BIBLIOTECA CISTERCENSE
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VERCELLESE
COME ARRIVARE
Da Torino: autostrada A4 Torino-Milano, uscita
Chivasso est. Immettersi sul raccordo per Verolengo, alla
rotatoria terminale proseguire per Crescentino e Vercelli.
Dopo circa 19 km, all’incrocio di frazione
Castell’Apertole, girare a destra in direzione Trino. Dopo
circa 5 km, alla rotatoria, si trova l’indicazione per
Lucedio, sulla sinistra; proseguendo sempre diritto, dopo
circa 3 km, si trova Lucedio (distanza 60 km circa).
Da Milano: autostrada A4 Milano-Torino; immettersi
sulla A26, a Biandrate, in direzione Alessandria-Genova;
dopo 25 km imboccare il raccordo per Santhià;
dopo 7 km uscire a Vercelli ovest; alla rotatoria seguire
per Crescentino-Torino; dopo circa 13 km un cartello
indica per Lucedio, sulla sinistra; dopo circa 3 km si
trova Lucedio (distanza 80 km circa).
Da Genova: autostrada A26 direzione Gravellona;
superata l’uscita di Casale nord, imboccare il raccordo
per Santhià e dopo 7 km uscire a Vercelli ovest; alla
rotatoria seguire per Crescentino-Torino; percorsi circa
13 km si trova l’indicazione per Lucedio, sulla sinistra;
dopo circa 3 km si trova Lucedio (distanza 115 km
circa).
GENOVA
TRINO
Progetto grafico e redazione
Sagep Editori
Testi a cura della Provincia di Vercelli
Chiara Nutolo
Giorgio Gaietta
Andrea Megna
Paoletta Picco
Raffaella Rolfo
Referenze fotografiche
R. Malerba: p. 1
Archivio Storico Ordine Mauriziano: pp. 2-3 (in alto)
M. Carenzi: pp. 4-5
Archivio Segreto Vaticano: p. 6
Emanuela Patrucco - Gruppo Fotografico F. Negri: p. 7
Archivio Fotografico Fondazione Torino Musei: p. 10
Archivio di Stato di Torino: p. 14 (in alto)
Archivio Fotografico della Provincia di Vercelli:
pp. 2-3 (in basso), 8-9, 11/24
www.abbaziadilucedio.it
Abbazia di Lucedio
Segreteria presso Provincia di Vercelli
Via San Cristoforo, 3 - 13100 Vercelli
Tel. 0161 590262
[email protected]
Visite guidate su prenotazione
(1a domenica di ogni mese: inizio prima visita ore 9:00,
termine ultima visita ore 12:00)
euro 4,00 (i.i.)
Abbazia di
Santa Maria
di Lucedio
1
La fondazione
dell’abbazia
l marchese Ranieri del
Monferrato, della dinastia
degli Aleramici, agli inizi
del XII secolo donò una
vasta porzione dei territori
di sua proprietà ad un
gruppo di monaci cistercensi
provenienti dalla Francia.
Essi si insediarono nei pressi
dell’antica Silva de Loceio,
un’ampia area della foresta
planiziale che ricoprì per
secoli la pianura vercellese,
ed ivi fondarono nel 1123
l’omonima abbazia dedicata
a Santa Maria, filiazione del
monastero di La Fertè in
Borgogna. La nuova
fondazione sorse sui terreni
che nell’Alto Medioevo
I
appartennero alla corte
Auriola: il vasto feudo che
l’imperatore carolingio
Lotario diede in dono alla
signoria fondiaria degli
Aleramici, nel X secolo, e
che oggi coincide con il
territorio compreso tra i
Comuni di Trino Vercellese,
Fontanetto Po e Livorno
Ferraris. I primi monaci
iniziarono una capillare
opera di disboscamento della
foresta e di bonifica dei
terreni paludosi circostanti
l’abbazia, per poterli mettere
a coltura. La tradizione
attribuisce ai monaci
cistercensi di Lucedio il
merito di aver introdotto e
diffuso, nel Quattrocento, la
coltura del riso nel
Vercellese.
Abbazia di Lucedio:
veduta aerea (1980).
2 La storia
3
Aleramici e Paleologi
Cistercensi
La dinastia degli Aleramici fu
fondata dal mitico Aleramo, le
cui origini sono ancora avvolte
nel mistero: la casata potrebbe
discendere da Arduino il Glabro
o dai Signori del Kent. È certo
che presso la corte
dell’imperatore Ottone I,
Aleramo ricoprì un ruolo
importante, diventando nel 967
funzionario imperiale e
marchese di un vasto territorio
compreso tra Acqui Terme e
Savona. Alla morte del
capostipite le terre furono
spartite tra i vari rami della
famiglia. Al ramo dei marchesi
del Monferrato appartenne
Ranieri, quarto successore di
Aleramo e colui che concesse la
fondazione dell’abbazia di
Lucedio. Nell’arco di due secoli
il potere degli Aleramici
aumentò a tal punto da
diventare la principale dinastia
feudale del Piemonte
meridionale. La figlia
dell’ultimo marchese aleramico,
Giovanni I morto nel 1305,
sposò l’imperatore bizantino
Andronico II Paleologo: il figlio
Teodoro I salì sul trono del
Monferrato, dando inizio alla
dominazione paleologa.
Nel 1098 Roberto, abate di
Molesme, fondò un convento nella
Francia orientale, a Citeaux, dando
inizio al nuovo ordine religioso,
che si consolidò definitivamente
attraverso l’opera di San Bernardo,
fondatore dell’abbazia di Clairvaux
(1090-1153). L’osservanza rigida
dell’originaria regola monastica
dettata da San Benedetto fu la
finalità del movimento:
perseguirono un ideale di vita
comunitaria, affiancando alle
attività spirituali e culturali il
lavoro manuale. Ogni monastero
godeva di autonomia e doveva
essere guidato da un abate. La
Regola imponeva la fondazione
dei monasteri in zone paludose o
deserte, che venivano bonificate
dal lavoro dei monaci e dei
conversi. Affidare un territorio
incolto ad una comunità
monastica era un investimento
economico. La conduzione
cistercense era all’avanguardia: le
terre erano direttamente condotte
dall’abate, attraverso
un’amministrazione razionale del
territorio, che si avvaleva di una
struttura produttiva esterna al
monastero costituita da tante
unità agricole, le cosiddette
grange. L’amministrazione dei beni
era affidata al cellerario; a capo di
ogni grangia era posto un
grangiere; i conversi lavoravano e
vivevano con i monaci, mentre i
famigli risiedevano nelle grange. Il
periodo di massima fioritura dei
centri monastici copre i secoli XII
e XIII.
L’affermazione
dell’abbazia e l’età
fiorente
n una patente di
immunità redatta per
volere del Barbarossa,
datata 1159, sono citati i
nomi di tre grange di
proprietà dell’abbazia di
Lucedio: Montarolo,
Ramezzana e Pobietto. Fu a
Lucedio che i cistercensi
perfezionarono, nel corso del
XII secolo, il sistema agricolo
delle “grange”, destinato a
resistere per secoli: la
I
grangia, l’unità agricola in
cui venivano divisi i terreni
dell’abbazia, poteva
raggiungere anche le 1000
giornate (corrispondenti a
circa 382 ettari). Tra le
grange lucediesi, che
diventarono importanti poli
economici alla base della
ricchezza e della conseguente
potenza dell’abbazia, si
annoverano quelle di Leri,
Darola, Montarolo,
Montarucco e Ramezzana,
oltre a quella di Lucedio
afferente al monastero:
ancora oggi, dopo nove
secoli, fiorenti aziende
risicole private. Attraverso il
sistema delle grange, l’abate
di Lucedio poteva controllare
direttamente le terre di sua
dipendenza, pianificando il
sistema produttivo e
razionalizzando le colture.
