Medicina del Territorio
Tossicomania: la malattia negata
Il paradigma medico della dipendenza.
Appello ai medici e agli specialisti della salute mentale
a “prendersi cura” delle persone con dipendenza patologica
Gaetano De Ruvo*
La maggior parte dei medici e degli specialisti della
salute mentale sono, ancora oggi, “poco interessati” a
curare i soggetti che abusano di alcol e di altre sostanze
psicoattive, anche se le persone dipendenti e le loro famiglie si rivolgono regolarmente a loro in cerca di aiuto.
Nonostante le definizioni formulate dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) e dall’American Psychiatric Association (APA), che propongono la tossicomania
come una “normale” malattia mentale, un buon numero
di medici e di psichiatri sono, di fatto, ancora riluttanti ad
adottare un modello di malattia per gestire i problemi inerenti la tossicomania (vedi box 1).
Tossicomania
come disturbo mentale
A lungo i disturbi mentali e la psichiatria sono stati considerati
la “Cenerentola” della medicina e i colleghi di altre discipline
mediche hanno visto gli psichiatri come medici “fumosi”,
“inconcludenti”, “inattendibili” e “un po’ filosofi”, con cui è difficile comunicare e collaborare.
Negli ultimi anni, però, si è verificata una profonda trasformazione e la “Cenerentola” è diventata una disciplina fondamentale della medicina, sia perché è risultato che i disturbi mentali
sono largamente diffusi e potenzialmente devastanti, sia perché sono migliorate le nostre conoscenze sul funzionamento
del cervello (e, quindi, delle sue funzioni: la mente), sia perché
si sono affinate le capacità diagnostiche e terapeutiche.
Certo, i disturbi mentali non sono malattie come le altre, ma
come le altre sono da ritenersi “malattie”. Malattie con elevata
specificità rispetto alle malattie “fisiche”; esse sono l’espressione dell’alterazione di un equilibrio tra sistemi interni (di natura
genetica e biologica) ed esterni (di natura ambientale e culturale) al cui controllo presiede il cervello, un’unità inscindibile
che pone l’organismo in relazione con il suo ambiente. Il cervello con la sua complessità ed immensa variabilità determina
la specificità delle sue disfunzioni: la psicopatologia.
Cenni di epidemiologia
Il fenomeno dell’uso di sostanze interessa una gran
parte della popolazione mondiale, probabilmente più
della metà del genere umano. Cannabinoidi, cocaina,
oppiacei, inalanti, alcol, nicotina e caffeina sono le sostanze più diffuse, dalle quali il consumatore si attende
una modifica del proprio stato emotivo. Nonostante
molte persone siano capaci di controllare il proprio uso di
sostanze, il rischio di diventare dipendenti è elevato: in
media, il 15% di coloro che fanno uso abituale di una
sostanza psicoattiva ne diviene dipendente, tanto da ritenersi incapace di funzionare sul piano lavorativo, relazionale e sociale in mancanza di questa. Il rischio di indurre
dipendenza varia, naturalmente, per ciascuna sostanza: in
alcuni casi, può superare il 10-30% (alcol, nicotina, cannabis) o il 50-60% (eroina, cocaina).
Studi epidemiologici relativamente recenti hanno
dimostrato che negli USA il 16,7% della popolazione
americana di età superiore ai 18 anni soddisfa i criteri del
DSM per una diagnosi lifetime di abuso e di dipendenza
da sostanze; di questi, il 13,8% presenta un disturbo da
uso di alcol e il 6,2% un abuso o dipendenza per una
sostanza psicotropa diversa dall’alcol.
In Italia, secondo i dati forniti dal Dipartimento degli
Affari Sociali sul calcolo del rischio di abuso di alcol in un
campione di circa 23.000 soggetti appartenenti alla popolazione giovanile, la situazione non appare differente.
L’alcol, infatti, costituisce la sostanza di abuso più diffusa soprattutto fra i giovani, sia fra i soggetti che fanno uso
di sostanze psicostimolanti (per il suo duplice effetto di
rinforzo iniziale dell’eccitamento e di “tranquillante” alla
fine della serata), sia fra soggetti che ne fanno uso nel contesto del gruppo, con percentuali pari al 55,9% della
popolazione in esame, ponendo tutte le altre sostanze –
quali cannabis (33,5%), ecstasy (7,5%), cocaina (4,0%) –
in secondo piano.
