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INTERVENTO PRESENTAZIONE DEL SAGGIO DI AMEDEO SPAGNUOLO
PHILIP DICK FILOSOFO
Quando qualche settimana fa Amedeo mi ha proposto di intervenire
alla presentazione
del
suo
saggio, per
fornire, come disse, una
consulenza scientifica sull’opera di Philip Dick, oltre a sentirmi
onorato per poter manifestare, con la mia umile presenza, la sua
pregevole opera, ho immediatamente colto la bellezza della sfida e
il fascino di tale compito. E lo ringrazio coram populo, con l’affetto
di un amico, per avermi dato l’opportunità di riflettere e disquisire
con Voi, sui temi di natura scientifica che Philip Dick ha trattato
nella sua opera. La mia preparazione è proprio di quel tipo che si
definirebbe scientifica dato che sono un ingegnere strutturista e ho
la
fortuna
di
insegnare
o
almeno
di
provarci…,
nella
scuola
superiore. Certo! Non è proprio facile il compito che il buon Amedeo
mi ha assegnato, ma per uno come me che ha sempre visto con grande
attenzione e interesse tutte le questioni di natura scientifica e
tecnica,
comunità,
connesse
o
meno
alla
propria
azione
nell’ambito
della
è parso come una gustosa occasione per divertere, come
dicevano gli antichi, cioè deviare dal consueto, dall’ordinario per
sconfinare nell’extra-ordinario. Cioè per divertirmi.
Uno dei miei divertimenti preferiti è, per l’appunto, cercare nella
letteratura che mi capita di leggere con piacere, soprattutto in
quella non scientifica (sarebbe troppo facile altrimenti!), … cercare
e annotare quelle gemme di scienza incastonate in ambientazioni
letterarie che nessuna attinenza con esse paiono avere.
Ad
esempio
mi
piace
citarvi
alcuni
mirabili
brani,
anche
per
solleticare la vostra curiosità.
Ognuno di noi ha un suo testo preferito, che legge e rilegge,
sottolinea, brandisce come un arma o protende come scudo o porta
sempre con se per avere compagnia, sostegno, rifugio… conforto. Per
capirci… quello che in maniera assai riduttiva e superficiale è
spesso chiamato libro sul comodino. Uno dei miei preferiti è Moby
Dick di Herman Melville. Quello con la traduzione di Cesare Pavese.
Un capolavoro assoluto della letteratura di tutti i tempi.
In un passo del capitolo n. 96 intitolato “La raffineria”, proprio della
traduzione del grande poeta, si legge:
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<<Sollevando il quartiere si scoprono le grandi marmitte, due in
tutto, e ciascuna della capacità di parecchie botti. Quando si è
dietro
a
strofinarle
il
…
luogo
si
presta
per
le
profonde
meditazioni matematiche. Fu nella marmitta sinistra del Pequod, che
per la prima volta mi colpì il fatto notevole che , in geometria, tutti
i corpi che scivolano giù per il cicloide, ad esempio la mia steatite,
da qualunque punto discendano impiegano sempre lo stesso tempo.>>
L’autore
si
riferisce
cicloide
che,
grazie
ad
una
particolare
all’acume
di
curva
Huyghens,
la
rivelò
cosiddetta
proprietà
tautocrone che significa: di ugual durata. Sferette poste a varie
altezza sui fianchi di un recipiente con tale forma, lasciate libere
contemporaneamente raggiungeranno il fondo nello stesso istante.
Ismaele, il narratore della storia, lasciava cadere la steatite, una
varietà del talco, invece delle palline, per ottenere il medesimo
risultato. Trattasi di una mirabile applicazione del moto armonico,
quello del pendolo isocrono.
In un'altra bellissima opera di un altrettanto illustre scrittore,
Carlo
Emilio
Gadda
(ingegnere
elettrotecnico
prestato
alla
letteratura con immenso vantaggio della letteratura stessa, ma senza
discredito alcuno della pristina attività), La cognizione del dolore,
c’è un passo mirabile che recita:
<< Avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio
e col sussidio del calcolo, dimostrato che il gatto (di qualunque
doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe,
che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell’impulso,
egli precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della villa,
fatto curioso di sperimentare il teorema. E la povera bestiola,
atterrando gli diè di fatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni
volta!...
come
un
pensiero
che,
traverso
fortune,
non
intermetta
dall’essere eterno; ma, in quanto gatto, poco dopo morì, con occhi
velati
di
una
irrevocabile
tristezza,
immalinconito
da
quell’oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte.>>
Gadda che di scienza sapeva, si riferisce a quel teorema della
dinamica
chiamato
per
l’appunto
dell’impulso,
che
spiega
come
l’ammortizzamento prolungato che il gatto è in grado di compiere
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sulle sue zampe non appena tocca il suolo, fermando così la sua
caduta,
sia
capace
di
ridurre
notevolmente
la
forza
d’impatto
proprio sulle zampe.
Lo stesso Carlo Emilio Gadda nel suo racconto L’Adalgisa, incluso in
L’Adalgisa – Racconti milanesi, Einaudi 1940 riporta un interessante
nota riguardante i cosiddetti problemi di minimo.
<< Problemi isoperimetrici: una ragguardevole classe di questioni di
minimo (o massimo) trattate nel cosiddetto “calcolo delle variazioni”,
arduo e periglioso capitolo dell’analisi. Isoperimetro è detto il
problema, da molti invece la risoluzione (algebrica) del problema:
indipendentemente dal contenuto dello stesso: (geometrico, meccanico
o altro). Un siffatto nome deriva per estensione (antonomasia o
sinéddoche) da ciò che il “problema della brachistocrona”1 o “problema
della minima discesa”, cioè discesa in un tempo minimo, (proposto da
Giovanni Bernouilli in Acta erudito rum, giugno 1696, risoluto dal
detto e, altrimenti, dal si lui fratello Giacomo in Id. Id., maggio 1697), è
affine ai problemi di dato perimetro e massima area, di uguale ossia
pari
perimetro,
di
“iso-perimetro”,
già
considerati
dai
Greci.
Analiticamente il problema generale del calcolo delle variazioni dà
luogo alla ricerco di un algoritmo ossia forma algebrica y, funzione
incognita (in partenza) della variabile x, tale che renda massimo (o
minimo) l’integrale definito, tra limiti assegnati, di una funzione nota
F contenente la y, le sue derivate, e la x.
Un isoperimetro classico, al quale il Nostro aveva forse il pensiero,
è il problema di Newton (Principia Mathematica ecc., Londra 1686, libro
II, sezione VII, proposizione 34, scolio): formulabile in questi termini:
“Cercare la curva passante per due punti dati, rotante intorno ad un
asse dato, generante il solido che incontra la minima resistenza
all’immersione in un liquido, nella direzione dell’asse”. Cioè qual
sagoma deve avere un proietto, per esempio un siluro, per incontrare
a
prora
la
minima
resistenza
da
parte
del
mezzo
liquido
attraversato. È questo il primo problema delle variazioni.
I ditidischi non gli hai a ritenere e’ siano solidi di rotazione, come
accade al pezzo tornito di Isacco Newton; ma insomma le curvature
principali, (il “garbo” delle costruzioni navali […nelle costruzioni
1
Curioso che sia Herman Melville sia Carlo Emilio Gadda si occupino delle medesima curva, anche se per
differenti applicazioni
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navali, la curvatura dello scafo, oppure la sesta di legno che serve
a rilevarla. N.d.r.], come quello di un po’ tutti i natanti, e i volanti,
tendono in essi a risolvere per evoluzione (costruzione biologica
della specie) problemi di minima resistenza.
Altro problema naturale di minimo, da noi umani risolubile per
procedimento derivatorio, (calcolo differenziale), è il problema di
“superficie minima” del della chiusura di fondo nelle cellette a
prisma esagonale dell’arnia. Vi accenna Maurizio Maeterlink nel suo
libro Les vies des abeilles.
La
chiusura
del
fondo
di
ogni
celletta
prismatico-esagonale
è
costituita da tre facce rombiche inclinate rispetto all’asse della
cella. [Si pensi a una matita e se ne faccia la punta con tre tagli
netti poco inclinati: la forma che ne scaturisce risulta assai simile
a quella del fondo delle celle. N.d.r]. L’inclinazione dei tre rombi è
tale
da
risultarne
minima
la
totale
superficie
e
però
minimo
l’impiego della cera, a parità di volume racchiuso (capienza della
cella).
L’operaia
ape
ha
risolto
il
problema
biologicamente
e
d’istinto, se pur d’istinto si tratti, o non invece di ragione.
Il fisico entomologo Renato Antonio Ferchault de Réaumur (1683-1757)
propose la questione al matematico Koenig; il quale, col sussidio del
calcolo, reperì che l’angolo acuto dei rombi doveva resultare di
70°34’ affinchè la superficie di ogni cella risultasse minima (gli
angoli dei rombi dipendono dalla inclinazione di essi sul loro asse).
Colin Mac Laurin calcolò 70°32’, Cramer 70°31’.
Le
api
avevano
adottato
e
ritengo
seguano
a
usare
70
e
32,
maclaurizzando ne’ secoli. Il riscontro sulle celle dell’arnia, voglio
dire del favo, mediante misura fisica di precisione, è dovuto a
Maraldi: (Giacomo Enrico, 1665-1729, astronomo: nipote di Cassini).
