cottura. In certe nazioni dell’Europa settentrionale la raccolta e la vendita di queste uova è organizzata su vasta scala. GABBIANO Il Gabbiano comune in abito nuziale, sia maschio che femmina, presenta un cap- puccio di un bel colore bruno scuro su di un colore grigio perla. In periodo eclissale questo cappuccio sparisce lascian- do al suo posto qualche leggera striatura bruna. A causa della loro leggerezza corporea, pur nuotando agilmente, i Gabbiani non sono abili tuffatori e possono pertanto nutrirsi solamente di ciò che si mantiene a galla. Le dure con- chiglie dei molluschi non costituiscono un ostacolo per questi uccelli, che usano lasciarle cadere dall’alto, onde infrangerle sulle rocce, rendendo così accessibile il ghiotto contenuto. Ha un’apertura alare di circa 95 cm, una lunghezza di 33/36 cm, un peso cor- poreo intorno ai 250/280 gr, un’aspettativa di vita di 8/14 anni. Depone da 3 a 5 uova color oliva-azzurognolo, e le cova per 23/25 giorni. Ha uno status esistenziale ottimo. 90 “Sali sulla cima tra il cielo e la terra per raggiungere la costante armonia con una natura infinita.” Yi Un Sahg MODI DI DIRE (ACCOSTAMENTO UOMO/ANIMALE). Svelto- come un Gatto; va indietro- come un Gambero; cieco- come una Talpa; fedele- come un Cane; veloce- come una Lepre; lento- come una Lumaca; rude- come un Orso; vista- da Aquila; piomba- come un Falco; occhio- da Lince; furbo- come una Volpe; sporco- come un Maiale; viscido- come un Serpente; velenosa- come una Vipera; lavora- come un’Ape; previ- dente- come una Formica; canta- come un Usignolo; dorme- come un Ghiro; soffre- come un Cane; allegra- come una Cicala; mangia (poco)- come un Cardellino; irsuto- come un Porcospino; fame- da Lupo; timido- come un Coniglio; mangia (tanto)- come un Bue; esibizionista- come un Pavone; tubano- come Colombi; striscia- come un Verme; rinunciatario- come uno Struzzo; muto- come un Pesce; frenetico- come una Donnola; spinoso- come un Riccio; puzza- come una Capra; mansueto- come un Agnello; testardo- come un Mulo; leggiadra- come una Farfalla; insistente- come un Tarlo; steso al sole- come una Lucertola; parassita- come un Cuculo; forte- come un Toro; ladro- come una Gazza; nero- come un Corvo; tenero- come un Pulcino; beffardo- come una Iena; fastidioso- come una Zanzara; lacrime- di Coccodrillo; porta male- come un Gufo; paziente- come un Ciuco; silenziosa- come una Mosca; stupida- come un’Oca; crudele- come una Tigre; resistente- come un Cammello; timoroso- come una Pecora; superbo- come un Cervo; schifosocome un Rospo; ignorante- come un Asino; pio- come un Bove; bizzoso- come un Cavallo; grossa- come una Balena; magro- come uno Stambecco; agile- come una Gazzella; dopo tre giorni puzza- come il Pesce; sciocco- come un Pollo; spietato- come un’Arpia; pesante- come un Elefante; piccolo- come uno Scricciolo; cervello- da Gallina; regale- come un Leone; balzo- da Pantera; incantato - come una Marmotta; sguscia – come un’ Anguilla; profuma- come una Puzzola; imbranato – come una Foca; iettatore – come un Corvo; giocherellone – come un Delfino. 92 “O Dio perdonaci per gli animaletti che calpestiamo lungo il nostro cammino.” Massima Buddista I MAMMIFERI La classe dei mammiferi, comprende oltre 4.000 specie di animali riconosciu- ti come i più evoluti del regno animale, presenti in tutti i tipi di habitat. Nel mare ci sono le foche, le balene e i delfini, nei corsi dei fiumi le lontre e i castori, sopra e sotto la terraferma, quando non addirittura sugli alberi, e infi- ne i pipistrelli che con i loro patagi hanno conquistato l’aria. Sono animali vertebrati, provvisti, cioè, di colonna vertebrale, a sangue caldo, con quattro arti e con il corpo ricoperto di peli. Il feto si sviluppa nel corpo della madre che, dopo un periodo più o meno lungo di gestazione, partorisce. In alcuni casi, per esempio nei roditori e in alcuni carnivori, i cuccioli nascono ciechi e nudi e hanno bisogno di un certo periodo di tempo e di cure da parte della madre per poter completare la loro formazione. In altri casi, quando nascono essi sono perfettamente formati e i loro organi interamente funzionanti. L’alimentazione dei cuccioli avviene con l’allattamento. Oltre al loro compli- cato tipo di riproduzione, i mammiferi si distinguono per diversi altri elemen- ti. Sono dotati di un cervello molto ben sviluppato, e dispongono di numero- si sistemi di comunicazione, che hanno permesso loro un’alta organizzazione sociale, basti pensare a quelli olfattivi, visivi e soprattutto, a quelli vocali. I peli, spesso molto fitti, ricoprono la pelle fungendo da strato isolante, contribuendo a mantenere il corpo a una temperatura costante, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche. Lo strato di grasso che si trova sotto la pelle ha una doppia funzione: serve per proteggere dal freddo, ma funge anche da riserva calorica nei periodi di scarsità di cibo. Questa riserva di grasso, alta- mente ricca di calorie, viene distribuita a tutto l’organismo attraverso un siste- ma circolatorio che fa capo al cuore e quando questa regolazione diventa impossibile, per esempio nei mesi del grande freddo, certi mammiferi vanno in letargo e altri in ibernazione. Avviene così che la temperatura del loro corpo si abbassa notevolmente, il metabolismo riduce il suo ritmo al minimo così da consumare una minor quantità di energia possibile. Il letargo e l’ibernazione 95 consentono a vari mammiferi di sopravvivere durante i mesi invernali, pro- prio sfruttando le loro riserve di grasso precedentemente accumulate. E’ pressoché impossibile stabilire le cause che hanno portato i mammiferi a una così grande evoluzione; si pensa che in parte ciò sia dovuto a un insieme di tanti fattori biologici, ma sicuramente in buona parte anche al caso. La comparsa poi dell’uomo sulla terra, soprattutto dell’uomo d’oggi, ha reso più rapida e drammatica la scomparsa di vari gruppi di animali, mentre altri, vedi i rodito- ri, stanno occupando nuove nicchie ecologiche create proprio dall’attività umana. Oggi i mammiferi, grazie al loro rappresentante più evoluto che è l’uomo, sono l’incontrastato e predominante gruppo che domina il mondo ed è proprio nelle mani dell’uomo che sta il futuro del nostro pianeta. 96 PILLOLE DI SAPERE: I MAMMIFERI Il Canguro rosso è il più grande dei marsupiali. Un maschio adulto arriva ad essere lungo oltre i 260 cm, dei quali 120 appartengono alla sua possente coda. La femmina è molto più piccola, talvolta anche la metà del maschio. Si sposta poggiando sugli arti posteriori compiendo grandi balzi, che arrivano anche a 10 metri, con i quali raggiunge una velocità di oltre 45 km orari, con un consumo di energia pari alla metà di un qualsiasi altro quadrupede. Questo grande risparmio di energia non è dovuto al caso, bensì al fatto che deve compiere grandi distanze e perciò questo risparmio diventa estremamente impor- tante. Se il periodo di siccità dovesse perdurare a lungo e mamma canguro dovesse perdere il latte materno, il cucciolo verrà espulso dal marsupio e morirà. Con il ritorno delle piogge e delle provviste alimentari, un embrione di “riserva” il cui sviluppo era rimasto sospeso, si impianterà nuovamente nell’utero della femmina, dove si svilupperà, senza che ci sia stato bisognoso di un nuovo accop- piamento. CANGURO Il cucciolo rimane per circa 250 giorni all’interno del marsupio della madre. Considerato un animale nocivo, esso viene diffusamente ucciso sia per la carne che per la pelle. Recentemente è stato censito un numero ragguardevo- le di questi animali che si possono contare in oltre 12 milioni di esemplari. Per segnalare un pericolo, picchia con le zampe e con la coda violentemente il suolo, allertando in questo modo i compagni in pericolo. I Toporagno sono animali molto attivi e hanno bisogno di alimentarsi in con- tinuazione pari a quattro volte il loro peso ogni giorno. Si cibano di inverte97 brati, insetti, carogne e spesso anche delle loro stesse feci e di quelle di altri animali. Le pulsazioni del cuore possono arrivare a oltre 1.200 battiti al minuto. Vengono predati da vari rapaci sia diurni che notturni, ma possedendo delle ghiandole cutanee che emettono un odore repellente, una volta uccisi, non vengono quasi mai divorati. Il Gorilla non marca il proprio territorio con le urine o con le feci, ma lo deli- mita “tambureggiando” il terreno a distanza e i vecchi maschi dominanti minacciano i rivali, stando ritti sulle zampe posteriori, battendosi il petto e gridando. I piccoli Gorilla stanno sempre aggrappati al pelo della madre e solo a 3 mesi incominciano a sedersi, mentre a 5 riescono a camminare e ad arrampicarsi. Vengono allattati per oltre un anno e mezzo e rimangono comunque con la madre, fino a 3 anni, quando vengono bruscamente allonta- nati. La famiglia dei Canidi è molto numerosa e conta circa 35 specie presenti su tutta la terra, essi sono assenti solamente in Nuova Zelanda, Nuova Guinea e Madagascar, e in qualche altra isola minore. Fatta eccezione per la Volpe, che caccia solitaria, tutti gli altri lo fanno in branco. La Lontra marina si nutre di ricci di mare e altri molluschi, che raccoglie in fondo al mare e mangia mentre è in acqua. Per rompere il guscio delle dure conchiglie, essa ha scoperto come usare i sassi. Quando infatti si tuffa, oltre alle prede, prende dal fondale un sasso, se lo mette sul petto, e, galleggiando sul dorso, sbatte il mollusco contro di esso, finchè ne rompe il guscio, dopodiché si ciba del gradito contenuto. Possiede dei polmoni molto sviluppati, il doppio di quelli di qualsiasi altro animale di taglia simile, che le consentono di immergersi fino a 30 metri. La Iena possiede le più forti mascelle di un qualsiasi altro mammifero. Esse sono in grado di frantumare le ossa più grosse della preda per estrarne il midollo. Raramente questi animali cacciano, preferendo cibarsi di carogne uccise da altri predatori. Quando nascono, i cuccioli sono di colore nero e solamente dopo alcuni mesi 98 acquisiscono il colore marrone striato o macchiato degli adulti. E’ la femmina ad essere più grande del maschio e a dominare il clan. Tutti insieme, i componenti difendono il territorio che costituisce il loro habitat e che può arrivare addirittura a 70/80 km quadrati, continuamente marchiati tra- mite ripetuti richiami e sostanze organiche. Il Ghepardo è il più veloce anima- le terrestre e può raggiungere e superare con uno scatto di 10 secondi, una veloci- tà di 110 km orari. Velocità che può però mantenere sola- mente per un tratto breve, dopodiché dovrà abbandonare la preda qualora non l’avesse catturata. La femmina può partorire anche 6/7 cuccioli, dopo circa 3 mesi di gestazione. Le Foche sono dotate di sofisticati mec- canismi che permettono loro di potersi FOCA CUMUNE cercare il cibo anche a una certa profondità rimanendo immerse per lungo tempo e in questo caso, l’adattamento più importante riguarda la circolazione del sangue. Durante l’immersione in profondità, il suo normale ritmo cardia- co passa dagli abituali 120 a solo 4 battiti al minuto, senza avvertire una cor- rispondente caduta di pressione. La Foca ha il corpo coperto da una pelliccia che subisce una muta annuale. In questo mammifero la riproduzione è accompagnata da un fenomeno partico- lare: “l’annidamento differito” per cui, gli embrioni cominciano a svilupparsi dopo un certo periodo dell’avvenuta fecondazione. I piccoli sono in grado di strisciare e di nuotare dopo meno di un’ora dalla nascita. Una specie, la Foca di Wenddell, compie le immersioni più lunghe e più profonde, raggiungendo i 600 m dove può rimanere per oltre 70 minuti e quando raggiunge queste profondità, il ritmo cardiaco si abbassa del 75%, scende cioè a poco più di un battito al minuto. 99 La Balenottera azzurra, è il più grande mammifero esistente. E’ lunga oltre 30 metri e può pesare fino a 1.500 quintali. Malgrado questa mole impressionante, grazie al suo corpo affusolato, riesce a muoversi con molta agilità. Soprattutto in estate, si nutre incessantemente e, pur essendo molto selettiva, è capace di mangiare oltre 55 quintali di plancton (piccoli crostacei di crill) ogni giorno. La Balenottera azzurra possiede un altro primato, ha infatti la più lunga gesta- zione di tutti i mammiferi marini: si prolunga per oltre 11 mesi. Grugnisce e ronza emettendo lamenti a volte superiori a 180 decibel, che sono i suoni più forti fra tutti i versi degli animali e che possono essere uditi da altre balene consorelle a oltre 1.000 km di distanza. L’Elefante è il più grande mammifero terrestre; alcuni esemplari sono alti 4 metri e raggiungono facilmente i 60 quintali di peso. Possiede delle grandissime orecchie che hanno una funzione molto importante, sono infatti delle enormi ventole che il pachiderma muove continuamente avanti e indietro per “farsi vento” e diminuire così, l’eccesso del calore cor- poreo. Molto curiosa è anche la proboscide formata dalla fusione del naso e del labbro superiore, essa è molto flessibile e termina con due appendici sen- sibilissime, che servono per afferrare il cibo, bere, lottare, lavorare e fiutare. Gli incisivi superiori crescono a dismisura fino a diventare delle grandi zanne d’avorio, per questa particolarità è sempre stato molto abbattuto tanto da diventare in diverse zone, assai raro. Può mangiare per 20 ore e per più di 200 kg al giorno di sostanze vegetali costituite da foglie, germogli, rametti e frutti di varie piante. La femmina di Elefante detiene il primato per la gestazione più lunga nel regno dei mammiferi: arriva a 22 mesi, ed il piccolo viene allattato per oltre 2 anni. Negli Elefanti è sempre la femmina più anziana, (la matriarca) a capeggiare il branco e a condurlo sovente alla ricerca dell’acqua che riesce a localizzare sotto terra. 100 Il Cammello, unitamente al Dromedario, al Guanaco e al Vigogna rappresen- tano la famiglia dei Camelidi, considerati i più primitivi fra i ruminanti. Gli antichi Incas circa 6.000 anni fa, hanno selezionato dall’accoppiamento del Guanaco con il Vigogna (entrambi, in grave crisi esistenziale), il Lama, oggi da considerarsi un animale domestico, da soma, tipico della zona delle Ande. Esso viene allevato sia per la sua carne, che per la sua lana anche al di fuori dell’America del Sud. Il Cammello è caratterizzato da due gobbe poste sopra il dorso, queste gibbo- sità servono come riserve di grasso per i tempi in cui il cibo scarseggia. Questo mammifero ha il corpo ricoperto di lunghi peli irsuti che lo proteggono dal freddo durante l’inverno, e cadono d’estate lasciandolo quasi nudo. Possiede degli arti ”altamente specializ- zati”, con sole due dita per piede, munite di unghia superiormente, le cui ossa si sono allargate lateralmente per dare impianto a due ampi cuscinetti callosi. Questi cuscinetti elastici permettono CAMMELLO all’animale di spostarsi agevolmente sulla sabbia mobile, dove degli zoccoli rigidi affonderebbero. Il Dromedario a differenza del Cammello, possiede una sola gobba e si dice sia stato addome- sticato molto prima, attorno al 4.000 a.C. Un po’ più piccolo del Cammello può immagazzinare nel suo stomaco delle grandi riserve d’acqua permetten- dogli di rimanere per molto tempo senza bere. La sua gobba (del resto come le due del Cammello), oltre ad accumulare il grasso necessario per i periodi di carestia, serve anche come protezione con- tro il sole in quanto ne assorbe il calore. I reni possono concentrare l’urina per evitare al massimo le perdite d’acqua e, in caso di bisogno, l’organismo può assorbire l’umidità contenuta nelle feci. 101 Infine la temperatura dell’animale scende abbondantemente nelle ore nottur- ne per aumentare progressivamente durante il giorno, ciò per evitare all’animale di traspirare troppo per raffreddarsi. Il Dromedario, come il Cammello, può perdere durante i periodi di siccità fino al 30% del proprio peso, scendendo dai 600 ai 400 kg circa, senza risen- tirne, sarà però sufficiente incontrare un’oasi e poter bere, che in dieci minuti riacquisterà tutto il peso perduto. Dopo diversi controlli effettuati si può affermare che questi animali assetati sono in grado di bere in pochi minuti oltre 110 litri di acqua. La fiaba “ Il Leone, la Volpe e il Cervo” Un Leone che giaceva ammalato nella sua tana, disse alla Volpe che gli era affezionata e spesso veniva a trovarlo: “Se tu vuoi che io guarisca e che continui a vivere e a regnare, devi con la tua furbizia convincere quel grande Cervo che abita nel bosco a venirmi a trovare così da spingerlo fra le mie zampe, ho una gran voglia delle sue viscere e ancora di più del suo cuore”. La Volpe andò e trovò il Cervo che scorazzava nei boschi e tutta complimen- tosa gli disse: “Sono venuta a portarti una bella notizia. Il Leone nostro Re, che come sai è mio vicino di casa, è molto malato ed è sul punto di morire. Egli ha pensato a quale delle bestie dovrà succedergli nel regno. Il Cinghiale, diceva, è uno stupido, l’ Orso è balordo, la Pantera è collerica, la Tigre è superba, per me, il più adatto a fare il Re è il Cervo, che ha una bella statura, vive molti anni e con le sue corna fa paura anche ai Serpenti. In conclusione il Leone ti ha scelto come suo successore, diventerai Re. Ti ho portato il suo messaggio e adesso ho fretta perché devo rientrare in casa e recarmi dal Leone che già mi starà facendo cercare, in quanto lui non fa più niente senza i miei consigli; piuttosto se anche tu ne vuoi uno, vieni con me a fargli visita e a stargli vicino fino a che, non morirà”. Così disse la Volpe. 102 A queste lusinghe il Cervo si montò la testa, e, ignaro di quel che l’aspettava, si avviò seguendo la Volpe verso la caverna del Leone. Questi, vedendoselo davanti, gli balzò addosso, ma riuscì soltanto a lacerar- gli le orecchie con gli artigli, perché il Cervo con un veloce scatto scappò rientrando nel bosco. La Volpe si rammaricò molto per aver visto vanamente sprecate le sue fatiche, e il Leone ruggiva a gran voce, vinto dalla fame e dal dolore e scongiurò nuovamente la furba Volpe di fare un’altra prova, escogi- tando un altro stratagemma per portargli nuovamente il Cervo. La Volpe ripartì alla ricerca del Cervo e quando lo incontrò, questi stava ancora leccandosi le ferite; vedendosela davanti pieno d’ira e con il pelo arruffato gridò: “non mi ingannerai più brutta bestiaccia, se ti avvicinerai a me ti infilzerò con le mie corna. Va a “incantare” quelli che ancora non ti conoscono, vai a sceglier qualcun altro al quale montargli la testa per farlo diventare Re”. E la Volpe rispose: “Ma perché sei così vile e pauroso? Perché sospetti di noi, tuoi amici? Il Leone ti aveva afferrato gli orecchi perchè voleva darti dei consigli e delle istruzioni sulla tua importante funzione di Re prima di morire. E tu non sei stato capace di sopportare il graffio di una zampa di un povero ammalato. Ora egli è più adirato di te e vuole lasciare il regno al Lupo e allora quando questi regnerà te ne accorgerai. Ma se tu vieni nuovamente a fargli visita senza paura e senza comportarti come una Pecora ti assicuro che il Leone non ti farà niente di male e in quanto a me sarò sempre ai tuoi servizi. Ingannando nuovamente il disgraziato Cervo, lo convinse nuovamente a seguirlo nella tana del Leone. E questa volta il Re degli animali non se lo fece scappare ed ebbe il suo desiderato pranzo. Ma mentre il Leone banchettava con le ossa e le viscere della sua preda, il cuore del Cervo cadde a terra e la Volpe che stava osservando la scena l’afferrò e se lo mangiò come compenso per le sue fatiche. Il Leone intanto stava cercando fra i pezzi di carne del povero Cervo dilania103 ti dai suoi artigli proprio il cuore, motivo del suo principale desiderio. La Volpe, fermatasi un po’ lontano osservandolo gli disse: ”Ma quello di cuore non ne aveva, inutile cercarlo; che cuore vuoi che avesse uno che per due volte è venuto nella tua tana, anzi proprio tra le tue zampe?”