Correlati biologici delle dipendenze
Le sostanze di abuso legali (alcol, nicotina, caffeina,
cioccolato) e quelle illegali (eroina, cocaina, amfetamine,
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cannabinoidi, allucinogeni) si prestano ad un uso disfunzionale per la proprietà che hanno di modificare il comportamento di un individuo attraverso un’azione sul sistema cerebrale della ricompensa (“reward system”, vedi
oltre) e la produzione di un’incoercibile condotta di ricerca della sostanza stessa. La natura degli effetti soggettivi
associati all’uso della sostanza può variare, ma in ogni
caso queste sostanze producono una condizione artificiale
di euforia, intesa come un aumento della percezione del
piacere in tutte le situazioni vitali. Questa condizione è il
presupposto che motiva la riassunzione della sostanza,
quantomeno all’inizio della pratica tossicomanica.
Dal punto di vista neurofisiologico, esistono diversi
neuromediatori implicati nella percezione del piacere: fra
questi, i sistemi meglio conosciuti sono quello dopamiNotiziario Luglio 2006
nergico, serotoninergico, gabaergico, glutamatergico e
oppioidergico, in stretta correlazione fra loro.
Regioni anatomiche e relativi circuiti neurotrasmettitoriali, correlati ai meccanismi di ricompensa (reward),
sembrerebbero svolgere un ruolo rilevante nell’abuso di
alcol, nicotina, eroina, cocaina, ecc. In particolare, l’area
ventrotegmentale (VTA, regione mesencefalica sede di
neuroni prevalentemente dopaminergici), il nucleus
accumbens (area dello striato, sede di terminazioni dopaminergiche provenienti dall’area ventrotegmentale, che
sottende ai meccanismi di ricompensa nell’animale da
esperimento e nell’uomo) e la corteccia prefrontale rappresenterebbero le strutture anatomiche principalmente
interessate (la cosiddetta “autostrada della gratificazione
e del piacere”).
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Eziopatogenesi della tossicodipendenza
Sebbene l’esposizione ripetuta alla sostanza sia elemento necessario e sufficiente allo sviluppo di una tossicomania, le dinamiche della tossicodipendenza non possono essere considerate monofattoriali.
Certamente una condizione sine qua non per il verificarsi della tossicodipendenza è la disponibilità della
sostanza; e, in questa disponibilità, gioca una parte non
indifferente il ruolo del mercato, sempre pronto a tastare
il polso dei consumatori ed a rispondere alle loro richieste. Anche problematiche sociali e aspetti culturali possono favorire l’incontro dell’individuo con le sostanze, come
è accaduto in Italia negli anni ‘60 e ‘70. La cultura trasmessa quotidianamente dai mass-media tende, infine, ad
incoraggiare l’utilizzo di determinate sostanze di abuso
legali – alcol e tabacco – attribuendo ad esse il significato
più o meno esplicito di elementi validi a determinare
un’immagine sociale vincente.
Tuttavia occorre ribadire che ruolo del mercato,
caratteristiche di personalità, disturbi mentali, aspetti
sociali e culturali concorrono solo a rendere più facile
l’incontro fra individuo e sostanze di abuso, e prevalentemente al momento iniziale di ciò che può successivamente divenire una pratica tossicomanica o, semplicemente, rimanere un’abitudine sporadica. Per la maggior
parte della popolazione dei futuri tossicodipendenti,
nella prima fase si verifica soltanto la reiterazione di
comportamenti di ricerca dovuti all’esperienza piacevole
indotta dalle sostanze (cosiddetta “fase della luna di
miele”); la patogenesi della malattia necessita, dunque,
dell’uso continuato delle sostanze e, solo se questo uso è
protratto nel tempo, si determina la malattia tossicomanica o addiction (box 2).
Quando il comportamento di ricerca di una sostanza
psicoattiva è diventato una “normale” malattia del cervello (e, quindi, della mente), ci troviamo di fronte ad
un’unica tipologia di persone tossicodipendenti, nelle
quali il sistema neurofisiologico del piacere ha ormai subito profondi cambiamenti del metabolismo cerebrale in
grado di provocare ripercussioni a breve e lungo termine
sulla capacità di adattarsi all’ambiente e sulla capacità di
provare piacere con una varietà di stimoli, comprese le
stesse sostanze di abuso. Per esempio, la somministrazione ripetuta di eroina induce la perdita della sensibilità ai
suoi stessi effetti (fenomeno della tolleranza), con comparsa di sintomi contropolari se la sostanza viene bruscamente interrotta (fenomeno dell’astinenza); questo non
accade con la cocaina, con le metamfetamine tipo l’ecstasy, e con gli allucinogeni; accade invece con l’alcol e, in
misura minore, con i cannabinoidi e con la nicotina. Alla
fine della storia naturale della dipendenza, gli effetti euforizzanti della sostanza non sono quasi più percepiti dal
soggetto e la condizione di “normalità” diviene possibile
solo in presenza della sostanza.