I problemi isoperimetrici, radunati e poi sistemati nel calcolo delle
variazioni, occuparono via via l’assiduità indagatrice degli analisti,
e
degli
eminenti
dall’origine
Eulero,
dell’analisi
Legendre,
Ostrogradski,
tra
essi:
da
Newton
infinitesimale,
l’Hospital,
Weierstrass,
ecc.;
ai
e
dai
dì
Bernouilli,
nostri:
Borda,
Jacobi,
autore
principe
Mac
Gauss,
sommo
cioè
Laurin,
Delaunay,
Lagrange
(Giuseppe Luigi, Torino 1736 – Parigi 1813) e per vent’anni a Berlino,
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presidente
di
quell’Accademia
dopo
Eulero:
da
ultimo
senatore
napoleonico.>>
Questa nota, manifesto dell’erudizione, ma anche della provenienza
scientifica di Carlo Emilio Gadda è formidabile almeno quanto il
gustoso passo da cui è tratta.
<<“Il povero Carlo”, defunto marito dell’Adalgisa, si dilettava di
entomologia e approfittava di gite in campagna per dar la caccia
agli ambiti coleotteri.
L’Adalgisa racconta appunto di una scampagnata a San Colombano al
Lambro.
Il dolce piano, quel pomeriggio, nel sole fulgidissimo, brusiva d’amori
e di voli. S’era cavata la giacca, s’era sporto avido con il retino, per
una preda di larve: anche di ditidischi adulti, magari: così almeno
conferiscono i testimoni. Ma quei vigorosi nuotatori, subodorate le
intenzioni del retino, (lo lumarono subito, dal sotto in su), via! s’erano
s’erano
spiccati
come altrettante spole dall’erbe
e dagli steli
subacquei, dove pareva invece che ci dormicchiassero: lui dietro col
suo retino, bravo! come ci fosse probabilità di raggiungerli! In
maniche di camicia com’era, teso
fino
all’ultimo
il
braccio, Dio
com’era peloso!, perché aveva rimboccato la manica. Attaccandosi con
la sinistra a un ramo, sì! finché il ramo si scerpò netto: e lui
patapùmfete!: dentro come un salame fino al collo. Una nuvola di
fango lo aveva subito circondato.
Quelli intanto bucarono via l’acqua come siluretti felici, scampati
nei roridi e verdi regni, tra i capegli dell’erbe, e l’alghe: salvi dal
loro profilo ellittico o paraellittico [a forma di cicloide ad es. N.d.r],
che offre, credo, in minimum di resistenza, che segna un optimum della
forma natante. E devono aver raggiunto quest’ottimo nella pertinace
evoluzione della discendenza, in un loro amore del meglio e poi del
perfetto, educendo dalla grossolanità primigenia il garbo del capo,
del
corsaletto
e
dell’èlitre,
sforzandosi
di
tendere,
tendendo
all’ellisse, entro paludi, o gore morte nelle golene dei fiumi: ogni
acqua ferma un bacino di esperimenti , ogni specchio livido un mondo
da
perforare
col
pensiero:
traverso
generazioni
raggiungendo il loro laborioso integrale isoperimetrico.>>
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e
millenni
Dei
ditidischi
chimico
di
scrive
formazione,
anche
Primo
un
altro
Levi:
grande
“Quei
scrittore
scarabei,
italiano
per
ragioni
idrodinamiche, hanno raggiunto una compattezza e una semplicità di
forme che credo unica nel regno animale: visti dal dorso sono ellissi
perfette, da cui sporgono zampe mutate in remi.” Da Gli scarabei,
incluso in L’altrui mestiere, Einaudi, 1998, pag. 178.
E così via, in tal guisa può capitare che leggendo molte opere di un
medesimo autore non si possa trovare alcun riferimento di natura
scientifica oppure come nel caso di Philip Dick, trovarne tanti al
punto di doverli elencare.
Philip Dick non aveva una solida preparazione, tutt’altro. Non poteva
in alcun modo rivaleggiare con colleghi come Asimov
o Clarke,
scienziati prima ancora di essere scrittore di fantascienza. Ad ogni
modo la sua narrativa può essere messa in relazione con la Scienza a
un livello meramente generale, più di metodo che di contenuti,
Infatti i personaggi dickiani costruiscono teorie e le sottopongono
al vaglio dell’esperienza in un modo che almeno in parte pare
influenzato dal metodo scientifico.
A tal proposito uno studioso di
Philip Dick, Domenico Gallo,
sostiene:
<< I personaggi di Dick dispongono di una teoria della realtà. Essa,
nello svolgimento della trama, è falsificata. La vecchia teoria è
accantonata e sostituita con la nuova che è in grado di spiegare,
all’interno di relazioni tra le proprie proposizioni, l’avvenimento
falsificante>>.
Per fare ciò non è necessario avere una laurea in fisica come Isaac
Asimov. La conoscenza e la competenza possono attestarsi a un
livello superficiale, che tuttavia a volte sconfina nell’ingenuità.
Del resto lo stesso Dick fa dire al personaggio autobiografico
Nichols Brady in Radio libera Albemuth: << Per me le teorie sono
come gli aeroplani all’aeroporto internazionale di Los Angeles: ce n’è
uno ogni minuto>>.
Tale affermazione conferma che la Scienza non fu mai al centro degli
interessi primari di Dick, ma incidentalmente irruppe nelle sue
onnivore
letture
che,
come
si
sa,
comprendevano
numerose
enciclopedie e la Encyiclopedia Britannica in testa. E divennero
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strumentali per condire la sua produzione letteraria e al contempo
offrirgli spunti di meditazione su questioni più alte, come il senso
della vita e le questioni ontologiche.
In effetto le incursioni che Dick compie nella Scienza hanno un
obbiettivo
immediato
che
si
può
definire
tecnico:
costruire
lo
scheletro portante della storia. E uno mediato che si può definire
meditativo: sottoporre il costrutto fondante alla prova del suo
immaginifico sviluppo futuro facendone intravvedere il possibile
progredire, ma legandolo indissolubilmente alle questioni alte.
Val la pena quindi passare in rassegna le principali tracce di
natura scientifica che nei suoi scritti egli ha disseminato. Tra esse
viaggiando, ho trovato innumerevoli approdi per la mia curiosità e
tra
tutti
ne
maggiormente
ho
annotato
interessanti
alcuni…
individuando
quelli
in
che
essi
un
ho
giudicato
denominatore
comune. Vale a dire: ognuno ha una connotazione scientifica, talvolta
forte altre meno, ma in ogni caso ha un carattere che travalica la
sua mera essenza fisica per irrompere naturalmente nella metafisica.
In quell’ambito, cioè dove le domande si liberano si tutti gli orpelli
e accessori, diventando sostanziali per costituire un ponte verso la
filosofia. La filosofia di Philip Dick.
Ecco i temi ordinati per disciplina:
o BIOLOGIA: la geometria delle api
o CIBERNETICA: androidi
o FISICA: entropia (kipple), l’omeòstasi e la retroazione – negentropia, quanti e principio di indeterminazione di Heisenberg
o MATEMATICA: il segmento aureo
o TEMPO
Di essi in maniera sintetica ho riportato le coordinate letterarie e
annotato le mie riflessioni.
BIOLOGIA: la geometria delle api
Nel capitolo XII di Radio libera Albemuth si trova un riferimento
sull’intelligenza delle api.
Le cellette delle api sono prismi cavi di cera aventi il perimetro
esagonale regolare. Si affiancano le une alle altre per modo di
condividere le superficie laterali e si contrappongono a formare
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due strati con le aperture sulle facce opposte, condividendo anche
le basi. Così è formato il cosiddetto favo.
Un architettura in apparenza assai semplice, nasconde in verità un
impostazione
rigorosa
e
di
una
tale
efficienza
da
lasciare
stupefatti al punto da indurre questioni metafisiche!
La sola scelta della sezione retta trasversale di forma esagonale ha
dell’incredibile: perché proprio questa forma?
Il fondo poi poteva essere piano invece, come detto, ha la forma di
una piramide regolare a tre facce condiviso da altrettante cellette
contrapposte e opportunamente disassate. Perché tale conformazione?
Tutto deriva dal tentativo di rendere minimo il consumo di cera e
quindi il dispendio di energia che la sua produzione comporta.
Infatti tra tutte le forme di poligoni regolari possibili capaci di
alloggiare le larve di forma cilindrica senza creare inutili vani,
quella esagonale è la più economica. Viepiù tra le possibili è quella
che a parità
di superficie ha il perimetro più piccolo. Se si
considerasse la possibilità di realizzare le cellette con le seguenti
forme: triangolare, quadrata, circolare ed esagonale e si calcolasse il
perimetro di ognuna di esse a parità di superficie, si scoprirebbe
che il cerchio ha il valore minimo seguito dall’esagono. L’ape però ha
scartato il cerchio perché crea vani inutili e ha scelto l’esagono
che oltre a soddisfare il problema di isosuperficie permette la
condivisione
dei
lati
delle
cellette:
doppio
risparmio
di
cera
verrebbe da dire.
In definitiva l’ape con il minimo consumo di cera per la superficie
laterale delle cellette ottiene la massima capienza.
Ma ove la capacità costruttiva delle api assurge alla meraviglia è,
come detto, nella forma del fondo la cui architettura, essa pure,
risponde al criterio guida dell’economia nell’uso della cera.
Ma di questo si è già detto.
Certo
qualcuno
qualunque
cosa
areazione
della
potrebbe
come
obbiettare:
trovare
piramide
di
con
i
numeri
l’allineamento
Cheope
con
dei
alcune
si
può
fare
condotti
stelle
di
della
costellazione del Canis Maior 4000 anni or sono, attribuendo ai
costruttori
facoltà
suggestione, ma
non
divinatorie.
è
L’idea
dimostrabile
con
è
ricca
lo
stesso
di
fascino
rigore
che
e
è
possibile applicare, ad esempio, alla geometria delle api. Rimane del
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campo
delle
congetture
pur
avendo
una
certa
connotazione
scientifica. La geometria delle api non è così. Perché il favo è
sempre lì, millennio dopo millennio, con il suo straordinario bagaglio
matematico
che
chiunque
può
sottoporre
a
verifica.
