Come cercare aiuto psicologico

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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
L’autore
Gabriele Lo Iacono, psicologo psicoterapeuta, ha 38 anni e vive a Trento. Esercita la libera professione
principalmente come traduttore e autore di testi di psicologia. Inoltre dirige la rivista “Tlön - Cultura
dell’apprendimento” (scaricabile gratuitamente alla pagina http://xoomer.virgilio.it/gabloia/page6.html) e
insegna presso le scuole di specializzazione in psicoterapia APC e SPC e il Master in Psicologia
dell’Emergenza dell’Università di Padova. È consigliere della sezione trentina della Società Italiana di
Psicologia dell’Educazione e della Formazione/SIPEF.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico © 2005 Gabriele Lo Iacono
E-mail [email protected]
Internet http://xoomer.virgilio.it/gabloia/index.html
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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La sofferenza è una componente della stragrande maggioranza dei problemi
psicologici. La definizione stessa di disturbo mentale comprende la sofferenza: ciò che
distingue un disturbo mentale da un momento difficile della vita è spesso proprio il
grado in cui si soffre. Chiunque nel corso della sua vita può avere momenti di ansia,
stress, depressione, cali di autostima, insicurezze, problemi psicosomatici, difficoltà
sessuali e via dicendo ma se queste situazioni non creano un malessere di un certo
rilievo o non interferiscono con l’attività di una persona non si può parlare di disturbi
mentali.
In genere si decide di cercare aiuto proprio per cercare la soluzione a uno stato di
sofferenza. Infatti due delle principali forze che nella vita ci spingono ad agire sono
l’evitamento della sofferenza e il suo corrispettivo positivo, la ricerca del piacere.
A volte non si è in grado di identificare le cause della propria sofferenza o di
eliminarle e, per evitare il patimento, ci si getta in una ricerca spasmodica di piacere –
come il sesso, l’amore, il gioco, la droga – o si cerca di ridurre la propria sensibilità, per
esempio con l’uso di alcol o psicofarmaci. Spesso il risultato è che al problema che
procurava originariamente sofferenza se ne aggiunge uno nuovo: la dipendenza.
Se è vero infatti che la nostra mente è fatta in modo da proteggerci dalla
sofferenza eccessiva o inutile – per esempio, gli episodi tropo spiacevoli a volte
vengono esclusi dalla coscienza e dimenticati – è anche vero che questi meccanismi di
difesa non funzionano sempre a dovere. Oppure si può essere costretti a trascorrere gran
parte della propria vita in situazioni che provocano continua sofferenza – per esempio,
in zone di guerra, povertà o in un ambiente familiare o di lavoro ostile o con una
malattia cronica – e così, se le cause della sofferenza non possono essere rimosse, si
cerca un lenitivo o una distrazione.
Dolore fisico e dolore morale
Forse il prototipo della sofferenza è il dolore fisico, cioè il dolore localizzato in
qualche zona del corpo. Molte persone sono costrette a convivere con qualche forma di
dolore fisico intermittente o cronico, anche molto intenso: a un estremo di intensità
troviamo situazioni come gli stati terminali dei malati di tumore, all’altro troviamo
situazioni più facilmente tollerabili come la cefalea. Il dolore fisico può diventare la
principale preoccupazione della vita di una persona provocando altri problemi
psicologici e relazionali.
L’espressione “dolore fisico” è, a ben vedere, un non senso: il dolore non è mai
fisico (chi ha mai visto il dolore?) ma è sempre un fenomeno psicologico che può avere
cause fisiche più o meno conosciute. Anche su questo piano esiste tutta una serie di
situazioni intermedie con, a un estremo, un dolore a cui corrisponde un deterioramento
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evidente di un tessuto corporeo – per esempio, un osso spezzato o un tumore – e
all’altro forme di dolore psicogeno, in cui cioè all’esperienza di dolore non corrisponde
nessun danno riconoscibile nel corpo della persona. Il dolore non è semplicemente
un’esperienza sensoriale che deriva direttamente dalla stimolazione dei recettori del
dolore (nocicettori), bensì un fenomeno psicobiologico complesso influenzato da fattori
psicologici e sociali. Stimolazioni dolorose della stessa intensità possono produrre
diversi livelli di dolore a seconda dell’attenzione che vi si presta, di come si valuta
l’esperienza, delle strategie mentali adoperate per modulare il dolore e dell’esempio
costituito dal comportamento di altre persone sottoposte a stimolazioni dolorose. Fra i
mezzi per controllare il dolore ci sono attività mentali o di deviazione dell’attenzione
che riducono la coscienza delle sensazioni dolorose o ne alterano la valenza affettiva
modificando il modo in cui esse vengono interpretate.
Se è vero che la sofferenza è uno dei sintomi centrali di vari disturbi mentali e
può accompagnare qualsiasi problema psicologico, è vero anche che alcuni disturbi
mentali possono essere considerati stati di sofferenza pura. È chiaro che non si parla qui
di una sofferenza localizzata in qualche regione del corpo ma di un malessere generale,
uno stato di profonda insoddisfazione. In certi stati di depressione la persona sofferente
si sente completamente abbattuta, disperata, senza vie di scampo, disgustata di sé e
colpevole della rovina propria e altrui; così desidera morire per porre fine alla sua
sofferenza. A volte questo stato depressione è causato da qualche episodio vissuto come
perdita irreparabile di qualcosa di molto importante, per esempio il decesso di un
familiare, l’abbandono da parte della persona amata, una grave malattia propria o di un
familiare, la presenza di un problema psicologico che sta condizionando pesantemente
la propria vita, il pensionamento, la necessità di rinunciare a un progetto perseguito per
molti anni della propria vita.
Un'altra esperienza che spesso viene descritta da chi l’ha provata come la
peggiore della propria vita è l’attacco di panico, cioè un episodio di ansia tanto intensa
da essere vissuta come qualcosa che fa impazzire o come il momento della propria fine.
L’attacco di panico è scatenato il più delle volte da situazioni che non rappresentano un
pericolo personale importante; nelle persone con agorafobia, per esempio, può essere
sufficiente salire su un ascensore per avere un attacco di panico, mentre in quelle che
soffrono di fobia sociale può essere sufficiente la prospettiva imminente e irrinunciabile
di dover incontrare una certa persona o di dover tenere un discorso davanti a una platea.
Naturalmente esistono anche situazioni di reale pericolo altrettanto e più angoscianti.
Sofferenza utile o inutile; sofferenza normale o anormale
Le nostre emozioni e i nostri stati d’animo ci segnalano in che posizione ci
troviamo (o, per la precisione, crediamo di trovarci) rispetto ai nostri obiettivi e ci
spingono ad agire in modo da favorirne il raggiungimento.
“Le emozioni altro non fanno che tenerci informati sullo stato di successo o
fallimento attuale e previsto nel raggiungere i nostri scopi. La loro espressione,
invece, tiene informati gli altri su come ci stanno andando le cose. Le emozioni
gradevoli ci dicono che stiamo andando bene e il successo si sta avvicinando; le
emozioni come la paura e l’ansia ci segnalano la previsione di un fallimento; la
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tristezza ci ricorda che il fallimento è già avvenuto. La variegata molteplicità
delle emozioni è dovuta all’articolarsi delle varie valutazioni di successo o
fallimento rispetto a scopi specifici: così la vergogna segnalerà un fallimento,
ma relativo allo specifico scopo della buona immagine sociale, la colpa ci
segnalerà che non abbiamo raggiunto lo scopo di essere come volevamo essere e
così via. Per ogni emozione potremmo dunque definire a quale scopo o insieme
di scopi attiene e se ci segnala il successo o il fallimento” (Lorenzini e
Sassaroli, 2000, p.15-16)
La presenza di sofferenza non significa che la propria situazione sia in qualche
senso “anormale”. La sofferenza infatti fa parte della vita e ogni tentativo di eliminare la
normale sofferenza della vita è destinato a provocare problemi, se non ulteriore
sofferenza. A questo proposito è interessante la definizione che Lorenzini e Sassaroli
(ivi) danno di “anormalità”. Tutti noi proviamo stati d’animo negativi - come
potrebbero esserlo l’angoscia e la disperazione - e non è l’eccessiva intensità di questi
d’animo o la loro inadeguatezza a definire situazioni di anormalità. La sofferenza è
“patologica” quando non viene utilizzata per cambiare. La capacità di cambiare,
secondo gli autori, è il miglior indice di buona salute, e i modi per cambiare sono
sostanzialmente due: cercare di perseguire in un modo diverso i propri scopi preclusi
oppure rinunciarvi. Così non è affatto strano soffrire, anche intensamente, perché non
ho potuto, non posso o non potrò ottenere qualcosa che per me è importante (per
esempio, l’amore di una certa persona, la salute, il successo in una certa attività) ma c’è
qualcosa che non funziona a dovere se con il tempo non riesco a trovare un modo per
ottenere ciò a cui continuo ad aspirare o se continuo ad aspirare a ciò che non posso
ottenere. In questi casi la sofferenza è inutile: continuo a patire ma senza trovare il
modo di mettere a frutto questo segnale – come se un allarme suonasse senza che
nessuno lo potesse sentire.
Spesso le persone sono consapevoli di trovarsi in una impasse: non vorrebbero
agire in un certo modo, che magari giudicano stupido o sbagliato ma ciò nonostante –
non si sa perché – continuano a farlo. Questo tipo di situazione è grossomodo ciò che si
chiama nevrosi.
Tutto sommato però la definizione di quali sofferenze possano essere
considerate normali e quali nevrotiche (o magari psicotiche) è una questione che
interessa prevalentemente gli specialisti. Se c’è un modo per limitare le sofferenze, ben
venga; poco importa il nome e la classificazione dei propri mali. Lo stesso vale per le
considerazioni sulla normalità, intesa nel senso di frequenza, di una certa esperienza:
che un problema psicologico sia un aspetto connaturato alla vita stessa - come la
disperazione per la perdita di una persona amata, o la fatica e le incertezze legate alla
realizzazione di un progetto ambito - o invece l’esperienza di poche persone - come il
fatto di avere un figlio che soffre di schizofrenia o il fatto di essere uomo e sentirsi
donna - ha in fin dei conti poca importanza pratica. Ognuno di noi cerca di ridurre al
minimo gli ostacoli alla sua realizzazione personale, al suo benessere e al mantenimento
di uno stato di piena salute; è un obiettivo individuale suffragato dalla morale e dalle
leggi. Allo stesso modo, non è mai “sbagliato” cercare una soluzione o un aiuto per i
propri problemi psicologici; al contrario, capire in che modo i propri stati d’animo e le
proprie reazioni sono collegati con la situazione oggettiva che si sta vivendo è in genere
molto utile.
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Emozioni e problemi psicologici emozionali
La sofferenza può essere vissuta in forma di emozioni diverse. Quando si parla
di emozioni negative ci si riferisce proprio a emozioni o stati d’animo spiacevoli. Molti
problemi psicologici sono caratterizzati dalla prevalenza di alcune di queste emozioni
negative. Si parla a questo proposito di problemi emozionali. Si può dire che una delle
principali difficoltà vissute soggettivamente da chi ha problemi psicologici sia quella di
mantenere la calma, la tranquillità e la padronanza di sé.
I problemi emozionali non sono solo qualcosa che impedisce di vivere
serenamente e di dedicarsi liberamente ai propri impegni e ai propri interessi, ma hanno
la particolarità di essere – come molti altri problemi psicologici – potenzialmente
“contagiosi”: per esempio, se un genitore ha preoccupazioni eccessive per la salute
oppure ha una paura esagerata di qualcosa – il giudizio degli altri, i topi, gli incidenti
stradali, per citare tre delle mille paure diffuse – rischia, con il suo esempio, i suoi
racconti minacciosi e i suoi avvertimenti di trasmettere qualche problema analogo ai
suoi figli o alle altre persone più vicine.
Descriverò di seguito i più comuni problemi psicologici di carattere emozionale.
Per mettere un po’ di ordine cercherò di evidenziarne gli aspetti distintivi anche se in
realtà in genere questi problemi si presentano a gruppi e non uno alla volta. Purtroppo
non potrò soffermarmi su tutte le emozioni negative che possono prendere il
sopravvento nella vita di una persona.
Ansia e paura
L’ansia è un’emozione sgradevole che può essere definita come la sensazione di
un pericolo imminente, l’apprensione dovuta alla previsione di un possibile
avvenimento nocivo. È analoga alla paura, essendo lo stato d’animo che si prova
quando si è in presenza di, o si immagina o prevede, qualcosa di cui si ha paura. D’altra
parte può esserci ansia senza paura: a volte, infatti, si può provare uno stato di generica
apprensione, ci si sente sulle spine, tesi e agitati, ma non si teme niente di preciso.
L’ansia può essere evocata sia dalla presenza o dall’idea di situazioni, persone,
animali o oggetti che si considerano pericolosi, sia direttamente dall’azione chimica di
varie sostanze.
La sensazione di ansia si può accompagnare a una serie di reazioni fisiche e mentali
(vedi le tabelle 1.1, 1.2 e 1.3). La memoria e la capacità di pensare al futuro, ragionare e
decidere peggiorano perché tutta l’attenzione è attratta dall’idea di pericolo.
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Tabella 1.1 Alcuni dei sintomi fisici che possono essere associati all’ansia
Muscolari
Cardiocircolatori
Respiratori
Gastrointestinali
Sensoriali
Genitali e urinari
Sistema nervoso autonomo
Dolori muscolari
Intorpidimento degli arti
Contratture
Serie di contrazioni
Digrignare i denti
Voce tremante
Tachicardia
Palpitazioni
Dolori al petto
Polso irregolare
Sensazione di svenimento
Senso di oppressione o costrizione al petto
Sensazione di aria insufficiente o di difficoltà
a respirare
Respirazione breve o irregolare
Sospiri frequenti
Difficoltà a deglutire
Eruttazioni frequenti
Sensazioni dolorose allo stomaco prima o
dopo i pasti
Bruciori di stomaco
Senso di pienezza
Nausea
Vomito
Sensazione di “lavorio” nello stomaco
Diarrea
Dimagrimento
Costipazione
Ronzio alle orecchie
Visione confusa
Vampate di caldo o senso di freddo
Sensazioni di trafitture
Minzione frequente
Stimolo alla minzione
Amenorrea
Menorragia (mestruazione abbondante)
Comparsa o aggravamento di frigidità
Eiaculazione precoce
Impossibilità o difficoltà a mantenere
l’erezione del pene
Bocca secca
Rossori
Pallori
Tendenza a sudare
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Giramento di testa e vertigini
Mal di testa
Piloerezione
Tabella 1.2 Alcuni dei sintomi psichici che possono essere associati all’ansia
Pensieri
Senso di tensione
Sonno
Difficoltà cognitive
Umore generale
Preoccupazioni e paure
Previsioni pessimistiche
Fantasie, ricordi e immagini relativi a pericoli e
insuccessi
Stato d’animo teso
Senso di fatica e stanchezza
Incapacità di rilassarsi
Trasalimenti
Facilità al pianto
Senso di irrequietudine
Difficoltà a addormentarsi
Sonno agitato
Riposo incompleto e senso di stanchezza al
risveglio
Incubi
Terrore notturno
Difficoltà a concentrarsi e mantenere
l’attenzione su un’attività
Ridotta capacità di memorizzare e ricordare
Perdita di interessi
Incapacità di divertirsi
Tristezza
Tabella 1.3 Alcuni comportamenti che possono indicare uno stato di ansia
Posizione rigida; Torcere le mani, mordicchiare le dita, stringere o rigirare un oggetto
in mano, ripetere dei tic; Camminare o muoversi con irrequietezza, tremori (per
esempio, alle mani), fronte corrugata, viso tirato, muscolatura contratta, sospiri
Le reazioni cognitive (cioè mentali) e fisiologiche che si accompagnano a uno
stato di ansia intensa sono piuttosto spiacevoli e se sono frequenti tendono a interferire
con lo svolgimento di una vita soddisfacente.
L’ansia ci spinge a non distrarci da un pericolo e a prendere le misure adeguate
per salvaguardarci da esso. Dal punto di vista dell’evoluzione animale, le reazioni
fisiologiche che si accompagnano all’ansia sono utili; aiutavano i nostri antenati a
salvare la pelle quando si trovavano di fronte a un grave pericolo, per esempio un
predatore, preparando l’organismo a un’azione energica necessaria per un’aggressione o
per la fuga (oppure li facevano apparire già morti e quindi poco appetitosi).
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Molte persone che vivono l’ansia come un problema – specialmente quelle che
hanno avuto un attacco di panico – confondono i sintomi di ansia con i segni di qualche
malattia; in altre parole, non sanno o non riescono a credere che tutto ciò che accade nel
loro organismo quando provano ansia è una reazione normale, non dovuta a un malattia.
In realtà può essere interessante e istruttivo soffermarsi sull’utilità di molte di
queste reazioni d’ansia per la sopravvivenza di un animale minacciato. Per esempio, il
cuore accelera la sua attività, fornendo più sangue al cervello e ai muscoli che così
possono lavorare di più; le arterie e le vene sotto la cute si restringono e il tempo di
coagulazione del sangue si abbrevia, allontanando il pericolo di un’emorragia profusa in
caso di ferita; la respirazione diventa più rapida e profonda, procurando più ossigeno a
tutto il corpo; le mucose delle prime vie aeree si prosciugano, facilitando il tragitto
dell’aria verso i polmoni; la sudorazione aumenta, rinfrescando il corpo e rendendolo
scivoloso e quindi più difficile da afferrare; molti muscoli si tendono con forza,
preparandosi a un’azione rapida e vigorosa. Le funzioni che potrebbero assorbire
energie e disturbare questo stato di allerta, come il mangiare e digerire e la sessualità,
sono invece rallentate e sospese. Lo stimolo alla minzione e alla defecazione serve a
svuotare intestino e vescica, alleggerendo così il corpo. La difficoltà a ricordare aiuta a
non distrarsi dal pericolo.
Tuttavia, le reazioni di ansia non si scatenano soltanto quando la situazione
minacciosa mette a repentaglio la nostra incolumità fisica, ma anche in una gran
quantità di situazioni in cui la fonte di pericolo non può essere affrontata adeguatamente
con un’aggressione fisica o con una fuga. Si pensi per esempio a un esame o a una
prestazione pubblica in campo scolastico, sportivo o lavorativo, oppure alla
conversazione con un possibile partner sessuale molto attraente o con una persona di
status molto elevato. In tutti questi casi il nostro obiettivo non è salvare la vita e non lo
possiamo ottenere aggredendo o fuggendo. In ognuna di queste situazioni invece
dobbiamo usare una serie di complicate abilità cognitive, emotive, sociali e
comunicative per ottenere certi obiettivi o perlomeno per non fare qualcosa di
grossolanamente inopportuno. Il pericolo in questi casi può essere una calo di
autostima, la riduzione del proprio status sociale, la vanificazione di un lavoro faticoso,
la perdita di un’occasione buona e via dicendo.
Disturbi psicofisiologici
Nella tabella 1.1 è riportata una serie di reazioni fisiologiche che si possono
accompagnare all’ansia. Tali modificazioni sono una componente della reazione di
stress (vedi ultimo paragrafo del capitolo quarto). Oltre a quelle elencate nella tabella ne
esistono altre. Una o più di queste risposte possono diventare un problema in sé, senza
che la persona che ne soffre sia necessariamente in grado di associarne la comparsa a
particolari stati emotivi. Si tratta dei cosiddetti disturbi psicofisiologici, disturbi che non
dipendono da un altro processo patologico in corso nell’organismo ma rappresentano
perlopiù risposte anomale del sistema neurovegetativo. Esempi di disturbi
psicofisiologici sono la gastrite, le difficoltà di digestione, il mal di testa, l’ipertensione
arteriosa, l’aritmia cardiaca, la sudorazione eccessiva delle mani, ma ne esiste
veramente una gran quantità. A volte queste risposte favoriscono la comparsa di altre
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malattie – come l’asma bronchiale, la cardiopatia ischemica o l’artrite reumatoide – o le
aggravano.
Problemi di ansia
L’ansia, di per sé, è un sentimento normale. Una certa dose di ansia accompagna
ogni esperienza nuova. Quando non supera un certo livello di intensità è un’emozione
perfino utile: come si è detto, ci mette in condizioni psicologiche e fisiche migliori per
prevenire i pericoli potenziali e neutralizzare quelli già presenti. Se non ci fosse
rischieremmo di affrontare a cuor leggero situazioni potenzialmente dannose.
Benché tutti provino ansia in varie circostanze della vita, per alcune persone questa
emozione può diventare un problema importante ostacolando il raggiungimento degli
obiettivi personali; per esempio, nel rapporto con le altre persone, nello studio o nel
lavoro. Al di là delle considerazioni di Lorenzini e Sassaroli sopra riportate, l’ansia
viene considerata normale se:
− è una risposta a un pericolo reale
− la sua intensità è proporzionata all’entità di tale pericolo
− scompare quando il pericolo cessa.
In certe persone e in certe situazioni l’ansia può diventare così intensa che invece di
migliorare le capacità interferisce con esse. In particolare, la maggioranza delle
situazioni della vita quotidiana che vengono vissute con ansia – un discorso in pubblico,
un corteggiamento, un esame – non comportano un rischio che possa essere affrontato
adeguatamente con una lotta o una fuga. Al contrario per cavarsela il meglio possibile è
necessario utilizzare una serie di abilità mentali raffinate che peggiorano quando l’ansia
è eccessiva. Infatti, se è necessario poter ricordare bene un discorso già preparato, se è
molto auspicabile poter contare sulla propria capacità di scegliere il modo migliore per
esprimersi, ribattere i modo intelligente ai commenti altrui, analizzare una situazione al
fine di escogitare rapidamente una soluzione a un problema appena creatosi e via
dicendo, il fatto che la nostra mente sia concentrata soltanto sul pericolo e sulle peggiori
conseguenze dei nostri eventuali errori non ci aiuta affatto.
Molte persone che hanno problemi di ansia, come si vedrà di seguito, sono
terrorizzate da cose che a uno sguardo più sereno e realistico appaiono del tutto innocue
o costituiscono pericoli non gravi. Inoltre il loro stato di apprensione comincia ben
prima di affrontare le situazioni temute e ha lunghi strascichi dopo l’incontro. A volte lo
stato di ansia è pressoché incessante, tanto che la vita stessa sembra diventare un inferno
in cui le occasioni di piacere diventano sempre più rare.
C’è sempre qualcosa che mi preoccupa
Chi soffre di ansia generalizzata non ha paura di un particolare genere di
situazioni, persone, animali, oggetti o eventi – come nelle fobie e in varie altre paure
specifiche –, piuttosto è quasi costantemente accompagnato da un certo senso di
apprensione e preoccupazione difficilmente controllabile che riguarda tutto e niente. In
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
altre parole si passa costantemente da una preoccupazione all’altra. Sembra veramente
che la propria mente non possa fare a meno di andare sempre alla ricerca di qualche
cosa che possa andare per il verso sbagliato:
“mi avranno dato il resto giusto? Aspetta che controllo... ma dove ho messo il
portafoglio? Ah, eccolo qua. Un attimo, ma quanto avevo? Accidenti non me lo
ricordo! Lo vedi, mi sta succedendo qualcosa: non mi ricordo mai le cose. Anche
mia figlia è così; vuoi vedere che le ho trasmesso anche questo difetto?
Poverina, che vita dura l’aspetta! Speriamo che almeno lei trovi qualcuno che la
capisca... Accidenti ma quante cose ho da fare ancora... Farò in tempo a fare la
spesa? Non voglio arrivare anche oggi all’ultimo momento in negozio, altrimenti
il panettiere penserà che mi faccio troppo i comodi miei. Allora mi conviene
prendere la macchina... Speriamo di trovare un parcheggio...”
Questo continuo lavorio mentale si può accompagnare ad altri sintomi come
senso di stanchezza costante, irrequietezza, nervosismo, tensione muscolare, irritabilità,
difficoltà a concentrarsi, vuoti di memoria, difficoltà nel sonno (per esempio, sonno non
riposante o difficoltà a addormentarsi). Le persone che hanno solo questo tipo di
problema psicologico non hanno invece violenti attacchi di ansia con sintomi fisiologici
molto intensi e spaventosi, come avviene nel disturbo da attacchi di panico e come può
avvenire nelle fobie (vedi sotto).
È difficile bloccare tutte queste preoccupazioni assillanti; poco dopo avere
scacciato un pensiero – magari dopo aver pensato che è inutile preoccuparsi per una
cosa del genere, che tanto ha poche probabilità di verificarsi – ci si scopre alle prese con
un altro timore. Questa tendenza a preoccuparsi non dà pace e se non viene curata o
controllata efficacemente può accompagnare anche per tutta la vita, sebbene ci siano alti
e bassi, con peggioramenti nei periodi di maggior stress, per esempio, in occasione di
importanti cambiamenti o in periodi più impegnativi e faticosi.
I temi delle preoccupazioni, come si è detto, sono i più vari. Gli adulti si
preoccupano di tutto ciò che compete loro, come il lavoro, la gestione della casa, gli
acquisti, le tasse, le bollette, l’igiene, la salute propria e dei familiari, le possibili
disgrazie, il successo e la popolarità propri e dei propri familiari, le faccende
domestiche, la puntualità e via dicendo. I bambini e i ragazzi che hanno problemi di
ansia generalizzata sono alle prese con incertezze e timori che riguardano le loro
capacità, la qualità delle loro prestazioni a scuola, nello sport, nei confronti con i
coetanei, l’accettazione da parte degli altri, le possibili catastrofi e guerre. Il tipo di
preoccupazioni varia in genere con l’età (vedi per esempio Kendall e Di Pietro, 1995).
A volte perdo il controllo e ho paura di impazzire o di morire
Alcune persone provano almeno una volta nella vita uno stato di ansia molto
molto intensa. Ognuno di noi sa cosa significhi provare terrore; chi non lo sa può
provare a immaginare cosa si proverebbe, per esempio, se ci si trovasse intrappolati in
mezzo alle fiamme nella propria abitazione.
Probabilmente in una situazione simile l’unico pensiero – accanto a quello del
pericolo del fuoco – sarebbe quello di trovare immediatamente una via di fuga, non
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
importa quale. Una persona in condizioni così drammatiche non farebbe caso al fatto
che il cuore batte all’impazzata, il corpo suda e trema, la respirazione è molto irregolare,
lo stomaco è chiuso e contratto e tutto l’organismo è sottosopra (vedi la tabella 1.1).
Non si meraviglierebbe certo del fatto che nella sua mente c’è solo paura di morire –
una paura che “fa impazzire”, tanto che è meglio gettarsi dalla finestra piuttosto di
restare in attesa della morte (capita che in queste circostanze le persone si gettino dal
balcone trascurando il fatto che si trovano a un piano alto).
La reazione descritta è una reazione di panico. Chi si è trovato in una situazione
di questo tipo ed è sopravvissuto non si interroga certo sul perché avesse provato tanta
paura. Se anche avesse percepito le reazioni fisiologiche associate all’ansia le
troverebbe giustificate, data la situazione.
Ma l’esperienza del panico può toccare anche persone che non hanno corso
pericoli fisici di questo tipo. Un attacco di panico, nel linguaggio psichiatrico, è un
periodo limitato (raramente supera i trenta minuti) di intensa ansia, apprensione, paura o
terrore, spesso associati a sentimenti di morte imminente, che insorge improvvisamente,
in assenza di rischi esterni per la propria vita. Durante questi attacchi compaiono vari
sintomi fisici fra cui: palpitazioni o tachicardia, sudorazione intensa, tremore, difficoltà
a respirare o sensazione di mancanza d’aria, dolori o fastidi al torace, nausea o disturbi
addominali, sensazione di sbandamento o svenimento, sensazione di irrealtà o di essere
distaccati da se stessi, paura di perdere il controllo, di impazzire o di morire, formicolii,
brividi o vampate di calore. Spesso durante questi episodi la persona ha un desiderio di
fuggire urgentemente dal luogo in cui si trova.
Gli attacchi di panico possono essere inaspettati, nel senso che la loro
insorgenza non è associata a un certo fattore scatenante ma si manifesta in modo
imprevisto. Nel disturbo di panico una persona ha attacchi di panico inaspettati e
ricorrenti, ha molta paura di averne ancora e teme che siano segno di qualche brutta
malattia oppure ha paura di ciò che potrebbe fare se si ripresentassero.
Chi prova un attacco di panico si spaventa delle sue stesse reazioni. Durante
l’attacco di panico, al centro dell’attenzione non c’è un reale pericolo esterno – come un
incendio – ma le proprie reazioni fisiologiche e la sensazione di avere perso il controllo
sul proprio corpo e/o sulla propria mente, di impazzire o morire. Dopo l’attacco resta la
paura che l’attacco si ripresenti. Questa paura porta a fare attenzione ai possibili segni
premonitori, in genere sintomi provati durante il primo attacco o prima di esso. La
ricerca di cause e spiegazioni per l’episodio porta a convincersi di avere una malattia e a
cercare l’aiuto di medici, neurologi, psichiatri – che in genere riconoscono l’attacco di
panico come tale, anche se magari parlano più genericamente di ansia, stress o
esaurimento. Quando i sintomi premonitori vengono avvertiti di nuovo – cosa che prima
o poi avviene, dato che si tratta generalmente di normali sintomi di stress – ci si
spaventa a tal punto da provare un nuovo attacco di panico. Lo sviluppo di questa
situazione può essere la fobia (vedi paragrafo seguente)
Gli attacchi di panico non sono sempre inaspettati. Possono anche essere
collegati a certe situazioni, nel senso che si manifestano più spesso - o regolarmente quando ci si trova in una certa situazione, oppure quando si prevede di dovercisi trovare.
Quando una persona con una fobia sa di dover affrontare l’oggetto della sua fobia può
avere un attacco di panico non appena entra in tale situazione, oppure anche prima, al
solo pensiero di doverlo fare. Per esempio, una persona con la fobia degli aeroplani
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
potrebbe avere un attacco di panico ogni volta che si trova costretta a dover salire su un
aeroplano. Ma vediamo che cos’è una fobia.
Ho il terrore di ...
Una fobia è una paura intensa e persistente di una certo tipo di situazioni,
attività, animali o oggetti (l’oggetto della fobia) accompagnata da 1) reazioni intense di
ansia in previsione di un incontro con l’oggetto della fobia o in sua effettiva presenza e
2) tentativi di evitare l’oggetto della fobia. Perché si possa parlare di fobia, inoltre, 3) la
paura e i tentativi di evitare le situazioni temute devono diventare un motivo di grave
sofferenza, creando anche difficoltà e conflitti in famiglia, a scuola, sul lavoro o in altri
contesti importanti della vita quotidiana. Il livello di ansia o paura di solito varia sia in
funzione del grado di vicinanza nello spazio e nel tempo dell’oggetto della fobia, sia in
funzione della convinzione di poterlo controllare o di poterne fuggire; può comunque
raggiungere l’intensità di un vero e proprio attacco di panico.
Spesso la fobia è proprio la conseguenza di un attacco di panico. Chi ha provato
questa forma di terrore spesso descrive il panico come una delle più brutte esperienze
della propria vita e nel tentativo di evitare assolutamente che la cosa si ripeta,
incomincia a temere e a evitare le situazioni in cui l’attacco si è presentato o, secondo le
proprie previsioni, si potrebbe presentare. Vediamo nelle prossime sezioni alcune fobie.
Sentirmi male in un posto insicuro (agorafobia)
L’agorafobia è un insieme di fobie. A volte chi soffre di attacchi di panico
inaspettati incomincia a temere molti luoghi o situazioni in cui potrebbe essere difficile
o imbarazzante allontanarsi o cercare aiuto nel caso in cui dovessero comparire sintomi
di ansia o altri sintomi imbarazzanti o inabilitanti; questa condizione prende il nome di
agorafobia.
Molto spesso le situazioni e i luoghi temuti sono l’essere fuori casa da soli, stare
in casa da soli, l’essere in mezzo alla folla o in una coda di persone, l’essere su un ponte
o il viaggiare in autobus, in treno o in automobile. Poco a poco le zone sicure
diminuiscono e si restringono e ci si sente sempre più insicuri e vulnerabili. È come se
venisse meno la fiducia nel proprio corpo, che potrebbe giocare brutti tiri da un
momento all’altro. La vita comincia allora ad apparire troppo difficile e priva di senso.
Stare lontano da casa, da mamma e papà (ansia da separazione)
Il disturbo d’ansia da separazione è un problema di ansia che si presenta per la
prima volta in bambini o adolescenti di età inferiore ai diciotto anni ma il più delle volte
prima dell’adolescenza. Le manifestazioni del disturbo sono simili a quelle
dell’agorafobia degli adulti ma l’oggetto della paura è, per definizione, diverso; ciò che
viene temuto dalle persone con questo disturbo è la separazione da casa o dai genitori (o
dalle persone che ne svolgono le funzioni). Il disturbo interessa perlopiù bambini e
adolescenti, anche se lo si può riscontrare, sia pure raramente, in adulti.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Spesso i bambini con questo disturbo vivono in famiglie molto unite e
richiedono molte attenzioni. A volte si lamentano del fatto che nessuno li ama o si
prende cura di loro; le loro richieste pressanti possono diventare motivo di frustrazione
per i genitori. Talvolta vengono descritti come bambini particolarmente coscienziosi,
accondiscendenti e desiderosi di piacere.
A volte le difficoltà compaiono in seguito a un evento doloroso, come la morte
di un parente o di un animale domestico, un trasloco, un cambiamento di scuola o di
insegnante, la separazione dei genitori.
Questa paura può manifestarsi in vari modi: malessere eccessivo e ricorrente,
anche con sintomi fisici (analoghi all’attacco di panico), in occasione di allontanamenti
reali o solo previsti; preoccupazione esagerata e persistente per la possibilità di perdere i
genitori o che accada loro qualcosa di brutto; preoccupazione spropositata e costante per
la possibilità che accada qualche cosa che porti a una separazione dai genitori (per
esempio, perdersi); tentativi di evitare situazioni di lontananza dai genitori, anche se si
tratta semplicemente di andare a dormire; frequenti incubi sul tema della separazione.
Secondo la psichiatria moderna, per poter parlare di disturbo d’ansia da
separazione è necessario che la paura si manifesti in vari modi (almeno tre di quelli
elencati in una lista che ne comprende otto), che duri per almeno quattro settimane e che
sia fonte di sofferenza oppure, in alternativa, che ostacoli le attività sociali o scolastiche
(o eventualmente lavorative) della persona interessata.
Fobie specifiche
Si parla di fobia specifica quando la fobia riguarda un tipo di oggetti, animali,
persone, luoghi, situazioni o eventi ben chiaro e definito. Esiste una grande varietà di
fobie specifiche. La maggioranza di esse – anche se non tutte – rientra nella
classificazione seguente:
− situazioni specifiche; per esempio, salire su autobus, treni, aerei, automobili,
ascensori, oppure attraversare gallerie o ponti, o entrare in luoghi chiusi
come negozi, magazzini, musei o chiese. Si tratta di fobie che spesso
compaiono in seguito a uno o più attacchi di panico inaspettati. È il tipo di
fobie per cui viene più spesso cercata una cura;
− elementi ambientali o naturali; per esempio, i temporali, l’acqua alta o luoghi
alti. Questo tipo di fobie compare in genere nell’infanzia;
− sangue, iniezioni, ferite, interventi chirurgici, cure dentistiche. In genere in
queste situazioni predominano sensazioni di debolezza, svenimenti,
giramenti di testa e vertigini dovute perlopiù a un abbassamento di pressione
e frequenza cardiaca successivo a un breve episodio iniziale di tachicardia;
− animali; per esempio, topi, scarafaggi, ragni, serpenti, farfalle, api, cani, ecc.
Anche questo tipo di fobie in genere compare per la prima volta
nell’infanzia.
La distinzione fra fobie e normali paure è piuttosto sfumata e riguarda
sostanzialmente la gravità delle conseguenze di una paura. Perché una paura possa
rappresentare realmente una grave fonte di sofferenza e possa interferire notevolmente
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
con i tentativi di condurre una vita normale, la paura deve essere forte e l’oggetto della
paura deve essere qualcosa che è possibile incontrare abbastanza frequentemente. Una
persona che ha il terrore dei serpenti ma vive in un condominio piazzato nel bel mezzo
di una metropoli avrà ben pochi motivi d’ansia: tutt’al più si impressionerà vedendo
serpenti alla TV, o in libri e giornali, oppure eviterà di andare a fare scampagnate. Ma
una persona che ha il terrore dei serpenti e vive in campagna svilupperà una vera e
propria fobia che può rendere la vita piuttosto tormentata.
Spesso la fobia compare dopo aver avuto un attacco di panico inaspettato in un
certo luogo o in una certa situazione, che poi cominceranno ed essere temuti ed evitati.
Chi ha avuto il primo attacco di panico in un supermercato, per esempio, può sviluppare
una fobia per i negozi. Altre volte la fobia si sviluppa in seguito a un’esperienza
traumatica connessa all’oggetto della fobia: chi è stato morso da un cane, per esempio,
può sviluppare una fobia dei cani. Ma altre volte basta assistere alle manifestazioni di
terrore di qualcun altro o a racconti e descrizioni impressionanti.
Il rifiuto di andare a scuola. In alcuni bambini può presentarsi il rifiuto o la paura di
andare a scuola. Al mattino, prima di uscire da casa, il bambino dice di stare male e
lamenta, per esempio, nausea, mal di pancia o mal di testa. In genere questi disturbi
svaniscono nel fine settimana o nei periodi di vacanza. Quando il bambino è a scuola
viene preso da malinconia, nostalgia o disagio, spesso piange e vuole tornare a casa o
vuole che sia presente la mamma o la persona che normalmente si occupa di lui.
Oppure, quando è più grandicello, si preoccupa per quello che potrebbe succedere a lui
o ai suoi genitori durante la separazione.
In genere i problemi cominciano intorno ai tre anni, quando il bambino comincia
ad andare all’asilo, ma possono presentarsi anche dopo, alle elementari. In molti casi ci
può essere un inserimento non difficoltoso, ma passato il primo periodo in cui il
bambino ancora non si rende conto che dovrà stare tutti i giorni lontano dai genitori,
compaiono le difficoltà e le angosce del primo inserimento.
La paura insistente di andare a scuola può essere ricondotta all’ansia da
separazione, descritta sommariamente nella sezione “Stare lontano da casa, da mamma
e papà (ansia da separazione)”. Situazioni di ansia analoghe a quelle che si verificano
per il recarsi a scuola si possono infatti presentare anche in alte occasioni di
separazione, come il fatto di stare a casa di amici. A volte, a partire da questi problemi,
il bambino comincia a perdere di fiducia in sé, e a piacersi di meno e il suo slancio
verso l’autonomia si affievolisce o si spegne. A volte i bambini che hanno questo tipo di
difficoltà sviluppano una vera e propria sindrome depressiva.
Negli adolescenti il desiderio forte e insistente di non andare a scuola può essere
giustificato da malesseri e preoccupazioni di vario tipo. Può essere dovuto a paure
connesse all’allontanamento da casa o alla separazione dai genitori (come
nell’agorafobia o nell’ansia da separazione) ma anche a mancanza di energia, sfiducia
nelle proprie capacità di essere all’altezza delle attività proposte, difficoltà a
concentrarsi, seguire le lezioni e studiare e quindi timore di insuccessi. Altre volte,
accanto a questi fattori o indipendentemente da essi, c’è la paura di fare figuracce di
fronte a qualcuno per motivi non necessariamente collegati alla preparazione scolastica;
in altre parole si tratta dell’ansia sociale, il problema descritto nel prossimo paragrafo e
nella sezione “Se ci sono altre persone non riesco a...”, nel capitolo secondo.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Avere a che fare con altre persone
La persona che ha un problema di fobia sociale, o ansia sociale, teme certe
situazioni in cui deve interagire con altri individui che conosce poco o deve fare
qualcosa di fronte a loro; in queste situazioni ha paura di fare una cattiva impressione
(per esempio, di apparire stupidi, incapaci, deboli, “pazzi”) dicendo o facendo qualcosa
di imbarazzante o umiliante oppure lasciando in qualche modo trasparire la propria
ansia (vedi anche, nel capitolo secondo, la sezione “Se ci sono altre persone non riesco a
...”).
Le persone timide – che hanno, cioè, un problema di ansia generalizzato a molte
situazioni sociali – si sentono sulle spine quando devono interagire con qualcuno. Chi
non ha questo problema forse non se ne rende conto ma in una normale giornata le
occasioni di interazione con gli altri sono molte. Per gli adulti può trattarsi di fare la
spesa o altri acquisti, andare per uffici, rispondere al telefono, scambiare convenevoli
con i vicini di casa, fare e ricevere visite, interagire con i colleghi e/o i clienti, parlare
con gli insegnanti dei figli, andare dal medico, rilassarsi su una spiaggia, sostare con
sconosciuti in luoghi pubblici (per esempio, mezzi di trasporto, palestre, sale di attesa),
partecipare a cerimonie, spettacoli o eventi pubblici, usare toilette e via dicendo. Per
bambini e ragazzi può trattarsi delle ore di lezione, l’intervallo a scuola, il ritorno a casa
da scuola, gli impegni programmati dai genitori (lezioni di musica, lingua straniera,
catechismo, lo sport), le visite ai parenti, agli amici dei genitori, il gioco ai giardini
pubblici o in altri luoghi dove i bambini giocano con i coetanei, ecc.
Per una persona timida, o con problemi di ansia sociale, ognuno di questi
impegni può diventare una preoccupazione, una difficile prova da affrontare con
trepidazione. Costui affronterà anche il prossimo incontro in modo insoddisfacente. Ha
paura di essere presa alla sprovvista; teme che dovrà fare o dire qualcosa e non ci
riuscirà, lo farà in modo goffo, resterà impietrita davanti allo sguardo incredulo e
sarcastico delle altre persone. Forse qualcuno chiederà se c’è qualcosa che non va e
allora potrà avverarsi la peggiore delle prospettive: avere una vera e propria crisi di
ansia davanti agli altri, andare nel pallone, non capire più niente e desiderare soltanto di
sprofondare, sparire, morire. La paura di affrontare una certa situazione sociale può
scatenare un attacco di panico nell’imminenza dell’incontro o nel suo svolgersi.
Avendo fatto queste previsioni pessimistiche e spaventose, quando ci si trova
effettivamente a interagire con qualcun altro ci si sente tesi e contratti. Spesso si fa più
attenzione ai propri pensieri e a tutto ciò che accade dentro di sé che a ciò che l’altro
dice o fa. A volte si tiene costantemente sotto controllo l’impressione che si sta
suscitando: “Ecco, fin qui è andata bene. Oddio, però ora non so dove mettere le mani ...
ecco, mi ha guardato le mani, e ora? ...”. Quando si fa o si dice qualcosa di inadeguato
ci si sente sprofondare e ci si insulta mentalmente. Tutto questo lavorio mentale
naturalmente riduce la spontaneità e la “presenza”; così è più facile avere effettivamente
un atteggiamento innaturale o rigido e fare qualcosa di non adeguato alla situazione.
L’allontanamento da situazioni in cui ci si comporta in modo così
insoddisfacente è una liberazione. Ma cessati “l’esame” e il senso di apprensione,
subentra una impietosa autocritica: “non so stare con gli altri sono proprio stupido/a e
incapace. La vita non mi riserverà niente di buono”. Spesso il risultato di questa
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
continua alternanza di ansia e sensazioni di fallimento personale è la sindrome
depressiva. Specialmente le persone che non hanno un partner fisso o amici intimi si
sentono completamente sole e senza possibilità di stringere legami significativi. Ci si
aspetta che le proprie soddisfazioni debbano provenire dal rapporto con gli altri, ma
proprio il rapporto con gli altri è l’aspetto più minaccioso e doloroso dell’esistenza. Si è
quindi in un impasse. Data l’insoddisfazione di sé e per i rapporti con gli altri, le
successive occasioni sociali vengono tendenzialmente evitate o affrontate senza un
atteggiamento di apertura serena ai possibili sviluppi e senza fiducia nelle proprie
capacità di fare qualcosa di appropriato alla situazione. La rinuncia e la sfiducia portano
alla solitudine, all’impoverimento delle relazioni e a una riduzione delle occasioni di
gratificazione che potrebbero scaturire dagli incontri; e tutto ciò contribuisce alla
depressione.
Il problema dell’ansia sociale può essere generalizzato, come nella timidezza
esasperata, caso in cui diventa difficile avere a che fare praticamente con chiunque,
oppure specifico e riguardare una o più situazioni abbastanza circoscritte (per esempio,
tenere un discorso davanti a un gruppo di persone).
Alcune persone concentrano i loro timori sociali su alcune eventualità
specifiche: la paura di arrossire, di balbettare, di avere un vuoto di memoria, di avere
tutti gli occhi puntati, di inciampare e cadere per terra, di trovarsi a tu per tu con una
persona dell’altro sesso che prova a intavolare una conversazione, magari in un piccolo
locale (per esempio, lo scompartimento di un treno), e via dicendo. Le situazioni più
temute possono essere suddivise in quattro categorie:
− discorsi e interazioni formali (per esempio, tenere un discorso in pubblico o una
relazione di fronte a un gruppo di studio o di lavoro);
− discorsi e interazioni informali (per esempio, avvicinare potenziali partner,
partecipare a una festa o rivolgere la parola a un estraneo);
− interazioni assertive – cioè finalizzate all’affermazione dei propri gusti, desideri,
diritti o opinioni (per esempio, parlare con persone autorevoli, esprimere disaccordo
o chiedere lo scontrino a un negoziante che non l’ha consegnato, contrattare un
onorario, chiedere un aumento al datore di lavoro, chiedere uno sconto, chiedere un
risarcimento, ecc);
− essere osservati mentre si fa qualcosa (per esempio, mangiare o scrivere).
Ma per altri diventa preoccupante quasi ogni incontro. Allora si può arrivare a
evitare attività lavorative che implicano contatti con gli altri – per paura di essere
criticati, disapprovati o rifiutati – non entrare in relazione con altre persone in generale a
meno di non essere certi di piacere, essere inibiti persino nelle relazioni più intime per il
timore di essere criticati, umiliati o ridicolizzati e a considerarsi assolutamente incapaci,
inferiori agli altri e indegni.
La paura generalizzata del contatto con gli alti spesso inizia nell’infanzia, quando si
manifesta con timidezza, isolamento e timore degli estranei e delle situazioni nuove. La
timidezza è molto frequente nei bambini piccoli e, mentre di solito tende a ridursi con il
passare degli anni, in alcune persone si acuisce nell’adolescenza o nella prima età
adulta, quando le relazioni sociali con persone nuove iniziano a diventare
particolarmente importanti. Poi in età adulta tende a ridursi nuovamente.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Il blocco delle emozioni e la difficoltà a lasciarsi andare. Le persone timide si
accorgono che la loro capacità di provare ed esprimere emozioni e stati d’animo si
riduce o si annulla in certe situazioni sociali, quando lo stato d’animo predominante è
quello di tensione, imbarazzo, inibizione. Una parte di sé resta spettatrice e giudice:
continua a osservare e commentare le proprie azioni e a valutarne l’adeguatezza e
l’effetto sugli altri. In tutto questo lavorio mentale si perdono i propri sentimenti e non
si è più in grado di affezionarsi e di percepire i sentimenti altrui.
La paura di non piacere porta a non rivelarsi o a farlo con eccessiva cautela.
Lasciandosi andare ci si esporrebbe al giudizio altrui e si dà per scontato che tale
giudizio non potrebbe essere che negativo. Così, l’espressione dei propri sentimenti,
gusti e desideri con i movimenti del viso e del resto del corpo, con certi toni di voce,
con l’abbandono al riso, con l’irrigidirsi e il rilassarsi dei muscoli, con l’avvicinamento,
il contatto e il distanziarsi dagli altri diventano rigidi, coartati o bloccati. Il volto resta
fermo o costretto in un’espressione di circostanza, mentre possono rarefarsi certe
espressioni come quelle di stupore, perplessità, gioia, abbandono, interesse e
apprezzamento per qualcuno. Alcune delle manifestazioni più dirette dei propri stati
d’animo – come il canto, il ballo, il contatto fisico – vengono vissute come impossibili;
se avvenissero scatenerebbero un’incontrollabile tempesta di emozioni – o per lo meno
questa è più o meno la sensazione che si ha.
Là dove esistono regole piuttosto chiare e precise su quale sia il comportamento
adeguato alle circostanze si può avere facilmente un comportamento irreprensibile
evitando di rivelarsi: basta fare quello che la situazione richiede e gli altri si aspettano.
Quando esistono delle consuetudini, se io le seguo, non si può dedurre quasi niente di
me. Io mi manifesto nelle mie scelte, cioè quando potrei fare o dire mille cose e ne
faccio liberamente proprio una. In questi casi faccio pubblicamente qualcosa che non
manifesta altro che i miei desideri, i miei interessi, i miei sentimenti, i miei gusti, le mie
idee, i miei obiettivi personali. Un esempio tipico di situazioni in cui ci si rivela è quello
dell’avviare una conversazione o di contribuire a una conversazione con frasi che non
sono risposte a domande. Quanto più ci si allontana dall’ambito della propria facciata
pubblica e si entra nella sfera personale, come quando si entra in confidenza con
qualcuno, quanto più questo tipo di situazioni non strutturate tende ad aumentare. Non
meraviglia quindi che il problema del non lasciarsi andare si manifesti in modo
particolarmente evidente nell’ambito dei rapporti sessuali, ambito in cui l’atteggiamento
da spettatore, la sensazione della necessità di conformarsi a regole o standard di buona
prestazione, la tensione e la paura del giudizio tolgono di giocosità ai rapporti sessuali,
impediscono di sintonizzarsi sul partner o interferiscono persino con le sensazioni di
attrazione, desiderio, eccitamento e piacere o con le modificazioni fisiologiche che
nell’uomo e nella donna accompagnano queste fasi della risposta sessuale.
Il blocco emotivo di una persona timida. Ecco la lettera di una ragazza timida.
Sono una ragazza adolescente, studio. Mi piace uscire e stare in compagnia. Come ogni
adolescente ho dei problemi, ma uno mi assilla in modo particolare: non riesco ad essere
me stessa con gli altri! Sono timida di natura, ma la mia timidezza prende il sopravvento
un po’ troppo spesso e in modo troppo evidente! È come se avessi paura degli altri, del
loro giudizio, sono insicura, ho sempre paura di sbagliare di non essere
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
all'altezza, di non dire le cose giuste (e per questo a volte ho perso amici e ragazzi)!
Questo mi porta spesso ad isolarmi, perché in fondo quando sono da sola sto bene, mi
sento libera mi sento me stessa e fra queste quattro mura provo un gran senso di
sicurezza (non per niente sono del segno del cancro)! Spesso da piccola giocavo da sola,
e la solitudine non mi fa paura! Però quando sono in mezzo agli altri sto malissimo, il
fatto di non riuscire ad esprimere quello che sono mi fa star male! E poi sento un gran
senso di vuoto, le uniche sensazioni che riesco a provare sono ansia, nostalgia e disagio!
Sono un blocco di ghiaccio anche perché non riesco a farmi trasportare dalle emozioni!
[...]
Ho avuto un terribile trauma
Nel paragrafo “A volte perdo il controllo e ho paura di impazzire o di morire” ho
suggerito di provare a immaginare che cosa si può provare trovandosi intrappolati tra le
fiamme nella propria abitazione. Naturalmente le situazioni in cui si può provare orrore,
panico o senso di impotenza vedendo in grave pericolo la vita propria o di una persona
cara sono numerose: per esempio, combattimenti di guerra, violenze sessuali,
aggressioni, rapine, scippi, rapimenti, azioni terroristiche, torture, prigionia, disastri
naturali, incidenti automobilistici gravi o il fatto di avere ricevuto una diagnosi di
malattia grave.
Il terrore provato in tali situazioni può lasciare segni profondi – il cosiddetto
“disturbo post-traumatico da stress” descritto qui di seguito. In certe persone un evento
traumatico di questo tipo innesca una reazione ansiosa che può durare anche per anni.