. (Esopo) 104 “Il futuro sarà una gara tra l’educazione e la catastrofe.” Henrj George Welles PILLOLE DI SAPERE: I MUSTELIDI Fanno parte di questa famiglia oltre 65 specie di carnivori, ma in questo caso ne esamineremo soltanto alcune. In genere i Mustelidi presentano tutti le medesime caratteristiche: corpo lungo e sinuoso, arti corti, una dentatura svi- luppata, occhi piuttosto piccoli e luccicanti, orecchie piccole, ma proporziona- te. Hanno prevalentemente un comportamento solitario. Insolitamente, essen- do dei carnivori al posto degli artigli posseggono 5 dita unghiate non retrattili. Le ghiandole anali producono cattivi odori e spesso diventano un’arma di difesa. Tutti i mustelidi uccidono le loro prede, non tanto per cibarsene, quanto perché il movimento delle stesse scatena in questi animali l’atto predatorio vero e proprio e fintanto che il movimento permane, il mustelide è stimolato ad uccidere. Tale particolare comportamento può essere facilmente notato quando questi predatori entrano in un pollaio dove le galline volano impaurite qua e là rafforzando in tal modo l’istinto del predatore, che finirà per ucciderle tutte. L’Ermellino è diffuso anche sulle nostre Alpi sia pure a notevole altezza. Dalla notte dei tempi questo Mustelide è stato il simbolo della regalità e della sovra- nità intellettuale, in quanto la sua pelliccia ha ornato i mantelli di principi e sovrani, ma pure toghe e cappe di magistrati e uomini di scienza. E’ da consi- derarsi una piccola vera belva dall’indicibile voracità in grado di attaccare prede anche molto più grosse di lui, dalle quali ama suggere il sangue. Particolare e stupefacente è l’eclisse che subisce il suo mantello, che passa dal color rosso giallastro dell’estate, al bianco immacolato del- l’inverno, periodo che lo rende tanto prezioso e ricercato per la sua pelliccia. L’Ermellino è un predatore che caccia prevalentemente Conigli selvatici, 107 ERMELLINO Starne, Pernici, Fagiani e altri animali, oggetto di caccia anche da parte del- l’uomo. E’ stato importato massicciamente in Nuova Zelanda per riequilibrare la presenza in quel territorio del Coniglio selvatico presente in maniera abnor- me. Una curiosità vuole che il celebre quadro di Leonardo da Vinci arrivato sino ai giorni nostri con la denominazione di ”La dama dell’Ermellino” in realtà non rappresenti un Ermellino, bensì un Furetto albino; animale abbastanza simile, tuttavia diverso. La Donnola, il più piccolo dei Mustelidi, è tra l’altro l’unico della famiglia a cacciare il Toporagno evitato da tutti gli altri suoi ”parenti” a causa dell’insi- pienza delle sue carni e del cattivo odore che emana. Lo Zibellino è onnivoro in quanto, oltre che di carne, si nutre anche di bacche. Questo animaletto è stato cacciato con trappole e trabocchetti per secoli a causa della sua pelliccia particolarmente pregiata, ma l’astuzia dello Zibellino è tale che molto spesso riesce ad impadronirsi delle esche senza far scattare le trappole. Un tempo era presente un po’ ovunque, compreso nelle nostre mon- tagne, ma a causa di una caccia spietata per la sua pelliccia, oggi la continuità della sua specie è messa fortemente in pericolo. Lo si può trovare con una certa frequenza solamente nella parte alta della Siberia, mentre nel resto dell’Europa manca da circa 80 anni. Anche la Faina e la Martora, oltre che di prede abituali, si nutrono, specie nel periodo autunnale, di frutta e bacche. Le Martore, a dispetto degli Zibellini, sono abbastanza rappresentate in tutto il mondo. Sono animali molto crudeli, uccidono per diletto, e senza nessuna ragione le vittime che poi abbandonano sul posto senza più toccarle. Spesso si riuniscono in vere e proprie “bande” e invadono nuove zone della foresta compiendo inspiegabili migrazioni che lasciano tracce sanguinose. Le Lontre si cibano prevalentemente di prede anfibie che individuano sott’acqua con l’aiuto delle loro vibrisse rigide e sensibili adatte a captare le correnti provocate dai movimenti delle prede. La Lontra comunica con i suoi simili mediante numerosi suoni e odori emessi dalle ghiandole che hanno un particolare significato di status. Nei paesi asiatici le Lontre particolarmente addestra108 te, vengono impegnate dai pescatori per dirigere il pesce verso le reti, infatti allo stato libero le Lontre hanno la tendenza a convogliare il pesce verso un’insenatura dove diventa più facile catturarlo. Le Lontre cacciano generalmente di notte, preferendo quelle rischiarate dalla luna piena. Questa specie possiede un gran numero di tane, ripari e rifugi temporanei LONTRA che costantemente ispeziona e mantiene idonei ed efficienti. Anche il Tasso è un Mustelide anche se non possiede le stesse caratteristiche dei suoi parenti stretti. Il suo corpo è piuttosto tozzo, vive in piccoli branchi ed ha quindi un comportamento sociale. E’ onnivoro, ma si nutre prevalentemen- te di lombrichi che “aspira” nella notte umida dal terreno con il suo naso. La vista è piuttosto scarsa per cui, per cacciare le sue prede, ricorre all’olfatto e all’udito che invece sono molto sviluppati. Ha bisogno di un ampio territorio che può arrivare anche a un centinaio di ettari di terreno. La Puzzola possiede delle dita lunghe e forti adatte a scavare le tane in cui l’animale trascorre gran parte della sua vita sotterranea. Anch’ essa è una gran- de predatrice di roditori e piccoli mammiferi, ma non disdegna rettili e Vipere delle quali non teme affatto il veleno. Deve il suo nome al fortissimo e repulsivo odore che impregna di continuo il corpo e quindi il suo pelo. Per questo la sua pelliccia non è assolutamente apprezzata anche perché dopo innumere- voli e particolari trattamenti ancora nessun pellicciaio è riuscito a renderla ino- dore. Questa sgradevole peculiarità è dovuta ad alcune ghiandole secernenti una sostanza nauseabonda, che ha un doppio scopo: quello di far volgere in precipitosa fuga gli avversari e di richiamare gli individui della stessa specie. 109 LA DONNOLA E’ un attivissimo predatore che caccia sia di giorno che di notte preferendo Topi e Arvicole, ma non disdegnando uova e piccoli uccelli. Molte sono le credenze popolari su questo mustelide, un tempo grande frequentatore delle case coloniche dove spesso entrava in conflitto con l’uomo. Come quasi tutti i mustelidi essa possiede, tra le altre, la proprietà di allungare a dismisura il suo corpo. Ricordano i più vecchi come la Donnola, fosse in grado di entrare in un piccolo pertugio allungandosi di quasi la metà della lun- ghezza del suo corpo. Una volta entrata nel pollaio la Donnola, che è un animaletto lungo poco più di 22-23 cm e del peso di 2-300 gr, durante la notte riu- sciva a sgozzare tutti gli animali che vi erano rinchiusi: triste era il mattino quando solitamente la nonna che si alzava per prima, si accorgeva della strage fatta. Nei tempi più lontani si pensava che a compiere il misfatto fossero i vam- piri, considerati i due classici forellini lasciati nel collo delle vittime. Successivamente si scoprì invece che l’autore era la Donnola, qualche altra volta (ma più raramente) potevano essere anche le sue “compagne e vicine di tana” vale a dire la Faina, la Martora e la Puzzola. Le case coloniche erano un ricettacolo molto gradito da questo mustelide: i pagliai, i fienili e soprattutto le cataste di fasci di legna erano i suoi habitat pre- feriti e quando accadeva che un pollaio venisse distrutto, arrecando un grave danno alla già povera famiglia, allora scattava la rabbia e si procedeva con spietatezza alla caccia. L’uomo sapeva dove le Donnole avevano le loro tane e allora disfaceva la catasta di fasci di legna, poneva gli stessi sulla terra uno sopra l’altro in maniera da ottenere una piccola arena e quando tutti i fasci erano rimossi, 110 DONNOLA sul terreno sottostante apparivano decine di buchi, una vera e propria gruvie- ra: erano le tane delle Donnole, o in qualche caso anche di altri Mustelidi. A questo punto entravano in scena dei Cani (molto abili e particolarmente adde- strati nel cacciare i Ratti), che azzannavano le “povere bestie” appena queste sporgevano con il loro musetto dalla tana tentando la fuga. Se qualcuna sfug- giva alle fauci dei Cani, andava a sbattere contro i fasci di legna e in questo caso erano gli uomini dentro il recinto, a finirle con dei bastoni o delle forche. La voce della distruzione del pollaio da parte della Donnola e della sua caccia si spargeva per il paese e tutti correvano ad assistere al triste, ma “necessario spettacolo”. Poi una volta conclusa l’opera di “bonifica”, si potevano osservare sul selciato davanti la casa colonica le Donnole uccise e fra di esse, quasi sempre c’erano anche le sue “compagne e vicine di tana” Martore, Faine e Puzzole. Si procedeva dunque a scuoiare gli animali e ad inchiodare ben tese le loro pelli su delle tavole che venivano poi esposte al sole affinché si potessero asciugare. Successivamente venivano vendute allo straccivendolo (strassariol) che settimanalmente passava per le case a raccogliere le “robe vece”, le ossa, il ferro vecchio e, appunto, le pelli degli animali. Si poteva raccogliere così un po’ di denaro che in qualche modo ripagava la sfortunata famiglia per il danno del pollaio distrutto. Le pelli venivano successivamente portate in conceria e finivano per abbellire polsini e colletti dei cappotti delle signore. Va pure ricordato come qualche famiglia, nell’intento di prevenire la strage nel pollaio, saltuariamente usasse raccogliere del cuoio proveniente dalle tomaie degli zoccoli e delle scarpe vecchie e lo bruciasse in prossimità delle tane con la speranza che l’odore, davvero cattivo, emanato dal cuoio bruciato, scaccias- se i terribili mustelidi. Ma era una prevenzione che non portava a nessun risul- tato, e la Donnola se ne stava tranquilla nella sua tana; da qui il vecchio detto: “Non a va via gnanca se te brusa curame”. Nei tempi andati, la Donnola era conosciuta come un animaletto molto dispet- toso, e si diceva che si divertisse proprio a procurare guai all’uomo e che poi per sfuggire alla sua ira, usasse arrampicarsi velocemente sull’albero più alto 111 anche per evitare la cattura da parte dei cani. Nella bassa Trevigiana, essa veniva anche individuata con i nomi dialettali di: “puissat”, e “bea donoea”. E tanti sono gli aneddoti raccontati. Frequentemente infastidiva le vacche durante la mungitura tanto che queste, con uno scarto improvviso rovesciavano il secchio del latte e il mungitore stesso. Molto spesso tormentava con la sua presenza le chiocce che covavano, e le molestava al tal punto che queste lasciavano il covo e allora predava uova e pulcini. Ancora più spesso entrava nelle case e con la frenesia che la contraddistingueva metteva tutto sottosopra e talvolta rubava quel poco che c’era da mangiare. La Donnola ha dunque una vita molto frenetica, in continuo movimento, dorme pochissimo, la sua alimentazione giornaliera deve essere pari ad un terzo del suo peso, ha una vita brevissima che può durare non più di 12/15 mesi. Ha un comportamento solitario, una gestazione di 35/37 giorni e può partorire fino a 9 cuccioli. La fiaba “La Donnola e il Gallo” Una Donnola aveva catturato un Gallo e avrebbe voluto un pretesto plausibi- le per poterlo uccidere. Iniziò ad accusarlo perché cantando di notte non per- metteva all’uomo di riposare. Il Gallo però si difese sostenendo che il suo canto consentiva all’uomo di svegliarsi presto e di poter lavorare. Allora la Donnola accusò il Gallo di violare le leggi della natura accoppiandosi nel pol- laio con la madre e con le sorelle. E poiché il gallo anche in questo asserì che tutto ciò era nell’interesse dell’uomo, poiché le galline facevano molte uova, la Donnola esclamò: “ va bene vedo che non ti mancano delle buone giustifi- cazioni; ma io per questo non voglio rinunciare al mio buon pasto” e se lo divorò. (Esopo) 112 IL TASSO E’ un animale che ha sempre dovuto fare “i conti” con l’uomo. Sebbene la sua pelliccia non abbia il valore di quelle della Lontra, dell’Ermellino o dello Zibellino, è tuttavia molto ricercata perché se una volta serviva a foderare bauli e valigie, il suo pelo ancora oggi viene usato per fabbricare i migliori pennelli da barba, quelli per il trucco e ancora, spazzolini da denti per gengive delicate; la pelle invece è adoperata dai sellai per ricoprire le più eleganti e preziose selle da equitazione. Anche la sua carne è considerata molto pregiata. Il Tasso ha abitudini notturne e teme pertanto la luce del giorno, durante il quale se ne sta rintanato nelle sue inaccessibili tane dalle quali esce solo all’imbrunire per cercarsi il cibo. Questo mustelide è, per sua natura, scontroso, diffidente, poco socievole ed aggressivo. Durante la stagione fredda cade in letargo, ma, a differenza di molti suoi congeneri, si sveglia ripetutamente e per sgranchirsi compie pur brevi movimenti, talvolta arrischiandosi ad uscire anche fuori della tana. E’ piuttosto lento e impacciato nei movimenti, tuttavia sa arrampicarsi sugli alberi con una certa faci- lità ed è pure un abile saltatore. Di regola è carnivoro, si nutre infatti di Insetti, Larve sotterranee, Lombrichi, Topi, Molluschi che costituiscono con piccoli Conigli e leprotti il suo cibo più gradito; ma all’occorrenza si nutre anche di frutta, tuberi e radici, non disdegnando neppure le carogne di altri animali. Per que- sto si può affermare che il Tasso è in definitiva un animale onnivoro. Questo Mustelide ha bisogno di alimentarsi in continuazione, ma nonostante sia veramente insaziabile, può sopportare lunghi periodi di digiuno senza soffrirne eccessivamente; questa scoperta, è dovuta ad alcuni naturalisti che hanno tenuto dei Tassi a digiuno per oltre quaranta giorni senza che gli ani- mali ne risentissero minimamente. Il Tasso è ritenuto un animale che in fatto di astuzia 113 TASSO supera anche la Volpe e grazie a questa sua particolarità, raramente cade nelle trappole tese dall’uomo; è quindi un animale difficilissimo da cacciare. Solo dei cani bene addestrati riescono a stanarlo dalla sua tana, ma prima di farsi sopraffa- re, ingaggia con questi una lotta furibonda: si sdraia sul dorso e lotta ferocemente, tanto che prima di soccombere riesce a metterne fuori combattimento almeno tre o quattro. Come si è detto, il Tasso è aggressivo, ma anche coraggioso. Si racconta che molti anni fa, una femmina, alla quale era stata affumicata la tana per catturare i suoi cuccioli, si avventò contro una contadina e continuò a morderla finchè la donna fu soccorsa e l’animale fu ucciso. Ma anche la povera donna morì di lì a pochi giorni per idrofobia. Degna della massima attenzione per le sue curio- sità è la tana del Tasso. Esso sceglie sempre dei siti esposti a mezzogiorno preoc- cupandosi che ci sia sempre un grande masso ben ancorato al suolo o un grosso tronco d’albero nelle vicinanze. Allora scaverà un lungo corridoio in fondo al quale costruirà una grande camera che tappezzerà di erba, muschio e foglie secche; sarà il soggiorno della famiglia in cui regnerà un’estrema pulizia. Dalla camera dipartiranno diversi corridoi che funzioneranno sia da vie d’uscita che da bocche d’aria. Nella camera del Tasso, come detto, regna dunque una grande pulizia, questo animale è veramente un igienista, infatti, nelle immediate vicinanze, ma talvolta sul finire del corridoio d’uscita, si costruisce delle lettiere che mantie- ne pulite portando periodicamente i “rifiuti”, molto lontano. Non è raro che altri animali quali Lepri, Conigli o Topi, utilizzino soprattutto i corridoi d’uscita dalla tana dove spesso vi costruiscono la loro “cuccia”. Ebbene, pur essendo questi dei bocconi prelibati, pare che il Tasso abbia un grande rispetto per i suoi ospiti. Infatti questi roditori che coabitano nelle sue tane, si sentono tranquilli e protetti poichè non si sa per quale stranezza, il padrone di casa li accoglie senza far loro del male. Un tempo era d’uso catturare dei Tassi molto giovani per poterli addomesticare, ed era frequente osservare questi animali vivere nelle case dell’uomo come se fos- sero dei gatti o dei cani. Sempre nei tempi andati, il grasso del Tasso veniva usato per curare artrosi e reumatismi. Ha un comportamento sociale, una gestazione di 40/42 giorni e può partorire da 4 a 5 cuccioli. 114 LA MARMOTTA È tutta avvolta da una calda e folta pelliccia bruna, leggermente rossiccia sul ventre e terminante con un bel ciuffo nero sulla coda. La testa è piuttosto massiccia coronata da orecchie piuttosto piccole. Ma la cosa che maggiormente spicca in questo animale sono gli occhi neri e rotondi, vivaci e brillanti che sembrano animati da una luce maliziosa. Fu a lungo allevata dalle popolazio- ni alpine per avere a buon mercato delle pellicce, ma anche perché da alcuni organi e dal suo grasso, si sono ricavati per secoli farmaci e unguenti “miraco- losi” per curare diversi malanni. La Marmotta è pure stata considerata un ani- male da compagnia che spesso sostituiva il Cane, perché di carattere giocherellone e domestico. È ritenuto, a dovere, l’animale selvatico più pulito. Non c’è un centimetro quadrato del suo corpo che non lavi e pulisca con meticolosa attenzione. La Marmotta ha un comportamento assai sociale vivendo in gruppi numerosi che trascorrono la giornata giocando a rincorrersi e nutrendosi di erbe aromatiche. Vive in prevalenza anche oltre i 3000 metri di altezza, ma non appena le prime brume avvolgono la montagna, ridiscende verso i luo- ghi più caldi. Possiede due tane: una estiva con una camera non molto profon- da di media ampiezza in nuda terra e con una via d’uscita per la fuga. Quella invernale sarà invece più profonda anche 4-5 metri con una grande camera centrale che riempie di erba, foglie e felci e che diventerà il luogo dove trascor- rerà l’inverno in uno stato di ibernazione, ma la cosa strana è che la Marmotta si risveglia ogni 20-25 giorni per andare a deporre i propri escrementi all’estremità del corridoio d’accesso, mantenendo in questo modo la camera sempre pulita e inodore. Un altro particolare curioso va individuato nel fatto che in questa grande camera trascorreranno l’inverno molti 115 MARMOTTA individui appoggiati gli uni agli altri e tutti legati da stretti vincoli di parente- la. Il periodo che la Marmotta passa in questo stato di ibernazione particolare, dura sei lunghi mesi ed è più lungo di qualsiasi altro animale. Nel corso di que- sto periodo perde circa il 60% del suo peso corporeo. Per segnalare pericoli incombenti le marmotte di sentinella emettono un caratteristico segnale, il famoso “fischio delle Marmotte”. Questo fischio opportunamente modulato e protratto, va diversamente inteso come una conversazione oppure come l’espressione di uno stato d’animo particolare. Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 30 giorni e può partorire da 4 a 8 piccoli. 116 “Non siamo i padroni della natura, ma i suoi custodi.” Henrj David Thoreau LA TALPA Vive sottoterra, è cieca, è priva d’olfatto, non ha un udito particolarmente svi- luppato, ha invece nel tatto, il senso nel quale può maggiormente contare. Ed è infatti con il tatto che riesce ad individuare le sue prede che incontra scavan- do nel terreno. La Talpa deve alimentarsi ogni giorno per circa la metà del suo peso corporeo, pertanto è innato in questo animale l’istinto della continua ricer- ca; ecco perché scava senza interruzioni. Anche sazia, incontrando nuovi Lombrichi e nuovi Vermi essa li morderà; nella sua saliva sono presenti delle sostanze paralizzanti che agiranno sulla preda immobilizzandola per alcune ore; la Talpa, appena il cibo scarseggerà, ritornerà sui suoi passi e si ciberà di queste riserve. Contrariamente ad altri mammiferi, il pelo della Talpa alla carezza non si rovescia ma rimane dritto e morbido. La Talpa viene cacciata in diversi modi (molti di essi inefficaci) ma il più praticato e sicuro rimane sempre quello di attendere con pazienza la ripresa del suo lavoro, laddove è affiorata in superficie la sua piccola ultima duna. Sarà sempre al mattino presto, o alla sera al crepu- scolo, che essa si rifarà viva e incomincerà a portare in superficie con i forti arti posteriori, la terra che scaverà con quelli anteriori, a questo punto basterà calco- lare il ritmo con il quale il piccolo cumulo salirà, e con un colpo netto del badile, sollevare da sotto il cumulo intero, all’interno del quale quasi sempre ci sarà la Talpa. Un tempo la pelliccia di questo animale era molto preziosa e valeva veramente la pena cacciarla, infatti al pas- saggio dello straccivendolo che raccoglieva tutto, la pelle della Talpa, pur essendo pic- cola (un rettangolino di circa 12cm per 10), veniva pagata almeno 20 volte quella di un Coniglio che era molto, ma molto più gran- de. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 28 giorni e partorisce TALPA EUROPEA da 3 a 5 cuccioli. 119 La fiaba “ La Talpa e sua Madre” Una Talpa, animale cieco per natura, un bel giorno comunicò a sua madre che ci vedeva. La madre per verificare se fosse vero le diede un granello di incenso chiedendole cosa fosse. Essa allora dichiarò che era un sassolino. “Figlia mia” esclamò allora la madre, “tu non solo sei cieca, ma hai pure perduto il senso dell’olfatto”. (Esopo) IL CRICETO Le curiosità del Criceto incominciano da come costruisce la sua tana, sempre e comunque dotata di un’entrata e di un’uscita. Nel profondo della medesima si costruisce più camere. La prima, quella principale, solitamente la più grande, diventa il luogo di soggiorno. Sarà “arredata” con tenere foglie e sottili fili d’erba che diventeranno un morbido giaciglio anche per i piccoli che nasceranno. Seguiranno dei magazzini nei quali saranno accumulate, durante la sta- gione propizia, molte riserve di cibo per l’inverno; si calcola che ogni Criceto possa approvvigionarsi dai 13 ai 16 kg di vegetali tra i quali tarassaco, piantaggine, CRICETO piccoli frutti, tuberi, radici e altro ancora. Ma il Criceto dopo il soggiorno e i magazzini scaverà altri recessi, le così dette latri- ne, dove tutta la famigliola andrà a defe- care lasciando pulito tutto il resto della tana. Un ultimo particolare curioso deri- va dal fatto che il Criceto alle prime avvisaglie dell’inverno, chiude gli sbocchi esterni delle sue gallerie proteggendosi così dal freddo e dai predatori. Il suo letargo sarà piuttosto vigile perché fino all’arrivo della primavera alterne120 rà stati di breve letargia ad altrettanti brevi risvegli durante i quali consumerà piccole parti delle sue abbondanti scorte di cibo. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 20 giorni e partorisce da 4 a 14 cuccioli. IL GHIRO Se non fosse per la sua lunga coda pelosa potrebbe essere scambiato per un Ratto considerate anche le pressoché identiche dimensioni. E’ un animale pre- valentemente arboricolo, che occupa con successo una nicchia rimasta libera fra quella degli Scoiattoli e quella dei Ratti e dei Topi. Ha un mantello folto e lanuginoso e una coda interamente rivestita di pelo piuttosto lungo. Caratteristici sono i suoi grandi occhi sporgenti e la rotondità dei padiglioni auricolari, mentre i suoi sensi maggiormente sviluppati sono l’olfatto e l’udito. Vive costantemente fra i rami degli alberi, ma anche tra i cespugli scendendo sul terreno solo raramente. E’ maggiormente attivo nelle ore notturne durante le quali cerca frutta, semi e tenere cortecce, ma non disdegna di predare insetti, uova e piccoli nidiacei di uccelli. All’inizio dell’autunno, il Ghiro si alimenta con una maggiore voracità tanto da ingrassare in maniera notevole in vista del periodo freddo e del lungo sonno invernale. Anche il Ghiro, come gli Scoiattoli, ama costruire il suo nido nelle cavità degli alberi. Infatti, il suo habitat si identifica con boschi di querce e frassini misti a pini, dove, ad un’abbondante fruttificazione di queste piante si accompagna un’ampia disponibilità di cavità naturali; a tale pro- posito si è notato che, in questo partico- lare habitat, viene riscontrata una mag- giore densità di Ghiri. Tuttavia questo animale non disdegna soluzioni alternati121 GHIRO ve e sa costruirsi, fra i rami di cespugli e arbusti molto fitti, un nido globoso fatto di fronde e di stecchi simile a quello degli uccelli, pur se vistosamente più grande rispetto alla sua mole. In questi suoi nidi, siano essi nelle cavità o nei cespugli, il Ghiro introduce delle riserve di cibo che consumerà subito dopo il suo risveglio dal lungo e ininterrotto letargo. Si è notata una partico- larità molto curiosa: il Ghiro rifiuta le cavità degli alberi che non abbiano il foro di ingresso rivolto a sud o che comunque non sia ben protetto dagli agen- ti atmosferici. La prima scelta resta tuttavia un rifugio ipogeo (sottoterra) rica- vato fra il groviglio di radici di un albero; si tratta sempre di una tana piutto- sto grande dove più individui possono raccogliersi insieme. In questi rifugi, in caso di forti densità di popolazione, più femmine condividono la tana per partorire ed allevare insieme i loro figli. Fra gli antichi Romani era d’uso alle- vare questi animali, che venivano ingrassati al punto giusto per passare poi allo spiedo e finire con l’allietare i loro banchetti. Questa usanza è venuta meno con la fine dell’Impero Romano. Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 30 giorni e partorisce da 4 a 10 piccoli. IL MOSCARDINO Questo animale è un piccolo Ghiro ed è poco più grande di un topolino dome- stico dal quale si distingue per il colore bruno-arancio del suo mantello e per la coda rivestita di un pelo corto ma folto. Ha abitudini alimentari abbastanza simili al Ghiro pur avendo una particolare predilezione per le nocciole, di cui, con grande abilità, riesce a forare il guscio e ad estrarre il seme. Preferisce vive- re e cacciare sulle sommità dei cespugli e costruisce il nido di soggiorno con erbe, foglie e lembi sottili di corteccia intrecciati fra di loro sempre in forma globosa, con foro di accesso laterale capace di contenere un solo individuo e ad una certa altezza dal suolo. Il nido, dove le femmine vanno a partorire, è più grande, più robusto e più vicino al suolo. Il ritrovamento di più nidi uno accan122 to all’altro, sta ad indicare che il Moscardino ha un comportamento socia- le. Il nido, dove trascorrerà l’inverno, sarà invece costruito con dei materiali più compatti, appoggiato al suolo e coperto da foglie e detriti del sottobosco. In questo rifugio, con l’approssimarsi della cattiva stagione e senza aver effettuato alcuna provvista per l’inverno, si rinchiuderà rag- MOSCARDINO gomitolandosi a palla con la coda che gli coprirà la testa e le spalle come una sciarpa. Cadrà quindi in un profondo letargo che durerà fino a primavera inol- trata, senza mai svegliarsi. In caso di pericolo il Moscardino ha affinato un modo straordinario per mimetizzarsi, riesce ad appiattirsi contro i tronchi degli alberi al punto da passare inosservato e da sembrare una piccola protuberanza della corteccia alla quale nessun predatore darà mai alcuna importanza. Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 23 giorni e partorisce da 4 a 8 piccoli. LO SCOIATTOLO ROSSO EUROPEO La curiosità che contraddistingue questo animale è che ciascun sesso mantie- ne separatamente il proprio territorio per gran parte dell’anno. Solo nel periodo degli amori il maschio entra nel territorio della femmina e la segue con insistenza fino al momento dell’accoppiamento. Ma per entrare in contatto con la femmina il maschio emette dei richiami molto simili a quelli emessi dai giovani traendo così in inganno la stessa che finisce in ogni modo con l’accettarlo. La grande coda degli scoiattoli, oltre ad essere un ovvio abbellimento dell’animale, ha altre varie funzioni: regola l’equilibrio e funge da “timone” quanto compie dei salti acrobatici lanciandosi da un ramo all’altro, quando non addirittura da un albero all’altro e la utilizza anche come paraca123 dute frenante qualora decidesse di lan- ciarsi nel vuoto per raggiungere il terreno sottostante. Ma sembra avere pure un altro ruolo importante, quello di comunicazione nei rapporti interindividuali, fatti di spostamenti, di sbandieramenti e SCOIATTOLO COMUNE mosse insolite e cerimoniose. Lo Scoiattolo trova il suo habitat nei buchi e negli anfratti degli alberi, ma se questi venissero a mancare esso si costruirà, nella parte alta di un grande albero, un nido del tutto simile a quello degli uccelli, ma decisamente più grande e sproporzionato rispetto alla sua mole: ciò perché dovrà contenere tutte le provvi- ste per il freddo e lungo inverno, quando riduce la propria attività per entrare in un vigile letargo, fatto di continui risvegli, durante i quali si alimenterà e scenderà addirittura al suolo, sia pur per brevissimi periodi. Il simpatico roditore, possiede nei denti incisivi un elemento che caratterizza quest’ordine di mammiferi presentando aspetti particolari e unici. Questi denti sono privi della radice, e sono ridotti ad un solo paio in entrambe le mascelle, dove appaiono relativamente sviluppati e notevolmente ricurvi. La loro estremità basale è aperta e ripiena di una polpa vascolarizzata, che assicura il loro accrescimento continuo, compensando, in tal modo, l’estremità dei medesimi, che viene consumata nell’erosione continua provocata dall’in- cessante rodere dell’animale. Altro aspetto curioso dello Scoiattolo, è rappre- sentato dalle tipiche impronte lasciate sulla neve e sul terreno, infatti si può notare che le zampe anteriori sono provviste di quattro dita e che le loro impronte sono sempre precedute da quelle posteriori, maggiormente sviluppate e comprensive di cinque dita. E va ricordato pure un ultimo aspetto curioso dello Scoiattolo: in tempi lontani (ma in certi paesi dell’Asia ancora oggi), riconoscendo a questo animale delle straordinarie capacità funamboli- che, si riteneva che cibarsi del suo cervello, una volta disseccato e polveriz124 zato, preservasse saltimbanchi ed equilibristi da cadute ed infortuni. Merita una nota aggiuntiva la vicenda dello scoiattolo grigio, che intorno agli anni 50 è stato introdotto, provenendo dal Nord America, all’inizio in Gran Bretagna e successivamente nel resto del continente Europeo. Oggi, questo Scoiattolo, essendo decisamente più grande e più forte dello Scoiattolo rosso europeo (comune), si è rivelato perturbatore degli equilibri esistenti, entrando in competizione con il medesimo e scacciandolo dal suo habitat originale. In alcune regioni Italiane come la Liguria e il Piemonte, si può ormai “denuncia- re” la scomparsa dello Scoiattolo autoctono e l’insediamento al suo posto dello Scoiattolo grigio. Ha un comportamento variabile, una gestazione di circa 45 giorni e partorisce da 2 a 6 piccoli. . IL TOPORAGNO Numerose caratteristiche di questi animali sono legate alle loro piccole dimen- sioni; ciò vale soprattutto per il metabolismo, estremamente elevato in relazio- ne alla legge secondo la quale diminuendo le dimensioni del corpo il metabo- lismo, o meglio il costo metabolico, aumenta progressivamente; ciò lo rende estremamente vorace per la continua necessità di ingerire fonti alimentari ener- getiche. Per vivere, il Toporagno deve continuamente nutrirsi, tanto da abbisognare di una quantità di cibo giornaliera davvero notevole pari a dieci volte il suo peso corporeo. Le necessità energetiche durante la gestazione aumentano mag- giormente e la ricerca di cibo richiede uno sforzo notevole; perciò può succedere che in determinati periodi le femmine gravide non trovino nutrimento sufficiente e quindi siano costrette a interrompere la gesta125 TOPORAGNO zione. In questi casi non si assiste ad un aborto come sarebbe naturale per gli altri mammiferi, bensì ad un riassorbimento degli embrioni. In parole povere succede che la madre, non riuscendo a trovare nutrimento per se stessa e con- seguentemente per gli embrioni e trovandosi nella necessità di sopravvivere, si… “rimangia il tutto”. Le femmine di Toporagno riescono a partorire anche cinque volte l’anno. Considerando che la pressione predatoria limita la vita di questo animaletto a quindici-diciotto mesi, si capisce come l’alto tasso riproduttivo sia necessario per assicurare la conservazione della specie. Un altro comportamento degno di interesse è rappresentato da brevi momenti di pausa e sonno a causa della continua agitazione in cui versa il Toporagno; durante lo stesso periodo invernale, il Toporagno pur rimanendo a lungo nella tana non entra in letargo essendo di natura sempre agitato e incapace di prendere sonno. Viene predato assiduamen- te da Gatti, Volpi, Rapaci diurni e notturni, da Vipere, Gazze e altri ancora, ma a causa del suo sapore sgradevole e di una accertata tossicità della sua carne, dopo la predazione il suo corpo viene abbandonato senza essere divorato. Davvero curioso, infine, è il modo con il quale una famigliola di Toporagno si sposta da una zona all’altra: i cuccioli, tutti in fila indiana tenendo tra i denti uno la coda dell’altro, si lasceranno guidare dalla madre. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 20 giorni e partorisce da 5 a 7 piccoli. 126 IL RICCIO Il comportamento del Riccio presenta diversi particolari curiosi. Ad esempio quando caccia, soprattutto nelle ore notturne, i piccoli seguono la madre a poca distanza tutti in fila indiana e si avvicinano ad essa solamente quando questa ha catturato qualche preda e con i tipici richiami, che somigliano a dei timidi grugniti, li chiama presso di sé. Quando viene attaccato, il Riccio ritira sul ventre le zampe e gli arti e si appal- lottola su se stesso diventando inespugnabile. Questo metodo di difesa è pos- sibile in quanto il Riccio possiede una muscolatura particolarmente robusta posta sotto gli aculei. È appunto la contrazione di questa “guaina” che lo fa appallottolare. Quando i cuccioli nascono, per circa due giorni sono vulnera- bili in quanto il loro corpo è coperto solo da una leggera peluria, ma basteranno ancora poche ore perché questi peli si modifichino in aculei tanto resistenti quanto quelli degli adulti. La credenza popolare ritiene che il Riccio sia immune al veleno della Vipera. In realtà egli teme molto il morso del rettile il quale però non riesce a superare con i suoi denti veleniferi lo strato di aculei e finisce, dopo una lunga lotta, per RICCIO EUROPEO soccombere ai suoi continui morsi, con i quali riuscirà a spezzare la colonna vertebrale del rettile. Ci sono stati diversi esperimenti in laboratorio e da que- sti si è dedotto che, a parità di peso, il Riccio è in grado di sopportare, senza gravi danni, una quantità di veleno di Vipera quasi dieci volte superiore quella che potrebbero sopportare altri mammiferi e tra di essi anche l’uomo. Il Riccio riesce a nuotare e a cacciare Rane, piccoli Anfibi e invertebrati; ad arrampicarsi sugli alberi dove preda uova e piccoli Uccelli ed a camminare 127 molto velocemente sul terreno dove si nutre particolarmente di insetti e Lucertole. Si nutre molto voracemente pure di Vespe, Api e Coleotteri, anche dei più tossici, come Meloe e Litta, che contengono una buona dose di canta- ridina, non subendo danno alcuno. È un animale che possiede una grande energia che spesso rasenta la frenesia. Non solo nel periodo degli amori, ma anche in altre stagioni, egli ama correre freneticamente in cerchio apparente- mente per divertimento, ma quasi sempre per scaricare l’eccesso di energie. Un ultimo fatto, considerato per anni credenza popolare, si è dimostrato, in realtà, assai veritiero. Il Riccio ha l’abitudine di cospargersi, con incredibili contorsioni, gli aculei con sostanze che emanano un forte e sgradevole odore. Poiché questo comportamento provoca un aumento della salivazione è stato anche definito “autosputo”. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 35 giorni e partorisce da 3 a 7 piccoli. 