Non
è
mirabolante tutto ciò? E come è possibile che quella che F.G. Lorca
definiva con grande rispetto << la carne minima del mondo >>, le api,
siano capaci di costruire un così mirabile organismo architettonico?
CIBERNETICA: androidi,
Nel capitolo XV della Trasmigrazione di Timothy Archer, Philip Dick
cita alcuni passi della teoria matematica dell’informazione di Claude
Shannon e mostra di avere sufficienti conoscenze sulla ricerca
cibernetica degli anni 50. Conoscenze che gli hanno consentito di
fantasticare sulla figura degli androidi, gli automi di forma umana,
che a più riprese egli ha collocato nella sua produzione romanzesca.
Tra tutte le opere di Dick che hanno come protagonisti gli androidi
non si può fare a meno di citare “Ma gli androidi sognano pecore
elettriche?” del 1968.
L’opera è diventata celebre grazie al film di Ridley Scott Blade
Runner
del
quale Dick poté
vedere
soltanto
la
prima stesura,
incompleta per giunta, dato che il film uscì nelle sale solo dopo la
morte dello scrittore.
Il romanzo si differenzia dalla pellicola per molti aspetti. Ad
esempio il cacciatore di androidi Rick Deckard nel romanzo è una
brava persona, sposato e votato al suo dovere con grande scrupolo.
Nel film, il personaggio interpretato da Harrison Ford, è un duro di
chandleriana memoria e oltretutto si sospetta essere anch’egli un
androide (Director’s Cut).
Anche la caratterizzazione degli androidi tipo Nexus 6 sfuggiti alle
colonie extramondo che Deckard deve “ritirare”, fatta dal regista
Ridley Scott e dai suoi sceneggiatori, non appare fedele al testo.
Infatti Roy Baty, il capo della banda degli androidi fuggiaschi,
quello che nel film è interpretato da Rutger Hauer, nel testo è assai
meno atletico, ma soprattutto è infame cioè totalmente privo di
sentimenti e crudelmente indifferente alla sofferenza altrui Lontano
quindi dalla figura dell’androide agonizzante che in un clamoroso
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slancio empatico pronuncia il famoso epitaffio: << Io ne ho visto
cose che voi umani…>>.
In “Lotteria dello spazio” del 1955 Keith Pelliga è un androide che
porta ben visibili i segni della diversità con gli umani: <<…aveva un
aspetto pulito, quasi asettico. Non aveva odore, né colore o sapore.
Era
uno
zero,
Non
[…]
aveva
vita
né
forza>>
(capitolo
n.
6).
Nell’”Impostore” del 1957 Spence Olham contiene già in embrione tutti
i temi legati alla figura dell’androide cari a Philip Dick e che
svilupperà nel corso della sua attività di scrittore: la questione
dell’identità, quella dei falsi ricordi e il carattere distruttivo
dell’autocoscienza.
E così via sino ad arrivare a “La formica elettrica” del 1969 che
introduce in maniera più articolata e complessa il tema anticipato
nell’”Impostore” dell’androide che scopre di essere tale dopo aver
creduto di essere umano. Inoltre esso pone le basi per rispondere
alle
domande
fondamentali
che,
a
detta
dello
stesso
Dick,
costituiscono la base della sua narrativa: che cosa è reale? e che
cosa è umano?
Lo stesso Philip Dick stabilisce la connessione così esprimendola:
<< Realtà false generano esseri umani falsi. Oppure falsi esseri umani
produrranno false realtà e le venderanno ad altri esseri umani,
trasformandoli infine in contraffazioni di se stessi>>.
Tale discorso è accettabile a patto che si abbiano criteri certi per
stabilire
se
una
realtà
è
falsa
oppure
no
e
se
un
essere
è
autenticamente umano oppure no.
Ne “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” la questione sembra
risolta dal test Voight-Kampff, ma lo stesso Deckard, il cacciatore di
simulacri, si rende conto della sua non completa affidabilità dato
che rischia di classificare come androidi umani << con doti empatiche
sottosviluppate>>.
Tesi
perfettamente
in
linea
con
l’oscillante
visione
dickiana
dell’androide come essere totalmente meccanico ed etero determinato
e come soggetto potenzialmente umano.
Lo
stesso
Dick
afferma; << Nell’Universo
esistono
cose gelidi e
crudeli a cui ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento
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mi
spaventa,
soprattutto
quando
imita
così
bene
quello
umano
da
produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi
passare per umane, pur non essendolo. In tal caso le chiamo “androidi”.
Per androide non intendo il risultato di un onesto tentativo di
ricreare in laboratorio un essere umano. […] Mi riferisco invece a una
cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con
successo per una nostra simile,>> (Dick 1976)
<<Diventare quello che io chiamo – in mancanza di un termine più
appropriato – un androide, significa acconsentire a trasformarsi in
un mezzo, oppure essere oppressi, manipolati e ridotti a un mezzo,
inconsapevolmente o contro la propria volontà: il risultato non
cambia.>> (Dick 1972)
<<Forse, siamo noi umani – teneri e buoni d’aspetto, con i nostri
occhi pensierosi – le vere macchine. E quelle costruzioni oggettuali,
gli oggetti naturali che ci circondano – in particolare, i macchinari
elettronici
da
ritrasmissione
noi
a
costruiti,
microonde,
i
i
trasmettitori
satelliti
–
e
le
stazioni
potrebbero
essere
di
il
travestimento di realtà viventi, nella misura in cui possono far
parte più pienamente e in modo a noi oscuro della Mente ultima.>>
(Dick 1976)
Argomentazioni che in qualche modo prefigurano il modello ideale
dell’uomo
tecnologico, quello
che sempre
più
si
configura come
l’uomo-macchina nella duale compenetrazione tra le facoltà proprie
delle macchine e le caratteristiche proprie degli umani.
In effetto
Philip Dick
con geniale lungimiranza e sorprendente
fantasia configura uno stato di cose talmente avanzato allora, come
strettamente attuale ora. E lo connota in maniera negativa ponendo
in guardia sul pericolo incombente e prevaricante che, in un mondo
sempre
più
paventato
tecnologico,
è
quello
che
la
gli
macchine
umani
portano
seco.
costruiscano
Il
rischio
macchine
più
intelligenti degli stessi creatori e, come avviene in “Ma gli androidi
sognano pecore elettriche?”, si entri in una fase di coesistenza. Da
monopolisti del pianeta ci si dovrà accontentare di un duopolio con
replicanti fatti di silicio e metallo.
Ed è pur vero che sinora il procedere vorticoso della tecnologia ha
portato ad avere nel mondo circa 6.5 milioni di automi, tra cui 1
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milione per uso industriale e 5.5 per uso privato, dotati di sistemi
informatici sempre più autonomi Non senza qualche problema.
Basti
pensare
al
malfunzionamento
semiautonoma che due anni fa ha ucciso
di
una
mitragliatrice
9 soldati in Sud Africa. Agli
errori di droni in Pakistan che hanno provocato la morte di decine
di civili. Ai difetti dei sistemi informatici che hanno recentemente
provocato
un
incidente
ferroviario
a
Washington
e
l’incidente
dell’aereo francese precipitato alcuni mesi fa nell’Oceano.
Parrebbe insomma che in alcuni casi si verifichino malfunzionamenti
tali negli automi da indurre gravi conseguenze per gli umani al
punto che in uno degli ultimi incontri che la A..A.I. Advancement for
the Artificial Intelligence, uno dei massimi organismi mondiali che si
occupa di intelligenza artificiale, ha compiuto in California si è
discusso sulla possibilità che il genere umano ha di perdere il
controllo di creature computerizzare e sui modi di intervento in
tempo utile.
L’idea
al
centro
della
discussione
è
presto
detta:
i
sistemi
informatici sono sempre più autonomi e inclini alla catastrofe. Urge
quindi un intervento di regolazione che sia capace di introdurre in
essi alcuni correttivi “morali”. Niente che abbia a che vedere con le
famose
tre
leggi
della
robotica
di
Isaac
Asimov,
ma
più
prosaicamente… un codice informatico che li istruisca su quando è
il caso di fermarsi.
Va da sé l’importanza di sensibilizzare tutti gli operatori del
settore a valutare con rigore tutte le implicazioni di natura
tecnica ed etica che la creazione di sistemi robotizzati sempre più
efficienti ed autonomi comporta.
Ed è proprio in quest’ordine di idee che si colloca la neonata roboetica (invenzione di un dei massimi esperti italiani di robotica:
l’ingegner Gianmarco Veruggio della scuola di robotica di Genova)
per i cui dettami la scelta, ad esempio, degli Stati Uniti di dotare
entro il 2015 l’esercito di una consistente quota di combattenti non
umani, rende palesi gli enormi rischi cui si potrebbe andare incontro.
Si pensi solo all’eventualità di un attacco da parte di hackers e
all’impazzimento conseguente di macchine progettate per uccidere!
I replicanti Nexus-6 di Philip Dick potrebbero essere al confronto
docili agnellini!
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FISICA: entropia (kipple) e neg-entropia (non-kipple), quanti
e principio di indeterminazione di Heisenberg
Il kipple, neologismo coniato da Philip Dick, si presenta per la prima
volta nel romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? A
proposito del palazzo di Jhon R. Isidore:
<< Abitava da solo, in un palazzo cieco e sempre più fatiscente, tra
mille appartamenti disabitati. Un edificio che, come tutti quelli
simili, cadeva di giorno in giorno, in uno stato sempre maggiore di
rovinosa entropia [ into a grater entropic ruin ]. Con il tempo
tutto
ciò che c’era nel palazzo di sarebbe fuso -una cosa nell’altraavrebbe perso individualità, sarebbe diventato identico a ogni altra
cosa,
un
mero
pasticcio
di
palta [
mere
pudding-like
kipple ]
ammonticchiato dal pavimento al soffitto si ogni appartamento. E
dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la
manutenzione, avrebbe raggiunto uno stadio di equilibrio informe,
sepolto nell’ubiquità della polvere. >>
Lo stesso Isidore da la definizione di kipple e ne enuncia le leggi:
<< La palta è fatta di oggetti inutili, inservibili, come la pubblicità
che arriva per posta, o le scatole di fiammiferi dopo che hai usato
l’ultimo, o gli involucri delle caramelle o l’omeogiornale del giorno
prima.