Una persona precedentemente abbastanza calma e sicura può sviluppare sintomi
persistenti di ansia o di attivazione fisiologica. Può esserci, per esempio, difficoltà a
dormire o addormentarsi dovuta a incubi frequenti, oppure difficoltà a concentrarsi,
continuo stato di apprensione, irritabilità o scoppi di collera.
Sopravviene una specie di fobia per tutto ciò che è associato al trauma: ci si
sforza volontariamente di evitare pensieri, sentimenti o conversazioni che riguardano
l’evento traumatico nonché le attività, le situazioni o le persone che lo ricordano; può
esserci incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell’episodio. Trovandosi
nuovamente sul luogo dell’episodio o in presenza di una persona o di qualche altro
elemento fortemente associato all’esperienza traumatica può sopraggiungere un attacco
di panico.
In genere ci sono chiari segni del fatto che non si riesce a superare emotivamente
l’accaduto, a non soffrirne più. L’evento traumatico continua e essere rivissuto nei
ricordi, negli incubi e nella sensazione di ritrovarsi di colpo di nuovo lì.
Un altro segno del trauma è una sorta di chiusura e di ritiro rispetto al mondo
che si può manifestare con una riduzione dell’interesse o della partecipazione ad attività
che prima piacevano, con la sensazione di sentirsi distaccati o estranei nei confronti
delle altre persone, con quella di non essere più capace di provare emozioni come
prima, con minori aspettative verso il futuro (per esempio, avere una carriera, un
matrimonio, ecc.).
Ciò che traumatizza un adulto traumatizza in genere anche un bambino. Nei
bambini, inoltre, gli eventi traumatici possono comprendere la partecipazione ad attività
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
sessuali non adeguate all’età – a prescindere dal fatto che siano avvenute, o che siano
state minacciate, delle violenze. Un modo tipico dei bambini di manifestare la difficoltà
a superare l’evento consiste nel fare giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o
aspetti riguardanti il trauma, oppure sogni spaventosi senza un contenuto particolare.
Specialmente quando il trauma è dovuto alle azioni di altre persone (per
esempio, violenza sessuale, torture, prigionia), la persona con disturbo post-traumatico
da stress può perdere la capacità di controllare le sue reazioni affettive e iniziare a
comportarsi in modo impulsivo o autolesionistico, avere spesso malesseri fisici,
sviluppare sentimenti di incapacità, disperazione, vergogna, sentirsi irreparabilmente
danneggiata, isolarsi dagli altri, cambiare idee e atteggiamenti su questioni importanti
per la vita, sentirsi sempre minacciata e diventare ostile.
Qualcosa non va nella mia salute
A volte ci si preoccupa perché si nota in sé qualche stranezza. Ognuno di noi ha
una sua idea di come funziona normalmente il suo corpo e la sua persona in senso
complessivo e se si osserva un fenomeno anomalo ci si può allarmare e si può cercare di
capire se è il presagio di qualche malattia o malessere, se è il caso di prendere
provvedimenti per riportare la situazione alla norma o se conviene non farci caso,
perché “tanto non è niente e passa da sé”.
Il problema psicologico di alcune persone consiste proprio nel fatto che, spinte
dalla paura della malattia, non possono fare a meno di osservare se c’è qualcosa non va
in loro e, così facendo, trovano sempre qualcosa. “Cos’è questa tachicardia? Perché
quando mi alzo per un attimo mi gira la testa e vedo tutto nero? Perché quando mi
emoziono mi manca l’aria? Che cos’è questa macchiolina che mi è comparsa sulla
pelle? Non sarà mica l’inizio di un tumore? Mi sento strano, non saprei dire di
preciso...” Queste persone hanno sempre presente il pericolo di ammalarsi o morire e lo
sopravvalutano. Stanno in guardia e preferiscono che l’allarme suoni una volta in più
del necessario anziché una volta di meno.
La constatazione di anomalie nel corpo e nel suo funzionamento può mettere in
allarme e scatenare l’ansia oppure indurre a ricercare spesso e inutilmente una
rassicurazione nell’enciclopedia medica di casa, dal proprio dottore, nelle rubriche e nei
programmi televisivi che si occupano di salute e via dicendo. La preoccupazione
eccessiva per ciò che può essere vissuto come uno strano sintomo e per la possibilità di
contrarre una malattia o morire viene spesso a chi si è già ammalato e ne ha sofferto
molto, o a chi è rimasto impressionato per la malattia o la morte di qualcun altro.
Quando la constatazione di difetti o malfunzionamenti nel proprio corpo viene vissuta
con ansia si crea spesso un circolo vizioso, per cui sono proprio i processi fisiologici
che si accompagnano all’ansia che danno motivo di preoccupazione.
È un bene preoccuparsi quando si vede che c’è qualcosa che non va nella propria
salute, altrimenti che cosa ci spingerebbe a sottoporci ai tanto raccomandati esami
preventivi o check-up periodici? Ma a volte l’allarme suona troppo facilmente e troppo
spesso e fa più danni di un eventuale incendio, diventando la principale preoccupazione,
impedendo una vita serena e libera, creando conflitti con le persone circostanti,
costringendo a evitare impegni importanti e rendendo la propria esistenza simile a un
eterno pellegrinaggio da un luminare all’altro.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
A volte la sopravvalutazione del pericolo di una malattia riguarda un’altra
persona; se si tratta della preoccupazione di un genitore per un figlio rischia di minare il
senso di sicurezza della prole.
Il mio corpo ha un orribile difetto
Certe persone si accorgono, in genere durante l’adolescenza, di avere qualche
difetto fisico e ne soffrono molto. Può trattarsi di qualunque parte del corpo: naso
troppo grosso, gambe storte, calvizie, glutei troppo grossi, seno troppo piccolo, occhi
troppo distanti, ecc. Ogni volta che ci pensano provano ansia. Magari riescono a non
pensarci per un po’; poi per caso si specchiano in una vetrina o su qualche altra
superficie riflettente e l’angoscia torna addosso. Poiché il fastidio di non essere come si
vorrebbe può diventare la preoccupazione principale della vita, sarebbero disposte a
qualunque cosa pur di correggerlo e a volte si sottopongono a interventi di chirurgia
estetica per farlo. Quando questa condizione raggiunge un certo livello di gravità si
chiama disturbo da dismorfismo corporeo.
Qualcuno passa molto tempo davanti allo specchio a cercare di dare un’esatta
valutazione del proprio difetto, misurare quanto si discosta dalla normalità, cercare di
capire in quali posizioni è più pronunciato e in quali meno, come potrebbe essere visto e
giudicato dagli altri, come lo si potrebbe camuffare, se ci sono possibilità di migliorarlo
in qualche modo, se sta progredendo o regredendo. Tutte queste valutazioni sono
accompagnate da un senso di ansia, impotenza e disperazione e proseguono anche
davanti a vetrine, specchietti, automobili lucide e altre superfici riflettenti. A volte ci si
inchioda davanti allo specchio odiando il proprio difetto e dannandosi per la sfortuna
avuta sperando in una magia che lo faccia scomparire. L’angoscia per l’imperfezione o
la grossolana deformità può essere tale che gli specchi vengono evitati del tutto, fatti
sparire, coperti. Di fronte all’irreparabilità del proprio difetto qualcuno pensa alla più
definitiva di tutte le soluzioni.
Stare con le altre persone può essere molto penoso. Si dà per scontato che anche
gli altri trovino molto sgradevole il proprio aspetto e si teme che possano fare commenti
sarcastici in proposito. Se poi capita di sentire qualche battuta al riguardo – a cui magari
chi l’ha detta non ha dato nessun peso –, ci si sente sprofondare.
A volte i familiari, gli amici o qualche medico dicono che non ci si deve
preoccupare perché o non riescono proprio a capire quale sia il problema oppure il
difetto a loro non sembra grave. A volte riescono a dire qualcosa di convincente e
rassicurante ma purtroppo la tranquillità dura poco. Così qualcuno preferisce
nascondere il proprio difetto, camuffarlo o compensarlo o non farsi vedere per niente
dalle altre persone.
Qualcuno si accorge di dare un’importanza esagerata al danno perché constata,
per esempio, che molti altri hanno difetti peggiori e né se ne preoccupano, né vengono
derisi o isolati. Ciò nonostante sembra di non poter fare niente per liberarsi dal pensiero
fisso e dall’ansia, dalla vergogna e dal rammarico per il problema. A volte la
preoccupazione passa solo quando viene sostituita dalla preoccupazione per un altro
difetto proprio o di un’altra persona – per esempio, il partner.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Ho paura di ingrassare
Fra i difetti che possono rovinare l’esistenza c’è quello di essere sovrappeso. Il
problema dei chili di troppo può essere vissuto nei modi descritti nel paragrafo
precedente.
L’idea di grasso nella nostra società è associata all’idea di brutto e malsano.
Viceversa i modelli di bellezza e salute sono invariabilmente magri o magrissimi.
Buona parte dell’industria del dimagrimento sopravvive alimentando la sofferenza delle
persone sovrappeso con messaggi colpevolizzanti e denigratori riguardo alla grassezza
nonché con informazioni sbagliate e promesse miracolistiche in merito ai programmi e
ai prodotti di dimagrimento. Il fatto di essere sovrappeso inoltre è un fattore di rischio
per varie malattie e può creare vari fastidi. Così un po’ tutti cerchiamo di mantenere il
nostro peso ideale per sentirci belli, sani e in forma. Molte persone sovrappeso d’altra
parte non si piacciono, si vergognano di loro stesse e si disprezzano.
Una lieve paura di ingrassare può esserci utile se ci aiuta a controllare
l’alimentazione e il moto quando abbiamo preso diversi chili di troppo, specialmente se
anche il medico ci ha già avvertiti del fatto che nel nostro caso sarebbe proprio meglio
non eccedere con il cibo perché, per esempio, ci sono problemi di metabolismo. Ma per
qualcuno il timore di ingrassare diventa una delle preoccupazioni principali intorno a
cui ruota tutta l’esistenza. La magrezza e il digiuno vengono considerate virtù mentre la
fame e il cibo appaiono come il male. Mangiare viene considerata pressappoco una
disgustosa e immorale schiavitù. Il corpo non viene più percepito nella sua globalità, ma
ci si concentra eccessivamente sull’aspetto della grassezza/magrezza. Dei cibi si impara
a considerare in primo luogo il contenuto calorico. La bilancia, le tabelle conta-calorie,
le diete e il fitness riempiono tutto l’universo psicologico.
Quando il peso viene vissuto come un grosso problema può associarsi ad altre
forme di sofferenza psicologica, come la depressione, l'ansia, la paura di apparire in
pubblico e problemi sessuali. La sensazione di non piacere, che si accompagni o meno a
quella di non valere nulla, porta a rinchiudersi, a evitare le occasioni di incontro e a
volte, paradossalmente, a mangiare di più, per compensare con il cibo la frustrazione di
altri desideri insoddisfatti.
Fra le persone che hanno paura di ingrassare o di essere grasse ci sono individui
più o meno magri: si va da individui estremamente sottopeso – che rischiano di morire –
a persone decisamente obese. Alcune persone con un peso normale o inferiore al peso
forma si vedono grasse perché magari giudicano il proprio grado di grassezza
considerando una parte specifica del proprio corpo dove c’è un accumulo di adipe.
Come tutti sanno, dimagrire non è affatto facile, sia perché comporta fatica,
sacrifici e rinunce, sia perché in realtà il nostro peso e la forma del nostro corpo sono in
gran parte determinati da fattori biologici contro i quali è inutile lottare. Ogni dieta
dovrebbe essere molto graduale perché la ricerca scientifica ha dimostrato che, quasi
regolarmente, i chili persi velocemente si riacquistano altrettanto velocemente – a volte
“con gli interessi”. Infatti, i cambiamenti notevoli e veloci si ottengono solo a costo di
uno sforzo molto intenso, che è difficilissimo proseguire. Lo sforzo eccessivo in genere
fa crollare, fa perdere fiducia nella proprie capacità di controllarsi e fa sentire
inutilmente in colpa per aver fallito nel raggiungere un obiettivo troppo ambizioso.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
D’altra parte, la pressione a dimagrire può essere molto forte sia perché il fatto
di non piacersi e di non piacere spinge a fare qualcosa per cambiare, sia perché siamo
continuamente bombardati da messaggi ingannevoli che esagerano l’importanza di ogni
minima imperfezione fisica e propagandano metodi miracolosi per perdere chili
velocemente e senza fatica. Così, le persone sovrappeso soffrono doppiamente: per tutti
i costi legati a un corpo che non soddisfa e che ostacola e per il senso di colpa dovuto al
non riuscire a cambiare quanto si vorrebbe. Infatti, spesso ci si incolpa per il proprio
peso eccessivo e ci si sente privi di volontà e indegni perché non si riesce a cambiare.
Ogni tentativo di dimagrimento fallito farà sentire ancora peggio chi soffre già per il
proprio peso.
Paura di ingrassare e bulimia
Alcune persone che hanno paura di ingrassare cercano di mettersi a dieta. Ma la
maggior parte delle diete impone delle rinunce troppo costose, per cui la fame si fa
sentire presto e in modo marcato. Inoltre attorno a noi c’è costantemente un’abbondanza
di cibi molto appetitosi che farebbero gola a una persona sazia; su una persona affamata
esercitano un’attrazione forse ancora più forte, così i propositi di digiuno vengono messi
a dura prova e ogni rinuncia viene vissuta come una frustrazione.
Se una persona che ha paura di ingrassare e sta seguendo una dieta troppo rigida
un giorno ha un cedimento e mangia un cibo altamente calorico o in quantità maggiore
del dovuto – magari in un momento di stanchezza, stress o conflitto con persone vicine
–, può pensare qualcosa del tipo “ormai ho trasgredito; tanto vale andare fino in fondo”
e abbandonarsi a mangiare rapidamente tutto ciò che le capita a tiro fino a sentirsi male.
(In effetti un aspetto importante di questo problema è a volte il senso di perdita del
controllo di sé; in questo senso le abbuffate di cibo potrebbero trovare una giusta
collocazione anche nel prossimo capitolo, “Io non riesco”.) Subito dopo un abbuffata
può ripresentarsi lo spettro della grassezza e subentrare uno senso di ansia, depressione,
vergogna, mortificazione e colpa; per cercare di annullare gli effetti del consumo
eccessivo di cibo si può ricorrere a misure drastiche come digiuni, esercizio fisico
eccessivo o perfino al vomito, o all’uso di lassativi, diuretici o clisteri. Tornando a una
dieta eccessivamente restrittiva, ci si trova di nuovo ad avere una fame e un desiderio di
gratificazioni alimentari smodati che predispongono a nuove abbuffate, che prima o poi
arrivano e richiedono nuove compensazioni. Questa alternanza di episodi di
alimentazione incontrollata e misure compensatorie eccessive prende il nome di bulimia
nervosa. Interessa un numero sempre maggiore di adolescenti e giovani donne che
danno molta importanza al peso e alla forma del loro corpo, pur essendo in genere nei
limiti della norma. Spesso si associa a bassa autostima, depressione e problemi di ansia.
Paura di ingrassare e anoressia
Alcune persone seguono diete rigidissime che fanno perdere molti chili, fino ad
arrivare a una magrezza pericolosa per la salute. È la cosiddetta anoressia nervosa, che
riguarda nel 90% dei casi persone di sesso femminile e giovani. Il terrore di diventare
grassi porta a detestare il cibo. Paradossalmente però il calo di peso non fa passare la
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
paura ma in molti casi l’aumenta. Nonostante la perdita di chili, molte persone con
questo tipo di problema continuano a vedersi troppo grasse, complessivamente o in
certe zone cruciali come i glutei, i fianchi o le cosce. La perdita di peso appare però
come una formidabile conquista e un segno di grande autodisciplina, mentre l’aumento
viene vissuto come una perdita di controllo inaccettabile. Anche per le ragazze e le
donne anoressiche il giudizio su di sé dipende più che altro dal peso e dalla forma del
corpo. Notoriamente queste diete eccessive – così come il vomito o l’abuso di clisteri,
lassativi e diuretici – finiscono per creare complicazioni psicologiche e mediche
importanti (la prima è la perdita delle mestruazioni), per cui ci si rivolge al medico o ci
si viene portati dai familiari.
Ansia, paura e senso di incapacità
Nelle paure c’è spesso una corrispondenza molto stretta fra la sofferenza
dell’ansia e il senso di incapacità. Ciò di cui si ha paura sono le situazioni in cui si
percepisce una minaccia che non ci si sente in grado di gestire: ho paura di essere
abbandonato se prevedo che da solo non saprei cavarmela e che non riuscirei a trovare
altre persone rassicuranti; ho paura di provare ansia se penso che l’ansia mi possa
nuocere e prevedo che quando arriverà l’ansia non saprò fare niente per arginarla; ho
paura di essere interrogato a scuola se penso che un’interrogazione fallita potrebbe
avere brutte conseguenze e se prevedo che per qualche motivo non avrò il controllo
sull’esito della mia interrogazione.
Non solo l’ansia è la conseguenza della percezione di non avere il controllo su
un pericolo, ma il fatto di provare ansia può impedire di utilizzare al meglio le proprie
capacità, o perlomeno questa è la netta sensazione che si prova quando si è in ansia:
infatti un pensiero che le persone fanno spesso quando sono in ansia è “sto perdendo il
controllo di me”.
Tristezza e sindrome depressiva
La tristezza è una delle principali emozioni che si provano in seguito alla
constatazione di un insuccesso o di una perdita: l’insuccesso dei nostri tentativi di
raggiungere una meta ambita – per esempio, l’amore di qualcuno, un progresso nel
lavoro o nello studio – o la perdita di qualcosa di valore – l’amore per se stessi e
l’autostima, l’integrità fisica o psicologica, la stima di persone importanti, una vita
serena, una persona amata, la possibilità di continuare a svolgere un’attività importante,
un bene essenziale.
La tristezza è quasi sempre presente quando si è affetti da una malattia o da un
problema psicologico importanti, sia pure con gradazioni e sfumature diverse. Diventa
in sé un problema nella sindrome depressiva, quando si associa a perdita di interesse per
ogni cosa, incapacità di godere di alcunché, mancanza di energie, rinuncia a partecipare
a qualsiasi attività, abbandono di ogni progetto per il futuro, desiderio di morire, senso
di colpa ingiustificato. La capacità di concentrarsi, pensare e lavorare viene meno
lasciando il posto all’inattività e all’apatia o a una sterile irrequietezza. Le persone
depresse si sentono sole nel loro dolore; l’aiuto altrui può risultare inefficace e persino
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
acuire la sensazione di impotenza e isolamento. Di loro stesse percepiscono solo i difetti
e le colpe, che possono giudicare enormi e irreparabili. Il futuro sembra non poter
riservare niente di buono. La vita sembra perdere di ogni senso e appare come una
condanna ingiusta a cui ci si vorrebbe sottrarre. I sentimenti di disperazione sembrano
paralizzare completamente. Il sonno, l’alimentazione e la sessualità perdono la capacità
di gratificare e si deteriorano.
La mente di una persona depressa è quasi costantemente alle prese con pensieri
di autosvalutazione, colpa, autoaccusa, indegnità e con giudizi di incapacità e previsioni
pessimistiche che generano un senso di abbattimento e stroncano ogni considerazione
che si può tentare di fare per cercare di ritrovare ragioni per proteggere e migliorare la
propria esistenza. In un quadro di demotivazione e perdita di iniziativa generali come
questo, è comprensibile che lo studio e il lavoro possano essere vissuti come attività
prive di ogni interesse e al di sopra delle proprie capacità; gli insuccessi e le critiche a
cui si va incontro in questo stato non fanno che peggiorare la sfiducia, il senso di
incapacità e il pessimismo.
Anche i rapporti interpersonali tendono a deteriorarsi: le persone circostanti
vedono fallire tutti i loro tentativi di sollevare la persona depressa dal dolore e dalla
disperazione; i tentativi di ridimensionare i motivi di tristezza, di alimentare un po’ di
ottimismo e di mettere in luce le qualità e le prospettive promettenti del depresso
sembrano infrangersi contro un muro incrollabile. Sono costrette, impotenti, a vedere
l’amico che sprofonda nella sua infelicità e ad ascoltare i suoi continui commenti
pessimistici e disfattisti. Il contributo emotivo e pratico della persona depressa al
benessere della famiglia – o a quello degli altri gruppi cui eventualmente appartiene –
diviene meno efficace, diminuisce o sparisce del tutto. Così, la sua popolarità cala
notevolmente e le altre persone, per evitare di sentirsi frustrate e per proteggersi dal
possibile “contagio” dell’umore depresso, tendono a ritirarsi. Altre volte tendono a
deprimersi a loro volta. In questo modo, il sofferente rischia di venire a trovarsi in uno
stato di maggiore solitudine.
Come già accennato, la sindrome depressiva può essere la conseguenza di una
malattia cronica, una menomazione o un problema psicologico – per esempio, un
problema di timidezza o di ansia, un disturbo alimentare, un disturbo sessuale. A volte
si risolve da sé nel giro di pochi mesi, ma spesso lascia segni profondi nella personalità
e costituisce di per sé un’esperienza dolorosissima e distruttiva. Lo stato di depressione
è così doloroso che spesso le persone depresse tentano di togliersi la vita per porvi fine
definitivamente. Anche quando non c’è il rischio di un gesto così estremo la
depressione può minacciare seriamente la prosecuzione di relazioni affettive importanti,
il lavoro, un corso di studi e ogni altro progetto significativo.
Nella vita non mancano certo motivi di tristezza e pessimismo ma in genere la
nostra irrazionale spinta a vivere ci restituisce l’amor proprio nonché la voglia e la
capacità di impegnarci in progetti significativi e gratificanti. Nella sindrome depressiva
questo meccanismo di recupero tarda a riattivarsi o sembra sopito e a volte il tempo
passa senza che si verifichi niente che sia in grado di mutare l’atteggiamento della
persona depressa verso l’esistenza; in questi casi è possibile ricorrere a forme di aiuto
spesso efficaci, come la psicoterapia o gli psicofarmaci.
Euforia eccessiva (mania)
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Paradossalmente, anche lo stato d’animo opposto alla tristezza – l’euforia – può
costituire un problema. Esiste un disturbo dell’umore chiamato “mania” – che spesso si
alterna alla depressione – in cui uno stato di estrema gioia si accompagna a una gran
voglia di fare, energie inesauribili e anormale senso di capacità. I pensieri si susseguono
rapidissimamente e si ha un incessante bisogno di parlare e di esprimersi
freneticamente.
Se lo stato di depressione è permeato da pessimismo, nell’umore maniacale si
guarda al proprio mondo con un ottimismo totale, ingiustificato e inguaribile. La
persona con questo umore si sente migliore degli altri, più sveglia e più sana che mai;
gli altri appaiono ottusi e lenti e questo diviene motivo di irritazione.
L’ottimismo esagerato e la sopravvalutazione delle proprie capacità
rappresentano un rischio non minore del pessimismo e del crollo dell’autostima. La
persona di umore maniacale, per esempio, può dire o fare cose avventate o
irragionevoli, fare spese inutili o eccessive, guidare in modo spericolato, fare
investimenti affrettati, mettere in pericolo la propria vita, avere comportamenti sessuali
rischiosi o fuori luogo, coinvolgersi in attività pericolose e comportarsi in modo
aggressivo e violento – tutte cose che, quando l’umore torna a un tono più normale,
sono in genere motivo di rammarico. L’umore maniacale si tramuta spesso rapidamente
in rabbia o depressione.
Rabbia
Ognuno di noi ha ben chiaro che cosa significhi essere arrabbiati: ci si sente tesi
e si fatica a trattenere un’ondata di energia che cerca una via di sfogo attraverso
un’azione decisa: gridare, lanciare oggetti, menare le mani contro oggetti o persone. Chi
è in collera ha la tentazione di canalizzare questa energia contro la persona che ha
suscitato la sua ira e di aggredirla, nuocerle. Insomma, la nostra mente è invasa da un
senso di ostilità, dall’impulso di eliminare, annullare, cancellare la fonte dell’irritazione,
che al momento viene vista come una fonte di male assoluto che non possiamo e non
vogliamo tollerare. E il corpo è pronto ad attaccare (i fenomeni fisiologici e cognitivi
che si accompagnano alla collera sono molto simili a quelli che si accompagnano
all’ansia – vedi sopra, la tabella 1.1).
Questo sentimento ha un rapporto stretto con la tristezza, infatti nei bambini e
negli adolescenti l’irritabilità può essere il sentimento predominante in un quadro di
depressione (vedi sopra, “Tristezza e sindrome depressiva”). Nella tristezza, e anche di
più nella depressione, si è in un certo senso rassegnati a una perdita o a un insuccesso.
Al centro dei pensieri che provocano tristezza e depressione c’è l’idea di avere perso
irrimediabilmente qualcosa di prezioso. Nella collera invece si è pronti ad agire per
“fare giustizia” e porre rimedio alla perdita, che si percepisce come un ingiustizia, un
sopruso subito. I due stati d’animo possono alternarsi rapidamente, per esempio quando
si fa fatica a rassegnarsi a una circostanza sgradita e dolorosa. A volte si passa dalla
prevalenza della rabbia, nel primo periodo dopo uno stress importante (per esempio, una
delusione amorosa o lavorativa), alla prevalenza della tristezza. Se l’elaborazione
mentale dell’episodio va a buon fine, si arriva poi a sentimenti più miti e
all’accettazione vera e propria.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Alcuni fattori psicologici – come una condizione di vulnerabilità o di bisogno
dovuta a stanchezza, stress, preoccupazione, senso di inadeguatezza – ci predispongono
a provare collera. Per quanto riguarda le circostanze che motivano le reazioni di rabbia,
esse possono essere di ogni tipo. Come avviene nel caso delle altre emozioni, il filo
conduttore delle situazioni che provocano collera va rintracciato nella nostra mente più
che negli eventi. Infatti, a prescindere dagli episodi concreti che suscitano la nostra ira,
tendiamo a adirarci quando subiamo una frustrazione inaccettabile di un nostro
desiderio o bisogno (per es., “vorrei parlare con te ma c’è il bambino che piange”,
“vorrei riposare ma c’è un lavoro urgente da sbrigare”) o quando vediamo violati una
nostra regola o un nostro valore (per es., “è intollerabile che ancora oggi si compiano
tali atti di discriminazione!”). Spesso in questi casi la nostra mente è attraversata da
pensieri del tipo “non è giusto e non posso tollerare che accadano cose di questo tipo,
devo oppormi”. Tali pensieri hanno un ruolo molto importante nei sentimenti cronici di
collera e ostilità.
Oltre ai fattori predisponenti e scatenanti, ci sono poi alcuni fattori aggravanti.
La rabbia peggiora se si ha la sensazione che la persona che ci frustra commetta
un’ingiustizia, un sopruso, un atto che denota mancanza di riguardo; se fa tutto questo
non per distrazione ma intenzionalmente o addirittura con malvagità; se il nostro
desiderio o principio frustrato è molto forte o importante; se stiamo già facendo degli
sforzi per mantenere il nostro equilibrio emotivo e tenere testa alle richieste che ci
provengono da altre fonti.
In che modo la collera può diventare un problema? Qualcuno si accorge di avere
la miccia corta: ci vuole veramente poco per farlo arrabbiare – e molto per farlo
calmare. È una situazione in cui si trovano spesso le persone che hanno già problemi di
ansia, depressione o stress.
Qualcuno ha paura di quello che potrebbe fare in preda a un attacco di rabbia:
già almeno una volta, durante un episodio di collera, è stato a un passo dal fare
veramente male a qualcuno o a se stesso e si rende conto di non dover arrivare più a tal
punto.
Gestire e incanalare utilmente e costruttivamente la propria collera non è affatto
facile: richiede complesse capacità psicologiche e interpersonali. Così alcune persone
inclini alla collera oscillano spesso fra due atteggiamenti contrastanti: esplosioni
distruttive di rabbia da un lato e, dall’altro, repressione di sentimenti di ira, che non si
lasciano superare o trasformare in qualcosa di meno doloroso e più gestibile.
La rabbia repressa, rischia di provocare disturbi psicofisiologici da stress, in
particolare disturbi cardiovascolari. Inoltre reprimendo la rabbia a volte si rinuncia del
tutto a cercare di ottenere ciò che si vuole e si covano sentimenti cronici di risentimento,
insoddisfazione, sfiducia e disprezzo per se stessi.
D’altra parte, l’espressione incontrollata di questo sentimento, oltre a essere
fisicamente pericolosa se si arriva alle percosse, è deleteria anche sul piano psicologico
e su quello interpersonale. Sul piano psicologico può provocare ferite psicologiche, poi
difficili da risanare, nella persona oggetto delle ire. Provoca senso di colpa, vergogna,
ansia e depressione in chi, perdendo il controllo di sé, si lascia trasportare troppo e
dimostra a sé e agli altri la propria mancanza di controllo e impotenza. Ed è deleteria
per chi assiste a questi sfoghi; per esempio i figli, possono restare scossi e spaventati da
certe manifestazioni eccessive di rabbia dei genitori, possono cominciare a temere chi
perde così il controllo, possono agire in modo analogo in situazioni simili, crescendo
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
con la sfiducia nella possibilità di intendersi con gli altri e ritardando lo sviluppo delle
risorse necessarie per esprimere costruttivamente i propri desideri e sentimenti e
affrontare costruttivamente problemi e conflitti interpersonali.
Sul piano interpersonale, strettamente connesso al precedente, la manifestazione
incontrollata della collera rischia di deteriorare i rapporti, allontanando persone che
dovrebbero collaborare o innescando escalation tanto dolorose quanto pericolose per un
armoniosa prosecuzione del rapporto.
Gelosia
La gelosia è un sentimento complesso. Si manifesta con un misto di emozioni di
ansia, paura, vergogna e rabbia all’idea che qualcuno possa toglierci qualcosa che per
noi è prezioso. La paura e l’ansia riguardano principalmente la perdita della persona o
dell’oggetto a cui teniamo. La rabbia dipende dalla violazione del nostro possesso
esclusivo, che ci proteggeva da penosi confronti e dalla paura dell’abbandono, ed è
rivolta a chi ci vuole privare di ciò che amiamo (che spesso è la stessa persona amata).
La vergogna deriva dalla previsione o dalla constatazione di un peggioramento della
nostra immagine in noi stessi e negli altri.
Benché il sentimento di gelosia possa manifestarsi in forme estreme anche per
un’amicizia, per i figli o per un oggetto, il contesto in cui probabilmente ha più
probabilità di esprimersi nelle sue forme distruttive sembra essere quello dei rapporti di
coppia.
La gelosia ci aiuta a proteggere ciò a cui teniamo e dimostra alle persone che
amiamo il nostro attaccamento a loro. In questo senso quindi può essere utile. Ma in
altri casi ci accorge che la propria gelosia sta diventando eccessiva. Allora si vive il
tormento di continui sentimenti di ansia e paura, vergogna, rabbia e tristezza che
ruotano attorno al rischio che il partner se ne vada con qualcun altro – spesso anche
senza la prova incontrovertibile che il partner abbia al momento altri pretendenti, sia in
cerca di altri possibili amanti o che un’altra persona stia per prendere il nostro posto nel
suo cuore e lui/lei sia in procinto di lasciarci per quest’altra persona. La sorveglianza
continua del partner, gli interrogatori insistenti, i controlli, le trappole, l’imposizione di
limitazioni alla sua libertà, le ritorsioni per certi suoi comportamenti o le scenate al
presunto o alla presunta rivale possono provocare l’ira del partner, litigi e minacce di
abbandono – proprio ciò che si voleva assolutamente evitare. Sono più inclini a vivere
queste forme di gelosia eccessiva e controproducente le persone insicure e possessive,
che si apprezzano poco.
Qualcuno, senza motivi sufficienti, è assolutamente convinto che il proprio
partner sia costantemente attratto da altri possibili amanti, e non riesce a togliersi dalla
testa questa idea, che entra nei sogni e in molti pensieri della veglia. Se il partner prende
in mano il telefono e non si capisce con chi stia parlando, l’unica spiegazione plausibile
pare essere: sta parlando con l’altro/a. Se esce di casa e non dice dove va, certamente
lo/a vuole incontrare. Anche quando dice dove va, spesso mente; infatti a volte non è
stato trovato dove sarebbe dovuto essere o è stato visto altrove. Quando è in casa ha
spesso un’aria strana, perché sta architettando qualcosa. A volte la situazione diventa
anche imbarazzante con le altre persone che fanno spesso allusioni alle corna.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Specialmente nel periodo dell’adolescenza si sviluppano fra coetanei rapporti e
sentimenti di amicizia molto forti, che hanno vari aspetti in comune con innamoramenti
veri e propri. Questi legami sono un fertile terreno per la comparsa di forti sentimenti di
gelosia, spesso giustificati da rapidi mutamenti di atteggiamento dell’amico preferito e
dall’incostanza e imprevedibilità dei suoi affetti. Infatti capita spesso che,
particolarmente a questa età, i sentimenti siano volubili , anche per il desiderio di
sperimentare e per le rapide trasformazioni della personalità, dei desideri e dei gusti.
Così, non di rado l’amico preferito, di colpo, assume un atteggiamento distratto, meno
interessato e più rivolto all’amicizia con altre persone – e a volte diventa proprio il
rivale in amore. Allora il mondo sembra crollare addosso...
La gelosia può diventare un problema anche in mille altri contesti. Voglio qui
citare solo un’altro tipo di occasioni. Questo sentimento può essere il motivo di conflitti
e ritorsioni fra pari grado che si contendono privilegi e attenzioni di una persona in
posizione superiore: può trattarsi, per esempio, di fratelli in lotta per la considerazione e
l’amore di un genitore o di colleghi che si fanno le scarpe a vicenda per salire nella
considerazione del capo. In questi casi la paura vissuta è quella di perdere il primo posto
nella scala dell’apprezzamento.
Vergogna
La vergogna può essere definita come il timore di perdere la faccia o il
dispiacere per averla persa, che determina, di conseguenza, il desiderio di nascondersi e
“di sparire sotto il pavimento”. La vergogna è quindi il campanello d’allarme delle
brutte figure; può servire a evitare di perdere la propria buona immagine nei confronti
degli altri e di se stessi. È una specie di freno interiore per le azioni sconvenienti: la sua
totale assenza potrebbe lasciarci agire in modo sfacciato, impudente.
Benché si possa provare vergogna anche quando ci si trova da soli, questo
sentimento implica la presenza psicologica di altre persone. Tendenzialmente ci si
vergogna quando ci si trova inadeguati rispetto al proprio ideale, specialmente quando
ciò capita in un contesto pubblico o in riferimento a qualche codice sociale. Ci si può
vergognare sia quando gli altri sono presenti, sia quando la loro presenza occupa la
mente, per esempio, mentre si sta riflettendo su una propria azione. Al centro di questo
sentimento c’è l’idea di avere raggiunto il proprio anti-ideale, di avere manifestato
comportamenti, provato emozioni o concepito pensieri opposti rispetto a quelli che si
considerano opportuni, giusti, validi, meritevoli – oppure la convinzione di avere un
aspetto o una personalità che sono agli antipodi rispetto a quelli che si vorrebbero.
Alcune situazioni in cui ci si vergogna spesso sono l’insuccesso nel lavoro e
negli studi, l’essere “colti in fallo”, le prestazioni sessuali deludenti o il fatto di avere
attirato l’attenzione involontariamente, ma ci si può anche vergognare per gli altri,
mettendosi nei panni loro. La vergogna può essere vista dagli altri come segno di
insicurezza, timorosità, incapacità di fronteggiare gli altri o piccole difficoltà, eccessiva
dipendenza dal giudizio altrui e scarso controllo sulle emozioni; così chi ha problemi di
vergogna si vergogna a volte anche del fatto stesso di vergognarsi.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Quando ci si vergogna ci si sente deboli, ridicoli, privi di valore, incapaci,
inadeguati o difettosi e si tende a pensare che anche gli altri, oltre a noi stessi, abbiano
un atteggiamento negativo nei nostri confronti. Così, i tentativi altrui di non farci
vergognare e di farci capire che nessuno ci sta giudicando negativamente non fanno che
acuire questo sgradevole sentimento. L’impulso è quello di scappare, nascondersi o
come minimo distogliere lo sguardo. Altre volte si aggredisce la persona che secondo
noi ci ha fatto vergognare.
Per evitare questo sentimento, quando si prevede di provarlo violentemente
senza non poterlo controllare, si evitano le persone e le circostanze in presenza di cui lo
si è provato o lo si potrebbe provare. Un altro modo per sfuggire alla vergogna consiste
nell’evitare di far emergere la propria personalità in presenza di altre persone; a questo
scopo ci si può uniformare in tutto e per tutto a ciò che fanno gli altri, in modo da non
essere notati, oppure si può cercare di adulare e ammansire chi potrebbe richiamare
l’attenzione su di noi, nella speranza che questo basti a “riempire” tutto il tempo a
disposizione o che l’altro non ci attacchi per lealtà o gratitudine. Chi ha problemi di
vergogna tende quindi a evitare le situazioni “a rischio”. Ma le situazioni a rischio
possono essere così tante che non possono essere evitare tutte.
La vergogna è associata a vari altri problemi psicologici. Si tratta evidentemente
di un’emozione strettamente connessa con il problema dell’ansia sociale: chi soffre di
ansia sociale prova violente sensazioni di vergogna e spesso ha imparato a temerle.
Alcune possibili cause di vergogna possono essere la convinzione di avere un grave
difetto fisico, la tendenza ad arrossire, la difficoltà a esprimersi come nella balbuzie o la
presenza di tic. Questo sentimento è comune anche fra persone che soffrono di disturbi
alimentari e che, nel disprezzo di se stesse, mangiano in modo incontrollato. Più in
generale è legato a situazioni psicologiche di scarsa fiducia e stima di sé. L’abuso di
alcolici o di altre droghe può servire a mitigare provvisoriamente la sofferenza causata
da sentimenti eccessivi di vergogna. Nella coppia questo sentimento può diventare un
importante ostacolo a una sessualità serena e soddisfacente, per esempio in persone che
hanno subito violenze sessuali o in chi ha ricevuto un’educazione religiosa rigida.
Insomma...
La descrizione del posto delle emozioni nei problemi psicologici sarebbe potuta
continuare per molto. Darle un termine a questo punto significa non menzionare molte
altre esperienze comuni e dolorose.
Il senso di colpa, per esempio, può accompagnare penosamente la vita di chi
crede di avere provocato a sé o a qualcun altro un danno che si poteva evitare; a volte
chi ha perso una persona cara si convince a ragione o torto che qualcosa di più avrebbe
potuto fare per salvarla. Queste persone sviluppano in genere un sindrome depressiva e
il senso di colpa può dilatarsi e generalizzarsi fino a perdere apparentemente ogni senso
per le persone circostanti. Paradossalmente questo sentimento può diventare prevalente
anche in chi il danno lo ha palesemente subito; per esempio nelle vittime di stupri e nei
bambini maltrattati. A volte compare perché si cerca e si trova in sé un difetto che possa
avere giustificato tanto accanimento sulla propria persona. Questo sentimento
accompagna spesso anche i comportamenti sessuali.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
L’ultimo sentimento che voglio menzionare, molto rapidamente, è il disgusto;
questa repulsione accentuata segnala l’esistenza di un baratro fra la concezione ideale di
sé, di un’azione o di un’altra persona e la constatazione di una realtà. Il disgusto per se
stessi è una componente emotiva della depressione. Nei rapporti di coppia il disgusto
verso il partner è il segnale di una incompatibilità molto difficile da ricomporre.
È difficile distinguere un’emozione dall’altra. Ciò che si prova è difficile da
esprimere a parole; i termini di cui disponiamo per indicare le emozioni alludono a
esperienze che possiamo cogliere fugacemente provando a rivivere stati emotivi che noi
stessi abbiamo descritto usando le stesse parole. Ma è chiaro che le nostre emozioni si
alternano e si trasformano, coesistono, sfumano l’una nell’altra. Etichettarle e
catalogarle mi è servito in questo capitolo per dare alle forme di sofferenza psicologica
un nome che chiunque possa comprendere.
Ciò che conta maggiormente per mantenere e recuperare la salute psicologica è
sforzarsi di capire:
1. in quali circostanze esterne e in quali pensieri trovano origine gli stati d’animo della
nostra sofferenza, e
2. in che modo le nostre convinzioni, i nostri valori, le nostre riflessioni e il modo in
cui interpretiamo ciò che ci accade condizionano positivamente o negativamente i
nostri stati d’animo.
È questo tipo di consapevolezza che ci permette di dare un significato a problemi
psicologici che a un osservatore sprovveduto sembrerebbero non averne. Quasi sempre
è possibile trovare una chiara relazione temporale e logica fra cosa ci è successo, cosa
abbiamo pensato in proposito – alla luce delle nostre conoscenze e delle nostre
convinzioni – e come ci sentiamo. Per riprendere il controllo della propria vita, o capire
chi soffre, è indispensabile partire da questi presupposti. È quando non si è in grado di
capire queste relazioni, o non lo si vuole fare, che la sofferenza psicologica viene
liquidata con il ricorso ai concetti di malattia o pazzia.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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Il tema di questo capitolo è la difficoltà o l’impossibilità di fare qualcosa di
essenziale per il proprio benessere e la propria efficienza. Spesso è questo genere di
problemi che porta a cercare l’aiuto di un professionista. Comprensibilmente la
constatazione di questi difetti è qualcosa che preoccupa; inoltre, prima di decidersi a
cercare aiuto una persona in genere ha già cercato di fare tutto il possibile per
recuperare la propria integrità ma non ci è riuscita. Così un certo grado di ansia e
demoralizzazione accompagna quasi sempre le impasse descritte in questo capitolo.
Le disfunzioni colpiscono in genere solo alcuni dei ruoli che nelle varie fasi
della nostra vita ci troviamo ad assumere: studente, sportivo, esecutore di brani
musicali, persona impegnata in rapporti sociali, lavoratore, capo, partner sessuale,
genitore, scolaro... Ma a volte, quando si ha la sensazione di cedere sotto il peso delle
proprie difficoltà, il senso di incapacità può generalizzarsi tanto da comprendere l’intera
vita, che sembra essere al di là della propria portata. Quando non si riesce in qualcosa
che appare di importanza essenziale, la sensazione è di essere un fallimento completo:
un vissuto quasi sempre presente nei periodi di depressione.
Benché il senso di incapacità che spinge a cercare aiuto possa riguardare
un’infinità di ruoli, ambiti di vita, funzioni e capacità diverse, qui prenderò in esame
soltanto alcuni casi abbastanza frequenti. Seguirò alcuni criteri che mi consentiranno di
fare un’esposizione abbastanza ordinata ma che non corrispondono necessariamente ai
criteri della classificazione psichiatrica dei disturbi mentali.
La distinzione fra manifestazioni di sofferenza, trattate nel capitolo primo, e
manifestazioni di incapacità, argomento di questo capitolo, non dovrebbe alimentare la
convinzione che si tratti di esperienze nettamente distinte: nella realtà questi due ordini
di problemi si manifestano spesso contemporaneamente o sono due facce della stessa
medaglia. Un solo esempio di questo concetto: la fatica a controllare certe
preoccupazioni è alla base di moltissimi problemi di ansia, vergogna e depressione che
si impongono all’attenzione per le loro componenti emotive ma può anche essere
vissuta come un problema in sé che assorbe una gran quantità di energie impedendo, per
esempio, di agire in modo sciolto e sicuro, di studiare o lavorare, di dormire, di avere
rapporti sessuali soddisfacenti. Le sensazioni, gli stati d’animo, i pensieri, le azioni e la
motivazione (cioè la forza e la direzione delle nostre spinte ad agire) sono aspetti della
nostra esperienza indissolubilmente legati fra loro che si influenzano a vicenda.
Alcune disabilità umane derivano non tanto da un senso d’incapacità per il
controllo di situazioni esterne minacciose ma piuttosto dal senso di inefficacia per il
controllo di sé e di possibili disfunzioni mentali momentanee. Attori, cantanti o solisti
competenti possono sentirsi esposti al pericolo, rispettivamente, di dimenticare le
battute, il testo di una canzone o un passaggio musicale. In queste attività provate e
riprovate, le preoccupazioni di efficacia riguardano il controllo dei vuoti di memoria
piuttosto che la capacità di svolgere l’attività. Alcuni artisti del mondo dello spettacolo
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
rinunciano a carriere promettenti per un’eccessiva preoccupazione di avere un black-out
mentale nel bel mezzo di una performance.
In altre attività, le preoccupazioni di efficacia possono riguardare la capacità di
controllare cali potenzialmente pericolosi negli aspetti attentivi o fisici della
prestazione. Così, i guidatori che non si fidano della propria capacità di evitare cali di
attenzione o di abilità motoria evitano le strade trafficate.
Talvolta l’inefficacia riguarda un senso di vulnerabilità a una totale perdita di
controllo personale, piuttosto che difetti di funzionamento momentanei. Alcune persone
credono di poter perdere coscienza, disintegrarsi psicologicamente o non riuscire a
trattenersi dall’agire i modi grossolanamente inadeguati che creeranno imbarazzo. Per
esempio, le persone che dubitano di sapersi trattenere dal saltare, o di poter restare
coscienti, guardando giù da un luogo elevato eviteranno i luoghi elevati. Le persone che
hanno la fobia degli aerei, sentendosi vulnerabili a una totale perdita di controllo
durante un volo in aeroplano, restano a terra.
Pensiero
In questa sezione vengono descritti alcuni problemi psicologici legati a una scarsa
efficienza delle funzioni mentali.
Non riesco a frenare/mandare via certi pensieri (ossessioni)
Dall’80% al 95% delle persone ha avuto almeno una volta idee, pensieri, immagini
mentali o impulsi che sembrano estranei a sé, inaccettabili o insensati e che si
ripresentano insistentemente nonostante il tentativo di ignorali o allontanarli. Il termine
tecnico per questo tipo di fenomeni mentali è ossessioni.
Una donna molto religiosa, per esempio, può trovarsi a immaginare i genitali di tutti
i giovani che incontra; questo fatto le provoca ansia perché non vorrebbe proprio avere
pensieri di questo tipo ma nonostante tutti i suoi tentativi di distrarsene o ignorarli, essi
si ripresentano. Forse per dimostrare a se stessa la propria rettitudine morale, recita
mentalmente una preghiera ogni volta che “il fattaccio” si ripete.
Un altro esempio: una donna ha da poco avuto il primo figlio e lo ama molto. Di
tanto in tanto improvvisamente immagina di accoltellarlo, cosa che le procura una
preoccupazione intensa. Questa idea le sembra proprio assurda perché il bambino è la
cosa più cara che ha. Ciò nonostante quest’idea rispunta sempre fuori e la turba a tal
punto che lei mette sotto chiave tutti i coltelli e gli altri oggetti affilati o appuntiti che ha
in casa, per paura di avere un raptus e commettere qualche insensatezza.
Le ossessioni sono collegate a stati di ansia, stress, solitudine e disforia (“cattivo
umore”). Più in particolare, quando si è ansiosi e sotto stress le ossessioni diventano più
frequenti, mentre la disforia ne aumenta la persistenza ed è collegata con una riduzione
della capacità di allontanare i contenuti mentali sgradevoli e indesiderati e con una
ridotta capacità di richiamare alla memoria ricordi con tonalità affettive serene e allegre.
Per qualcuno le ossessioni sono così insistenti, angoscianti e fastidiose da
portare via un sacco di tempo e di energie, diventando un intralcio nel lavoro, nello
studio, nel rapporto con gli altri o nello svolgimento delle normali azioni quotidiane. In
particolar modo, poiché assorbono l’attenzione, interferiscono molto con i compiti
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
mentali che richiedono concentrazione, come la lettura e i calcoli. Inoltre le persone con
problemi di ossessioni imparano a riconoscere le situazioni che potrebbero innescarle e,
per non restare intrappolate mentalmente, le evitano.
Le ossessioni più frequenti riguardano pensieri ripetitivi di contaminazione (per
esempio, essere contaminati stringendo la mano a qualcuno, maneggiando denaro o
toccando gli oggetti in un mezzo pubblico), dubbi insistenti (per esempio, riguardo
all’avere lasciato la porta di casa aperta, il gas ben chiuso o all’aver fatto male a
qualcuno senza accorgersene guidando l’auto), la necessità di disporre le cose secondo
un certo ordine (per esempio, sentirsi irrequieti se un libro è poggiato sul tavolo con la
copertina verso il basso o se certi oggetti sono disposti in modo non simmetrico),
impulsi aggressivi o spaventosi e fantasie sessuali.
Nei bambini le ossessioni si concentrano in genere intorno ai temi di
contaminazione, pericoli per sé o per altri, temi aggressivi, temi sessuali,
scrupolosità/religiosità, pensieri proibiti, bisogno di dire, chiedere, confessare una certa
cosa.
Chi è afflitto da ossessioni di solito cerca di ignorare o sopprimere tali pensieri o
impulsi o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni. Negli esempi sopra abbozzati, la
donna religiosa prega ogni volta che le viene in mente l’immagine sessuale e la
neomamma fa sparire coltelli e oggetti acuminati o taglienti. Queste azioni riparatici si
chiamano compulsioni; ritornerò su di esse in questo capitolo nella sezione “So che è
assurdo ma mi sento costretto a...”
Non riesco a concentrarmi (e studiare o lavorare)
La difficoltà a concentrarsi e lavorare produttivamente si accentua nei periodi di
stress e stanchezza e a sua volta acuisce il senso di fatica. Si presenta più spesso quando
si devono svolgere compiti vissuti come al di sopra delle proprie capacità.
Quando si ha difficoltà a concentrarsi si comincia un’azione, come leggere una
frase, facendo appello a tutte le proprie capacità di essere mentalmente presenti e dopo
poco ci si accorge che si sta pensando a tutt’altro. Per esempio, ci si interessa molto
facilmente ai suoni e a i rumori provenienti dalle persone presenti o dall’esterno; si è
subito distratti dagli stimoli che provengono dal proprio corpo e alla minima sete si
beve, alla minima fame si mangia, se appena è possibile si va in bagno, si cambia spesso
posizione cercandone una più comoda, e via dicendo.
Ma uno dei principali problemi, quando si ha difficoltà a concentrarsi, è
l’attrazione esercitata da altri pensieri. Non si tratta necessariamente di vere e proprie
ossessioni. Sovente la difficoltà a concentrarsi in un lavoro che richiede un certo
impegno mentale dipende dal fatto che si continua a meditare su delusioni subite o su
problemi irrisolti – con se stessi oppure nella gestione di rapporti interpersonali o di
compiti pratici – ed eventualmente sulla propria incapacità di risolverli. Il più delle volte
si tratta di un rimuginare disordinato e infruttuoso a cui si cerca di resistere. Oppure si
pensa semplicemente a tutto ciò che si potrà o dovrà fare una volta portato a termine
terminato l’impegno in corso e vengono in mente cose da fare e da ricordare. Altre volte
ci si lascia distrarre da ricordi e fantasie piacevoli. Nel lavoro intellettuale, la necessità
di riprendere il lavoro dal punto in cui si era rimasti provoca un inutile e fastidioso
spreco di energie.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Quando la concentrazione è scarsa naturalmente aumenta il numero di sviste e di
errori e questo fatto, se vissuto con ansia, può innescare tutta una serie di controlli sul
modo in cui si sta procedendo nella propria attività che distraggono, inibiscono e
rallentano. Il costo più alto per questo tipo di interferenze è pagato da coloro i quali
svolgono attività in cui gli errori, i rallentamenti e le esitazioni possono avere
conseguenze di un certo rilievo.
Quando uno studente che ha difficoltà a concentrarsi prova a valutare se riesce a
rievocare ciò che ha appena provato a memorizzare, scopre con sconforto che riesce a
ricordare solo frasi smozzicate e scollegate. La stessa consapevolezza del proprio scarso
rendimento può diventare il principale pensiero distraente quando, invece di servire per
riscuotersi e riuscire a trovare una soluzione alle difficoltà che impediscono di studiare
o lavorare, diventa tema per dubbi, pensieri allarmistici, ricerca di cause, deduzioni e
altre riflessioni. La cosa naturalmente innesca preoccupazioni e senso di
demoralizzazione che interferiscono ulteriormente con l’attività in corso.