128 “Che Allah sia lodato per la varietà della sua creazione.” Proverbio Arabo IL CERVO Il Cervo europeo è caratterizzato da: un accentuato sviluppo della parte anteriore del corpo; altezza (dalla spalla) che può arrivare a 2 m, zampe proporzional- mente alte, robuste ed agilissime e una dentatura completa (34 denti compresi i canini che mancano in altre specie). Osservato in libertà, il Cervo non sembra essere quello scellerato e balordo ani- male che i più ci descrivono. Questo ungulato sa opporre tattica a tattica e sa mettere a buon profitto tutti i suoi acutissimi sensi, che gli permettono di senti- re la presenza dell’uomo fino a 600 m di distanza. La celerità dei suoi garretti d’acciaio, la resistenza al nuoto, la capacità di sopportare la fame e la sete rima- nendo, per ore e ore, affondato fino alla testa nelle paludi e nei pantani, il saper trarre vantaggio dagli ostacoli naturali per ritardare l’inseguimento e far perde- re le tracce ai suoi predatori, denotano, oltre che prestanza fisica, anche pruden- za e intelligenza. Naturalmente come per ogni animale della foresta, la legge del più forte vale anche per il Cervo. L’egoismo si identifica con l’istinto di conser- vazione. Ciò è tanto più evidente nella femmina. Per natura la Cerva è dolce e timida ed è una madre affettuosa, ma quando i suoi cuccioli sono minacciati può diventare feroce. Per ogni figliata nasce un solo cucciolo, raramente due. Quindi questo “figlio unico” è coccolato e viziato dalla madre fino alla nascita del nuovo rampollo; allora il figlio ormai grande viene energicamente cacciato di casa e lasciato al suo destino. Solo all’inizio del sesto mese la distinzione fra i due sessi si rivela chiaramente. Non soltanto si diversificano nel mantello invernale, ma nel maschio comincia a formarsi, sia da un lato che dall’altro sulla parte anteriore della fronte, una prominenza arcuata: la rosa. Appena l’osso della rosa avrà raggiunto la debita altezza, nascerà su di esso una fitta peluria (il velluto). Sbucherà quindi un germoglio corneo che andrà via via svi- luppandosi in un fuso robusto (asta). A questa fase del suo sviluppo il cerbiatto prende il nome di “fusone”. Quanto più il cerbiatto è robusto tanto più l’asta cornea è forte e massiccia. All’inizio essa è sempre ricoperta da una guaina vel131 lutata la quale, a crescita ultimata, si lacererà e cadrà lasciandola nuda. All’inizio del secondo anno di vita, cioè la primavera successiva, quelle prime aste (palco) cadranno per rinascere più tardi, accresciute da un nuovo germoglio. Questa prima diramazione (occhiale) promuove il giovane “fusone “ al grado di “for- cuto”. Nell’ anno successivo (il terzo), il palco accresciuto di un secondo ger- moglio, gli conferirà il titolo di “treppunte”. Il Cervo possiede dunque un palco massiccio e caduco. Accade infatti ogni anno, a fine marzo-aprile, che il palco si decalcifichi e cada. La cicatrice, dopo qualche giorno, verrà ricoperta dal “velluto” e il palco tornerà a riformarsi rapidamente per opera delle cellule costruttrici delle ossa e sarà, ogni volta, più saldo, più robusto e con un germo- glio in più. Sempre per un periodo transitorio, la guaina vellutata ricopre ester- namente le aste mentre all’interno una rete sempre più fitta di arterie sanguigne alimenta queste escrescenze che costituiscono, per il cervo, l’arma poderosa, il suo ornamento e il suo attributo di campione. Normalmente, se non avrà infor- tuni o malattie gravi, un Cervo adulto avrà fra i sette e i dieci anni, palchi (ripiani) costituiti da 12 e più punte i quali formano alla sommità una specie di “coro- na” che, per la forma, si diversifica da specie a specie ed anche talvolta da indi- viduo a individuo. Scompariranno invece le punte infantili che costituivano il palco giovanile. In vecchiaia, e cioè dopo i 13/14 anni, la crescita delle punte si arresterà. La perdita del palco non produce sofferenza all’animale, ma sicura- mente un po’ di fastidio, mentre un certo malessere lo produce la caduta del vel- luto che si distacca a brandelli e di cui il Cervo si libera strofinandosi selvaggiamente contro i tronchi degli alberi. Inoltre, poiché è difficile che i 2 fusti cadano nello stesso momento, quando il primo è caduto la sproporzione di peso costringe l’animale ad inclinare la testa da un lato e allora la scuote sovente come se volesse liberarsi al più presto anche dell’altro fusto. Per rinnovare il palco l’animale impiega da 3 a 4 mesi, e si arriva così a fine estate, epoca in cui i palchi saranno necessari al Cervo innamorato per affrontare i rivali. Se si con- sidera che nel Cervo adulto la lunghezza media dei fusti che formano il palco è di circa 100 cm, che l’apertura tra le due estremità può arrivare ai 130 e che il 132 numero dei pugnali va da 12 ad oltre 20, non è difficile pensare quanto siano pode- rose le armi di cui dispone. Un’altra caratteristica del Cervo è quella della “muta”. La lunghezza, la densità e il colore del pellame sono molto differenti nella stagione fredda e nella stagione calda. La muta, che inizia in primavera e termina in estate, conferisce al Cervo un abito estivo in CERVO cui prevalgono i colori ruggine rossastro, mentre in quello invernale domina una tinta grigio bruna. Le orme del Cervo si riconoscono facilmente; infatti il suo zoccolo è tipico: formato da 2 unghioni allungati neri e cornei riuniti fino a metà da un forte legamento formando nell’insieme una palma tenera a forma di cuore. Il Cervo che vive libero nel bosco si nutre di teneri rami, germogli, foglie, scorze d’albero, funghi e bacche. Ama anche scavare nel terreno con il suo muso appuntito alla ricerca di patate e altri tuberi, ma pure di radici man- gerecce. Il Cervo è sempre stato cacciato sin dai tempi più lontani; tutte le epo- pee ne parlano ed è presente nelle tradizioni di tutti i popoli e di tutti i paesi. Nei miti delle divinità pagane la Cerva era sacra alla dèa Giunone, moglie del re dell’Olimpo Giove-Zeus, che con la sua arma terribile, la folgore, dominava uomini e dèi, e alla dèa della caccia Diana, che di giorno penetrava nelle selve e di notte saliva sul carro argenteo della luna. Nella cristianità il Cervo assume invece un significato metaforico nuovo, raffigurando il Cristo e successiva- mente gli Apostoli. Di conseguenza tutto il Medioevo è pieno di leggende che narrano di conversioni dovute ad apparizioni di Cervi bianchi, di Cervi fiam- meggianti, di Cervi recanti fra le corna del palco croci abbaglianti, di Cervi alati. Il Bramito del Cervo viene emesso dal maschio nel periodo che precede l’amore quando tende a difendere il suo territorio e ad arricchire il suo harem di nuove femmine. Strenue e prolungate sono le lotte fra maschi per ottenere il predominio sul territorio, lotte che sempre finiscono con la prevalenza del 133 maschio più forte che diventa così dominante. In questo periodo il Cervo, impegnato com’è a bramire, ad accoppiarsi, a lottare per la dominanza, a controllare territorio e femmine, non ha nemmeno il tempo per alimentarsi, tanto che in 25-30 giorni, tanto lungo è il periodo dell’estro, arriva a perdere anche 55-60 kg del suo peso. Alla fine dell’inverno lungo le strade del loro habitat, ormai libere dalla neve, di sera e fino all’alba, è molto facile poter osservare le strade invase dai Cervi intenti a leccare l’asfalto reso salato dalla cosparsa da parte dell’uomo di sale per sciogliere la neve. E’ altrettanto interessante sape- re come in certe località si possano osservare alcune rocce contenenti eviden- ti residui di sale rese perfettamente lisce, in quanto leccate per millenni dai Cervi. Un antico aforisma “maschilista” racconta, che quando due novelli sposi entravano nella loro casa, l’uomo rivolgendosi alla moglie dicesse: “o servi come una serva, o fuggi come una Cerva”. Ha un comportamento socia- le, una gestazione di circa 250 giorni e partorisce un solo piccolo. La fiaba “Il Cervo alla fonte del Leone” Un Cervo assetato si recò presso la fonte: bevve e poi rimase a contemplare la sua immagine riflessa nell’acqua. Si sentì orgoglioso del suo bel palco e ammirò la sua grandezza e il suo disegno. Ma delle sue gambe non si sentì soddisfatto perché gli sembravano troppo fragili. Mentre stava ancora riflettendo su ciò, un Leone arrivò alla fonte e scorgendo il Cervo incominciò a inseguirlo, ma il Cervo con le sue gambe agili si diede alla fuga, attraversò tutta la pianura ed entrò nel bosco con un buon vantaggio sul felino che però continuò ad inseguirlo. Arrivato però nel bosco accadde che il suo maestoso e bellissimo palco si impigliò su degli arbusti, così che il Cervo non potè più correre e fu catturato dal Leone affamato. Allora mentre stava per morire esclamò: “ Me disgraziato quelle gambe in cui non avevo fiducia mi offrivano la salvezza e mi tocca morire proprio per colpa di quello in cui riponevo tutta la mia fiducia”. (Esopo) 134 LA VOLPE E’ un animale che nasce carnivoro, ma che oggi deve essere considerato onni- voro. Tipico abitatore delle colline e delle montagne, dove con grande furbizia e poco dispendio di energie sa cacciare le sue prede, essendo molto intelligente e quindi opportunista, è ultimamente sceso a valle ed è arrivato sino al mare, incontrando sulla sua strada discariche e cassonetti delle immondizie dove si nutre dei rifiuti dell’uomo faticando anco- ra meno. E’ un animale dall’incedere molto elegante tanto che si ritiene che le indossatrici in passerella imitino il suo camminare, ponendo una gamba davanti l’altra e ancheggiando, proprio come fa la Volpe. Il suo territorio, fortemente “marcato” da urine e feci, varia dai 7 ai 10 kilometri quadrati, all’interno dei quali soprattutto il maschio caccia in solitudine, preferibil- VOLPE mente di notte. Nelle tane della Volpe sono stati sovente trovati i resti delle prede più svariate, va riconosciuto pure che, all’occorrenza, si introduce in qual- che pollaio dove comunque non fa razzie, ma si limita a predare un solo anima- le. E purtroppo entra ancora in conflitto con l’uomo anche quando preda con facilità la selvaggina che nidifica a terra. Tuttavia a conti fatti si è comunque potuto accertare che la Volpe preda prevalentemente vari piccoli roditori e non è quindi così dannosa all’uomo come si è portati a credere. Raramente il maschio divora le sue prede sul posto in quanto ama portare il bottino nella sua tana e consumarlo con la femmina e i cuccioli che lo attendono. I cuccioli non sono accuditi solo dalla madre naturale, ma molto frequentemente anche da altre femmine “aiutanti” che rimangono nella tana o nelle immediate vicinanze sino ad oltre tre mesi. Se le prede sono di grossa taglia o numerose, la Volpe 135 scava un buco nel terreno e le seppellisce memorizzando il luogo e ritornando- vi su di esso nei momenti di carestia. La Volpe è sempre stata vittima della cac- cia da parte dell’uomo, sia per la sua preziosa pelliccia, sia perché la sua esi- stenza ha colorito molte favole del passato e certamente ha dato così un tocco di mistero a tante tradizioni popolari. In questi ultimi anni la lotta contro questo astuto animale che, grazie proprio alla sua furbizia, riesce comunque a soprav- vivere in gran numero, si è intensificata perché l’animale quando scende a valle e arriva sino al mare, essendo portatore e diffusore della “rabbia silvestre”, una forma di idrofobia che fa strage tra le popolazioni selvatiche di animali, potrebbe, mordendolo, trasmetterla anche all’uomo. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 50 giorni e può partori- re da 4 a 10 piccoli. La fiaba “La Volpe e l’uva” Una Volpe affamata notò dei bellissimi grappoli d’uva pendere da una pergola e tentò di mangiarli. I grappoli erano troppo in alto e nonostante vari tentativi non riuscì nel suo intento. Disse allora tra sé e sé “sono troppo acerbi non mi sarebbero piaciuti” e si allontanò (Esopo). LA LINCE E’ un superpredatore per eccellenza; possiede una vista acutissima e un udito altrettanto sviluppato. E’ dotata di artigli retrattili che usa per artigliare le prede o per salire sugli alberi e che ritira quando si sposta sul terreno. Questo felino è di maestosa bellezza, si muove con una rapidità assai maggiore dei suoi parenti dell’Asia e dell’Africa. Come del resto tutti i felini, la sua lingua presenta papille cornificate rivolte all’indietro, usate per raschiare la carne dalle ossa. Per la Lince, la digeribilità è facile e non implica particolari spe- cializzazioni dell’apparato digerente. In genere la secrezione salivare è scar136 sa e la struttura dello stomaco molto semplice. Il suo intestino breve non supera la lunghezza di 4 volte la dimen- sione del suo corpo. E’ curioso sapere a questo punto che quello di una Foca è di 20 volte superiore, mentre quello del Leone marino arriva a 80 volte. La Lince come i suoi simili (predatori carnivori), presenta sul corpo ghiandole di diverso LINCE tipo. Alcune sono in funzione della termoregolazione, servono, cioè, a man- tenere il pelo in buone condizioni e a renderlo isolante: è il caso delle ghian- dole sebacee che (come negli uccelli) producono una secrezione che serve a lubrificare la pelliccia. Anche le ghiandole anali sono particolarmente svilup- pate e producono una sostanza davvero nauseante. La Lince riesce a scorgere un piccolo Topo nascosto fra la vegetazione a 50 metri di distanza; a 100 metri individua una Lepre e a 300 metri un piccolo di Capriolo nascosto in un prato. Si distingue dagli altri felini (a parte il “Caracal” che possiede anch’esso questa caratteristica pur se in proporzioni più ridotte), per i ciuffetti piuttosto lunghi posti sulla sommità delle orecchie appuntite che hanno una funzione auricolare aggiunta. Si evidenziano pure i suoi sviluppati e rigidi “baffi” bianchi o grigi che si allineano sul labbro supe- riore, conferendo al muso un aspetto fiero e particolare, ravvivato da un paio d’occhi dal freddo sguardo metallico. E’ un animale molto forte che riesce ad abbattere persino dei Caprioli e dei giovani Cervi, saltando sul dorso delle vit- time e dilaniandole a colpi di artigli e di denti. E’ stato osservato che i giova- ni maschi hanno un alto tasso di mortalità, probabilmente per ragioni geneti- che. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 65 giorni e può par- torire da 2 a 4 piccoli. 137 L’ORSO BRUNO È tornato ad abitare (anche se solo di passaggio) la foresta del Cansiglio pro- venendo da est dopo alcuni decenni di totale assenza. È parente stretto del Grizzly, del Kodiac e di altri Orsi orientali. Contrariamente a quanto la gente è portata a credere, l’Orso bruno è un animale prevalentemente erbivoro. La sua alimentazione di base è infatti costituita da erba, radici, tuberi, funghi e frutta e solo saltuariamente si nutre di qualche carogna. Integra questa dieta con miele che ruba alle Api selvatiche, non disdegnando nemmeno gli stessi insetti. Nelle sue abitudini, niente giustifica l’aureola di terrore da cui è cir- condato; tanto più che, ignorando sovranamente l’uomo, si lascia avvicinare dallo stesso senza reagire, limitandosi a emettere dei sonori grugniti quando ritiene che si stia per sorpassare i limiti di una rispettosa familiarità. Soltanto il suo aspetto può spiegare la sua cattiva reputazione: infatti è grande e massiccio e tutto di lui è imponente soprattutto con l’avvicinarsi dell’inverno, quando il suo corpo si copre di grasso per proteggersi dal freddo. L’Orso bruno allora raddoppia il suo peso e diventa un mostro grottesco con la sua andatura pesante e faticosa. In realtà, il terribile protagonista di tante leggen- de ha solo la forza di raggiungere traballando la propria tana, dove rimarrà in letargo nei mesi invernali. Peso e dimensioni variano in base all’habitat e quindi al tipo di alimentazione; certi maschi adulti arrivano a pesare 5/7 quintali e, ritti sulle zampe, possono raggiun- gere e superare i 2 metri e mezzo di altezza. In oriente l’Orso Tibetano, che ha le medesime caratteristiche dell’Orso bruno, viene accusato dalle popolazioni locali di introdursi nottetempo nei villag- gi e compiere razzie di animali domesti- ci, tanto che molte leggende lo citano ORSO BRUNO come responsabile di mille misfatti e per 138 questo è fatto oggetto di una caccia spietata. In realtà viene ucciso in quanto si crede che alcune parti del suo corpo, specialmente la cistifellea, servano a produrre farmaci che si rivelerebbero essere la panacea per guarire tutti i mali e queste medicine, soprattutto unguenti, vengono venduti sui mercati a prez- zi davvero ragguardevoli. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 65 giorni e può par- torire da 1 a 3 piccoli. La fiaba “I viandanti e l’ Orso” Due amici viaggiavano insieme, quando si videro sbarrare la strada da un grande Orso. Uno dei due, più svelto, si arrampicò su un albero e vi restò nascosto, mentre l’altro, si gettò al suolo fingendosi morto. L’Orso si avvicinò e lo annusò e il povero uomo trattenne persino il respiro, perché a quel che si diceva l’Orso non avrebbe mai toccato un cadavere. E l’Orso dopo averlo nuovamente annusato si allontanò. Solo allora, quello che era sull’albero, ridiscese e chiese all’altro che cosa gli avesse detto nell’orecchio l’Orso: E quello gli rispose:” di non viaggiare più con dei compagni che nel pericolo non restano al tuo fianco”. (Esopo) IL LUPO Le disgrazie del Lupo non sono tutte imputabili a Cappuccetto rosso, alle favo- le di La Fontaine, a quelle di Esopo o ai racconti di Daudet, e nemmeno all’im- maginario collettivo Cristiano, che durante il Medioevo vedeva nel Lupo l’incarnazione del demonio, delle forze oscure del male e del peccato. Della sua cattiva fama sono responsabili anche i contributi di importanti zoologi e di nar- ratori. Nell’ottocento si leggono dei trattati che definiscono il Lupo: “il più cat- tivo degli animali feroci” e in altre occasioni lo si fa conoscere all’uomo attraverso comunicati e manifesti che insegnano : “i feroci costumi del Lupo, noci139 vo da vivo e inutile da morto”. Per ribaltare le opinioni in favore del Lupo, biso- gna attendere le esperienze dei ricercatori cresciuti alla scuola di K. Lorenz che lo hanno studiato a fondo. Oggi, alla luce delle ultime (tardive) esperienze, se potes- se parlare, solo la Pecora potrebbe dire: “crepi il Lupo”. Il destino dell’Uomo e del Lupo si intrecciano sin dai tempi della LUPO preistoria. Essi hanno infatti gli stessi gusti e mirano entrambi alla stessa selvaggina. Ma è quando l’Uomo si dedica all’allevamento che la lotta si fa più spietata. La Pecora è una preda facile e abbondante, e il Lupo diventa un nemico pericoloso e organizzato. Più di tutti, i pastori ne conoscono la strategia, e le varie tattiche, soprattutto se il terreno è innevato, ma nonostante ciò, e pur con l’aiuto di Cani custodi, non riescono quasi mai a evitare che il Lupo faccia delle vittime. E l’Uomo capisce che non può sottrarsi alla forza e all’astuzia del Lupo e, se vuole salvare le sue greggi, deve attaccarlo e ucciderlo. Così, sempre nel- l’ottocento, viene decretata la fine di questo animale feroce. Si organizzano tre volte all’anno, delle battute di caccia, mentre trabocchetti, trappole e bocconi avvelenati vengono disseminati in continuazione sul terreno durante tutto l’anno. Lo combattono pastori, cacciatori, ma, per solidarietà, anche uomini del paese che compiono altri lavori, e i nobili. In Francia, per esempio, al tempo del suo regno, anche Luigi XV mandò a caccia del lupo i suoi luogotenenti e le sue particolarmente addestrate mute di cani. Oggi il Lupo è un animale che vive in piccoli branchi nei boschi più inaccessibili, e in tutto il mondo occidentale, la sua riabilitazione è in atto grazie anche ad un graduale mutamento di mentali- tà. Il Lupo rimane comunque