Quando non c’è nessuno a controllarla la palta si riproduce.
Per esempio, quando si va a letto si lascia un po’ di palta in giro
per l’appartamento
quando ci si alza al mattino dopo se ne ritrova
il doppio. Cresce, continua a crescere, non smette mai. […] c’è la prima
legge della palta: “la palta scaccia la non-palta” [ kipple drives out
non-kipple ] >> (capitolo n. 6)
Per inciso: la precedente traduzione in italiano riportava il termine inglese kipple, mentre
recentemente si è scelto il termine palta che però mal si addice alla bisogna. Infatti se il
primo è un neologismo il secondo è una parola esistente e se kipple sta a significare una
consistenza di oggetti solidi sminuzzati, la palta richiama una consistenza melmosa,
propria della fanghiglia.
Il concetto scientifico di entropia aveva precocemente colpito
l’autore al punto da evocarlo semplicemente, ma confusamente in
Scorrete lacrime, disse il poliziotto. Infatti Jason Taverner all’inizio
del capitolo n. 6 dice: << Non c’è una legge della termodinamica che
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dice che il calore non si può distruggere, ma solo trasmettere? Però
c’è anche l’entropia. >>
La notevole suggestione che la grandezza fisica entropia suscitò in
Philip Dick, ne fece l’antesignano di un uso metaforico del concetto
di entropia che si diffuse negli anni Sessanta e Settanta sia nel
campo della fantascienza sia in altri ambiti.
Soprattutto
per
le
notevoli
implicazioni
ch’esso
porta
seco
sull’evoluzione di tutti gli eventi naturali e sull’ineluttabile esito
nefasto e livellatore:
<< È un principio universale valido in tutto l’Universo; l’intero
Universo
è
diretto
verso
uno
stato
finale
di
paltizzazione
[
kippleization ] totale e assoluta >> … così Philip Dick afferma infine
nel capitolo n. 6 del romanzo anzi citato.
Lo stesso Albert Einstein intervistato su quale fosse la legge più
importante della Fisica rispose senza esitare: il II principio della
Termodinamica. Quel principio enunciato da Clausius che lo condusse
poi a introdurre la grandezza fisica entropia.
Ma cos’è l’entropia? Segue un breve excursus sulla questione.
ENTROPIA
Voce dotta dal greco entropie= conversione …a sua volta da en + trepo= rivolgo dentro
<< Ho voluto intenzionalmente adottare il termine entropia per rimanere più vicino alla
parola energia, in quanto le due grandezze… sono così affini in senso fisico che anche
nella definizione questo accostamento pare opportuno>> Rudolf Julius Emmanuel
Clausius.
Clausius scegliendo la parola entropia = rivolgo dentro intendeva indicare dove va a
finire l’energia fornita a un sistema. Propriamente egli voleva riferirsi alla grande
intuizione del secolo dei Lumi secondo la quale il calore è una forma di energia
intimamente legata al moto delle particelle meccaniche interne al corpo. Perciò,
distinguendo le due grandezze fisiche calore e temperatura, egli la definì come il
rapporto tra la somma dei piccoli incrementi di calore che a livello microscopico
subiscono le particelle di cui è composta la materia e che si traduce in un aumento
della loro energia cinetica, divisa per la temperatura assoluta durante l’assorbimento
di calore.
I principio della Termodinamica
<< la variazione di DU di energia interna di un sistema è uguale alla quantità totale di calore
Qtot assorbita all’esterno meno il lavoro totale Wtot compiuto dal sistema:
DU= Qtot - Wtot
U. Amaldi (relatore)
II principio della Termodinamica
1) << In ogni processo spontaneo (cioè senza interventi dall’esterno), il calore passa sempre dal
corpo più caldo a quello più freddo >>
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Clausius
2) << È impossibile realizzare una trasformazione il cui UNICO risultato sia quello di assorbire
calore da un serbatoio caldo e di convertirlo COMPLETAMENTE in lavoro meccanico>>
Lord Kelvin (William Thomson)
3) << È impossibile progettare una macchina termica che abbia rendimento uguale a 1>>
U. Amaldi (relatore)
4) << Un sistema isolato, che è stato perturbato, giunge a una nuova condizione di equilibrio
che è quella cui corrisponde il massimo aumento dell’entropia compatibile con il rispetto del
primo principio della termodinamica>>
S(A)-S(B)= Si (dQi/Ti)A B > 0
U. Amaldi (relatore)
5) << Entropia ed esco bagassa >>
C.F. Kane
6) << Se una cosa può andare male stai sicuro che lo farà>>
Legge di Murphy
ENTROPIA (definizione matematica)
L’entropia è considerata come funzione di stato della sola temperatura, cioè una
funzione che dipende solo dallo stato iniziale e da quello finale del sistema e non dal
particolare cammino seguito (idem per l’energia interna).
In quanto funzione continua monotona e crescente della sola temperatura essa
ammette un minimo e un massimo assoluti (teorema di Weierstrass) cui l’universo
converge con continuità.
L’aumento di temperatura è un fattore strutturale dell’Universo. È impossibile
quantificare la temperatura massima a cui tenderà l’Universo dato che non è noto il
legame analitico tra le variabili entropia e temperatura, che nell’intera Termodinamica
si rappresentano come variabili indipendenti.
In definitiva dell’ Universo si conosce lo stato iniziale a entropia nulla, ma non lo stato
finale a cui converge: si sa soltanto che entropia e temperatura saranno massime. La
funzione entropia non da informazioni sul cammino seguito per arrivare allo stato
attuale e tanto meno su quello che seguirà per arrivare allo stato finale. Tuttavia in
base a considerazioni di natura termodinamica è possibile fare un ipotesi sul destino
dell’Universo.
Se l’Universo è un sistema isolato - ossia un sistema che non scambia materia ed
energia con l’esterno – il primo e il secondo principio della Termodinamica possono
essere così riassunti:
<< l’energia totale dell’Universo è costante e l’entropia è in continuo aumento>>
Ciò equivale ad affermare che non si può ne creare ne distruggere l’energia, ma non la
si può trasformare completamente da una forma in un'altra senza che una sua parte
sia dissipata sotto forma di calore.
Infatti ogni volta che una qualsiasi forma di energia è convertita in un’altra, una sua
parte si degrada sotto forma di calore, energia anch’essa ma che non è possibile
reimpiegare per produrre lavoro a meno di impiegare un’altra forma di energia
pregiata. Infine quando l’entropia raggiungerà il massimo livello e non ci sarà più
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energia disponibile per compiere ulteriore lavoro, sarà raggiunto uno stato di
equilibrio. Allora l’Universo concepito come sistema isolato, raggiungerà uno stato di
temperatura uniforme: la cosiddetta morte termica.
L’entropia caratterizza il verso di ogni trasformazione reale inchiodandolo
all’irreversibilità: infatti anche ritornando con le grandezze fisiche: temperatura,
volume, pressione etc., allo stato iniziale una di esse, l’entropia, non assumerà più il
valore di partenza, ma un altro certamente maggiore.
L’entropia è una misura del grado con cui l’energia disponibile in un
qualsiasi sottosistema dell’Universo è trasformata in una forma non
più disponibile per ulteriori trasformazioni.
La
quantità
totale
di
energia
dell’Universo
è
costante
mentre
l’entropia totale è in continuo aumento. Infatti l’energia si trasforma
continuamente attraverso passaggi ciclici il cui prezzo da pagare è
ogni volta la sua degradazione. Ognuno di questi passaggi è più
difficile e impegnativo del precedente e rende necessario l’impiego
di sempre maggiori quantità di lavoro per supplire all’inefficienza
delle trasformazioni. Ogni miglioramento dell’efficienza determinato
dall’uso di nuove tecnologie agisce sulla accelerazione del flusso
energetico affrettando il processo complessivo di dissipazione del
lavoro e di aumento del disordine.
Il calore è una forma di energia e quando la sua temperatura è tale
da rendere impossibile il suo passaggio per assenza di un serbatoio
a temperatura inferiore, ogni trasformazione è inibita e perciò
quell’energia degradata.
Quando
l’Universo
avrà
una temperatura
costante vorrà dire che tutta l’energia è degradata sotto forma di
calore e subirà la cosiddetta morte termica.
In definitiva il secondo principio della termodinamica sancisce
un’ineluttabile asimmetria nella trasformazione dell’energia cioè nel
motore
dell’Universo:
tutta
l’energia
meccanica
può
essere
interamente trasformata in calore, ma il calore, che pure è una forma
di energia, non può essere totalmente trasformato in calore senza
intervenire con l’impiego di altra energia pregiata. E ciò si traduce
come detto in un evitabile aumento di entropia vale a dire… di
disordine… degradazione.
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Avevano voglia gli antichi studiosi di cercare la macchina per il
moto perpetuo: non esiste perche il II principio lo vieta.
E che dire delle automobili che ogni giorno usiamo allegramente: un
motore a ciclo termico tipo Otto o Diesel, anche il più moderno e
sofisticato, non supera un rendimento pari a 0.4, vale a dire: 40 %! Cosa
vuol dire? Significa che su cento parti di energia pregiata, la
benzina o il gasolio, che immettiamo nel ciclo a malapena 40 sono
destinate a produrre il lavoro utile per il quale l’auto è costruita,
cioè il moto. La restante parte, 60, è trasformata sotto forma di
calore che non si può più reimpiegare per compiere il lavoro utile.