Questo efficiente sistema
economico permise ben
presto di acquisire terre e
proprietà anche in zone
molto più lontane: ne sono
un esempio la grangia di
Pobietto a sud di Trino,
quella di Gaiano sulle colline
monferrine, quella di Gazzo
in territorio alessandrino, a
cui si aggiunsero dei
possedimenti a Moncalvo, a
Casale e a Chivasso. La
possibilità di fondare nuove
comunità monastiche non
solo in Italia, come a
Castagnole di Senigallia e a
Rivalta Scrivia (1180), ma
anche in Oriente, ad
Antiochia e a Salonicco, è
indice di come l’abbazia di
Lucedio fosse diventata in
breve tempo un centro di
potere economico e politico,
che si consolidò durante
tutto il XIII secolo.
Territorio di Lucedio con
indicazioni confinarie.
Particolare: l’abbazia (Vincenzo
Scapitta, 1716). Archivio Storico
dell’Ordine Mauriziano, Mappe e
cabrei, Lucedio, 42 (doc. n. 60).
Abbazia di Lucedio: lato sud
(2004).
4 La storia
5
La crisi e il declino
dell’abbazia
primi segni della crisi
comparvero sin dall’inizio del
Trecento, quando gli abati di
quel periodo si trovarono costretti
a chiedere denaro in prestito e ad
affittare alcune delle loro proprietà
per poter far fronte alle spese. Due
furono le cause della crisi
economica che investì un gran
numero di abbazie, tra cui
Lucedio: l’aumento demografico e
l’interessamento da parte della
Chiesa verso nuovi ordini religiosi,
che comportò la diminuzione del
numero dei monaci e dei
conversi, figure fondamentali per
la gestione delle grange. Sull’onda
I
di tali profonde
trasformazioni, nel 1457,
l’abbazia di Lucedio venne
trasformata in commenda da
papa Callisto III e venne
affidata a Teodoro Paleologo,
figlio del marchese del
Monferrato Giovanni
Giacomo Paleologo e di
Giovanna di Savoia. Da quel
momento due figure distinte
si occuparono della gestione
del monastero: l’abate
commendatario, che si
occupava dell’intero
patrimonio terriero,
godendone i frutti, e l’abate
claustrale, che continuò ad
esercitare la giurisdizione
spirituale e a gestire la
grangia di Lucedio, per il
sostentamento dei monaci.
L’autonomia e l’indipendenza
che caratterizzarono l’abbazia
furono del tutto
compromesse, così come la
disciplina e i costumi
monastici, e le proprietà
abbaziali entrarono a far
parte del patrimonio
personale dell’abate
commendatario. Sempre
esponente di potenti famiglie,
egli affidò la gestione della
commenda ad un procuratore
generale, che a sua volta
affittò le grange a fittavoli:
quel tipo di controllo diretto
si frantumò nel corso del XVI
secolo. All’inizio del Seicento,
quando proprietaria
dell’abbazia di Lucedio era la
nobile famiglia dei Gonzaga,
si delineò una nuova
tendenza nel modo di gestire
i beni della commenda:
comparve la figura del
grande fittavolo, a cui veniva
dato in affitto l’insieme dei
beni. In quel periodo i
monaci cistercensi erano
ancora presenti nel
monastero, ma senza alcun
potere in ambito
amministrativo. Nel 1607,
papa Paolo V cercò di ridare
voce ai pochi religiosi rimasti,
comprendendo l’abbazia di
Lucedio nella Congregazione
cistercense di Lombardia.
Il Beato Oglerio
Oglerio nacque intorno all’anno
1136 a Trino Vercellese. Entrò
come studente nella vicina
abbazia di Lucedio in giovane
età. Nel 1153 prese i voti e dal
1184 accompagnò l’abate di
Lucedio, Pietro II, in numerose
missioni. Importanti incarichi gli
furono affidati da quando, nel
1205, diventò abate dell’abbazia
di Lucedio: il marchese Guglielmo
VI del Monferrato mandò Oglerio
in missione dall’imperatore
Corrado e dal re di Francia Luigi
VII; papa Innocenzo III lo scelse
come arbitro nelle più disparate
controversie. Oglerio lasciò il suo
prezioso insegnamento spirituale
in pregevoli scritti, per secoli
attribuiti a San Bernardo. Morì
nel 1214 e fu seppellito nel suo
monastero.
Ingresso della sala capitolare
(2004).
6 La storia
7
Il Principato di
Lucedio
opo la caduta
dell’impero
napoleonico, le sette
grange di proprietà del
principe Borghese furono
vendute nel 1818 ad una
società composta dal
marchese Michele Giuseppe
Benso di Cavour, dal
marchese Carlo Giovanni
Gozzani da San Giorgio e da
Luigi Festa. Quando pochi
anni dopo la società si sciolse,
i beni vennero suddivisi. Nella
prima metà dell’Ottocento, si
verificò la trasformazione più
grande e sostanziale nella
storia di Lucedio: tutti i beni
furono smembrati e divisi tra
ricchi proprietari, che
svilupparono delle grandi
aziende agricole basate, per la
prima volta, sulla conduzione
diretta e privata. Il marchese
Carlo Giovanni Gozzani lasciò
la grangia di Lucedio in
eredità al nipote Felice Carlo
Gozzani, il quale sperperò
D
Savoia e Gonzaga
Nel 1431 i Paleologi furono
sconfitti in guerra da Amedeo VIII
di Savoia, che ottenne tutti i
territori alla sinistra del Po. Anche
l’abbazia di Lucedio entrò sotto
l’influenza e la protezione del duca
di Savoia, anche se non sotto il
dominio diretto, che rimase in
mano dei marchesi del Monferrato,
divenuti così vassalli dei Savoia. Gli
ultimi marchesi del Monferrato per
evitare che i loro territori venissero
occupati dai Savoia o dalla Francia,
strinsero un forte legame con i
Gonzaga: nel 1533 il duca Federico
II Gonzaga sposò Margherita
Paleologo e il marchesato del
Monferrato passò sotto il controllo
della potente casata. Alla morte del
duca, nel 1540, suo fratello, il
cardinale Ercole Gonzaga, affiancò
la duchessa Margherita nella
reggenza del Monferrato. In quegli
anni, proprio Ercole Gonzaga, il
cardinale che partecipò come
legato al Concilio di Trento, fu
anche abate commendatario
dell’abbazia di Lucedio.
La chiesa abbaziale,
ricostruita tra il 1766 e il
1769, iniziò a svolgere
funzioni parrocchiali nel
giugno 1787, quando venne
dedicata per l’occasione a
Santa Maria Assunta.
Vittorio Amedeo III
riconobbe il Beneficio
Parrocchiale con Regie
Patenti nel 1792.
Nel 1784, l’abbazia fu
secolarizzata da papa Pio VI
e i beni abbaziali passarono
all’Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro; due
anni dopo i monaci furono
trasferiti definitivamente a
Castelnuovo Scrivia nel
collegio dei Gesuiti. Qualche
anno più tardi le proprietà
di Lucedio confluirono nel
patrimonio dei Savoia, sulla
base dell’accordo del 1727
tra la Chiesa e Vittorio
Amedeo II, per cui
nell’amministrazione regia
sarebbero dovuti entrare i
beni vacanti degli ordini
religiosi. Il controllo e la
gestione di tutte le grange
passarono a Vittorio
Emanuele I di Savoia duca
d’Aosta, anche se
formalmente erano nel
patrimonio dell’Ordine
Mauriziano.