un magnifico predatore da controllare, ma che di certo non è gratuitamente cattivo. Una delle tante caratteristiche tipiche del Lupo, come del resto di altri Canidi, è quella di possedere un muso appuntito, grandi orecchie erette, arti lunghi, muscolatura del corpo molto sviluppata, coda 140 lunga e folta. Possiede cinque dita nelle zampe anteriori e quattro in quelle posteriori. Il Lupo non è particolarmente veloce, ma piuttosto resistente; può correre anche per trenta kilometri prima di arrendersi e letteralmente cadere a terra perché sfinito; nessuna preda è in grado di riuscire a reggere questo con- fronto. I Lupi, nella bella stagione, vivono isolati, nutrendosi di piccole prede come roditori e uccelli; d’inverno invece si riuniscono in branchi per cacciare animali molto più grandi come Cervi e Caprioli. I piccoli di Lupo nascono generalmente alla fine dell’inverno in una tana appositamente costruita dalla madre, ed è la stessa madre a liberarli dalla placenta, recidendo il cordone ombelicale con gli incisivi. I cuccioli hanno una crescita molto rapida e ben pre- sto imparano a nutrirsi di carne rigurgitata dai genitori. All’età di 7/8 mesi, i gio- vani Lupi sono già in grado di accompagnare gli adulti nelle varie scorribande, pur limitandosi ad apprendere le tecniche di caccia usate, partecipano agli inseguimenti, si cimentano negli attimi finali della cattura, fino ad imparare, dopo un certo periodo di “apprendistato”, non solo i vari sistemi di caccia, ma ancora di più le abitudini delle prede. Queste “lezioni” talvolta li costringono a per- correre decine di chilometri; d’inverno, quando con le zampe affondano nella neve, per risparmiare preziose energie avanzano in fila indiana ricalcando esat- tamente le orme del primo e alternandosi poi alla guida. Un comportamento sociale va individuato nell’ululato con cui i Lupi si richiamano, mantenendosi in contatto anche se molto lontani. L’olfatto è probabilmente l’elemento fonda- mentale per il riconoscimento individuale e la coesione del branco. I Lupi oltre ai segnali odorosi emessi con l’urina e le feci, possiedono sopra la coda delle ghiandole rese visibili dalla presenza di peli più scuri, il cui secreto svolge una parte importante nel riconoscere i vari individui. I Lupi si riuniscono in branchi che possono arrivare anche a trenta unità. Le dimensioni di un branco sembra- no condizionate almeno da due fattori: il numero minimo di componenti in grado di stanare e uccidere una preda, e il numero massimo per potersi nutrire sufficientemente della medesima. Per quanto riguarda l’aggressività del Lupo, per troppo tempo si è favoleggiato intorno ad una ferocia che nella realtà non è 141 mai esistita. Molto raramente, e solo se riuniti in branco e spinti dalla fame, i Lupi attaccano l’Uomo, prima comunque, aggrediscono altri animali eliminan- do le bestie malate e vecchie, per questa selezione i Lupi possono essere consi- derati preziosi per l’Uomo stesso. Il Lupo è considerato l’antenato del Cane domestico che l’Uomo avrebbe selezionato partendo da una sottospecie: il Lupo asiatico. Incapace di “lappare” come i Cani, i Lupi aspirano l’acqua da bere pro- ducendo un sibilo molto caratteristico. Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 60 giorni e può partorire da 2 a 10 piccoli. La fiaba “Il Lupo e l’Airone” Anche sul Lupo esistono tantissime fiabe, segno evidente di quanto la storia di questo canide sia stata continuamente vicina all’uomo e agli altri animali. Si narra che un Lupo, dopo aver ingoiato un grande osso, se ne andasse dolorante in giro cercando qualcuno che lo liberasse. Incontrato un Airone, lo pregò di estrargli quell’osso che tanto dolore gli procurava, affermando che alla fine lo avrebbe ricompensato. L’Airone accettò e conficcata la sua testa munita di un lunghissimo becco nella gola del Lupo, estrasse l’osso e quindi reclamò il suo compenso. Ma il Lupo gli rispose: “caro mio, non sei contento di aver tirato fuori la tua testa dalla bocca di un Lupo? perché allora osi chiedere un compenso”. (Esopo) LA LEPRE Non sembrerebbero esserci grandi differenze fra la Lepre e il Coniglio selva- tico, se non per le orecchie più grandi e per gli arti maggiormente sviluppati della prima. In realtà le diversità sono molte. La Lepre ha come suo habitat un avvallamento del terreno un po’ riparato (la sua cuccia) dove partorisce i suoi leprotti. Il Coniglio si scava invece una tana con più uscite, nella quale si costruisce un nido molto soffice costituito di fili d’erba, foglie e, soprattutto, molto pelo che la femmina si strappa dal corpo e sopra il quale partorirà i suoi 142 piccoli. I cuccioli di Lepre vengono partoriti senza che la madre appronti per loro nemmeno un semplice giaciglio e nasco- no con gli occhi già aperti e con il corpo coperto di pelo. Saranno subito lasciati soli dalla madre che starà con essi sola- mente durante le ore notturne e per lo stretto tempo necessario ad allattarli. Diversamente, i cuccioli di Coniglio LEPRE nascono “nudi”, con gli occhi chiusi e avranno bisogno di molto tempo, prima di poter abbandonare la tana e seguire la madre. Alle prime ombre della sera, osservando con attenzione un campo di erba medica, terreno prediletto per “pascolare”, si possono osservare le Lepri, che, rizzate sugli arti posteriori, sembrano fare a pugni come se fossero dei veri pugili. Potrebbero essere due maschi che si affrontano per la difesa del territorio, ma molto più spesso si trat- ta di una femmina che intende tenere alla larga il maschio perché non ancora pronta per l’accoppiamento. La Lepre tende ad alzarsi in continuazione sulle zampe posteriori e da questa posizione, muovendo alternativamente in avanti e indietro le sue lunghe orecchie (l’udito, considerati i grandi padiglioni auricolari, è sicuramente il suo senso maggiormente sviluppato), controlla che nelle vicinanze del suo pascolo non ci siano predatori in agguato. Questo com- portamento lo ripete ogni qualvolta percepisce un sia pur piccolo rumore. Un altro particolare curioso che riguarda la Lepre è la tattica che addotta per far perdere le proprie tracce ad eventuali predatori. Non è mai una corsa cieca bensì un capolavoro di astuzia, teso appunto a confondere il suo inseguitore. Non segue mai uno spostamento retto, ma compie delle traiettorie che la vedo- no spostarsi a destra e a sinistra, tornare sui propri passi e compiere dei gran- di balzi; tutto questo confonde il predatore, se a questo uniamo la sua maggiore caratteristica, la velocità, la cattura della Lepre diventa difficoltosa per qual- siasi predatore. 143 Fino a una quarantina d’anni fa, la consegna di un piccolo leprotto ai guardia- caccia, veniva compensata con una lauta “mancia”. Era pertanto naturale poter vedere per la campagna e nella golena del Piave gruppi di ragazzi a “caccia” di cuccioli. Particolare curioso, ma d’uso, era quello che al piccolo leprotto veniva tagliato un pezzetto di orecchio prima di rimetterlo in libertà; era questa sicuramente una forma piuttosto cruenta per “marchiarlo”. Ha un comportamento solitario, una gestazione di circa 40 giorni e può partorire da 4 a 10 piccoli. La fiaba “ Le Lepri e le Ranocchie” Un giorno le Lepri, riunite tutte insieme, stavano lamentandosi della loro vita, sempre di corsa, piena di insidie e di paure, essendo prede ambite da tanti predatori. Meglio dunque farla finita una volta per tutte, che vivere male tutta la vita. Presa questa decisione si lanciarono tutte verso lo stagno per buttarsi dentro e affogare. Le Ranocchie che sostavano tutto intorno all’acqua dello stagno, appena si accorsero del loro avvicinarsi si buttarono immediatamente in acqua. E allora una delle Lepri che sembrava capeggiare le altre disse: “fermiamoci amiche è meglio risparmiarci questo orribile passo, perché avete visto anche voi, che, in fatto di paura e di insidie c’è chi sta peggio di noi”. (Esopo) IL CONIGLIO Sin dai tempi più remoti, i Conigli godettero, presso gli uomini di molto inte- resse, e non solo per la bontà delle carni e l’utilità della loro pelliccia, ma anche per il grazioso aspetto e per l’indole dolce e sottomessa. Un’usanza gentile ad esempio, ancora in vigore nei paesi anglosassoni, ma che già era viva nell’antica Grecia, ha fatto di loro il simbolo dell’abbondanza, della fortuna, della felicità familiare e della figliolanza numerosa. La figura del coniglietto appare spesso nei biglietti di auguri che vengono 144 scambiati specialmente durante le feste Pasquali fra amici e parenti. Famose sono ancora le “Conigliette” (in realtà delle bellissime ragazze) che appaiono in una nota rivista, e molto apprezzate sono le altrettanto bellissime cameriere di tanti ristoranti “in”, “vestite” appunto da conigliette. Altre prove dell’interesse che l’uomo ha sempre avuto nei confronti di questi animali possiamo trovarle nella letteratura popolare di ogni paese in quanto molto spesso essi sono stati scelti come protagonisti di fiabe e racconti, soprattutto quando si voleva indicare la timidezza, la mitezza e anche la paura. Il Coniglio, nella storia, ha rivestito un ruolo molto importante tanto da scomodare Plinio il Vecchio che nel primo secolo dopo Cristo, dà notizia dei mezzi escogitati per liberarsi dai Conigli che arrecavano danni ingenti alle coltiva- zioni, lodando le imprese dei Furetti che li spingevano fuori dalle tane per essere catturati. Plinio scrive ancora come i Romani si cibassero di “laurices”, una pietanza conosciuta dagli Spagnoli a base di neonati di Coniglio. Sull’abbondanza di questo roditore, e sull’importanza che ha sempre avuto nella vita dell’uomo, si CONIGLIO legge in un vecchio trattato che nel 1.337 in Sicilia un mercante richiese a dei cacciatori la fornitura di 10.000 pellicce di Coniglio e che costoro gliene con- segnarono 850 in poche settimane. I suoi resti fossili più antichi, comunque, sono stati trovati in Spagna e datano che la sua presenza risale a oltre 500.000 anni or sono, mentre si ha notizia certa che nel 1.555 il Coniglio non era anco- ra addomesticato nè tanto meno selezionato. Lo si apprende in un trattato dell’epoca in cui lo zoologo in questione, scrive di conoscere solamente dei Conigli selvatici. E bisogna arrivare nella secon145 da metà dell’Ottocento per avere notizie certe del suo allevamento, anche se molto recentemente, e solo intorno al 1950, si inizia ad allevarlo seguendo moderne tecnologie in maniera intensiva. Come del resto tutti i roditori, il Coniglio è molto prolifico: si pensi che una femmina è in grado di partorire anche 7/8 cucciolate di 5/10 piccoli l’una per ogni anno; a questo proposito va ricordato come nel 1859 gli Inglesi pensaro- no di introdurre 12 coppie di Coniglio in Australia. Ebbene in pochi anni divennero centinaia di milioni arrivando a distruggere fino alle radici alberi e coltivazioni, tanto che, per riportare un certo equili- brio, il governo di quel paese dovette promuovere una campagna di abbatti- mento di proporzioni gigantesche. Gli antichi Romani poi, avevano l’abitudine di introdurre una coppia di Conigli nelle varie isolette sparse nel loro impero. In tempi brevi, questi animali diventavano tanto numerosi da costituire una insostituibile fonte di cibo per eventuali approdi fortuiti in quelle terre diversamente inospitali. Quella di introdurre un animale nuovo in un territorio non suo, non è comunque una buona cosa, perché fa sì che egli, essendo sconosciuto e non facendo parte della catena alimentare dei predatori presenti, non venga da essi ricono- sciuto e quindi predato e possa così riprodursi in maniera abnorme causando alla fine dei guai e degli squilibri notevoli. Una espressione che si usava un tempo, parlando di una donna che aveva avuto molti figli (talvolta 15/20) era questa: “a Maria la e come na cunicia” (La Maria è prolifica come una coniglia che appunto alleva molti figli). Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 30 giorni e può parto- rire da 5 a 10 piccoli. 146 “Per poter salvare la fauna selvatica bisogna riuscire a trovare il giusto compromesso tra il massacro brutale e insensato e lo sciocco sentimentalismo. Entrambi condurrebbero infatti alla perdita e all’estinzione totale degli animali.” Theodore Roosvelt IL RATTO GRIGIO Ha raggiunto l’Europa sicuramente molto tempo dopo il Ratto nero, prove- nendo dalle regioni della Cina e della Mongolia. Egli sa adattarsi meglio di un qualsiasi altro animale negli ambienti che frequenta. In pratica si può tro- varlo ovunque pur se predilige le zone umide. Rimane in ogni modo un tipi- co “commensale” dell’uomo del quale, oltre agli edifici destinati alle più varie attività, può, invadere anche le sue abitazioni. Vive soprattutto nelle fogne, nelle cantine e nei cortili, come nei villaggi e nelle aree rurali, ma anche nel cuore delle grandi metropoli. Il Ratto scava delle gallerie che hanno più di un ingresso e sono molto ramificate con camere adibite a soggiorno ed altre a ripostiglio, dove accumula grandi quantità di alimenti. Talvolta ama spinger- si anche molto lontano alla ricerca di fonti di cibo particolarmente gradite: per esempio in particolari periodi dell’anno in cui sui campi avviene la maturazione del frumento e del mais, il Ratto è attratto irresistibilmente dall’improvvisa e abbondante disponibilità di questi ali- menti molto appetitosi e, pur di raggiun- gerli, non esita a percorrere ogni notte diversi chilometri. Durante questi sposta- menti, egli segue sempre lo stesso percorso lasciando dietro di sè delle tracce che non tardano ad essere scoperte dai RATTO predatori che spesso si appostano nelle vicinanze di questi “camminamenti” e lo catturano. I Ratti vivono in gruppi abbastanza numerosi i cui componenti discendono probabilmente da una sola femmina. Si tratta di gruppi familiari all’interno dei quali si stabilisce una certa gerarchia con uno o più maschi dominanti e altri subordinati. Secondo alcuni studiosi, la dominanza sembra essere in rapporto, non tanto all’età, quanto al peso corporeo dei maschi. Le 149 stesse femmine non accetterebbero mai di essere coperte da maschi più leg- geri di loro. I Ratti grigi sono animali notturni; tuttavia, in presenza di forti densità di popolazione, è possibile vedere qualche individuo anche durante il giorno: si tratta senza ombra di dubbio di esemplari di rango inferiore ai quali, durante le ore di attività notturna, gli individui dominanti precludono le vie d’accesso alle fonti di cibo. Diversamente dal Ratto nero, quello grigio tende ad essere anche carnivoro e spesso si ciba di insetti, crostacei, e piccoli di uccello nonché delle loro uova. Non disdegna neppure le carogne di altri ani- mali e sostanze organiche in decomposizione frequentando discariche, fogne e mattatoi. Come altri roditori è un animale previdente che accumula riserve alimentari nel profondo delle sue tane. Quando nuota mantiene la coda, che è lunga quanto il suo corpo, fuori dall’acqua per bilanciarsi. L’uomo può ammalarsi di leptospirosi, una malattia letale, che potrebbe contrarre entran- do in contatto con dell’acqua, di un fossato o di un canale, intrisa dall’urina di questi animali. E’ un abile nuotatore anche in apnea, ed è un altrettanto agile arrampicatore. Ha un comportamento sociale, una gestazione di circa 23 giorni e può partorire da 5 a 10 piccoli. IL TOPOLINO Il Topolino, come il Ratto grigio, è anch’ esso specie molto vicina all’uomo e cosmopolita. Molto diffuso e abitatore delle nostre case, anche in apparta- menti situati a diversi piani di altezza; può però anche vivere allo stato semi- selvatico preferendo terreni lavorati, dove si scava delle tane in cui ricava una grande camera per abitazione e altre piccole celle dove poter immagazzinare delle provviste per i periodi di carestia. Si è accertato negli ultimi anni un evi- dente aumento della sua popolazione e ciò sembra sia da attribuire ad un note- vole incremento di alcune colture cerealicole tipo mais, frumento e girasole e al contemporaneo impiego di mezzi meccanici per la loro raccolta. L’uso di questi mezzi comporta una maggiore “perdita” sul terreno del prodotto matu150 ro coperto, a trebbiatura avvenuta, da un alto strato di paglia. Pertanto, in que- sto ambiente ideale, egli può rimanere per qualche mese trovando cibo, un ottimo rifugio e motivazioni valide a stimolare gli accoppiamenti dando ori- gine in tal modo a rapidi incrementi della popolazione. Anche il Topolino domestico vive in gruppi familiari, all’interno dei quali viene stabilita una certa gerarchia fra i maschi; questa dominanza serve soprattutto nel mantenere i territori acquisiti. Anche in questo caso gli individui subordinati tendono ad ali- mentarsi nei momenti in cui sono inattivi i maschi dominanti. L’urina di questi animali abbondantemente sparsa all’interno del territorio frequentato, dagli stessi produce il tipico “odore di topo” che immancabilmente determina la loro pre- senza in quell’ambiente e ciò sembra TOPOLINO giocare un ruolo determinante nella vita sociale del gruppo. Un’altra curiosi- tà di questo animale è rappresentata dal fatto che ogni notte è solito percorre- re il suo territorio, esaminando con cura ogni eventuale cambiamento o ogni nuovo oggetto che possa esservi stato introdotto di recente. La femmina è più grande e robusta del maschio. Come il Ratto, viene allevato come cavia per la ricerca scientifica; la sua coda ha la medesima lunghezza del suo corpo, costruisce il suo nido molto simile a quello degli uccelli, usando sovente anche gli stessi materiali. Ha un comportamento sociale e una gestazione di circa 21 giorni e può partorire da 4 a 9 piccoli. La fiaba “ I Topi e le Donnole” Topi e Donnole erano in guerra fra loro, e i Topi non facevano che perdere. Allora i Topi decisero di riunirsi in assemblea e discussero sul fatto che forse 151 queste sconfitte avvenivano perché non avevano dei capi. Scelsero allora alcuni di loro e li nominarono capitani. Questi, una volta accettato l’incarico, volendo distinguersi dagli altri, si fece- ro costruire delle corna e se le fissarono sulla testa. Iniziò una nuova batta- glia e l’esercito dei Topi, nonostante che a comandarli ci fossero questi comandanti, ebbe ancora una volta la peggio. Ma mentre i topi semplici soldati in fuga, si poterono infilare nelle loro tane e riuscirono a salvarsi, i capitani, non vi poterono entrare perché impediti dalle loro grandi corna, che portavano sulla testa e vennero così presi e divo- rati dalle Donnole. (Esopo) IL PIPISTRELLO O NOTTOLA La sua caratteristica principale è quella che, pur essendo un mammifero, rie- sce a volare. Non è dotato di ali vere e proprie bensì di “patagi”, ovvero di sottilissime membrane tese tra gli arti inferiori e anteriori che hanno comun- que, per il Pipistrello (Nottol), la medesima funzione di un’ala per un uccello. A differenza di quest’ultima che riesce a portare molto in alto un uccello, il patagio del Pipistrello gli consente un volo a bassa quota, o comunque non più alto di una ventina di metri dal suolo. Gli arti PIPISTRELLO posteriori, sono molto più sviluppati rispetto a quelli anteriori e le dita sono munite di forti unghioni, che permettono ai Pipistrelli di appendersi ai rami degli alberi, a delle fenditure o a pareti di roccia con la testa all’ingiù durante il riposo. Il Pipistrello in riposo avvolge il patagio attorno al corpo, come se fosse un mantello. Conduce una intensa vita notturna alla continua ricerca di 152 cibo che trova intorno ai lampioni, che con la loro luce attirano nugoli di Pappataci e Ditteri. Quello che colpisce maggiormente è il suo volo fatto di guizzi improvvisi, brevi picchiate, continue e rapidissime deviazioni. La spiegazione di tutto ciò sta nelle orecchie dotate di ampi padiglioni auricolari che funzionano come un diapason. Il Pipistrello emette dei suoni che colpiscono degli oggetti e da questi vengo- no riflessi in forma di eco e captati dalle sue strutture auricolari. Il tempo di ritorno dell’eco determina la distanza dell’oggetto colpito. Si consideri che il Pipistrello emette un numero ragguardevole di impulsi, anche 14/15 al secon- do, ognuno dei quali della durata di 5 millesecondi. Emettendo questi ultrasuoni, i Pipistrelli contraggono un particolare muscolo che impedisce loro di percepire suoni a bassa e media frequenza, facilitando pertanto la percezione dell’eco proveniente dagli oggetti o dagli insetti volan- ti. Questi impulsi consistono in onde ad altissima frequenza non udibili da parte dell’orecchio umano e possono essere emessi sia dalla bocca che dalle narici. La frequenza del suo battito cardiaco raggiunge in momenti di grande stress, 1200 pulsazioni al minuto. Può succedere che un grande spavento, come quello procurato da un forte tuono, ne provochi la morte. Raramente può fare la sua comparsa anche di giorno volando a bassa quota alla ricerca di insetti che sono il suo alimento base. Difficilmente esce dal suo rifugio quando piove. Una credenza popolare ancora molto attuale, vuole che il Pipistrello possa annidarsi fra i capelli delle donne, soprattutto se questi sono lunghi e ricci, e non se ne voglia più andare, tanto che la malcapitata oltre alla grande paura dovrà ricorrere alle forbici e perdere così la sua fluente chioma. Non si è mai assistito ad un fatto del genere, tuttavia la credenza è ben lungi dal venire meno. In realtà, la donna o l’uomo rappresentano per lui un ostacolo che gra- zie alla sua ecolocazione (il diapason) evita con certezza assoluta. 