Il lavoro che resta da fare può apparire come la vetta di una montagna
irraggiungibile e la constatazione della propria incapacità può innescare una serie di
dubbi sulle proprie capacità e di preoccupazioni riguardo alle sue possibili conseguenze.
Il lavoro va sbrigato urgentemente, il tempo passa e, siccome io sono fuori uso, il lavoro
da fare resta sempre uguale.
Non riesco a capire cosa mi conviene fare: conflitto e indecisione
Le situazioni di conflitto possono essere fondamentalmente di tre tipi. Nel primo
caso, una stessa persona, situazione, idea o oggetto, ha sia valenze positive sia valenze
negative; in altre parole suscita sentimenti, desideri o spinte ambivalenti. Da un lato
attrae, dall’altro respinge. Una persona che avverte gli effetti spiacevoli di una
dipendenza, per esempio, da una parte si rende conto di avere un’abitudine dannosa,
dall’altra prevede che rinunciarvi sarà molto impegnativo e frustrante. In questo tipo di
conflitti, può accadere che la lontananza dall’oggetto di sentimenti e desideri conflittuali
ne faccia sentire meno gli aspetti sgradevoli, con il risultato che prevale la sensazione di
attrazione e di desiderio. Quando però tale “oggetto” è più vicino, se ne avvertono
maggiormente gli aspetti spiacevoli e si desidera un allontanamento.
Un’altra situazione di conflitto interiore si verifica quando si deve scegliere fra due
o più alternative tutte spiacevoli. Un esempio estremo: meglio rubare – dovendo
sopportare i rimorsi e il rischio di essere sorpresi e puniti – o patire la fame? Un altro
esempio, meno drammatico, tratto dal campo dei rapporti sentimentali: una certa
persona potrebbe non essere affatto soddisfatta del suo partner, che la ferisce spesso, ma
ciò nonostante non volerlo lasciare, temendo una vita di dolorosa solitudine. Qualunque
sia la scelta fatta, bisognerà affrontare conseguenze difficili e penose.
La terza situazione è quella in cui ci si trova di fronte a due alternative entrambi
piacevoli. Sono corteggiato da due partner entrambi attraenti; quale scelgo? Mi offrono
due lavori entrambi attraenti; quale accetto? In genere questi conflitti sono meno
dolorosi dei due tipi precedenti. Qualunque sia la scelta fatta, la conseguenza sarà
qualcosa di desiderato e piacevole; tutt’al più resterà il dubbio che sarebbe stato
possibile ottenere qualcosa di meglio.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Oltre a questi tipi di conflitto semplice, la vita è piena di occasioni di conflitto
interiore più complesse in cui si combinano più elementi. Si pensi, per fare un esempio
tra i mille possibili, alla scelta di una carriera scolastica o lavorativa: ci si trova a dover
scegliere fra alternative che presentano sia aspetti attraenti sia aspetti spiacevoli.
In genere, in questi tipi di conflitto soppesiamo le possibilità a disposizione
basandoci molto sulle nostre aspettative o previsioni circa i probabili costi e benefici
che conseguirebbero dalla scelta di una delle alternative disponibili; ma tali aspettative o
previsioni non sono quasi mai del tutto corrette. Sappiamo già che la nostra decisione
dovrà essere compiuta tollerando un certo grado di incertezza; dopo la scelta, la
probabilità di scoprire che la realtà delle cose è diversa da come ce la siamo immaginata
nel momento in cui valutavamo astrattamente le varie possibilità è elevata. D’altra parte,
se dovessimo scegliere con perfetta conoscenza e assoluta consapevolezza potremmo
anche non deciderci mai. Un elemento di complicazione di molte scelte conflittuali della
vita quotidiana deriva dal fatto che ogni bilancio fra i vantaggi e gli svantaggi delle
alternative considerate è provvisorio, collegato a una valutazione che oggi è in un certo
modo ma domani potrà essere, e sarà, più o meno diversa.
Grandi scelte
A volte ci si trova di fronte a un crocevia importante della propria vita e, di
fronte alle diverse alternative, non si riesce proprio a capire quale imboccare. Ci si può
trovare fortemente indecisi nella scelta della scuola o dell’università. Si possono nutrire
forti dubbi sull’opportunità di proseguire negli studi. Nel corso di una carriera scolastica
o lavorativa si possono incontrare difficoltà importanti oppure momenti di
demotivazione e scoraggiamento e ci si può trovare intrappolati nella difficoltà di
decidere se proseguire o cambiare rotta. Oppure si possono presentare opportunità di
carriera molto importanti che possono essere colte soltanto a costo di un prezzo elevato:
la necessità di cambiare città o nazione, prospettiva di spostamenti frequenti, ambiente
fortemente competitivo e stressante, orari di lavoro particolarmente duri.
Alcune tipiche situazioni di incertezza si verificano in campo sentimentale. La
difficile decisione può essere quella di abbandonare un partner che in parte soddisfa e in
parte delude o quella di accettare o meno le avances di uno spasimante che non
convince del tutto. Dopo aver tradito il partner ci si può trovare pieni di rimorsi e nel
dubbio di confessare o meno l’accaduto. Qualcun altro invece scopre nuovi entusiasmi
con un amante ed è tentato di mandare a monte il proprio matrimonio ma qualcosa gli
dice che potrebbe non essere una scelta assennata oppure la separazione potrebbe
comportare cambiamenti che non si è disposti ad accettare. Oppure con il partner tutto
sembra filare liscio fino al giorno in cui si riceve la proposta di matrimonio e si va in
crisi.
Le situazioni di questi esempi, e altre ancora a cui non ho fatto riferimento,
possono diventare degli scogli su cui ci si arena. Possono diventare un pensiero fisso,
giorno e notte: la decisione non può essere rimandata a lungo, si è sempre più confusi e
indecisi si temono ansiosamente le conseguenze materiali e psicologiche di una scelta
sbagliata.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Piccole decisioni
Il dubbio e il conflitto possono non essere legati ad alcune delle principali svolte
della vita – come quelle sopra esemplificate – bensì costituire una condizione di vita
quasi costante. Per qualcuno è difficile compiere piccole scelte come salutare o no una
persona che si sta per incrociare per strada, che abiti indossare, cosa mangiare a cena,
quale compagnia telefonica scegliere, che auto comprare, se iniziare la giornata
lavorativa o di studio in un modo o in un altro. Certe persone, in altre parole, hanno la
tendenza – specialmente in periodi di stress – a prendere seriamente e ponderare
qualsiasi scelta, sfibrandosi a forza di rimuginare su ogni questione. Ci si può fermare
addirittura a monte, al punto in cui si cerca di decidere con che criterio si deciderà. A
forza di pensare e ripensare si perdono di vista le priorità e i gusti. Si tratta di un
fenomeno imparentato con quello delle ossessioni.
Sia nelle decisioni importanti che in quelle piccole l’incapacità di scegliere può
diventare penosa e deprimente e portare alla ricerca di aiuto.
Non riesco a capire cosa mi succede
Una caratteristica comune delle situazioni di disagio psicologico consiste nel
fatto che non si ha neppure un’idea chiara di quale sia il problema. Ciò accade anche
perché si mettono in discussione certi pilastri del proprio senso di identità, certe
convinzioni basilari per una percezione chiara e ordinata di sé e del mondo e per il
mantenimento della propria autostima, del buon umore e dell’efficienza. Subentra un
senso di confusione, sembra che non esistano più punti fermi, ci si sente impotenti,
demoralizzati e spaventati. Questo stato di cose dipende in gran parte dalla comparsa di
pensieri come: “sono un fallimento totale”, “non c’è niente che vada per il verso
giusto”, “le cose mi sono sempre andate male e mi andranno sempre male”, “ho sempre
saputo di essere diverso/a dagli altri, che non hanno mai difficoltà come le mie”, “tutti
ce l’hanno con me”, “la vita è difficile”, “è inutile illudersi che in me, negli altri e nel
futuro ci sia qualcosa di buono”.
Invece di lavorare per definire e circoscrivere i problemi interiori ed esterni, in
modo che poi si possa cominciare a pensare alle soluzioni, a giudicarle preventivamente
e a metterle in atto, la mente va in tilt e comincia a lavorare contro se stessa, andando a
cercare altri problemi come nel tentativo di compilarne un elenco infinito, andando a
pensare a tutti gli ostacoli che li fanno apparire come irrisolvibili, andando a notare e a
rievocare selettivamente tutti i propri insuccessi e punti deboli.
Non riesco a controllare le mie azioni
Questa sezione comprende una serie di incapacità eterogenea. Le prime
riguardano principalmente la relazione con gli altri: la difficoltà a farsi apprezzare, ad
affermarsi, ad agire sotto lo sguardo altrui, ad avere rapporti sessuali soddisfacenti e ad
esprimersi in modo fluido. Successivamente tratteggio invece difficoltà che, pur avendo
ripercussioni sul rapporto con gli altri, non si manifestano principalmente su questo
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
piano: si tratta dei tic, dell’iperattività, delle compulsioni, delle dipendenze,
dell’impulsività, di alcune difficoltà del sonno o del controllo delle funzioni escretorie.
Non riesco a gestire i rapporti con gli altri
Chiunque ha i suoi punti di forza e i suoi punti deboli nei vari contesti delle
relazioni con gli altri ed è difficile che la presenza di difficoltà psicologiche non si
esprima anche sul piano interpersonale. In realtà, per una trattazione che abbia
l’ambizione di descrivere le principali varianti dei problemi di gestione delle relazioni
interpersonali non basterebbe un libro come questo. Mi accontenterò qui di accennare a
due grandi categorie di difficoltà di relazione per le quali le persone cerano spesso
l’aiuto di uno specialista: la sensazione di non essere capaci di farsi apprezzare e quella
di non essere capaci di affermare se stessi.
Alcune persone non riescono a trovare amici o un partner oppure quando
riescono ad allacciare contatti di questo tipo essi vengono troncati dagli altri e contro la
propria volontà. Molte di queste persone vengono lasciate dal partner con giustificazioni
del tipo “sei una persona stupenda, intelligente, simpatica, dolce, ..., con te mi intendo
molto bene, ... ma non voglio stare con te”. Nei rapporti con gli amici si può avere la
sensazione di essere considerati poco interessanti o francamente noiosi: in gruppo si
resta spesso in disparte e succede che gli altri si incontrino per conto loro. I propri
contributi alla conversazione non vengono capiti o vengono fraintesi; in altri casi
incontrano spesso indifferenza, sarcasmo, ostilità. Il risultato è un senso di
inadeguatezza e solitudine.
La difficoltà ad affermare se stessi (anassertività) ha varie sfaccettature.
Reclamare affinché ci cambino un piatto al ristorante, chiedere il rimborso per un
articolo difettoso, zittire il proprio vicino che fa rumore, rifiutarsi di prestare un servizio
spiacevole, esprimere un punto di vista opposto a quello di un interlocutore o di un
gruppo, prendere un’iniziativa nei confronti di una persona che incute soggezione sono
comportamenti suscettibili di destare un certo grado di disagio. In tali circostanze alcune
persone si sentono inibite e o evitano la difficoltà o la affrontano in modo poco efficace;
altre volte compensano eccessivamente il loro senso di debolezza e si dimostrano troppo
aggressive. Nei rapporti con i superiori, per esempio al lavoro, si accorgono di avere un
atteggiamento eccessivamente accondiscendente, non riescono a rifiutare un incarico
troppo pesante o ingiusto o a difendersi da un sospetto o da un’accusa infondata, o a
chiedere un aumento, a esigere il rispetto del contratto di lavoro, a ottenere di essere
trattati con rispetto. Con le persone che vedono come possibili partner di una relazione
sentimentale/sessuale perdono occasioni importanti perché si lasciano sopraffare
dall’emozione. Nei rapporti con i familiari tollerano maltrattamenti di ogni genere senza
riuscire ad arginarli. In generale, subiscono ingiustizie e atti di prepotenza senza fare
valere in modo efficace i loro diritti. La difficoltà ad affermare se stessi è chiaramente
connessa con i problemi di timidezza e ansia sociale, che vengono ripresi nel prossimo
paragrafo.
Se ci sono altre persone non riesco a ...
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Non sono poche le persone che in presenza di altri non riescono a compiere
qualche azione, a volte molto elementare, che normalmente viene compiuta senza alcun
problema (vedi anche la sezione “Avere a che fare con altre persone” nel capitolo
primo). In presenza di altri – in genere persone non familiari – hanno paura di fare una
cattiva impressione (per esempio, di apparire stupidi, incapaci, deboli, “pazzi”) dicendo
o facendo qualcosa di imbarazzante o umiliante oppure lasciando in qualche modo
trasparire la propria ansia.
La sensazione di essere guardati inibisce. Spesso non si ha la prova di essere
guardati, ma lo si “sente”. In genere si dà anche per scontato che gli altri siano pronti a
rilevare impietosamente i difetti, criticare, deridere o umiliare. La sensazione di essere
sotto il giudizio critico di qualcuno, unita alla previsione – basata sull’esperienza
passata – di non riuscire a comportarsi normalmente, provoca uno stato ansioso che
disorganizza e confonde.
Qualcuno non riesce a mangiare davanti ad altri: a un ristorante, durante una
cena o in un mensa, per esempio, può passare la fame, sopragiungere la sensazione di un
peso sullo stomaco, o di un nodo in gola, o della difficoltà di coordinare il respiro con la
deglutizione del cibo. Se ciò nonostante mangia, ha la sensazione di farlo senza provare
nessun piacere, ma solo per trarsi d’impaccio il più in fretta possibile. Capita di non
sapere più giudicare se si ha masticato abbastanza, di avere una sensazione di
soffocamento quando il cibo va giù o altre cose del genere, che vengono vissute come
una perdita di naturalezza.
Alcune persone non riescono a urinare o evacuare se ci sono altri vicino – per
esempio, nel caso degli uomini, in un gabinetto pubblico senza separé – che potrebbero
vederle o semplicemente sentire rumori. A volte basta sapere che c’è qualcuno che ci
aspetta dietro la porta per non riuscire; ogni secondo che passa aumenta un senso di
fretta e di allarme che può inibire la minzione in un circolo vizioso – tanto che a volte si
rinuncia del tutto e si rimanda la cosa a un momento e a una situazione più tranquilla.
La funzione alimentare e quelle escretorie non sono le uniche a subire gli effetti
disorganizzanti dell’ansia quando si è, o si potrebbe essere, al centro dell’attenzione
altrui. Molte azioni semplici, che normalmente “si compiono da sé”, possono
complicarsi quando sono vissute come una prestazione pubblica. È il caso per esempio
dell’erezione e dell’orgasmo maschili che in certe persone funzionano a dovere nella
masturbazione solitaria e deludono quando c’è un partner da soddisfare.
La minzione, l’evacuazione, la deglutizione, l’erezione e l’eiaculazione sono
funzioni fisiologiche in cui la volontà è coinvolta solo in parte. Ma esiste tutta una serie
di azioni più complesse che risentono almeno altrettanto di questa penosa sensazione di
essere osservati e valutati. Qualcuno di fronte a certe persone non riesce a scrivere.
Apporre la propria firma su un documento davanti all’impiegato che guarda e aspetta
può diventare una specie di incubo per chi per lavoro deve firmare spesso: la mano si
blocca e dalla penna non escono che scarabocchi assurdi. La disorganizzazione della
scrittura non riguarda soltanto il lavoro, anche se questo è forse il contesto in cui il
problema interferisce più gravemente con lo svolgimento delle proprie funzioni.
Quando il tempo a disposizione è limitato e qualcuno aspetta e giudica non si
blocca solo la mano ma anche la lingua e il cervello. È un’esperienza ben nota a molti
studenti che affrontano prove scritte e interrogazioni come condanne a morte. Quello
che si riesce a scrivere o a dire in queste situazioni è ben poca cosa rispetto alla
prestazione che si potrebbe rendere in privato. Ma il problema si può presentare anche
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
nel lavoro, per esempio quando si è costretti a tenere una relazione davanti a un
superiore oppure a un gruppo: non si riesce più a pensare, non si sa più quello che si
dice e si ha solo la sensazione di fare una figura tremenda. Chi lavora nel mondo dello
spettacolo è particolarmente esposto a questo tipo di problema: in questo caso gli occhi
e le orecchie degli spettatori sono rivolti a cogliere e giudicare le sfumature della voce,
delle espressioni del volto e del comportamento sulla scena; i sintomi fisici, psicologici
e comportamentali dell’ansia possono quindi peggiorare la qualità delle prestazioni
lavorative.
Le capacità che è necessario utilizzare per agire sono forse ancora maggiori
quando non si deve solo fare qualcosa di fronte o in presenza di altri, ma con loro,
volendo magari suscitare una certa impressione o ottenere un certo risultato. Un
esempio: forse tutti ci siamo sentiti imbarazzati quando abbiamo cercato di corteggiare
un persona che ci piaceva, ma per qualcuno la sensazione di non essere all’altezza di
queste situazioni diventa un problema che fa perdere occasioni importanti e provoca un
senso di menomazione e infelicità. Molte persone che vivono il corteggiamento con
ansia sono profondamente deluse per come si sono comportate in qualche situazione di
questo tipo: hanno balbettato, non sono riuscite a dire niente di sensato – anche se di
cose da dire ce n’erano! –, sono avvampate e l’unica cosa che hanno sentito e ricordano
era il suono del cuore, che riempiva il torace e il collo.
Non riesco ad avere rapporti sessuali soddisfacenti
La soddisfazione personale per i propri rapporti sessuali è strettamente connessa
alla soddisfazione che ne trae il partner. La maggioranza delle persone non è del tutto
contenta della sua vita sessuale se vede che il partner non ne è contento. D’altra parte
sia il benessere o la salute personale sia l’armonia del rapporto di coppia influiscono
sulla qualità dell’esperienza sessuale. Quindi la sessualità è un ambito della vita umana
particolarmente sensibile a tutto ciò che succede ai partner e al loro rapporto.
In molte circostanze non si ricava molto piacere dai rapporti sessuali perché il
proprio corpo sembra non collaborare. In realtà molto spesso gli organi sessuali non
hanno niente che non va; è che non possono essere usati come un oggetto a dispetto di
tutto ciò che le persone coinvolte pensano e provano. Né possono essere considerati uno
strumento di Dio concesso a noi in prestito senza sentire con ciò di avere un grossa
responsabilità nel farne un buon uso, magari cercando di fare contorsioni morali per
conciliare la propria natura animale e i propri sentimenti con i precetti di chi ha bandito
la sessualità dalla propria vita – senza per questo voler a rinunciare a regolare la
materia.
Problemi che affliggono frequentemente gli uomini sono le difficoltà a ottenere
o mantenere un erezione, oppure l’orgasmo e l’eiaculazione che avvengono troppo
presto o troppo tardi rispetto alle esigenze proprie o del partner. Le donne incontrano
difficoltà meno vistose. Possono, per esempio, provare dolore durante la penetrazione, a
volte per uno spasmo di alcuni muscoli della vagina, a volte perché la lubrificazione
vaginale è insufficiente. Altri problemi femminili diffusi sono l’assenza di piacere e
l’incapacità di raggiungere l’orgasmo. Ci sono anche molti casi in cui il corpo
dell’uomo e della donna fa tutto il suo dovere per bene, ma all’esperienza sessuale
manca qualcosa di apparentemente fondamentale: può trattarsi del desiderio,
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
dell’eccitazione, del piacere, dell’entusiasmo e del trasporto, della novità e varietà,
dell’intesa o affiatamento, della serenità o di altro.
Una conseguenza frequente di questo stato di cose è la preoccupazione per come
possa vivere questa situazione il proprio partner, che a volte esprime esplicitamente la
propria delusione anche con modi di fare ostili o offensivi. Questa preoccupazione può
diventare la principale causa che porta al ripetersi di una defaillance che, altrimenti, non
si ripeterebbe se non magari a distanza di mesi o anni.
Può accadere che manchi intesa sessuale perché il proprio partner ha gusti
sessuali diversi: pretenderebbe di fare cose che a noi non piacciono, o generano
addirittura disgusto, oppure, viceversa, non collabora alle attività per noi più
entusiasmanti. Una vita sessuale soddisfacente richiede una certa intesa sui piani del
cosa fare e del quanto, a quali condizioni, come, quando, dove farlo (e a volte anche del
“con chi/cosa farlo”).
Se una persona si aspetta dal sesso la migliori gioie della vita, quando la sua vita
sessuale non è all’altezza di tali aspettative il rapporto con il partner si incrina e la vita
stessa sembra perdere senso. Chi apprezza se stesso solo nella misura in cui si sente un
buone amante, si sente cascare il mondo addosso se le sue “prestazioni” sessuali
deludono.
Non riesco a parlare in modo fluido (balbuzie)
Con un brusco cambiamento di ambito passiamo a una difficoltà che ostacola
l’espressione verbale: la balbuzie. Si tratta di un problema frequentissimo nei primi anni
di vita che moltissime persone continuano a sperimentare di tanto in tanto quando
parlano concitatamente o in condizioni di emozione o tensione. La stragrande
maggioranza dei bambini prima o poi ha un periodo di balbuzie transitorio che passa da
sé, in genere, prima dei sedici anni di età. Nell’adolescenza la percentuale di persone
che hanno veri e propri problemi di balbuzie è di circa dello 0,8%. I problemi
psicologici delle persone che balbettano sono più che altro una conseguenza della
difficile accettazione di questa anomalia e non sue cause, anche se si tratta di un
problema che compare spesso in persone inclini all’ansia e che può essere contrastato
imparando a mitigare questo tipo di emozioni. Il bambino può avere difficoltà ad
accettare questa particolarità e le sue conseguenze sociali e assumere verso di essa
atteggiamenti che la mantengono o la aggravano quando potrebbe essere più contenuta o
sparire del tutto.
All’inizio della balbuzie non c’è sempre consapevolezza del proprio difetto ma
nel corso degli anni tale consapevolezza diventa molto forte. Il bambino si accorge
allora di ripetere certi suoni, certe sillabe o certe parole, di prolungare in modo
innaturale certi suoni, di fare pause nel discorso nel mezzo di una parola o di una frase e
di essere molto teso mentre parla, specialmente in alcune circostanze particolari, come
quando ha tutta l’attenzione su di sé. Cerca allora di portare sotto controllo questi
problemi evitando certe parole più antipatiche, facendo giri di parole, cercando di
parlare in modo più ritmico o scandito, evitando situazioni più delicate come parlare al
telefono o di fronte da altre persone. Comincia a fare attenzione al proprio modo di
parlare più che a quello che vuole dire. Sovente non è comunque soddisfatto di come
parla, anche perché gli altri bambini, o magari gi stessi genitori, rilevano il problema in
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modo benevolo – ma ugualmente umiliante – o sarcastico. Così si vive spesso con un
senso di frustrazione, si affrontano con ansia gli scambi di parole, si evitano situazioni e
opportunità interessanti, si perde di stima in se stessi e ci si avvilisce. Poiché lo stress e
l’ansia tendono ad aggravare il problema, la perdita della serenità getta benzina sul
fuoco.
Non riesco a stare fermo
Due problemi psicologici diversi possono essere descritti come difficoltà a
restare fermi: uno è quello dei tic, l’altro viene detto iperattività.
Tic
Alcune persone non possono fare a meno di ripetere frequentemente dei tic, che
consistono in gesti improvvisi e rapidi o suoni. A volte, specialmente se si tratta di
bambini piccoli, non ne sono consapevoli, altre sì. Nel secondo caso, prima di emettere
il suono o compiere il movimento possono avvertire un senso di tensione, fastidio o
irrequietezza nella parte del corpo che stanno per muovere e avere un brevissimo
sollievo subito dopo. Ma il sollievo è talmente breve che il movimento viene subito
ripetuto, a volte a raffica. In realtà questi suoni e movimenti possono essere soppressi
volontariamente ma per poco e faticosamente. Durante il sonno o quando si è presi da
qualcosa il bisogno di muoversi scompare o si riduce molto.
I tic motori più comuni consistono nell’ammiccare, alzare le spalle, piegare il
collo, fare smorfie; oppure in movimenti più complessi, come saltare, toccare qualcosa,
pestare i piedi, annusare qualcosa, girare su di sé. I suoni (“tic vocali”) più comuni
consistono nel raschiarsi la gola, grugnire, tirare su col naso, sbuffare, pronunciare
vocali. A volte si pronunciano parole o frasi, anche di tipo osceno.
Le persone che hanno avuto qualche tic transitorio non sono poche e
probabilmente non ne hanno sofferto un granché. In una esigua minoranza di persone
però i tic possono rendere la vita piuttosto complicata; da un lato ci può essere
l’imbarazzo di stare con gli altri, con la vergogna, il senso di umiliazione e un senso di
impotenza e desolazione, dall’altro la ripetizione dei tic può diventare così frequente
(molte centinaia di ripetizioni in un giorno) che diventa difficile fare portare a termine
liberamente una qualsiasi azione. Come nel caso degli altri disturbi evidenti anche agli
altri possono subentrare problemi di ansia sociale, di evitamento di certe situazioni,
isolamento e discriminazione. Spesso poi chi ha problemi di tic ha anche problemi di
compulsioni, ossessioni o iperattività.
Chi soffre di tic cronici di solito ha cominciato ad avere i primi tic da bambino.
Nella maggior parte dei casi ha notato un miglioramento a partire dal periodo
dell’adolescenza: i tic in quegli anni hanno cominciato ad essere meno frequenti e meno
numerosi. In altri casi nell’adolescenza il disturbo scompare del tutto e magari si
ripresenta soltanto in periodi di particolare stress.
Iperattività
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Un problema diverso, che a volte si sovrappone a quello dei tic, è l’iperattività,
cioè una sensazione di irrequietezza, nervosismo, inquietudine e insofferenza per le
attività che richiedono di stare seduti o fermi, specialmente se sarebbe necessario stare
concentrati a lungo, impegnarsi mentalmente o fare cose già note o poco stimolanti.
Negli adulti tale irrequietezza e difficoltà a restare concentrati su un’attività condiziona
le scelte professionali (vengono scartati i lavori da ufficio) e può dettare azioni poco
oculate, creando anche conflitti con le persone vicine che tollerano male l’esuberanza e
l’incostanza.
Nei bambini l’iperattività è più frequente che negli adulti – dato che questo tipo
di problema tende a migliorare con l’età – e crea non poche difficoltà. Si manifesta, per
esempio, con la difficoltà a restare fermi e seduti a scuola o a casa nel corso di un
disegno o di un gioco, con la tendenza a correre e saltare in continuazione, a parlare
incessantemente. Si associa spesso a disattenzione – per esempio, difficoltà a seguire
istruzioni, ad ascoltare discorsi, a dedicarsi ad attività mentali impegnative, a restare
coinvolto in una stessa attività abbastanza a lungo, a conservare i propri oggetti – e
impulsività – per esempio, tendenza a rispondere prima di avere capito e riflettuto a
sufficienza, a non rispettare i turni, a interrompere e invadere gli altri.
Questi bambini vengono spesso considerati pigri, irresponsabili, provocatori e
poco collaborativi dagli adulti. A scuola a volte raggiungono risultati peggiori rispetto ai
compagni e hanno spesso problemi di comportamento. Essendo più difficili da accudire
e educare, sono facilmente motivo di irritazione per i loro genitori, anche perché per i
genitori non è sempre facile capire e accettare questa loro indole esuberante. I coetanei
possono evitarli perché la loro presenza è molesta: non rispettano facilmente le regole,
sono irruenti e rumorosi, non ascoltano e interrompono spesso. A volte “fanno i
pagliacci”. Spesso la tendenza ad agire senza avere riflettuto abbastanza li porta a fare
cose pericolose e a farsi male.
La difficoltà a farsi accettare dagli adulti e dai coetanei, unita alle modeste
prestazioni in tutti quegli ambiti che, come la scuola, richiedono applicazione assidua e
costante, inducono questi bambini ad avere poca stima di sé e a soffrire di ansia e
depressione.
So che è assurdo ma mi sento costretto a... (compulsioni)
Una compulsione è un’azione intenzionale e ripetitiva che la persona interessata
− mette in atto secondo certe regole o sempre allo stesso modo;
− vive come irrazionale o sproporzionata;
− esegue cedendo a un senso di costrizione a cui non riesce a opporsi.
Lo scopo di tali azioni è in genere quello di prevenire sensazioni di ansia o di
disagio e non quello di procurarsi piacere. Una compulsione, quindi, è un’azione che
una persona si sente obbligata a compiere. Può trattarsi di azioni svolte fisicamente –
come, per esempio, lavarsi le mani continuamente per scongiurare il “pericolo” di una
contaminazione, controllare più e più volte di seguito che i fornelli siano spenti, mettere
in un certo ordine alcuni oggetti per vincere un forte senso di disagio – o di azioni
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mentali – come, per esempio, contare le mattonelle di ogni stanza in cui si entra, ripetere
mentalmente le parole “ghio, rio, zio” ogni volta che viene in mente a sproposito il
nome di Dio.
A differenza di quanto accade nel caso dei tic, la maggioranza delle persone esegue
le sue compulsioni per ridurre il disagio che accompagna un’ossessione (circa due terzi
delle persone che hanno disturbi ossessivi hanno anche compulsioni), oppure credendo
che l’esecuzione della compulsione possa prevenire l’accadere di qualche evento o
situazione temuti. Per esempio, un ragazzo è ossessionato dalla paura di aver calpestato
senza accorgersene, camminando per strada, una siringa contaminata con il virus
dell’AIDS e non riesce a distrarsi da questo pensiero ossessivo finché non ripercorre
tutte le strade per cui è passato nella giornata per controllare se ci sono siringhe. Poi gli
viene il dubbio di non aver controllato bene e rifà nuovamente il tragitto, finché non
trova pace.
Le azioni compulsive possono essere ordinate per categorie, perché tendono a
presentare forti somiglianze nelle diverse persone che le svolgono. Le compulsioni più
comuni riguardano il lavarsi e pulire, il contare, il controllare, richiedere o pretendere
rassicurazioni, ripetere azioni e mettere in ordine. Quelle più frequenti nei bambini
riguardano il lavare, ripetere, controllare, toccare, contare, il mettere in ordine o
disporre certi oggetti, l’accumulare e il pregare.
Gli adulti sono in genere consapevoli del fatto che i loro rituali sono assurdi mentre i
bambini possono anche non esserlo. I bambini generalmente non chiedono aiuto per i
loro rituali.
Come nel caso dei tic, una persona con questo tipo di problema può riuscire a
trattenersi dal compiere la sua compulsione ma si sente sempre più irrequieta, fuori
posto o nervosa finché non cede. Poi si sente meglio e dopo poco prova di nuovo il
bisogno di compiere la stessa azione. Poco alla volta si può rinunciare del tutto al
tentativo di resistervi. Le compulsioni possono diventare il principale impegno della
giornata.
Non so fare a meno di... (dipendenze)
Anche nelle dipendenze la vita di una persona ruota attorno a un certo tipo di azioni
che però non devono necessariamente essere eseguite sempre allo stesso modo come un
rituale, non vengono messe in atto per scongiurare un pericolo, sono in se stesse
gratificanti – perlomeno per un certo periodo – e non appaiono altrettanto assurde. Chi
ha un problema di dipendenza dedica uno spazio esagerato a qualche elemento della sua
vita – in termini di tempo, energie, passione o denaro. Può trattarsi di:
− sostanze – come le bevande alcoliche, le sigarette o le cosiddette droghe, ma
anche di cibo;
− attività – come il gioco d’azzardo, l’uso di Internet o della televisione, gli
acquisti, il sesso o anche un certo tipo di dieta o la ginnastica, lo sport, il lavoro,
il rilassamento;
− persone.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Lo spazio dedicato a uno o più di questi elementi può essere eccessivo in diversi
sensi. Il primo è che la persona dipendente, o qualcuno che vive vicino a lei, si accorge
che dovrebbe prendere maggiormente le distanze da questo aspetto della sua vita, o
metterlo del tutto da parte. La dipendenza può poi provocare danni fisici, di cui a volte
si percepiscono distintamente gli effetti: per esempio, il fumo danneggia il sistema
cardiocircolatorio e alcuni fumatori se ne rendono conto perché sentono che gli manca il
fiato e soffrono di tachicardia. Oppure può peggiorare i rapporti con persone care, che
per esempio si lamentano perché ci vedono trascurare i nostri impegni più importanti. In
altri casi l’eccessività sta nel fatto che la dipendenza è molto costosa: questo lo si vede
distintamente, per esempio, nella dipendenza dal gioco o da droghe costose come
l’eroina e la cocaina. Ma il fatto più evidente è che l’attaccamento all’oggetto della
dipendenza pesa negativamente sull’economia complessiva della propria vita; quando si
è perdutamente innamorati di una persona egoista, squilibrata, indifferente, pericolosa o
imbecille, per esempio, ci si rende conto che non avrebbe senso continuare a
prendersela per i suoi maltrattamenti, a pensarla, a cercarla o a trascurare tante attività
belle o importanti per lei, ma ciò nondimeno si è affascinati, ammaliati.
La persona dipendente brama ardentemente la sostanza, l’attività o la persona da cui
dipende. Se ne sta lontano per un po’, il desiderio di riavvicinarsene è tale da far passare
in secondo piano tutto il resto: il benessere e il piacere, il perseguimento di obiettivi
importanti, la propria libertà e reputazione, l’ordine interiore, gli affetti, il lavoro, gli
impegni, il buono stato del proprio corpo. La consapevolezza di farsi del male non è
abbastanza forte da dissuadere. Se si cerca di resistere ci si sente tesi, irrequieti o agitati,
ansiosi, disperati, collerici, tanto che a volte – come nelle compulsioni – il ricorso
all’oggetto di dipendenza è dettato più dall’urgenza di sfuggire a queste sensazioni
spiacevoli che dal piacere che effettivamente se ne ricava. Distrarsi dal desiderio è
molto difficile; quando l’abitudine è consolidata diventa arduo persino immaginare la
propria vita lontano dall’oggetto di dipendenza e non vengono in mente le varie attività
cui ci si potrebbe dedicare in alternativa.
Comunque sia, nella persona che si trova in questo stato i tentativi di ridimensionare
lo spazio dedicato all’oggetto della dipendenza non vanno a buon fine. In certi casi la
convinzione di riuscire è così scarsa che la persona non prova nemmeno a prendere le
distanze da ciò da cui dipende (“so che dovrei smettere ma...”). Di ciò è complice la
cultura medica: l’idea che le persone dipendenti siano “malate” perché qualcosa non va
nel loro cervello o hanno qualche gene particolare indebolisce o annulla la motivazione
a darsi da fare per cambiare.
Impulsività
Il problema generale dell’impulsività consiste nell’agire trascurando
grossolanamente di valutare le evidenti conseguenze prevedibili dei propri atti. In questi
casi la persona fa una certa cosa sospinta dall’impulso del momento, poi se ne pente e
quando si trova di nuovo in una situazione simile agisce ancora allo stesso modo.
Il problema può riguardare esplosioni di collera; quando è in preda alla rabbia la
persona interessata si lascia andare ad atti violenti e distruttivi contro persone e cose. La
sue capacità di giudizio vengono meno con la comparsa della collera e si ripresentano
dopo lo “sfogo”, quando la valutazione razionale dei propri atti porta a sentimenti di
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
turbamento, dispiacere, rimorso, imbarazzo. L’impulsività riguarda spesso il
comportamento verbale. In questo caso si fanno affermazioni sconvenienti, si parla
troppo, in momenti non opportuni o con un linguaggio non adatto alle circostanze.
Questo tipo di comportamento si può accompagnare a un bisogno eccessivo di muoversi
e a difficoltà a mantenere l’attenzione concentrata su qualcosa (vedi sopra
“Iperattività”).
Anche certi comportamenti sessuali possono essere messi in atto trascurandone
le conseguenze. Alcune persone corteggiano la maggioranza dei possibili partner che gli
capitano a tiro e, se trovano una risposta positiva, hanno rapporti sessuali con loro,
anche se razionalmente non vorrebbero avere un comportamento di questo genere,
magari perché hanno già una relazione affettiva importante che non vogliono mettere a
repentaglio. Il cattivo controllo delle azioni dettate dall’emozione può portare
ovviamente anche a gravidanze indesiderate o, nel caso delle persone più sfortunate, a
contrarre malattie.
A volte i comportamenti impulsivi si accompagnano a uno stato di grande
euforia: trascurando le proprie reali possibilità ci si può allora imbarcare in imprese
grandiose, oppure, per esempio, comprare oggetti che non si è in grado di pagare.
Casi meno frequenti sono quelli di chi cede all’impulso di rubare oggetti di cui
non ha bisogno o a quello di appiccare incendi, senza essere spinto da altre motivazioni
se non quella di alleviare uno stato di tensione.
Non riesco a dormire
Un problema che accompagna spesso altri problemi psicologici è quello delle
alterazioni della quantità o della qualità del sonno. A volte si dorme poco perché non si
riesce a addormentarsi. Oppure può accadere di risvegliarsi nel pieno della notte o alla
mattina presto e non riuscire più a prendere sonno. Spesso non si riesce a dormire
perché ci si sente tesi, attenti o “attivati”; la mente è assorta nelle preoccupazioni della
vita diurna, alla ricerca di soluzioni per problemi irrisolti, oppure produce
considerazioni, fantasie e immagini mentali nefaste in cui ci si vede sopraffatti dalle
difficoltà.
In genere chi incontra questi problemi avrebbe proprio bisogno di sonno perché
durante la giornata si sente molto stanco e impegnato; così, si impone di dormire. Ma
questo ordine impartito a se stessi è parte del problema stesso; infatti, cercare di fare
volontariamente ciò che per sua natura avviene da sé è in genere controproducente.
Questo genere di autoimposizioni non fa che ritardare il momento in cui il fenomeno
desiderato – in questo caso il sonno – avverrà veramente.
Può anche accadere che le ore trascorse dormendo non siano oggettivamente
poche ma che, ciò nonostante, il sonno non ristori: quando alla mattina ci si sveglia,
basta pensare di avere di fronte a sé una giornata intera per sentirsi stanchi e dolersi di
non poter restare a letto. Per il resto della giornata si ha difficoltà a concentrarsi, ci si
sente lenti e pesanti, quasi tutto costa fatica e sembra di non potersi appassionare a
niente.
A disturbare la qualità del sonno possono contribuire certi brutti sogni che
sembrano andare a rimestare in certe zone torbide della nostra mente.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Controllo della vescica e dell’intestino
Enuresi (“pipì addosso”)
Un problema abbastanza frequente e per cui esistono interventi piuttosto efficaci,
anche se poco praticati, è quello della pipì addosso di giorno e/o di notte. Viene
considerato un “disturbo mentale” quando avviene frequentemente e dopo i cinque anni,
età in cui è presente in circa il 7% dei bambini. Tende a risolversi da sé nel corso degli
anni ma tende anche a diventare un problema psicologico tanto maggiore quanto più il
bambino o il ragazzo è grande. Inoltre in certi casi, se non è curata, si trascina nell’età
adulta. Interessa l’1% degli adulti. Contrariamente a quanto si credeva in passato, il
problema è principalmente nelle conseguenze psicologiche, familiari e interpersonali
della pipì a letto; la cosa di per sé non è invece segno di particolari sofferenze o
anormalità. A volte è dovuta a qualche problema medico.
Encopresi (incontinenza delle feci)
Un problema analogo ma meno frequente e più fastidioso e evidente è quello
dell’incontinenza delle feci. Esso riguarda perlopiù bambini e persone con ritardo
mentale. In questo caso i problemi psicologici sembrano avere un ruolo abbastanza
importante anche come cause del disturbo e non solo come prevedibili conseguenze
(isolamento, vergogna, perdita di autostima, conflitti con gli altri, ecc.). È raro che il
problema diventi cronico. Viene considerato un “disturbo mentale” quando avviene
frequentemente e dopo i quattro anni di età. Come nel caso dell’enuresi esistono
interventi che possono ridurre o eliminare il problema in sé ed evitare che provochi
problemi psicologici importanti.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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Autostima e ideale di sé
Ognuno di noi confronta quello che è, quello che fa e quello che sa fare con un
modello di sé ideale, cioè con quello che vorrebbe essere, che vorrebbe fare e che
vorrebbe saper fare. Quando ci sentiamo vicini al nostro ideale di noi stessi abbiamo
una buona autostima; in altre parole ci si apprezza. Quando ci sentiamo lontani dal
nostro ideale di noi stessi abbiamo una cattiva autostima, cioè non ci apprezziamo. La
conseguenza probabilmente più importante della buona o della cattiva autostima
riguarda l’umore: giudizi negativi severi, frequenti e generalizzati su di sé portano a
sentimenti di tipo negativo – per esempio, lo sconforto, la vergogna, la colpa, l’ansia –
mentre giudizi positivi frequenti e generalizzati su di sé portano a sentimenti di euforia,
vitalità e serenità. In termini generali si può dire che è estremamente difficile godere di
una buona salute psicologica se si è privi di aree di buona autostima. D’altra parte è
vero anche il contrario: il fatto di avere qualche problema psicologico può portare a un
peggioramento dell’autostima.
Si è detto “aree di buona autostima” perché, come spiega Bandura (2000),
l’autostima non è un giudizio generale che riguarda sé globalmente, ma è piuttosto un
giudizio relativo a uno specifico ambito di vita. Le persone variano per quanto ricavano
il senso del loro valore personale dal lavoro, dalla vita familiare, dalla vita sociale e di
comunità e dalle attività del tempo libero. Per esempio, uno studente può essere
orgoglioso dei suoi risultati scolastici ma insoddisfatto delle sue capacità sociali. Un
manager superimpegnato può avere un’alta stima di sé per quanto riguarda il lavoro pur
non apprezzandosi come genitore. Analizzando i giudizi di valore personale di un
individuo relativi ad ambiti di vita specifici possiamo rilevare le aree di autostima e
quelle di vulnerabilità alla denigrazione di sé.
L’autostima, come ho già accennato, deriva da due tipi di fonti: dal possesso di
capacità o dal possesso di caratteristiche più o meno apprezzate. Nell’autostima che
deriva dalla competenza personale, le persone si sentono orgogliose quando
raggiungono il livello di risultati che considerano pregevole, cioè i loro standard di
merito. Sono soddisfatte di sé quando fanno abbastanza bene ciò che per loro è
importante saper fare e, viceversa, sono scontente di sé quando non riescono ad essere
all'altezza dei loro standard di merito. Molti problemi descritti nel capitolo precedente
provocano un forte calo di autostima quando vanno a colpire capacità centrali per la
buona immagine di sé.
Spesso gli altri ci giudicano per qualche nostra caratteristica o per il nostro status
sociale più che per ciò che sappiamo o non sappiamo fare. Per esempio, le persone che
si trovano ai gradini bassi della scala sociale possono essere svalutate. Il giudizio altrui
ha degli effetti importanti perché il senso di valore personale di ognuno di noi tende a
riflettere le valutazioni ricevute da altri. Così, nelle famiglie in cui c’è una forte
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
conflittualità fra i coniugi, i figli possono crescere con una bassa autostima perché uno
dei due genitori ritrova in loro certe caratteristiche che non apprezza nel coniuge e non
nasconde il suo disprezzo.
Uscendo dall’ambito delle vicende private, che riguardano cioè in modo
specifico le esperienze particolari di alcuni individui, si osserva che il senso di valore
personale è influenzato anche dagli stereotipi culturali. Spesso le persone vengono
classificate in gruppi apprezzati o disprezzati sulla base della loro etnia, della razza, del
sesso o delle loro caratteristiche fisiche. Poi vengono trattate con l'atteggiamento dettato
dallo stereotipo sociale invece che dalla loro individualità. Nelle situazioni in cui viene
dato rilievo allo stereotipo, le persone che ne sono vittime patiscono perdite di
autostima. In genere le pratiche sociali di svalutazione poggiano su giustificazioni
sociali che attribuiscono ai gruppi svantaggiati la colpa dei maltrattamenti che
subiscono. E, se la svalutazione trova una giustificazione di questo tipo, può avere
sull'autostima un effetto più devastante dell'antipatia aperta. Quando tale attribuzione di
colpa al gruppo disprezzato è convincente, molti dei suoi membri possono arrivare con
il tempo a condividere la caratterizzazione degradante che viene fatta di loro. Le
persone che possiedono attributi denigrati dalla società, e che accettano le valutazioni
negative dettate dagli stereotipi, avranno una bassa stima di sé indipendentemente dal
loro talento.
Il giudizio altrui condiziona comunque anche l’autostima basata sulle
competenze: spesso le persone sono oggetto di critiche e disapprovazione perché non
riescono a essere all'altezza degli ideali o degli standard di aspirazione imposti da altri.
Se quindi una persona fa propri certi standard troppo elevati, proposti o imposti da altri,
condanna se stessa a una bassa autostima, poiché non riuscirà mai a essere abbastanza
competente.
Che vita è questa?
A volte le altre persone sembrano più soddisfatte e realizzate di come ci si sente
personalmente. Gli altri appaiono più spigliati, più sicuri delle loro scelte, più sereni, più
energici. Per loro le cose sembrano più chiare e facili.
La propria vita sembra procedere fra l’apatia e la sofferenza. Ci si sente in piena
forma solo di rado. Non si apprezza quello che si fa: gli studi o il proprio lavoro non
entusiasmano, semmai annoiano, affaticano, preoccupano. Non si è affatto certi che
costituiscano l’impegno più adatto per sé; ci dovrà pur essere un modo migliore per
passare il proprio tempo; ma quale? Non si riesce a immaginare una prospettiva
realmente attraente. Si percepisce una mancanza di chiarezza su di sé, i propri scopi e i
propri gusti.
Con gli altri ci si sente soli. I rapporti sono faticosi, richiedono molto impegno e
danno in cambio ben poco. D’altra parte non si può farne a meno. Le persone che ci
dimostrano un reale interesse sembrano pochissime e spesso poi ci deludono. Intorno è
pieno di persone che non si fanno scrupoli a ferire i sentimenti altrui. È facile trovarsi in
difficoltà e non succede quasi mai qualcosa di bello. Capita di passare intere giornate a
pensare a come si è stati trattati ingiustamente da qualcuno. Oppure a rimuginare su
quanto sarebbe stato meglio comportarsi diversamente in certe situazioni. Quasi ogni
giorno succede qualcosa che va storto e rovina l’umore.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Viene allora da chiedersi: è per questo che dobbiamo vivere? Cos’è che ci rende
le cose più difficili che agli altri? Devo proprio avere qualcosa che non va... forse
qualcosa nel mio carattere... qualcosa che è successo quando ero bambino...
Personalità timide e introverse
Nella nostra società sono considerati valori caratteristiche di personalità come la
socievolezza, la loquacità, l’autostima e la sicurezza di sé, l’allegria, la vivacità,
l’intraprendenza e il dinamismo, l’ambizione, la competitività. Gli adulti che non
possiedono queste caratteristiche hanno in generale meno possibilità di lavoro. I ragazzi
che non sono così risultano meno popolari presso i loro coetanei e possono essere
considerati poco attraenti.
Tali caratteristiche sono ideali per il lavoratore efficiente di oggi. Sono doti
apprezzate già nella scuola materna e in tutto il contesto scolastico. Sono quelle che
permettono di emergere nei gruppi. Ma nel rapporto con il partner, i familiari o gli amici
possono anche nascondere una profonda ignoranza riguardo se stessi e una certa
inettitudine nella gestione dei sentimenti e dei rapporti intimi. In effetti le persone sicure
ed estroverse, conosciute meglio, si rivelano a volte superficiali, poco affidabili, false ed
egocentriche.
Ciò nondimeno questi modelli di comportamento vengono celebrati nei mass
media e nei principali contesti della vita nella nostra società; così, più o meno tutti
cercano, consapevolmente o meno, di adeguarvisi. In questo modo la persona cauta nei
rapporti con gli altri, misurata nel parlare o taciturna, pronta a mettersi in discussione e
a riconoscere le proprie debolezze e i propri errori, poco sicura di sé, seria, poco
energica e vitale, poco propensa al rischio, alla sfida e alla competizione, rivolta a valori
e scopi interiori – o, per dirla in breve, timida e introversa – vive con la triste
consapevolezza di essere in generale poco apprezzata o del tutto fuori posto e
inadeguata. Spesso ha poca stima di sé e si deprime.
L’incontro con i propri simili può dare conforto, ma spesso viene misconosciuto.
La persona introversa, timida o insicura fatica a vedere queste sue qualità come aspetti
di una personalità degna di essere apprezzata almeno quanto quella diametralmente
opposta, e percepisce prevalentemente le proprie mancanze, deprezzando virtù come
l’autoconsapevolezza, la sincerità, la lealtà, la coerenza, l’altruismo, l’amore per gli
altri, la riflessione o la propensione artistica.
Diversità, discriminazione e omosessualità
Le persone “diverse” sono oggetto di critiche anche feroci, di scherno e di
messaggi più o meno velati di disapprovazione e disprezzo. Nei casi più gravi diventano
oggetto di odio e persecuzioni violente – si pensi per esempio a come vengono trattati a
volte gli immigrati extracomunitari. Le pratiche discriminatorie cominciano già
nell’infanzia quando vengono presi di mira i bambini che presentano qualche elemento
di diversità percettivamente evidente – i grassi, i malvestiti, i disabili, menomati o
deboli, i troppo magri o troppo piccoli, i maschi effeminati. Proseguono poi in età adulta
concentrandosi su caratteristiche morali, ideologiche, religiose, etniche. Le persone che
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
possiedono attributi denigrati dalla società, e che accettano le valutazioni negative
dettate dagli stereotipi, avranno una bassa stima di sé indipendentemente dal loro
talento.
Se prescindiamo dai criminali, forse la “categoria” di persone che è bersaglio
delle discriminazioni più accanite è quella delle persone dichiaratamente omosessuali.
L’atteggiamento della chiesa e della maggior parte della società civile verso
l’omosessualità è di aperta condanna morale. Le persone dichiaratamente omosessuali
incontrano spesso una vita dura in famiglia, nella scuola, negli incontri della vita
quotidiana e nel lavoro. Tutti i sinonimi volgari di omosessuale vengono usati come
insulto.
La paura di essere omosessuali può diventare il tema di vere e proprie
ossessioni; la scoperta di provare attrazione per persone del proprio sesso spaventa e
nell’incapacità di trovarle un posto nella propria mente si cerca di distrarsene,
cancellarla, negarla, escluderla, trasformarla in qualcosa d’altro. Viene spesso vissuta
con estrema angoscia e può provocare un brusco calo di autostima con sentimenti di
depressione, colpa, vergogna, disgusto verso di sé. Qualcuno prova a cancellare l’intera
sfera sessuale dalla propria vita e, per esempio, fa una scelta religiosa dettata da
aspirazioni ascetiche. Qualcuno cerca di espiare la sua “colpa”. Ma ogni volta che
riaffiorano le fantasie o gli impulsi omosessuali, riaffiora l’ansia.
Chi sceglie di vivere da omosessuale si trova a dover fare i conti con la
condanna delle persone circostanti – e spesso anche con la sua interiorizzazione.
Insorgono sovente occasioni di conflitto e di lite e anche i rapporti interpersonali più
importanti rischiano di deteriorarsi. La ricerca di un ambiente dove ci possa essere
comprensione, rispetto e solidarietà porta alcune persone a frequentare luoghi e
entourage per soli omosessuali, contribuendo così a volte a un processo di
ghettizzazione che può favorire l’appiattimento della vita sugli interessi sessuali.
Avere un problema psicologico e non saperlo
A volte la sofferenza che porta a rivolgersi a uno psicologo è dovuta alle
conseguenze interpersonali della propria diversità; in altre parole può accadere che si
cerchi un aiuto non tanto, o non solo, per “correggere” un aspetto di sé che si fa fatica
ad accettare ma piuttosto un aspetto di sé che provoca problemi nel rapporto con gli
altri. Potrebbe essere questo il caso, per esempio, di una persona che ha “un brutto
carattere”, di una che ha gusti sessuali troppo particolari – che diventano motivo di
attrito con il partner – o di chi – secondo qualche familiare – beve troppo, per fare solo
tre esempi.