Durante l’amministrazione
sabauda si verificò un
sorprendente sviluppo
dell’agricoltura e con
l’affermazione dei nuovi
metodi di conduzione iniziò
a dissolversi il radicato
sistema feudale. In seguito
all’invasione francese, i beni
di Lucedio passarono sotto
il controllo del governo
napoleonico: Lucedio e le
sei grange più vicine furono
assegnate al cognato di
Napoleone, il principe
Camillo Borghese, allora
Governatore Generale del
Piemonte.
La chiesa di Santa Maria fu
consacrata nel 1819 e ha
accolto i fedeli sino al 1978.
l’intero patrimonio, non
lasciando nulla alla giovane
figlia andata in sposa al
nobile Alessandro Cavalli
d’Olivola. Nel 1861, il Gozzani
si trovò, dunque, costretto a
vendere la proprietà al nobile
genovese Raffaele De Ferrari,
Duca di Galliera. Con regio
decreto del 1875 Vittorio
Emanuele II insignì il duca del
titolo di principe di Lucedio,
in virtù dei servigi resi alla
patria. Il figlio del Duca De
Ferrari, unico erede, rinunciò
al titolo di principe e donò la
proprietà al cugino, il
marchese Andrea Carrega
Bertolini, il quale ottenne dal
re la concessione di portare il
titolo di principe di Lucedio,
titolo che si è conservato sino
ad oggi. Nel 1937 il conte
Paolo Cavalli d’Olivola riuscì
a riacquistare la proprietà e a
farla confluire nel patrimonio
della sua famiglia. La figlia, la
contessa Rosetta Clara Cavalli
d’Olivola Salvadori di
Wiesenhoff, è l’attuale
proprietaria.
Carta del territorio lucediese,
inizi XIX secolo,
Archivio Segreto Vaticano,
Fondo Borghese.
Ingresso del Principato
di Lucedio (2009).
8 La storia
9
Lucedio e il riso
l riso è il prodotto
d’eccellenza del triangolo
d’oro della risicoltura
italiana ed europea, quello
che comprende i territori
compresi tra Novara, Vercelli
e Pavia. Qui si coltiva il 60%
della produzione risicola
italiana: Novara e Vercelli
fanno la parte del leone con
almeno 120.000 ettari, sui
totali 220.000, e con una
produzione di 7.503.000
quintali. L’Italia è poi in
Europa il primo paese
produttore di riso: precede
Francia, Spagna, Grecia e
Portogallo. Da secoli questa
monocoltura caratterizza la
piana vercellese, per la
peculiarità dei terreni, ricchi
di acqua e risorgive, e per la
sapiente rete irrigua che, a
partire dai primi dell’800 e
soprattutto con la
realizzazione del Canale
Cavour (costruito in soli tre
anni, dal 1863 al 1866), ha
saputo garantire alle risaie la
loro sopravvivenza secolare.
Ma da dove è arrivato il riso?
Sicuramente dall’Oriente, dove
come graminacea era
conosciuto dal 7000 a.C. e
chiamato Oryza Sativa. La
coltura del riso divenne
estensiva sui terreni abbaziali
di Lucedio verso la fine del
1300. La commenda
dell’abbazia di Lucedio, a fine
Quattrocento, documentava la
coltura di 1.732 ettari a riso
sui 2.700 totali. La vocazione
risicola del Vercellese è
attestata nel 1635 dalla
“Relazione sullo stato presente
del Piemonte” di monsignor
Francesco Agostino della
Chiesa, che segnala
l’esportazione del riso anche
al di fuori del ducato di
Savoia. Intorno al 1750 quasi
I
un terzo del territorio
piemontese coltivato a riso si
trovava nel Vercellese. Il
sistema delle grange di
Lucedio si affacciò al XIX
secolo come un grande polo
produttivo, con un reddito
annuo pari a un milione di lire
e con un’estensione di terra
che sfiorava le 7.300 giornate.
Le crescenti richieste di
manodopera nel Vercellese,
principalmente durante il
periodo della monda,
comportarono un flusso di
lavoratori stagionali,
soprattutto donne, dall’esterno
del territorio. Le mondine, che
provenivano specialmente
dalle regioni più vicine (Emilia
Romagna, Liguria e Veneto)
coprirono fino al 50% del
totale della manodopera
femminile addetta alla monda.
Si apre così una fase storica
ricca di fermenti sociali,
culturali e politici, tanto da
caratterizzare una vera e
propria “epopea” della risaia.
Le durissime condizioni
lavorative della risaia, e della
monda in particolare, posero
al centro delle rivendicazioni
la riduzione dell’orario di
lavoro, che allora era di 12-14
ore al giorno, da prima
dell’alba a dopo il tramonto.
Le richieste di riduzione
dell’orario caratterizzarono le
lotte operaie dei primi del
Novecento, fino a sfociare nel
1906 con la conquista delle
“otto ore”.
La grangia, l’insediamento
rurale caratterizzante l’area
lucediese, si configurò sino al
XX secolo come il segno
tangibile della presenza
secolare della grande
proprietà fondiaria e, ancora
oggi, si presenta come
testimonianza preziosa
dell’assetto territoriale del
periodo medievale. A Lucedio
la parte agricola della grangia
è in piena attività produttiva,
ancora oggi come nel suo
glorioso passato: nove secoli
di storia non hanno cancellato
né modificato la vocazione
originaria di questo
insediamento rurale. La storia
sociale e politica di questo
territorio è unica e ha lasciato
tracce indelebili nella cultura
della comunità locale e non
solo: si pensi alla gastronomia
(la panissa vercellese), alle
canzoni popolari delle
mondariso, alla pittura
(significativa è l’opera di
Angelo Morbelli, custodita al
Museo Borgogna di Vercelli,
che mostra in modo eloquente
le condizioni lavorative delle
mondine), alla letteratura e al
cinema. Il capolavoro del
neorealismo italiano, “Riso
amaro” del 1949, di Giuseppe
De Santis, fu anche il mezzo
che la risaia usò per entrare
nel grande schermo e per porsi
all’attenzione dell’opinione
pubblica di tutto il Paese.
Angelo Morbelli, Per 80
centesimi!, 1893-1895, tela,
Vercelli, Fondazione Museo
Francesco Borgogna.
10 Visita guidata
11
Chiesa di Santa Maria: facciata
(1950).
La chiesa abbaziale di
Santa Maria
Chiesa di Santa Maria: affresco
della volta – XVIII secolo
(2003).
al grande cancello,
che immette nella
prima corte del
complesso abbaziale, è
visibile la facciata della
chiesa settecentesca di
Santa Maria.
La demolizione della chiesa
medievale originaria iniziò
nel 1728 e solo dopo
diversi anni si costruì il
nuovo edificio religioso.
I lavori, che presero avvio
nel 1766 e durarono circa
tre anni, furono promossi
dall’ultimo abate
D
commendatario di Lucedio,
il cardinale Delle Lanze, e
furono diretti dal
capomastro Giovanni
Battista Felli, su progetto
di un monaco cistercense:
l’architetto milanese
Valente de Giovanni.
La pianta, di forma
rettangolare, presenta gli
angoli smussati. La navata
unica è movimentata da
cappelle laterali, poco
aggettanti, sormontate da
matronei, ed è coperta da
una volta costolonata
interamente affrescata.
Tre gradini e una balaustra
dividono l’aula dalla zona
presbiteriale, chiusa da
un’abside. L’interno è stato
abbellito con decorazioni
in stucco dall’artista
luganese Giuseppe Cappia,
che entrò nel cantiere nel
1768: egli impiegò un anno
per completare le finissime
decorazioni sia delle pareti
interne sia del portico
esterno. Quest’ultimo, in
stile barocchetto, abbellisce
l’elegante facciata,
suddivisa in due ordini e
sormontata da un fastigio
centinato.
