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NOTIZIE FLASH
Dal mondo
L’aspirina
aiuta anche
la prostata
I chili di troppo
aumentano
il rischio
Aumento del rischio di tumore del
rene, del pancreas, dell’esofago,
dell’endometrio e del seno nelle
donne in menopausa. A queste
conseguenze vanno incontro i
pazienti che hanno superato
un tumore del colon-retto e
che prima della diagnosi
avevano un peso che
andava oltre quello ideale.
“I risultati dello studio non
ci dicono che l’eccesso di
peso rende più probabile il
ritorno del tumore del
colon-retto, ma che le
persone obese e in sovrappeso
hanno un rischio maggiore di
sviluppare un secondo tumore
legato ai chili di troppo” affermano Todd
Gibson e colleghi, dalle pagine del Journal of
Clinical Oncology, che per la loro ricerca hanno valutato i dati di
oltre 11.500 persone sopravvissute a tumore colorettale. E
anche se il rischio appare circa doppio nei pazienti sovrappeso o
obesi rispetto a quelli normopeso già sopravvissuti a carcinoma
del colon-retto, la probabilità di sviluppare un tumore legato
all’eccesso ponderale resta bassa. Alla luce dei risultati
ottenuti, gli autori sottolineano l’importanza delle linee guida
che raccomandano a chi ha già superato un tumore del colonretto di fare pace con la bilancia tornando al peso ideale.
Non è la prima volta che l’aspirina viene
chiamata in causa come farmaco efficace nella
prevenzione del cancro, in particolare di quello del
colon-retto, ma un articolo da poco pubblicato sul
Journal of Clinical Oncology ne ha studiato l’effetto
sul tumore della prostata, dimostrando che in alcuni
casi grazie all’aspirina il tumore è meno fatale.
Ricercatori statunitensi guidati da Eric Jacob hanno
coinvolto nel proprio studio uomini che avevano
ricevuto diagnosi di tumore della prostata non
metastatico tra il 1992 e il 1993 (quando sono stati
inclusi nella Cancer Prevention Study-II Nutrition
Cohort) e il 2009, per molti dei quali erano
disponibili informazioni sull’uso di aspirina prima o
dopo la diagnosi. E dall’analisi dei dati raccolti fino
al 2010 è stato possibile dimostrare che con l’uso
giornaliero di aspirina anche a basse dosi (circa 80
mg al giorno) si riduce la mortalità legata a questo
tipo di tumore e che la relazione vale in particolare
per i casi ad alto rischio, classificati come stadio
uguale o superiore a T3 o con un grado di Gleason
maggiore o uguale a otto.
Attenzione ai lassativi
Il tipo di lassativo utilizzato e la durata del
trattamento possono avere influenze diverse sul rischio
di tumore del colon-retto. Lo si legge sull’American
Journal of Gastroenterology dove sono stati recentemente
pubblicati i risultati di uno studio sull’argomento che ha
coinvolto oltre 75.000 uomini e donne statunitensi di età
compresa tra 50 e 76 anni. Grazie a questionari specifici,
gli autori hanno raccolto informazioni sull’uso di diversi
tipi di lassativi (a base di fibre o non a base di fibre), sulla
durata e la frequenza dell’utilizzo e sugli episodi di stipsi
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e le hanno confrontate con i casi di tumore colorettale
alla ricerca di eventuali legami. L’uso di lassativi a base
di fibre per almeno quattro giorni a settimana per un
periodo di quattro anni è associato a una riduzione del
rischio di tumore colorettale rispetto al non utilizzo,
mentre il rischio aumenta del 50 per cento circa con
l’uso di lassativi non a base di fibre per quattro-cinque
volte l’anno, ripetto a un uso meno frequente (inferiore a
una volta l’anno). Nessun legame invece tra tumore del
colon-retto e stipsi.