In questi casi la persona in questione non ammetterebbe di avere “qualcosa che
non va” se ciò non costituisse un problema per qualcun altro e se quest’altra persona
non cercasse di cambiarne “il carattere” o certi modi di fare. Naturalmente a nessuno fa
piacere essere oggetto di tentativi di trasformazione; è qualcosa che può essere tollerato
da un bambino, ma già nell’adolescenza i tentativi di correzione del comportamento ad
opera dei genitori, se non vengono gestiti con tatto e intelligenza, sono destinati a creare
conflitti interpersonali e liti.
Quando ci accorgiamo che vicino a noi c’è qualcuno che sta male e che avrebbe
probabilmente bisogno dell’aiuto di uno specialista non sappiamo bene cosa fare.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Spesso la persona che avrebbe bisogno di un aiuto psicologico non si rende conto di
essere in questo stato. In alcuni casi si tratta di una questione di disinformazione.
Qualcuno, infatti, ha uno dei problemi descritti nella prima parte di questo libro, ne è
abbastanza consapevole ma non sa che si tratta di problemi noti, che affliggono molte
persone e per i quali esistono delle soluzioni. Molte persone attribuiscono i loro
problemi psicologici a qualche presunto difetto del loro cervello e così non fanno nulla
per modificare situazioni di vita che sono in buona parte sotto il loro controllo; se gli
psicofarmaci non hanno effetto perdono ogni fiducia nella possibilità di migliorare la
loro situazione.
Altre volte la consapevolezza di avere delle difficoltà è solo parziale. Per
esempio, non sono poche le persone abbastanza consapevoli del fatto che l’alcol, le
sigarette, gli spinelli o altre droghe o certi psicofarmaci gli stanno complicando la vita
ma che ciò nonostante sottovalutano le conseguenze di ciò. In una situazione analoga si
può trovare chiunque, a prescindere dal tipo specifico di difficoltà che sta attraversando.
Per qualcuno infatti è troppo doloroso ammettere davanti a se stesso e/o agli altri di
dover ricorrere a un aiuto esterno; la cosa verrebbe vissuta come una sconfitta
vergognosa. In qualche caso non si fa un bilancio oggettivo della propria situazione
perché il fatto di andare avanti così ha i suoi vantaggi – se non altro quello di continuare
a percorrere strade già note – mentre non c’è la certezza che si possa fare qualcosa per
cambiare: la consapevolezza di un problema – pensano queste persone – è inutilmente
dolorosa se non si può fare nulla per risolverlo.
Vi è anche chi ha una buona consapevolezza delle proprie difficoltà psicologiche
e possiede informazioni adeguate su di esse ma non ha fiducia nei mezzi
psicofarmacologici e psicoterapeutici e in chi li usa professionalmente. Conosco casi in
cui questa fiducia c’era ma si è persa dopo una o più esperienze deludenti.
In alcuni disturbi mentali non c’è la consapevolezza di trovarsi in uno stato
psicologico che può provocare difficoltà e sofferenze inutili. Chi si trova in uno stato
maniacale si sente benissimo e nel pieno delle proprie forze e delle proprie capacità;
perché allora dovrebbe chiedere aiuto a qualcuno? Chi è in preda a un delirio di
persecuzione spesso è convinto di essere al centro di una congiura ostile in cui possono
essere coinvolti più o meno tutti; la sua preoccupazione è difendersi dai malintenzionati
e non mettere in discussione questo angosciante dato di fatto.
La mancanza di consapevolezza che in sé c’è qualcosa che non va è un aspetto
caratteristico delle psicosi. (Naturalmente questo non vuol dire affatto che se una
persona non ha consapevolezza dei propri problemi ha una psicosi!) Se una persona ha
allucinazioni e deliri insistenti spesso ha una psicosi. Un’allucinazione è una
“percezione senza oggetto”. In altre parole, un’allucinazione è un’esperienza in cui si
percepisce qualcosa in modo molto netto (per esempio, si vede una persona, si sente un
suono o un odore), ma questo qualcosa non c’è, nel senso che le persone presenti nello
stesso luogo e nello stesso momento non lo vedono e non lo sentono. Si dice che una
persona ha un delirio, invece, quando è assolutamente convinta di qualche cosa
nonostante che gli altri non riescano a trovare fondata tale convinzione e che ci siano
prove ovvie e incontrovertibili del fatto che tale convinzione è falsa. Per esempio, una
persona con schizofrenia può essere convinta di essere Gesù Cristo in persona. Un’altra,
con una grave depressione psicotica, può essere convinta di avere due teste.
Psicosi a parte, si potrebbero fare molti esempi di persone che hanno problemi
psicologici e non ne sono consapevoli. Vediamone alcuni altri. Una ragazza anoressica
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
non si considera malata; vuole solo dimagrire. Il cibo non le interessa e si sente subito
sazia. Quando gli altri le dicono “come sei magra!” si sente gratificata. A volte le
sproporzioni del suo corpo, che vuole assolutamente eliminare, persistono nonostante
l’eccessiva magrezza. Che senso avrebbe per lei che i suoi genitori pagassero qualcuno
per rovinare i suoi piani e farla ingrassare?
Molte persone irascibili, permalose, sospettose, polemiche o aggressive possono
anche essere consapevoli di essere in conflitto con mezzo mondo ma attribuirne la
responsabilità agli altri. Chi, per soddisfare certi suoi desideri, calpesta i diritti altrui o
provoca loro sofferenze e umiliazioni spesso non ha rimorsi per quello che fa e non si
sente aggressivo; quale spinta interiore dovrebbe allora portarlo a cercare di cambiare?
Le persone esigenti, efficienti e perfezioniste si sentono immerse in un mondo
disordinato, pieno di approssimazione e inettitudine: dal loro punto di vista sono gli altri
che dovrebbero essere più coerenti ed efficaci in quello che fanno. Chi teme
esageratamente critiche e segnali di rifiuto dagli altri, invece, sente di essere circondato
da persone indifferenti o insensibili.
Problemi psicologici dei figli
Una categoria di persone che non chiedono aiuto per i loro problemi psicologici
è quella dei bambini. Sono i genitori che si occupano e preoccupano per loro e che
cercano di prendere provvedimenti quando qualcosa non va per il verso giusto. Le
circostanze che possono mettere in allarme un genitore e spingerlo a prendere
provvedimenti per una situazione anomala o preoccupante sono molte; si può anzi dire
che un genitore informato e consapevole del proprio ruolo fa il possibile affinché il
figlio sia sano, sereno e sappia fare tutto quello che fanno gli altri bambini della sua età,
e ogni giorno, quando osserva certi aspetti di comportamento che potrebbero diventare
problemi, cerca di correggerli preventivamente. Le prime persone che possono fare
qualcosa per favorire, conservare e recuperare la salute psicologica dei bambini sono i
loro genitori. Tuttavia anche i figli dei genitori attenti e capaci possono sviluppare
problemi psicologici.
In linea di massima i bambini posso soffrire della maggior parte dei problemi
psicologici degli adulti. Sembra impossibile, ma i bambini possono soffrire di
depressione, ansia, fobie e disturbi da stress come gli adulti. Alcuni problemi degli
adulti cominciano in genere proprio nell’infanzia o nell’adolescenza: per esempio, i tic,
la balbuzie, i disturbi alimentari, l’ansia da separazione, i problemi di timidezza
eccessiva. In breve, i bambini incontrano tutti i problemi descritti nei primi tre capitoli
di questo libro (fatta eccezione per i problemi sessuali), che si perlopiù manifestano in
modo molto simile.
Uno degli aspetti che i genitori sanno di dover controllare attentamente è quello
di un progressivo apprendimento delle abilità motorie, di pensiero, linguistiche,
scolastiche, e sociali. Il confronto con altri bambini può mettere in evidenza il ritardo
nella comparsa di qualche conquista evolutiva più o meno importante. Che fare se un
bambino a un anno ancora non gattona o a un anno e mezzo non ha ancora imparato a
stare in piedi? Che fare se a quest’età ancora pronuncia solo poche parole? Molti ritardi
dello sviluppo si colmano da sé nel giro di poco tempo. Non tutti i bambini si
sviluppano con lo stesso ritmo sotto ogni profilo. Qualcuno arriva dove arrivano gli altri
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
semplicemente impiegando qualche mese o anno in più. Ciò nonostante il ritardo può
costringere il bambino a esperienze piuttosto diverse da quelle dei suoi coetanei e
questo fatto può farlo sentire e percepire come diverso, rischiando di minare la sua
fiducia in sé e di provocargli un senso di infelicità. Inoltre i ritardi possono diventare
motivo di ansie e tensioni familiari.
La scuola è la prima cassa di risonanza degli eventuali difficoltà di
apprendimento e di sviluppo dei figli, sia per le numerose occasioni di confronto fra
abilità – informali o incoraggiate dai metodi di insegnamento – sia per la richiesta
pressante di competenze in rapido sviluppo. È principalmente qui che si evidenziano,
per esempio, le difficoltà di apprendimento della lettura, della scrittura o del calcolo,
che, benché abbiano una denominazione così specifica possono avere ripercussioni
piuttosto generalizzate sullo sviluppo di altre capacità più complesse, sulla
socializzazione, sull’autostima e, in definitiva, sulla salute e l’evoluzione del bambino.
Spesso i bambini che hanno uno di questi disturbi dell’apprendimento sviluppano anche
problemi emozionali come quelli descritti nel capitolo primo.
I ritardi più evidenti e importanti si configurano come handicap o disabilità.
Sappiamo che generalmente la famiglia di bambini con disabilità importanti – come
quelle associate alla sindrome di Down o all’autismo – è alle prese con diversi ordini di
problemi che possono arrivare a minacciarne la salute, la funzionalità e la stessa
sopravvivenza: preoccupazioni economiche, fatica e stress, isolamento sociale,
completo assorbimento della famiglia nelle funzioni di cura del figlio disabile,
deterioramento del rapporto fra i genitori, scadimento delle funzioni di cura ed
educazione di eventuali altri figli, vissuti di ansia, colpa e depressione, ecc.
Anche in assenza di problemi psicologici o ritardi di sviluppo conclamati,
succede assai spesso che i figli, come del resto tutte le altre persone, non siano
esattamente come li si vorrebbero: intelligenti, sicuri, allegri, felici, socievoli,
obbedienti, agili, bravi a scuola, versatili, autonomi e affettuosi con i genitori. Tali
desideri possono essere contraddittori: “vorrei che mio figlio fosse più indipendente e
che mi obbedisse di più”, “vorrei che fosse più sicuro di sé ma che stesse molto attento
a tutti i possibili pericoli”. Quando il figlio è troppo diverso dall’ideale si può fare molta
fatica ad accettarlo e ci si preoccupa per il suo bene. Qualcuno se ne fa un cruccio e una
colpa. Teme che nel figlio ci sia qualcosa che non va e che possa peggiorare in futuro;
se si può riparare meglio farlo il più presto possibile.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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Situazioni che provocano o aggravano i problemi psicologici
Nei primi tre capitoli di questo libro ho descritto i problemi psicologici più
frequenti: situazioni di sofferenza emotiva, di incapacità e di disarmonia fra la propria
condizione e uno stato ideale, desiderato da altri o da noi stessi. Può essere interessante
accennare ad alcune situazioni della vita che spesso precedono la comparsa o
l’aggravamento di questi problemi.
Si tratta perlopiù di situazioni comuni. Ognuno di noi le ha attraversate o ne
attraverserà la maggior parte senza però sviluppare particolari problemi psicologici,
tranne in qualche caso. Quindi queste situazioni non sono cause di per se stesse
sufficienti affinché la persona che le attraversa sviluppi problemi psicologici: per questo
esito è determinante l’uso che facciamo delle nostre capacità di adattamento mentali e
comportamentali. In che senso allora possono essere considerate cause dei problemi
psicologici?
Questa domanda è troppo complessa per trovare una risposta in poche righe.
Essa chiama in causa le teorie sull’origine, lo sviluppo e il mantenimento dei problemi
psicologici, un argomento variegato, vasto e complesso a cui potrò accennare solo di
sfuggita nel corso del libro, in particolare nell’ultima sezione di questo capitolo e nel
capitolo “La psicoterapia cognitivo-comportamentale”. Il fatto più evidente è che alcune
persone sviluppano problemi psicologici e che tendono a manifestare questi problemi in
presenza di certi fattori oggettivi, che loro stesse spesso indicano come cause o come
fattori “precipitanti”. Ne indicherò di seguito alcuni seguendo una classificazione in
parte cronologica e in parte per contesti di vita. Oltre a questi esempi se ne potrebbero
fare moltissimi altri almeno altrettanto importanti. Il mio scopo non è esaurire
l’argomento ma richiamare l’attenzione sulla numerosità e l’onnipresenza dei fattori di
stress e degli eventi potenzialmente patogeni. Diverrà chiaro alla fine del paragrafo che
non è possibile compilare un elenco completo di situazioni di questo tipo perché la loro
pericolosità è relativa.
Infanzia e adolescenza
Prima della scuola materna
Sin dalla nascita, la salute dell’essere umano, come quella di ogni altro animale,
risente dell’esposizione a condizioni ambientali sfavorevoli: per esempio, un clima
troppo caldo o troppo freddo, la mancanza o la cattiva qualità del cibo e dell’acqua, la
mancanza di sonno, un ambiente troppo chiassoso o confuso, la presenza di pericoli per
l’incolumità fisica e di agenti fisici patogeni. A qualsiasi età inoltre si risente fortemente
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
di situazioni estreme come quelle descritte nel paragrafo “Ho avuto un terribile trauma”
del capitolo “Io soffro”.
La qualità delle cure genitoriali ha un’importanza straordinaria per la salute e lo
sviluppo psicologico del bambino, potendo lasciare segni che permangono fino all’età
adulta. Alcuni fattori negativi da questo punto di vista possono essere la mancanza di
contatto fisico con un altro essere umano; la mancanza di una figura di accudimento
sufficientemente sollecita e attenta a soddisfare puntualmente e amorevolmente i
bisogni del bambino; la carenza o l’eccesso di azioni tese a proteggere, calmare,
tranquillizzare il bambino quando è spaventato, arrabbiato o triste; l’abbandono o la
mancanza di figure di accudimento costantemente presenti o la presenza di cambiamenti
troppo importanti e frequenti nella sua vita (rottura di relazioni importanti; continui
cambiamenti di orari e di ambienti); le malattie e i ricoveri in ospedale. La nascita di un
fratellino o di una sorellina, pur essendo un evento positivo nella vita di una famiglia,
può costringere il bambino a un difficile processo di modificazione del suo rapporto con
i genitori. Un altro evento comune da cui possono derivare carenze o inadeguatezze sul
piano delle cure genitoriali fondamentali è quello del venire meno, della separazione o
del divorzio dei genitori.
Lo sviluppo mentale del bambino richiede anche una certa stimolazione:
l’eccesso o la carenza di stimoli visivi, sonori, tattili e di interazioni comunicative con
altre persone possono rallentare lo sviluppo, impoverirlo o creare problemi emozionali,
relazionali e comunicativi. Il bambino deve essere sempre più libero di esplorare
l’ambiente, conoscere e mettere alla prova le sue capacità man mano che esse diventano
sempre più numerose e complesse, e questo processo dovrebbe idealmente essere
facilitato dagli adulti che lo accudiscono e educano il bambino. Da questo punto di vista
un atteggiamento genitoriale di eccessivo controllo, che limita l’esplorazione
dell’ambiente e delle proprie capacità, può essere un ostacolo.
L’apprendimento di regole sociali prepara alla vita con gli altri e abitua il
bambino a controllare i suoi desideri e i suoi impulsi senza soffrirne eccessivamente.
Inoltre è una delle prime fonti di insegnamenti morali fondamentali. Al di là di cosa
viene insegnato è importante anche il metodo di insegnamento, e cioè che in famiglia
non vi sia uno stile educativo estremamente incoerente in un genitore o fra i genitori e
che in generale i sistemi per insegnare il rispetto delle regole e della disciplina non siano
troppo duri o troppo lassisti.
I rapporti con gli altri richiedono l’impiego di capacità complesse e sono a loro
volta il motore di una miriade di apprendimenti indispensabili. Sotto questo profilo
alcune circostanze decisamente sfavorevoli a uno sviluppo sano sono la mancanza di
interazioni con altri bambini e adulti e la mancanza di modelli di apprendimento adatti.
É ben noto che gli effetti della violenza subita possono essere profondi,
generalizzati e di lunga durata; fra le altre cose possono minare il senso di sicurezza e di
fiducia negli altri del bambino, possono precludere lo sviluppo di un senso adeguato
della propria identità e della realtà, possono dare origine a disturbi emozionali
importanti. Gli abusi sessuali, i maltrattamenti fisici e gli abusi psicologici (per esempio
il fatto di essere oggetto di percosse, di urla o di minacce) o il fatto di assistere a scene
violente o a liti fra genitori o fra adulti in generale sono circostanze che possono lasciare
un segno negativo difficile da cancellare.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Esistono poi alcuni stili educativi che esercitano un’influenza negativa sui figli a
qualsiasi età, e cioè l’uso eccessivo di minacce e punizioni, atteggiamenti troppo
protettivi, troppo ansiosi, troppo critici o troppo perfezionistici.
Scuola materna ed elementare
All’età della scuola materna, i precedenti fattori continuano a svolgere un ruolo
importante e se ne possono aggiungere altri: separazioni dalla figura di attaccamento –
richieste dalla frequenza della scuola materna –gestite male (con rigidità e indifferenza
ai sentimenti del bambino oppure con ansia o estrema accondiscendenza alle sue
richieste di attaccamento); la morte di un parente, un amico o un animale domestico; un
cambiamento di insegnanti; cambiamenti di residenza o di scuola; periodi frequenti o
lunghi di assenza di un genitore; l’essere spesso oggetto di derisioni, intimidazioni, atti
di violenza fisica da parte di altri bambini; essere spesso esclusi dai giochi e le attività
comuni; la mancanza di esperienze di autonomia.
Le/gli insegnanti della scuola materna svolgono oltre alle funzioni educative che
fanno parte del loro ruolo professionale, più o meno le stesse funzioni dei genitori;
quindi possono rivelarsi inadeguate ed essere fonte di problemi psicologici come e
quanto i genitori.
Alle scuole elementari, si aggiungono altri possibili fattori; per esempio, il fatto
di essere eccessivamente o insufficientemente sollecitati a studiare e a ottenere buoni
risultati a scuola, nello sport e nelle altre attività del tempo libero, gli impegni troppo
pressanti e la mancanza di tempo non organizzato.
Adolescenza
Nell’adolescenza diventano più importanti alcuni fattori che in realtà cominciano
ad avere un loro peso sin dal momento in cui un bambino si forma un’idea delle proprie
caratteristiche e le confronta con quelle degli altri e con quelle che lui/lei e le persone
circostanti (compresi i mezzi di comunicazione) considerano auspicabili perché
pregevoli.
Per esempio, la constatazione di non essere all’altezza dei propri ideali – che
talvolta possono essere eccessivamente elevati – può essere una fonte di continue
frustrazioni stressanti. Il senso di inadeguatezza può riguardare, per esempio, gli ambiti
dell’aspetto fisico, dell’energia e vitalità, della forza fisica, della salute, della sicurezza
di sé, della popolarità e del rispetto di cui si gode presso i coetanei, della quantità o della
qualità delle amicizie, della facilità con cui si stringono legami con gli altri,
dell’esperienza in campo sentimentale-sessuale, dell’attrazione esercitata sulle persone
del sesso opposto, dell’intelligenza e della cultura, della facilità di espressione, dei
risultati scolastici o lavorativi o sportivi, del possesso di un talento particolare in
qualche settore di attività, del benessere economico, del possesso di oggetti e beni di
consumo che hanno il valore di simboli di status o di appartenenza a gruppi ammirati,
della professione o di altre caratteristiche dei propri genitori. A volte questa
insoddisfazione di sé è il riflesso di segnali di disistima – percepiti in modo accurato o
distorto – provenienti da familiari, amici o altri conoscenti. L’importanza delle varie
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
fonti di autostima non diminuisce nel resto della vita, ma viene in parte a concentrarsi
sul possesso di altri attributi e di altre capacità.
Vita sentimentale e familiare
Le fonti di problemi psicologici all’interno delle coppie conviventi o spostate possono
essere ricondotte:
− a quelle richieste provenienti dal partner che possono essere accontentate solo a
costo di qualche fatica, sacrificio o rinuncia;
− ai costi della collaborazione necessaria per prendere decisioni che riguardano
entrambi e risolvere problemi comuni connessi alla gestione della casa e della
vita in due (o in famiglia);
− al lavoro emotivo necessario per gestire interiormente e nella comunicazione con
il partner gli stati d’animo negativi che inevitabilmente sorgono nel rapporto di
coppia;
− all’impegno per la gestione costruttiva delle diversità di idee, sentimenti, gusti,
interessi, desideri e bisogni che possono diventare motivi di conflitto e di lite (i
temi più caldi paiono essere la qualità dei rapporti sessuali, le modalità di
gestione dei rapporti con le rispettive famiglie e del tempo per sé o in comune, la
gestione del denaro, l’educazione e l’accudimento dei figli).
Non è un mistero che la quotidianità della vita familiare contenga numerosi elementi
di stress. I figli richiedono un notevole e ininterrotto dispendio di energie e suscita
emozioni positive e negative molto forti. Già la loro nascita può provocare uno
stravolgimento delle abitudini e dei ruoli della coppia. L’accudimento e l’educazione
richiedono di differire o rinunciare spesso al soddisfacimento dei propri desideri e
bisogni, anche dei più elementari, come, per esempio, quello di dormire. Ci sono poi
varie circostanze cariche di valenze affettive – per esempio, eventuali tradimenti,
separazioni, la perdita del coniuge, problemi di salute nel coniuge o nei figli, la presenza
di problemi sessuali. Dal momento della formazione della coppia in poi, le famiglie in
genere attraversano una serie di fasi critiche tipiche: il matrimonio, la nascita del primo
figlio, l’adolescenza dei figli, l’uscita dei figli dalla famiglia e la vecchiaia dei coniugi.
Ogni periodo di transizione da una fase alla successiva richiede ai partner adattamenti
notevoli che possono essere fonte di stress.
Nel caso delle donne è particolarmente difficile conciliare i compiti di lavoratrice,
madre premurosa, amministratrice/esecutrice delle faccende domestiche, moglie
affettuosa e disponibile. Il lavoro viene spesso avvertito come un elemento importante
per la propria realizzazione personale, il senso di soddisfazione e la stima di sé; ancora
più spesso è una concreta esigenza economica. L’accumularsi di ruoli e di compiti, se
non viene affrontato con flessibilità e collaborazione da parte del partner e di familiari e
conoscenti, diventa una fonte di stress per la donna, una fonte di motivi di
insoddisfazione per il partner e la causa di vuoti educativi ed affettivi di cui risentono i
figli.
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Se un membro della coppia è sotto stress e reagisce male, si creano motivi di stress
all’interno della coppia o della famiglia. Nei periodi di maggior stress individuale, il
numero di conflitti con il partner e i familiari aumenta e la soddisfazione di coppia
diminuisce. Ciò può accadere principalmente per due motivi. Il primo è che quando una
persona è sotto stress ha più bisogno di aiuto ed è meno in grado di darne. Quando
siamo sotto stress proviamo una varietà di stati d’animo negativi e stanchezza, cosa che
aumenta il nostro bisogno di sostegno emotivo e di aiuto pratico. Per esempio, se un
genitore ha trascorso gran parte della notte cercando di far addormentare un bambino
che piange, il giorno dopo avrà bisogno di ricevere conforto dal coniuge e di essere
alleviato nello svolgimento delle sue mansioni quotidiane. D’altra parte, lo stress può
aumentare le “distorsioni cognitive” (questo concetto viene spiegato nel paragrafo
“Distorsioni cognitive” nel capitolo “La psicoterapia cognitivo-comportamentale”) e
indurre a una maggiore concentrazione su se stessi; così, si è meno disponibili a capire e
a prendere sufficientemente in considerazione il punto di vista dell’altro.
Il secondo motivo è che le situazioni stressanti possono aumentare il conflitto e
l’insoddisfazione di coppia esacerbando vecchi conflitti irrisolti o creandone di nuovi.
Consideriamo, per esempio, una coppia che da poco ha avuto il primo figlio – evento
straordinariamente carico di stress positivo e negativo. Poiché il nuovo membro della
famiglia porta con sé nuovi impegni e responsabilità, è facile che si aggravino conflitti
presenti nella famiglia. Immaginiamo infatti che la moglie già prima della nascita del
figlio non fosse soddisfatta del contributo dato dal marito allo svolgimento dei compiti
domestici. Ora lei ha meno tempo per la casa e così la scarsa collaborazione del marito
le pesa maggiormente inducendola a chiedergli di darsi da fare di più. Ma la nascita del
bambino può essere anche il motivo di conflitti nuovi, infatti molto probabilmente ci
saranno desideri e opinioni differenti riguardo a chi debba provvedere a lui nei vari
momenti della giornata (per esempio: chi lo deve cambiare? Chi si deve alzare la notte
per preparargli il biberon?).
Vita lavorativa
Nel lavoro, come in altri contesti della vita, esistono molte situazioni che
mettono alla prova più o meno duramente le nostre capacità psicologiche e fisiche di
adattamento alle situazioni. I motivi di disagio psicologico più evidenti legati al lavoro
riguardano per esempio la difficoltà a trovare un impiego, le difficoltà economiche, la
necessità di compiere spostamenti lunghi o altrimenti disagevoli per recarsi al lavoro.
Qui indicherò alcuni motivi di stress legati al lavoro all’interno di organizzazioni.
Lo stress lavorativo nelle organizzazioni dipende in buona parte da fattori che si
presentano in modo simile a prescindere dallo specifico ambiente di lavoro. Mi riferisco
a elementi come la responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi propri e del
proprio gruppo di lavoro, la scarsa possibilità di controllo nelle decisioni che riguardano
l’organizzazione del proprio lavoro, i ritmi troppo veloci, i carichi di lavoro eccessivi,
gli orari lunghi e gli straordinari, la rapidità delle trasformazioni organizzative, la
povertà degli incentivi e delle possibilità di carriera, la competitività interna
all’organizzazione e nei confronti della concorrenza, l’incertezza del posto di lavoro, le
violenze psicologiche perpetrate sistematicamente da colleghi e/o superiori (mobbing),
le difficoltà di rapporto coi colleghi. Oggi serve in generale la capacità di apprendere in
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
continuazione nuove conoscenze e nuove mansioni lavorative e di lavorare
produttivamente in gruppo. Da un lato ci sono quindi più stimoli ma a questi
corrispondono nuove sfide rispetto alle quali non ci si sente sempre all’altezza.
In certi contesti lavorativi danno un contributo importante alcuni fattori
ambientali. Per esempio, bisogna svolgere lavori intellettivi senza potersi concentrare a
causa del rumore prodotto dagli altri o da certi strumenti tecnici; ci sono condizioni di
illuminazione inadeguate; il lavoro al computer costringe a posizioni dannose per la
muscolatura, le articolazioni e gli occhi.
Ma accanto a queste condizioni generali ce ne sono alcune più specifiche. Per
esempio, i viaggi di lavoro creano spesso difficoltà di adattamento che possono
ripercuotersi su molte funzioni fisiologiche e psicologiche, far cui il sonno,
l’alimentazione e l’umore. Pensiamo poi al ruolo di chi eroga personalmente servizi ai
clienti. Si tratta di un ruolo che richiede buone capacità sociali. Una fonte di stress in
questo caso può dipendere dalla necessità di saper dare una risposta competente e
cortese alle richieste dei clienti, con la responsabilità di dare un’immagine positiva della
propria organizzazione. È necessario che il lavoratore in questo ruolo si senta
sufficientemente a proprio agio con le altre persone e che sappia mediare fra le loro
richieste, non sempre ragionevoli, e l’organizzazione dei servizi offerti. Per esempio,
che sappia opporsi gentilmente alle richieste che per vari motivi non possono essere
esaudite, spiegarsi in modo chiaro, contenere atteggiamenti ostili.
Alcuni fattori di stress incontrati in questa funzione, per esempio da un cassiere
di banca o da un impiegato postale, possono essere la routinarietà, il ritmo incalzante del
lavoro, l’impegno cognitivo in continui conteggi, la necessità di seguire
scrupolosamente certe procedure, il fatto di dover lavorare per molte ore di seguito sotto
lo sguardo dei clienti che magari si innervosiscono per il fatto di dover attendere il
proprio turno in una lunga fila, la sensazione di avere delle capacità che restano
inutilizzate in un lavoro in cui prevale la routine.
Chi ricopre un ruolo manageriale, invece, ha motivi di stress in parte diversi: la
gestione del personale, l’organizzazione delle funzioni e del lavoro, il raggiungimento
degli obiettivi produttivi. Il manager deve essere in grado di prendere una miriade di
decisioni da cui dipenderà in buona parte il successo dell’azienda. E tali decisioni
devono essere prese in tempi ristretti e in condizioni di incertezza, cioè senza poter
immaginare tutte le possibili alternative d’azione, senza poter valutare ponderatamente
le alternative immaginate, senza poter sempre prevedere con precisione tutti i pro e i
contro dei vari corsi d’azione. La gestione delle persone pone le sfide più impegnative;
bisogna essere in grado di valutarne le qualità e di immaginarle al lavoro nella propria
azienda. Bisogna saperle istruire e motivare.
Il manager deve avere il coraggio e la creatività necessari per innovare.
Nell’epoca del mercato globale, la concorrenza è più agguerrita e si basa sulla capacità
di inventare velocemente e continuamente nuovi prodotti e nuovi metodi sempre più
efficienti. In questo senso il manager deve tenere costantemente d’occhio la concorrenza
e prendere a prestito soluzioni da migliorare e sperimentare. Talvolta è necessario
inserire elementi di novità proprio quando si è all’apice del successo, perché oggi la
lentezza è un handicap determinante. Il ruolo del manager, unito alle possibilità delle
nuove tecnologie, fa sì che sia difficile staccare dal lavoro e tenerlo separato dalla
propria vita familiare e ricreativa. Tutto questo richiede al manager una forte fiducia di
sé e in particolare della propria capacità di decidere efficacemente.
62
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Mobbing
In ambito lavorativo, oggi si parla più che in passato del fenomeno del mobbing.
Negli anni Ottanta il termine inglese mobbing (che letteralmente significa assalire in
massa o affollasi intorno a qualcuno) è stato scelto dallo psicologo del lavoro Heinz
Leymann per descrivere certe situazioni di violenza psicologica sul posto di lavoro. Da
allora in poi per mobbing si intende un comportamento lavorativo ostile che può
provocare vari disturbi, specialmente disturbi d’ansia, fra cui il disturbo post-traumatico
da stress (vedi capitolo “Io soffro”, paragrafo “Ho subito un terribile trauma”), e
depressione anche grave. Secondo Leymann,
Il mobbing o terrore psicologico sul posto di lavoro consiste in messaggi
ostili e moralmente scorretti diretti sistematicamente da uno o più individui
verso (in genere) un solo individuo, il quale, a causa del perpetuarsi di tali
azioni, viene posto e mantenuto in una condizione di impotenza e incapacità di
difendersi. Le azioni di mobbing si verificano molto frequentemente (secondo la
definizione statistica almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di
tempo (secondo la definizione statistica per almeno sei mesi). A causa della
frequenza elevata e della lunga durata del comportamento ostile, questo
maltrattamento produce uno stato di considerevole sofferenza sul piano mentale,
psicosomatico e sociale (Leymann, The Mobbing Encyclopaedia).
Altre definizioni e descrizioni del mobbing fanno riferimento alle valenze
sociali, economiche e politiche del fenomeno. Il sociologo Casilli (2000, p. 27), per
esempio, sottolinea che lo scopo del mobbing è “sfruttare a fini produttivi e poi
eliminare un dipendente, un lavoratore, un collaboratore. Non importa se è qualificato,
motivato e competente, oppure se è un “ramo secco” e non è gradito ai colleghi e ai capi
[…]. La persecuzione psicologica porta al licenziamento volontario (o imposto) della
vittima senza clamore da parte di sindacati e giudici di lavoro”.
Le azioni di mobbing possono essere classificate in sei categorie (Casilli, 2000):
1. “mobbing verbale” e umiliazione (per es., insulti, sarcasmo, rimproveri, ecc.);
2. limitazione della facoltà di espressione della vittima ed eccessi di controllo (per
es., impedire di parlare, telefonare continuamente, ispezioni, ecc.);
3. discredito, calunnie e “tranelli” (per es., accuse false pettegolezzi, diffusione di
notizie riservate, ecc.);
4. isolamento fisico e professionale (per es., trasferimenti, cambio di mansione,
esclusione da occasioni di socializzazione, ecc.);
5. interferenze con gli strumenti di lavoro della vittima (per es., sabotaggio,
vandalismo, occultamento di notizie essenziali, ecc.);
6. attentati alla salute fisica e psichica della vittima (per es., persecuzioni, minacce,
assegnazione a mansioni pericolose, ecc.).
Il mobbing viene detto orizzontale, quando è perpetrato da pari grado, o verticale,
quando è perpetrato da un superiore.
63
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Vecchiaia e pensionamento
Nell’anziano possono venirsi a creare motivi di disagio psicologico connessi in
modo specifico all’età e al cambiamento del ruolo sociale. Nelle società che venerano la
gioventù e coltivano stereotipi negativi sulla vecchiaia, l’età diventa una dimensione
saliente per l’idea che le persone si fanno di se stesse e del proprio valore. Quando l’età
cronologica diventa così importante, i cambiamenti di capacità che si verificano nel
corso del tempo e che derivano da fattori socioculturali vengono facilmente attribuiti
all’invecchiamento biologico.
Quando i figli escono di casa le madri che si occupavano di loro possono sentirsi
sole, private di funzioni a cui tenevano e possono faticare a riadattarsi alla vita di
coppia. La menopausa può essere vissuta come perdita di una funzione centrale per il
proprio senso di identità e per la propria autostima.
Il pensionamento e la perdita del ruolo di lavoratore, che poteva essere
fondamentale per l’autostima e che in ogni caso richiede una riorganizzazione del tempo
e la ricerca di modi per trovare nuove soddisfazioni, può essere specialmente negli
uomini uno scoglio molto difficile da affrontare.
Il venir meno della forza e dell’energia, la possibile comparsa o peggioramento
di problemi di salute, i cambiamenti nell’aspetto fisico, l’eventuale manifestazione di
rallentamenti e imprecisioni nel movimento e nei processi mentali e l’osservazione di
defiance transitorie tendono a essere interpretate come i segni di un declino progressivo
e ineluttabile e a destare sentimenti di preoccupazione, amarezza, rabbia. La persona
anziana può sentirsi poco interessante, inutile o persino di intralcio per i familiari più
giovani e per la società in generale.
La difficoltà a continuare a comprendere e a adattarsi a un mondo che si
trasforma sempre più velocemente sotto il profilo ambientale, tecnologico e sociale può
provocare un senso di smarrimento e di incapacità accompagnato da sentimenti di
ostilità verso gli altri e di sfiducia nelle proprie capacità.
Il senso di solitudine, l’eventuale incertezza economica, il rischio concreto di
trovarsi a concludere la propria esistenza senza la compagnia e l’affetto della persona
amata, con cui si sono condivisi decenni della propria vita e tutte le esperienze più
importanti e significative, o il rischio speculare di lasciare in questa triste condizione la
persona più amata, sono altri fattori che possono generare sofferenze acute,
specialmente nel contesto di una vecchiaia vissuta principalmente come periodo di
declino e anticamera della morte.
Lo stress e il problema di essere all’altezza della vita
Dalla nascita alla morte ci troviamo di fronte alla necessità di conciliare le nostre
necessità e i nostri desideri con le circostanze sociali. Tutto ciò che sta al di fuori di noi
può diventare uno strumento o un ostacolo al raggiungimento dei nostri obiettivi, da
quelli più elementari di sopravvivenza a quelli più complessi di piena realizzazione di sé
e benessere.
64
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Il nostro rapporto con l’ambiente – cioè con tutto ciò che ci circonda: oggetti,
luoghi e persone – è duplice. In parte dobbiamo essere in grado di dominare l’ambiente
per raggiungere i nostri scopi. Il neonato deve saper richiamare l’attenzione della
madre per averne nutrimento. Il bambino ai primi passi deve saper raggiungere un
appiglio per potersi alzare in piedi. L’adolescente deve saper convincere i genitori per
ottenere le chiavi dell’automobile e uscire con gli amici o il partner. Il manager deve
saper coordinare il lavoro dei colleghi per portarli a raggiungere gli obiettivi prefissi.
In parte dobbiamo essere in grado di adattarci a un ambiente già dato.
Dobbiamo rispettare tutti i vincoli connessi ai nostri ruoli di figli, fratelli, genitori,
lavoratori, studenti, cittadini, ... e di esseri viventi. In quanto esseri viventi dobbiamo
prestare attenzione a cose elementari eppure essenziali come la qualità dei cibi che
mangiamo, dell’acqua che beviamo, dell’aria che respiriamo, alla temperatura dei
luoghi in cui sostiamo, alla quantità e alla qualità del nostro sonno, all’integrità del
nostro corpo. In quanto esseri sociali dobbiamo curarci della qualità delle nostre
relazioni con gli altri; collaborare per vivere insieme. Difficilmente possiamo un giorno
rifiutarci di dare da mangiare ai nostri figli o rifiutarci di andare a lavorare.
Il controllo dell’ambiente e l’adattamento ad esso possono costituire compiti
impegnativi che coinvolgono tutto il nostro essere, sotto il profilo fisico e psicologico.
In tutte le nostre interazioni con l’ambiente c’è un aspetto comune: l’insieme delle
reazioni fisiologiche e psicologiche di una persona impegnata in un compito di
adattamento prende il nome di risposta di stress o reazione di stress o, più
semplicemente, stress. La reazione di stress non è affatto un segno di cattiva salute; al
contrario essa è la dimostrazione che la persona reagisce agli eventi predisponendosi ad
affrontarli con tutto il suo essere.
Stress e salute del corpo e della mente
È possibile ricapitolare in uno schema molto generale il ruolo dei fattori di stress nella
comparsa di disturbi psicologici e psicofisiologici (o psicosomatici).
Primo. Nella vita esiste un’infinità di situazioni che possono innescare una
risposta di stress (i cosiddetti stressor o “stressori”). Da un lato c’è una serie di stimoli
fisici (stressor fisici), la cui dannosità è stata dimostrata piuttosto chiaramente in
esperimenti su animali. Dall’altro c’è tutta una serie di circostanze che esercitano un
influsso su di noi non tanto per le loro proprietà fisiche quanto piuttosto per il loro
significato (stressor psicologici). È impossibile compilare una lista completa degli
stressor psicologici: a parte alcune situazioni estreme – per esempio, assistere alla morte
della persona amata – la maggioranza delle situazioni della vita quotidiana possono
innescare reazioni di stress più meno forti in persone diverse. Per un dato individuo una
certa situazione rischia di essere tanto più stressante quanto più è: 1) indesiderata o
minacciosa (nel senso che, se non affrontata adeguatamente, ne potrebbero derivare
conseguenze negative); 2) nuova; 3) imprevista; 4) fuori dal proprio controllo. Le
risposte di stress sono innescate non solo dagli stressor psicologici oggettivamente
presenti ma anche da quelli rappresentati mentalmente (per es., ricordi, previsioni,
fantasie).
65
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Secondo. Le abilità di fronteggiamento, cioè quelle che utilizziamo per risolvere
le situazioni stressanti o per continuare a vivere nonostante esse, sono di due tipi:
esterne/comportamentali o interne. Le prime sono quelle che utilizziamo per cercare di
risolvere concretamente la situazione in modo adeguato dal punto di vista materiale e
sociale – per esempio, se la propria casa è stata distrutta da un terremoto dovremmo
attivare tutta una serie di abilità esterne/comportamentali come cercare un nuovo riparo
provvisorio, adibirlo alle proprie necessità più importanti, recuperare quello che si può
recuperare della propria roba, pianificare con i conviventi la quotidianità in relazione a
questa nuova situazione e via dicendo.
Le seconde, quelle interne, servono a vivere la situazione senza disorganizzarsi
psicologicamente e soffrire emotivamente. La principale abilità interna è quella del
controllo dei pensieri negativi o disfunzionali che stanno alla base delle emozioni
negative (vedi anche capitolo sulla terapia cognitivo-comportamentale). Proseguendo
con l’esempio del terremoto, è importante non soffrire troppo o inutilmente per
l’accaduto e a questo scopo potrebbe essere utile, per esempio, non soffermarsi
eccessivamente sull’idea delle fatiche e dei sacrifici affrontati per pagare la propria
abitazione e tutti gli oggetti persi o sul ricordo delle situazioni affettive legate a tali
oggetti, oppure, per fare un altro esempio, non cercare di immaginare subito tutte le
maggiori difficoltà che si dovranno affrontare. Pensieri di questo tipo metterebbero
inevitabilmente in moto sentimenti di vuoto, deprivazione, impotenza, scoraggiamento,
demoralizzazione. Alcune abilità di fronteggiamento interno che ognuno di noi utilizza
spontaneamente consistono nel cercare di vedere i problemi come sfide e incentivi per
la promozione delle proprie abilità; concentrarsi sugli aspetti positivi nelle situazioni
che altrimenti sembrerebbero negative; riflettere su quanto le cose potrebbero andare
peggio; collocare i piccoli problemi in una prospettiva più ampia; riesaminare le proprie
priorità; cercare conforto negli altri; distrarsi per escludere i problemi dalla coscienza;
ricorrere all’alcol, alle droghe o al cibo per ridurre la tensione.
Terzo. In presenza di stressor cronici, se le capacità di fronteggiamento si
rivelano adeguate c’è l’adattamento alla situazione stressante. In alcuni casi si arriva
ad appianare una difficoltà e a risolvere un problema, in altri ci si adatta emotivamente a
una situazione indesiderata, trovando il modo per non soffrirne troppo spesso o troppo
intensamente o in modo che disorganizza psicologicamente. Spesso è necessario fare
entrambe le cose: in parte si modifica la situazione stressante e in parte si impara ad
accettarla dal punto di vista emotivo.
Se invece le capacità di fronteggiamento sono inadeguate, la risposta di stress resta
attiva troppo a lungo e compaiono disturbi psicofisiologici (vedi paragrafo omonimo
nel capitolo primo) e/o problemi psicologici come quelli descritti nella prima parte di
questo libro. È a questo proposito che psicologi e medici parlano di stress o disturbi da
stress. Una situazione di vita, quindi, provoca problemi di stress nella misura in cui
richiede all’individuo l’uso di capacità che egli non possiede o utilizza in modo incerto.
66
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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Quando è il caso di rivolgersi a uno specialista?
Nella prima parte del libro abbiamo visto vari esempi di problemi psicologici.
Come si è visto nel capitolo precedente, inoltre, i problemi psicologici sono comuni e
chiunque nella propria vita si trova a doverne affrontare direttamente o indirettamente.
Mostrerò più avanti che la psicologia, la medicina e il buon senso hanno
individuato vari rimedi che possono servire a ristabilire una condizione di minore
sofferenza, maggiore efficacia ed efficienza e migliore accettazione di sé e della propria
condizione di vita. Esistono figure professionali specifiche cui la nostra società
attribuisce il compito di intervenire con i mezzi opportuni per aiutare il cliente a
raggiungere questi obiettivi. Quando è il caso di rivolgersi a uno di questi
professionisti?
La domanda ha senso perché rivolgersi a un professionista ha diversi costi che
ognuno di noi vuole confrontare con i possibili vantaggi derivanti da questa scelta.
Rivolgersi a un professionista significa oggettivamente impegnare energie, tempo e
denaro. Inoltre a volte può significare parlare con un’altra persona di cose di cui ci si
vergogna o rammarica e che si preferirebbero eludere o nascondere. Il ritorno a una vita
“normale” potrebbe essere così importante da superare anche il peso di costi elevati.
Ma chi garantisce l’efficacia di una cura? E se si tratta di prendere medicine che
danno dipendenza o fanno male? E si ti tengono in analisi per anni a parlare di sogni,
invidia del pene, fantasie e desideri inconsci di trattenere le feci o possedere la propria
madre o altre cose astruse e imbarazzanti di questo tipo? E se poi ci si affeziona
all’analista e non si riesce più a interrompere la terapia? Nel fare i propri bilanci ognuno
tiene conto delle proprie conoscenze racimolate attraverso film, documentari, talk show,
riviste, “sentito dire” e fonti autorevoli. Alcune di queste paure sono piuttosto infondate
ma altre hanno una base di verità e rappresentano le storie scoraggianti di chi ha fatto
scelte sbagliate o sfortunate – come spesso accade in ogni ambito della vita.
Cercare l’aiuto di un professionista non è l’unica alternativa possibile. Infatti
−
−
−
−
−
si può aspettare che la situazione migliori da sé;
si può cercare di ottenere aiuto e consiglio da familiari, conoscenti e amici;
si può cercare l’aiuto del medico famiglia;
ci si può rivolgere a una guida religiosa;
si può ricorrere alla lettura di libri o alla consultazione di altre fonti di
informazioni che aiutino a comprendere e ad alleviare la propria sofferenza;
− si possono contattare gruppi di persone che vivono problemi simili;
− si può cercare di modificare qualche aspetto della propria vita.
68
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Tutti questi provvedimenti possono aiutare. Così alcune persone giocano la carta
professionale solo se queste altre strategie – su cui mi soffermerò nell’ultimo capitolo –
non hanno funzionato. Qualcun altro invece tenta più strade contemporaneamente.
La decisione di rivolgersi a un professionista dipenderà quindi dalla conoscenza
delle alternative disponibili, dalla previsione dei costi e dei benefici di ognuna di esse e
dalla convinzione di essere in grado di servirsene. Tutte le situazioni che ho descritto
nella prima parte del libro possono essere transitorie, ma possono anche protrarsi per
mesi o anni. Nei casi migliori, quando i problemi sono presenti possono restare tutto
sommato abbastanza sotto il controllo personale: si può fare qualcosa per tenerli a freno,
per anticiparne o ritardarne la comparsa, per ridurli e modificarli, oppure per distrarsene
o per nasconderli a sé e agli altri. A volte si sa in quali situazioni interiori o esterne
tendono a comparire e si può fare qualcosa per controllare queste situazioni. Si può
imparare a vivere aggirandoli o vivendo accanto a loro, magari modificando la propria
vita per arrivare a una convivenza più pacifica. In altri casi però questi problemi
prendono il sopravvento e ci si sente dominati da essi. A volte infatti, ci si sente
penosamente impotenti al loro cospetto, diventano una fonte di angoscia e disperazione,
condizionano l’intera esistenza diventando la principale preoccupazione e il principale
handicap. La gravità dei propri problemi è sicuramente un elemento centrale nel
bilancio da compiere per decidere se rivolgersi o meno a un professionista.
D’altra parte la disponibilità di ognuno di noi a sopportare sofferenze o
limitazioni della propria libertà varia e anche questo è un elemento che porterà alla
decisione di fare o meno tutto il possibile per risolvere una situazione dolorosa o
frustrante.
Al di là di questi bilanci personali, secondo me ci sono alcune situazioni in cui è
opportuno cercare l’aiuto di uno specialista (di quale, poi, lo vedremo in seguito):
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
quando si ha la sensazione che tutti gli altri tentativi non siano o non possano essere
sufficienti;
quando non si ha nessuno con cui poter parlare dei propri problemi, che sia capace
di dare un aiuto efficace;
quando il tempo passa ma il problema o la sofferenza non migliorano o si
aggravano;
quando lo stato di sofferenza diventa un serio ostacolo nei rapporti con gli altri,
nello studio e nel lavoro o, in generale, diventa fonte di ulteriori problemi;
quando il proprio problema diventa il pensiero o la preoccupazione principale;
quando ci si sente impotenti, incapaci o senza una via di uscita;
quando si ha la sensazione di non poterne più;
quando si prova spesso o insistentemente il desiderio o l’impulso di fare del male a
sé o a qualcun altro;
quando sembra che la vita non abbia alcun senso e con meriti di essere vissuta;
quando gli altri consigliano di cercare le cure di un professionista.
Cos’è un disturbo mentale?
La domanda tema del paragrafo precedente ci porta direttamente alla questione
di cosa sia la “malattia mentale” o, per usare l’espressone oggi in voga, che cosa siano i
69
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
disturbi mentali. La categoria dei disturbi mentali è una sottocategoria dei problemi
psicologici: si tratta in fatti di problemi psicologici che rispondono a certi criteri di
gravità. In senso generale, l’espressione “disturbo mentale” indica una situazione di
carenza di salute che si manifesta prevalentemente – anche se non esclusivamente – con
sintomi psicologici, cioè sul piano di ciò che la persona fa, prova, pensa, dice e
percepisce.
Disturbi mentali e sistemi di classificazione psichiatrica
Quando si parla di disturbi mentali, affinché ci si possa capire su che cosa si
intende, si deve fare sempre riferimento a un sistema di classificazione, cioè a un elenco
dei disturbi mentali fino ad oggi riconosciuti accompagnato dalla loro descrizione e da
liste di sintomi e di altri criteri indispensabili per la corretta identificazione dei disturbi.
Dire che una persona ha un certo disturbo mentale significa fare una diagnosi. I sistemi
di classificazione sono una specie di dizionario enciclopedico delle forme di carenza di
salute psicologica e sociale. Quelli attualmente più diffusi nel mondo sono il Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali/DSM, pubblicato dall’Associazione
Psichiatrica Americana, e la Classificazione internazionale delle malattie/ICD, opera
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I due sistemi vengono aggiornati
periodicamente; il DSM è attualmente alla quarta revisione, mentre l’ICD è alla decima.
La quarta revisione del DSM (DSM-IV) è molto simile alla decima revisione dell’ICD
(ICD-10).
Definizione dell’Associazione Psichiatrica Americana
Il concetto di disturbo mentale è così difficile da definire che nemmeno
l’Associazione Psichiatrica Americana è stata finora in grado di trovare un definizione
che la soddisfi. Parafrasando la definizione riportata nel DSM-IV, si può dire che un
disturbo mentale
–
–
–
–
è una sindrome (cioè un insieme di sintomi che tendono a presentarsi
contemporaneamente), oppure un modello di comportamento o di funzionamento
psicologico individuale, per il quale spesso le persone cercano l’aiuto di uno
specialista;
è associato a (1) malessere (per esempio, dolore) o a (2) disabilità (cioè difficoltà o
impossibilità di compiere le attività della vita quotidiana normale nella propria
società) o a (3) un aumento significativo del rischio di malessere e disabilità o a (4)
una limitazione importante della libertà;
non è semplicemente uno dei modi comuni in cui le persone della società in cui vive
l’individuo sofferente reagiscono a certi episodi dolorosi della vita. Per esempio, se
una persona ha dei sintomi di depressione poco tempo dopo aver perso una persona
cara, la sua condizione non può essere definita come disturbo depressivo, ma è una
normale reazione al lutto;
può avere cause di vario tipo: per esempio, può essere dovuta a circostanze di vita
difficili, a malattie organiche o a un modo di pensare distorto. Ma in ogni caso si
70
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
–
tratta di un funzionamento difettoso sul piano psicologico, corporeo o del
comportamento;
non è un comportamento deviante – cioè diverso da quello delle altre persone della
stessa società, per esempio, sul piano politico, religioso o sessuale – né una
situazione di conflitto fra una persona e la società in cui essa vive, a meno che il
comportamento deviante o il conflitto non siano un sintomo di un funzionamento
difettoso sul piano psicologico, corporeo o del comportamento.
Precisazioni sul concetto di disturbo mentale
La classificazione dei disturbi mentali non è una classificazione delle persone: non
si parla di “uno schizofrenico” o di “un alcolista”, ma di persone con schizofrenia o
alcolismo.
Una stessa persona, in diversi periodi della vita, può non avere alcun disturbo
mentale, averne uno o averne più di uno. In genere quando si ha un disturbo mentale se
ne hanno contemporaneamente anche altri.
Solo certi disturbi mentali sono dovuti ad alterazioni biologiche note
dell’organismo, e anche in questi casi le cause psicologiche e relazionali hanno molta
importanza.