La struttura medievale
originaria della chiesa
abbaziale è riprodotta in
una pianta storica
dell’abbazia, realizzata nel
1722, in cui è evidente lo
schema lombardo tipico
delle chiese cistercensi:
l’aula era divisa in tre
navate, il transetto si
presentava sporgente e la
terminazione dell’edificio
absidata.
La pianta mostra anche i
tipi di sostegni che
dividevano gli spazi
interni: in senso
longitudinale ai grandi
12 Visita guidata
I bacini architettonici
In ognuna delle quattro facciate
più larghe del campanile negli
spazi dell’imposta delle bifore
dell’ultimo ordine, in origine, fu
collocato un bacino architettonico
in ceramica, di piccole dimensioni;
di questi, sui lati sud ed est se ne
sono conservati due, a nord e a
ovest si possono vedere solo le
sedi di bacini ormai scomparsi.
Il bacino murato nella facciata
sud è una ceramica smaltata di
colore verde, che presenta
caratteristiche orientaleggianti e
che potrebbe essere stato
importato dalla Turchia; esso è
stato collocato nella muratura
viva durante la prima fase di
costruzione del campanile.
Il bacino sul lato est,
particolarmente deteriorato, è
stato rimosso e sostituito da una
copia realizzata con tecnica
antica, per consentirne il restauro.
Si tratta di una ceramica graffita,
con lamina colorata nelle
decorazioni, rientrante nell’ambito
dei bacini del basso Piemonte del
XII secolo; dagli studi effettuati
risulta che la ceramica è stata
inserita nella sede in sostituzione
di un bacino preesistente.
Bacini architettonici in
ceramica smaltata (lato sud) e
in ceramica graffita (lato est)
(2007).
13
pilastri cruciformi sono
interposti pilastri circolari
e rettangolari. L’assetto
originario dell’edificio
medievale è ancora visibile
al di sotto dell’attuale
piano di calpestio, dove si
conservano tratti del
perimetrale settentrionale,
semicolonne addossate agli
antichi muri e tracce delle
absidiole costituenti una
probabile terminazione
triabsidata dell’edificio.
Il basamento del campanile
corrisponde all’antico
transetto laterale destro. In
passato, la chiesa ha
accolto al suo interno
diversi capolavori di arte
pittorica. Nel 1499 uno dei
protagonisti del
Rinascimento piemontese,
Gian Giacomo degli Alladi,
conosciuto come Macrino
d’Alba, realizzò, su incarico
dell’abate commendatario
di Lucedio Annibale
Paleologo, il raffinato
trittico destinato all’altare
maggiore raffigurante la
Madonna in trono col
Bambino e angeli, San
Bernardo di Chiaravalle e
Annibale Paleologo nello
scomparto di sinistra e San
Giovanni Battista in quello
di destra, ormai da tempo
custodito nel Vescovado di
Tortona. Sempre nella zona
presbiteriale, furono
collocate due pregevoli tele
settecentesche: una
attribuita al pittore
Antonio Mayerle
rappresenta l’Assunta e
santi, l’altra realizzata da
Pier Francesco Guala
raffigura San Benedetto e
Santa Scolastica; entrambe
le opere sono oggi in
deposito presso il Comune
di Trino.
Il campanile
l campanile è stato
costruito a più riprese tra
la seconda metà del XII
secolo (1150-75) e gli inizi
del XIII, coevo quindi alla
chiesa originaria. La base, a
pianta quadrata, risale alla
prima fase di costruzione e
presenta contrafforti
sporgenti agli angoli esterni.
L’originalità è conferita dalla
sezione ottagonale della
torre, che raggiunge l’altezza
di trentasei metri. I quattro
ordini in cui è suddiviso
l’elevato sono delimitati da
decorazioni, in cotto,
distintive dello stile
romanico: i tipici archetti
pensili accompagnati da
fregi dentellati e incorniciati,
testimoniano la sobrietà
degli stilemi medievali. Gli
archetti che incorniciano la
sommità della base sono a
pieno centro; più raffinati
sono quelli degli ordini
superiori, ogivali e poggianti
su piccole mensole in cotto,
di diverse fattezze. I due
ordini centrali sono mossi
da monofore, con
strombature; mentre
nell’ultimo ordine si aprono
bifore dalle esili colonnine
con capitelli a crochet. Tutte
le aperture sono incorniciate
da fasce decorative, che
alternano la pietra al
mattone. Il vano alla base
del campanile presenta
l’unico tratto conservato del
perimetrale meridionale
originario; recenti indagini
archeologiche hanno
riportato alla luce elementi
facilmente riferibili all’epoca
medievale: capitelli ed archi
decorati; una parte di muro
sul cui intonaco si sono
conservati insoliti ritratti e
schizzi di architetture; nella
I
muratura esterna un arco a
tutto sesto coincidente con
la cosiddetta “porta dei
morti”, che conduceva al
cimitero; traccia
dell’absidiola di destra, ove
sono visibili resti di affreschi
e di decorazioni.
Nell’intradosso dell’arco,
sulla parete est, è visibile un
apprezzabile affresco
raffigurante una santa in
trono, molto probabilmente
Maria Maddalena: si tratta
di un prezioso lacerto
facente parte,
verosimilmente, di una
teoria di santi che decorava
l’intera superficie, come
testimonia anche la porzione
di un altro trono riportato
alla luce nell’angolo
opposto. La delicatezza dei
tratti somatici, la
ricercatezza nella resa del
panneggio e la raffinatezza
dell’architettura e delle
decorazioni del trono
portano ad ascrivere
l’affresco allo stile pittorico
del gotico internazionale di
inizio Quattrocento.
Il campanile dopo il restauro
(2007).
Vano alla base del campanile:
affresco con Santa in trono
XV secolo (2007).
Le formelle
Nella parete sud del vano al piano
terreno del campanile furono
collocate, nella seconda metà del
Seicento, tre formelle in pietra
arenaria, raffiguranti un falconiere
a cavallo, uno stemma gentilizio e
un Agnus Dei, databili alla metà del
XIII secolo e ora in deposito presso
la Fondazione Istituto di Belle Arti e
Museo Camillo Leone di Vercelli. I
tre rilievi presentano ancora
evidenti tracce di policromia e tratti
stilistici che riconducono al
naturalismo tipico dell’arte
federiciana, sapiente fusione di
stilemi figurativi arabi e francesi. È
soprattutto la resa della figura del
falconiere che ricorda quelle
miniate nel codice di Federico II
Sull’arte di cacciare con gli uccelli,
del 1258. La
fattezza della
formella
con
l’Agnello
clipeato fa
pensare ad un
impiego della
stessa come
chiave d’arco;
mentre gli
altri due
conci è
probabile
fossero le
decorazioni
di un
monumento
funerario,
su cui
meglio si
addice un
soggetto
palesemente profano e “cortese”.
Agnus Dei, falconiere a cavallo,
stemma gentilizio: formelle lapidee
metà XIII secolo, Vercelli, Museo
Leone (2007).
14 Visita guidata
15
Il complesso monastico
n documento del 1126
attesta l’esistenza del
monastero di Lucedio,
facendone menzione come
monasterium o abbatia.
Il cuore del complesso
abbaziale, il chiostro dei
monaci e gli edifici
prospicienti, vennero situati a
nord della chiesa,
contrariamente alla regola
classica dell’ordine,
probabilmente per sfruttare
un corso d’acqua ivi presente.
Privata del portico, di cui si
possono ancora leggere
numerose tracce sui muri
interni, la corte attuale è
ancora oggi delimitata dagli
edifici abbaziali. La manica
orientale presenta tuttora la
sequenza dei vani monastici
originari: la sacrestia vecchia,
il vano più vicino alla chiesa,
è affiancata da una piccola
stanza identificabile con
l’aarmarium, il locale in cui si
custodivano i libri, di cui è
ancora visibile la porta di
U
esterne di questo braccio
sono ancora visibili le
monofore di età medievale.