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Il gene
cattivo arriva
al cinema
Da un lato c’è Annie Parker
(l’attrice Samantha Morton), una
donna con la vita segnata dal tumore
al seno che prima le ha portato via
mamma e sorella e poi ha colpito
anche lei a soli 29 anni, distruggendo
oltre alla sua salute anche il suo
matrimonio. Dall’altro c’è Mary-Claire
King (Helen Hunt), brillante
ricercatrice convinta dell’esistenza di
un legame genetico nella
trasmissione di alcuni tipi di tumore
del seno. Le storie di queste due
donne coraggiose e determinate, che
hanno sfidato lo scetticismo e i
pregiudizi della società in cui vivevano,
si intrecciano in un film arrivato nelle
sale italiane il 30 ottobre con il titolo
Annie Parker, un racconto fatto di
scene inevitabilmente tristi e tragiche,
che si alternano però ad altre piene di
humor e speranza. C’è anche la scena
dell’autopalpazione, che, con il
linguaggio immediato del cinema,
punta l’attenzione sulla prevenzione e
i controlli tanto importanti per
“battere sul tempo” la malattia. Di
fronte a questa pellicola si è parlato di
filmantropia, cioè di film che puntano
a rendere consapevole il pubblico e a
sensibilizzarlo su tematiche tanto
importanti come il tumore del seno.
Tabacco e HPV, Istruire il sistema
una relazione
immunitario
pericolosa
Dalle pagine della rivista JAMA arriva
un’altra buona ragione per smettere di
fumare e per stare alla larga dal tabacco:
sigarette, pipe, tabacco da masticare o in
qualunque altra forma sono legati a un
maggior rischio di infezioni orali da
Papillomavirus (HPV) di tipo 16, uno di quelli
più pericolosi dal punto di vista oncologico. Lo
dimostrano i dati ottenuti dai ricercatori della
Johns Hopkins University di Baltimora che,
sotto la guida di Carole Fakhry hanno raccolto
dati da poco meno di 7.000 persone - uomini e
donne. In base a quanto osservato, fumare
anche solo tre sigarette al giorno aumenta del
31 per cento il rischio di infezione orale da
HPV e il rischio sale al 68 per cento se le
sigarette fumate diventano quattro. Si tratta
di dati ottenuti misurando diversi prodotti
derivati dal tabacco nel sangue o nelle urine,
che non dimostrano un rapporto causaeffetto, ma solo un legame tra tabacco e
infezione orale da HPV. “Non sappiamo quale
sia la ragione di tale legame” spiega l’autrice.
“Forse il tabacco aumenta le possibilità di
infezione e riduce quelle di eliminare il virus e
inoltre il fumo ha un’azione infiammatoria
che rende più facile l’attacco dei tessuti orali
da parte di HPV ”.
Una cellula del sistema immunitario modificata ad hoc per
riconoscere le cellule della leucemia linfoblastica acuta e
distruggerle. È questo lo strumento proposto da Stephan Grupp e
colleghi e che, in base a quanto pubblicato sul New England
Journal of Medicine, è in grado di aiutare anche quei pazienti che
non rispondono più alle terapie oggi disponibili. Per arrivare a tali
risultati i ricercatori d’oltreoceano hanno coinvolto nel loro studio
30 persone con leucemia linfoblastica acuta - sia adulti sia bambini
- e li hanno sottoposti al nuovo trattamento: prelievo dei linfociti T
(cellule del sistema immunitario) che sono poi stati modificati con
tecniche di ingegneria molecolare. Questa modifica permette di
istruire i linfociti e insegna loro a riconoscere una specifica
proteina chiamata CD19 presente sulle cellule tumorali. Una volta
reintrodotti nei pazienti, i linfociti “cacciatori” si
sono riprodotti e hanno svolto il loro
dovere: in 27 dei 30 pazienti la
malattia è scomparsa (remissione
completa) e in 19 di loro l’effetto è
durato per almeno sei mesi, in
alcuni casi anche fino a due
anni. Come ricordano gli
autori, la terapia è ancora in
fase sperimentale e non è
disponibile per il trattamento
clinico e inoltre comporta
effetti collaterali che, anche se
curabili, possono creare
problemi, ma di certo rappresenta
una speranza per tanti pazienti per i
quali oggi non ci sono terapie efficaci.
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