A seconda del tipo, un disturbo mentale può durare solo pochi giorni o, con alti e
bassi, per tutta la vita. Nella maggior parte dei casi la durata è intermedia fra questi due
estremi.
Un disturbo mentale non è un’entità totalmente distinta; spesso la distinzione fra un
disturbo mentale e l’altro – così come la distinzione fra disturbo mentale e normalità – è
data da lievi sfumature ed è destinata a cambiare con il progredire delle conoscenze
della psicologia clinica e della psichiatria. I criteri che utilizziamo oggi per definire, per
esempio, la fobia sociale possono essere diversi da quelli di ieri o di domani. Inoltre,
non è assolutamente detto che persone che hanno lo stesso disturbo mentale siano simili
da tutti i punti di vista; in alte parole, due persone con la stessa diagnosi di disturbo
mentale – ammettiamo di agorafobia – possono essere diverse per mille altri aspetti.
Cosa si intende per salute?
All’inizio del paragrafo precedente ho affermato che in senso generale,
l’espressione “disturbo mentale” indica una situazione di carenza di salute che si
manifesta prevalentemente – anche se non esclusivamente – con sintomi psicologici,
cioè sul piano di ciò che la persona fa, prova, pensa, dice e percepisce. Vediamo allora
che cosa si intende oggi per salute.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, “la salute è uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale e non la mera assenza di disturbi o
infermità”. Questa definizione contiene alcuni elementi significativi, segno di una
concezione di salute relativamente nuova:
1. la salute non è solo uno stato di integrità e di buon funzionamento del corpo, ma
riguarda anche l’efficienza e il benessere psicologici e la qualità delle relazioni
71
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
con gli altri. Lo stato di salute dipende infatti dall’interazione fra: a) fattori
personali di carattere biologico e psicologico; b) comportamento e c) condizioni
ambientali – fisiche e sociali;
2. la salute non è definita in negativo, come assenza di disturbi o infermità, ma in
positivo. Non la si può soltanto recuperare, ma anche migliorare, promuovere.
Oggi gli interventi nel campo della salute mirano – oltre che a curare le malattie
– alla prevenzione della patologia e alla promozione del benessere.
3. poiché i segni di benessere possono essere di tipo oggettivo o soggettivo, un
indice di salute è il giudizio personale su “come ci si sente”. Ogni condizione o
situazione – esterna o interna – che ci fa sentire bene migliora lo stato di salute,
e viceversa.
Salute del corpo e salute della mente: uomo-macchina e uomo-persona
L’uomo può essere studiato da tanti punti di vista. A mio avviso si può dire con
qualche approssimazione che la salute dell’uomo sia stata studiata principalmente
secondo due prospettive: quella dell’uomo inteso come una macchina, cioè come un
oggetto fisico, e quello dell’uomo inteso come persona.
Sempre con qualche approssimazione si può dire che quella dell’uomo macchina
sia la prospettiva adottata tradizionalmente dalla medicina scientifica. Gli anatomisti
hanno sezionato il corpo e hanno distinto e catalogato i vari tessuti e organi. I fisiologi
stanno studiando tuttora questi organi in funzione e le loro complicate interconnessioni
funzionali. I biochimici hanno dato e stanno dando un grande contributo alla
conoscenza della fisiologia umana identificando le caratteristiche di tutte quelle
sostanze che consentono alle cellule del corpo di “comunicare” tra loro e interagire.
Questi scienziati e altri che non ho citato stanno raggiungendo una conoscenza sempre
più raffinata e approfondita di quel complesso oggetto che è il corpo umano. Si
conoscono sempre meglio le cause fisico-chimiche di certi difetti che portano la
macchina a deteriorarsi e a perdere certe strutture e funzioni – se non la sua stessa
esistenza. Si conoscono sempre meglio le reazioni interne all’organismo che avvengono
in presenza di certi stimoli ambientali: stimoli fisici – per esempio, agenti patogeni,
radiazioni, sostanze chimiche, stimoli sensoriali, ecc. – e oggi, principalmente grazie
alle tecniche di brain imaging, anche a stimoli cognitivi e sociali. Chi studia l’uomo
macchina si disinteressa sostanzialmente del senso di ciò che l’uomo dice e pensa, e di
ciò che prova e fa.
Lo studio dell’uomo inteso come persona non nega la materialità dell’uomo e
quindi il suo imprescindibile assoggettamento – in quanto macchina e cosa – alle leggi
della chimica e della fisica. Ma adotta un livello di analisi diverso, studiando
principalmente le vicende personali e il modo in cui esse si ripercuotono sulla salute
vissuta soggettivamente (come ci si sente) e – con l’aiuto imprescindibile di biologi e
medici – sulla salute conosciuta oggettivamente – quella dell’uomo macchina. In
particolare il mondo dell’uomo è in gran parte un mondo di parole, di parole pensate e
di parole dette. Il pensiero, le azioni, le realizzazioni, le relazioni sociali e la vita intera
dell’uomo dipendono dall’elaborazione di pensieri in forma di discorsi e da scambi
linguistici fra persone. E l’importanza delle parole non può essere studiata sul piano
dell’uomo macchina. Il senso delle parole - e tutto ciò che tale senso mette in moto nel
72
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
pensiero, nell’emozione e nell’azione – non è nelle onde fisiche del loro suono ma nel
loro significato, che dalle caratteristiche fisiche del suono prescinde.
L’uomo inteso come persona è un organismo vivente, quindi vincolato dai
processi biologici e chimici che avvengono nel suo corpo, ma è un organismo che
agisce, non un organismo inattivo nello studio di un fisiologo o di un medico. Non
possiamo conoscere il funzionamento dell’uomo-persona e i fattori che influiscono sulla
sua salute se non ci occupiamo, per esempio, di come le persone trascorrono il loro
tempo, dell’ambiente fisico e sociale in cui vivono, delle opere che realizzano, dei loro
scopi, delle loro reazioni agli eventi significativi della vita umana, di come si
organizzano e interagiscono con altri uomini, di come pensano, decidono, risolvono
problemi, provano emozioni.
Il medico possiede le conoscenze e gli strumenti che gli consentono di conoscere
prevalentemente l’uomo-macchina e di intervenire su di esso. Lo psicologo possiede
invece le conoscenze e gli strumenti per analizzare l’uomo-persona, o in altre parole
quello che l’uomo-macchina fa. Quando il medico ha stabilito che la struttura fisica
della macchina funziona a dovere, allo psicologo resta da stabilire se i problemi di
salute (nel senso del termine che ho chiarito sopra) non siano dovuti a “un uso
improprio della macchina”, al fatto che si facciano richieste eccessive alla “macchina”,
al fatto che questa operi in un ambiente poco adatto ad essa o al fatto che essa si
autoprogrammi in un modo poco compatibile con le sue potenzialità o con le
caratteristiche dell’ambiente fisico e sociale in cui si trova ad operare – per esempio,
scegliendo scopi e obiettivi di vita irraggiungibili per caratteristiche personali o
dell’ambiente di vita.
L’uomo è una macchina particolare, perché in parte si autocostruisce. Le
macchine che conosciamo perseguono scopi prestabiliti dal loro costruttore; la struttura
e il funzionamento delle macchine vengono progettati in modo tale che la macchina
agisca eseguendo operazioni appartenenti a un repertorio prestabilito in vista del
raggiungimento dello scopo che la macchina è preposta a raggiungere: la macchinauomo sceglie i suoi scopi e modifica il suo funzionamento e la sua struttura (in
particolare la struttura del suo cervello, ma non solo) intenzionalmente, con ampi
margini di libero arbitrio. La microstruttura del cervello, l’organizzazione del suo
funzionamento e la produzione e l’impiego di certe sostanze (i neurotrasmettitori, cioè
quei messaggeri chimici che permettono la trasmissione nervosa fra le cellule del
cervello e che quindi sono indispensabili per il funzionamento del cervello e di tutto
l’uomo), per esempio, dipendono dalle esperienze che le persone fanno e che in buona
parte decidono e scelgono di fare. Così l’uomo-macchina si trasforma nella struttura e
nel funzionamento a seconda delle vicissitudini dell’uomo-persona. Pertanto, di nuovo,
la conoscenza dello stato di salute dell’uomo macchina non può prescindere dalla
conoscenza di ciò che accade all’uomo persona.
Le professioni di aiuto per i problemi psicologici: una panoramica
Fatte queste premesse, può essere utile avere subito una visione panoramica sui
professionisti della salute, sulla loro preparazione e sulle loro competenze specifiche.
Nella tabella 5.1 è possibile confrontare le professioni di psicologo clinico,
psicoterapeuta, psichiatra, neuropsichiatra infantile, neurologo, medico generico e
73
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
psicoanalista – cioè quelle a cui le persone normalmente si rivolgono quando hanno dei
problemi psicologici. Il ruolo del medico generico viene trattato in questo capitolo. Le
altre figure professionali vengono invece commentate nei capitoli successivi, cercando
di metterne in luce le specificità piuttosto che i punti in comune, che pure esistono.
74
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Tabella 5.1 Panoramica sui professionisti di aiuto psicologico
Esperienze
studio
formazione
Laurea
Psicologia
Tirocinio
lauream
di Capacità
di
e riconoscere
e
trattare problemi
psicologici
in Sì, per quanto
riguarda
il
post riconoscere,
ma
può
trattare
i
Psicologo clinico
disturbi
mentali
solo con alcuni
strumenti
psicologici
Laurea
in Sì; minore nel caso
Psicologia o in dei non psicologi
Medicina
e
Chirurgia e Scuola
Psicoterapeuta
di specializzazione
privata
o
universitaria
riconosciuta dallo
Stato
Laurea in Medicina Sì. Il trattamento è
e
Chirurgia perlopiù
Tirocinio
post farmacologico.
Medico Psichiatra lauream Scuola di
specializzazione
quadriennale
in
Psichiatria
Laurea in Medicina Limitata
e
Chirurgia
Tirocinio
post
Medico
lauream Scuola di
Neurologo
specializzazione
quadriennale
in
Neurologia
Laurea in Medicina Limitata
e
e
Chirurgia circoscritta
alle
Tirocinio
post problematiche
Medico
lauream Scuola di dell'infanzia
e
Neuropsichiatra
specializzazione
dell'adolescenza. Il
Infantile
quinquennale
in trattamento
è
Neuropsichiatria
perlopiù
infantile
farmacologico
Laurea in Medicina Limitata
e
Chirurgia
Tirocinio
post
Medico generico
lauream Scuola di
specializzazione
biennale
in
Medicina di Base
Laurea
in Sì; minore nel caso
Psicologia o in dei non psicologi.
Medicina
e
Psicoanalista
(Società
Chirurgia e Scuola
di specializzazione
Psicoanalitica
privata attualmente
Italiana)
non riconosciuta
dallo Stato
non No
Mago, grafologo, Formazione
riconosciuta dallo
sensitivo,
Stato
cartomante,
eccetera
Preparazione
teorica
approfondita
psicologia
Sì
Abilitazione
Possibilità
di Capacità
di
all’esercizio della prescrivere
riconoscere
e
in Psicoterapia
psicofarmaci
e curare
malattie
analisi mediche
con
cause
organiche
No
No
No
Solo se laureato in Sì
psicologia
Solo se laureato in Solo se laureato in
medicina
e medicina
e
chirurgia
chirurgia
No
Sì
Sì
Sì
No
No
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Sì
No
No
Sì
Sì
Solo se laureato in Attualmente no
psicologia
Solo se laureato in Solo se laureato in
medicina
e medicina
e
chirurgia.
chirurgia.
No
No
75
No
No
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Inoltre c'è la categoria miscellanea che comprende maghi, grafologi, sensitivi,
cartomanti, veggenti o altre persone che affermano di possedere poteri e sensibilità
speciali o sovrannaturali; benché queste persone non abbiano – in quanto maghi,
sensitivi, ecc. – capacità di comprendere e risolvere i problemi psicologici più della
media delle altre persone prive di una preparazione specifica, c’è chi si rivolge a loro
per ricevere un aiuto psicologico. È verosimile che in qualche caso possano anche fare
del bene ma è difficile stabilirlo perché non hanno alcun interesse per uno studio
scientifico della loro attività. Non mi occuperò in questo libro di questa categoria
eterogenea di “operatori” e in generale penso che sia più sensato cercare un aiuto
specialistico presso professionisti che possono documentare la propria formazione ed
esperienza, che sono tenute a lavorare – come gli psicologi e i medici – nel rispetto delle
norme deontologiche del loro ordine professionale e che si aggiornano e confrontano
continuamente con i colleghi, con chi svolge una professione affine e con il resto della
società. Chiunque può professarsi mago o veggente e fare nel suo studio ciò che vuole –
compreso nuocere al suo cliente.
È importante notare che, fatta eccezione per la categoria miscellanea di figure
dell’ultima colonna, tutti gli altri professionisti
1. hanno una laurea in psicologia o in medicina e chirurgia;
2. sono figure professionali riconosciute e definite da leggi dello Stato;
3. sono iscritti a un ordine professionale che controlla la formazione e la
condotta professionale di ognuno e tutela gli utenti dagli abusi;
4. sono tenute a operare nel rispetto di un codice deontologico.
Come vedremo nel capitolo nono, gli psicoanalisti rappresentano al momento attuale
una parziale eccezione a questi criteri.
A proposito delle informazioni contenute nella riga Esperienze di studio e
formazione, va detto che la tabella descrive lo stato attuale delle cose. Questa
precisazione è importante perché il programma di studi dei corsi di laurea in Psicologia
e in Medicina e Chirurgia, così come il percorso per la specializzazione in psicoterapia
o nelle specialità mediche, sono stati riorganizzati recentemente. Così, per esempio,
l'indirizzo di studi in psicologia clinica, all'interno del corso di laurea in psicologia,
esiste solo dalla meta degli anni Ottanta. Inoltre la legge 56/89 di ordinamento della
professione dello psicologo, istituzione dell'albo professionale degli psicologi e
regolamentazione della formazione e della professione di psicoterapeutica ha poco più
di dieci anni. Il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica ha
riconosciuto le prime scuole private di formazione in psicoterapia solo nel 1993. Quindi
molti psicologi e psicoterapeuti non hanno in realtà la laurea in psicologia e non hanno
seguito una scuola di specializzazione in psicoterapia, così come molti medici hanno
seguito un corso di laurea e di specializzazione più breve e organizzato diversamente
rispetto a quelli attuali. Ma tutto quello che riguarda gli psicoterapeuti e la psicoterapia
verrà spiegato meglio nel capitolo settimo.
Un’altra precisazione importante a proposito di questa tabella, è che ogni tipo di
professionista viene descritto in quanto tale. Per esempio, quando si dice che il
neurologo non ha una preparazione approfondita in psicologia, si intende il neurologo in
76
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
quanto neurologo; se poi un neurologo ha voluto conseguire anche la laurea in
psicologia le cose evidentemente cambiano.
Il ruolo di orientamento e primo intervento del medico generico
La prima persona a cui in genere è corretto rivolgersi per cercare un primo aiuto
professionale per un problema psicologico è il medico di famiglia (o “della mutua”),
cioè un medico generico. Spesso il medico di famiglia ci conosce bene, sa a grandi linee
“che tipi siamo” e quali malattie abbiamo avuto in passato e, pur non essendo uno
specialista, ha quelle conoscenze generali che gli consentono di fare una prima
“scrematura” distinguendo i problemi sicuramente dovuti a una malattia del nostro
corpo nota alla medicina, quelli puramente psicologici e quelli che pur manifestandosi
con sintomi prevalentemente psicologici meritano qualche indagine più approfondita
per scartare l’eventualità abbastanza remota che siano dovuti a un problema fisiologico
– per esempio, un problema ormonale.
Soffermiamoci brevemente sulla formazione e le competenze del medico
generico. È la figura professionale che si occupa della diagnosi e cura delle malattie che
coinvolgono una modificazione della struttura o della funzione di un tessuto o di un
organo del corpo umano. Il titolo richiesto è la laurea in Medicina e Chirurgia;
recentemente è stato inserito, oltre al tirocinio post lauream, l’obbligo della frequenza di
una scuola di specializzazione biennale in Medicina di Base.
A partire dai sintomi riferiti dal paziente, il medico cerca di formulare una
diagnosi e quindi di prescrivere un trattamento. Data la formazione professionale del
medico, la cura prescritta è quasi sempre di tipo farmacologico. Nel caso in cui il
disturbo del paziente richieda un ulteriore approfondimento, il medico può prescrivere
altri accertamenti, analisi mediche o visite da specialisti. In questo senso il medico
generico assolve anche la funzione di guida nella ricerca dell’aiuto più adatto alla
situazione del paziente, ricerca che può coinvolgere tutte le branche della medicina.
Per poter arrivare a una diagnosi del disturbo riferito dal paziente, e quindi a
prescrivere un trattamento adeguato, il medico compie un esame clinico, cioè una
valutazione delle condizioni generali di salute del paziente. Durante la visita egli tasta le
varie parti del corpo del paziente, utilizza alcuni strumenti per poter indagare meglio
alcuni organi e soprattutto pone domande che lo aiutino a escludere certi disturbi e a
orientarsi verso altri. Al di là del ricorso a strumenti tecnici o ad apparecchiature,
peraltro molto limitato rispetto ad altre specializzazioni mediche, l’esame compiuto dal
medico generico si dovrebbe basare molto sull’ascolto di quanto riferisce il paziente e
sulla conoscenza della sua storia passata che permette di individuare informazioni più
rilevanti.
Qualsiasi disturbo di tipo organico, anche lieve, pone la persona che ne è affetta
in uno stato di sofferenza, di “bisogno”, che ha delle ripercussioni anche sul piano
psicologico. Spesso infatti nel ricorrere al medico c’è, da parte del paziente, un bisogno
o un desiderio di trovare sollievo da una situazione problematica, disturbante o dolorosa
connessa a una malattia o a un disturbo. Pertanto, è importante che il medico generico
possegga anche la capacità di rispondere a tale stato psicologico mostrando
comprensione verso il paziente, alleviando il suo eventuale stato di solitudine con
l’ascolto e ispirando fiducia. Tale atteggiamento, che non nasce tanto da una formazione
77
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
professionale ma piuttosto da una sensibilità personale, spesso svolge un importante
effetto di rassicurazione che può influire notevolmente sul benessere del paziente.
Pur non avendo una formazione specifica nel trattamento dei disturbi
psicologici, il medico generico ha qualche volta la capacità di fare alcune distinzioni
principali – per esempio di distinguere un disturbo d’ansia da una psicosi – e può
prescrivere psicofarmaci qualora ritenga sufficiente tale tipo di intervento. Nel caso in
cui l’intervento psicofarmacologico debba essere integrato con una psicoterapia o con
colloqui con uno psicologo, il medico generico dovrebbe dare tale indicazione. Nel caso
invece in cui il medico riconosca che il disturbo del paziente è di tipo psicologico ma
non necessita di intervento psicofarmacologico, egli lo dovrebbe indirizzare
direttamente da uno psicologo o uno psicoterapeuta.
Va comunque chiarito subito che la distinzione e il trattamento dei problemi
psicologici richiedono una preparazione lunga e approfondita che il medico generico in
quanto tale non ha e non può avere. Anche le sue stesse azioni di orientamento nella
ricerca di aiuto risentono a volte di questa mancanza di competenze e conoscenze. Così
lo psicofarmaco prescritto dal medico generico potrebbe non essere confermato dallo
psichiatra – il somministratore di psicofarmaci per eccellenza –, oppure potrebbe essere
associato ad altri psicofarmaci o essere somministrato in dosi, tempi o con modalità
diverse. Sotto il profilo dell’intervento curativo con mezzi psicologici – cioè sotto il
profilo psicoterapeutico – poi, il medico generico è in genere, per sua formazione,
completamente sprovveduto, anche se a volte in grado, per sue doti personali, di
rassicurare e consolare.
Indubbiamente il fatto di rivolgersi inizialmente a un medico generico per un
proprio problema psicologico o disturbo mentale ha alcuni vantaggi. Il medico, come si
è detto, può scartare la possibilità che il problema psicologico sia dovuto a un fenomeno
patologico conosciuto che è in corso nel corpo del paziente inteso come “cosa”
(squilibri ormonali, malattie neurologiche, ecc.). In effetti, tuttavia, nella stragrande
maggioranza dei casi il medico non trova nel paziente prove della presenza di questo
tipo di cause. (Per inciso, normalmente accade il contrario. Nella stragrande
maggioranza dei casi, quando una persona si rivolge a un medico per un problema
fisico, il medico non è in grado di riscontrare i segni di una patologia del corpo come
“cosa” e attribuisce i sintomi del paziente allo stress o a una “somatizzazione” – anche
se spesso non rinuncia per questo a prescrivere farmaci che probabilmente agiscono
come placebo.)
Inoltre, il medico può prescrivere farmaci per attenuare le sofferenze di un
problema psicologico. Infatti, come non è detto che un problema del corpo-oggetto non
possa essere perlomeno in parte curato con mezzi psicologici, non è detto che un
problema psicologico o comportamentale non possa essere perlomeno in parte curato
con farmaci. Spesso gli psicofarmaci sono efficaci e i pazienti li prendono volentieri
senza subire dei danni.
Insomma: a volte un problema psicologico si può ridurre già con l’ascolto e
l’attenzione del medico di famiglia, con qualche placebo, con una terapia specifica per
l’eventuale malattia sottostante o con una prescrizione di psicofarmaci. Più spesso il
problema psicologico non migliora o migliora troppo poco o solo per un periodo molto
breve e richiede l’intervento di un professionista con competenze più specialistiche.
78
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Terapia psicologica e terapia farmacologica
L’aver nominato gli psicofarmaci richiede di fare subito una distinzione
generale: quella fra terapie psicologiche e terapie farmacologiche.
Da tempo assistiamo a un acceso dibattito fra chi afferma tendenziosamente che
i disturbi mentali sono delle malattie che hanno cause chimico-fisiche e che vanno
trattate con farmaci e chi afferma che sono solo reazioni psicologicamente
comprensibili della persona a condizioni di vita sfavorevoli e che possono essere trattate
solo con esperienze personali correttive (in genere con la psicoterapia).
Entrambe queste posizioni omettono un livello di analisi dello stato di salute
della persona: i fautori estremisti della psichiatria biologica – cioè quelli che sostengono
che i disturbi mentali vadano studiati e trattati solo dal punto di vista fisico chimico –
dimenticano che gli uomini sono persone oltre che “macchine”; gli psicologisti trattano
le persone come se fossero entità astratte, disincarnate, e trascurano il livello di studio e
di intervento dell’uomo-macchina.
Le due posizioni esemplificano e rispecchiano posizioni filosofiche contrapposte
e antitetiche. Il problema di come possano conciliarsi appassiona i filosofi che si
occupano del problema mente-corpo. Molto probabilmente però queste posizioni
estremistiche vengono sostenute pubblicamente per ragioni politiche e di interessi di
categoria: i medici – in particolare gli psichiatri –, spalleggiati dalle ditte farmaceutiche
e da chi in politica ha interesse a far credere che la sofferenza psicologica sia un
problema puramente individuale, vorrebbero monopolizzare la gestione della salute
mentale; gli psicologi vorrebbero invece conquistare e difendere un certo ambito di
competenza professionale e trattare a buon diritto situazioni di sofferenza dove la
malattia del corpo non c’entra o è semmai un riflesso di condizioni psicologiche o
sociali malsane.
Spero che invece privatamente nessuno fatichi a riconoscere che esistono
entrambi gli aspetti della salute umana. È pur sempre un uomo in carne ed ossa – che
prima o poi si decomporrà – quello che pensa, soffre e agisce rispondendo a stimoli di
carattere psicologico, sociale e affettivo. È piuttosto evidente che l’integrità del cervello
abbia importantissime ripercussioni sulla psicologia dell’individuo. D’altro canto è
almeno altrettanto evidente che molti disturbi mentali siano spiegabili adeguatamente in
termini psicologici e modificabili dialogando con la persona che ne soffre e che il
funzionamento del cervello dipenda in buona parte da ciò che l’individuo sceglie di
pensare e di fare.
Per definizione i disturbi mentali riguardano la mente, cioè la persona nel suo
ambiente. Essi si manifestano prevalentemente sul piano delle azioni esterne e dei
processi psicologici interiori. Essi vengono classificati – dagli stessi psichiatri – sulla
base delle loro manifestazioni personali – il contenuto dei discorsi e dei pensieri, gli
stati d’animo, le intenzioni, le scelte di vita, ecc. – e non sulla base dei fenomeni
chimico-fisici che in qualche modo dovranno pur essere alla loro base. Molti psichiatri
scommettono che le cause chimico-fisiche dei disturbi mentali esistono e verranno un
giorno scoperte ma esse non sono ancora state trovate o, perlomeno, le costanti
biologiche riscontrabili in alcuni disturbi mentali non sono attualmente sufficienti a
spiegarne l’insorgenza in termini esclusivamente fisico-chimici. Viceversa esistono
79
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
molte teorie convincenti, e avvalorate dai dati della ricerca scientifica, che spiegano le
cause, il mantenimento e la guarigione di quasi tutti disturbi mentali.
Ogni condizione di salute – sia essa di competenza del medico o dello psicologo – si
manifesta con particolarità del funzionamento del corpo e con una costellazione di stati
d’animo, pensieri, aspetti motivazionali e azioni. Analogamente, su ogni condizione di
salute si può intervenire con mezzi somatici (fisico-chimici) o con mezzi psicologici. Il
primo mezzo somatico impiegato nella terapia dei disturbi mentali sono gli
psicofarmaci. Il primo mezzo “psicologico” impiegato per la terapia dei disturbi mentali
è il dialogo – il quale innesca poi una serie di attività mentali, fisiologiche e
comportamentali.
L’espressione “terapia psicologica” può essere considerata equivalente a
“psicoterapia”, e si riferisce ai mezzi di cura, non al tipo di disturbi curati. Infatti, come
ho già accennato, nella cura dei problemi di salute – a prescindere dal fatto che tali
problemi si manifestino con sintomi nel corpo, nel comportamento, nel pensiero o di
altro tipo – si possono distinguere due categorie generali di intervento:
–
–
terapie somatiche. Esse mirano a ottenere un miglioramento nelle condizioni di
salute del paziente provocando direttamente nel suo corpo dei cambiamenti
attraverso mezzi di tipo chimico o fisico;
terapie psicologiche. Esse mirano a ottenere un miglioramento nelle condizioni di
salute del paziente indirettamente, senza provocare direttamente cambiamenti nel
corpo del paziente con mezzi di tipo chimico o fisico.
Nella tabella 5.2 sono riportati due esempi – quello dell’ipertensione arteriosa e di
uno stato di tristezza intensa – che dovrebbero aiutare a comprende questa distinzione
fra i mezzi di cura.
80
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Tabella 5.2 Incrocio fra tipi di mezzo di cura e tipi di problema di salute.
Tipo di terapia
Tipo di problema di salute
Esempio
Problema di salute che si
manifesta prevalentemente a
Terapie somatiche livello
del
corpo
(uomomacchina)
Curare l’ipertensione arteriosa
con farmaci beta-bloccanti o
riducendo il consumo di sale
Problema di salute che si
manifesta prevalentemente a
livello “psicologico” (uomopersona)
Curare uno stato di tristezza
intensa
con
farmaci
antidepressivi
Terapie
Psicologiche
Problema di salute che si Curare l’ipertensione arteriosa
manifesta prevalentemente a imparando a rilassarsi
livello
del
corpo
(uomomacchina)
Problema di salute che si
manifesta prevalentemente a
livello “psicologico” (uomopersona)
Curare uno stato di tristezza
intensa provando ad avere una
visione più ottimistica delle
cose
L’ipertensione arteriosa può essere dovuta a fattori di tipo biologico – per
esempio, a una predisposizione genetica associata a una dieta scorretta – o di tipo
psicologico – per esempio, una vita piena di stress – o a fattori di entrambi i generi. A
prescindere dal tipo di causa, l’ipertensione può essere curata con terapie somatiche –
per esempio, farmaci beta-bloccanti o riduzione del consumo di sale – o con terapie
psicologiche – per esempio, prendendo l’abitudine di rilassarsi quando ci si sente tesi –
o con entrambi i tipi di terapie.
Uno stato di tristezza intensa può essere dovuto a fattori di tipo biologico – per
esempio, un cattivo funzionamento dei neuroni cerebrali che utilizzano il
neurotrasmettitore serotonina – o di tipo psicologico – per esempio, un licenziamento –
o di entrambi i generi (vedi box seguente). In ogni caso, a prescindere dalle cause, la
tristezza intensa può essere curata con terapie somatiche – per esempio, farmaci
antidepressivi – o con terapie psicologiche – per esempio, una psicoterapia che aiuti ad
avere una visione più ottimistica delle cose – o con terapie di entrambi i generi.
81
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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Come spiega Bandura (2000, p. 469-470), non è facile stabilire se una disfunzione
biochimica nel cervello sia una causa, un effetto o un fattore concomitante della
depressione. Le disfunzioni biologiche e psicologiche si influenzano vicendevolmente.
Per esempio, la deplezione (cioè l’esaurimento) di alcuni neurotrasmettitori –
messaggeri chimici che permettono ai neuroni di comunicare fra loro – può rallentare il
pensiero e inibire l’azione. La ricerca in campo animale ha dimostrato che
l’impossibilità di esercitare un controllo su fattori di stress ricorrenti è una condizione
capace di provocare la deplezione di alcuni neurotrasmettitori nel cervello producendo
reazioni di impotenza quando in seguito l’animale incontra condizioni sfavorevoli ma
controllabili.
D’altra parte è stato dimostrato che nell’uomo la sensazione di non essere capaci di
gestire certe situazioni minacciose influisce sul funzionamento di alcuni
neurotrasmettitori. Le terapie psicologiche che favoriscono una forte convinzione della
propria capacità di affrontare queste situazioni normalizzano il funzionamento di tali
neurotrasmettitori. Se nella depressione le disfunzioni biochimiche hanno un ruolo
importante – eventualità che secondo le stime è vera circa nel 10 percento dei casi – i
farmaci antidepressivi dovrebbero facilitare il trattamento. Nondimeno, anche nelle
condizioni in cui fattori endogeni contribuiscono alle reazioni depressive, l’avvilimento
ostacola il funzionamento cognitivo e interpersonale prolungando i problemi
psicosociali. Eppure, la somministrazione di farmaci associata al sostegno psicologico
non è migliore, e talvolta è meno efficace, della terapia cognitivo comportamentale
rivolta a correggere le distorsioni del pensiero nel breve termine. Inoltre, le persone che
partecipano a questo trattamento psicologico mantengono nel tempo i miglioramenti
ottenuti meglio di quelle trattate solo con farmaci antidepressivi, le quali hanno una
probabilità molto maggiore di ricaduta quando la terapia farmacologica viene interrotta.
I trattamenti psicologici modificano il pensiero depressogeno – cioè quello stile di
pensiero che provoca i sintomi della depressione – più efficacemente degli
psicofarmaci. Quanto più essi riescono a modificare i pensieri distorti, tanto minore è il
rischio di soffrire di depressione in futuro. L’aggiunta di farmaci antidepressivi alla
terapia cognitivo comportamentale non produce ulteriori benefici terapeutici. I rischi
medici e gli effetti collaterali fastidiosi dei farmaci spingono alcuni clienti a rinunciare
alla prosecuzione del trattamento. Ci si deve chiedere – conclude Bandura – se la
proporzione di casi in cui la depressione deriva da una disfunzione biochimica
giustifichi l’ampio ricorso a trattamenti farmacologici.
Nel prossimo capitolo darò alcune informazioni essenziali sulla terapia
farmacologica dei problemi psicologici e sui professionisti che la applicano. Nei
successivi mi soffermerò invece sui rimedi di tipo psicologico e su chi li utilizza in
ambito professionale o non professionale. Ma prima di addentrarci nella terapia
farmacologica e psicologica consideriamo brevemente che cosa si debba intendere per
“guarigione” da un problema psicologico e quale sia il ruolo del paziente nella “cura”.
82
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Cosa significa guarire?
Normalmente si dice che una persona è guarita quando il problema che ha portato
questa persona a cercare le cure di uno specialista è risolto. In genere inoltre si presume
che la guarigione comporti la rimozione delle cause del problema. Vediamo in che
senso si può parlare di “soluzione del problema” e “rimozione delle cause del
problema” a proposito dei problemi psicologici.
A volte le terapie – siano esse farmacologiche o psicologiche – riescono a ridurre o
eliminare i disagi psicologici che hanno spinto la persona a cercare una cura ma non
riescono a modificare abbastanza quei processi psicologici che predispongono la
persona a sviluppare altre forme di disagio – che non sono necessariamente sempre le
stesse. In termini generali si può dire che la salute psicologica dipende principalmente
da:
− convinzioni (circa se stessi, gli altri, la vita) e norme morali;
− comportamenti e abitudini;
− possesso e corretto impiego di capacità di vario genere (per esempio, di
analizzare e rappresentarsi correttamente le situazioni, gestire i rapporti
interpersonali e le emozioni, risolvere i problemi, ecc.).
Oltre a questi aspetti personali hanno evidentemente una buona importanza le
condizioni materiali di vita e la qualità dei rapporti interpersonali. Ognuna delle aree
sopra elencate può essere più o meno funzionale al mantenimento della salute mentale.
La salute infatti è sempre il risultato di un equilibrio fra le situazioni oggettive in cui ci
poniamo (o la vita ci pone) e la nostra capacità di affrontarle in modo soddisfacente per
noi stessi e per gli altri. Il problema psicologico che spinge una persona a cercare l’aiuto
di uno specialista in genere è dovuto alla presenza di aspetti disfunzionali in una o in
alcune di queste aree. Se la cura è stata buona riesce a modificare abbastanza i
principali elementi disfunzionali che hanno contribuito a creare il problema.
I problemi psicologici già risolti con l’aiuto di una terapia psicologica o
farmacologica possono ripresentarsi, spesso nell’arco di pochi mesi o pochi anni. Si
tratta del cosiddetto problema delle ricadute. Non a caso le ricerche scientifiche svolte
per valutare l’efficacia di una terapia farmacologica o psicologica, o per confrontare
l’efficacia di terapie diverse, tengono conto non solo della situazione, per quanto
riguarda il problema trattato, alla fine della terapia ma anche della situazione a distanza
di mesi o anni dalla fine del trattamento.
È difficile fare affermazioni generali sul problema delle ricadute: ogni categoria di
problema psicologico tende ad avere un suo specifico andamento nel corso del tempo;
inoltre non si può non tenere conto di altri fattori molto importanti come la compresenza
di più problemi nello stesso individuo, le caratteristiche generali di personalità del
paziente e la qualità delle sue relazioni sociali e del suo stile di vita. Tuttavia, parte del
problema delle ricadute sta nel fatto che a volte il cambiamento personale ottenuto con
una cura è sufficiente per la scomparsa dei problemi che hanno portato alla ricerca di
aiuto entro pochi mesi di terapia ma non è sufficiente a prevenire una loro ricomparsa1.
1
Per quanto riguarda la terapia farmacologica, spesso essa non produce nessun cambiamento personale.
83
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
(Inoltre, durante la cura di un problema psicologico non si possono far emergere tutti gli
aspetti disfunzionali di tutte le aree di funzionalità o disfunzionalità. Certi elementi si
rivelano disfunzionali producendo problemi solo in particolari circostanze o in certe fasi
della vita.)
Lo stato di salute di una persona non dipende allora dalla presenza o assenza di
problemi psicologici al momento della valutazione ma dalla funzionalità delle aree
sopra elencate rispetto alle condizioni oggettive di vita della persona al momento attuale
e in futuro, cioè dall’essere “adeguatamente equipaggiati“ per la propria vita. Vediamo
come inquadra la questione Franco Baldini (Baldini, 2000b), psicoterapeuta cognitivocomportamentale, che concentra la sua analisi sull’idea di problema psicologico inteso
come sofferenza.
Se per salute consideriamo sia l'aspetto medico sia quello psicologico, spiega
Baldini, allora possiamo parlare anche di guarigione come il ristabilirsi di uno stato di
benessere, sia fisico che psicologico, o globale. Cosa significa godere di uno stato di
benessere? Intanto è utile chiarire che il benessere può essere immediato o a breve
termine e duraturo o a lungo termine. Il benessere immediato lo si ottiene facilmente: un
bel bagno caldo, un buon bicchiere di vino, una bella dormita possono dare un
benessere e un sollievo immediato. Il problema è che tutto ciò ha una durata limitata,
passato l'effetto, molte volte si ritorna a star male e quindi si cerca ancora sollievo nel
rifare le stesse cose, creandosi spesso uno stato di dipendenza (ad esempio dal fumo o
dall'alcool).
Ben altra cosa – continua Baldini – è invece uno stato di benessere stabile e
duraturo. È una condizione che si raggiunge e si costruisce pazientemente nel tempo.
Molte volte per raggiungere questo scopo si rinuncia ad uno stato di benessere
momentaneo: si rinuncia a una passeggiata in montagna per impegnarsi nello studio o a
una piacevole partita a tennis per preparare una relazione di lavoro, oppure si dedica una
mezz'ora del proprio tempo per un po' di jogging per mantenere la propria forma fisica.
Sono fatiche che si fanno per raggiungere degli obiettivi gratificanti che danno
soddisfazione agli individui. La differenza che esiste tra benessere momentaneo e
benessere stabile e duraturo può essere definita anche con la differenza che esiste tra
sentirsi bene e stare bene. Sentirsi bene è facile, ma momentaneo, stare bene è più
difficile, ma dura nel tempo.
Il benessere momentaneo è a portata di mano, la società attuale offre molte
possibilità per raggiungerlo: viaggi, vacanze, beni di consumo; non a caso si confonde
benessere psicologico con benessere materiale. Il benessere duraturo è più difficile da
raggiungere, richiede impegno, costanza e fatica. Per raggiungerlo è utile mantenere una
filosofia di vita adeguata e funzionale al raggiungimento di questo scopo. Molte persone
hanno grosse difficoltà perché non si sono formate principi, valori e convinzioni basate
su un vero concetto di benessere stabile e duraturo. Le persone che stanno male e
soffrono psicologicamente hanno sviluppato nel corso della loro vita dei modi di
pensare che sono spesso controproducenti, disfunzionali, se non addirittura palesemente
irrazionali.
A questo punto risulta forse più chiaro il significato del concetto di guarigione in
termini psicologici. Non potendo parlare di malattia, nel senso medico del termine –
prosegue Baldini – possiamo definire come guarigione, quello stato di benessere stabile
e duraturo nel tempo, che si ottiene e si costruisce pazientemente con un'
adeguata
filosofia di vita. È evidente perciò che non si può parlare di momenti della propria vita
84
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
in cui si sta male e poi si guarisce e si sta bene, ma il vero concetto di guarigione è più
ampio e completo e si riferisce ad un processo continuo che prosegue per tutto l'
arco
della nostra vita. È altrettanto vero che, in certi momenti, in seguito ad alcuni eventi
drammatici o ad alcuni pensieri che, in quel momento della nostra esistenza, ci
disturbano in modo particolarmente pesante, si sta psicologicamente male, ma non è
che, passato quel periodo, e curati i "mali" psicologici, si possa parlare di guarigione
definitiva: il benessere stabile, lo star bene, va mantenuto e consolidato.
Prendere il controllo di sé e della propria vita
Per ottenere e mantenere una condizione di benessere stabile è necessario
assumere maggiormente il controllo della propria vita. Chi può dire che cosa nella vita
mi sta più a cuore fare e diventare? Se confrontarmi con qualcuno su questo argomento
mi può sicuramente servire in vari modi, sarò pur sempre io a desiderare, a preferire o a
restare indifferente di fronte alle possibilità che la vita mi offre e che io stesso mi posso
costruire. Sta a me, sia pure con l’aiuto di altri, scegliere e decidere. Una guida o un
consigliere potranno aiutarmi a immaginare e prevedere le varie possibilità che la vita
offre, che cosa può significare perseguirne alcune a discapito di altre, quali ostacoli
fanno in genere parte dell’impresa. Ma dovrò essere io a dire se le conseguenze delle
possibili scelte mi piacciono o no, se credo di poter raggiungere i diversi obiettivi, se e
quanto me la sento di impegnarmi nel loro perseguimento.
Nessuno può perseguire per mio conto le mete a cui io ambisco. Il mio senso di
soddisfazione e di insoddisfazione e le mie emozioni dipenderanno dai miei sforzi e dai
risultati dei miei tentativi di raggiungere le mie mete. È chiaro che posso ricevere una
gran quantità di consigli e di indicazioni utili per evitare quegli errori, quei passi falsi e
quei vicoli ciechi che si possono evitare, e per utilizzare nel modo migliore le mie
risorse, ma solo io potrò darmi da fare in modo più o meno utile per ottenere ciò che
voglio e sarò principalmente io a gioire dei progressi e soffrire dei periodi di stasi o di
regressione e degli inevitabili errori.
A chi altro spetta controllare se sto agendo e pensando in modo adatto a raggiungere i
miei scopi, e via via intervenire per correggere il tiro, se non a me? E poi, se non imparo
io ad amare me stesso, potrà bastare l’amore di qualcun altro a darmi forza, fiducia e
determinazione?
Insomma, ciò che intendo sottolineare con questo elenco incompleto di esempi è
che, se è vero che la salute psicologica richiede un continuo adattamento del mio modo
di pensare e di agire alle mutevoli circostanze che incontro, l’obiettivo di una cura per
questo genere di problemi di salute dovrebbe essere innanzitutto quello di farmi capire e
accettare serenamente che sono io a tenere il timone della mia vita. Del resto, se non
fossi io a poter fare qualcosa per migliorare la mia condizione con l’intervento di uno
specialista, sarebbe anche inutile per me cercare aiuto. Certo – si dirà – certe condizioni
sfavorevoli in cui ci troviamo a vivere non dipendono da noi e non possiamo fare niente
per cambiarle. Ma sta a noi riconoscerle correttamente – in modo da evitare di gettare la
spugna per situazioni che in realtà possiamo modificare o di accanirci a cercare di
cambiare situazioni immodificabili – e coltivare un sistema di convincimenti morali
funzionali all’accettazione di ciò che è inevitabilmente diverso da come lo vorremmo.
85
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Inoltre, la terapia dovrebbe “rimettermi in linea” per il momento attuale
risolvendo i principali problemi che mi affliggono nel presente ma dovrebbe anche
indicarmi i modi e gli strumenti utili per ritornare sempre sulla rotta quando mi
accorgerò di averla persa.
Chiaramente l’acquisizione di questo tipo di consapevolezze e capacità è un
processo che richiede da parte del paziente una collaborazione attiva – e che può costare
fatica e qualche pena – sia durante i colloqui sia, per l’appunto, quando ci si ritrova soli
fuori dallo studio dello specialista. Quindi la cura non agisce da sé dentro di noi, che ce
ne stiamo comodamente sdraiati a riposare aspettando che faccia effetto, come quando
prendiamo un antibiotico per combattere un’infezione2. Per stare meglio ed essere più
soddisfatti ed efficienti occorre cambiare qualche aspetto del proprio modo di pensare o
di agire, e il cambiamento è un processo attivo, che non avviene magicamente senza una
qualche forma di collaborazione da parte mia, mentre mi rilasso, racconto sogni e dico
tutto ciò che mi passa per la mente.
Lo stesso vale per gli psicofarmaci. Gli psicofarmaci non insegnano a vivere;
anzi, non insegnano proprio niente. Possono eliminare qualche cosa che in noi è di
troppo – eliminare dolore, mancanza di energie, senso di ansia, fame incontrollata, ecc.
– ma non possono costruire quello che manca. Semmai possono metterci in uno stato
adatto a costruire quello che manca e a rimetterci in carreggiata ma questo dipende da
noi – dalle esperienze che sotto l’effetto degli psicofarmaci scegliamo di fare e dal
modo in cui le elaboriamo mentalmente e ne ricaviamo degli insegnamenti su noi stessi,
gli altri e il mondo – e non da essi. Se non sfruttiamo i loro effetti per migliorarci, essi
non saranno che una stampella, tolta la quale torneremo a essere zoppi. Certo, è anche
vero che a volte basta prendere certi psicofarmaci perché siano le normali esperienze
della vita a farci “guarire”; ma allora è indispensabile fare, con l’aiuto degli
psicofarmaci, almeno le normali esperienze della vita. E se queste non bastano può
essere opportuno fare le esperienze correttive indicate da uno psicoterapeuta (o servirsi
di qualche altro metodo indicato nell’ultimo capitolo).
La modificazione di quelle convinzioni disfunzionali, di quei principi morali, di
quei comportamenti e abitudini che mi fanno sentire fuori posto in questo mondo, mi
fanno soffrire, mi limitano e mi inibiscono può richiedere molto impegno. Anche
l’apprendimento di nuovi modi pensare e di agire può essere difficile. Un buon
psicoterapeuta può indicarmi il lavoro da compiere avendo cura di sostenermi, guidarmi
e incoraggiarmi lungo il percorso ma – se diamo per scontato che il percorso indicato
dallo psicoterapeuta sia quello corretto – i progressi dipenderanno dai passi che io farò
nella direzione indicata. Un buon psicoterapeuta cercherà di farmi sentire all’altezza dei
passi da compiere avendo cura di sceglierne di adeguati alle mie capacità, aumentarne
progressivamente la difficoltà e utilizzare tutti gli aiuti disponibili. In questo modo, se
comincerò a vedere che i piccoli cambiamenti che riesco a introdurre nella mia vita mi
2
A questo proposito: conviene guardare con sospetto alle cure per problemi psicologici che promettono
risultati velocissimi (che compaiono in pochi giorni) senza richiedere una qualche forma di
collaborazione attiva. Ciò vale in tutti i casi, da chi si limiterebbe a consegnare un talismano o a togliere il
malocchio, a chi “ha scoperto” un nuovo metodo basato su una qualunque forma di esperienza breve –
sottoporsi a un raggio di qualche tipo, camminare sulla brace, sottoporsi a qualche
massaggio/manipolazione, fare saune, immersioni, osservare qualche cosa, pregare, ballare, ascoltare una
musica o una formula magica, ecc. –, a chi propone di ingerire qualche farmaco o altra sostanza, fino a
chi – come certi psicologi e psicoterapeuti – pretende che basti avere la consapevolezza delle cause dei
propri problemi per risolverli.
86
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
servono a raggiungere i miei obiettivi e a vivere meglio, la fiducia nello psicoterapeuta e
nella mia capacità di fare tutto il percorso aumenteranno e con essi, il mio impegno, la
determinazione, la perseveranza, l’ottimismo e la soddisfazione.
87
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
'
'
(
Psicofarmaci
Il termine “psicofarmaci” indica alcune categorie di farmaci utilizzati nella terapia di
problemi psicologici e psicofisiologici. Benché gli psicofarmaci possano essere
prescritti da qualsiasi medico, la figura professionale che ne conosce meglio l’utilizzo è
lo psichiatra.
Nella terapia di alcuni disturbi mentali possono essere utili anche alcuni farmaci
che non rientrano fra gli psicofarmaci. Un solo esempio: in certe forme di ansia (“ansia
da prestazione”) può essere utile assumere farmaci beta-bloccanti, che in genere
vengono usati dai cardiologi per curare l’ipertensione o certe malattie cardiache.
Veleni o panacee?
Fra i professionisti della salute mentale (psicologi, psichiatri, psicoterapeuti,
ecc.) e nell’opinione pubblica esistono atteggiamenti estremistici e contrastanti riguardo
agli psicofarmaci.
Alcuni psichiatri li propagandano come l’unico rimedio possibile per certi
disturbi mentali; sostengono che i disturbi mentali sono “malattie”, intendendo con
questa espressione malattie organiche dovute a danni nel cervello; sostengono che solo i
medici possano fare qualcosa per i disturbi mentali; si comportano come se non
sapessero che, nel caso di molti disturbi (per esempio, ansia, depressione e attacchi di
panico) certe forme di psicoterapia si sono dimostrate altrettanto o più utili degli
psicofarmaci; si comportano come se non sapessero che esistono forme di psicoterapia
molto più efficaci ed economiche della psicoanalisi.
Sul versante opposto, c’è chi sostiene, per esempio, che gli psicofarmaci siano
tossici, non migliorino i disturbi mentali e non ne curino le vere cause, spoglino
l’individuo della sua volontà e della sua capacità di decidere e di scegliere, siano uno
strumento di controllo sociale (“camicie di forza chimiche”), impediscano alle persone
di comprendere le cause psicologiche, familiari, relazionali e sociali del loro malessere.
Chi ha bisogno di aiuto, e assiste sconcertato a queste prese di posizione
agguerrite e contrapposte, non deve dimenticare che la cura dei disturbi mentali ha
evidentemente importanti risvolti economici e che in ogni categoria professionale,
comprese le professioni di aiuto, ci sono persone che si curano più degli interessi
personali e della categoria che non del benessere dei loro pazienti. In realtà, sia gli
psicofarmaci sia le psicoterapie possono essere benefiche o nocive per la salute, a
seconda di come vengono impiegate. Ciò che conta maggiormente nella scelta di una
cura è la competenza e la correttezza del singolo professionista.
88
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
La contrapposizione fra mezzi chimici e mezzi psicologici di cura non è così
netta come può apparire di primo acchito. Infatti, da un lato, è molto difficile
immaginare una farmacoterapia pura: lo psichiatra somministra gli psicofarmaci nel
corso di colloqui, che contengono alcuni elementi che possono favorire il
miglioramento della condizione psicologica del paziente. Inoltre, la terapia mediante
psicofarmaci ottiene spesso buona parte dei suoi effetti in modo indiretto: non “curando
le cause” del disturbo mentale, ma permettendo al paziente di riprendere a fare certe
esperienze che hanno di per se stesse una “capacità curativa” (per esempio, le relazioni
con gli altri migliorano, la persona riprende a studiare o lavorare, migliorano certi
sintomi che preoccupano o interferiscono con l’apprendimento, e via dicendo). Spesso
gli psicofarmaci sono utili proprio perché rendono possibile o facilitano il successo
della psicoterapia.
Dal canto opposto, è piuttosto probabile che le psicoterapie efficaci producano
nella chimica del cervello modificazioni analoghe a quelle indotte dagli psicofarmaci
efficaci.
Per fortuna ci sono moltissimi studiosi e professionisti seri che stanno studiando
come combinare produttivamente la terapia con psicofarmaci e la psicoterapia.
Pro e contro della terapia con psicofarmaci
In termini generali, fra i vantaggi della farmacoterapia ci sono:
–
–
–
il basso costo;
la rapidità degli effetti (per esempio, nella terapia dei sintomi di ansia e della
depressione);
la possibilità di intervenire su disturbi per i quali i soli interventi di tipo psicologico
e sociale non sarebbero sufficienti (per esempio, schizofrenia e certe psicosi).
Fra gli svantaggi, ci sono:
–
–
–
–
–
il fatto che lo psicofarmaco di per se stesso non insegna alcunché (benché possa
mettere in condizioni migliori per apprendere nuovi modi di affrontare le proprie
situazioni di vita);
il rischio, connesso al punto precedente, che una volta interrotta la somministrazione
del farmaco, i disturbi si ripresentino;
effetti collaterali fastidiosi;
per certi tipi di farmaco (perlopiù ansiolitici), il rischio di dipendenza – legato in
buona parte a un uso improprio del farmaco;
la possibile tossicità – legata perlopiù a certi farmaci usati in dosi massicce o in
modo scorretto.
Indicazioni ed effetti delle principali categorie di psicofarmaci
89
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Gli psicofarmaci provocano vari effetti che possono essere usati per la cura di
disturbi psicologici e psicofisiologici. Nella tabella 6.1 indico tali effetti e le loro
applicazioni terapeutiche.
90
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Tabella 6.1 Sintesi di informazioni tratte da Rovetto (1994).
Categorie di
psicofarmaci
Alcuni effetti che vengono utilizzati Esempi di disturbi mentali
a scopo di cura (in ordine che vengono curati con
alfabetico)
farmaci della categoria (in
ordine alfabetico)
Nelle persone con depressione:
– Anoressia
– Bulimia
– aumento di attività utili o – Depressione
costruttive
– Disturbo di ansia da
– miglioramento dell’umore
separazione nell’infanzia
– riduzione dell’ansia (a volte)
– Disturbo da attacchi di
Antidepressivi
– stimolazione dell’appetito (a
panico
(tricilici)
volte).