153 Ha un comportamento sociale e una gestazione di circa 70 giorni e può par- torire da 1 a 3 piccoli. La fiaba “Il Pipistrello, il rovo e il Gabbiano” Un Pipistrello, un rovo e un Gabbiano fecero società e decisero di darsi al commercio. Il Pipistrello si fece prestare del denaro e lo mise in comune; il rovo prese con sé delle stoffe; il Gabbiano, ci mise del rame, e tutti e tre si imbarcarono sulla nave per iniziare la loro attività commerciale. Durante la navigazione si scatenò una violenta tempesta, e la nave colò a picco. I tre riu- scirono a mettersi in salvo ma perdettero tutto il loro carico. Da allora il Gabbiano è sempre in agguato sugli scogli, per vedere se il mare da una parte o dall’altra gli restituisce il suo rame; il Pipistrello, per paura dei suoi cre- ditori di giorno non si fa vedere ed esce solo di notte per cercarsi da mangia- re; il rovo, poi, si aggrappa ai vestiti dei passanti, per vedere se riconosce le sue stoffe. (Esopo) IL MAIALE E’, tra gli animali domestici, uno dei più preziosi. Per secoli ha rappresenta- to la ricchezza di milioni di famiglie; del Maiale si dice infatti che “non si butta via niente”. L’addomesticamento del Maiale, che discende sicuramente dal Cinghiale, risale a circa 6.000 anni fa e furono ancora una volta i Cinesi che compresero per primi l’importanza alimentare di questo animale. Dalla Cina si sarebbe poi diffuso verso i paesi occidentali. Greci, Romani ed Egiziani lo hanno raffigurato in opere e riproduzioni artistiche apprezzando- lo per le sue carni molto tenere e saporite. Solo gli Ebrei e i Mussulmani, per loro motivi religiosi, ripudiano il Maiale ritenendolo un animale immondo. La pelle molto spessa e robusta viene chiamata “cotenna” ed è nella maggior parte delle razze ricoperta da setole più o meno dure. Sotto la cotenna, si trova 154 uno strato di grasso che può arrivare anche a 8 cm chiamato “lardo”, molto apprezzato e considerato il “prosciutto bianco”. Curioso è il muso denomina- to “grugno” molto mobile e ricco di muscoli, con il quale i Maiali “grufola- no” nel terreno alla ricerca continua di cibo, dissotterrando radici, tuberi, ma raccogliendo anche ghiande, castagne e frutta varia. Il Maiale non disdegna di nutrirsi neppure di qualche piccolo animale come Topi, Vermi e Chiocciole. Mangia infatti di tutto grazie anche alla sua particolare e robusta dentatura formata da 44 denti. I piccoli quando nascono (anche 12-13 per volta) pesa- no circa 1 kg, ma in 18 mesi arrivano facilmente a pesare più di 2 quintali. La sua carne si può mangiare sia fresca che conservata. In questo caso sono molto apprezzati i prosciutti, le mortadelle, le salsicce, gli zamponi e i salumi in genere. Anche il grasso viene utilizzato; per liquefarlo, viene fatto bollire a lungo, ottenendo in tal modo lo “strutto” che viene poi usato per friggere diverse pietanze e in particolar modo il pesce. Un tempo, per conservare a lungo lo strutto senza che potesse irrancidire (quando non c’erano i frigoriferi), dopo la bollitu- ra e prima che si raffreddasse, e quindi che si rapprendesse, veniva introdotto nella vescica dello stesso animale ucciso, che veniva preventivamente allargata a dismisura soffiandoci dentro e fatta MAIALE essiccare. Dalla “sugna”, che è il grasso del ventre, si ottiene una sostanza grassa, bianca e inodore che è impiegata per la preparazione di creme e poma- te. Neppure il sangue andava disperso; la morte del Maiale era piuttosto cruenta e per sgozzarlo veniva messo con il collo ad un livello più basso del resto del corpo, in modo che il sangue fuoriuscisse il più velocemente possi- bile così da lasciare le carni bianche; il sangue quindi veniva raccolto in una pentola. Una parte veniva lasciata raffreddare e conservata per mangiarla uni155 tamente al fegato stufandola con pomodoro burro e cipolla, era questo un tipi- co e appetitoso piatto da consumarsi la sera stessa della macellazione con la polenta. L’altra metà del sangue invece, mentre ancora usciva dalla ferita della povera bestia, veniva mescolata in continuazione con un apposito mestolo di canna di bambù fatto a “croce”, perché non si rapprendesse e anco- ra calda veniva unita a zucchero, uvetta passa, pinoli, noci, fichi secchi, a seconda, delle abitudini della famiglia e successivamente prima che si raffred- dasse del tutto, insaccata come se fosse un salame. Conservato in un luogo fresco, diventava un dolce prelibato (nel trevigiano è riconosciuto con il nome di “baldon”), che la famiglia si divedeva a piccole fette tutte uguali (a ogni un a so parte), che toccavano ad ogni membro della famiglia. Del Maiale tutto veniva utilizzato: con le setole si fabbricavano (e si fabbricano ancora oggi) spazzole e pennelli, mentre le unghie servivano per ottenere dei fertilizzanti. Non si buttava via nemmeno la mandibola inferiore; essa veniva raschiata a dovere e posta sul fondo del mastello in prossimità del foro di uscita della “lisciva”. La mandibola grazie alla sua particolare conformazione teneva sol- levati i panni messi a lavare consentendo al tempo stesso la fuoriuscita del “detersivo”. Ha una gestazione di circa 125 giorni e può partorire da 6 a 12 piccoli. IL CAVALLO Anche oggi che il motore occupa una parte dominante nella vita dell’uomo, il Cavallo, intelligente generoso e nobile animale, continua ad essere un com- pagno di vita per l’Uomo nel suo lungo cammino in questa vita terrena. In Asia e successivamente in Europa, esso compare fin dalla più remota preisto- ria; in una grotta della Dordogna, in un dipinto che risale a 50.000 anni fa, appare un Cavallo al galoppo. Ma la storia “moderna” del Cavallo inizia con le civiltà degli Arii in India, per proseguire in Cina e in Giappone; mentre in 156 Europa bisogna attendere quelle degli Ittiti e degli Assiri per vederlo protagonista in ogni fatto storico accanto all’Uomo. Greci e Romani lo adoperavano per le loro guerre, per i lavori dei campi, per i trasporti, nonchè per le loro corse dei cocchi e per l’equitazione. Avevano per questo animale una passione tale che CAVALLO rasentava il fanatismo. Caligola, l’imperatore pazzo, arrivò a nominare il suo Cavallo “Incitatus” Senatore, e a fargli costruire una scuderia in marmo pre- giato con ricche rifiniture e accessori in argento. Dalle tribune del Colosseo, capace di oltre duecentomila spettatori, si udivano a distanze chilometriche le grida dei sostenitori che incitavano i Cavalli nelle corse delle quadriglie. Con la fine dell’impero Romano una delle cose che sopravvisse a tanto sface- lo, fu proprio l’arte equestre che si venne sempre più affermando come privilegio della nobiltà. Quando nel 1519 il piccolo drappello di soldati spagnoli capitanato da Cortez si inoltrò fra le gole e i deserti del Messico, suscitò stra- ordinarie manifestazioni di rispetto e deferenza fra i sudditi di Montezuma. Gli Aztechi non avevano mai visto un Cavallo e credevano che gli uomini fossero, tutt’uno con l’animale come dei giganteschi centauri, tanto da venerarli ritenendoli i compagni del loro Dio, Signore del tuono e della folgore, dal torso d’Uomo e dal corpo belluino. Oggi con il Cavallo non si va più alla conquista di nuove terre, come non viene più adoperato nell’aratura della terra o nel traino di pesanti carri carichi di merci; oggi viene per lo più impegnato nelle corse ippiche, in battute di caccia, nei circhi, nel gioco del polo, ma ancora di più è diventato un anima- le di affezione con il quale compiere lunghe passeggiate in luoghi dove diffi- cilmente l’uomo potrebbe arrivare da solo. Frutto del lavoro di selezione dell’uomo, esistono decine di razze equine spes157 so assai diverse fra di loro e adatte ai più svariati compiti; ne vanno ricordate due su tutte, lo Schire, un mastodontico Cavallo da tiro dalle zampe larghe e pelose e pesante fino a dieci quintali e il Purosangue, frutto di incroci fra Cavalli arabi ed inglesi, un magnifico campione di velocità e resistenza diven- tato il dominatore degli ippodromi. L’Uomo, nei secoli, ha pure scoperto la interfecondità fra il Cavallo e l’Asino ottenendo dal maschio Cavallo e dalla femmina Asina il Bardotto, scarsamen- te impegnato perché non presenta evidenti vantaggi; mentre dall’accoppia- mento inverso si è ottenuto il Mulo, che riunisce in sé le migliori caratteristiche dei parentali: dell’Asino, anche se più alto e pesante, conserva le doti di pazienza e di resistenza; della Cavalla la celerità e una indocilità proverbiale che lo ha reso famoso. Entrambi questi ibridi sono negati alla riproduzione e il Mulo nella maggior parte dei casi, è muto. Ha una gestazione di circa 360 giorni e partorisce di norma 1 piccolo. IL CANE Tante sono le storie vissute dal cane che raccontano la sua grande dedizione nei confronti non solo dell’Uomo, ma molto spesso anche delle sue cose. Omero racconta in uno dei più toccanti episodi dell’Odissea, la consacrazio- ne della fedeltà canina, di quell’amicizia che non conosce oblio o tradimento. Il vecchio Argo se ne stava sdraiato al sole sopra un mucchio di rifiuti con gli occhi semichiusi. Nella sua casa, che era stata di Ulisse, nessuno da tempo si curava più di lui, e nessuno sperava più di vedere ritornare l’eroe della guerra di Troia. Il pove- ro Cane, stanco, vecchio e malandato si era disteso come al solito nel suo angolo, forse “sognando” l’amato padrone. Ma ecco che una voce riconosciuta lo scuote dal suo torpore, un uomo curvo su se stesso, lacero e sporco appare sotto il porticato e lo chiama per nome. Argo non ha dubbi: l’odore, i gesti, ma soprattutto la voce dello straccione, 158 fanno alzare sia pure a fatica il vecchio Cane che si trascina fino ai piedi del nuovo venuto fissandolo con tutto l’amore di cui è capace, dimenando debol- mente la coda. È proprio lui. È Ulisse che ritorna dopo vent’anni di lontananza, irriconosci- bile per tutti, anche per sua moglie e per suo figlio, ma non per il suo Cane. E mentre Ulisse commosso si china per accarezzarlo, il vecchio Argo, muore pago di gioia per aver rivisto il suo padrone per un’ultima volta e di saperlo ancora a casa. Tremila anni fa come oggi, l’uomo ha sempre trovato nel Cane un amico fedele, disposto a servirlo in ogni momento e spesso anche al costo del sacrificio della propria vita. Ma quando ha avuto inizio questa straordinaria amicizia tra l’Uomo e il Cane? Nessuno lo può dire con certezza, ma sicuramente in epoca lontana, e si ritiene che sia stato proprio il Cane circa 12.000 anni or sono, ad iniziare con l’Uomo quel processo di addomesticazione che è poi continuato con tanti altri animali. Reperti fossili indicano con certezza che, già 9.000 anni or sono, l’Uomo iniziò a ope- rare le prime selezioni, anche se furono i Romani ad accentuare l’impegno tanto CANE da definire forme e taglie presenti ancora oggi nelle razze moderne. E sempre i Romani iniziarono ad impiegare i Cani sia per la caccia, sia per la guardia di altri animali che per la compagnia. Oggi si ha ragione di ritenere che tutte le razze di Cane, indipendentemente dalla diversa forma e taglia, discendano dal Lupo grigio. Un processo di selezione sviluppatosi in oltre 4.400 generazioni, per passare dal progenitore citato, per esempio, al piccolo Cane da “grembo” il Chiuauha. Questo lungo lavoro ha portato alla creazio- ne di animali assai diversi fra di loro sia per la diversa struttura fisica, sia per attitudini, ma tutti dotati di quelle particolari doti di fedeltà, di prontezza, e 159 spesso di sacrificio, che hanno fatto preferire il Cane sopra ad ogni altro ani- male. Si ha ragione di ritenere che il primo impegno selettivo, da parte dell’Uomo, sia stato effettuato per ottenere dei buoni Cani da pastore ai quali affidare i greggi. Tipici, in questo caso sono il Pastore Maremmano e quello Bergamasco; soggetti molto forti e aggressivi, atti a rincorrere le pecore sbrancate e a dividere nel gregge i maschi che litigano, anche se il più noto è il Cane da pastore Tedesco apprezzato per la sua straordinaria intelligenza, per la sua forza e per la sua agilità. Questa razza è oggi particolarmente apprezzata come Cane poliziotto, come guida per i ciechi e come Cane da guerra. Molti lo chiamano “Cane Lupo” considerata la rassomiglianza con il suo feroce antenato. Ma le razze canine sono numerosissime, più di quanto ne possiamo elencare, come numerosi sono i compiti per cui sono state selezionate. Dopo i Cani da pastore, possia- mo citare i Cani particolarmente selezionati per la guardia, e, fra di essi, il Molosso, il gigantesco Alano, il Boxer, il Mastino. Tutti dotati di una musco- latura straordinaria e di mascelle robustissime in grado di incutere timore a qualsiasi male intenzionato. Vanno ricordati poi i Cani da utilità: a tutti sono note le imprese di tanti sal- vataggi compiuti in montagna dal Gran San Bernardo, che viene considerato il gigante del mondo canino. Così come va ricordata l’abilità del nuoto dei grossi Terranova, anch’essi spesso impiegati nei salvataggi in acqua. Nel “profondo nord” sono stati selezionati per il traino delle slitte dei Cani che riescono a percorrere decine di chilometri ad una temperatura di 40° sotto zero come i Samoiedo, l’Alaskan Malamute, il Groelandese, il Siberian Huski. Questi animali, sono stati, prima dell’avvento della meccanizzazione, vera- mente insostituibili sia per il trasporto delle merci che dell’Uomo stesso, in ambienti e in condizioni metereologiche particolarmente difficili. Tantissime sono poi le razze dei Cani da caccia selezionate ognuna per un tipo di questa attività, e in questo caso, non va dimenticato come la caccia per secoli sia stata essenziale per la sopravvivenza dell’Uomo e allora vanno ricordati: i 160 Setter, il Labrador, il Pointer, il Bracco, lo Spinone, il Bassotto, i Levrieri, i Segugi. Infine vanno ricordati i Cani da compagnia (pur se tutte le razze, a prescindere dalle loro particolari mansioni per le quali sono stati selezionati, sono comunque ottimi compagni del proprio padrone nella vita di tutti i gior- ni), il Chiuauha, gli Spitz, i Barboni, il Pechinese, il Maltese, tanto per citar- ne alcuni, che svolgono un ruolo importante nella vita di persone sole, anzia- ni e handicappati. Oggi come gli Uccelli e i Gatti, anche i Cani, soprattutto quelli da compagnia, sono considerati molto utili nella pet terapy. Ha una gestazione di circa 62 giorni e può partorire da 4 a 10 piccoli. La fiaba “Il Cane, il Gallo e la Volpe” Un Cane e un Gallo erano diventati amici e decisero di fare un viaggio insie- me. Giunta sera si fermarono per dormire. Il gallo salì sopra un albero e il cane si accomodò sotto il medesimo dove c’era una piccola buca. All’alba il Gallo, secondo le sue abitudini, incominciò a cantare. Da lontano, una Volpe lo udì; si avvicinò all’albero sopra il quale stava il Gallo e lo pregò di scen- dere in quanto voleva abbracciare un animale dotato di una voce così bella. Il Gallo rispose di svegliare il suo portinaio che stava dormendo ai piedi dell’albero, affinchè gli aprisse l’uscio, dopo di chè sarebbe sceso. Ma mentre la povera Volpe stava per rivolgersi al portinaio, questi le balzò addosso e la sbranò. (Esopo) IL GATTO “Nella giungla il viandante teme la Tigre, la Tigre teme l’Elefante del rajah; ma il Gatto selvatico appollaiato su un albero guarda passare il viandante, la Tigre e l’Elefante del rajah.” Così racconta un vecchio detto indiano. Ma il Gatto, anche quando scende dall’albero, è sempre il medesimo osservatore, attento e indifferente di quanto succede intorno a lui. 161 Il Gatto è considerato il principe della casa, così vicino, e così distante, così familiare, e così misterioso, egli ha da sempre affascinato l’Uomo per questo suo comportamento, per questa sua imprevedibilità, che lo rendono al tempo stesso “coccolone” e sfuggente, “ruffiano” e ladro, tanto da rappresentare per l’Uomo uno degli animali dai quali è maggiormente conquistato. Del resto dal Gatto è stato impressionato, e lo ricorda con la sua celeberrima frase, lo stes- so Leonardo da Vinci “il più piccolo dei piccoli felini è già lui stesso un vero capolavoro”. Anche pur essendo rimasti a lungo distanti, la coabitazione dell’Uomo con il Gatto, risale alla notte dei tempi. La qualità di cacciatore di questo piccolo felino, anche se addomesticato, ne ha fatto nei secoli un