Al massimo si può impiegarla per riscaldare. In effetto l’automobile è
ottima come stufa: se così si considera, rinunciando all’accessoria
prerogativa del trasporto di persone e oggetti, potrà raggiungere un
rendimento pari a 1. Cioè 100%! Cento parti di energia pregiata =
cento parti energia sotto forma di calore! Per riscaldare i nostri
freddi inverni.
A rigore Amedeo potrebbe mettere la sua bella macchina nel suo
salotto,
collegare
scaldare
la
casa
lo
scappamento
producendo
all’esterno
così meno
con
entropia
un
di
tubo,
per
quella
che
solitamente produce. Anzi sai cosa ti dico Amedè: è una cosa che
dovresti fare dato che scrivendo questo libro ne hai già prodotto
oltremisura!
A
questo
punto
l’allievo
bravo
o
l’uditore
attento
potrebbe
obbiettare: ma se usassimo motori elettrici per muoverci potremmo
arrivare a un rendimento pari a 0.99 cioè 99%! Su cento parti di
energia
pregiata,
quella
elettrica,
novantanove
si
possono
trasformare in lavoro utile per il movimento e solo una in calore!
Vero? Il sistema auto-ambiente ove la trasformazione avviene è a
bassa entropia, ma siamo sicuri che il sistema centrale di produzione
dell’energia elettrica-ambiente lo sia altrettanto? Che dire poi del
sistema preposto al trasporto dell’energia elettrica? Il vero sistema
in cui avvengono le trasformazioni è il coniugio dei tre: la II legge
condanna
questo
sistema
ad
avere
un
differenziale
entropico
positivo. Non c’è niente da fare.
Questa legge permea talmente il mondo fisico come lo conosciamo da
condizionarne profondamente ogni sua manifestazione.
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Basti pensare al principio di indeterminazione di Heisenberg: non può
essere visto come una ulteriore zampata della tigre entropica? Una
specie di II principio per la fisica quantistica? E il principio di
indecidibilità di Godel non può forse assimilato come un colpo di
coda del tirannosauro entropico? Una specie di II principio per la
matematica?
Si pensi alla Medicina poi. Si potrà un giorno trovare un vaccino
per il cancro o la malattia è una beffarda propaggine del secondo
principio? In effetto la cellula tumorale, con quelle sue propaggini
che la fanno assomigliare a un granchio, ben rappresenta o no la
tendenza al un disordine metastatico unidirezionale?
E dell’economia cosa si vuol dire? O se gli economisti e i governanti
conoscessero il II principio della termodinamica! Non ci troveremmo
in
un
sistema
fondato
sulla
sperequazione
ove
lo
spartiacque
entropico è scientificamente posto tra il crinale della ricchezza e
quello della povertà: peccato che le rovinose frane entropiche cui è
inevitabilmente sottoposta l’economia avvengono sempre dalla stessa
parte.
La nostra stessa vita quotidiana riporta gli echi di una condizione
a forte connotazione entropica: si pensi ai detti che la saggezza
popolare ha creato e tramandato ai posteri! Ne cito alcuni di cui
faccio collezione:
<< A su thoppu s’ispina >> trad.= allo zoppo la spina.
<< La felicità di ognuno è fondato sull’infelicità di un altro >>
<< A pensare male non si sbaglia >>… et coetera
Qualche burlone aggiunge:
<< Una volta che hai tolto i vermi da una scatola, per contenerli hai
bisogno di una scatola più grande >>
<< Se una cosa può andar male, lo farà >> la famosa legge di Murphy
<< Murphy era un ottimista >> corollario di O’toole della legge di
Murphy
<< Se sei di buon umore, non ti preoccupare. Ti passerà >> postulato
di Boling
<< 1) non puoi vincere 2) non puoi pareggiare 3) non puoi nemmeno
abbandonare >> teorema di Ginsberg… et coetera, et coetera.
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C’è un ambito ove però la legge sembra non essere valida: quello
degli organismi viventi. Philip Dick rimase talmente affascinato da
una
tale
possibilità
da
indagare
e
sviluppare
i
concetti
di
omeòstasi e retroazione dinamica.
NEG-ENTROPIA
Nel
capitolo
IX
di
L’androide
Abramo
Lincoln,
Maury
cita
le
“tartarughe” del ricercatore inglese W. Grey Walter definendole un
sistema omeostatico cioè secondo le parole dell’autore: << un sistema
che … separato dall’ambiente circostante, produce risposte proprie .
È come una fabbrica completamente automatizzata che si ripara da
sola>>. Nel medesimo capitolo Dick tenta di definire il termine
“retroazione”.
Anche
in
L’androide
e
l’umano
è
riproposto
un
riferimento a W. Grey Walter e in ogni caso l’omeostasi rappresenta
uno dei concetti chiave a partire dal quale Dick sviluppa le sue
storie e uno dei termini più usati nella sua opera.
OMEOSTASI ~ In biologia, la condizione interna di equilibrio degli
organismi animali, che assicura una normale attività biologica delle
cellule e dei tessuti. [Comp. di omeo- e del gr. stásis 'stabilità'].
RETROAZIONE o FEEDBACK ~ In biologia, meccanismo che permette
all'organismo di autoregolare la concentrazione di varie sostanze e
funzioni grazie alla presenza di un regolatore che avverte le
variazioni dalla normalità e invia segnali che attivano processi
compensatori. [Comp. di (to) feed 'alimentare, nutrire' e back 'indietro'].
L’omeòstasi
perpetua
la
vita
tramite
la
retroazione
dinamica:
impossibile non considerare i due concetti come fondanti di una
qualsiasi indagine che riguardi il motore ultimo della vita come la
conosciamo
nel
tentativo
di
comprenderla
intimamente
e
di
riprodurla artificialmente.
Chissà se Philip Dick ebbe modo di leggere i ragionamenti del grande
fisico Erwin Schrödinger parimenti impegnato nel medesimo immane
tentativo di codificare dal punto di vista fisico la vita, al punto
da introdurre una nuova grandezza fisica, la neg-entropia, capace a
suo dire di misurarla la vita. Ecco una sua riflessione:
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<< Qual è l’aspetto caratteristico della vita? Quando è che diciamo
che un pezzo di materia è vivente? Quando esso va facendo qualcosa,
si muove scambia materiali con l’ambiente e così via e ciò per un
periodo di tempo molto più lungo di quanto ci aspetteremmo in
circostanze analoghe da un pezzo di materia inanimata. Quando un
sistema che non è vivente è isolato e posto in un ambiente uniforme,
tutti i movimenti generalmente si estinguono molto rapidamente in
conseguenza delle varie specie di attrito… Si raggiunge uno stato
permanente in cui non avviene più nessun fenomeno osservabile. Il
fisico chiama questo stato lo stato di equilibrio termodinamico o
stato di entropia massima. È proprio questo suo evitare il rapido
decadimento in uno stato inerte di equilibrio, che un organismo
appare così misterioso. Come fa un organismo vivente a evitare
questo decadimento? La risposta è ovvia: mangiando, respirando e,
nel caso delle piante, assimilando. Il termine tecnico è metabolismo.
Il
verbo
greco
corrispondente (metaballein) significa
cambiare
o
scambiare. Qual è allora quel prezioso elemento contenuto nel nostro
cibo che ci preserva dalla morte?
Tutto ciò che avviene in natura, significa un aumento dell’entropia
di quella parte del mondo ove il fatto si verifica. Così un organismo
vivente aumenta continuamente la sua entropia di quella parte del
mondo ove il fatto si verifica. Così un organismo vivente aumenta
continuamente la sua entropia, o, si può anche dire, produce entropia
positiva e tende così ad avvicinarsi allo stato più pericoloso di
entropia massima che è la morte. Esso può tenersi lontano da tale
stato, cioè in vita, solo traendo dal suo ambiente continuamente
entropia negativa. >> Questo concetto è così formalizzato: << Se D è
una misura del disordine il suo reciproco può considerarsi una
misura diretta dell’ordine. Siccome il logaritmo di 1/D è proprio
uguale al logaritmo di D cambiato di segno ln (1/D)= ln1-lnD= 0-lnD,
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possiamo scrivere l’equazione di Boltzmann nel modo seguente: -S=
k·ln(P).
Quindi l’espressione poco soddisfacente di entropia negativa può
sostituirsi mediante una migliore: entropia presa col segno negativo.
È essa stessa una misura dell’ordine. >>
E. Schrödinger
In definitiva il motore della vita negli esseri viventi è l’alta
organizzazione
funzionale
di
innumerevoli
componenti
capaci
di
trarre ordine dal disordine in un bilico continuum di neg-entropia
che diventa entropia, reagendo agli stimoli ambientali, conservando
e reintegrando la propria forma unitaria secondo un processo di
retroazione
dinamica
che
la
Natura
ha
reso
prodigiosamente
automatica con due sole soluzioni di continuità: lo spunto e la fine,
la creazione e la morte.
QUANTI E PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG
La fisica quantistica è forse la branca della Fisica prediletta dallo
scrittore e dalla quale trae spunto per tessere la trama delle sue
straordinarie storie. Come in “L’uomo nell’alto castello” del 1962 ove
si trova un riferimento alla cosiddetta teoria della sincronicità per
la
quale
tutte
le
particelle
sono
collegate
tra
loro
tramite
un’interazione di tipo quantistico. O come in “L’uomo variabile” del
1958
Philip
Dick
interpreta
in
modo
erroneo
il
principio
di
indeterminazione di Heisenberg al punto di affermare:
<<la particella che si muove a caso>>.
Anche in questo accidente, lo scrittore conferma una preparazione
scientifica superficiale, a volte confusa per non dire completamente
erronea.