– Disturbo da deficit di
attenzione con iperattività
motoria
Nelle persone con altri disturbi – Emicrania
mentali (elencati a fianco), migliorano – Enuresi
i principali sintomi.
– Effetto
anticonvulsivante – Depressione lieve con
(antiepilettico)
ansia
– Effetto ipnoinducente (sonnifero) – Disturbi del sonno
– Effetto
miorilassante – Disturbo
di
Ansiolitici
(rilassamento dei muscoli)
somatizzazione
(benzodiazepin – Riduzione dell’ansia
– Fobie
e)
– Sedazione
– Sindrome di astinenza
dall’alcol
– Sintomi di ansia che
impediscono una vita
soddisfacente
– Disturbi
bipolari
ed
episodi
maniacali
e
ipomaniacali
Sali di litio
– Disturbi
con
manifestazioni
di
maniacalità
– Disturbo schizoaffettivo
Controllo di:
– Demenza organica
– Aggressività
– Depressione maggiore con
– Allucinazioni
deliri o allucinazioni
– Deliri
– Disturbi psicotici dovuti
Antipsicotici
Indifferenza all’ambiente
all’abuso
di
sostanze
(neurolettici)
– Insonnia
psicostimolanti
– Iperattività
(eccesso
di – Mania
movimenti)
– Schizofrenia
– Ostilità e negativismo (tendenza a
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
–
–
–
Psicostimolant
i
–
non fare ciò che gli altri vogliono
o si aspettano)
Rifiuto del cibo
Trascuratezza
della
propria
persona
Aumento della capacità di –
attenzione e concentrazione
–
Aumento della velocità dei riflessi –
–
–
–
Demenza senile
Depressione
Disturbi del ciclo vegliasonno
Disturbo da deficit di
attenzione con iperattività
Narcolessia
Obesità
Gli psicofarmaci curano le “cause” dei disturbi mentali?
Gli psicofarmaci non sono rimedi specifici per le cause dei disturbi mentali nello
stesso senso in cui un antibiotico potrebbe essere un rimedio specifico per una certa
malattia dovuta all’infezione di un certo batterio. Sono invece sostanze, qualche volta
scoperte per caso, che spesso hanno effetti benefici su persone affette da certi disturbi.
Se ne conosce in buona parte il meccanismo chimico di azione sulla fisiologica del
cervello ma non si sa, se non in termini molto generali, in che modo questi effetti sul
cervello siano connessi con il miglioramento dei sintomi di un certo disturbo mentale.
Infatti, in generale, non conosciamo nemmeno le “cause” cerebrali dei disturbi
mentali. Ciò non dovrebbe affatto sorprenderci – anche se al neofita può sembrare un
affermazione in contrasto con le impressioni che si possono spesso ricavare dai mass
media –, poiché lo stesso funzionamento del cervello sano è ancora in buona parte un
mistero. Non sappiamo in modo completo e preciso cosa accade nel cervello quando,
per esempio, una persona è depressa. Sappiamo, per esempio, che nella depressione
sono coinvolte variazioni di concentrazione di alcuni neurotrasmettitori in alcune zone
del cervello, che potrebbero giustificare alcuni aspetti della sindrome depressiva. Ma al
momento attuale non sappiamo se i cambiamenti cerebrali che è possibile constatare
nelle persone che soffrono di un certo disturbo mentale siano cause, effetti o semplici
correlati dei disturbi mentali. Quando piove si vedono in giro ombrelli aperti ma non è
la pioggia che apre gli ombrelli né sono gli ombrelli aperti a far piovere.
Il fatto che vengano scoperti di tanto in tanto certi fenomeni che sembrerebbero
caratteristici del funzionamento cerebrale di persone accomunate da un certo disturbo
mentale è da un lato prevedibile, dall’altro difficile da interpretare. Prevedibile perché
ciò che pensiamo e proviamo – per non parlare di ciò che facciamo – deve pur avere un
qualche fenomeno parallelo nel funzionamento del cervello. Difficile da interpretare
innanzitutto per la difficoltà di stabilire se c’è una relazione causale fra i due ordini di
fenomeni e quale essa sia, e poi perché non c’è una corrispondenza puntuale fra un certo
fenomeno psicologico (di per sé già difficile da definire e delimitare in termini
oggettivi) e un certo evento biologico che avviene a un certo momento in un certo luogo
del cervello.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
È quindi chiaro che in generale gli psicofarmaci non vanno a risolvere una
disfunzione specifica riconosciuta come la causa biologica di un certo disturbo mentale,
ma vengono usati in primo luogo perché funzionano abbastanza spesso e gli eventuali
danni che provocano vengono in genere giudicati di importanza minore rispetto ai
benefici che consentono di ottenere.
La loro azione terapeutica tuttavia non è solo di tipo biologico. In realtà, l’effetto
degli psicofarmaci e delle sostanze psicoattive in generale (per esempio, l’alcol) sul
comportamento e la psicologia dell’individuo dipende in buona parte dalle aspettative
che la persona nutre nei loro confronti, da ciò che prevediamo che ci facciano. In uno
studio che a questo proposito mi pare abbastanza istruttivo, per esempio, un gruppo di
persone è stato diviso in due sottogruppi; al primo è stata somministrata una bevanda
analcolica indistinguibile per sapore e odore dalla sua versione alcolica e al secondo è
stato somministrato alcol ma a loro insaputa. I soggetti del primo gruppo, che credevano
erroneamente di avere bevuto alcol, si sono dimostrati più aggressivi e disinibiti e hanno
dimostrato un maggior desiderio di bere ancora. I soggetti del secondo gruppo, che
avevano effettivamente consumato alcolici non hanno invece manifestato effetti di
questo tipo, che evidentemente erano da ricondurre alla convinzione di avere bevuto e
alle aspettative sugli effetti dell’alcol (vedi Kirsch, 1985).
Manipolando le aspettative di chi assume una certa sostanza si può addirittura
ottenere l’effetto opposto a quello che normalmente si crede indotto
farmacologicamente. Per esempio, una sostanza emetica come l’ipecacuana può essere
usata come antivomito. I placebo, cioè pillole fatte solo di zucchero (o di altre sostanze
prive di effetti farmacologicamente utili per la patologia in questione) ma somministrate
facendo credere che si tratti di sostanze farmacologiche, sono capaci di:
− modificare vari indici fisiologici misurato oggettivamente;
− alterare l’effetto di altre sostanze farmacologiche;
− dare una tale dipendenza che con l’interruzione dell’assunzione di verificano
sintomi di astinenza;
− dimostrarsi efficaci, dal punto di vista terapeutico, quanto o più di altri farmaci,
operazioni chirurgiche e sostanze psicoattive;
− riuscire a curare disturbi che le terapie mediche disponibili non riuscivano o non
sarebbero riuscite a curare;
− modificare il comportamento di animali (White, Tursky e Schwartz, 1985; Lo
Iacono, 1992).
Varie ricerche scientifiche hanno dimostrato che l’effetto degli psicofarmaci è
dovuto in parte agli stessi meccanismi psicologici che si attivano quando si
somministrano placebo. Così in buona parte l’effetto degli psicofarmaci non è un effetto
determinato farmacologicamente, ma psicologicamente. Oltre alle aspettative del
paziente un altro fattore che influisce sugli effetti degli psicofarmaci è la qualità della
relazione fra medico e paziente. Questo dovrebbe fare riflettere sull’efficacia dei mezzi
psicologici di guarigione e sull’opportunità di conoscerli e utilizzarli meglio.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Il rischio della deresponsabilizzazione
Nel campo del trattamento delle psicosi, alcuni psicofarmaci si sono dimostrati
particolarmente efficaci. Se le strutture ospedaliere psichiatriche di contenimento sono
state smantellate, è merito degli psicofarmaci, che permettono ai pazienti di avere la
possibilità di mantenere in molti casi un livello di vita dignitoso e, in genere, di poter
interagire in modo soddisfacente con famigliari e conoscenti. L'utilizzo degli
psicofarmaci ha quasi completamente eliminato l'uso di altre terapie psichiatriche, quali
l'elettroterapia o il contenimento fisico.
Purtroppo però negli ultimi tempi, un po' per una falsa propaganda dei mezzi di
informazione, un po' per gli enormi interessi economici che hanno le case farmaceutiche
nel sostenere l'efficacia degli psicofarmaci, venduti quasi come la panacea che elimina
la sofferenza psicologica degli esseri umani, il consumo degli psicofarmaci è aumentato
in maniera spropositata. A questo riguardo molti ricorderanno la campagna pubblicitaria
dell'antidepressivo Prozac venduto come la "pillola della felicità", creando false e
miracolistiche speranze nei pazienti.
Questo tipo di false credenze ha rinforzato ancora di più una ideologia già
fortemente diffusa nella nostra attuale società, ovvero che esiste sempre e comunque,
una soluzione "esterna" per i nostri problemi psicologici. Gli esseri umani sono perciò
sempre più falsamente convinti che non si devono impegnare e fare fatica per ottenere
uno stato di benessere, perché tanto c'è la pasticca che gli risolve i problemi.
La tendenza alla deresponsabilizzazione è ormai un problema sociale. Le
persone tendono a delegare agli altri, a farsi gestire nelle scelte e, soprattutto, vogliono
soluzioni facili e poco impegnative. E' molto comune sentire affermazioni del tipo: "Se
voglio mantenermi in linea c'è la pillola che fa dimagrire" o "Se voglio migliorare le
mie prestazioni sessuali c'è la pillola che mi aiuta". La vera soluzione dei problemi
psicologici avviene, al contrario, solo con l'impegno a cambiare "dall'interno", e solo se
le persone si assumono la responsabilità delle proprie azioni, attraverso la
consapevolezza dei propri modi di pensare e, soprattutto, con impegno e fatica. Il
cambiamento psicologico, basato e costruito con questo criterio "interno", si radica in
maniera profonda e stabile nella nostra filosofia di vita, ci permette di raggiungere uno
stato di benessere costante e duraturo, e nello stesso tempo, di avere maggiori strumenti
psicologici per affrontare particolari momenti difficili nel corso della nostra vita.
Le principali figure professionali abilitate alla somministrazione di psicofarmaci
La somministrazione di farmaci – si sa – spetta ai medici e solo a loro. La
somministrazione di psicofarmaci per la cura di problemi psicologici o disturbi mentali
è una competenza specifica dello psichiatra e, nel caso di bambini e adolescenti, del
neuropsichiatra infantile. Ciò naturalmente non significa che i medici di base o quelli
con specializzazioni diverse da queste non possano somministrare psicofarmaci; spesso
– si è visto – è proprio il medico di famiglia che interviene per primo su una situazione
di disagio psicologico con la somministrazione di farmaci. Significa invece che la
“malattia mentale” è, come abbiamo visto, un genere di “malattia” molto particolare
che, per essere affrontato adeguatamente dal punto di vista farmacologico, richiede
conoscenze e competenze specifiche.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Alcuni medici privi di competenze psichiatriche o neuropsichiatriche, per
esempio, somministrano psicofarmaci sbagliati o psicofarmaci giusti in dosi inefficaci.
Altri hanno pregiudizi verso gli psicofarmaci e li temono, preferendo così
somministrare al paziente sostanze prive di indicazioni terapeutiche scientificamente
dimostrate per il disturbo del paziente. (per esempio, ho conosciuto un medico che, in
buona o in cattiva fede, faceva iniezioni di acqua distillata ai suoi pazienti spacciandole
per cure specifiche contro “l’esaurimento”.) E – per porre presto termine a questa
incompleta e sconcertante carrellata – vi è chi, con un misto di tronfia supponenza e di
ignoranza, crede che ci si possa improvvisare psicologi o psicoterapeuti e “consiglia” le
sue vittime con un micidiale intruglio di moralismi (i più frequenti dei quali mi
sembrano essere gli appelli alla buona volontà e alla forza), paternalismo, biasimo,
luoghi comuni e altre banalità, affermazioni terroristiche, proiezioni delle proprie
nevrosi, catechismo, nozioni tratte dalla new age e dalle sempre più numerose medicine
alternative e altre irrazionalità varie che privano il paziente della cura di cui ha bisogno
prolungando la sua sofferenza e facendogli perdere fiducia nella possibilità di una
soluzione positiva.
Per quanto sia spiacevole e doloroso farlo è meglio ammetterlo: chi soffre di
problemi psicologici o psicofisiologici deve cercare di decidere e scegliere con senso
critico e con una certa autonomia di giudizio a quali cure e a quali professionisti
affidarsi, perché nel settore non mancano persone che pur essendo incompetenti non
dirottano i clienti a chi potrebbe fare loro del bene. È vero che tutti i mestieri possono
essere svolti con maggiore o minori competenza, responsabilità, impegno,
professionalità o deontologia. Ma è anche vero che questo è un settore particolare, sia
perché tutti si sentono “un po’ psicologi” e si pensa che le proprie opinioni e intuizioni
possano avere una validità conoscitiva e operativa generale, sia perché i medici in
generale trattano alla stregua di una patologia ogni aspetto della vita – dalla nascita alla
morte – e poi vorrebbero arrogarsi il diritto esclusivo della cura.
Poiché tutti abbiamo le nostre spiegazioni dei motivi per cui gli altri agiscono in
un certo modo e le nostre teorie riguardo a quali siano gli strumenti efficaci per aiutarle
a vivere bene, chi studia seriamente la psicologia (e in particolare la psicologia della
sofferenza e dell’aiuto) deve compiere una faticosa e mai completa opera di sostituzione
della propria psicologia ingenua con la psicologia scientifica, e riflettere sul proprio
modo di pensare e agire professionalmente. I medici non competenti in materia di
disturbi mentali e i ciarlatani di cui è pieno il mondo non sono neppure consapevoli
dell’esistenza di questa distinzione e vendono disinvoltamente le loro discutibili
opinioni personali come se fossero qualcosa di molto più prezioso.
Psichiatra
Sostanzialmente lo psichiatra si occupa, come lo psicologo clinico e lo
psicoterapeuta (che descriverò nel prossimo capitolo), dello studio e della cura dei
disturbi mentali, psicofisiologici e delle altre forme di sofferenza e disagio psicologico.
Il corso di studi attuale prevede che, per diventare psichiatri, si debba ottenere la
laurea in medicina e chirurgia e completare la scuola quadriennale di specializzazione in
psichiatria. Lo psichiatra è quindi un medico e ha una formazione di tipo
prevalentemente biologico.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Nel corso di studi per la specializzazione in psichiatria non c’è spazio per lo
studio dei fenomeni psicologici normali (per esempio, il pensiero, le emozioni,
l’apprendimento, il rapporto con gli altri, eccetera) benché un certo numero di ore venga
dedicato allo studio della psicologia dei disturbi mentali. Ciò nonostante, attualmente la
specializzazione in psichiatria abilita automaticamente all’esercizio della psicoterapia:
così, lo psichiatra è anche psicoterapeuta.
Lo psichiatra è il professionista che meglio di qualunque altro conosce i criteri
per la prescrizione di psicofarmaci. Il suo intervento può essere prezioso in moltissimi
disturbi mentali e appare persino indispensabile in altri – per esempio, nelle psicosi.
Tradizionalmente gli psichiatri si sono sempre occupati di tutte le forme di
terapia dei disturbi mentali, sia con metodi fisici e chimici – molti dei quali ormai
abbandonati – sia con mezzi psicologici. Ma nel corso dei decenni le competenze
professionali si sono specializzate. Il rapporto con il paziente, l’uso del colloquio e di
altri strumenti di conoscenza del paziente (come, per esempio, i test e i questionari), e
l’applicazione delle teorie e delle tecniche psicologiche sono strumenti essenziali per la
psicoterapia e tali strumenti richiedono una specifica formazione psicologica che nello
psichiatra, in quanto tale, è in genere insufficiente.
Per farsi un’idea del tipo di formazione dello psichiatra, riporto in figura 6.1 uno
stralcio del programma di studi della Scuola di Specializzazione in Psichiatria
dell’Università di Firenze, attiva presso il Dipartimento di Scienze Neurologiche e
Psichiatriche
(per
informazioni
più
complete
consulta
la
fonte:
http://medicina.dfc.unifi.it/specialita/psichiatria.htm).
Figura 6.1
Tabella A - Area di addestramento professionalizzante e relativi settori scientificodisciplinari
A. Area di psichiatria biologica e neuropsicofarmacologica
Settori:
– Fisiologia umana
– Farmacologia
– Psichiatria
– Neurologia
– Biochimica clinica
– Genetica medica
– Endocrinologia
– Statistica medica
– Diagnostica per immagini e radioterapia.
B. Area di Psicopatologia e metodologia psichiatrica
Settori:
– Psichiatria
B. Area di Psichiatria clinica
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Settori:
– Psichiatria
– Farmacologia
C. Area di Psicoterapia
Settori:
– Psichiatria
D. Area di Psichiatria sociale
Settori:
– Psichiatria
– Medicina legale
– Medicina fisica e riabilitativa
Tabella B - Standard complessivi di addestramento professionalizzante
Lo specializzando per essere ammesso all'esame finale di diploma deve:
–
–
–
–
–
–
–
–
aver preso in carico almeno 80 pazienti per i quali ha definito diagnosi,
eziopatogenesi e prognosi, curando il versante terapeutico sotto il profilo delle
indicazioni, controindicazioni ed effetti indesiderati di ogni trattamento;
aver seguito nel corso dell'intero quadriennio almeno 20 casi in psicoterapia con
supervisione;
aver seguito almeno 10 casi con programmi di riabilitazione psichiatrica;
aver seguito almeno 5 disegni sperimentali di trattamento con psicofarmaci;
aver effettuato almeno 20 interventi di psichiatria di consultazione e collegamento;
aver effettuato almeno 50 turni di guardia psichiatrica attiva;
aver somministrato ad almeno 40 pazienti test psicometrici e scale di valutazione;
aver affrontato problemi di psichiatria forense con particolare riguardo ai temi della
responsabilità professionale e al rapporto tra imputabilità e malattia mentale.
Neurologo
La neurologia è un ramo della medicina che concerne lo studio dell’anatomia,
della fisiologia e della patologia del sistema nervoso: in altre parole, come sono fatti,
come funzionano e come si deteriorano il cervello, il midollo spinale e i nervi.
Il neurologo riconosce e cura i problemi di salute dovuti a danni conosciuti e
dimostrabili del sistema nervoso – cioè le malattie nervose. Questo può essere il caso di
disturbi che insorgono – per fare solo qualche esempio – in seguito a traumi alla testa o
alla schiena, o a certe intossicazioni e infezioni, o a ictus e tumori cerebrali. Alcuni dei
disturbi curati tipicamente dal neurologo sono le emorragie cerebrali, le paralisi, i
tumori cerebrali, le meningiti, le encefaliti, i traumi cranici, le demenze, il morbo di
Parkinson, il morbo di Alzheimer, l’epilessia.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Il neurologo fa la sua diagnosi con una visita medica e con esami specialistici.
Va alla ricerca nel corpo del paziente delle cause dei suoi disturbi. Nel caso dei disturbi
mentali, nella stragrande maggioranza dei casi non ne trova. Spesso a questo punto
invoca lo stress. Che il paziente abbia una malattia nervosa o un problema psicologico,
il neurologo lo cura principalmente utilizzando mezzi fisici o chimici che modificano il
funzionamento dell’organismo; in particolare farmaci.
Attualmente per diventare neurologi occorre conseguire la laurea in medicina e
chirurgia e completare la scuola quadriennale di specializzazione in neurologia (vedi
figura 6.2).
Spesso le persone che cercano aiuto per un problema psicologico o
psicofisiologico non accompagnato da malattie del sistema nervoso si rivolgono
erroneamente a un neurologo. Il neurologo non ha le conoscenze e le competenze più
adatte per intervenire su questi casi. Il servizio migliore che può rendere, dopo avere
escluso la presenza di malattie nervose, sarebbe allora quello di indirizzare il cliente allo
specialista più indicato che, a seconda del tipo di problema, può essere uno psicologo,
uno psicoterapeuta con una solida preparazione psicologica alle spalle o uno psichiatra.
A volte il neurologo prescrive al cliente degli psicofarmaci e spesso queste cure sono
appropriate. Ma, come principio generale, la scelta degli psicofarmaci più adatti per il
cliente, nonché delle dosi e dei tempi di somministrazione, è come si è detto una
competenza specifica dello psichiatra.
Anche i disturbi dovuti a danni del sistema nervoso, che sono di specifica
competenza del neurologo, si associano, spesso e in mille modi diversi, a problemi
psicologici. Per fare solo qualche esempio, una persona che avesse subito lesioni
nervose in un incidente stradale potrebbe avere paura di guidare; una persona affetta
dalla malattia di Alzheimer potrebbe avere problemi di depressione; una persona con
problemi di equilibrio potrebbe avere un timore esagerato e paralizzante di uscire di
casa da sola. In generale, il fatto di avere problemi cronici di salute fisica e di non essere
più liberi di fare una vita normale richiede una difficile e dolorosa riorganizzazione
della propria vita, dei rapporti con gli altri e dell’immagine che si ha di se stessi; e a
volte non si è in grado di adattarsi alla nuova vita senza l’aiuto di qualcuno. Quando c’è
un problema psicologico o un disturbo mentale il neurologo dovrebbe indirizzare il suo
paziente a uno psicologo, a uno psicoterapeuta con una buona preparazione psicologica
o a uno psichiatra. In altri casi, anche se il problema del paziente si manifesta con
sintomi fisici che rientrano nelle competenze del neurologo, è indicato un intervento di
cura di tipo psicologico, che può svolgersi parallelamente o in alternativa delle cure del
neurologo. Per esempio, per certi tipi di cefalea può essere indicato l’addestramento al
rilassamento o il biofeedback.
Figura 6.2 Le materie del corso di specializzazione in neurologia presso l’Istituto di
Clinica
Neurologica
dell’Università
di
Bologna
(fonte:
http://www.neuro.unibo.it/neuroit/cl_univ.htm#scuole). L’unica materia che sembra
avere una pertinenza diretta con la psicoterapia è la psicopatologia (secondo anno).
1° Anno
Area propedeutica
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
–
–
–
–
–
neuroanatomia
neurofisiologia
neurochimica
istologia ed embriologia
biometria e statistica medica
Area semeiotica e diagnostica neurologica
– neurologia
– neuroradiologia
2° Anno
–
–
–
–
–
–
–
–
Area propedeutica
genetica medica
patologia clinica
Area di fisiopatologia generale
patologia generale
Area semeiotica e diagnostica neurologica
medicina interna
neurofisiopatologia
neurologia
neuropatologia
Area di neurologia clinica
psicopatologia
3° Anno
–
–
–
Area farmacologia e medicina legale
neuropsicofarmacologia
Area semeiotica e diagnostica neurologica
neurologia
neurofisiopatologia
neurofisiologia clinica
neuroradiologia
medicina interna
Area neurologia clinica
otorinolaringoiatria
geriatria
gerontologia
–
–
–
–
–
–
–
4° Anno
medicina fisica e riabilitativa
terapia neurologica
neuropsicologia clinica
neurologia
neurologia pediatrica
neurologia geriatrica
neurologia d'urgenza
–
–
–
–
–
–
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
–
–
medicina legale e delle assicurazioni
neurochirurgia e neurotraumatologia
Neuropsichiatra infantile
Il neuropsichiatra infantile è un medico che ha seguito la scuola di specializzazione
post-univeristaria in neuropsichiatria infantile. Sostanzialmente, è “il neurologo e lo
psichiatra dei bambini”. In altre parole si occupa delle malattie nervose che solitamente
si possono trovare nell’infanzia, cioè di quelle malattie che presentano chiari segni di
malformazioni e malfunzionamenti del sistema nervoso e degli organi di senso – come,
per esempio, l’epilessia, i problemi di udito o le malformazioni del capo. Inoltre
interviene sui disturbi psichiatrici che possono comparire nell’infanzia – per esempio,
l’autismo, il ritardo mentale, le difficoltà di apprendimento –, e sugli altri problemi
psicologici dei bambini e delle famiglie con pazienti bambini, utilizzando perlopiù
terapie farmacologiche.
Di seguito, per conoscenza del tipo di materie studiate dal neuropsichiatra
infantile, viene riportato il programma di studi della scuola di specializzazione in
neuropsichiatria infantile presso l’Istituto di Clinica Neurologica dell’Università di
Bologna (fonte: http://www.neuro.unibo.it/neuroit/cl_univ.htm#scuole). Le materie che
sembrano avere pertinenza diretta con i problemi e le cure psicologiche sono:
psicopatologia generale (primo anno), psicodiagnostica (secondo e terzo anno) e
psicoterapia (terzo anno).
Figura 6.3 Le materie del corso di specializzazione in neuropsichiatria infantile
1° Anno
Area generale e propedeutica
neurofisiologia
anatomia umana
istologia ed embriologia
statistica medica e biometria
psicopatologia generale
genetica medica
neurologia pediatrica
neuropsichiatria infantile
2° Anno
Area generale e propedeutica
biochimica
anatomia ed istologia patologica
psicodiagnostica
La consultazione psicodiagnostica in età evolutiva
biologia molecolare
pediatria
Area diagnostica
radiologia
neurologia pediatrica
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
neuropsichiatria infantile
patologia neuromuscolare ed elettromiografia
3° Anno
Area generale e propedeutica
endocrinologia
psicodiagnostica
malattie metaboliche e del bambino
pediatria
neonatologia
psicoterapia
psichiatria
Area diagnostica
neuroradiologia
Area neurologica
neurologia
neurofisiologia clinica
neurologia
Area neurologica ed area psichiatrica
neuropsichiatria infantile
4° Anno
Area neurologica generale, neurochirurgica e organi di senso
neurochirurgia
malformazioni cranioencefaliche e vertebro-midollari nell'età evolutiva
oftalmologia
audiologia
Area generale e propedeutica
medicina legale
Area di neuropsichiatria infantile
neuropsichiatria infantile
cinetica e metabolismo degli psicofarmaci nell'infanzia
5° Anno
Area di neuropsichiatria infantile
neuropsichiatria infantile
In questo corso di studi, le manifestazioni della sofferenza mentale e l’uso di
strumenti psicologici di cura hanno quindi uno spazio del tutto marginale e
evidentemente insufficiente per un esercizio competente delle attività di diagnosi e cura
psicologica. Ciò nondimeno, l’ordine professionale dei medici concede agli specializzati
in neuropsichiatria infantile l’abilitazione all’esercizio della psicoterapia. Così nessuno
può protestare a ragione se il proprio figlio viene coinvolto in colloqui o altre attività
“psicoterapeutiche” prestate da una persona – come un neuropsichiatra infantile privo di
altra formazione – che non ha mai imparato a fare la psicoterapia.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
'
Cos’è la psicoterapia
In termini generali, la psicoterapia è l’applicazione di strategie e tecniche
psicologiche finalizzate a migliorare o risolvere uno stato di carenza di salute.
La psicoterapia è indicata non soltanto per la cura dei disturbi mentali, ma anche
per risolvere problemi psicologici di vario tipo, problemi legati al rapporto con altre
persone o problemi di salute che si manifestano con sintomi di tipo fisico (per esempio,
dolore, spasmi muscolari, ulcera da stress).
Esistono molte forme di psicoterapia più o meno differenti fra loro nelle teorie di
riferimento e nelle tecniche utilizzate. Negli Stati Uniti ne sono state contate alcune
centinaia. La situazione della psicoterapia è per certi versi analoga a quella della
medicina, in cui per curare, ammettiamo, un mal di testa ci si può rivolgere, per
esempio, a un medico, a un chiropratico, a un omeopata, a un erborista, a un
pranoterapeuta o a un agopuntore. Ognuno di questi professionisti interpreterà in modo
diverso le cause del malessere e interverrà con i suoi metodi. Allo stesso modo, per
curare, ammettiamo, la depressione si può fare, per esempio, la psicoterapia cognitivo
comportamentale, la psicoterapia della Gestalt, la psicoterapia psicoanalitica, la
psicoterapia bioenergetica e via dicendo.
A seconda dell’orientamento teorico dello psicoterapeuta e delle necessità legate
al trattamento del singolo caso, la psicoterapia può coinvolgere solo l’individuo che
cerca aiuto o anche i suoi familiari o altre persone a lui vicine. In certi casi la
psicoterapia si svolge in un gruppo composto dallo psicoterapeuta e da persone che
presentano problemi simili.
Anche la durata del trattamento e la frequenza e la lunghezza delle sedute può
variare a seconda dell’orientamento teorico del terapeuta, dalla sua valutazione dei
bisogni del cliente e di altre esigenze.
Aspetti comuni a tutte le psicoterapie
Le diverse psicoterapie hanno in comune quattro elementi:
1. Una relazione, che coinvolge forti sentimenti, con una persona che all’interno della
società viene considerata un “guaritore”. Questa relazione è una specie di alleanza
che viene stretta allo scopo di migliorare il benessere del paziente;
2. Un luogo specifico – che è l’ambiente di lavoro del “guaritore” – protetto e
rassicurante;
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
3. Una teoria che fornisce una spiegazione plausibile per il problema del paziente e che
dà un senso alla procedura terapeutica. Al di là delle differenze teoriche, infatti, la
maggioranza degli psicoterapeuti è convinta che:
– c’è qualcosa nel paziente che limita la sua libertà di realizzare le sue
potenzialità e vivere in maniera soddisfacente la sua vita;
– il paziente, almeno in parte, è potenzialmente in grado di fare qualcosa
per il problema per cui cerca aiuto;
– ogni persona ha, entro certi limiti, risorse, capacità di cambiamento e
abilità di effettuare scelte che sono maggiori di quelle che ritiene di avere.
4. Una procedura terapeutica che richiede la partecipazione attiva di paziente e
terapeuta e che è ritenuta da entrambi un mezzo efficace per ristabilire la salute del
paziente.
Teorie e procedure psicoterapeutiche
Il problema psicologico del paziente viene identificato e interpretato alla luce
della teoria preferita allo psicoterapeuta, la quale spiega i fattori e i meccanismi generali
che regolano in definitiva lo stato di benessere o di malessere delle persone.
Durante la psicoterapia, in genere, lo psicoterapeuta spiega al paziente che cosa
ha originato il suo malessere, che cosa lo mantiene e che cosa può risolverlo. In questo
modo il paziente capisce che cosa gli sta succedendo (o perlomeno capisce qual è il
punto di vista del terapeuta in proposito) e lo psicoterapeuta e il paziente cominciano a
intendersi su alcuni termini e concetti importanti e utili per il proseguimento del
rapporto terapeutico. È importante che cliente e terapeuta si comprendano a vicenda,
che “parlino la stessa lingua”, anche se è normale che all’inizio questo non succeda
(come può non succedere nel rapporto con altre persone).
Le procedure impiegate, cioè le strategie e le tecniche, sono molto numerose –
più di un centinaio soltanto nella psicoterapia cognitiva e comportamentale – ed è
impossibile qui farne un elenco anche approssimativo. Ciò che le accomuna è il fatto
che, a differenza degli psicofarmaci, per essere efficaci richiedono una qualche forma di
collaborazione e di partecipazione attiva da parte del paziente.
Psicoterapeuta
Lo psicoterapeuta è il professionista abilitato alla cura dei disturbi mentali e delle altre
condizioni di carenza di salute attraverso la psicoterapia, cioè con tutte le tecniche e le
strategie psicologiche di cambiamento conosciute.
Poiché non tutti gli psicoterapeuti sono laureati in psicologia, le conoscenze e le
competenze in campo psicologico possono essere più o meno sviluppate. A questa
differenza di formazione fra uno psicoterapeuta e l'altro contribuisce anche il tipo di
studi di specializzazione post lauream (vedi sotto “Percorso formativo”): una scuola di
specializzazione medica non dà evidentemente le stesse basi psicologiche di una scuola
di specializzazione di tipo psicologico o di una scuola privata quadriennale in
psicoterapia.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
La professione di psicoterapeuta, quindi, può essere esercitata da professionisti
che di fatto hanno seguito percorsi formativi abbastanza eterogenei. Ciò che accomuna
queste persone è la rispondenza ai criteri definiti dalla legge.
Legge sull'
abilitazione all'
esercizio della psicoterapia
Lo psicoterapeuta è il professionista legalmente abilitato all'esercizio della psicoterapia.
Per la legge italiana (art. 3, comma 1, della legge 56/89),
L'esercizio dell'attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica
formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della
laurea in Psicologia o in Medicina e Chirurgia, mediante corsi di
specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata
formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto
del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di
specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con
le procedure di cui all'articolo 3 del citato decreto del Presidente della
Repubblica.
All'interno dell'Albo professionale degli psicologi e dell'Albo professionale dei medici e
odontoiatri, sono indicati, rispettivamente, gli psicologi e i medici autorizzati
all'esercizio della psicoterapia.
La formazione dello psicoterapeuta
Secondo uno studio di EURISPES (1999), a orientarsi verso questa specifica
professione sono, solitamente, i giovani laureati in psicologia che al terzo anno di
università hanno optato per gli indirizzi di laurea Clinico o Evolutivo o i laureati in
medicina che hanno scelto la specializzazione in psichiatria. I possibili percorsi
formativi per diventare psicoterapeuta sono riportati nella tabella seguente (compilata
con le informazioni tratte da Cionini, 1998).
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Laurea e iscrizione al relativo Specializzazione post lauream
albo professionale
Psicologia
1. Scuola privata di specializzazione in psicoterapia, oppure
2. Scuola universitaria di specializzazione in:
–
–
–
Medicina e chirurgia
Psicologia clinica o
Psicologia del ciclo di vita o
Psicologia della salute
1. Scuola privata di specializzazione in psicoterapia, oppure
2. Scuola universitaria di specializzazione in:
–
–
–
Psichiatria o
Neuropsichiatria o
Neuropsichiatria infantile
Va comunque considerato che molti degli attuali psicoterapeuti hanno ottenuto
questo titolo grazie alle sanatorie previste dall’articolo 35 della legge 56/89, secondo
cui:
In deroga a quanto previsto dall'articolo 3, l'esercizio dell'attività
psicoterapeutica è consentito a coloro i quali o iscritti all'
Ordine degli
psicologi o medici iscritti all'
Ordine dei medici e degli odontoiatri, laureati
da almeno cinque anni, dichiarino, sotto la propria responsabilità, di aver
acquisito una specifica formazione professionale in psicoterapia,
documentandone il curriculum formativo con l'indicazione delle sedi, dei
tempi e della durata, nonché il curriculum scientifico e professionale,
documentando la preminenza e la continuità dell'esercizio della professione
psicoterapeutica.
Così, molti degli attuali psicoterapeuti sono psicologi non laureati in psicologia
(ma, per esempio, in lettere, medicina e chirurgia o filosofia) o medici con
specializzazioni di vario tipo.
Gli statuti delle scuole universitarie di specializzazione sono stati modificati di
recente. Queste scuole, come afferma Cionini (1998, p. 293-294), sono
fondamentalmente finalizzate alla formazione di professionisti con competenze diverse,
ma dedicano una parte del monte ore della didattica anche alla psicoterapia. Nonostante
ogni scuola segua prevalentemente un certo orientamento teorico – che corrisponde alle
preferenze dei direttori e della maggioranza dei docenti – esse tendono a fornire una
formazione generale in psicoterapia, nei suoi diversi indirizzi. Normalmente, inoltre,
non prevedono uno spazio specificamente dedicato al lavoro personale degli allievi. La
formazione specialistica, tecnica e personale nei singoli orientamenti teorici e tecnici
della psicoterapia – conclude l’autore – viene quindi svolta prevalentemente nelle
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
scuole private che hanno ricevuto il riconoscimento dal Ministero dell’Università e della
Ricerca Scientifica e Tecnologica.
Il Decreto 11 dicembre 1998 stabilisce i requisiti per il riconoscimento delle
scuole private di specializzazione in psicoterapia. Questa stessa legge obbliga gli istituti
a precisare l’indirizzo scientifico e culturale da cui deriva il modello di formazione
terapeutica adottato dalla scuola – il quale dovrà risultare inequivocabilmente
riconducibile ad una tradizione scientifica internazionale – e a dotarsi di strutture
didattico-formative adeguate, attivando corsi di formazione per una durata non inferiore
alle 500 ore annuali di cui almeno 100 dedicate al tirocinio in strutture o servizi pubblici
o privati accreditati, nei quali l'allievo possa confrontare la specificità del proprio
modello di formazione con la domanda articolata dell'utenza ed acquisire esperienza di
diagnostica clinica.
Lo psicoterapeuta ideale: lo psicologo psicoterapeuta
Com’è possibile vedere nella tabella sopra riportata, l’abilitazione all’esercizio
della psicoterapia (e quindi il titolo di psicoterapeuta) può essere ottenuta con due lauree
diverse e con studi successivi alla laurea di tipo diverso. Naturalmente a studi diversi
corrispondono competenze diverse. A mio avviso il percorso di studi ideale per
l’acquisizione delle migliori competenze psicoterapeutiche è quello della laurea in
psicologia con indirizzo di Psicologia clinica e di comunità seguita dalla frequenza di
una scuola privata di specializzazione in psicoterapia riconosciuta dallo Stato.
Lo psicoterapeuta laureato in psicologia è diverso dallo psicoterapeuta laureato
in medicina e chirurgia perché c’è una differenza sostanziale nel tipo di competenze che
si apprendono nei due corsi di laurea. I medici hanno una preparazione approfondita
sulla struttura e il funzionamento dell’uomo come oggetto, cioè sotto il profilo chimicofisico (l’uomo-macchina di cui si è parlato nel capitolo sesto). Gli psicologi conoscono
approfonditamente il funzionamento dell’uomo inteso come persona attiva nel suo
ambiente, cioè le azioni esterne e osservabili rivolte verso gli oggetti e le persone e i
processi psicologici interiori (per esempio, le sensazioni, la percezione, la memoria, il
pensiero, l’apprendimento, il rapporto con gli altri).
La ricchezza e la profondità delle conoscenze psicologiche dello psicoterapeuta
laureato in psicologia non si trovano in nessun'altra professionalità. Le scuole
universitarie di specializzazione in Psicologia clinica, Psicologia del ciclo di vita o
Psicologia della salute e le scuole private di specializzazione in psicoterapia o in
psicologia clinica danno conoscenze e competenze utili a riconoscere e curare i disturbi
psicologici, ma non insegnano abbastanza come le persone percepiscono gli oggetti e
conoscono se stesse, gli altri e il mondo, né come imparano, ricordano, prevedono,
ragionano, risolvono problemi, regolano il proprio comportamento, si motivano,
decidono e comunicano, né come crescono, si sviluppano e invecchiano, come studiano
e lavorano, né come iniziano, mantengono e interrompono vari tipi di rapporti formali e
informali con le altre persone, con i gruppi e con le organizzazioni. (Il discorso sulle
specialità mediche verrà affrontato a parte). Queste nozioni sono comprensibilmente
preziosissime per chi svolge un lavoro a contatto con altre persone e ancora di più per
chi svolge una professione di aiuto. E possono essere apprese sistematicamente solo in
un corso di laurea in psicologia.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
La laurea in psicologia è distinta dalla laurea in medicina, ma consente di
acquisire ugualmente una certa conoscenza degli aspetti biologici del funzionamento
umano. Il corso di laurea in psicologia prevede infatti lo studio della fisiologia del
sistema nervoso umano. Oltre a studiare materie come la biologia (con elementi di
chimica organica), i fondamenti anatomo-fisiologici dell'attività psichica e la psicologia
fisiologica, lo studente di psicologia trova in molti esami del corso di laurea continui
riferimenti agli aspetti biologici dei fenomeni psicologici che studia.
Competenze professionali dello psicologo clinico
Per psicologo clinico intendo qui un laureato in psicologia che ha scelto
l’indirizzo di studi di tipo clinico3 (denominato di Psicologia clinica e di comunità). La
laurea in psicologia, seguita dal tirocinio e dall’esame di Stato, consente l’iscrizione
all’Ordine professionale degli psicologi e l’esercizio della professione di psicologo. Nei
paragrafi seguenti mi soffermerò su alcune competenze professionali dello psicologo
strettamente imparentate con la psicoterapia, tanto strettamente da essere spesso
indistinguibili da ciò che uno psicoterapeuta fa nell’esercizio della sua professione.
Diagnosi o valutazione psicologica
Con le attività di diagnosi o valutazione psicologica lo psicologo fa un quadro dello
stato di salute e delle caratteristiche di personalità del cliente e identifica i fattori interni
(personali), esterni (ambientali) e relazionali (che riguardano cioè il rapporto fra il
cliente e il suo ambiente) che hanno contribuito a determinare, e mantengono, la sua
condizione attuale. Nel corso della diagnosi o della valutazione psicologica, lo
psicologo clinico raccoglie con vari strumenti informazioni sul cliente e sull'ambiente
sociale - cioè la comunità, la famiglia, gli amici, gli educatori, i compagni di scuola, i
colleghi di lavoro e tutte le altre persone significative - e fisico in cui ha vissuto e vive.
La consultazione del tariffario delle prestazioni dello psicologo (Appendice 4)
può dare un'idea della varietà degli strumenti conoscitivi utilizzati dallo psicologo
clinico - i nomi dei vari test e questionari lasceranno inevitabilmente un certo senso di
perplessità ai non psicologi.
Mentre accade spesso che la diagnosi o valutazione psicologica venga eseguita
usando pochi o nessuno di questi strumenti, un mezzo che verrà sicuramente utilizzato è
quello del colloquio con il cliente e con le persone per lui più significative. Infatti, il
principale strumento di conoscenza del cliente sono, come nei normali rapporti fra
persone, il dialogo con il cliente e l'osservazione del suo comportamento. Anche i dati
raccolti con l'uso di test e di altri strumenti specialistici vengono poi discussi con il
cliente che dà indicazioni indispensabili su come essi vadano interpretati e integrati.
3
In effetti l’espressione psicologo clinico è ambigua. Può essere usata in questa accezione o anche nel
senso di persona che ha frequentato la scuola post-universitaria di specializzazione in psicologia clinica.
Poiché questa scuola permette di ottenere l’abilitazione all’esercizio della psicoterapia, chi l’ha
frequentata diventa psicoterapeuta. In ogni caso, la legge riconosce solo la figura dello psicologo,
indipendentemente dall’indirizzo scelto nel corso di studi universitario e dalla specializzazione postlauream.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Alcuni psicologi, specialmente quelli di formazione comportamentale (che abbracciano
una prospettiva ambientalista), potranno essere interessati a recarsi insieme al cliente nei
luoghi dove egli trascorre più tempo ogni giorno o dove si svolgono i fatti connessi con
il suo malessere (per esempio, il luogo di lavoro per una persona che ha difficoltà
psicologiche connesse al lavoro).
Consulenza psicologica
Un'altra delle prestazioni professionali che lo psicologo clinico rende al singolo
individuo, alla coppia, ai genitori o alla famiglia è la consulenza psicologica. In questo
caso, dopo aver eseguito una diagnosi o valutazione psicologica, lo psicologo clinico
utilizza le informazioni raccolte e organizzate con il cliente per formulare pareri circa le
cause dei problemi in atto e circa i fattori - interni ed esterni al cliente - che favoriscono
il loro perdurare, che potrebbero farli aggravare o che dovrebbero consentire di
risolverli o perlomeno migliorarli. In altre parole, dopo essersi fatto un'idea
approfondita della situazione del cliente, lo psicologo clinico che fa una consulenza
psicologica utilizza le sue conoscenze per dare informazioni e consigli pratici. Le
informazioni e i consigli potranno essere più o meno specifici, dipendendo di vari
fattori: per esempio, la completezza e l'accuratezza della valutazione psicologica, la
disponibilità di informazioni scientifiche sulle cause e l'evoluzione del problema in
questione e la competenza dello psicologo in relazione al problema a lui presentato.
Sostegno psicologico
Un'altra prestazione dello psicologo clinico è il sostegno psicologico, che consiste
nell'alleviare il senso di solitudine, demoralizzazione, smarrimento, incapacità e
preoccupazione del cliente attraverso una serie di colloqui. Nel corso del dialogo, lo
psicologo clinico utilizza le sue competenze psicologiche e le sue capacità di rapporto
per alleviare il cliente del peso emotivo delle situazioni difficili che egli sta vivendo e
per dargli informazioni e consigli utili a migliorare la sua situazione oggettiva.
Benché in generale lo psicologo clinico non abbia la stessa conoscenza delle
varie forme di sofferenza psicologica e delle tecniche di trattamento che può avere uno
psicoterapeuta, in molti casi può essere difficile distinguere nettamente fra psicoterapia
e sostegno psicologico: per esempio, in certe forme di sofferenza i due tipi di intervento
possono essere altrettanto efficaci; le tecniche utilizzate dallo psicologo clinico e dallo
psicoterapeuta in parte si sovrappongono; uno psicologo clinico con molta esperienza
può utilizzare i suoi strumenti meglio di uno psicoterapeuta inesperto.
Va poi detto che sia nella psicoterapia sia nel sostengo psicologico gran parte
degli effetti benefici dipendono dalla qualità della relazione che si stabilisce fra il
professionista e la persona in cerca di aiuto. Se la persona bisognosa di aiuto trova una
persona competente, stimata e fidata che, dimostrando rispetto, considerazione,
accettazione e un certo calore, dà segni di comprendere la sua situazione e il suo stato
emotivo, può ritrovare lo stato d'animo adatto a identificare e modificare le cause del
proprio malessere. In verità, un aiuto di questo tipo può essere dato anche da una
persona che non svolge una professione di aiuto. Anche un buon amico, un sacerdote,
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
un insegnante, una persona con problemi simili può essere in grado di ascoltare,
dimostrare una forte vicinanza emotiva e dare consigli utilissimi per risolvere una
situazione difficile. Ma in generale la formazione e la professionalità dello psicologo
clinico danno maggiori garanzia di efficacia: un buon psicologo, per esempio, ha una
conoscenza più approfondita delle vicende umane, dei meccanismi psicologici della
sofferenza e della salute psicologica, delle trasformazioni connesse alla crescita e
all'invecchiamento nella nostra società, delle dinamiche familiari, scolastiche e
lavorative e delle strategie e dei metodi utili per riconoscere e soddisfare i bisogni
psicologici dei clienti.
Così, se anche il sostegno psicologico professionale o non professionale può
essere molto utile, esso è risolutivo solo nella misura in cui il fatto di trovare una
persona che aiuta a utilizzare al meglio le proprie risorse è sufficiente a risolvere
autonomamente i propri problemi. Ci sono molte situazioni, invece, in cui la persona in
cerca di aiuto psicologico non possiede queste risorse personali in una forma tale che
possano essere utilizzate efficacemente ed è quindi necessario che egli impari nuovi
modi di pensare e di affrontare le situazioni della sua vita con l'aiuto di un professionista
specificamente abilitato a farlo. Parte di questo lavoro di apprendimento e di crescita
personale può essere svolta con uno psicologo - per esempio, l'apprendimento di un
metodo sistematico per affrontare costruttivamente i problemi della vita (detto "problem
solving") o l'apprendimento di metodi per rilassarsi - ma in molti casi è proprio
necessario uno psicoterapeuta. Lo psicoterapeuta può innescare cambiamenti importanti
nel cliente e nel suo modo di vivere; cambiamenti che, senza una psicoterapia,
avrebbero probabilità molto minori di verificarsi, potrebbero non verificarsi affatto o
potrebbero avvenire molto più lentamente e in modo incompleto o inadeguato.
Abilitazione formale e formazione sostanziale dello psicoterapeuta
Data la complessità dell’argomento e la confusione che ruota attorno alle figure
professionali che si occupano di aiuto psicologico ribadisco qui pochi concetti essenziali
sviluppati anche in altre parti del libro.
Punto PRIMO. Una garanzia minima di professionalità dello psicoterapeuta è il
possesso dei titoli formali. Accertare il possesso del titolo formale di abilitazione
all’esercizio della psicoterapia è molto facile: si telefona all’Ordine degli psicologi della
propria regione se il professionista su cui ci si vuole accertare è psicologo, o all’Ordine
professionale dei medici se il professionista in questione è medico, e si chiede: “Il
signor X è abilitato all’esercizio della psicoterapia?”. In questo modo si appura se la
persona ha “i titoli” per fare lo psicoterapeuta.
PUNTO SECONDO. Ma questo non è tutto, perché i titoli sono stati concessi e
continuano ad essere concessi anche a persone che di psicologia non sanno nulla o
quasi. Per avere le migliori garanzie sulle reali competenze psicoterapeutiche di uno
psicoterapeuta occorre accertare il fatto che lo psicoterapeuta da cui si vuole andare sia:
I.
Laureato in psicologia. È bene ribadire che nel corso di laurea in medicina non
si impara la psicologia. Nelle specialità mediche di psichiatria e
neuropsichiatria infantile – che pure consentono di ricevere dall’Ordine dei
medici l’abilitazione all’esercizio della psicoterapia – se ne impara pochissima.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
II.
Inoltre, fra gli psicologi non tutti sono effettivamente laureati in psicologia,
principalmente perché il corso di laurea in psicologia ha poco più di vent’anni.
Specializzato in una scuola di specializzazione privata in psicoterapia
riconosciuta dallo Stato. Anche le scuole di specializzazione universitarie
riportate in tabella WWW forniscono una buona preparazione; tuttavia essa non
raggiunge a mio avviso gli standard di una scuola privata. Anche alcune scuole
di specializzazione in psicoterapia tuttora non riconosciute dallo Stato possono
insegnare bene a fare questo mestiere ma il fatto che non sono ancora state
approvate dovrebbe indurre alla cautela. Qualcuno inoltre può essere diventato
un ottimo psicoterapeuta senza essersi specializzato; e di fatto è così nel caso di
molti psicoterapeuti non giovanissimi, che hanno iniziato questo lavoro prima
ancora che la professione di psicoterapeuta venisse regolamentata dalla “Legge
di ordinamento della professione di psicologo”.
In generale è bene non cercare cure per problemi psicologici presso figure professionali
diverse da quelle indicate qui.
Il caso della psicoanalisi e degli psicoanalisti
In Italia siamo abituati a sentire usare il termine “psicoanalista” come sinonimo
di psicologo, di psicoterapeuta o di psichiatra. Altrettanto spesso “psicoanalisi” o
“analisi” vengono usati come sinonimi di psicoterapia o per indicare altre forme di
intervento psicologico o addirittura come sinonimi di “psicologia”!
La psicoanalisi è una teoria e un metodo terapeutico inventato dal medico
viennese Sigmund Freud agli inizi del Novecento. La sua terapia delle malattie mentali
fu una delle prime a basarsi pressoché esclusivamente sulla parola. Viene infatti
generalmente considerato il padre della psicoterapia. Le sue teorie e i suoi metodi
psicologici di cura hanno avuto un’influenza enorme in campo scientifico, filosofico,
sociale e culturale. Mentre Freud perfezionava e correggeva la sua teoria e le sue
tecniche, alcuni dei suoi allievi, seguaci e colleghi idearono teorie e metodi di cura che
pur derivando dalla psicoanalisi se ne differenziavano per vari aspetti. Oggi si parla di
psicoanalisi anche a proposito delle teorie e dei metodi terapeutici di questi altri
psicoterapeuti e di altri diventato noti dopo la morte di Freud. Così si può sentire
parlare, per esempio, di psicoanalisti lacaniani o kleiniani. In realtà oggi è importante
distinguere tra psicoanalisi e psicoterapia analitica, così come fra psicoanalista e
psicoterapeuta.
Le differenze di competenze e formazione fra gli psicoanalisti e le altre
professioni di aiuto sono esposte nella tabella 5.1. È paradossale che le spiegazioni
psicoanalitiche del comportamento umano siano le più note, perlomeno in Italia, e le più
problematiche e infondate dal punto di vista scientifico. È altrettanto paradossale che la
“cura” psicoanalitica sia il tipo di intervento psicologico più noto e praticato quando è
anche il meno versatile, il meno studiato sotto il profilo delle valutazioni di efficacia, il
più complicato, il più lungo e il più costoso. È paradossale anche che la psicoanalisi sia
il principale metodo di cura che viene in mente alla gente quando la psicoanalisi classica
può non essere neppure considerata a rigore un metodo di cura e quando il metodo e le
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
agenzie di formazione dei futuri psicoanalisti non sono a tutt’oggi riconosciuti dalla
Stato italiano come metodi e agenzie di formazione in psicoterapia.