La manica claustrale
settentrionale è quella che ha
subito più rimaneggiamenti
nel corso dei secoli; ma si
possono immaginare, in
relazione ad altri complessi
monastici medievali, collocati
in essa gli ambienti di
servizio (cucina, forno,
pozzo). L’edificio occidentale,
invece, accoglieva gli
ambienti riservati ai conversi:
al piano inferiore, accanto
alla cucina e al forno, il
refettorio, ancora visibile, e
vicino la cantina, il torchio,
le stalle; al piano superiore il
dormitorio dei conversi, le
cui antiche aperture sono
visibili nelle varie
tamponature che
movimentano l’intera facciata
di questo edificio. Il vasto
spazio prospiciente
corrisponde all’antico cortile
rustico, che in origine doveva
essere il chiostro dei conversi.
Pianta dell’abbazia di Lucedio,
1722, Torino, Archivio di Stato.
La grangia
La chiesa di Sant’Oglerio
o chiesa del popolo
Poco distante dalla chiesa
abbaziale si erge la chiesa di
Sant’Oglerio, detta “chiesa del
popolo” poiché fu la parrocchiale,
prima della ricostruzione
settecentesca della chiesa di Santa
Maria, fino al 1787. La chiesa,
progettata dall’architetto
Tommaso Prunotto nel 1741, fu
costruita su di un edificio
cinquecentesco preesistente, di cui
rimane traccia in un corpo di
fabbrica retrostante la nuova
costruzione. Quest’ultima,
interamente in mattoni a vista,
presenta una pianta a croce greca.
L’uso del laterizio testimonia il
legame con la tradizione padana,
che risale all’età medievale e che
ingresso. Accanto a questi
ambienti, come di consueto
nei cenobi cistercensi, si trova
la sala capitolare, che ha
conservato parte del suo
assetto originario: quattro
colonne in pietra dividono lo
spazio in tre navate con volte
a crociera; i cordoli
rettangolari degli archi, a
sesto acuto, e quelli
semicircolari delle crociere
poggiano sui massicci
capitelli, a fasci, in pietra
delle colonne e sui peducci,
di ugual materiale. Una
strombatura interamente in
cotto caratterizza l’arco a
tutto sesto dell’ingresso, ai
lati del quale in origine si
aprivano due trifore. Seguono
tre ambienti di diverse
dimensioni: due coincidono
con il probabile parlatorio e
con il vano scalare che
conduceva, al piano
superiore, al dormitorio dei
monaci; il terzo, più vasto, è
riconducibile al refettorio dei
monaci. Lungo le pareti
ha conosciuto una ripresa in tutto
il Piemonte nel Seicento e nel
Settecento. Dal 1797 l’edificio fu
trasformato in magazzino,
funzione svolta ancora oggi.
Chiesa del popolo: lato nord
(2007).
All’esterno dell’area claustrale e
del cortile rustico si apriva il
cosiddetto “airale”: un vasto
spazio attraversato dalla roggia
Lamporo, sul quale si affacciavano
gli edifici rustici della grangia. Il
mulino, di fondamentale
importanza per la lavorazione dei
cereali e alla base della
produzione agricola di quella che
fu la grangia monastica, è già
citato nella prima metà del XIII
secolo in documenti che trattano
dei problemi relativi alla
regolamentazione in genere dei
corsi d’acqua vicini alla grangia di
Lucedio ed in particolar modo
della roggia suddetta, che
scorreva in parte all’interno
dell’area rustica dell’abbazia. La
manica con questi ambienti di
servizio è ancora presente, mentre
l’antico mulino e la pista da riso
che la chiudevano sul lato nord
sono andati persi.
La grangia: edifici di servizio
(2007).
16 Visita guidata
17
Il restauro
l recupero della chiesa di
Santa Maria e dell’abbazia
di Lucedio, nella prospettiva di una generale valorizzazione del sistema paesaggistico delle grange lucediesi, è
frutto di una lunga attività
che ha visto impegnati, fin
dagli anni ’90, la Regione
Piemonte, la Provincia di Vercelli, il Comune di Trino e le
competenti Soprintendenze
piemontesi.
L’insorgere di difficoltà in
ordine all’accertamento della
proprietà del bene vincolato
impedirono l’attivazione di un
primo intervento di ripristino
del tetto, previsto nella
convenzione del 1993 con
l’Enel relativa alla Centrale a
ciclo combinato di Leri, che
già allora si evidenziava come
assolutamente urgente.
Lo stallo che ne seguì
comportò l’aggravamento
dello stato di degrado del
monumento con gravissimi
dissesti alla copertura e
l’insorgere di infiltrazioni
all’interno della chiesa.
Solo nel 2001, grazie alle
iniziative
dell’Amministrazione
provinciale, si posero le
premesse per il superamento
della situazione di “stallo”
attraverso la definizione di
una “proposta di intervento”
che prevedeva un accordo tra
la Proprietà abbaziale,
l’Arcidiocesi di Vercelli e la
stessa Provincia per il
passaggio in capo a
quest’ultima, al valore
simbolico di 1 euro, di ogni
titolo di proprietà o altro in
loro godimento: l’atto
preliminare di cessione, rogito
Notaio Boggia da Vercelli,
porta la data del 8 maggio
2003.
I
L’architettura
cistercense
Secondo la Regola dell’ordine
cistercense l’architettura
dell’ambiente in cui vive il monaco
deve permettere la contemplazione
di Dio. Valori come l’umiltà e la
semplicità devono essere ricordati
dall’architettura: essa si veste così
di un significato didascalico. A tal
fine San Bernardo, dal 1113,
propone un linguaggio artistico
semplice ed essenziale, che non
distragga con la presenza di
immagini mostruose e di ornamenti
eccessivamente elaborati. Alla base
della nuova estetica cistercense si
trova il cosiddetto “piano
bernardino”, secondo cui un
edificio religioso deve presentarsi
spoglio, sobrio, geometrico,
monocromatico e deve essere
costruito sul modulo di base del
quadrato per conferire ordine,
proporzione e armonia al
complesso architettonico. I
costruttori cistercensi seguivano
questi dettami non solo nella
costruzione delle chiese ma anche
di tutti gli altri ambienti che
costituivano il cenobio e che
ruotavano intorno alla forma, non
casualmente quadrata, del chiostro.
Intorno a questo spazio porticato,
fulcro dell’intera costruzione, si
dispongono i vari edifici, ospitanti
le diverse funzioni abbaziali
(chiesa, capitolo, refettorio,
dormitorio, ecc.). Il modello
bernardino vuole evidenziare la
struttura, la sostanza della realtà:
per questo motivo non prevede
alcuna decorazione scultorea.
Elementi artistici derivanti dal
Romanico francese (arco acuto,
volte a ogiva, pilastri compositi)
vengono ripresi e razionalizzati
dall’arte cistercense, che riesce da
sempre ad esprimere la profonda
spiritualità dell’ordine.
Interno della sala capitolare
(2007).
Questo accordo oltre ad
impedire la distruzione fisica
del bene, grazie al pronto
avvio del 1° Lotto di lavori,
cofinanziato con i Fondi
Europei (Docup 2000-2006) e
del 2° Lotto cofinanziato con
i Fondi di cui al Programma
regionale Olimpiadi 2006, ha
stimolato e si è coordinato
con le iniziative di recupero
di altre parti dell’abbazia
condotte autonomamente
dalla proprietà privata
interessata al mantenimento
dell’attività agricola e allo
sviluppo di iniziative
turistico-ricettive.