Affermare infatti come fa, che le particelle si muovono a caso può
dare adito
visione
del
a pericolosi
mondo
fraintendimenti e perciò indurre una
attuale
e
della
sua
possibile
evoluzione
esclusivamente fantastica.
Dick cerca sempre di muovere le fila delle sue storie a partire da
basi scientifiche solide mettendo così a prova la sua capacità
previsionale circa le verosimili evoluzioni in quell’ambito che è
proprio
della
fantascienza.
A
volte
ci
riesce
e
straordinarie dimostrazioni, a volte no.
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ne
abbiamo
Nel
caso
sbaglia
del
Dick?
scrittore
principio
Vale
di indeterminazione
di Heisenberg, dove
pena
l’affermazione
la
riportando
una
di
confutare
brevissima
epitome
sulla
dello
materia
del
contendere, vale a dire la fisica quantistica e sul principio di
indeterminazione di Heisenberg.
All’inizio
dell’Ottocento
lo
scienziato
francese
Pierre-Simon
de
Laplace sosteneva, sulla base soprattutto dei grandiosi studi di
Isaac Newton, che l’Universo fosse completamente deterministico. Egli
era convinto che doveva esserci un insieme di leggi fisiche capaci
di fare predire qualsiasi accadimento futuro dell’Universo a partire
dalla conoscenza di semplici condizioni iniziali.
Tale visione ebbe forti resistenze, non tanto per l’arditezza quanto
per la sua blasfemia di fronte al ruolo di un Dio che da creatore
unico e immarcescibile fautore del destino del Mondo, diventava un
semplice manutentore di ingranaggi.
Era chiaro che in un modo o nell’altro tale teoria non sarebbe
durata e il primo sentore della sua caduta si ebbe quando gli
scienziati
inglesi
lord
Rayleigh
e
sir
James
Jeans,
studiando
l’irraggiamento delle stelle, si resero conto, sulla base delle teorie
deterministiche sino
allora conosciute, i cosiddetti corpi caldi
avrebbero dovuto emettere energia a un ritmo infinito.
Secondo
le
teorie
elettromagnetiche
del
con
tempo
una
essi
dovevano
distribuzione
emettere
uguale
in
onde
tutte
le
frequenze. Per capire meglio… un corpo caldissimo doveva irraggiare
la stessa quantità di energia sotto forma di onde con frequenze
comprese tra 1 e 2 Hertz come tra 1000 e 2000 Hertz o 1000000 e 2000000
Hertz. Poiché il numero di onde elettromagnetiche prodotto ogni
secondo è illimitato, ciò equivaleva ad affermare che l’energia
totale irradiata doveva essere infinita!
Per evitare questo risultato palesemente inammissibile il fisico
tedesco Max Planck teorizzò nel 1900 che la luce, i raggi X e tutte le
onde elettromagnetiche non potessero essere emesse a un ritmo
infinito, ma sotto forma di pacchetti di onde da lui stesso chiamati
QUANTI. Ogni quanto possedeva una certa quantità di energia che era
tanto maggiore quanto più elevata era la frequenza delle onde
cosicché
la
quantità
di
onde
emesse
diventava
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inversamente
proporzionale
alla
frequenza
in
tema
di
garantire
la
finitezza
dell’energia totale.
La teoria dei quanti spiegava bene il ritmo di emissione dell’energia
dei corpi caldi e proiettava la teoria deterministica dell’Universo
in un bilico di incertezza e precarietà.
Il colpo ferale alla teoria deterministica giunse nel 1926 ad opera
del fisico tedesco Werner Heisenberg che proprio in quell’anno
formulo di famoso principio di indeterminazione.
Per potere predire la posizione e la velocità di una particella in
uno stato futuro si doveva essere in grado di misurarne la posizione
e la velocità in uno stato presente. Niente di nuovo e in accordo
con la teoria deterministica!
Ma come si fa a compiere materialmente le operazioni necessarie per
la misurazione? Per conoscere la posizione delle particella si deve
poterla
inviarle
vedere
un
e
fascio
per
di
poterla
luce
che
vedere
occorre
secondo
la
illuminarla
teoria
cioè
quantistica
equivale a una scarica di proiettili quantici. Anche supponendo di
illuminarla con un solo quanto, l’energia associata al quanto stesso
perturberà la velocità
e ne modificherà la celerità in un modo che
non può essere predetto.
Inoltre quanto più esattamente si misura la posizione tanto più
piccola deve essere la lunghezza d’onda della luce usata e perciò
tanto maggiore l’energia di un singolo quanto. La velocità della
particella risulta perciò perturbata di una quantità notevole.
In effetto tanto più la misurazione della posizione della particella
vuole essere precisa, tanto meno precisamente se ne potrà misurare
la velocità e viceversa. Questo notevole limite non dipende dal
modo in cui si cerca di misurare la posizione le grandezze posizione
e velocità della particella o dal tipo di particella stessa. Si può
perciò affermare che il principio di indeterminazione di Heisenberg
è una proprietà fondamentale e ineludibile del mondo.
E si capisce come abbia sancito la fine dell’illusione di avere a che
fare con un modello dell’Universo di tipo deterministico: non è
possibile prevedere con esattezza gli eventi futuri perché non si
può misurare neppure con precisione lo stato presente dell’Universo!
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Sulla
base
del
descritto
principio
Heisenberg
insieme
a
Erwin
Schrödinger e Paul Dirac riscrissero poi la meccanica quantistica
eliminando da essa tutte quelle parti non verificabili per mezzo
dell’osservazione e attribuendo alle particelle, non più posizioni e
velocità separate e ben definite e al contempo inosservabili, ma un
cosiddetto stato quantico combinazione di posizione e velocità.
In altre parole la meccanica quantistica non predice uno stato ben
determinato e definibile dall’osservazione, ma più stati possibili dei
quali è possibile calcolare la probabilità che si verifichino.
E
introduce
ineliminabile
così
nella
elemento
fisica
di
e
nella
causalità
di
scienza
tale
in
generale,
dirompenza
da
un
far
affermare a un suo illustre oppositore: Albert Einstein, che però
aveva contribuito enormemente a crearla tanto da meritarsi per
questo un premio Nobel: <<Dio non gioca a dadi con l’Universo>>.
Quando Dick afferma che la particella si muove a caso è probabile
voglia sottolineare quel carattere di causalità senza affrontare a
fondo la teoria che lo sostiene, semplificando quindi tutta la
questione.
In ogni caso l’immagine di un Dio che in verità ammette l’aleatorietà
del
suo
costrutto
è
così
dissacrante
da
non
poter
non
essere
profondamente dickiana!
MATEMATICA: il segmento aureo
In Radio libera Albemuth, sempre nel capitolo XII, Nicholas parla di
una porta “ le cui proporzioni corrispondevano alle misure che i
greci definivano rettangolo aureo: la forma geometrica perfetta”.
Questa porta è riproposta in Valis nel capitolo XI che riporta la
discussione sull’argomento tra Fat, Mini, Erica e Linda. Attraverso
tale porta si accede all’altro regno.
Gli antichi greci conoscevano bene la sezione aurea al punto da
impiegarla per mano di architetti e scultori, particolarmente per la
costruzione del Partenone. Il matematico statunitense Mark Barr
probabilmente pensava agli antichi fasti quando indicò il numero
aureo con la lettera greca f, forse in onore dello scultore Fidia che
pare lo abbia usato nella realizzazione delle sue opere..
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Il grande Keplero ebbe a dire a proposito: “la geometria ha due
grandi tesori: uno è il teorema di Pitagora l’altro è la divisione di
un segmento in rapporti di estremo medio”.
Gli scrittori rinascimentali poi parlavano del numero aureo come di
una divina proporzione.
Ma in definitiva cos’è la sezione aurea?
Si supponga di considerare un segmento e di dividerlo in due parti
di cui una sia medio proporzionale tra la lunghezza del segmento e
la sua parte restante. La soluzione numerica di questo problema
porta
ad
individuare
f=0.6180
che
tra
l’altro
possiede
una
caratteristica curiosa, unica nel suo genere: l’inverso di tale numero
è uguale allo stesso numero più uno: 1/f= f+1.
Ma la cosa più sorprendente di tale numero è la possibilità di
realizzare, a partire da un rettangolo o da un triangolo avente i
lati in proporzione aurea, la cosiddetta spirale logaritmica. L’unica
tra tutte le spirali che, aumentando o diminuendo non cambia la sua
forma. Fatto questo che spiega perché essa si trovi così spesso in
natura.
Per esempio… man mano che il mollusco contenuto nella conchiglia
del Nautilus cresce, la conchiglia anch’essa cresce secondo una
spirale logaritmica per modo da rimanere una casa sempre della
medesima
forma.
microscopio
Il
centro
apparirebbe
della
spirale
esattamente
in
come
questione
la
spirale
vista
al
che
si
vedrebbe tracciando la curva sino a farla diventare grande quanto
una galassia! Sorprendente!
Siffatta spirale è poi ripresa da Philipo Dick per spiegare la sua
originalissima visione del tempo.