In sintesi, lo Stato italiano riconosce legalmente la figura di psicologo e quella di
psicoterapeuta, ma non quella di psicoanalista, che resta così una professione piuttosto
libera da controlli esterni.
Cenni sulla teoria psicoanalitica
La teoria psicoanalitica freudiana è straordinariamente complessa. Secondo
Freud, la vita è regolata da due principi: il principio del piacere, che domina
specialmente nel primo periodo di vita, spinge la persona a ricercare il più possibile e il
prima possibile la soddisfazione dei bisogni; il principio di realtà, viceversa, porta a
tenere conto di altre esigenze e, quando è necessario, a rimandare la soddisfazione dei
bisogni o a rinunciarvi (almeno in forma diretta).
Freud cambiò più volte teoria su quali fossero le principali forze che fanno agire
l’uomo, ma secondo la concezione più nota l’uomo sarebbe spinto ad agire da due forze
(pulsioni): quella sessuale (o libidica) e quella aggressiva. Anche le azioni che
apparentemente non hanno nulla a che vedere con il sesso o con l’aggressività, come
avvitare una lampadina, sono l’espressione più o meno esplicita e diretta di un impulso
sessuale o aggressivo. L’origine di queste spinte è una parte primitiva, irrazionale e
istintiva della mente chiamata Es, che è presente sin dalla nascita del bambino. L’Es
obbedisce al principio del piacere. Ma poiché il bambino non può dare sfogo come e
quando vuole alle sue pulsioni sessuali e aggressive, poco alla volta si sviluppa una
parte della mente chiamata Io che ha fra le sue principali funzioni quella di mediare fra
le spinte dell’Es e il mondo esterno, agendo secondo il principio di realtà. L’Io comincia
a svilupparsi, seppure molto lentamente, sin dai primi giorni di vita. La terza e ultima
componente della mente umana è il Super-Io. Esso deriva dall’Io e comincia ad
abbozzarsi dopo i primi anni di vita, quando il bambino fa proprie le regole imposte
dalla famiglia e dalla società. Corrisponde grossomodo a ciò che normalmente viene
chiamato coscienza e ha tutte le funzioni morali della personalità. Così l’Io deve tenere
sotto controllo le pulsioni anche per evitare la “disapprovazione” del Super-Io (per
esempio, angoscia, senso di colpa o senso di indegnità).
Secondo Freud non siamo consapevoli di tutto ciò che avviene nella nostra
mente. Alcuni eventi e contenuti mentali – per esempio pensieri, ricordi, desideri, stati
d’animo – sono consci, nel senso che ne siamo consapevoli. Altri passano inosservati
ma se facciamo attenzione possiamo coglierli: essi sono preconsci. Altri ancora sono
inconsci, nel senso che non ne abbiamo alcuna consapevolezza. Ricordi che non
sappiamo ricordare, desideri che non crediamo di avere, intenzioni che giudichiamo a
noi estranee e via dicendo. Attraverso il meccanismo della rimozione, l’Io può
trasformare ciò che è conscio in inconscio o mantenere inconsci certi contenuti psichici.
Ma l’Io, per mediare fra le esigenze dell’Es, del mondo esterno e del Super-Io, può
servirsi di altri meccanismi mentali, chiamati meccanismi di difesa.
Il modo in cui l’Io riesce a gestire le spinte dell’Es e a conciliarle con le
esperienze di vita familiare nei primi anni di vita ha una grande importanza, fra le altre
cose, per la formazione della personalità e per il tipo di problemi psicologici che si
presenteranno nelle fasi successive della vita. A questo proposito sono particolarmente
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
importanti le vicende pulsionali legate alla relazione con il proprio corpo (le fasi orale,
anale e fallica dello sviluppo psicosessuale) e con i genitori (complesso di Edipo).
Spiegazione psicoanalitica dei disturbi mentali
In termini molto generali e approssimativi si può dire che la psicoanalisi spiega i
disturbi mentali e la sofferenza psicologica riconducendo ciò che accade nella vita
attuale del paziente ai conflitti ormai inconsci vissuti nell’infanzia, conflitti che
riguardano le vicende delle pulsioni sessuali e aggressive. Il maggiore o minore
sviluppo delle tre componenti della mente, la capacità dell’Io di tenere a bada i tre fronti
su cui combatte (Es, realtà esterna e Super-Io), i meccanismi di difesa usati e le
particolari esperienze vissute nell’infanzia sono alcuni dei principali fattori che
determinano se, quando e come una persona avrà dei disturbi psicologici quando farà
certe esperienze nella sua vita.
Alcuni limiti della psicoanalisi
Per la prima metà del Novecento la psicoanalisi è stata la principale forma di
psicoterapia e si è diffusa molto anche al di fuori dell’Europa. Ma a partire dagli anni
Quaranta, specialmente negli Stati Uniti, la terapia psicoanalitica e la teoria su cui si
fonda hanno perso progressivamente credito. Molti scienziati e filosofi prestigiosi hanno
sostenuto che la teoria psicoanalitica è in parte sbagliata e in parte infondata e che, in
generale, per molti aspetti non può essere considerata una teoria scientifica.
Contemporaneamente è stata messa in discussione l’efficacia della terapia psicoanalitica
e dai metodi psicoterapeutici più vicini a essa, dimostrando che le persone possono
avere uguali o maggiori probabilità di stare meglio se invece di sottoporsi alla
psicoanalisi aspettano che i loro problemi passino da soli.
L’analisi richiede di recarsi dallo psicoanalista più volte alla settimana per
diversi anni. Così si tratta di un intervento lungo e costoso. Ma il problema maggiore
sembra essere quello dell’incertezza dei risultati. Infatti, oltre a mancare studi scientifici
che ne dimostrino l’efficacia, gli psicoanalisti sembrano spesso disinteressati e
sprezzanti verso il problema della verifica dell’efficacia del loro metodo di cura. Inoltre,
convincono i loro pazienti, senza poterlo dimostrare, che l’andamento dei loro sintomi
non abbia molta importanza ai fini dell’esito della terapia e che il suo obiettivo non deve
essere quello della loro scomparsa o del loro miglioramento. Ciò che accade nel mondo
oggettivo del paziente, nella sua famiglia, nei rapporti con gli altri, nel suo lavoro, è
meno importante dei sogni, dei ricordi e delle fantasie, ed è a su questo piano che si
svolgono gran parte delle conversazioni con lo psicoanalista e dei suoi interventi.
L’andamento della terapia può essere valutato solo dallo psicoanalista che così si trova a
possedere un formidabile strumento di potere.
Accanto alla psicoanalisi sono sorte varie psicoterapie con fondamenti teorici
più solidi e tecniche terapeutiche più efficaci. In generale la durata di queste
psicoterapie è più breve.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Psicoanalisi e legge sulle psicoterapie
Inoltre, i limiti della psicoanalisi per quanto riguarda la capacità di spiegare e
prevedere il comportamento sono oggi evidenti. È da molti anni che esistono teorie
psicologiche molto migliori sotto questo profilo.
Oggi, in Italia, la società che raccoglie la tradizione teorica e psicoterapeutica
freudiana è la Società Psicoanalitica Italiana/SPI. Per la legge italiana la psicoanalisi
non è una psicoterapia e gli psicoanalisti non sono psicoterapeuti. La formazione dei
futuri psicoanalisti, ai quali non è richiesta una laurea in medicina o psicologia ma una
laurea qualsiasi, è regolata in modo autonomo dalla SPI. All’indirizzo Internet
http://www.sicap.it/merciai/training.htm della Società Psicoanalitica Italiana si legge:
“L'Istituto Nazionale del Training (INT) è l'organismo della SPI deputato
alla selezione di coloro che aspirano a diventare Psicoanalisti… Il
programma di training della SPI è stato presentato al Ministero competente
nel dicembre 1994, entro i tempi previsti dalla legge che regolamenta la
pratica della psicoterapia in Italia (No. 56 del 18/2/1989). Ciò allo scopo di
ottenere il riconoscimento dell’idoneità della SPI alla formazione di
psicoanalisti psicoterapeuti. L'INT, insieme a tante altre Scuole di
psicoterapeutica, è tuttora in attesa di una decisione ministeriale normativa e
attuativa che regolarizzi una situazione di carenza applicativa della legge
che dura ormai da anni.”
In effetti, non c’è neppure un consenso fra gli psicoanalisti circa il fatto
che la psicoanalisi debba essere considerata una psicoterapia oppure un mezzo di
conoscenza di sé.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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I vari riferimenti alla psicoterapia che ho fatto fin qui resterebbero troppo oscuri
se non mostrassi attraverso un esempio che cosa si intende per psicoterapia. In questo
capitolo cercherò di mostrare come una certa prospettiva di intervento psicologico – in
questo caso la psicoterapia cognitivo-comportamentale – fornisca allo psicoterapeuta e
al paziente una serie di spiegazioni scientifiche circa la comparsa, il mantenimento e la
riduzione o guarigione dei problemi psicologici nonché una serie di azioni che lo
psicoterapeuta e il paziente possono mettere in atto per riprenderne il controllo.
Mi concentrerò in particolare sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale per
ragioni personali e per ragioni oggettive. Infatti, da un lato questa è la forma di
psicoterapia che conosco meglio e apprezzo di più, dall’altro è la forma di psicoterapia
più studiata, più scientificamente fondata ed è un tipo di intervento dimostratamente
efficace nel trattamento di una gran quantità di problemi psicologici (spesso più di altre
forme di psicoterapia e più degli psicofarmaci). Cercherò di parlarne rispondendo alle
domande e agli interessi più comuni e sacrificando a volte l’esattezza e la completezza
delle informazioni a favore della semplicità e della chiarezza del discorso.
Presupposti
La psicoterapia cognitivo comportamentale è nata dall’applicazione di alcune
teorie psicologiche scientifiche ai problemi umani. Anche se è sempre aperta a ogni
nuovo contributo scientifico che possa essere utile per aiutare le persone a migliorare la
loro condizione di vita, si rifà in modo particolare alla psicologia dell’attenzione, della
percezione, del pensiero, dell’apprendimento, delle emozioni, della famiglia e dei
rapporti con gli altri e con la società.
Le teorie scientifiche e le strategie e i metodi di aiuto su cui si basa la terapia
cognitivo comportamentale sono moltissimi e in continua evoluzione. Pertanto qui
vengono presentate solo alcune caratteristiche generali e comuni alle varie forme di
psicoterapia cognitivo comportamentale; le cause e le spiegazioni dei vari disturbi
mentali verranno presentate in altri lavori su questo stesso sito. Chi fosse interessato a
conoscere gli aspetti teorici delle varie forme di psicoterapia cognitivo comportamentale
può leggere questi altri articoli o consultare le pubblicazioni elencate alla fine di questo
testo.
Un presupposto scientifico fondamentale – che non contraddistingue in modo
specifico la psicoterapia cognitivo comportamentale – è che ciò che chiamiamo “corpo”
e “mente” non siano due cose separate e a sé stanti. Non ha quindi molto senso
distinguere nettamente fra disturbi psicologici e disturbi fisici. Ogni stato di benessere o
di malessere si manifesta, in una certa misura, sia sul piano della struttura e delle
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
funzioni del corpo, sia sul piano dei processi del pensiero, dell’emozione, della
motivazione (cioè della spinta ad agire) e dell’azione. Gli aspetti psicologici e corporei
della salute interagiscono fra loro e con il contesto fisico e sociale in cui la persona vive.
Un altro presupposto fondamentale su cui si basa la terapia cognitivo
comportamentale è che i disturbi psicologici siano in buona parte il frutto
dell’esperienza passata e dell’apprendimento e che, così come sono stati appresi,
possono essere combattuti con opportune esperienze correttive. Per esempio, così come
“si impara ad essere ansiosi”, si può imparare a controllare l’ansia. Con ciò non viene
comunque negato il possibile contributo di fattori biologici e costituzionali nelle varie
forme di sofferenza mentale – per esempio, la predisposizione genetica a soffrire di
certe forme di ansia.
Un contributo importante all’insorgenza e al perdurare dei disturbi psicologici è
dato dal contesto in cui la persona vive: le persone e i luoghi con cui ognuno di noi è o è
stato in contatto contribuiscono notevolmente alla nostra condizione di benessere o di
malessere. Con la terapia cognitivo comportamentale è possibile imparare a controllare
l’influenza del contesto in cui si vive modificandolo o controllandolo. Spesso questo
obiettivo viene raggiunto migliorando la propria capacità di comunicare e di regolare i
rapporti con gli altri.
È possibile anche imparare a limitare gli effetti dannosi di un ambiente (cioè di
certe persone e di certi luoghi) sfavorevole intervenendo su se stessi. In buona parte, i
sintomi dei disturbi mentali dipendono da quanto avviene nella nostra “mente”, cioè da
cosa e da come pensiamo. Ciò che avviene nella nostra mente è in parte frutto delle
esperienze passate e presenti, in parte l’effetto della costituzione biologica e in parte
generato da noi stessi, con “pensieri” e scelte. Quest’ultimo contributo è particolarmente
importante: spesso le persone soffrono per le conclusioni a cui arrivano con i loro
ragionamenti, per i confronti che fanno con gli altri, per le scelte che compiono, per gli
obiettivi che si prefiggono. La terapia cognitivo comportamentale interviene anche sulla
fonte mentale (cognitiva) dei disturbi psicologici insegnando al paziente a identificare,
analizzare e correggere i pensieri falsi, arbitrari o distorti che lo fanno agire in modo
inadeguato e che gli provocano direttamente sofferenza generando stati d’animo
negativi inutili o eccessivi.
Fatti, pensieri ed emozioni
Non sono le cose in sé, i fatti nudi e crudi, che ci fanno stare bene o male, ma è il
modo in cui noi li interpretiamo, cioè che cosa pensiamo di essi. In altre parole il nostro
stato d’animo dipende in gran parte dai nostri pensieri. E poiché in buona parte
possiamo scegliere cosa e come pensare, possiamo anche controllare i nostri stati
d’animo.
Naturalmente ci sono alcuni fatti che non farebbero piacere a nessuno e altri che
sono belli per chiunque. Per esempio, è difficile valutare positivamente la morte di una
persona cara o considerare un amore che sta nascendo come una disgrazia. In alcuni casi
estremi i fatti parlano da sé e la loro interpretazione ha un ruolo minore nel nostro stato
d’animo. Ma anche in questi casi l’intensità e la persistenza degli d’animo negativi o
positivi può essere in parte controllata; per esempio ci si può distrarre da certi pensieri
dedicandosi ad attività interessanti e coinvolgenti. Al di là dei casi estremi, comunque,
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
c’è un’infinità di situazioni e di episodi della vita quotidiana che creano molta
sofferenza e che sono di per se stessi abbastanza ambigui, prestandosi così a
interpretazioni e considerazioni diverse.
Molti di questi episodi e di queste situazioni riguardano il rapporto con le altre
persone. Nel rapporto con gli altri possiamo soffrire molto a causa dei pensieri che
facciamo a proposito delle intenzioni e dei sentimenti di persone per noi importanti, dei
motivi che le hanno indotte a comportarsi in un certo modo. Poiché non possiamo
leggere nella mente degli altri, spesso, quando cerchiamo di spiegarci il loro
comportamento, ci convinciamo di idee arbitrarie e opinabili o del tutto sbagliate,
incoerenti e contraddittorie che causano in noi una sofferenza inutile o spropositata.
Quando pensiamo di avere subito un offesa, un torto o un’ingiustizia tendiamo a
provare rabbia verso la persona responsabile e proviamo il desiderio di eliminarla,
neutralizzarla o nuocerle. E sovente in un modo o nell’altro manifestiamo i nostri
sentimenti di collera e le nostre intenzioni aggressive. Quando pensiamo di aver perso
irrimediabilmente qualcosa di molto importante – per esempio una persona, la stima di
qualcuno che per noi è importante, la salute, un’occasione propizia, un oggetto, la
propria stima di sé, la fiducia negli altri, l’ottimismo – tendiamo a provare sentimenti di
tristezza o di depressione e ci sentiamo privi di iniziativa, stanchi, abbattuti. In questi
casi, dopo aver fatto il possibile per ottenere ciò che ormai è perso, tendiamo a ridurre il
nostro livello di attività e cerchiamo il conforto di qualcuno oppure ci abbandoniamo
all’apatia, con la sensazione che tanto è tutto inutile. Quando crediamo di correre dei
rischi ci sentiamo ansiosi, tesi e spaventati. Se questi sentimenti sono forti, l’impulso
più frequente è quello di evitare ciò che temiamo, e, in effetti, cerchiamo di
neutralizzare il pericolo o di stargli alla larga. Quando ci aspettiamo che accada
qualcosa di desiderato ci sentiamo felici e pieni di energie.
Tutti questi stati d’animo si accompagnano a certi cambiamenti all’interno del
nostro organismo: per esempio, quando si prova paura o collera, il cuore batte più
velocemente, il respiro si fa più frequente, la pressione sanguigna sale, sudiamo e via
dicendo. Le reazioni corporee che si accompagnano ai diversi stati d’animo sono
piuttosto simili fra loro. Ma, mentre i cambiamenti associati, per esempio,
all’eccitamento sessuale o alla gioia non sono quasi mai sgradevoli, ci sono molte
persone che temono certe reazioni corporee, per esempio, quelle associate alla paura e al
panico. Così, quando le persone ansiose sentono l’organismo in subbuglio, temono di
perdere il controllo, impazzire, morire o fare qualche cosa di insensato o pericoloso.
Inoltre, si spaventano per le sensazioni generate da questi cambiamenti del corpo:
capogiri, senso di confusione, stanchezza, dolori, nausea, bisogno di urinare e via
dicendo. Così, spesso i pazienti cercano un aiuto psicologico o psicoterapeutico per
quanto avviene nel loro corpo. In gran parte le reazioni del corpo dipendono, come le
emozioni, dai pensieri che facciamo.
L’intervento sui pensieri dannosi
Poiché molti stati d’animo, impulsi e sensazioni che hanno la caratteristica di essere
sgradevoli, spaventosi, inaccettabili o comunque indesiderati dipendono da come e da
che cosa si pensa, parte dell’intervento cognitivo comportamentale mira a migliorare il
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
modo pensare della persona in cerca di aiuto. L’intervento si articola grossomodo nelle
fasi seguenti.
–
–
–
–
Innanzitutto il terapeuta spiega al paziente come i pensieri possano influire su ciò
che si prova, si desidera e si fa. Gli mostra come distinguere i pensieri utili, che
producono stati d’animo e azioni positive, da quelli dannosi, che producono
emozioni e azioni negative. Lo aiuta anche a rendersi conto di come a volte il nostro
modo di ragionare non sia del tutto logico e basato sui fatti e di come i problemi
psicologici possano dipendere da questi pensieri distorti o falsi. Dimostra anche
come spesso esistano pensieri alternativi a quelli che provocano sofferenza e come
questi pensieri alternativi possano essere più razionali, veritieri o utili.
Poi il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere quali sono i suoi pensieri nelle
situazioni in cui prova stati d’animo negativi o fa cose che non vorrebbe fare. Senza
rendersene perfettamente conto, infatti, ognuno di noi dialoga con se stesso dentro la
sua mente e commenta ciò che accade. Inoltre, spesso, specialmente nelle situazioni
difficili, la nostra mente è attraversata da pensieri velocissimi che si presentano in
forma semplificata e abbreviata e che prendiamo per buoni senza neanche provare a
valutarli. Non siamo del tutto consapevoli di questi pensieri ma possiamo diventarlo
con un po’ di allenamento. È in questo dialogo interno e in questi pensieri che si
nasconde buona parte delle cause dei disturbi psicologici o psichiatrici.
Una volta individuati i pensieri critici – quelli che provocano gli stati d’animo e le
azioni indesiderati – il terapeuta, ponendo certe domande e consigliando al paziente
di fare la prova a comportarsi in un certo modo, aiuta il paziente a giudicare tali
pensieri spassionatamente e realisticamente, a metterli alla prova. Se ci si rende
conto che, in effetti, il contenuto di questi pensieri è sbagliato, illogico, arbitrario o
controproducente, paziente e terapeuta vanno alla ricerca di pensieri più adeguati. Se
il paziente è realmente convinto che le sue interpretazioni, i suoi giudizi, le sue
previsioni o i suoi timori erano infondati, irrealistici o controproducenti, e che c’è un
modo migliore e più salutare di vedere le cose, prova subito una sensazione di
sollievo.
A questo punto, il paziente comincia ad allenarsi a mettere in discussione i suoi
pensieri distorti e dannosi nelle stesse situazioni in cui essi si affacciano alla sua
mente e a sostituirli con i pensieri più adeguati che in parte ha identificato col
terapeuta e in parte ha imparato a riconoscere da sé. Se l’allenamento è costante, il
nuovo modo di pensare diventa un automatismo e, se la terapia è ben riuscita, il
paziente impara a controllare in generale il suo modo di pensare e di agire,
applicando i principi e i metodi imparati anche alle altre situazioni emotivamente
difficili che incontrerà in futuro.
Distorsioni cognitive
Nella ricerca dei pensieri controproducenti, il terapeuta e il paziente possono servirsi
dei risultati dello studio di molti altri casi simili. Così, diversi psicoterapeuti cognitivo
comportamentali hanno identificato le idee irrazionali e distorsioni del pensiero che
sono alla base di gran parte della sofferenza umana. A titolo di esempio elenco di
seguito alcune distorsioni del pensiero che possono provocare collera e azioni
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
controproducenti nei rapporti di coppia. Si tratta delle “distorsioni cognitive”
identificate dallo psicoterapeuta A.T. Beck:
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“Visione a tunnel. Quando si cade in questo meccanismo, si vedono soltanto le
caratteristiche del partner coerenti con un determinato atteggiamento o stato
d’animo. Per esempio, quando si è arrabbiati può essere difficile ricordare i momenti
piacevoli trascorsi insieme.
Deduzione arbitraria. A partire dal comportamento del partner deduciamo qualche
cosa di completamente sbagliato su di lui. Per esempio, un uomo è di buon umore e
canticchia spensieratamente; la moglie, senza alcun motivo plausibile, pensa: “Lo fa
per farmi arrabbiare”.
Generalizzazione eccessiva. Si tratta di una percezione distorta del comportamento
del coniuge in cui vengono generalizzati i suoi aspetti negativi. Si prende spunto da
uno o pochi episodi per trarre la conclusione che si tratta di un comportamento
tipico o generalizzato. Per esempio, un giorno un uomo non bacia sua moglie al
rientro a casa; lei pensa “Non mi dà mai dimostrazioni di affetto”. Una moglie sotto
stress dimentica di svolgere una commissione per il marito; il marito borbotta fra sé
e sé: “Pensa solo a se stessa, è sempre così”. Nei pensieri in cui c’è una
generalizzazione eccessiva compaiono parole come “tutto”, “niente”, “mai”,
“sempre”, “ogni”, “nessuno”.
Pensiero tutto o niente. È la distorsione per cui non si riescono a cogliere le
sfumature e le vie di mezzo delle situazioni; le cose appaiono buone o cattive,
bianche o nere, possibili o impossibili, perfette o inaccettabili. Un esempio di
pensiero “tutto o niente” è: “O andiamo sempre d’accordo oppure vuol dire che il
nostro rapporto non può funzionare”.
Esagerazione. È la tendenza a vedere le cose peggio di quello che sono. A una cena
con amici un marito corregge la moglie, che parlando ha detto un’inesattezza. Lei
prova un misto di vergogna e rabbia pensando: “Non posso sopportare questa
terribile umiliazione!”.
Spiegazioni prevenute. Si ha una spiegazione pronta, di tipo negativo, per molte
cose che il partner fa. Per esempio, un giorno una moglie fa la spesa in una bella
rosticceria del centro; il marito non riesce a vedere nessun motivo positivo alla base
di ciò e pensa: “Non fa attenzione alle spese”. Se la stessa donna avesse comprato le
solite cose da mangiare, lui avrebbe pensato: “Non le interessa che potrebbe farmi
piacere una volta tanto mangiare qualcosa di speciale”.
Etichette negative. È un meccanismo analogo al precedente, e in questo caso il
motivo del comportamento sgradito del partner sta in una sua caratteristica generale
negativa. Esempi: “Fa così perché è stupido/uno zotico/egoista/ecc.”.
Personalizzazione. È la tendenza a pensare spesso che il partner voglia dimostrarci
qualche cosa con il suo comportamento, trascurando la possibilità che l’altro agisca
senza neppure pensare a noi. Per esempio, se la moglie tace, il marito è convinto che
lei stia meditando qualcosa contro di lui; se torna a casa in anticipo rispetto al
previsto, lui pensa che lo voglia controllare; se non si trucca, lui pensa che a lei non
interessi piacergli.
Lettura del pensiero. Si è vittime di questa distorsione quando, nonostante le
smentite del partner, si è fermamente convinti di sapere che cosa lui/lei provi, pensi,
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
–
voglia. Può accadere anche l’inverso; in questo caso ci si aspetta che l’altro sappia
già quello che noi pensiamo, proviamo, volgiamo senza bisogno di dirglielo.
Ragionamento soggettivo. È la tendenza a credere che, poiché io provo uno stato
d’animo negativo, l’altro deve aver fatto qualcosa di male che giustifichi tale stato
d’animo. In altre parole, si cerca all’esterno l’origine di stati d’animo negativi che si
giustificano invece sulla base di eventi interiori. Esempi: “Siccome mi sento gelosa
lui deve aver avuto qualche scappatella”, “Se io sono di cattivo umore è perché lei
mi ha trattato senza rispetto”, “Se sono triste, vuol dire che il mio partner non mi
vuole bene”.”
(Lo Iacono, 1999, pp. 196-198)
Tecniche di intervento
Le tecniche della terapia cognitivo comportamentale sono numerosissime e non
possono essere elencate qui in modo completo. La scelta di quelle da applicare con un
dato paziente dipende, fra le altre cose, dal problema su cui si vuole intervenire, dalle
caratteristiche del paziente e dalle preferenze teoriche e pratiche del terapeuta.
Nella sezione “L’intervento sui pensieri dannosi” ho descritto un procedimento
generale piuttosto comune nelle varie forme di terapia cognitivo comportamentale. Per
identificare le idee o i pensieri dannosi il terapeuta può proporre al paziente l’utilizzo di
una specie di diario strutturato, che verrà utile anche nella fase della discussione e della
sostituzione di tali idee pensieri. In genere, in questo diario il paziente annota: giorno,
ora e luogo dell’episodio in cui si è verificato il suo problema, il tipo e l’intensità dei
sentimenti negativi provati, le caratteristiche della situazione in cui ha provato tali
sentimenti (cosa stava facendo in quel momento, chi c’era vicino a lui, ecc.), i pensieri
fatti subito prima di provare tali sentimenti, le azioni svolte subito dopo. In una fase
successiva della terapia, il paziente prenderà anche nota di come si è sentito, in quella
stessa circostanza, dopo aver provato a fare dentro di sé il tipo di considerazioni fatte
con lo psicoterapeuta a proposito dei pensieri dannosi.
Durante le sedute con lo psicoterapeuta, la fase dell’analisi critica e della
discussione dei pensieri dannosi avviene attraverso un particolare uso delle domande
che porta il paziente ad “aprire gli occhi” sulla veridicità e sulla razionalità del suo
modo di interpretare gli episodi e le situazioni della sua vita.
Allo stesso scopo possono essere utilizzati anche degli “esperimenti” in cui il
paziente è invitato a constatare personalmente, agendo nel modo suggerito dallo
psicoterapeuta, se certi fatti che lui si aspetta, e la cui previsione provoca sofferenze
inutili, avvengono realmente e se, quando tali fatti avvengono effettivamente, hanno
veramente le conseguenze che ci si immaginava avrebbero avuto.
Nelle forme di terapia cognitivo comportamentale più orientate all’azione, i
nuovi modi di agire non sono solo oggetto di discussioni con lo psicoterapeuta, ma
sovente il paziente impara nuovi comportamenti osservando un modello – talvolta lo
stesso psicoterapeuta – che agisce ed esprime ad alta voce i suoi pensieri. Inoltre, il
paziente può cominciare a mettere in pratica i nuovi comportamenti nello studio dello
psicoterapeuta, nel corso di simulazioni in cui si cerca di ricreare le situazioni in cui il
paziente dovrà effettivamente agire. Tutto ciò aiuta sviluppare stili di pensiero e di
comportamento efficaci.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Spesso nello studio dello psicoterapeuta cognitivo comportamentale si
apprendono metodi per controllare le reazioni emotive e fisiologiche alle situazioni
stressanti (per esempio, si impara a controllare i sentimenti di collera o di paura e le
reazioni fisiologiche concomitanti) e poi si provano questi metodi nelle situazioni reali
della vita quotidiana. Il controllo emotivo e fisiologico viene spesso raggiunto anche
con l’apprendimento di tecniche di rilassamento basate sulla respirazione, il
rilassamento muscolare e l’uso di immagini mentali e di certi pensieri.
Spesso lo psicoterapeuta suggerisce al paziente alcune esperienze da compiere
fra una seduta e l’altra. Lo scopo può essere, per esempio, quello di provare nuovi modi
di agire, proseguire l’esercizio di una qualche capacità appresa nello studio, fare nuove
scoperte su di sé o sulle persone importanti della propria vita. Così, parte del tempo
della seduta psicoterapeutica può essere utilizzato per analizzare l’effetto che hanno
avuto i “compiti comportamentali”, raggiungere conclusioni sulle esperienze fatte,
modificare ciò che eventualmente non ha funzionato, escogitare nuovi comportamenti
da esplorare o passare alla fase successiva di un programma di apprendimento di nuove
abilità.
Cause passate e presenti
La psicoterapia cognitivo comportamentale – tranne alcune eccezioni – non
ricerca le cause del malessere presente nel passato lontano del paziente; se una persona
sta male ora, vuole dire che c’è attualmente in lei e/o nel suo ambiente (i luoghi e le
persone con cui passa ogni giorno il suo tempo) qualcosa che la fa stare male. Si può
soffrire per qualcosa che è avvenuto in passato, ma solo fintanto che questi episodi o
condizioni di vita del passato continuano a essere presenti nella mente della persona –
per esempio, sotto forma di ricordi, paure, previsioni sul futuro, idee su di sé, sugli altri,
sul mondo. Ed è su questi elementi psicologici presenti che interviene la psicoterapia
cognitiva e comportamentale.
Atteggiamento del terapeuta verso il paziente
Anche se ognuno ha un suo personale modo di fare e sue convinzioni circa
l’atteggiamento più opportuno per ogni cliente specifico, in generale nell’atteggiamento
dello psicoterapeuta cognitivo comportamentale si possono individuare alcune costanti:
–
Il terapeuta tratta il paziente come un esperto del suo problema e considera se stesso
come un esperto dei percorsi di cambiamento e di soluzione dei problemi
psicologici. Fra i due deve nascere un rapporto di collaborazione reciproca. Il
terapeuta è come una guida alpina che accompagna uno scalatore. Conosce le varie
vie che portano alla meta e ha già seguito vie diverse con persone diverse. Sa quale
via è alla portata di un certo scalatore, nella misura in cui quest’ultimo ha descritto
accuratamente o ha permesso di osservare i suoi punti di forza e i suoi punti deboli.
Sa quali sono le probabili reazioni e difficoltà che gli scalatori incontrano lungo le
vie. Conosce i punti più difficili del percorso e aiuta ad affrontarli con suggerimenti
pratici e aiuto morale. Vede dove si trova lo scalatore, quanta strada c’è ancora da
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
–
–
–
fare e che cosa lo aspetta. Ma non può in alcun modo sostituirsi allo scalatore:
dev’essere quest’ultimo ad arrampicarsi muovendo faticosamente il suo corpo.
Il terapeuta tratta ogni paziente come una persona unica e differente dalle altre.
Accetta le eventuali differenze rispetto al paziente – per esempio, sul piano delle
convinzioni, dell’ideologia, della cultura, della fede religiosa o dell’orientamento
etero- o omosessuale –, si dimostra rispettoso, non dà giudizi e non interviene su
nessuno di questi aspetti – a meno che ciò non faccia parte di un progetto
concordato esplicitamente con il cliente. Ascolta attentamente tutto ciò che il cliente
dice e cerca di cogliere nel modo più profondo e autentico tutti i suoi bisogni e i
risvolti psicologici e umani delle sue vicende. Manifesta la sua comprensione e la
sua solidarietà (se realmente comprende e si sente solidale).
Il terapeuta ha un ruolo attivo, nel senso che oltre ad ascoltare, pone molte domande,
propone e cambia gli argomenti di conversazione, dà spiegazioni e suggerimenti e
può parlare di sé e di altre persone. È attivo anche nel senso che si adopera
attivamente perché il paziente migliori la sua situazione, invece di aspettare che il
paziente cambi da sé ascoltandosi mentre parla.
In generale, terapeuta e paziente stanno seduti uno di fronte all’altro o uno acanto
all’altro come in una normale conversazione. Una delle poche eccezioni è
l’insegnamento di una procedura di rilassamento (per esempio, training autogeno,
rilassamento muscolare profondo o ipnosi), che può richiedere, anche se non
necessariamente, che il paziente si sdrai o si sieda comodamente su una poltrona.
Conclusione della terapia
In linea di massima la terapia si conclude quando paziente e terapeuta giudicano
soddisfacenti i risultati raggiunti. In genere gli obiettivi vengono concordati
esplicitamente con il paziente e consistono nel miglioramento significativo o nella
soluzione di una situazione psicologica o di vita che arreca sofferenza al paziente o alle
persone a lui care – per esempio, non sentirsi più depressi, non avere più paura di una
certa cosa, provare meno ansia, vincere la timidezza, non sentirsi in tensione sul lavoro,
riuscire a studiare con profitto, ridurre i litigi con il partner, avere rapporti sessuali
soddisfacenti e via dicendo. In ogni caso, parte della terapia consiste nel preparare la
persona ad affrontare efficacemente altri problemi simili qualora si dovessero
ripresentare e nel migliorare in generale la capacità di risolvere autonomamente le
difficoltà psicologiche e relazionali della vita. Spesso l’ultima fase della psicoterapia è
dedicata alla prevenzione delle ricadute: come affrontare le situazioni difficili che si
ripresenteranno e fare in modo che il problema non ricompaia.
Durata della terapia
La psicoterapia cognitivo comportamentale ha una durata limitata. Normalmente
non dura per anni. Benché sia impossibile fare previsioni che valgano per ogni persona,
per ogni problema e per ogni incontro fra paziente e terapeuta, gran parte dei più
frequenti problemi psicologici (per esempio, disturbi d’ansia e depressione) possono
essere risolti o migliorati nell’arco di pochi mesi. Dopo aver valutato accuratamente i
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
problemi e la situazione del cliente, il terapeuta fissa con il cliente gli obiettivi della
terapia ed è in grado di stimarne approssimativamente la durata.
Può accadere che nel corso della terapia si concordino obiettivi nuovi. In questo
caso la durata si modifica.
Chi partecipa alla terapia
La psicoterapia cognitivo comportamentale si svolge in forma individuale
(paziente e terapeuta), di coppia o di gruppo. Nella terapia individuale e di coppia, in
particolare, possono esserci delle sedute a cui partecipano solo o anche altre persone che
hanno un ruolo importante nel problema del paziente o della coppia: per esempio, alcuni
familiari. Il coinvolgimento di altre persone viene concordato con il paziente o la
coppia. I familiari e le altre persone significative per la persona o per la coppia in
terapia possono dare al terapeuta informazioni utilissime per comprendere e risolvere i
problemi; inoltre, possono partecipare alla terapia facilitando la soluzione dei problemi
con il loro contributo, per esempio, modificando il loro atteggiamento verso una certa
persona, modificando certe loro convinzioni, facendo o non facendo certe cose indicate
dal terapeuta.
Dove si svolge la terapia
Le sedute si svolgono perlopiù nello studio del terapeuta. In certi casi, a seconda
del problema del paziente e della disponibilità del terapeuta, alcune fasi della terapia
possono richiedere che il terapeuta accompagni il paziente in certi posti per osservare
dal vero come e dove si svolgono certi eventi che per il paziente costituiscono un
problema, oppure per sostenere e guidare il paziente mentre affronta alcune situazioni
difficili – per esempio, nel caso di certe fobie, il terapeuta sta vicino al paziente mentre
questi prova ad affrontare concretamente ciò che teme. A seconda delle esigenze del
paziente e della terapia possono esserci contatti telefonici, epistolari, via Internet, ecc.
Frequenza degli incontri
Le sedute hanno in genere una cadenza settimanale, ma, a seconda del caso
specifico e della fase della terapia in cui ci si trova, possono occasionalmente diventare
più frequenti o diradarsi. Spesso nella fase conclusiva della terapia si diradano
progressivamente. In ogni caso la frequenza degli incontri è abbastanza flessibile e tiene
conto delle specifiche esigenze del paziente.
L’efficacia della terapia cognitiva e comportamentale
Gli psicologi e gli psicoterapeuti cognitivo comportamentali si sono sempre preoccupati
di dimostrare scientificamente l’efficacia dei loro metodi di intervento. Sono stati
condotti moltissimi studi ed esperimenti in cui questa forma di psicoterapia è stata
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
confrontata con gli effetti di altre forme di psicoterapia, del semplice passare del tempo,
di varie forme di biblioterapia, di psicofarmaci e di trattamenti placebo, o di altre
esperienze formative o correttive. È impossibile sintetizzare qui questi dati, ma ciò che
emerge è una notevole efficacia in un gran numero di disturbi psichiatrici e di altre
forme di sofferenza psicologica e psicosomatica. Un elenco incompleto delle condizioni
trattate con successo comprende: gli effetti dello stress, la depressione, l’ansia, le fobie,
i disturbi ossessivo-compulsivi, gli attacchi di panico, l’anoressia e la bulimia nervosa,
le disfunzioni sessuali e i problemi di coppia, l’alcolismo e le dipendenze. In molti casi
– per esempio, in certe forme di depressione e nel disturbo da attacchi di panico con
agorafobia – la terapia cognitivo comportamentale si dimostra più efficace del
trattamento con psicofarmaci o con altre forme di psicoterapia. In ogni caso, il successo
di ogni terapia dipende da una complessa serie di fattori, fra i quali le caratteristiche del
paziente e del terapeuta, il tipo e la gravità del disturbo, la possibilità di modificare le
condizioni oggettive di stress.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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L’“economia globale” delle relazioni
Prima di accennare, nel prossimo paragrafo, alle differenze tra psicoterapia
individuale, di coppia, familiare e di gruppo vale la pena fare una premessa che
permette di cogliere meglio il senso degli interventi sulla coppia e la famiglia.
Una tendenza moderata ad attribuire agli altri o alle circostanze esterne la
responsabilità di ciò che ci disturba può essere funzionale al mantenimento della propria
autostima. Se non altro serve a limitare il rischio opposto: quello di addossarsi le colpe
di tutto e soffrire costantemente di sentimenti colpa, vergogna o inadeguatezza. Quando
però questa tendenza è eccessiva ci impedisce di capire qual è il nostro contributo
personale alla creazione e al mantenimento di condizioni dolorose o ostacolanti, che
possono essere esterne o interne a noi. Così, se il nostro contributo è importante e non
facciamo niente per cambiare, i problemi persistono.
La tendenza a dire che è l’altro ad avere dei problemi (ad avere un caratteraccio
o a essere matto, isterico, nevrotico, aggressivo e via dicendo) si riscontra spesso nelle
situazioni di conflitto interpersonale; per esempio fra partner, fra genitori e figli e fra
insegnanti e alunni. Non di rado la persona che finisce in cura dallo specialista – anche
se presenta oggettivamente segni di sofferenza o comportamenti inconsueti – è solo una
delle persone coinvolte in una relazione disturbata. Viene mandata dallo specialista con
l’aspettativa che “migliori” e non crei più problemi. Ma il problema vissuto da questi
pazienti è solo un aspetto di un problema che coinvolge la relazione fra più persone.
Anche i dissidenti politici vengono considerati matti o pericolosi in certi regimi
autoritari. Ma nella famiglia, nella coppia o nella classe il paziente può non essere
consapevole di subire gli effetti negativi di una relazione disturbata, specialmente se si
tratta di un bambino, un adolescente o una persona poco istruita, e chi manda il paziente
dallo specialista lo fa in genere in perfetta buona fede, senza rendersi conto di qual è il
proprio contributo al suo disagio. Così, quando lo psicologo o lo psicoterapeuta vuole
coinvolgere nel suo intervento anche le altre persone coinvolte nella relazione
disturbata, il genitore, il partner “sano” o l’insegnante – per continuare con i nostri tre
esempi – possono non capire e sentirsi accusati, offesi e indignati. Ciò che si stenta a
capire in questi casi è che non si è chiamati sul banco degli imputati a un processo, ma
si è chiamati a collaborare al funzionamento di una relazione che riguarda in prima
persona. Ognuno di noi è parte di qualcosa – un gruppo – che da un certo punto di vista
funziona come un tutto, come un organismo. A volte cercare di risolvere i problemi
psicologici di una persona senza occuparsi di certi altri individui in stretta relazione con
lei sarebbe come cercare di analizzare e modificare l’economia italiana senza tenere
conto dell’andamento dell’economia internazionale.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Psicoterapia individuale, di coppia, familiare, di gruppo
Psicoterapia individuale
Nella psicoterapia individuale il processo di cura coinvolge principalmente due
persone: chi è afflitto dai problemi psicologici e/o psicofisiologici e lo psicoterapeuta.
Ad alcuni colloqui possono partecipare anche uno o più familiari o altre persone che
hanno un rapporto stretto con il paziente, principalmente allo scopo di fornire
informazioni allo psicoterapeuta e di ottenere indicazioni di comportamento per favorire
la cura. Quando il paziente è un bambino o un adolescente, lo psicoterapeuta può
convocare i genitori anche per molte sedute, fino al punto di condurre l’intervento solo
su di loro; questo sia per i motivi suddetti, sia perché il bambino può essere un elemento
di disaccordi e conflitti fra i genitori e per risolvere alcune difficoltà del bambino può
essere opportuno risolvere prima i motivi di tensione nella coppia di genitori. Nel caso
dei bambini inoltre può essere molto più economico ed efficace migliorare certe
capacità educative e comunicative dei genitori, che vivendo costantemente a contatto
con il figlio possono influire maggiormente su di lui, che non intervenire sul diretto
interessato.
Psicoterapia di coppia
La terapia di coppia è un intervento che coinvolge principalmente tre persone:
una coppia di individui uniti da un legame coniugale o affettivo importante, che
attraversa un periodo di difficoltà che vorrebbe provare a risolvere senza giungere a una
separazione definitiva, e uno psicoterapeuta. In altre parole, lo scopo della terapia di
coppia è quello di cercare modalità di rapporto più soddisfacenti per entrambi i partner
per migliorare la qualità della loro relazione. Vale la pena ribadire che due presupposti
importanti, necessari ma non sufficienti per la buona riuscita dell’intervento, sono: 1)
tutti e due i partner preferirebbero cercare una soluzione dei loro problemi all’interno
della coppia, cioè senza interrompere il rapporto; 2) c’è stato un periodo in cui le cose
fra loro funzionavano in modo soddisfacente per entrambi. Uno o entrambi i partner
potrebbero avere bisogno, mentre partecipano a una terapia di coppia, di avere colloqui
psicoterapeutici in modalità individuale (o di gruppo). In genere questi colloqui
individuali non vengono condotti dallo stesso psicoterapeuta che conduce la terapia di
coppia.
La sessualità ha spesso – anche se non sempre – un ruolo importante nei
problemi di coppia. Le difficoltà e le insoddisfazioni legate ai rapporti sessuali
all’interno del rapporto a due tendono a ridurre il livello di soddisfazione per il partner e
per la relazione. D’altra parte, le insoddisfazioni reciproche, i conflitti, le difficoltà di
comunicazione, i rancori tendono a ridurre la soddisfazione per i rapporti sessuali con il
partner. Anche se alcune disfunzioni sessuali – come, per esempio, le difficoltà di
erezione – possono essere dovute a un problema di carattere medico, più in generale le
nostre reazioni sessuali nonché il piacere che si ricava e che si riesce a dare attraverso la
sessualità dipendono moltissimo dalla qualità del rapporto di coppia e dallo stato
psicologico personale. E poiché anche lo stato psicologico personale – per esempio, il
senso di sicurezza e l’autostima – dipende molto dalla qualità del rapporto di coppia,
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
ecco che diviene chiaro come i sentimenti, gli atteggiamenti e i comportamenti reciproci
fra partner siano spesso il terreno su cui vanno ricercate la cause e le soluzioni di molte
difficoltà sessuali. Quando, per esempio, un uomo non riesce a mantenere abbastanza a
lungo l’erezione nei rapporti sessuali con la compagna – oppure raggiunge l’orgasmo
troppo lentamente o troppo velocemente rispetto alle esigenze del partner – mentre non
ha avuto di queste difficoltà con altri partner e tutto funziona normalmente durante la
masturbazione, le difficoltà di quest’uomo possono essere considerate un problema di
coppia, cioè legato alla specifica relazione in atto con la partner. In casi come questo è
abbastanza chiaro che il problema non è “in una persona” ma nel rapporto fra una
persone e l’altra.
Psicoterapia familiare
La terapia familiare coinvolge una famiglia e uno psicoterapeuta4. In genere la
persona che sembra afflitta da problemi psicologici è una; i familiari vengono coinvolti
sia per i motivi indicati a proposito del coinvolgimento dei genitori nella terapia di un
bambino o un adolescente, sia perché possono essere in atto processi comunicativi che
vanno analizzati e modificati intervenendo su tutto il gruppo.
Alcuni psicoterapeuti – essenzialmente quelli di orientamento sistemicofamiliare – lavorano sempre, o quasi, con tutta la famiglia dei loro pazienti. Gli
psicoterapeuti di altri indirizzi, per esempio quelli di orientamento cognitivocomportamentale, coinvolgono la famiglia solo quando hanno verificato che nel caso
specifico in questione l’intervento sarebbe più efficace se coinvolgesse alcuni o tutti i
familiari.
Psicoterapia di gruppo
La psicoterapia di gruppo è un intervento che coinvolge un gruppo di persone
che non si conoscono fra loro ma che sono accomunate da problemi analoghi e uno o
due psicoterapeuti. Il gruppo può avere un numero variabile di persone ma si tratta in
genere di un piccolo gruppo composto da 6-10 persone. È una modalità alternativa a
quella della psicoterapia individuale. È economicamente più vantaggiosa sia per il
paziente che per lo psicoterapeuta. Inoltre la presenza di più persone può essere in vari
modi utilizzata per favorire esperienze e apprendimenti che difficilmente potrebbero
avvenire sotto il controllo dello psicoterapeuta nel contesto di una psicoterapia
individuale. Naturalmente il tempo che lo psicoterapeuta può dedicare a ognuno si
riduce notevolmente. La terapia di gruppo può essere parte di un progetto
psicoterapeutico che comprende anche fasi di psicoterapia individuale o secondo altre
modalità
Integrazione di psicoterapia e psicofarmaci
4
In realtà alcuni psicoterapeuti di orientamento sistemico-familiare conducono la psicoterapia familiare
in due.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
In molti casi la combinazione di psicoterapia e psicofarmaci sembra più efficace
di ognuno dei due trattamenti considerati isolatamente, in particolare in alcune forme di
depressione e di ansia.
Per alcuni disturbi e per alcuni individui può essere indicato il trattamento
farmacologico. Per esempio, a una persona con una depressione grave conviene
assumere psicofarmaci considerata la rapidità dell’effetto che può ottenere e il rapporto
fra essa e i costi.
Tuttavia, nel caso di alcuni pazienti il trattamento farmacologico da solo non
prende di mira, o non permette di risolvere, i problemi psicologici sottostanti. Lo studio
della frequenza delle ricadute alla fine del trattamento farmacologico dimostra che sul
periodo medio e lungo continuano a stare bene le persone che oltre a prendere i farmaci
hanno fatto anche una psicoterapia.
Una conclusione ragionevole che è possibile trarre a questo proposito sembra
essere: prova con la terapia integrata se una delle due terapie da sola non basta.
Molti trattamenti psicologici possono essere più efficaci se i pazienti ricevono
anche i farmaci. Questo potrebbe dipendere dal fatto che i pazienti divengono
accessibili all’intervento psicologico, in quanto alcuni dei loro sintomi più gravi
vengono aggrediti farmacologicamente. Inoltre alcuni dati indicano che il trattamento
psicologico aggiuntivo migliora la risposta alla farmacoterapia, in alcuni casi perché
aumenta il rispetto delle prescrizioni del medico (per es., Roth e Fonagy, 1997).
Psicoterapie che si sono dimostrate efficaci
Come si è detto, esistono numerose scuole di pensiero in psicoterapia alle quali
corrispondono differenze sul piano operativo. Da alcuni decenni, specialmente negli
Stati Uniti, certe compagnie di assicurazione private, vedendo che i loro clienti
pretendevano rimborsi per le cure psicoterapeutiche ricevute, si sono poste il problema
di stabilire quali cure servissero, quali meno e quali fossero del tutto inutili, in modo da
evitare di rimborsare cure inefficaci o eccessivamente lente e dispendiose. Così hanno
cominciato a finanziare una serie di ricerche in cui alcune forme di psicoterapia
venivano messe a confronto con gli effetti del semplice trascorrere del tempo. Le
ricerche effettuate hanno permesso di stabilire che in generale la psicoterapia serve e
può essere utile quanto è più degli psicofarmaci.
Appurato questo, resta da stabilire quali forme di psicoterapia siano più indicate
per certi tipi di problematiche. In questi confronti a volte sono stati inseriti anche gli
psicofarmaci. Questo tipo di valutazioni è tutt’ora in corso e ha già prodotto diversi
risultati (vedi per es., Roth e Fonagy, 1997).
All’interno di alcune di scuole psicoterapeutiche sono stati preparati manuali
operativi in cui vengono descritte nel modo più oggettivo possibile le linee guida per la
corretta applicazione di quell’approccio a un certo tipo di problematiche psicologiche.
Così, per esempio, esiste un manuale che descrive la corretta applicazione della terapia
cognitivo-comportamentale alla depressione. L’esistenza di questi manuali permette di
valutare le psicoterapie in modo più valido. Infatti se esiste un modo corretto di fare,
ammettiamo, la terapia cognitivo-comportamentale della depressione, si può anche
valutare se, nel corso di uno studio di confronto fra terapie diverse, gli psicoterapeuti
impegnati nella terapia cognitivo-comportamentale di un paziente depresso stanno
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
facendo bene ciò che devono fare (se non lo facessero bene, non si potrebbe poi
imputare l’eventuale insuccesso alla terapia, ma andrebbe attribuito al terapeuta). Questi
manuali sono piuttosto utili anche per altri motivi. Uno dei principali è che facilitano il
progresso dei metodi psicoterapeutici poiché una volta individuati gli “ingredienti” se
ne può valutare l’utilità e si possono sperimentare variazioni e integrazioni per vedere se
l’efficacia cambia. Inoltre sono utili per l’insegnamento e l’apprendimento della
psicoterapia, poiché costituiscono dei punti di riferimento precisi a cui gli aspiranti
psicoterapeuti possono o dovrebbero appoggiarsi.
La tabella 9.1 è una sintesi dei risultati di molti studi scientifici di valutazione
dell’efficacia di certi tipi di psicoterapia per certi tipi di disturbi mentali (costruita con
informazioni tratte da Roth e Fonagy, 1997).
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Tabella 9.1 Il simbolo
accompagnato dal carattere in tondo indica che è stato dimostrato chiaramente
che il trattamento è efficacie. Il simbolo accompagnato dal carattere in corsivo indica che il trattamento
si è dimostrato promettente o che si dispongono a riguardo di prove di efficacia parziali. I trattamenti che
rientrano nella categoria generale della psicoterapia cognitivo-comportamentale vengono indicati con un
asterisco *. Accanto alle diagnosi psichiatriche viene indicato il paragrafo in cui si trova la descrizione
corrispondente; si tenga presente che in questa tabella si parla di disturbi mentali, quindi di problemi
psicologici che hanno raggiunto un certo livello di gravità – vedi capitolo sesto. La corretta
interpretazione di questa tabella richiede di tenere conto di molte considerazioni riportate nel libro da cui
è tratta (Roth e Fonagy, 1997).