Una sinergia pubblico-privato
che, sulla base di accordi
convenzionali e dello studio
di fattibilità promosso dalla
Regione Piemonte e dalla
Provincia di Vercelli “Per un
piano di restauro e recupero
funzionale dell’Abbazia di
Lucedio” (Gaietta-Megna,
2007) si propone, con
realismo e stabilità nel tempo,
il recupero e la fruizione del
patrimonio storicoarchitettonico, attraverso un
progressivo e faticoso
cammino di ricerca di
quell’equilibrio tra interesse
Interventi sulla copertura della
chiesa di Santa Maria (2004).
18 Il restauro
Chiesa di Santa Maria: lato sud
prima del restauro (2003).
19
generale e particolare che,
come a Lucedio, rappresenta
una necessità non solo
economica, ma anche
culturale.
Il progetto generale di
recupero della chiesa è
coordinato dall’architetto
Giorgio Gaietta della
Provincia di Vercelli. Esso si
fonda sulla conoscenza
dell’edificio ed è organizzato
per lotti omogenei di
intervento, rapportati alle
disponibilità finanziarie e
alle peculiarità del
monumento.
Concordato con la
Soprintendenza per i Beni
Architettonici e il Paesaggio
del Piemonte in raccordo con
le altre Soprintendenze
interessate, ha
progressivamente coinvolto
le competenze scientifiche
del Politecnico di Torino-II°
Facoltà di Ingegneria e
dell’Università del Piemonte
Orientale “A. Avogadro”.
Quest’ultima, tramite il suo
Dipartimento di studi
umanistici e grazie alla
competenza della
professoressa Gisella Cantino
Wataghin, ha ottenuto la
concessione allo scavo
dell’area sottochiesa,
avviando così, con il
contributo della Fondazione
Cassa di Risparmio di
Vercelli, a partire dal 2006,
una intensa campagna di
scavi, studi e indagini
archeologiche, tuttora in
corso, che oltre a costituire
occasione di didattica
praticata, consentiranno di
pervenire alla realizzazione
di uno specifico “percorso
archeologico”.
Il 1° Lotto di intervento,
relativo al ripristino e al
recupero del tetto e ai
consolidamenti strutturali, è
stato curato dall’architetto
Andrea Megna con
l’ingegner Vito Loprieno e
realizzato dalla ditta Abitat
s.p.a. di Vigevano. Esso è
stato accompagnato
dall’avvio degli studi
sull’evoluzione storica del
monumento condotte, in
particolare, dal Dipartimento
di studi umanistici
dell’Università.
Il 2° Lotto di intervento,
relativo al ripristino delle
facciate laterali e al restauro
del campanile oltreché allo
scavo archeologico e alla
sistemazione delle aree
esterne, è stato curato da:
professor architetto Carla
Bartolozzi – Tetrastudio
Architetti Associati con
l’architetto Raffella Rolfo e
realizzato dai consorziati del
C.I.V., Consorzio Imprenditori
Vercellesi – Società
cooperativa di Vercelli:
Impresa Fiore e Ditta Ferrari
Restauri. Esso è stato
accompagnato dall’avvio
degli scavi e delle ricerche
archeologiche e diagnostiche
condotte anche da parte
degli Atenei vercellesi.
Il 3° Lotto di intervento,
relativo al restauro della
facciata principale, sempre
curato dagli architetti
Bartolozzi-Rolfo, è stato
realizzato dalla ditta Zoppoli
& Pulcher spa di Torino e
dalla S. Coop. De La Ville
restauri di Aosta. Esso è
stato accompagnato dalla
prosecuzione delle attività di
scavo condotte anche
dall’Università vercellese.
Gli ulteriori interventi di
restauro della chiesa
riguarderanno: il restauro
degli interni, a partire dalla
volta della navata principale
e degli arredi e apparati
decorativi della chiesa, la
realizzazione degli impianti
tecnologici per la sua
completa fruizione, il
completamento degli scavi
nei sotterranei della chiesa
per la realizzazione di un
percorso archeologico, la
sistemazione definitiva del
sagrato, delle aree esterne e
dei servizi di accoglienza.
Essi saranno accompagnati
dallo sviluppo delle ricerche
e degli studi scientifici e di
tutela, che verranno via via
documentati nell’ambito
della collana Lucedium,
promossa dal Comitato per
lo studio e la valorizzazione
dell’abbazia e delle grange di
Lucedio.
Chiesa di Santa Maria: lato sud
dopo il restauro (2007).
20 Il restauro
Interventi sulla copertura della
chiesa di Santa Maria (2004).
Cella campanaria: il nuovo
castello delle campane.
21
1° Lotto d’intervento
(2004-2005)
l primo intervento sulla
chiesa si è caratterizzato
come iniziale approccio al
monumento, comprensivo del
monitoraggio e della
stabilizzazione del degrado in
atto, oltre naturalmente dei più
urgenti interventi di
conservazione. Sono state
raccolte le prime informazioni
storico-archivistiche disponibili,
si è proceduto a indagini sulla
struttura muraria e sull’apparato
decorativo ed è stato elaborato
un primo rilievo architettonico
tematico di chiesa e campanile.
Interpretando i risultati si sono
definite due sostanziali azioni di
recupero: il consolidamento
strutturale e il rifacimento della
copertura.
Per quanto la struttura muraria
portante si presentasse
complessivamente in ordine,
I
alcune lesioni localizzate nel
presbiterio e nella volta della
sacrestia indicavano una
situazione di carico squilibrata,
per la quale si è realizzata una
sottomurazione in resine
autoespandenti che hanno
compensato i cedimenti
differenziali in maniera non
invasiva. In corrispondenza
della volta danneggiata, si è
proceduto alla piolatura
dell’estradosso e alla cerchiatura
in fibra di carbonio, completata
da un getto di malta traspirante
per la distribuzione omogenea
del carico.
Per la copertura si sono rimosse
le macerie presenti sulle volte,
con grande cautela nella
estirpazione degli apparati
radicali formatisi negli anni. In
particolare, sono stati
consolidati gli appoggi murari
delle capriate ed è stata
smontata e sostituita al 50% la
grossa orditura in rovere delle
falde centrali, previa redazione
di un abaco dei singoli elementi
(capriate e puntoni) finalizzato
al recupero delle strutture
lignee, le cui testate di
appoggio sono state ricostruite
in resina.
La media e piccola orditura
sono state completamente
sostituite, con l’inserimento di
un tavolato ricoperto di guaina
impermeabile, la cui azione
isolante unita alla ventilazione
naturale del sottotetto ha
consentito il progressivo
risanamento delle volte. Il
manto in coppi, dopo attenta
ispezione, è stato recuperato
grazie al reimpiego degli
elementi laterizi in buone
condizioni, previo fissaggio con
graffe metalliche. L’intervento si
è concluso con l’installazione di
un nuovo impianto di
smaltimento delle acque
meteoriche in rame.
2° Lotto d’intervento
(2005-2007)
intervento in oggetto ha
riguardato alcune porzioni
del complesso
architettonico, oltre alla prima
sistemazione delle aree esterne, ai
fini di una migliore accessibilità al
luogo. Gli interventi conservativi si
sono concentrati in particolar modo
sul campanile, per il pregio
architettonico delle strutture, nonché
per la presenza di un raffinato
apparato decorativo che è stato
oggetto di interventi specialistici
puntuali. Sul campanile
l’intervento di restauro ha
riguardato sia l’esterno con il
recupero delle volumetrie
architettoniche mediante lo
stamponamento delle
aperture, il recupero degli
apparati decorativi e il
completo rifacimento delle
copertura, sia l’interno con il
rifacimento degli
orizzontamenti di calpestio e
della scala. Sulle quattro
bifore maggiori l’apparato
decorativo era completato
dall’inserimento di bacini. Per
migliorare la stabilità della
parte terminale del campanile
si è inserita sulla sua sommità
una cerchiatura costituita da
una piastra in ferro ancorata
alla muratura mediante
tirafondi in acciaio. Si è
proceduto inoltre al restauro
delle campane esistenti e al
loro inserimento in una
nuova struttura lignea,
consentendone così anche il
ripristino della funzionalità
sonora.