Psicopatologia della tossicodipendenza
La tossicodipendenza, come ogni condizione di malat-
La malattia tossicomanica
o Addiction
Abuso e Addiction non rappresentano due livelli di gravità della
stessa condizione, ma due fenomeni qualitativamente diversi:
l’Addiction è una vera e propria malattia organica del cervello,
una malattia cronica acquisita, ad andamento recidivante.
Etimologicamente deriva dal latino “addictus”, personaggio dell’antica Roma imperiale che, per insolvibilità di un debito contratto verso un creditore, gli diveniva “assegnato, aggiudicato”
come prestatore di lavoro subordinato o d‘opera forzata, fino
all’estinzione del debito, senza dover peraltro subire l‘onta
della degradazione a schiavo. Invece, la compensazione del
debito rimane drammaticamente difficile nel caso della droga,
creditrice usuraia e necessariamente sempre schiavista; in
questo caso, il debitore non è solo “assegnato-aggiudicato”,
ma dipendente nel senso più spietato da una creditrice (la
droga) che pratica un sordido ed abbietto strozzinaggio.
Il segno fondamentale di ogni forma di Addiction è il craving
(desiderio intenso e incoercibile, appetizione compulsiva,
“smania” della sostanza di abuso che - dalle nostre parti - i
pazienti usano chiamare “la fissa”) che è anche, e soprattutto,
“impulso ad agire” e sul quale il paziente non ha piena capacità di controllo.
tia, si manifesta naturalmente con una serie di sintomi;
alcuni di questi sono circoscritti in un periodo di alcuni
giorni, durante il quale assumono un aspetto clamoroso
se l’assunzione della sostanza viene bruscamente sospesa:
è la classica sindrome da sospensione, e denuncia l’uso
abituale della sostanza nel passato recente. Una volta,
però, che questi sintomi “somatici” sono risolti, la tossicomania persiste e si manifesta con un sintomo ben più
grave e specifico: il comportamento recidivante. La condizione di dipendenza somatica non è quindi sufficiente a
porre diagnosi di tossicodipendenza. Molti farmaci sono
in grado di dare una sindrome da sospensione quando il
farmaco venga interrotto (i beta-bloccanti, ad esempio,
con il rischio di sviluppare tachicardie con manifestazioni che possono portare fino all’infarto del miocardio),
ma questo non ha conseguenze comportamentali per il
soggetto; le sostanze di abuso, invece, sono in grado di
attivare il soggetto per la ricerca spasmodica della
sostanza stessa. La tossicomania, dunque, non risiede in
ciò che si vede (nella sindrome da sospensione o “crisi da
astinenza” dei primi giorni), ma in un più subdolo fattore cronico e instabile che sostiene il fenomeno della ricaduta (cosiddetta “sindrome da astinenza protratta”). Gli
interventi diretti verso la crisi da astinenza (disintossicazioni rapide o ultra-rapide) hanno successo solo sulla
prima e, generalmente, non producono risultati positivi
protratti nel tempo.
La tossicomania o addiction, dunque, si caratterizza
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fondamentalmente – sul piano comportamentale – per il
recidivismo (tendenza cronica alla ricaduta) nell’uso
della stessa sostanza o della stessa classe di sostanze,
nonostante le conseguenze negative ad esso associate,
delle quali il soggetto è perfettamente consapevole e sulle
quali è in grado di esprimere un giudizio sostanzialmente corretto. Per esempio, dopo la disintossicazione dall’eroina (con o senza supporto medico), la sofferenza del
tossicodipendente perdura con uno strano nervosismo,
una intolleranza al dolore e allo stress, e – soprattutto –
con una incapacità a “funzionare”, cioè a portare a termine compiti anche di scarso impegno. Tutto ciò, già
descritto dalla scuola di Martin negli anni ‘60, con il termine di ipoforia, indica – insieme a evidenze neuroendocrinologiche e ad analogie con i modelli animali – una
compromissione persistente del sistema oppioide dopo
l’uso prolungato di eroina.
In un’ottica fondata sulla psicopatologia le spinte
legate al craving e le condotte comportamentali tese a
conquistare la sostanza d’abuso somigliano molto da
vicino all’eccitamento ipomaniacale dei pazienti bipolari.
La sostanza stessa assume il ruolo dell’idea prevalente e
della finalità prioritaria, e ad essa l’individuo tende seguendo una spinta appetitiva che oscura ogni altra (la
famiglia, la salute, il lavoro, ecc.). Così, al di là delle
similitudini tra i quadri clinici, la mania e la tossicomania condividono l’aspetto dell’eccitamento comportamentale e dell’iperattività impulsiva.