TEMPO
La maggior parte dei numerosi riferimenti al tempo che Philip Dick
fa nella sua opera hanno un carattere meramente metafisico. Ecco un
brano che attesta tale tesi:
<< Dio spiegò molte cose a Fat, ma non gli spiegò mai questo, a parte
per una enigmatica annotazione, che porta il numero 3 nel suo diario:
“Lui
fa
sì
che
le
cose
sembrino
differenti,
per
simulare
il
trascorrere del tempo”. Chi è “lui”? Dobbiamo dedurne che il tempo
in effetti non sia passato? Ed è mai passato? È mai esistito un tempo
vero, e quanto a questo un vero mondo? Oppure abbiamo un tempo
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contraffatto e un mondo contraffatto, come una specie di bolla che
si gonfia e sembra differente, ma in realtà è statica? >>
Per
Philip
Dick
millenovecento
lo
anni,
scorrere
illusorio
del
e
tempo
tale
è
è
parso
stato,
il
per
circa
mondo
in
cui
l’umanità ha creduto di vivere. Perciò il tempo assurge a divenire
uno degli strumenti di falsificazione della realtà. Questo è il senso
del riferimento a Eliade, del “dominio sul tempo”, nel passaggio di
VALIS sopra citato. L’affermazione: “Qui il tempo si tramuta in
spazio” che Dick mutua dal Parsifal di Wagner e che cita più volte
nel romanzo diventa una via per sfuggire alla tirannia del tempo.
E ancora, in un altro brano:
<< Ci sono due tipi di tempo: quello che fonda la nostra esperienza o
percezione o costruzione della matrice ontologica, estensione legata
allo spazio, alla sua inseparabile estensione in un’altra sfera – che è
reale; ma il flusso temporale esterno dell’universo si muove in una
direzione diversa. Sono entrambi reali, ma della nostra esperienza
del tempo – che si pone ortogonalmente rispetto alla reale direzione
del
suo
flusso
– ricaviamo
un’idea
completamente errata
della
sequenza degli eventi, della causalità, di che cosa è passato e che
cosa futuro, di dov’è diretto l’universo. Il tempo in sé non muove dal
nostro passato
al nostro futuro.
Il suo asse
perpendicolare lo
conduce lungo una traiettoria circolare che noi abbiamo percorso
più volte nel freddo e interminabile inverno della nostra specie che
è
già
durato
circa
duemila
anni
del
nostro
tempo
lineare.
Evidentemente, il tempo ortogonale, o tempo vero, scorre un po’ come
il tempo ciclico primitivo, in cui ogni nuovo anno era lo stesso anno,
ogni
raccolto
lo
stesso
raccolto,
ogni
primavera
la
stessa
primavera.>> (Dick 1976, pp. 255, 256)
Cercando di spiegare meglio la sua visione egli, nelle stesse pagine
assimila quello che chiama tempo circolare, ai “solchi di un Lp, che
contengono la musica già suonata e non scompaiono dopo che la
puntina li ha percorsi” e a ulteriore sostegno evoca la figura della
spirale. La combinazione infatti tra il reale fluire circolare del
tempo (i solchi dell’LP che vorticano) e il progredire lineare della
nostra esperienza (la punta della testina che scorre in linea retta
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dall’esterno verso l’interno del disco), produce una spirale che, come
ha fatto notare qualche studioso (Bollini 1998), dovrebbe avere però
uno sviluppo tridimensionale ed essere perciò, come si dice, un’elica
cilindrica. Solo così, mantenendo quella sua immutabilità di forma e
proporzioni,
dall’infinitamente
piccolo
all’infinitamente
grande,
l’elica cilindrica sintetizza la visione del tempo che Philip Dick ha
maturato:
statica
e
dinamica
al
contempo.
Un
tempo
che
solo
apparentemente è dinamico, fluente ma in realtà è statico, sospeso.
Ed è soltanto con la sua sospensione, egli pensa, che si può arrivare
all’essenza del reale, a quelle ch’egli chiama le “nude ossa del
mondo”.
Tuttavia, alla fine dei conti, questo è un tentativo di esegesi del
testo dickiano al quale, come al suo autore, non si può pretendere un
rigore concettuale che del resto non potrebbe neanche avere per
formazione e probabilmente anche per scopo. Infatti la concezione
del tempo che Philip Dick propone è soltanto un’istanza di redenzione
dell’uomo, una nemesi e catarsi nei confronti di una realtà giudicata
avvilente e illusoria.
È come accennato una questione più metafisica che fisica, ma senza
dubbio la più significativa che riguarda il tempo. Peraltro non si
può affermare che Philip Dick nella sua opera non indulga verso
quelle
interpretazioni
tipiche
della
fantascienza,
improbabili,
ingenue e labilmente fondate secondo scienza, come i viaggi nel
tempo ch’egli propone in Il dottor futuro, nel’Illusione del potere,
nel’Il
sognatore
d’armi.
Mentre
più
interessanti
appaiono
i
riferimenti al rallentamento del fluire del tempo raccontato in Noi
marziani,
le
regressioni
temporali
di
Ubik
e,
in
particolare,
il
paradossale rovesciamento del processo biologico della vita di In
senso inverso.
Nel romanzo Ubik i moderni videotelefoni diventano vecchi telefoni
di bachelite, i razzi si trasformano in aerei a elica, le automobili
assumono le antiche forme degli anni Venti ( un’auto moderna diventa
una LaSalle del 1939 e poi una Ford T del 1929), i giornali recano la
notizia che i francesi hanno sfondato la linea Sigfrido.
Pensando all’entropia, sarebbe come se i cocci di una scodella rotta
spontaneamente si ricomponessero a restituirle la pristina forma.
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Al contrario del kipple che era l’effetto entropico di logoramento
del tempo, la misteriosa essenza di nome Ubik è l’unico antidoto a un
mondo in cui l’entropia fa inesorabilmente il suo corso.
Nel romanzo In senso inverso un inspiegato fenomeno naturale, la
Fase di Hobart, inverte la direzione del tempo dei fenomeni biologici
per la qual cosa la gente invece di invecchiare ringiovanisce e i
morti ritornano in vita e chiedono di essere dissotterrati. Questa
surreale inversione del ciclo vitale ha come immediata conseguenza
il
ritorno
dei
defunti.
Ovviamente
ciò
ha
effetti
piuttosto
interessanti sulla società dato che nel normale incedere del tempo
nessuno può sapere se un nuovo nato sarà uno scienziato, un poeta
di successo, una persona ordinaria oppure un feroce assassino. Ma nel
mondo della Fase di Hobart si può prevedere chi sta per tornare in
vita e ovviamente si può sapere se le sue azione saranno votate al
bene o al male.
La possibilità di inversione è assai affascinante, ma pone questioni
di natura fisica altrettanto interessanti.
Sino all’inizio del ventesimo secolo si credeva che il tempo fosse
assoluto: qualsiasi orologio posto in qualsiasi parte dell’universo
avrebbe
concordato
con
un
altro
sull’intervallo
di
tempo
intercorrente tra due eventi.
La scoperta che la velocità della luce appare la stessa a ogni
osservatore, in qualsiasi modo si stia muovendo, condusse Albert
Einstein a formulare la teoria della relatività
e ad abbandonare
definitivamente l’idea di un tempo assoluto. Orologi uguali portati
da differenti osservatori non concorderebbero tra loro nel misurare
ad esempio il lasso di tempo tra un evento e un altro. Il tempo
allora divenne un concetto soggettivo, relativo cioè all’osservatore
che lo sta misurando.
I successivi sviluppi della Meccanica quantistica e il tentativo di
unificazione
con
la
teoria
della
gravitazione,
portarono
all’introduzione del tempo immaginario. Il tempo immaginario non fa
distinzione tra la direzione in avanti e quella indietro al contrario
del tempo reale per il quale, come ognuno di noi sa fin troppo bene,
esiste una grandissima differenza tra il prima, l’ora e il dopo.
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La domanda da porsi a questo punto è: da dove nasce la differenza
tra passato e futuro?
Le leggi della Fisica che governano il comportamento della materia
non distinguono tra passato e futuro: la simmetria C attesta infatti
la
possibilità
di
scambiare
particelle
con
antiparticelle,
la
simmetria P di scambiare la destra con la sinistra, assumendo cioè un
l’immagine speculare e la simmetria T consente di invertire il moto
delle particelle all’indietro. Secondo tale visione la vita in un
ipotetico
mondo
composto
di
antimateria
sarebbe
identica
alla
nostra anche se speculare.
Tuttavia la legge fondamentale della fisica, quella additata da
Einstein per essere la più importante, rompe per così dire le uova
nel paniere. Il secondo principio della termodinamica infatti vieta
che i cocci si ricompongano spontaneamente a riformare la tazza
rotta. In ogni sistema chiuso l’entropia (disordine) aumenta col tempo:
DS>0. L’aumento dell’entropia e quindi del disordine col tempo è un
esempio della cosiddetta freccia del tempo, qualcosa che consente
di stabilire il prima e il dopo, di distinguere il passato dal futuro.
In effetto esistono, come ha affermato il compianto Stephen Hawking,
tre frecce del tempo:
o La freccia termodinamica secondo la quale il tempo progredisce
nella direzione in cui aumenta il disordine o l’entropia;
o La freccia psicologica secondo la quale sentiamo che il tempo
passa, in quella direzione in cui ricordiamo il passato e non il
futuro;
o La freccia cosmologica secondo la quale il tempo fluisce nella
stessa direzione secondo la quale l’Universo si sta espandendo.
La freccia del tempo termodinamica deriva dalla seconda legge della
termodinamica che, come detto, stabilisce che gli stati disordinati
sono maggiori di quelli ordinati. Basti pensare, come propone lo
stesso Hawking, ad una scatola contenente i pezzi di un puzzle. Esiste
soltanto una configurazione per la quale i pezzi formano una figura
completa, per contro ne esistono innumerevoli in cui i pezzi sono
disordinati e non compongono la figura. E immaginando che lo stato
iniziale sia quello dei pezzi ordinatamente disposti a formare la
figura, scuotendo poi la scatola i pezzi si disporranno in una nuova
configurazione. Scuotendo ancora assumeranno un’altra configurazione
in generale diversa dalla prima e così via col passare del tempo.