Nell’ambiente alla base del
campanile e nell’adiacente
vano, ove insisteva la scala di
collegamento tra la chiesa e la
torre campanaria, lo scavo
archeologico realizzato ha
portato alla luce i resti del
L’
transetto destro e della navata
minore destra dell’antica
chiesa medievale. Con
l’eliminazione totale e
l’arretramento di murature di
epoche successive si è cercato
di riportare questi locali al
loro aspetto iniziale, compreso
il recupero delle decorazioni
parietali emerse.
I vincoli dettati dalle scoperte
archeologiche hanno portato
alla realizzazione di una scala
in carpenteria metallica di tipo
aereo staccata completamente
dalle pareti.
Sulle facciate l’intervento
realizzato non ha modificato
la consolidata immagine
dell’edificio settecentesco in
quanto si è integrata la
finitura ad intonaco
mantenendone le
caratteristiche granulometriche
e di coloritura. Unica
differenza risulta essere la
riapertura a sfondato delle
finestre di prima fase
settecentesca, poste sui lati
nord e sud. Particolare
attenzione si è posta sul lato
nord (interna al chiostro) in
corrispondenza della porzione
di facciata dell’antico
transetto: su di essa si è
realizzato un intervento di
restauro prettamente
conservativo che ha messo in
evidenza gli elementi
architettonici che lo
caratterizzavano e che lo
assimilano con quello del
fronte sud. I grandi serramenti
lignei sono stati restaurati
mediante un attento
intervento di innesto delle
parti mancanti o danneggiate
e con completo recupero di
tutte le ferramenta originali.
La tettoia agricola individuata,
nel progetto generale, come
punto di accoglienza, è stata
oggetto di interventi di
Il campanile.
Volta a crociera alla base del
campanile (in origine il transetto
sud della chiesa medievale).
22 Il restauro
23
risanamento, di
consolidamento e di ripristino
della copertura così da
renderla subito fruibile senza
condizionarne gli interventi
futuri. A partire dal
parcheggio, infine, si è
realizzato un percorso
pedonale per l’accesso alla
zona abbaziale. Gli
sbancamenti relativi alla sua
realizzazione hanno portato
alla luce resti di sepolture del
cimitero monacale e pertanto
tutta l’area è stata oggetto di
attento e puntuale scavo
archeologico.
L’area parcheggio, accessibile
dalla strada provinciale, è
stata realizzata in terra
stabilizzata e con finitura
erbosa carrabile, così da
garantire il miglior
inserimento ambientale con il
contesto paesaggistico.
l terzo Lotto d’intervento
ha interessato la facciata
principale dell’edificio,
caratterizzata dalle sue linee
tipicamente settecentesche e
dalla presenza di un protiro
riccamente decorato.
L’intervento, un restauro
conservativo ed estetico, a
seguito di un approfondito
studio del manufatto, ha
restituito a questo fronte
l’originario aspetto
settecentesco.
Lo studio stratigrafico degli
intonaci, partito dall’analisi
della volta del protiro e
proseguito sulla facciata, ha
portato all’identificazione di
tre successive fasi decorative
risalenti al ’700 (ben leggibile
e conservata), ’800 (molto
frammentaria) e ’900 (molto
deteriorata), fasi in cui la
colorazione degli stucchi del
protiro non è mai stata
mutata, mentre quella degli
intonaci decorati ha seguito
il gusto dell’epoca.
La soluzione colorimetrica
eseguita ricalca quella
settecentesca in quanto
questa fase risultava essere
l’unica riconsegnata con
abbastanza dati da poter
restituire una corretta lettura
d’insieme a facciata e protiro.
Sul protiro l’intervento di
restauro ha riguardato sia il
fronte esterno sia le volte e le
ambienti all’interno della struttura
originaria: il basamento del
campanile e lo spazio adiacente
corrispondono rispettivamente al
transetto e alla navata laterale
destra della chiesa medievale.
Nell’estate del 2006, il Ministero
per i Beni e le Attività Culturali ha
affidato la concessione delle
ricerche archeologiche nei vani
sottostanti l’attuale chiesa
all’Università degli Studi del
Piemonte Orientale “Amedeo
Avogadro”.
La prima indagine archeologica,
realizzata con il contributo della
Fondazione Cassa di Risparmio di
Vercelli, è stata condotta dalla
professoressa Gisella Cantino
Wataghin nell’ambito delle attività
di ricerca e di didattica del
Dipartimento di studi umanistici.
Lo scavo, condotto al di sotto del
piano pavimentale della chiesa in
corrispondenza della sacrestia e
della navata laterale sinistra, ha
portato alla luce numerose tracce
dell’impianto del XII secolo,
un’importante sepoltura
cavalleresca e alcuni setti murari
ancora intonacati e in parte
affrescati. Una seconda campagna
di scavo, partita nel 2009 e
attualmente in corso, indagherà
ulteriormente gli spazi sottostanti
la chiesa: dalle prime risultanze
emergono interessanti sviluppi di
fruizione e valorizzazione dei
reperti, in prospettiva di un
“percorso archeologico”.
3° Lotto d’intervento
(2009)
Scavo archeologico lungo il fronte
sud della chiesa abbaziale (2007).
Lacerto di affresco al di sotto
dell’attuale piano di calpestio
della chiesa settecentesca.
Gli scavi archeologici
Contestualmente agli interventi di
restauro del campanile è stata
avviata una campagna di scavi che
hanno interessato sia l’area
esterna, dove sono state rinvenute
tracce di murature delle
fondazioni dell’impianto medievale
e numerose sepolture, sia il vano
alla base del campanile e il vano
scala ad esso adiacente.
L’intervento, diretto ed eseguito
dall’archeologa Laura Maffeis e
dall’architetto Raffaella Rolfo
sotto la supervisione del dottor
Filippo Maria Gambari per la
Soprintendenza per i beni
archeologici del Piemonte, ha
chiarito la destinazione dei due
I
pareti interne realizzando il
recupero conservativo ed
estetico dell’intero apparato
decorativo (intonaci e stucchi
scialbati, marmi e arenarie), il
restauro della scalinata
lapidea e il rifacimento della
copertura.
L’esterno e le pareti interne
sono state reintegrate, nelle
parti di intonaco mancanti o
di tipo cementizio, con un
intonaco a base di calce
avente caratteristiche
granulometriche e di
coloritura simili all’originale;
il descialbo degli intonaci
originali con la restituzione
della cromia originaria; la
pulitura ed il consolidamento
delle arenarie, così come
restituiteci dal tempo e dalle
intemperie senza riservare
sorprese relative a tracce di
scialbi antichi; la pulitura ed
il consolidamento dei marmi
ricoperti da particellare e da
croste nere.
Per quanto riguarda le volte
si è proceduto al restauro
degli intonaci originali
mediante operazioni di
preconsolidamento, pulitura,
consolidamento, descialbo,
reintegrazione delle lacune,
equilibratura cromatica. Sugli
stucchi ancora presenti si è
proceduto al consolidamento
materico e all’ancoraggio
degli stessi al supporto
murario; le cornici sono state
oggetto di reintegro nelle
porzioni che delimitano il
disegno architettonico,
mentre i modellati a motivo
floreale non sono stati
reintegrati, ma si sono
rimarcate le tracce
preparatorie a grafite ancora
esistenti.