I disturbi bipolari sono un gruppo di disturbi cronici,
a decorso ricorrente, caratterizzati dal persistere a lungo
termine di un’instabilità affettiva, con tendenza a sviluppare fasi di depressione o eccitamento (maniacale o ipomaniacale). I pazienti bipolari abusano spesso di alcol,
eroina, cocaina e cannabis, specialmente durante le fasi
espansive, e con frequenza decisamente maggiore dei soggetti affetti da depressione unipolare. D’altro canto i disturbi dell’umore sono il tipo di disturbo psichiatrico più
spesso in comorbilità con i quadri di dipendenza (“doppia diagnosi”).
Sulla base della letteratura scientifica e delle personali
osservazioni, si può dunque ipotizzare che i disturbi dello
spettro bipolare (dalla forma più classica e grave del disturbo bipolare, fino ai quadri clinici sottosoglia ed ai
temperamenti affettivi ciclotimici e ipertimici) siano un
importante fattore di rischio per i disturbi da dipendenza.
Principi di terapia medica
Gli elementi fondamentali e comuni ad ogni dipendenza sono: il craving ed il recidivismo. Con il termine
“craving” si indica il desiderio incoercibile della sostanza che sostiene l’attivazione comportamentale per l’ottenimento della stessa, al di là delle conseguenze negative
sul piano psicofisico e psicosociale. Dal punto di vista
terapeutico trattare un soggetto farmacologicamente per
una condizione di tossicomania vuol dire utilizzare il farmaco in funzione anti-craving, e – in quest’ottica – si
tratta dunque di prevenire le ricadute.
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Un farmaco, per poter essere utilizzato nella terapia
anti-craving, deve possedere due caratteristiche essenziali:
1. per prima cosa deve essere in grado di alleviare i
sintomi astinenziali, cioè deve possedere una tolleranza
crociata con la sostanza di abuso (per esempio, il metadone o la buprenorfina nei confronti dell’eroina);
2. in più deve agire sul sistema di rinforzo positivo
(reward system) senza possedere esso stesso proprietà di
rinforzo. Riferendoci ancora al sistema oppioide, un farmaco anti-craving deve – dunque – alleviare i sintomi di
astinenza, continuando a stimolare il sistema oppioide
(mantenendo, cioè, la funzione oppioide naturale attiva);
non deve però incentivare l’uso di se stesso.
Oltre a prevenire o ridurre i sintomi dell’astinenza ed
a prevenire o ridurre il craving (prevenendo la ricaduta
nell’uso della sostanza), il farmaco anti-craving deve
essere in grado di ripristinare una situazione di normalità per ogni funzione fisiologica sregolata dall’uso di
sostanze. Nel caso dell’eroina, durante l’uso l’asse ipotalamo-ipofisi è soppresso, la funzione sessuale e la libido
sono compromesse; durante il trattamento adeguato con
metadone, invece, queste funzioni si normalizzano.
Sempre in base a questi principi, il GHB (gamma-idrossi-butirrato, farmaco utilizzato per il trattamento della
persona alcol-dipendente) è un farmaco solo parzialmente anti-craving per l’alcolismo; infatti, allevia la sindrome da astinenza e agisce sul sistema di rinforzo positivo,
tuttavia possiede – in alcuni individui – proprietà di rinforzo (alcune persone, cioè, mostrano craving per il
GHB) ed, infine, non normalizza le funzioni sregolate
dall’alcol, come quella cognitiva sulla quale esplica la
stessa azione negativa. Il caso delle amfetamine per la
cocaina, poi, è ancora più evidente: infatti le amfetamine
alleviano la sindrome d’astinenza da cocaina, ma possiedono proprietà di rinforzo uguali – se non maggiori – e
provocano la stessa psicopatologia della cocaina (psicosi
paranoidea).
Per il trattamento farmacologico del craving sono – a
tutt’oggi – conosciute quattro strategie terapeutiche:
1. terapie a lungo termine (cosiddette “di mantenimento”) con farmaci long-acting e a tolleranza crociata
con la sostanza di abuso: i cosiddetti farmaci agonisti.