pro- tettore naturale di granai e di cucine, tanto è risaputa la sua attitudine alla cac- cia di roditori nocivi come Topi e Ratti. Tuttavia la sua indipendenza, a volte vicina all’irriverenza, e le pratiche alle quali fu associato nel Medioevo, offuscarono a lungo la sua immagine. E’ solo più tardi, nel 1800, che il Gatto ritor- nerà di moda, comparendo soprattutto nei cosiddetti saloni letterari, sul grembo delle dame o accucciato accanto ai piedi dei signori di allora. Diversi arti- sti, in quel periodo, lo ritraggono nei loro dipinti quale simbolo ormai della sua addomesticazione acquisita. Ma proprio la sua addomesticazione, rimane molto misteriosa e non è ancora stata stabilita con certezza la data in cui è iniziata. In Egitto compaiono comunque le prime tracce risalenti al 4.000 a.C., quando sembra che questa civiltà lo avesse già addomesticato trasformando- lo da abile cacciatore a importante predatore di Ratti e Topi, veri flagelli dei raccolti. La civiltà egizia del resto gli riconobbe un posto fra gli dèi e si assi- stette così, sotto la XXII dinastia alla comparsa di Bastet, la dèa raffigurata con la testa di Gatta, simbolo della femminilità, della sensualità, della musi- ca, della danza e della maternità. Molto più tardi, nel XIX secolo, furono rinvenute numerose mummie conservate perfettamente in sarcofaghi di legno intagliati con la figura del piccolo felino. Fra gli egizi la sacralità del Gatto era così forte che un re persiano vinse addirittura una guerra con uno stratagemma: fece legare sugli scudi dei suoi soldati dei Gatti, convinto a ragione, 162 che gli Egizi non avrebbero mai contrattaccato per timore di colpire gli ani- mali. Alcuni Gatti, gelosamente allevati dagli Egizi, furono rubati dai Greci in occasione di scambi culturali e commerciali, e in seguito introdotti in Europa e conseguentemente a Roma. I Romani, secondo quanto afferma Plinio il Vecchio, hanno imparato successivamente ad apprezzare il Gatto non solo per le sue qualità di cacciatore, ma anche per la sua bellezza e per il suo spirito indipendente tanto da essere conside- rato il simbolo della libertà. Anche gli Arabi, consideravano il Gatto come un’anima pura, contrariamente all’imma- gine che avevano del Cane. Essi, già prima dell’avvento dell’Islam, adorava- no il Gatto d’oro, e persino Maometto dimostrò di avere rispetto e riguardo per questo animale. Una leggenda narra GATTO come il profeta per non svegliare la sua Gatta preferita che stava dormendo- gli tra le braccia, fece tagliare le maniche del vestito che indossava, e, succes- sivamente, di averle concesso, il privilegio di cadere da qualsiasi altezza, sempre sulle zampe senza procurarsi danni e di avere sette vite. In Europa, con l’avvento del Cristianesimo, il mito del Gatto iniziò a declinare ad ecce- zione dell’epoca delle crociate, durante le quali si ebbe una temibile diffusione di Ratti, per cui si dovette nuovamente ed interessantemente ricorrere al suo ausilio. La Chiesa per sradicare il mito del Gatto e i culti pagani ad esso legati, gli attribuì strani poteri malefici, e a centinaia di migliaia questi animali furono uccisi, crocifissi, e buttati nel fuoco purificatore perché considerati complici delle streghe e quindi portatori di malefici. L’inquisizione permise violenze incredibili nei confronti di questi animali tanto da rasentare la loro estinzione, così il Gatto divenne il simbolo del male e una emanazione di Satana. Ma nel 1799 fu ancora una volta un’invasione di Ratti che lo riportò 163 in auge e da allora, con l’avvento dell’Illuminismo, vennero meno le super- stizioni e le crudeltà. Si deve infine a Pasteur, nel 1885, la riabilitazione tota- le del Gatto; lo scienziato osservò che mentre tutti gli animali possono essere portatori di malattie attraverso i microbi, viene fatta eccezione per il Gatto, essendo questi amante della pulizia e dell’igiene. Da allora è storia contem- poranea fatta di dipinti, racconti e favole su quello che va considerato uno dei più cari e preziosi amici dell’Uomo. Una delle credenze popolari assai diffuse fino a qualche anno fa (ma che vive in certe zone ancora oggi), voleva che chi si vedesse attraversare la strada da un Gatto nero, dovesse deviare su altre vie, perché, continuando a percorrere quella, avrebbe sicuramente incontrato pericoli e molto spesso la morte. Troppi Gatti neri (visti dall’immaginazione popolare come gli abiti delle streghe) hanno fatto così una brutta fine, vittime dell’ignoranza umana e di una sorte che li ha fatti nascere scuri come la notte, e come il buio dell’umana superstizione. Il 17 febbraio di ogni anno si cele- bra la giornata mondiale del Gatto. Ha una gestazione di circa 60 giorni e può partorire da 3 a 6 piccoli. La fiaba “La Gatta e Afrodite” Una Gatta che si era innamorata di un bel giovane, pregò Afrodite di trasfor- marla in Donna. La dèa, mossa da compassione per questo amore, la trasfor- mò in una bella ragazza. Così, incontrandola, il giovane se ne innamorò e se la portò a casa. Un giorno, mentre i due innamorati se ne stavano sdraiati nel letto nuziale, ad Afrodite venne in mente di controllare se la ragazza pur cambiando corpo, non avesse ancora dentro di sè le attitudini della Gatta. Fece così cadere nel bel mezzo del letto un bel Topo che la ragazza inseguì e divo- rò. Allora la dèa indignata per questo comportamento, la ritrasformò in Gatta. (Esopo) 164 IL BACO DA SETA Confucio narra in un suo libro che un’imperatrice cinese fu divinizzata e ado- rata come “dèa della seta” dal suo popolo riconoscente, perché insegnò loro ad allevare il Baco da seta e a tesserne la sua bava. Ciò avvenne ben 2.600 anni prima di Cristo. La leggenda narra che questa imperatrice, passeggiando per i suoi giardini, notò strani minuscoli animali. Li osservò per diversi gior- ni e si accorse che uno di questi bruchi, si avvolgeva su se stesso, formando un bozzolo, con un filo lucente; aveva scoperto il Baco da seta. Il silenzio avvolse per molti secoli la scoperta gelosamente custodita dalla corte impe- riale e solo nel IV secolo d.C., da principio l’India e poi il Giappone, ne ven- nero a conoscenza grazie ad un curioso stratagemma messo a punto da una principessa cinese andata sposa al re del Turkestan. Non volendo rinunciare ai suoi vestiti di seta, nascose fra i fluenti capelli alcune uova del prezioso bruco, e da allora il Baco da seta sia pur molto lentamente si diffuse in tutto l’oriente e molto più tardi nel resto del mondo. Sotto l’imperatore Augusto nel I secolo d.C., Roma iniziò i propri rapporti con il fastoso Oriente così che profumi, oro, e gioielli entrarono nelle abitazioni dei patrizi e la seta divenne il tessuto preferito dalle nobildonne Romane. I Romani appresero che la seta proveniva dalla Cina, ma non capirono da quali sostanze essa potesse derivare. Pensarono che si trattasse di un prodotto vegetale proveniente da piante non presenti in Europa. Passarono ancora molti secoli e furono due monaci, inviati dell’imperatore Giustiniano, a portare a Bisanzio, nascosti nelle cavità dei loro bastoni di viandanti alcuni boz- zoli del Baco da seta. Fu così che nel giro di qualche decennio anche in Italia si dif- fuse l’allevamento del prezioso bruco. La Cina rimase tuttavia la maggiore pro165 BACO duttrice tanto che l’itinerario percorso dai mercanti fu chiamato per lungo tempo “la via della seta”. La sericoltura si diffuse in tutta Europa grazie agli Italiani e in special modo per merito dei Genovesi che per primi trasferirono il commercio ad Avignone. A Firenze, a tutelare il diritto dei setaioli, esisteva la “corporazione della seta” e furono sempre gli Italiani ad allevare per primi il prezioso bruco sia in Svizzera che in Inghilterra. Il ciclo riproduttivo del Baco da seta inizia quando l’insetto perfetto esce dal bozzolo e depone le uova dette anche “seme da Bachi”. Queste uova un tempo si compravano a once e si ponevano sopra a dei fogli di carta fittamente bucherellati. Qui avveniva la nascita dei piccoli bruchi che incominciavano subito a nutrirsi di foglie di gelso finemente triturate. I Bachi crescevano e questo periodo era denominato “dormita”. Le dor- mite erano quattro. Più i bruchi crescevano e più le foglie venivano triturate grossolanamente, fino a venire “servite” intere. Alla fine della quarta “dormita”, il Baco si svegliava, cominciava a secerne- re un filamento che a contatto con l’aria si induriva rapidamente; a questo punto veniva aiutato a salire sul “bosco” che altro non era se non un intreccio di ramoscelli e sterpaglia messi appositamente dall’uomo. Qui, il Baco inco- minciava ad avvolgere intorno a sé, intrecciandolo a forma di arachide, il fila- mento serico per formare il bozzolo. I bozzoli venivano successivamente inviati alle filande dove delle donne molto esperte li sottoponevano a ebollizione e con le mani nude cercavano nell’acqua bollente i filamenti per poi avviarli a delle bobine rotanti che li riunivano in un unico filo. Alla fine della stagione di lavoro alla filanda, queste povere donne avevano le dita talmente rovinate (ridotte “in carne viva”) che abbisognavano di un anno intero prima di ricostruire la pelle, ma non facevano nemmeno in tempo a guarire che già incominciava la nuova stagione e con essa la nuova “tortura”. Per molti decenni, l’allevamento del Baco da seta ha fatto parte integrante di tanti magri bilanci familiari aiutando i poveri contadini a vivere un po’ meno faticosa- mente. Questa attività comportava però un notevole impegno sia in fatto di 166 lavoro (bisognava alzarsi nel cuore della notte per alimentare i bruchi) che economico, in quanto gli ambienti dove venivano allevati i Bachi dovevano essere riscaldati; così, negli anni l’interesse è sempre venuto meno fino a scomparire del tutto. Cosa che invece continua a essere importante nei luoghi d’origine e nei paesi dell’Europa dell’est. LE FARFALLE Alle Farfalle la natura ha fornito il massimo della prodigalità in fatto di bel- lezza ed armonia di colori. La diversità e varietà delle tinte, le iridescenze, i riflessi metallici, la leggiadria del volo, fanno si che questi insetti sembrino creati per rappresentare la bellezza del regno animale. Nell’osservare la loro esistenza si rimane stupiti da tanta armonia. Le femmine muoiono subito dopo aver deposto le loro uova, la vita delle Farfalle è quindi relativamente breve e va da qualche giorno a due mesi. Dall’uovo deposto all’insetto perfetto passa circa un anno e precisamente da una primavera all’altra. Il periodo larvale, a seconda della specie, ha una durata varia, da FARFALLE poche settimane a parecchi mesi. In alcune specie la farfalla si “schiude” in meno di un mese, in altre lo stadio ninfale si prolunga per tutto l’inverno. Le Farfalle depongono uova piccolissime dalle quali nasce un bruco che cresce rapidamente, mutando quattro o cinque volte la propria pelle prima di diven- tare adulto. Nel frattempo si sarà nutrito di fiori, frutta e foglie, ma al raggiun- gimento del suo completo sviluppo non si nutrirà più e andrà a cercarsi un luogo adatto dove poter trasformarsi in ninfa. Per fare questo la larva si avvolge in un involucro tessuto con i fili che emette dalla bocca e si rinchiude nella 167 sua crisalide. Mentre la ninfa sta rinchiusa nella sua crisalide avviene l’ultima trasformazio- ne e dopo un tempo, più o meno lungo, uscirà da questo involucro la Farfalla vera propria, ovverosia l’”insetto perfetto”. La parte più interessante di questi insetti sono le ali, ricoperte su entrambe le facce da minuscole squame variamente colorate e facilmente distaccabili: sarà sufficiente prenderle in mano e ci accorgeremo che un pulviscolo variopinto rimarrà attaccato alle nostre dita. La Farfalla più grande è la varietà Pavonia, la sua apertura alare raggiunge i 15 cm e vive sugli alberi da frutta. La Testa di Morto è così chia- mata per il disegno che ha sul torace assomigliante ad un teschio. Se viene molestata, emette un suono stridulo dovuto allo sfregamento del suo organo succhiatore. La Vanessa Pavone ha delle ali magnifiche che ricordano lo splendore delle penne del pavone ed è fra le più comuni. La Cavolaia è indub- biamente la più conosciuta e vive negli orti e nei giardini. Ha le ali di colore bianco o giallo con delle macchiette nere. IL MAGGIOLINO Alla fine di aprile e per tutto maggio, ma anche oltre, andando per la campa- gna si possono osservare dei grossi insetti dal volo pesante e rumoroso, vola- re bassi tra le erbe e posarsi sulle fronde degli alberi, sono i Maggiolini. Si possono prendere in mano senza paura e senza ribrezzo perché sono innocui e dall’aspetto gradevole. Questi coleotteri assai diffusi si possono trovare a nugoli tra il fogliame delle più comuni piante da frutto, intenti a divorare il tessuto delle loro foglie. I danni provocati dal Maggiolino adulto sono incalcolabili, ma ancora mag- giori sono quelli provocati dalla sua larva. In maggio la femmina, prima di concludere la sua breve vita, scava una corta galleria nel terreno tenero e lavo- rato e in fondo ad essa depone diversi mucchietti di uova. Dopo un’incubazione di una quindicina di giorni nascono le piccole larve che già 168 incominciano a divorare bulbi, radici, tuberi che trovano intorno alla galleria. All’inizio della cattiva stagione queste larve sprofondano nel terreno e rimangono a riposo fino all’inizio della primavera quando rincominciano nella loro opera distruttrice che continua per tutta l’estate e l’autunno fino a quando arriva il momento di nascondersi nuovamente in profondità in attesa ancora una volta della buona stagione. Durante la stagione successiva, la larva raggiunge il massimo delle sue dimensioni: si tratta di un bruco piuttosto tozzo lungo fino a 5 cm. In questa terza estate della sua vita la larva produce, viste le dimensioni raggiunte e la conseguente voracità, i maggiori danni alle coltivazioni. Raggiunto l’autunno, la larva si scaverà una galleria profonda anche 60-70 cm al termine della quale formerà una celletta tondeggiante, che sarà tappezzata con una sostanza cementante. In questa celletta si trasformerà in ninfa. Durante la stagione inver- nale nuova metamorfosi: da ninfa, si trasformerà in insetto perfetto che però rimarrà nel suo sito in attesa della prima- vera. Il ciclo evolutivo è durato 3 anni, ma nei paesi più freddi può arrivare anche a 5. L’insetto perfetto per contro vivrà invece solamente un mese, nel MAGGIOLINO corso del quale però arrecherà notevoli danni. Fino a una quarantina di anni fa, il Maggiolino era oggetto di un gioco “stupido” da parte dei ragazzi che lo catturavano facilmente. Si legava un sottile filo di cotone ad una zampetta e poi lo si faceva roteare per tutta la lunghezza del filo medesimo. Iniziava così una gara fra ragazzi per contendersi le figurine degli animali o dei calciatori, vinceva il proprietario del Maggiolino che volava più a lungo. Ma i ragazzi avevano anche un altro compito, comandato in questo caso dagli adulti: ogni giorno sul calar della sera, muniti di lunghe pertiche, percuotevano le fronde 169 degli alberi dalle quali cadevano a terra grandi quantità di Maggiolini; questi, venivano messi dentro a dei sacchi e successivamente immersi nell’acqua di un canale per farli morire annegati. Successivamente venivano disposti sul selciato davanti a casa dove si facevano essiccare al sole per poi frantumarli calpestandoli con i piedi. Questo “sfa- rinato” era successivamente impiegato come concime per gli orti, ma molto più spesso ed in maggiore quantità, costituiva un ottimo mangime (forse il primo), che veniva dato in pasto ai maiali mescolato al siero del latte. Durante l’aratura in profondità della terra vengono riportate in superficie grandi quan- tità di larve di Maggiolino; un tempo i contadini prima di iniziare il lavoro liberavano nei campi i Polli che, molto ghiotti di queste larve, le divoravano tutte. Oggi a sostituire i Polli ci sono i Gabbiani che da grandi opportunisti, hanno scoperto il prelibato e gratuito banchetto e ne approfittano con grande sollievo da parte dell’Uomo. 170 “La sopravvivenza della fauna selvatica è un problema di vitale importanza per tutti noi in Africa.” Julius Njerere LE API Lotte spietate e imprese eroiche, in cui si alternano avventure drammatiche e misteriose, rappresentano la complessa vita e la storia delle Api. Immaginiamo la cavità di un grosso albero, nella quale uno sciame d’Api abbia fissato la propria dimora, cerchiamo allora di immaginare questa cavità come una città popolata da cinquantamila abitanti, dove la vita deve scorrere organiz- zata, disciplinata da regole e leggi e dove ogni cittadino ha un compito ben pre- ciso. E allora cerchiamo di darci un’idea dell’architettura di questa città e di quel- lo che potremmo definire la sua viabilità e le funzioni dei suoi abitanti. Le stret- tissime “stradine” ampie 3 millimetri sono fiancheggiate da tantissime casette (le cellette) a forma esagonale perfettamente equidistanti una dall’altra. Non tutte queste casette però sono uguali: il popolo infatti, abita in quelle più piccole, i fuchi (i cavalieri) abitano quelle di media grandezza, mentre in quelle più gran- di vivono le principesse, una delle quali diventerà l’Ape regina. In questo gran- de agglomerato “urbano” vi sono pure dei grandi depositi. All’interno della città (alveare), l’aria che si respira è “condizionata” per ottenere ciò, appostate all’ingresso una dopo l’altra ci sono delle Api operaie addette alla ventilazione: esse fanno vibrare le loro ali così rapidamente che le stesse diventano invisibili. Molto accurato è il servizio di nettezza urbana e in questo caso le Api addette sono migliaia perché tutto deve essere spazzolato in continuazione con le loro zampette pelose affinché mai nessun rifiuto rimanga disperso. Le Api primeggia- no in fatto di organizzazione anche nei trasporti: le scorte di propoli, di miele e di resina, sono assicurate alla comunità, non solo per i bisogni di ogni giorno, ma ancora di più per le riserve che vengono con grande previdenza immagazzinate. Dunque si capisce come in questa società basata sul lavoro la rappresentanza più numerosa sia quella del popolo cioè dalle Api operaie. In questo mondo tutte le femmine sono destinate a rimanere nubili e quindi a lavorare per tutta la loro vita. In un alveare come quello descritto comprensivo di 50 mila Api, circa 45 mila saranno operaie, i fuchi, che condurranno una vita agiata e oziosa, saranno qual173 che centinaio, le rimanenti saranno le prin- cipesse, una sola delle quali sarà eletta Regina. Le operaie, quando nascono, sono provviste dei loro attrezzi da lavoro. Le mandibole e la lingua hanno le funzioni di sega, di uncino, di spatola, di tenaglia e di API succhiello; hanno tre paia di zampe prov- viste di arpioni per rimanere appese, di spazzola e di ceste che servono per il tra- sporto delle provviste. Nella