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Potrà accadere che qualche porzione della figura si ricomponga o
addirittura, se il numero di prove sarà sufficientemente grande, che
l’intera figura riappaia alla vista aprendo la scatola,. In ogni caso
la probabilità che, al trascorrere del tempo, si ottengano stati
disordinati rispetto all’unico ordinato è infinitamente più grande. La
freccia del tempo termodinamica sancisce quindi l’ineluttabilità del
legame
tra
stabilisce
il
fluire
banalmente
del
la
tempo
nostra
e
l’aumentare
condanna
di
dell’entropia
misurare
il
e
tempo
proprio nella direzione in cui aumenta il disordine. In tal senso la
freccia
termodinamica
e
psicologica
del
tempo
sostanzialmente
coincidono puntando nella stessa direzione.
La
questione
complicata,
della
freccia
può
essere
ma
del
tempo
spiegata
cosmologica
impiegando
appare
il
più
cosiddetto
principio antropico debole. Esso afferma che in un Universo infinito
nello spazio e nel tempo, le condizioni necessarie per lo sviluppo
della vita intelligente potranno trovarsi soltanto in certe regioni
limitate nello spazio e nel tempo. In base a tale principio se
accettiamo che l’Universo che conosciamo sia stato originato dal Big
Bang dobbiamo ammettere che tale evento abbia avuto luogo da
qualche parte circa dieci miliardi di anni fa perché pressappoco
questo
è
il
tempo
necessario
per
l’evoluzione
degli
esseri
intelligenti. A tale principio se ne contrappone una versione forte
secondo la quale è data la possibilità di esistenza di molti universi
differenti in una regione dello spazio, ciascuno con la propria
configurazione iniziale e le proprie leggi fisiche. Solo in alcuni di
questi universi le condizioni per lo sviluppo di una forma di vita
capace
di
porsi
la
domanda:
“perché
l’Universo
è
così
come lo
vediamo?” sarebbero possibili. Semplicemente perché se l’universo
fosse stato differente, noi non saremmo qui.
La domanda da porsi è: perché la freccia termodinamica e quella
cosmologica aumentano nella stessa direzione? Vale a dire: perché il
disordine aumenta nella stessa direzione secondo cui l’Universo si
espande? La risposta è che se si ipotizzasse il contrario, cioè la
diminuzione dell’entropia col procedere dell’espansione, si dovrebbe
anche negare la possibilità
di
sviluppo
di una forma di vita
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intelligente come la nostra capace di porsi le su scritte domande
(principio antropico debole). Infatti per sopravvivere gli esseri
umani devono consumare cibo, che è una forma ordinata di cibo e
convertirlo
degradata.
in
calore
Perciò
che
se
è
una
freccia
forma
di
termodinamica
energia
e
disordinata,
cosmologica
non
avessero la medesima direzione la vita intelligente non potrebbe
esistere.
E
non
potrebbe
neanche
in
un
ipotetica
fase
di
contrazione
dell’Universo. Se si pensasse infatti all’eventualità di inversione
della freccia del tempo per modo che riuscissimo a ricordare il
futuro, ma non il passato, la si dovrebbe respingere per lo stesso
principio
antropico
enunciato.
Anche
nella
fase
di
contrazione
l’esistenza di una forma di vita intelligente come la nostra potrebbe
darsi solo se il secondo principio della termodinamica continuasse a
valere obbligandoci a misurare il tempo nella direzione in cui
l’entropia continuerebbe ad aumentare.
In definitiva le tre frecce del tempo proposte da Stephen Hawking
devono avere la medesima direzione fatto questo che attesta la
totale infondatezza degli eventi descritti da Philip Dick nel suo
romanzo
In
affascinante,
senso
ma
inverso.
da
La
possibilità
ascriversi
evocata
completamente
nel
rimane
certo
campo
della
fantascienza.
Conclusione
<<Siediti da sultano tra le lune di Saturno e considera, con alta
astrazione, l’uomo da solo: ti sembrerà qualcosa di grandioso, mirabile,
dolente.
Considera
sembrerà quasi
ora
sempre
dallo
un’
stesso
accozzaglia
punto
di
l’umanità intera:
inutili
duplicati
ti
sia
contemporanei che ereditari.>>
Dal capitolo n. 107 intitolato “Il carpentiere” dal libro Moby Dick
Herman Melville.
Philip Dick per tutta la sua tormentata vita ha cercato di non
essere un semplice duplicato, ma ha lottato con tutte le sue forze
per
raggiungere quei livelli di grandiosità e meraviglia, senza
potersi sottrarre al dolore intimamente connesso al carattere e
all'indole di ogni animo sensibile, che lo rendono unico e irripetibile
nella storia della letteratura.
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Inoltre l’opera di Philip Dick non è mai insignificante e raramente
indulge alla felicità, è infatti dolente… di un dolore vero ma
proficuo, capace sempre di stimolare la riflessione profonda e, in
qualche modo, di prefigurare il nostro comune destino.
Ben lo afferma Amedeo Spagnuolo spiegando perché spesso Philip Dick
ritragga nei suoi romanzi, gli emarginati :
<< … perché sono i soli che grazie alle loro sofferenze sono in grado
di
percepire
in
maniera
non
superficiale
quelle
manifestazioni
dell’essere che sugli altri individui scivolano via senza lasciare
alcun segno.>>
Curioso che lui e il Leviatano descritto da Melville abbiano lo
stesso
nome!
Certo
abbandonando
per
solo
è
un attimo
una
mera
il
nostro
coincidenza,
capace
però,
carattere illuminista,
di
rievocare quell’ancestrale omen nomen (destino nel nome) che almeno
offre la stura per divagare, per fantasticare.
Infatti…
se
si
volesse
forzare
il
paragone
o
trovare
qualche
attinenza tra la vita e le opere di Philip Dick e Moby Dick di
Melville, si potrebbe scorgere in lui un moderno capitano Achab che
lotta sino allo morte contro il Leviatano appunto. Che ora è quel
gigantesco e voracissimo mostro acquatico della tradizione biblica,
che è stato assunto dal filosofo Thomas Hobbes (1588-1679) a simbolo
dell'onnipotenza dello Stato nei confronti dell'individuo o del potere
in
senso
lato.
l’inaridimento
Che
poi
propri
di
è
l’entropia
una
tragedia
disgregante,
il
termodinamica,
logorio,
in
cui
l’universo non può sopravvivere dato che si avvia verso una lenta e
inesorabile morte termica. Che ancora è il consumismo e l’alienazione
che
ne
derivano.
Che
è
il
male
metafisico.
Che
è
il
dolore
dell’esistenza.
In un orda di pessimismo
cosmico
lo stesso
Achab di Melville
pensava che …
<<…anche le più sublimi felicità terrene portano in se una certa
meschinità insignificante, mentre in fondo tutti i dolori veri hanno
un significato e in alcuni uomini una grandezza da arcangeli>>.
E pure Amedeo Spagnuolo fa notare:
<<…la sofferenza consente all’uomo di cogliere la vera natura della
realtà che si caratterizza, nel pensiero dickiano, come una dimensione
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priva di qualsiasi logica nella quale l’uomo è gettato e abbandonato
crudelmente al proprio destino >>.
Da qui la cupezza e il senso di sconfitta che spesso caratterizza
l’arte di Philip Dick, così pregna di dolore da costringere Amedeo
Spagnuolo a dedicare un paragrafo del suo saggio alla ricerca di
uno squarcio di ottimismo. Più che squarcio appare come una sottile
fenditura dato che soltanto in due dei suoi scritti penetra la luce:
un’epifania della speranza, inattesa certo ma votata alla redenzione.
<< …la vita di per sé, è una cosa buona, qualunque sia la forma che
assume. Nel caso di Edie, poi, non c’era particolare sofferenza, né
crudeltà o dolore, anzi, soltanto tenerezza e sollecitudine>> (da
Cronache del dopobomba).
<< …sentiva sua moglie in cucina, sapeva che la bambina era accanto
a lui, e questa per lui era la felicià>> (da In terra ostile).
Che il falco sia diventato allocco? Che Philip Dick si sia rammollito
in guisa di emulo di Tolstoj in Felicità familiare?
No. Certo. Ma del fatto che ci sia bisogno di almeno uno spiraglio di
luce nel comune tormentato destino pure Philip Dick non ha potuto
fare a meno di fare i conti.
Tutti, nessuno escluso, vorrebbero un finale rassicurante nel film
della propria vita. Ricordate il primo epilogo di Blade Runner?
Tutta quella luce dopo il buio e l’incessante pioggia: uno spezzone
dell’inizio di Shining di Stanley Kubrick raccattato in fretta e furia
dagli sceneggiatori Hampton Francher e David Peoples per dare
adito
infine, a una flebile speranza, dopo
le manifestazioni di
scoramento dei primi astanti.
Se ha qualche valore il raffronto, lo stesso finale di Moby Dick è una
chiara breccia nell’immane tragedia di distruzione e morte a seguito
della lotta di Achab e del suo equipaggio contro la balena bianca:
Ismaele è salvo aggrappato alla cassa da morto-salvagente che
Queequeg aveva così ben manufatto e… << …il secondo giorno una
vela mi venne vicina, sempre più vicina e mi raccolse alla fine. Era
la Rachele che andava bordeggiando e che nel rifare la sua rotta in
cerca di figli perduti trovò un altro suo orfano>>.
Ogni orfano della sua vita in fondo spera in una Rachele che lo
vada a salvare.
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Philip Dick ha indulto appena a questo ipotetico assioma, ma è
rimasto falco e come Achab non è riuscito a uccidere il Leviatano.
Indomito e invitto. Perciò il vero orfano che resiste in un oceano di
indifferenza e decadenza, aggrappato alla bara che, per sottile
ironia del destino, è comunque simulacro di morte, un memento mori,
non è Philip Dick, ma il suo lascito. E noi oggi molto modestamente
siamo la Rachele.
<< E sono scampato io solo per informartene>> Giobbe
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