La scalinata a causa del suo
dissesto è stata smontata per
poterne risanare la struttura
d’appoggio rinforzandola con
cordolatura perimetrale; la
pavimentazione del protiro è
stata rimossa per poter
effettuare un’indagine
Chiesa di Santa Maria: facciata
(2007).
Chiesa di Santa Maria: facciata
(2009).
24 Il restauro
Chiesa di Santa Maria: protiro
(2009).
Comitato per lo Studio
e la Valorizzazione
dell’Abbazia e delle
Grange di Lucedio
Nel marzo 2006 si è costituito il
“Comitato per lo Studio e la
Valorizzazione dell’Abbazia e delle
Grange di Lucedio” presieduto
dall’Assessore Marco Fra, diretto e
coordinato dall’architetto Giorgio
Gaietta, dirigente della Provincia di
Vercelli e responsabile del Progetto,
e costituito da Paolo Salvadori di
Wiesenhoff, proprietà abbaziale del
Principato di Lucedio, don Gianluca
Gonzino, Arcidiocesi di Vercelli,
Gisella Cantino Wataghin, Università
degli Studi del Piemonte Orientale
“Amedeo Avogadro”, Riccardo Nelva,
Politecnico di Torino – II Facoltà di
Ingegneria di Vercelli, e dalle
archeologica, infatti la stessa
si trova in corrispondenza
dell’ingresso della precedente
chiesa medievale.
La facciata ha visto il
reintegro degli intonaci
mancanti o fortemente
ammalorati con la
realizzazione di un intonaco a
base di calce avente
caratteristiche
granulometriche e di
coloritura simili all’originale.
Tale lavorazione è stata
preceduta dal recupero
conservativo del paramento
murario in laterizio messo a
nudo in seguito alla caduta di
ampie aree di intonaco, delle
cornici modanate in laterizio
e pietra mediante intervento
di cuci e scuci, delle arenarie
attraverso il consolidamento
materico del modellato a noi
pervenuto senza operazioni di
reintegro, degli elementi
decorativi in cocciopesto
(putto e decori al di sotto
della finestra) e pietra (decori
posti sui fianchi laterali della
facciata), della croce
sommitale in ferro.
L’ampio serramento ligneo
centrale, che risultava in
buono stato di conservazione,
è stato restaurato secondo le
modalità dell’intervento
attuato sui serramenti dei
prospetti laterali.
Il portone ligneo d’ingresso
alla chiesa, in seguito alle
operazioni di pulitura, ha
rivelato la presenza
dell’originaria coloritura
bronzata, coloritura che è
stata riproposta al termine
delle successive operazioni di
stuccatura delle parti
ammalorate, di
consolidamento dell’essenza
lignea e di revisione delle
ferramente.
A conclusione del recupero
della facciata si è proceduto
al restauro e al
ricollocamento davanti al
portone ligneo della
cancellata in ferro da tempo
rimossa dalla sua posizione
originaria.
Soprintendenze per i Beni
Architettonici ed il Paesaggio del
Piemonte, per il Patrimonio Storico
Artistico ed Etnoantropologico del
Piemonte, per i Beni Archeologici del
Piemonte e del Museo di Antichità
Egizie. La sorveglianza alle attività di
indagine e di restauro è stata
assicurata, per le relative
Soprintendenze, dall’architetto
Gianni Bergadano, dal dottor
Massimiliano Caldera, dal dottor
Filippo Maria Gambari.
Finalità del Comitato quelle di
individuare, favorire e promuovere le
linee più opportune di intervento per
lo studio, il recupero, la
conservazione e la valorizzazione del
complesso abbaziale nel suo insieme
e del sistema delle grange ad esso
afferente, anche tramite il
coinvolgimento delle forze culturali,
istituzionali, economiche e sociali
interessate e necessarie.
Tra le finalità del Comitato anche la
promozione e la divulgazione delle
ricerche storico-artisticoarcheologiche effettuate o in essere
sulla chiesa parrocchiale di Santa
Maria, nonché sull’intero complesso
abbaziale, attraverso la
pubblicazione di quaderni scientifici.
Il primo numero, Gli edifici
dell’abbazia di Lucedio nella
documentazione scritta e
cartografica (secoli XII-inizi XX), a
firma di Eleonora Destefanis,
analizza l’assetto strutturale
originario del complesso monastico e
le trasformazioni subite nei secoli; il
volume Il patrimonio dell’abbazia di
Lucedio nel Medioevo (XII-XIII
secolo) di Silvia Cappelletti, illustra i
numerosi possedimenti dell’abbazia
in epoca medievale e descrive il
complesso sistema delle grange.
BIBLIOTECA CISTERCENSE
A4
SAN GERMANO
VERCELLESE
TRONZANO
VERCELLESE
MILANO
VERCELLI
A26
BIANZÈ
A4
LIGNANA
LIVORNO
FERRARIS
A26
A26
DESANA
CASTELL’APERTOLE
LUCEDIO
TRICERRO
STROPPIANA
TORINO
CRESCENTINO
PALAZZOLO
VERCELLESE
COME ARRIVARE
Da Torino: autostrada A4 Torino-Milano, uscita
Chivasso est. Immettersi sul raccordo per Verolengo, alla
rotatoria terminale proseguire per Crescentino e Vercelli.
Dopo circa 19 km, all’incrocio di frazione
Castell’Apertole, girare a destra in direzione Trino. Dopo
circa 5 km, alla rotatoria, si trova l’indicazione per
Lucedio, sulla sinistra; proseguendo sempre diritto, dopo
circa 3 km, si trova Lucedio (distanza 60 km circa).
Da Milano: autostrada A4 Milano-Torino; immettersi
sulla A26, a Biandrate, in direzione Alessandria-Genova;
dopo 25 km imboccare il raccordo per Santhià;
dopo 7 km uscire a Vercelli ovest; alla rotatoria seguire
per Crescentino-Torino; dopo circa 13 km un cartello
indica per Lucedio, sulla sinistra; dopo circa 3 km si
trova Lucedio (distanza 80 km circa).
Da Genova: autostrada A26 direzione Gravellona;
superata l’uscita di Casale nord, imboccare il raccordo
per Santhià e dopo 7 km uscire a Vercelli ovest; alla
rotatoria seguire per Crescentino-Torino; percorsi circa
13 km si trova l’indicazione per Lucedio, sulla sinistra;
dopo circa 3 km si trova Lucedio (distanza 115 km
circa).
GENOVA
TRINO
Progetto grafico e redazione
Sagep Editori
Testi a cura della Provincia di Vercelli
Chiara Nutolo
Giorgio Gaietta
Andrea Megna
Paoletta Picco
Raffaella Rolfo
Referenze fotografiche
R. Malerba: p. 1
Archivio Storico Ordine Mauriziano: pp. 2-3 (in alto)
M. Carenzi: pp. 4-5
Archivio Segreto Vaticano: p. 6
Emanuela Patrucco - Gruppo Fotografico F. Negri: p. 7
Archivio Fotografico Fondazione Torino Musei: p. 10
Archivio di Stato di Torino: p. 14 (in alto)
Archivio Fotografico della Provincia di Vercelli:
pp. 2-3 (in basso), 8-9, 11/24
www.abbaziadilucedio.it
Abbazia di Lucedio
Segreteria presso Provincia di Vercelli
Via San Cristoforo, 3 - 13100 Vercelli
Tel. 0161 590262
[email protected]
Visite guidate su prenotazione
(1a domenica di ogni mese: inizio prima visita ore 9:00,
termine ultima visita ore 12:00)
euro 4,00 (i.i.)
Abbazia di
Santa Maria
di Lucedio