parte posteriore del corpo le Api posseggono i pun- giglioni. Tutto il lavoro delle Api operaie è rivolto alla regina che dopo le “nozze” deporrà un numero incredibile di uova (anche 2.500 al giorno) fecondate dal fuco prescelto e dalle quali nasceranno nuove operaie, nuovi fuchi e nuove principesse. La regina deporrà un uovo in ogni celletta e subito, le operaie lo copriranno di polline e miele in modo che quando la larva nascerà troverà subi- to di che alimentarsi. Dopo soli 3 giorni nasceranno le larve che a 6 saranno talmente sviluppate da occupare tutta la celletta. Allora smetteranno di alimentarsi e inizieranno a filare un piccolo bozzolo. Questo lavoro durerà alcuni giorni e quindi la metamorfosi si compirà; dal bozzolo uscirà una larva di Ape operaia che in una ventina di giorni diventerà insetto perfetto, ben 26 giorni impiegheranno invece i fuchi, mentre le principesse ne impiegheranno solamente 12. Ma queste non potranno uscire subito dalla celletta, saranno infatti trattenute prigioniere dalle nutrici ancora per 7 giorni. Operaie e fuchi, nasceranno senza fare nessun rumore, diversamente le principesse emetteranno un caratteristico rumo- re riassunto in un “cuac-cuac” che purtroppo per loro sarà letale e al quale la regi- na risponderà con un sibilo inquietante. Questo “dialogo fra le principesse e la regina, secondo, gli esperti esprime sospetto e timore ed è noto come “il canto delle regine”. Infatti in questo mondo così organizzato e operoso avvengono delle vere e proprie tragedie, una di queste è rappresentata appunto dal massacro delle principesse. La prima che uscirà dalla sua celletta sarà la nuova Ape regi174 na, allora la vecchia madre abbandonerà, seguita da una parte numerosa della popolazione tra cui molte Api edili, la sua città per costruirsene una nuova. La nuova Ape regina dopo l’insediamento, si nutrirà notevolmente di miele e quindi inizierà a percorrere le strade che dividono le cellette soffermandosi allorché udirà il “cuac-cuac “ di una principessa che si appresta ad uscire. La primogeni- ta già Regina, si avvicinerà aprirà i sigilli della celletta e strapperà la testa della sorella ancora viva e ripeterà il fratricidio ad ogni cripta regale, fino a che avrà sterminato tutte le principesse e rimarrà da sola. Quando arriverà il giorno delle nozze accadrà ancora qualche cosa di sorprendente e di tragico. L’Ape regina ini- zierà la sua danza nuziale lanciandosi verso l’alto e sarà imitata da tutti i fuchi che la seguiranno in cielo, molti periranno, uno solo sarà il prescelto, e quei pochi che ritorneranno, ritenuti ormai solo un peso per la comunità che non vorrà più mantenerli, verranno uccisi dalle Api operaie. All’inizio della primavera un’Ape prescelta dopo il riposo invernale uscirà dall’alveare per prima, ed ispe- zionerà con un lungo volo il terreno circostante finche non troverà il primo pol- line dei fiori, loro essenza naturale. Dopo aver riempito le cestelle delle zampet- te posteriori l’Ape, mandata in avanscoperta, ritornerà alla sua arnia, dove scaricherà il polline raccolto nel magazzino e subito, inebriata di felicità, inizierà una danza indiavolata, che verrà interpretata dalle altre Api come l’annuncio della primavera arrivata. Terminato questo rituale le compagne partiranno in sciame verso la campagna ormai coperta di fiori iniziando così una nuova stagione di lavoro, cerimoniali, sacrificio e morte. La fiaba “Le Api e Zeus” Le Api gelose perché gli uomini si servivano del loro miele, andarono da Zeus e lo pregarono di dar loro il potere di uccidere a colpi di pungiglione chiun- que si avvicinasse ai loro alveari. Zeus sdegnato per tanta cattiveria fece sì che esse, non appena colpiscono qualcuno, perdano il pungiglione e, dopo di questo, anche la vita. (Esopo) 175 LE VIPERE “…E io porrò inimicizia fra te e la donna e fra la tua progenie e la progenie di lei: essa ti calpesterà il capo e tu le ferirai il calcagno”. Le parole del Signore risuonano negli scarni versetti della Bibbia come una solenne maledizione per il serpente, che da allora diventa il simbolo del male. L’ira celeste è così forte che ci si può immaginare il rettile demoniaco torcer- si sotto la voce tonante del Signore. Da allora esiste una grande ostilità da parte dell’uomo nei confronti di tutti i serpenti anche se molti di essi risulta- no essere innocui. Essi, sia per la tradizione cristiana che per quella ebraica rappresentano l’emblema dell’astuzia e dell’insidia rivolta al peccato. I serpenti come del resto tutti i rettili sono animali “eterotermi”, in grado cioè, di regolare la loro temperatura corporea su quella dell’ambiente in cui vivo- no; da ciò la loro abitudine di crogiolarsi al sole nelle belle giornate e di rintanarsi in anfratti o tane sotto terra nei mesi più freddi dove cadono in letar- go. Scoperto il loro nascondiglio invernale, si potranno contare un ragguarde- vole numero di Vipere attorcigliate strettamente le une sulle altre con lo scopo di procurarsi quella minima quantità di calore che a loro necessita per conti- nuare a vivere. Il veleno che con il loro morso inoculano ad altri animali, tra i quali l’Uomo, è uno dei motivi (in questo caso a ragione) che ha creato ai serpenti motivo di cattiva fama. Gli unici serpenti velenosi presenti nel territorio Veneto e quindi Trevigiano, sono le Vipere. Esse hanno una lunghezza di circa 55-60 cm, e la testa, dalla caratteristica forma triangolare, decorata da un disegno scuro a forma di V rovesciato. Si può incontrare la vipera un po’ ovunque, anche se predilige i luoghi aridi della montagna, dove è facile trovarla rimuovendo mucchi di vecchie ramaglie, o 176 VIPERA sotto a delle pietraie. Molto simili alla Vipera e abitanti nello stesso territorio sono: la Vipera dal Corno, chiamata così per via di una piccola protuberanza che possiede all’altezza del naso, e il Marasso simile alla Vipera, ma più gros- so e più lungo. Questi serpenti cacciano generalmente nelle ore notturne e prediligono topi, piccoli anfibi e altri animali. Come un qualsiasi altro serpente, le Vipere e il Marasso possiedono una lingua bifida e le mascelle disarticolate fra di loro in modo che possono aprirsi in maniera smisurata per inghiottire prede molto più grosse della loro apertura boccale. I due temuti denti veleniferi sono ricur- vi e infissi verso l’interno del palato; sono percorsi da una scanalatura che comunica con una vescichetta (la ghiandola velenifera), dalla quale, dopo il morso, esce, attraverso proprio queste scanalature, come se si trattasse di una vera e propria iniezione ipodermica, il veleno. Veleno, che in poche ore diventa letale sia per l’Uomo, che per tutti gli animali a sangue caldo. La persona morsa da una Vipera, o da un Marasso, va soccorsa immediatamente: con l’aiuto di un legaccio va stretto energicamente l’arto sopra la parte morsicata, quindi bisogna procedere ad incidere con un coltellino la ferita in modo da far uscire il sangue, nel frattempo è soprattutto necessario trasporta- re la “vittima” al più vicino ospedale. Molto importante è anche il siero anti Vipera, ma anche in questo caso bisogna correre al più presto in un luogo di pronto soccorso. Fino alla fine degli anni 70, in occasione della Fiera agostana degli uccelli di Sacile, scendeva dal Cansiglio un ometto chiamato “Vipera”. Egli aveva ere- ditato da generazioni l’arte della cattura delle Vipere e, come il nonno e il padre, approfittava della grande sagra ornitologica per esibirsi con questo ret- tile. Sulla sua bici portava, una davanti e l’altra dietro, due cassette da frutta “foderate” di rete metallica, all’interno delle quali si trovavano diversi di que- sti rettili sia adulti che piccoli. Quando davanti al lui si formava un gruppetto di persone, arrotolava una striscia di tessuto fino ad ottenere un cilindretto del diametro di circa un cm e lo faceva mordere da una vipera, così facendo 177 la privava momentaneamente del veleno e successivamente “giocava” con essa suscitando incredulità e attenzione da parte dei presenti che alla fine lasciavano cadere sul piattino alcune monetine. “Vipera” aveva la pelle del corpo molto spessa e dura, di colore scuro, che sembrava essere cuoio. Soleva ripetere di essere stato morso decine e decine di volte soprattutto alle mani, ma di essersi sempre salvato effettuando una veloce incisione con una lametta da barba sopra i due forellini e provvedendo subito dopo ad aspirare ener- gicamente con la bocca il veleno, per poi sputarlo lontano. Effettivamente le sue dita e i suoi polsi erano pieni di piccole ferite. E “Vipera” ripeteva ancora: “se io dovessi mordere qualcuno è come se questi venisse morso da una Vipera vera”. La fiaba “La Vipera e la Biscia d’ acqua” Una Vipera andava tutti i giorni ad abbeverarsi ad una sorgente; e una Biscia che vi abitava voleva impedirglielo. Non bastava infatti alla Vipera avere un pascolo tutto per sè che veniva a invadere anche la sua casa. La contesa divenne sempre più aspra finchè non decisero di sfidarsi a duello. Le Ranocchie che abitavano vicino alla sorgente e che odiavano la Biscia andarono a trovare la Vipera promettendole che anch’esse avrebbero combattuto al suo fianco. Iniziò il duello e mentre le due contendenti stavano combatten- do le Rane incominciarono a cantare con tutte le loro forze. Alla fine con molta fatica la Vipera vinse la battaglia e rivolgendosi alle Rane le accusò di non averla aiutata e di non essere state di parola, ma quelle risposero: devi sapere, cara mia che noi intendevamo aiutarti con una prestazione non di braccia, ma di voce. E la Vipera capì…… (Esopo) 178 “Rammento la corsa della lepre che gli antichi chiamavano figlia della luna e ricordo, il canto dell’allodola in cui pagani e seguaci di Cristo vollero vedere la preghiera che sale in alto, e persino l’elevazione dell’ uomo”. Graziano Fabris BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Robert Frèdèrik GLI ANIMALI Fratelli Fabbri Editori Milano 1966 Gianfranco Bologna IL MONDO DEGLI UCCELLI Arnoldo Mondatori Editore Milano 1976. Franco Tassi ANIMALI A RISCHIO Editoriale Giorgio Mondatori Segrate Milano ottobre 1990. Rob Hume UCCELLI D’ EUROPA Fabbri Editori Edizioni manuali Fabbri Milano aprile 2003. Juliet Clutton Brock MAMMIFERI Fabbri Editori Edizione manuali Fabbri Milano giugno 2002. ENCICLOPEDIA DEGLI UCCELLI D’EUROPA Rizzoli Editore Milano 1972. Zanetti M. IL FOSSO, IL SALICE, LA SIEPE Edizioni Nuova Dimensione P Portogruaro Venezia 1998. Gianfranco Bologna UCCELLI Arnoldo Mondatori Verona settembre1978. ESOPO FAVOLE BUR Rizzoli Editore Milano maggio 1976. Autori Vari NATURA DI NOTTE Reverdito Editore Trento 1984. Autori Vari LE RIVE Edizioni Multigraf Spinea /Venezia 1989. 181 INDICE La colorazione degli uccelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 14 I chiodi di mio nonno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 19 Pillole di sapere: gli Uccelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 23 Il Cigno Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 29 L’Oca Selvatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31 L’Airone Cenerino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 33 Il Germano Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 34 Il Cormorano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 35 Il Tuffetto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 36 Lo Svasso Maggiore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 37 La Gallinella d’acqua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 39 La Marzaiola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 40 La Volpoca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 41 L’Anatra Mandarina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 42 Il Martin Pescatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 43 La Rondine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 47 Il Rondone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 48 Il Cuculo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 50 Il Picchio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 52 L’Usignolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 53 La Cinciallegra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 54 L’Averla . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 56 Il Crociere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 57 Il Frosone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 58 Il Rigogolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 59 La Gazza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 60 L’Upupa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 61 La Gracula . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 65 183 I Pappagalli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 66 L’Aquila Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 68 Il Falco Pecchiaiolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 70 La Poiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 71 Il Barbagianni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 72 La Civetta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 74 Il Gufo Comune e Reale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 75 Il Pavone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 77 I Fagiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 81 La Quaglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 83 Il Colombo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 84 La Gallina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 87 Il Gabbiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 89 Modi di Dire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 92 I Mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 95 Pillole di sapere: i Mammiferi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 97 Pillole di sapere: i Mustelidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 107 La Donnola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 110 Il Tasso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 113 La Marmotta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 115 La Talpa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 119 Il Criceto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 120 Il Ghiro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 121 Il Moscardino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 122 La Scoiattolo rosso europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 123 Il Toporagno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 125 Il Riccio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 127 Il Cervo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 131 184 La Volpe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 135 La Lince . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 136 L’Orso Bruno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 138 Il Lupo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 139 La Lepre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 142 Il Coniglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 144 Il Ratto Grigio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 149 Il Topolino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 150 Il Pipistrello o Nottola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 152 Il Maiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 154 Il Cavallo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 156 Il Cane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 158 Il Gatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 161 Il Baco da seta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 165 Le Farfalle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 167 Il Maggiolino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 168 Le Api . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 173 Le Vipere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 176 185 RINGRAZIAMENTI Sarebbero troppe le persone che dovrei ringraziare per avermi dato modo di poter scrivere questo libro, ma esse non ci sono più. Erano già vecchi quan- do mi trasmettevano la passione per gli animali: vecchi contadini, vecchi cac- ciatori, persone vicine al mondo animale e che dell’animale sapevano tutto, persone dalle quali ho imparato tante cose, cose, che proprio attraverso que- sto libro saranno tramandate ai più giovani con il sorriso e la benedizione di questi vecchi: Nonno Elia, Erico, Arcangelo, Italo, Zio Beppin, Vittorio, Ernesto, Virginio, Gildo, Massimo, Francesco... Grazie. Un ringraziamento particolare lo rivolgo alla cara Amica Alessandra Gamba insegnante presso le scuole elementari di Olmi di San Biagio che ha corretto le bozze di questo libro. E non posso dimenticare di rivolgere un grazie di cuore al Presidente della Provincia di Treviso Luca Zaia e all’Assessore Stefano Busolin che hanno il grande merito di aver ideato e voluto il progetto di educazione ambientale nelle scuole della Provincia, motivo questo, che mi ha dato lo spunto per scri- vere: “A Scuola di Fauna”. Ed infine un pensiero grato desidero rivolgerlo anche al dr. Mario Feltrin, un grande Amico sul quale durante questi tre anni ho sempre potuto contare. L’autore rivolge un pensiero grato anche alle insegnanti Maria Grazia Carrelli e Martinella Biscaro per aver seguito i disegni di Tiziana Forese, e Franca Borsoi per aver seguito quelli di Marialuisa e Luca Dal Poz. 187 Gli autori dei disegni ai quali rivolgo un grazie grosso così… Luca Dal Poz Frequenta la terza elementare presso la Scuola di Mignagola di Carbonera, è nato il 12-5-1996. Marialuisa Dal Poz Frequenta la quinta elementare presso la Scuola di Mignagola di Carbonera, è nata il 18-9-1994. Tiziana Forese Frequenta la seconda media presso la Scuola “Arturo Martini” di San Biagio di Callalta, è nata il 22-5-1992. 189 Finito di stampare nel mese di agosto 2005 presso Arti Grafiche Conegliano SpA Susegana/Tv A SCUOLA DI FAUNA Curiosità, modi di dire, proverbi, aneddoti, miti e leggende sugli animali Graziano Fabris A SCUOLA DI FAUNA Graziano Fabris Graziano Fabris Fin da bambino ha sempre nutrito un grande interesse per gli animali in genere e per gli uccelli in particolare. Appassionato ornitofilo, alleva fin dalla più giovane età uccelli esotici, indigeni, canarini e loro ibridi. Dal 1994 è Presidente della FIMOV e Direttore della rivista OASI aci. Da 3 anni si occupa del Progetto di Educazione Ambientale della Provincia di Treviso. Ricopre inoltre la carica di Presidente dell’Ente Feste Varaghesi che dal 1973 organizza tra l’altro, dei pre- stigiosi appuntamenti per l’uomo Sul retro “Sagra dei Osei di Sacile”, agosto 1953 Foto Archivio Pro Sacile con la flora e con la fauna. Settore Gestione della Fauna Via Cesare Battisti, 30 - 31100 Treviso Tel. 0422.656.341 - Fax 0422 656.032 Disegni di Tiziana Forese, Luca e Marialuisa Dal Poz In copertina disegno di Marialuisa Dal Poz