Questa strategia è utilizzata per il trattamento della
dipendenza da eroina con farmaci agonisti degli oppiacei
(metadone e buprenorfina);
2. terapie a lungo termine con farmaci che agiscono
riducendo il craving per la sostanza e/o il rinforzo, ma
non dotati di tolleranza crociata. Questi farmaci vengono utilizzati soprattutto nella farmacoterapia dell’alcolismo e della dipendenza da cocaina;
3. terapie a lungo termine con sostanze che bloccano
gli effetti della sostanza abusata; si può applicare per
sostanze di abuso che esplicano la loro azione quasi
esclusivamente a livello di un solo sito recettoriale.
Tali terapie spesso non controllano il craving; se quest’ultimo è contenuto, ed il trattamento può procedere, il
mancato rinforzo può favorire il decondizionamento dal-
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Trieste. Ospedale psichiatrico 1910
l’uso della sostanza. Questa strategia è utilizzata soprattutto nel trattamento della dipendenza da eroina con farmaci antagonisti degli oppiacei (naltrexone);
4. sostanze in grado di alterare il metabolismo di una
sostanza d’abuso, favorendone l’eliminazione, riducendone l’effetto psicoattivo o provocando un effetto avversivo piuttosto che di rinforzo. Il paradigma di questo
intervento è la terapia dell’alcolismo con il disulfiram.
Delle quattro strategie, la prima è sicuramente la più
efficace: se adeguatamente condotta (sia da parte del
medico che da parte del paziente) consente di controllare il craving, e pertanto – indirettamente – interrompe il
circuito del rinforzo positivo, tampona il danno da iperstimolazione, protegge da eventuale sovradosaggio
(overdose) e infine mantiene il miglioramento psicofisico e psicosociale ottenuto per tutto il tempo necessario.
Oltre agli oppiacei, alcuni antidepressivi svolgono
una certa azione anti-craving soprattutto nei confronti
di nicotina e alcol. I dopaminoagonisti hanno mostrato
una qualche utilità per gli psicostimolanti (cocaina). Le
benzodiazepine, invece, vanno assolutamente evitate,
come farmaci anti-craving, per il loro alto potenziale
d’abuso nei soggetti tossicodipendenti.
È necessario – tuttavia – ribadire che nessun trattamento è efficace per tutti i pazienti; diversi tipi di
approccio sono necessari a causa della eterogeneità della
popolazione tossicomanica.
Conclusioni
La definizione della tossicomania come malattia cronica ad andamento recidivante, secondo l’indicazione
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha
permesso di recuperare la realtà delle dipendenze come
problema descrivibile in termini patofisiologici e gestibile attraverso le conoscenze e gli strumenti della disciplina medica. Tale modello non intende assolutamente
negare il ruolo dell’intervento psicosociale e psicoterapeutico, ma fornire una guida razionale all’intervento
integrato multimodale, laddove la medicina (e la psi-
chiatria, in primis) rappresenti il fulcro di un trattamento complesso.
Purtroppo, almeno nel nostro Paese, gli ambiti della
psichiatria e della medicina delle dipendenze sono rimasti a lungo separati in relazione ad una concezione nonmedica della malattia addiction. La condivisione ufficiale di questo paradigma scientifico non si è ancora tradotta nello sviluppo di un sistema di intervento sulle
dipendenze patologiche con orientamento schiettamente
clinico; al contrario, permane un tragico equivoco sulla
natura della malattia, che confonde il fenomeno individuale della malattia (sostanzialmente biologico e, quindi, di chiara competenza medica) con le conseguenze
sociali ad essa correlate. Dall’equivoco teorico si giunge
inevitabilmente ad un equivoco terapeutico, per cui non
è raro che l’approccio medico sia “l’ultima spiaggia”
nella storia personale di molti pazienti e, paradossalmente, la necessità di tentare la via della terapia medica
è considerato indice di refrattarietà e di inguaribilità.
I medici e gli specialisti della salute mentale devono
sapere che esiste un dominio neurobiologico (che comprende la tossicodipendenza come malattia, con le sue
disfunzioni destrutturanti sul pensiero e sul comportamento dell’individuo) e un dominio psicosociale (che
comprende la fenomenologia dell’uso di sostanze) con
tutte le ripercussioni sul contesto psicosociale – di natura affettiva e relazionale, lavorativa e produttiva, di
salute fisica e mentale, legale e criminale – che la pratica tossicomanica produce.
Nella misura in cui si intende descrivere ed enfatizzare questi ultimi aspetti del fenomeno, allora è necessario
far capo a modelli di intervento sociologici e/o psicologici, ma il riconoscimento della malattia e la sua gestione terapeutica è appannaggio della medicina e, in particolare, della psichiatria.
* Neurologo, SerT di Bitonto-Palo del Colle, Azienda USL BA/2.
Presidente Società Italiana Tossico Dipendenze – Puglia ([email protected])
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