Problema trattato
Depressione
(cap. 1, “Tristezza e sindrome
depressiva”)
Terapia dimostratasi efficacie
Terapia cognitivo-comportamentale*
Psicoterapia interpersonale
Psicoterapia psicodinamica
Benché i dati indichino in via provvisoria che gli interventi psicologici
sono in qualche misura vantaggiosi, in particolare in quanto
Disturbo bipolare
contribuiscono ad aumentare il rispetto delle prescrizioni di farmaci e a
(alternanza di stati di
ridurre l’ospedalizzazione, è necessario tenere presente che la loro base
depressione e mania, vedi cap.
di ricerca è estremamente limitata. Sarà dunque necessario attendere gli
1)
esiti di sperimentazioni più concrete ancora in corso per giungere a
conclusioni più attendibili.
Terapia di esposizione per fobie specifiche (cap. 1, paragrafo
omonimo) e sociali (cap. 1, “Avere a che fare con altre persone”) e per
agorafobia/panico (cap. 1, “A volte perdo il controllo e ho paura di
impazzire o di morire” e “Sentirmi male in un posto insicuro”)*
Terapia cognitiva combinata con esposizione per la fobia sociale*
Terapia cognitivo-comportamentale per i disturbi di panico con o
senza agorafobia*
Ansia
Terapia di controllo del panico*
Terapia cognitivo-comportamentale per i disturbi d’ansia
generalizzata* (cap. 1, “C’è sempre qualcosa che mi preoccupa”)
Rilassamento applicato*
Tensione applicata ed esposizione per la fobia del sangue/delle
ferite*
Esposizione e prevenzione della risposta*
Disturbi ossessivoRistrutturazione cognitiva e terapia razionale- emotiva in
compulsivi
(presenza di ossessioni e/o
combinazione con esposizione*
compulsioni di una certa
gravità. Vedi cap. 2,
rispettivamente, “Non riesco a
frenare/mandare via certi
pensieri” e “So che è assurdo
ma mi sento costretto a ...”)
Stress inoculation therapy in combinazione con tecniche cognitive
Disturbo post-traumatico da
ed esposizione*
stress
(cap. 1, “Ho avuto un terribile
Psicoterapia psicodinamica strutturata
trauma” )
Psicoterapia comportamentale, cognitiva ad eclettica, nonché
Disturbi dell’alimentazione gestione dietetica per pazienti anoressiche*
(per es., cap. 1, “Ho paura di
Terapia familiare (in particolare con le pazienti anoressiche più
ingrassare”)
giovani)
Terapia cognitivo-comportamentale, nonché gestione dietetica, per
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Schizofrenia
Disturbi di personalità
Abuso di alcol
(cap. 2, “Non so fare a meno
di...”)
Disfunzioni sessuali
(cap. 2, “Non riesco ad avere
rapporti sessuali
soddisfacenti”)
Interventi con i bambini
Interventi con persone
anziane
pazienti con bulimia nervosa*
Psicoterapia interpersonale per pazienti bulimici
Programmi di intervento familiare
Terapia cognitiva per i deliri*
Training di abilità sociali per il disturbo di personalità evitante*
Terapia comportamentale dialettica*
Terapia psicodinamica
Trattamenti comportamentali, comprendenti training di abilità
sociali, terapia di coppia e pacchetti di rinforzo di comunità, volti a
stimolare l’adattamento sociale*
Brevi interventi educativi, inclusi colloqui motivazionali*
Approcci di trattamento comportamentali e cognitivocomportamentali volti a ridurre l’ansia sessuale e a migliorare la
comunicazione per i disturbi dell’erezione*
tecniche comportamentali specifiche per l’eiaculazione precoce*
Tecniche comportamentali basate sull’esposizione per il vaginismo*
Modificazione del comportamento per enuresi ed encopresi* (cap. 2,
paragrafi omonimi)
Programmi di training genitoriale e terapia cognitivocomportamentale per il comportamento oppositivo (cioè di violazione
sistematica delle regole [nda])*
Esposizione rapida per la fobia della scuola* (cap. 1, “Il rifiuto di
andare a scuola”)
Trattamento cognitivo-comportamentale per il disturbo d’ansia
generalizzata*
Terapia psicodinamica per disturbo d’ansia generalizzata
Esposizione e prevenzione della risposta per disturbo ossessivocompulsivo*
Terapie familiari strutturali per i disturbi con comportamento
disturbante (categoria che comprende problemi di scarsa attenzione,
iperattività, impulsività e violazione sistematica delle regole e dei diritti
altrui [nda])
Terapia multimodale a lungo termine per il disturbo da deficit
dell’attenzione e iperattività* (cap. 2, “Iperattività”, “Impulsività” e
“Non riesco a concentrarmi”)
Terapia familiare per i disturbi psicofisiologici (cap. 1, paragrafo
omonimo)
Terapia psicodinamica per i disturbi psicofisiologici
Trattamento di controllo delle contingenze per il comportamento
indesiderato nei disturbi generalizzati dello sviluppo (per es., autismo) *
Psicoterapia comportamentale, cognitivo-comportamentale e terapia
psicodinamica strutturata per la depressione*
Interventi psicosociali per i familiari che si prendono cura
dell’anziano*
Orientamento alla realtà per persone con demenza
Le indicazioni di efficacia che emergono da questo tipo di ricerche non danno in
realtà la garanzia che le psicoterapie dimostratesi efficaci lo siano sempre altrettanto
quando una persona si rivolge a uno psicoterapeuta abilitato. Altri aspetti che
concorrono a determinare l’esito di una cura psicologica vengono indicati nel paragrafo
“La psicoterapia farà bene anche a me?”.
Inoltre, non sarebbe corretto dedurre che se una forma di psicoterapia non
compare in questa tabella allora non può essere efficace. La tabella si basa sugli studi di
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
valutazione dell’efficacia pubblicati sulle riviste scientifiche di lingua inglese. Può darsi
che qualche studio sia sfuggito agli autori di questa sintesi di dati o che, per quel tipo di
psicoterapia, studi di questo tipo siano ancora da effettuare. Per esempio, rispetto alla
diffusione delle psicoterapie psicodinamiche (cioè derivate dalla psicoanalisi), il numero
di studi in cui si valutano con criteri scientifici rigorosi questi trattamenti è
particolarmente ridotto. Come spiegano Roth e Fonagy,
[...] sappiamo che sono in corso alcuni studi che potrebbero benissimo
portare a includere approcci e interventi diversi da quelli che compaiono in
questa lista. È anche importante sottolineare che esistono numerosi approcci di
trattamento integrato che [...] meritano di essere considerati seriamente ma che
non possono essere inclusi in questa lista perché non sono state ancora condotte
sperimentazioni controllate. Tuttavia si potrebbe ragionevolmente concludere
che trattamenti non specifici, scarsamente strutturati, quali il counseling
generico, terapia psicodinamica non focalizzata e una varietà di terapie
esperienziali sono probabilmente inefficaci nelle forme gravi dei disturbi che
abbiamo considerato in questa rassegna (Roth e Fonagy, 1997, p. 360)
A causa di limiti di tempo e risorse, gli autori non hanno considerato nel loro lavoro di
sintesi dei risultati di questo settore di studio scientifico le ricerche, pure esistenti, di
valutazione dell’efficacia dei trattamenti dei disturbi psicofisiologici, dell’obesità, delle
difficoltà coniugali, dell’abuso di sostanze diverse dall’alcol, dei problemi legali e dei
disturbi di apprendimento. Anche in questi settori la terapia cognitivo-comportamentale
si è dimostrata piuttosto efficace (vedi per es., Sanavio, 1991).
Essendo in gioco il tempo, le energie, il denaro del paziente e la sua stessa
fiducia nella possibilità di risolvere i problemi che lo affliggono, conviene ricorrere a
queste forme di psicoterapia per cui disponiamo di prove di efficacia; occorre pure
accertarsi che lo psicoterapeuta che offre questi servizi abbia effettivamente una
formazione e un’esperienza adeguate per farlo. Non è infatti opportuno accettare, per
esempio, l’applicazione di tecniche cognitivo-comportamentali da parte di
psicoterapeuti con formazione, ammettiamo, psicoanalitica. A questo proposito si può
fare almeno un paio di commenti.
Anche rivolgendosi a uno psicoterapeuta di formazione cognitivocomportamentale – accertata, ammettiamo, leggendo il suo curriculum su Internet, o
grazie alle indicazioni dell’ordine degli Psicologi o della scuola di specializzazione in
cui il professionista in questione si è formato – non si ha la garanzia che egli applicherà
in modo fedele quelle metodologie che nelle sperimentazioni scientifiche controllate si
sono dimostrate le più efficaci. Infatti la maggioranza degli psicoterapeuti lavora in
modo eclettico, prendendo un po’ da una teoria e da una metodologia e un po’ da
un’altra. Inoltre l’esperienza e le propensioni personali portano a sviluppare un modo
personale di lavorare che non si può prevedere a priori in base all’adesione dello
psicoterapeuta a una particole scuola.
Ciò nondimeno è ragionevole presumere che quanto più un professionista può
dimostrare di essersi dato da fare per approfondire le conoscenze caratteristiche di una
certa scuola o persino per divulgarle e insegnarle ad altri, tanto più esse saranno entrate
a far parte del suo modo di ragionare e di agire e quindi sarà probabile che le applichi
con i suoi pazienti. Il modo migliore per conoscere questo tipo di informazioni è
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
accedere al curriculum formativo e professionale dello psicoterapeuta (cosa a volte
possibile su Internet).
Un altro sistema per scegliere uno psicoterapeuta di un certo indirizzo è quello di
rivolgersi ai personaggi in vista: se Tizio è noto per essere uno psicoterapeuta cognitivocomportamentale, allora sarà un buon rappresentante degli psicoterapeuti cognitivocomportamentali. Questo può essere un ragionamento che mette sulla strada giusta. A
parte le considerazioni esposte nel prossimo paragrafo, però, c’è anche da valutare come
Tizio ha guadagnato la sua fama. Per esempio, un passaggio al Maurizio Costanzo
Show – o ad altri talk show televisivi – rende immediatamente famosi, ma non è
garanzia della conoscenza delle teorie e dei metodi psicoterapeutici che eventualmente
in questa trasmissione sono stati discussi. Una relazione a un congresso nazionale o
internazionale di psicoterapeuti è una prova di competenza molto più attendibile, così
come la pubblicazione di lavori su riviste specialistiche o la docenza in corsi di
formazione rivolti ai colleghi.
Il luminare e il giovane inesperto
Alcune persone in cerca di cure specialistiche scelgono di rivolgersi agli esperti
più famosi e autorevoli. Si preparano a pagare onorari molto salati – cosa che
regolarmente avviene –, sono disposte a compiere lunghi spostamenti e ad affrontare le
spese di viaggio connesse ma sperano di ricevere in cambio le migliori cure possibili.
In realtà, rivolgendosi ai luminari si hanno maggiori probabilità di incontrare
una serie di situazioni che generalmente inducono a valutare negativamente la qualità
complessiva del servizio ricevuto. Per esempio, in linea di massima ci sono maggiori
probabilità di:
− trovare lunghe liste di attesa;
− doversi adattare alla poca flessibilità al momento di fissare gli appuntamenti;
− incontrare difficoltà a parlare con il proprio specialista al di fuori delle visite
prestabilite;
− pagare onorai molti salati;
− incontrare un atteggiamento distratto, distaccato, frettoloso e a volte sussiegoso.
Alcune persone in cerca di aiuto psicologico faticano ad accettarlo ma chi svolge
una professione di aiuto è soggetto alle stesse motivazioni economiche di chi svolge
altre professioni. La mia opinione è che i professionisti famosi si trovino a dover
distribuire le loro energie e risorse fra una gran quantità di impegni, con la conseguenza
che la qualità delle singole prestazioni professionali può peggiorare: invece di fare tutto
il possibile per fare al meglio poche cose, possono trovarsi a cercare di fare in modo
accettabile tante cose. Ad ogni modo, il prezzo dei loro errori è poco caro, perché non
intacca un’immagine e una rete di rapporti professionali ormai consolidate.
Il giovane professionista, dal canto opposto, cerca di compensare la sua relativa
inesperienza con un forte desiderio di rendere un buon servizio al suo paziente, dal
momento che il principale segno di competenza, e quindi la principale gratificazione
professionale, è il miglioramento della situazione del paziente. Una precondizione per il
miglioramento del paziente è la sua soddisfazione per la qualità complessiva del
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
rapporto con chi ha il compito di aiutarlo; quindi il professionista a inizio di carriera
vorrà in generale tenere nella massima considerazione le esigenze e i bisogni del suo
cliente. Fra le altre cose, questo vuole dire che ha molto tempo da dedicare al suo
paziente, anche dal punto di vista dello studio del caso fra una seduta e l’altra.
A favore dei giovani psicoterapeuti va poi detto che la qualità della formazione in
psicoterapia è andata via via aumentando negli ultimi anni. Quindi chi oggi inizia a fare
questo lavoro ha alle spalle una formazione teorica e pratica mediamente di gran lunga
superiore a quella che aveva a inizio di carriera chi ha iniziato a fare lo psicoterapeuta
più di quindici anni fa, quando non esisteva ancora la legge di ordinamento della
professione di psicologo.
Il giovane psicologo che si sta formando per diventare psicoterapeuta lavora per
i primi anni sotto la supervisone di un collega molto esperto che lo guida e lo consiglia;
nei corsi di specializzazione in psicoterapia una parte consistente del monte ore è
dedicata proprio alla supervisione. Quindi sta molto attento a quello che fa e a tutto
quello che succede durante la psicoterapia. Spesso inoltre si continua nel corso della
carriera a consigliarsi con un supervisore o con altri colleghi più esperti.
Il giovane psicoterapeuta applica tariffe più basse. Le tariffe rispondono alla
legge della domanda e dell’offerta e non necessariamente a criteri di competenza
professionale. L’idea diffusa che un bravo professionista voglia molti soldi in cambio
delle sue prestazioni è non solo sbagliata ma causa un aumento generale degli onorari.
A proposito della terapia con psicofarmaci va detto che la conoscenza e l’uso dei
farmaci in commercio e delle loro indicazioni terapeutiche non sono dominio esclusivo
di pochi eletti ma sono al contrario patrimonio comune, e qualsiasi allievo di una scuola
di specializzazione in psichiatria è in grado di scegliere e dosare i farmaci giusti per le
più frequenti forme di disagio psicologico. Non ha quindi molto senso intraprendere
pellegrinaggi nei luoghi santi della psichiatria quando basterebbe rivolgersi allo
psichiatra sotto casa.
I centri e i professionisti con competenze specifiche
I problemi psicologici sono numerosi e per quanto le scuole di specializzazione
in psicoterapia cerchino di preparare gli allievi ad affrontare casi di qualsiasi tipo è
difficile che nell’esercizio della pratica professionale uno psicoterapeuta affronti tutte le
problematiche esistenti. Inoltre, vari fattori fanno sì che nella carriera di psicoterapeuta
ogni professionista entri in contatto maggiormente con certi tipi di problematiche e di
pazienti. Così le competenze dello psicoterapeuta tendono a specializzarsi in certi ambiti
e a restare poco o per nulla sviluppate in altri. Alcune specializzazioni sono, per
esempio, i problemi dei bambini, le difficoltà degli anziani, le difficoltà di
apprendimento e la disabilità, le problematiche sessuali (si parla a questo proposito di
“sessuologi”), i problemi di coppia, i problemi familiari, le problematiche connesse alle
separazioni e ai divorzi.
Mentre ogni psicoterapeuta privato si è trovato ad affrontare problemi di
depressione, fobie, problematiche connesse all’ansia, alla timidezza e ai rapporti
interpersonali, ai rapporti sessuali, di coppia, all’educazione dei figli, allo stress
scolastico e lavorativo – per fare qualche esempio – in genere, anche se non
necessariamente, lo psicoterapeuta privato che lavora da solo nel suo studio può non
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
essere adeguatamente attrezzato per gestire, continuando a lavorare in autonomia,
problematiche come psicosi croniche, autismo, ritardo mentale, difficoltà di
apprendimento, tossicodipendenze, alcolismo, disturbi bipolari, disturbi alimentari,
situazioni di violenza. Va infatti osservato che, a parte le considerazioni sullo sviluppo
di competenze specializzate, certe problematiche psicologiche hanno importantissimi
risvolti di tipo educativo, medico, familiare e sociale e che per una soluzione richiedono
la collaborazione di professionisti diversi o ricoveri ospedalieri o partecipazione
frequente e a lungo termine in appositi centri psicoeducativi. Certe problematiche –
come, per esempio, lo stress dovuto a molestie in famiglia o al lavoro, oppure la
tossicodipendenza – possono avere anche importanti risvolti legali e vanno affrontate
quindi con la collaborazione di consulenti legali, sindacalisti, assistenti sociali.
Esistono centri pubblici o privati specializzati nella terapia e nella gestione
complessiva di certi tipi di problematiche. Potendo scegliere, a mio parere è preferibile
rivolgersi a tali centri piuttosto che a uno psicoterapeuta sconosciuto che opera per
conto proprio. In linea generale, si potrà così ricevere un servizio completo per la
gestione di tutti i principali problemi che ruotano attorno a un certo disagio psicologico,
con la ragionevole aspettativa che ogni figura impegnata nel trattamento del proprio
caso abbia già maturato una specifica esperienza nel settore.
Psicoterapia nel pubblico e nel privato
Le Aziende Sanitarie Locali/ASL offrono vari servizi per la prevenzione e la
cura dei problemi psicologici. È difficile descrivere in generale il funzionamento e
l’organizzazione di questi servizi perché essi cambiano a seconda delle zone d’Italia.
Così, da un paese all’altro può variare il tipo di unità operative disponibili nel proprio
territorio, la loro denominazione, il numero e il tipo di figure professionali che vi
operano e i vari aspetti organizzativi connessi all’erogazione del servizio.
I Servizi per le tossicodipendenze/SerT si occupano delle problematiche
connesse all’alcolismo, alla tossicodipendenza e a volte anche di altre forme di
dipendenza, come, per esempio, il gioco d’azzardo o l’uso eccessivo di videogiochi o
Internet. In linea di massima, nei SerT si trova una risposta a buona parte delle
principali problematiche sanitarie, psicologiche, sociali, economiche e lavorative
connesse alla dipendenza, compresa ovviamente la cura delle problematiche
psicologiche correlate. Le prestazioni dei SerT attualmente sono completamente
gratuite.
I Consultori familiari/CF si occupano in generale delle problematiche connesse
alla sessualità, alla maternità e all’infanzia. Anche qui opera un’equipe multidisciplinare
capace di dare una risposta adeguata anche ai problemi psicologici connessi agli ambiti
sopra elencati. Anche i servizi dei CF sono, al momento attuale, completamente gratuiti.
A rigore tuttavia la psicoterapia non rientrerebbe tra le mansioni dello psicologo
che opera nei CF o nei SerT ma spetterebbe solo agli psicologi che operano nei Servizi
o nelle Unità operative di psichiatria o neuropsichiatria infantile o in altri servizi
assimilabili che possono avere varie denominazioni – per esempio, per gli adulti Centro
di igiene mentale/CIM, Servizio di igiene mentale/SIM o altro e, per bambini e
adolescenti, Servizio per l'età evolutiva o altro. In questi servizi la singola seduta di
psicoterapia ha un prezzo variabile che oscilla fra la gratuità e le trentamila lire, a
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
seconda di vari fattori fra cui l’ASL che eroga il servizio, il numero complessivo di
sedute psicoterapeutiche cui il paziente partecipa e la fascia di reddito del paziente.
Un vantaggio della psicoterapia nel servizio pubblico è quindi il prezzo, molto
inferiore al costo minimo di una seduta psicoterapeutica privata. Un altro vantaggio è
rappresentato dal fatto, come spiega Di Pietro (per es., Di Pietro e Rampazzo, 1997),
che lo psicoterapeuta che opera nel pubblico ha l’opportunità di imparare a conoscere e
a curare una varietà più ampia di problematiche psicologiche; quindi, in linea di
massima, è più difficile che qualcuno “lo colga impreparato”. Un terzo vantaggio, è che
lo psicoterapeuta che opera nel pubblico lavora in genere in stretto contatto con altre
figure professionali delle cui prestazioni il paziente potrebbe avere bisogno: per
esempio, assistente sociale, psichiatra, neuropsichiatra infantile, neurologo e specialisti
vari.
Ma la psicoterapia nel pubblico presenta anche alcuni svantaggi. I tempi di attesa
tendono a essere più lunghi e ci può essere poca disponibilità ad andare incontro alle
esigenze di orario nel concordare gli appuntamenti. Secondo Di Pietro (ivi), poi, a volte
l’utente riceve meno attenzione e può accadere più facilmente di imbattersi in carenze
sul piano della professionalità. Inoltre, è più difficile scegliere lo psicoterapeuta che fa
per sé; infatti benché in teoria ognuno si possa rivolgere a qualunque psicoterapeuta del
Servizio Sanitario Nazionale, sta a costui – o al responsabile del servizio – decidere se
accettare o meno di curare il paziente. In questa decisione tendono a essere rispettati
criteri di competenza legati alla territorialità e alla tipologia del servizio. Lo
psicoterapeuta che lavora come dipendente della ASL, quindi, rifiuta in genere di
prendere in psicoterapia persone che non gli competono; due possibili eccezioni a
questa consuetudine sono i pazienti inviati da colleghi e quelli che riescono a far sentire
lusingato lo psicoterapeuta per il fatto di essere stato specificamente prescelto dal
paziente. Nei servizi con alti standard di professionalità e con un buon livello di
collaborazione fra operatori, si va al di là del rispetto dei criteri di territorialità e i
pazienti vengono smistati a chi, per motivi di esperienza e formazione professionale, è
più in grado di aiutarli. Ciò purtroppo avviene solo di rado.
All’interno delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale è anche possibile
seguire una psicoterapia privatamente, con uno psicologo dipendente dell’ASL che ne
abbia fatto specifica richiesta. In questo caso la psicoterapia si svolge presso il servizio
pubblico in cui lavora lo psicologo e i costi sono quelli stabiliti dalla ASL.
Vari modi per contattare uno psicoterapeuta privato
Quando si decide di rivolgersi a uno psicoterapeuta privato resta da decidere a
chi rivolgersi. Oltre a rivolgersi ai professionisti segnalati da medici, parenti, amici o
conoscenti, nella scelta dello psicoterapeuta ci si può basare su: targhe pubblicitarie,
pagine gialle, Internet, pubblicità più o meno esplicite su articoli di giornale o
programmi radiofonici e radiotelevisivi.
Per avere nominativi di singoli psicoterapeuti, se non si è consigliati da nessuno,
si possono fare principalmente due cose:
1. rivolgersi all’Ordine degli Psicologi della propria regione. L’Ordine degli Psicologi
possiede l’elenco degli psicologi abilitati all’esercizio della professione di
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
psicologo; all’interno di questo elenco c’è un sottoinsieme di psicologi abilitati
all’esercizio della psicoterapia, cioè di psicologi psicoterapeuti. L’Ordine non può
dare un nominativo specifico – per non favorire nessuno – può però permettere di
consultare l’elenco in modo che ognuno scelga da sé. Nella tabella 9.2 c’è l’elenco
degli ordini regionali degli psicologi;
2. rivolgersi a una delle scuole private di specializzazione in psicoterapia riconosciute
dallo Stato italiano. Queste scuole, non essendo istituzioni pubbliche, possono dare
nominativi specifici di professionisti che conoscono un particolare approccio
psicoterapeutico (per es., psicoanalitico, gestaltista, cognitivo-comportamentale,
ecc.). È possibile ottenere dagli ordini regionali degli psicologi informazioni sulle
scuole riconosciute. L’elenco (provvisorio) di queste scuole è consultabile su
Internet all’indirizzo http://www.psicologonline.it/risorse/1d2.asp.
A proposito della scelta dello psicoterapeuta, concordo con l’opinione di
Giovanni Jervis:
Fidati delle tue impressioni, non cominciare mai un trattamento
psicoterapeutico con un signore magari considerato tanto bravo, ma che per te
non è convincente. Se nella prima ora di colloquio hai avuto la sensazione di non
essere interamente compreso, se hai avvertito una difficoltà d’intesa o,
addirittura, una certa antipatia, lascia perdere. Quel terapeuta non fa per te,
scartalo subito. (EURISPES, 1999)
Nell’indicare alcuni criteri di scelta importanti Jervis sottolinea la scarsa utilità,
da parte del paziente, di predefinire il sesso del terapeuta (variabile questa
comunemente sopravvalutata) e, per contro, l’importanza di conoscere la scuola di
appartenenza e l’orientamento dello psicoterapeuta: “Deve informarsi sulle differenze,
almeno quelle fondamentali, tra i vari indirizzi... Non deve aver paura di farsi spiegare
tutte le cose di cui è dubbioso, all’inizio... Deve incontrare più persone, prendere più
informazioni possibile e, alla fine, basarsi su un criterio soggettivo, cioè scegliere la
persona che più lo convince su un piano strettamente emozionale e fidarsi di questa sua
sensazione. Pur considerando che si corrono sempre dei rischi, credo che in questa
scelta istintiva i vantaggi siano più numerosi dei rischi".
Aggiunge ancora il professor Jervis: “...chiunque dovrebbe essere consigliato
sulla forma di psicoterapia a lui più adatta... se ci fossero dei servizi pubblici seri ed
efficienti, questo tipo di valutazione spetterebbe a loro... non mi fiderei più di tanto,
invece, dei centri di orientamento interni alle associazioni psicoterapeutiche che,
difficilmente, indirizzerebbero un paziente verso psicoterapeuti di altre scuole".
Come valutare il proprio psicoterapeuta
Chi è in cerca di aiuto non deve dimenticare che esistono molte alternative di
cura e che, se non è soddisfatto del suo psicoterapeuta, può trovare di meglio. Si può
cambiare psicoterapeuta tenendo fermo il tipo di psicoterapia, oppure si può cambiare
anche tipo di psicoterapia. Inoltre, la psicoterapia non è l'unica via per il miglioramento
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
di un problema psicologico: esistono anche varie forme di autoaiuto - per esempio, libri
di autoterapia e gruppi di auto e mutuoaiuto -, l'aiuto dello psicologo, gli psicofarmaci e
l'aiuto di amici e conoscenti (vedi anche capitolo decimo). Esercitando il suo diritto di
scelta della cura migliore e denunciando agli Ordini Professionali i casi di cattiva
professionalità ognuno di noi può contribuire a migliorare la qualità dei servizi di salute
mentale, con evidenti vantaggi sia per chi offre aiuto sia per chi lo cerca.
La psicoterapia farà bene anche a me?
A questa domanda è difficile rispondere attendibilmente in anticipo: l'utilità della
psicoterapia per una persona che ha bisogno di aiuto psicologico dipende da molti
fattori. In realtà non è detto che se un certo psicoterapeuta è riuscito molto bene ad
aiutare un amico o un conoscente possa fare altrettanto bene a sé. E viceversa. La
differenza di efficacia può essere dovuta a vari fattori che vanno al di là della
competenza e della professionalità dello psicoterapeuta. Vediamo quali.
La diversità dei problemi
Non è la stessa cosa cercare aiuto per un lieve problema di ansia, comparso per
la prima volta sei mesi fa in concomitanza con un cambiamento nelle proprie condizioni
di vita (per esempio, un cambiamento di scuola o di lavoro), o per un grave disturbo
ossessivo-compulsivo con cui si è “imparato a convivere” da anni. Inoltre, anche
quando la diagnosi è la stessa, il modo in cui il disturbo mentale si inserisce nel contesto
della personalità e della vita di una persona è unico, e può facilitarne o ostacolarne la
scomparsa. Così, due persone che hanno la stessa diagnosi di depressione maggiore
possono in realtà vivere due condizioni di disagio profondamente diverse a seconda
dalla loro età, dei motivi di insoddisfazione presenti nella loro vita, della qualità della
loro vita precedente alla depressione, della loro maggiore o minore socievolezza ed
equilibrio emotivo, della presenza intorno a loro di persone disposte ad aiutarle e via
dicendo.
Un altro aspetto da considerare è se una certa forma di psicoterapia, ammettiamo la
psicoterapia cognitivo-comportamentale, sia adatta per una certa persona e per il suo
disturbo. Questa valutazione spetta sia al cliente - che prima di intraprendere una
psicoterapia dovrebbe cercare di raccogliere delle informazioni anche generali sulle
terapie esistenti e sulle loro indicazioni5 - sia allo psicoterapeuta - che dovrebbe
avvertire il paziente, entro poche sedute, se la terapia da lui praticata è adatta al cliente e
al suo problema.
5
Un libro molto utile a questo proposito è Roth e Fonagy (1996). Si tratta purtroppo di un’opera per
specialisti, ma con qualche sforzo e un po’ di ingegno una persona di buon livello culturale che si accinge
a cercare uno psicoterapeuta può consultarlo e scoprire come utilizzare meglio le sue risorse. Sono
indicate infatti le terapie dimostratesi efficaci per certi tipi di disturbo. Un libro altrettanto utile – ma
purtroppo altrettanto impegnativo – è quello di Marhaba e Armezzani (1988) in cui venticinque eminenti
rappresentanti di altrettante forme di psicoterapia espongono i presupposti filosofici, le teorie e i metodi
su cui si basa il loro lavoro attenendosi a una scaletta di domande chiave predisposte dagli autori del libro.
Entrambi i libri hanno un indubbio pregio: sono al di sopra delle parti.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
La diversità delle persone e degli incontri fra cliente e psicoterapeuta
Se Tizio si è trovato bene con lo psicoterapeuta Sempronio, non è detto che la stessa
affinità si possa ricreare fra Caio e Sempronio. Per quanto lo psicoterapeuta possa essere
professionale, è pur sempre una persona che nel corso delle sedute si farà conoscere e
verrà a conoscenza di alcuni aspetti anche piuttosto intimi della vita di un'altra persona
perlopiù estranea. Ognuno può suscitare nell'altro sentimenti più o meno positivi e utili
al proseguimento della terapia. Parte della professionalità dello psicoterapeuta consiste
proprio nel riconoscere le diversità di valori, visioni del mondo, modi di fare propri e
del cliente e nell'adattare il proprio modo di rapportarsi al cliente in modo utile alla
comunicazione e comprensione reciproca e, in ultima analisi, al successo della terapia.
Ma a volte fra paziente e terapeuta c'è una distanza incolmabile che ostacola la terapia.
Affinità fra cliente e tipo di psicoterapia
Ogni tipo di psicoterapia - cognitivo-comportamentale, della Gestalt, sistemica,
eccetera - ha un suo linguaggio, un suo modo di interpretare i problemi del paziente e le
loro origini, una sua visione dell'uomo, dei rapporti sociali e del mondo. Ma anche ogni
persona ha un suo linguaggio, un suo modo di interpretare i propri problemi e le loro
origini, una sua visione dell'uomo, dei rapporti sociali e del mondo. Nelle sedute
psicoterapeutiche lo psicoterapeuta presenta più o meno esplicitamente le sue
concezioni individuali (cioè le concezioni personali del dottor Sempronio) e le sue
concezioni in quanto psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, della Gestalt,
sistemico, o di altro tipo, e interpreta tutto ciò che accade in terapia con queste chiavi di
lettura. Il cliente, dal canto suo, possiede e manifesta al terapeuta le proprie concezioni e
il proprio linguaggio.
Ma i linguaggi e le concezioni delle due persone possono essere troppo distanti fra
loro e incompatibili. Ci si accorge di questa incompatibilità, per esempio, quando le due
persone parlano degli stessi fatti con linguaggi così diversi che la comprensione
reciproca è difficoltosa o che si prova un forte senso di estraneità, o, peggio, di
disapprovazione, per ciò che l'altro dice e pensa. Il paziente in questi casi non si
riconosce nella visione che lo psicoterapeuta ha di lui, della sua vita e del suo problema.
Per fare due esempi fra i molti possibili, il paziente di uno psicoterapeuta con
formazione psicoanalitica potrebbe sentirsi a disagio vedendo che, invece di parlare dei
problemi presenti e di fare qualcosa di concreto per cercare di risolverli, ci si dilunga in
descrizioni di episodi di un passato ormai lontano e apparentemente irrilevanti per i
problemi attuali; un paziente di uno psicoterapeuta comportamentista potrebbe sentirsi a
disagio vedendo che i suoi disturbi vengono spiegati alla stessa stregua del
comportamento di topi di laboratorio rinchiusi in una gabbia.
Come capire se la terapia sta funzionando
Di seguito viene riportata una serie di criteri di qualità di cui è opportuno tenere
conto. Essi derivano in parte dalle considerazioni fatte sopra.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Un criterio generale in cui credo è che il cliente, anche se a causa delle difficoltà che
sta attraversando può trovarsi in una condizione di debolezza, scoraggiamento e sfiducia
in sé, è il primo giudice della qualità del servizio che riceve. Deve quindi basarsi in
primo luogo sulle sue impressioni - tenendo naturalmente conto del parere di chi, in
veste di esperto o di amico, familiare o conoscente, lo consiglia. A parte questa
considerazione preliminare, si può dire che la psicoterapia stia funzionando se:
I problemi psicologici per cui si è cercato aiuto stanno migliorando. Per esempio,
una persona depressa che ha cercato aiuto perché si sente triste e stanca, non riesce a
concentrarsi e a lavorare, non ha più fiducia in sé e ha perso interesse per le cose che
normalmente gli piacciono dovrebbe valutare a distanza di pochi mesi dall'inizio della
terapia se questi problemi stanno migliorando. In questo caso dovrebbe sentirsi di
umore migliore, essere più efficiente, avere più fiducia in sé e godersi maggiormente ciò
che c'è di buono nella sua vita. In generale, quando i propri problemi stanno
migliorando, ci si sente meno stressati, demoralizzati e ansiosi e si passa meno tempo a
pensare ad essi e a parlarne. Un segno che “niente si muove” è la sensazione frequente,
appena usciti dallo studio del terapeuta e nei giorni successivi, che non si sia parlato di
nulla di rilevante.
Si ha fiducia nel fatto che il proprio psicoterapeuta sia in grado di aiutarti.
Chiaramente questa valutazione personale dipenderà anche dalla constatazione di
miglioramenti nei propri problemi. Ma all'inizio della terapia non ci si può basare su
questo criterio. Ci si basa allora sulla sensazione generale che lo psicoterapeuta sia
quello giusto. In questo caso si hanno sentimenti di stima o considerazione dello
psicoterapeuta in quanto professionista; si ha fiducia in lui, piuttosto che essere
sospettosi e diffidenti; si prova una certa simpatia reciproca e si percepisce una qualche
somiglianza; si ha la sensazione di essere meno soli con il proprio problema; si
aspettano le sedute con una certa trepidazione (per esempio non si vede l'ora di riferire
allo psicoterapeuta certi episodi, pensieri o sentimenti), piuttosto che con sentimenti di
fastidio, noia o inutilità; si tiene molto in considerazione ciò che lo psicoterapeuta dice e
si applicano i suoi suggerimenti; si ha la sensazione che sia facile intendersi; si ha la
sensazione di essere rispettati e, al limite, apprezzati, ma non certo giudicati
negativamente; sembra che il terapeuta abbia fiducia nella sua capacità di aiutare e nella
possibilità che il suo cliente migliori la propria condizione; si ha l'impressione che il
terapeuta sia una persona equilibrata e che non abbia problemi psicologici.
Si giudica positivamente il proprio psicoterapeuta in quanto persona. Lo si
considera una persona attenta e sollecita verso i bisogni e i sentimenti altrui, sincera,
leale, eticamente corretta e affidabile. Non lo si considera invece, per esempio, una
persona distratta o assente, fredda, frettolosa, critica, minacciosa o disonesta.
La fiducia nella propria capacità di venire fuori dai propri problemi aumenta. Con
il passare del tempo, dovrebbero comparire sentimenti di fiducia in sé e nella propria
capacità di controllare il proprio problema e le situazioni che lo suscitano o lo
aggravano. Ci si dovrebbe sentire meno in balia di stato d'animo negativi e di pensieri
insistenti e fastidiosi, e più capaci di controllarli modificandoli o prevenendoli. Si
dovrebbe dare un giudizio più positivo della proprie qualità e delle proprie capacità.
Dovrebbe comparire un senso di ottimismo, della propria capacità generale di affrontare
positivamente le situazioni difficili, di qualunque tipo esse possano essere.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
L’Ordine Professionale degli Psicologi a tutela dei clienti
Nell’ “Appendice 1” c’è il Codice deontologico degli psicologi. Vi è descritta
una serie di principi morali che ogni psicologo è tenuto a rispettare nell’esercizio della
professione. Essi servono principalmente a tutelare i clienti, la società e la categoria
professionale stessa dalle azioni dannose che potrebbero essere commesse dai singoli
professionisti.
Come afferma l’articolo uno, le regole del Codice deontologico sono vincolanti
per tutti gli iscritti all'Albo degli psicologi. Lo psicologo è tenuto alla loro conoscenza, e
l'ignoranza delle medesime non esime dalla responsabilità disciplinare. Inoltre – spiega
l’articolo due – l'inosservanza dei precetti stabiliti nel Codice deontologico e ogni
azione o omissione comunque contrarie al decoro, alla dignità e al corretto esercizio
della professione, sono punite secondo le procedura stabilite dal Regolamento
disciplinare.
Presso le sedi regionali o provinciali dell’Ordine degli psicologi (vedi tabella
9.2) esiste infatti una apposita commissione disciplinare a cui chiunque può segnalare
azioni a sue parere scorrette o di dubbia moralità. La commissione analizza il caso,
esprime un parere e, se è opportuno, attua i provvedimenti disciplinari dovuti.
Tabella 9.2 Sedi degli Ordini regionali degli psicologi
• Consiglio Nazionale
dell'Ordine
Via G. B. Vico, 29 - 00196
ROMA
Tel.: 06 3203141 r.a. Fax:
06 3220076
http://www.psy.it
• Liguria
Via XX Settembre, 37/5 16121 Genova
Tel.: 010 541225 Fax: 010
541228
• Lombardia
Corso Buenos Aires, 75 20123 Milano
Tel.: 02 67071596 Fax:
67071597
• Abruzzo
Piazza Santa Maria in
Paganica, 5 - L'Aquila
Tel. e Fax: 0862 401022
Segreteria : [email protected] • Marche
http://web.tin.it/ordine_psic Corso Stamira, 29 - 60122
ologi_abruzzo/
ANCONA
Tel.: 071 2072630 Fax: 071
• Basilicata
2081006
Via IV Novembre, 46 http://www.rinascita.it/asso
85100 Potenza
ciazioni/sipsot
Tel.: 0971 34268 Fax: 0971
23025
• Molise
Corso Bucci, 37 - 86100
• Calabria
Campobasso
Vico S. Giorgio, 1 - 88100 Tel.: 0874 412546 Fax:
Catanzaro
0874 412546
• Sicilia
Via Salvatore Marchesi, 5 90144 Palermo
Tel. e Fax: 091 6256708
http://www.ordinepsy.sicilia.i
t/
• Toscana
Via Panciatichi, 38/5 - 50127
Firenze
Tel.: 055 416515 Fax: 055
414360
• Trentino Alto Adige
Provincia di Bolzano
Piazza Mazzini, 12 - 39100
Bolzano
Tel.: 0471 261111 Fax: 0471
261111
Provincia di Trento
Via dei Mille 32 - 38100
Trento
Tel 0461 925290 Fax 0461
925290
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Tel.: 0961 726709 Fax:
0961 726705
• Piemonte
via S. Quintino, 44 - 10121
• Campania
Torino
Vico Carceri S. Felice, 13 - Tel.: 011 537686/538833 80135 Napoli
Fax: 011 537692
Tel.: 081 5443065 Fax: 081 http://www.sinet.it/psyto/in
dex.html
5443065
• Puglia
Via F.lli Sorrentino, 6 70126 Bari
Tel.: 080 5421037 Fax: 080
5567584
E-mail:
Ordpsicologi.Puglia@agora
• Friuli Venezia Giulia
Via Cassa di Risparmio, 11 .stm.it
http://www.agora.stm.it/psi
- 34121 Trieste
Tel.: 040 3726700 Fax: 040 cologipuglia/
(il sito permette di
366602
verificare l'iscrizione
all'Albo degli psicologi
• Lazio
pugliesi)
Via Flaminia, 79 - 00196
Roma
Casella postale 6313 00195 • Sardegna
Via Sonnino, 33 - 09125
Roma Prati
Tel.: 06 36002758 Fax: 06 Cagliari
Tel.: 070 655591 Fax: 070
36002770
http://www.psy.it/lazio.html 655591
• Emilia Romagna
Strada Maggiore, 24 40125 Bologna
Tel.: 051 263788 Fax: 051
235363
• Umbria
Via delle Giornate di Napoli,
3 - 06074 Ellera Umbra (PG)
Tel.: 075 5179578 Fax: 075
5179578
• Veneto
Via Daniele Manin, 69 30174 Mestre
Tel.: 0741 981799 Fax: 041
983947
Una nuova possibilità: la consulenza via Internet
Chi ha un po’ di dimestichezza con Internet sa che oggi è possibile ricevere vari
servizi direttamente a casa propria attraverso il computer. Alcuni di questi servizi via
Internet inoltre sono gratuiti – stando alle notizie di giornali e TV, ancora per poco. Per
quanto riguarda l’ambito della salute psicologica va detto che esistono molti siti in
lingua italiana (e molti di più in lingua inglese) che danno informazioni sulle
manifestazioni dei principali problemi psicologici e sulle possibilità di cura. Alcuni di
questi siti consentono anche la possibilità di esporre il proprio caso a un esperto e di
ricevere un parere via Internet.
Per chi sta attraversando un periodo difficile si tratta di un’opportunità
importante dato che permette di ottenere il parere di un esperto da casa propria, senza
dover prendere appuntamenti, senza esporsi personalmente (aspetto particolarmente
importante per chi ha problemi di timidezza o per altri motivi proverebbe troppo
imbarazzo a parlare faccia a faccia delle proprie questioni), celando eventualmente la
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
propria identità e spesso senza spendere denaro. In altre parole si aggira tutta una serie
di ostacoli che probabilmente non verrebbero mai superati da alcune persone in
difficoltà, che, in questo modo, resterebbero prive di informazioni essenziali sulla loro
situazione e sulle possibili vie di uscita.
Attualmente le potenzialità e i limiti di questa nuova possibilità di incontro sono
poco conosciuti: mentre sono ormai numerosi gli psicologi e gli psicoterapeuti che
discutono, analizzano e sperimentano le possibilità di comunicazione e di aiuto via
Internet, gli studi scientifici di cui disponiamo sono ancora pochissimi. In questo
paragrafo verranno elencati alcuni punti di forza e di debolezza dei servizi psicologici
erogati per posta elettronica. Non parlerò invece di ciò che si può fare con altri mezzi
meno utilizzati, come le chat e la web cam.
Psicoterapia e consulenza psicologica via e-mail
Attualmente nei servizi di aiuto professionale via e-mail è possibile distinguere
due modalità: la consulenza psicologica e l’e-therapy (o psicoterapia via e-mail). Nel
primo caso chi è in cerca di aiuto espone il suo problema nel modo più chiaro e
completo possibile (meglio se lo fa seguendo una traccia fornita da chi poi risponderà) e
chi risponde fa tutto il possibile per aiutare questa persona a comprendere e affrontare
costruttivamente il suo problema, sapendo che con la risposta la comunicazione
terminerà – o avrà tutt’al più un breve seguito.
Nella psicoterapia on line si stabilisce invece un rapporto di comunicazione
duraturo, fatto di numerosi scambi, in cui si cerca di adattare al mezzo comunicativo
usato le teorie, i metodi e le tecniche di una forma di psicoterapia. In Italia l’e-therapy è
meno diffusa della consulenza via e-mail. Qui tralascerò questa distinzione per parlare
in generale delle possibilità e degli ostacoli dell’aiuto psicologico via e-mail.
Vantaggi e svantaggi dell’intervento psicologico via e-mail
L’intervento psicologico on line basato sullo scambio asincrono di messaggi scritti
presenta varie specificità in parte vantaggiose e in parte ostacolanti rispetto alla
comunicazione vis a vis con il professionista.
L’uso della scrittura, nelle e-mail, permette, sia alla persona che cerca aiuto sia a
quella che lo offre, di riflettere attentamente sui problemi e di formularli mentalmente e
verbalmente in modo più chiaro e logicamente coerente. Infatti, quando si scrive, il
tempo a disposizione per pensare è molto. Così l’annotazione dei propri pensieri può
essere avviata, interrotta, ripresa e corretta con molta libertà, lasciando alle idee il tempo
di perfezionarsi.
Poiché la comunicazione via e-mail non è vincolata dalle regole di interazione che
strutturano implicitamente gli incontri fra persone, i comunicanti possono arrivare al
punto velocemente e facilmente, senza preamboli, imbarazzi e paure. Inoltre, il mezzo
scritto incoraggia la chiarezza e la concentrazione del discorso - e non solo del pensiero
- su argomenti ben definiti.
La comunicazione via e-mail è estremamente conveniente sia per il cliente che per
lo psicologo. Per il cliente, può significare la possibilità di stabilire un contatto con lo
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psicologo senza recarsi da lui, raccontare episodi significativi man mano che si
verificano, sottoporre allo psicologo quotidianamente gli effetti delle esperienze
suggeritegli, eccetera. Per lo psicologo, può significare la possibilità di gestire in modo
più autonomo il suo tempo, assegnandolo a diversi casi a seconda delle necessità.
La comunicazione indiretta potrebbe inoltre aiutare alcune persone a raccontare
alcune informazioni personali, superando la vergogna. Inoltre, alcune persone
preferiscono comunicare per iscritto piuttosto che a voce. Secondo alcuni esperti, infatti,
lettura e scrittura attivano meccanismi che facilitano la rivelazione di elementi personali
e l’espressione di problemi e conflitti, promovendo l’autoconsapevolezza.
L’intensità e la frequenza della comunicazione via e-mail possono essere
modulate molto più che nell’incontro diretto. A differenza di quanto avviene nella
psicoterapia e nella consulenza tradizionali, in cui lo specialista e il cliente si incontrano
periodicamente e a orari stabiliti, e raramente comunicano tra una seduta e l’altra, la
frequenza dei contatti tramite e-mail può variare ed essere molto più alta.
Gli scambi terapeutici possono includere citazioni di messaggi precedenti.
Questa opzione è facilmente disponibile, avendo a disposizione la documentazione di
tutti gli scambi precedenti, che sono stati memorizzati sul computer di entrambi, e può
essere utilizzata per confrontare o ricordare al paziente le cose che ha scritto in
precedenza, o commentare i suoi messaggi punto per punto.
L’e-mail può essere usata come integrazione alla psicoterapia, ad esempio, per
controllare i compiti a casa assegnati durante la seduta o come estensione della seduta
stessa: il cliente può continuare a lavorare sulle questioni emerse in seduta durante la
settimana e comunicare i risultati di questo lavoro al terapeuta prima della seduta
successiva, dandogli il tempo per riflettere sul materiale prodotto dal cliente e di
pianificare meglio la seduta successiva.
La comunicazione via e-mail può essere usata per facilitare la fine della terapia,
riducendo gradualmente il contatto diretto e sostituendolo con il contatto via Internet.
Internet può rivelarsi un mezzo adeguato per trattare persone che potrebbero trarre
giovamento da una consulenza psicologica ma non si presenterebbero mai, per un
motivo o per l’altro (inclusi i costi), a un servizio di salute mentale. Inoltre, può
facilitare l’erogazione di servizi a individui con caratteristiche tali da impedire loro
l’accesso a servizi tradizionali: età avanzata, malattie, disabilità, residenza in zone
remote, necessità di rimanere anonimi, vergogna o paura.
Tuttavia molti di questi aspetti potenzialmente positivi costituiscono allo stesso
tempo i limiti degli interventi on-line. Innanzi tutto, l’assenza di interazione diretta e di
contatto oculare priva la comunicazione di tutti i suoi aspetti non verbali, come la
mimica, l’intonazione della voce, eccetera. Ciò in certi casi può ridurre la probabilità da
parte del professionista di effettuare diagnosi appropriate, limitando al contempo le
possibilità di costruire progetti terapeutici adeguati.
La comunicazione scritta può anche aumentare il rischio di fraintendere il
significato dei messaggi ed essere lenta. A voce si arriva più velocemente a chiarimenti
su punti ambigui. Inoltre, aggiungerei, le persone che hanno una buona padronanza
della scrittura sono meno di quelle che si esprimono adeguatamente a voce.
Va poi detto che le competenze di uno psicoterapeuta che tenti di condurre
interventi on-line potrebbero essere limitate dall’assenza di una formazione specifica nel
campo della comunicazione scritta.
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Inoltre, il fatto che il terapeuta e il cliente possano risiedere in regioni diverse,
nonché la difficoltà di verificare l’identità del cliente, possono far insorgere problemi
pratici, a esempio per la gestione di una crisi. Il terapeuta potrebbe non essere in grado
di inviare il cliente a un professionista, un servizio locale o un servizio di emergenza.
Secondo Wallace (1999, p. 151), la tendenza delle persone a rivelarsi maggiormente
al computer – anche quando sanno che una persona leggerà ciò che dicono – è un
ingrediente importante in ciò che apparentemente sta avvenendo su Internet. Il computer
può sembrare a volte un mezzo impersonale e freddo. Tuttavia può essere anche
iperpersonale, per usare un’espressione coniata da Joseph Walther.
“Ti siedi davanti al computer sentendoti relativamente anonimo, distante e
fisicamente sicuro e a volte ti senti più vicino alle persone dall’altra parte dello
schermo, che non hai mai visto, piuttosto che a chi sta nella stanza di fianco.
Puoi rivelare loro più cose su di te, puoi provare più attrazione per loro ed
esprimere più emozioni [...] Alla tastiera puoi concentrarti solo su te stesso, sulle
tue parole, sui sentimenti che vuoi comunicare. Non ti devi preoccupare del tuo
aspetto, di ciò che indossi o dei chili di troppo di cui ti vorresti liberare [...] online puoi convogliare tutte le tue energie sul messaggio” (Wallace, 1999, p. 151).
Se è vero che ancora esistono pochissimi studi scientifici sull’utilità della
consulenza psicologica e della psicoterapia on-line, va anche detto che l’applicazione
dei metodi e delle teorie cognitivo-comportamentali, specialmente quelli della terapia
cognitivo-emotivo-comportamentale (o REBT), in questo tipo di servizio sembra avere
buone prospettive, come dimostra anche la seguente testimonianza di una
trentacinquenne utente del sito www.Psicologonline.it:
“Questo che ho ora è il terzo psicologo che cambio. La prima è durata 8
mesi. La seconda 5 mesi e questo dura da quasi due anni. Ho avuto problemi
gravi di anoressia e bulimia, ma questi sono risolti gia da anni e senza l'aiuto di
nessuno se non con la mia pratica buddista. Quello che ancora non risolvo è di
trovare una maniera corretta di rapportarmi con me stessa e di conseguenza con
l'ambiente, in tante piccole cose. [...] Il fatto è che io un paio di volte vi ho
scritto, ed ho avuto da voi delle risposte molto più utili per me di tutte quelle
stronzate che mi dico col mio psicologo. Mi sembra che voi facciate una terapia
basata sul comportamento, molto immediata e soprattutto che si riscontra subito
nella vita di tutti i giorni. Col mio psicologo parliamo sempre di cose astratte. Io
gli dico una cosa di me e lui comincia a fare le sue supposizioni super astratte su
argomenti atavici andando alle calende greche per ogni cosa. Non che io rifiuti
di dover andare a pescare nel profondo di noi stessi, l'ho anche fatto, lo faccio
sempre, anzi forse lo faccio gia troppo io. Ma non posso basare la terapia sempre
sui meccanismi sessuali tra padri madri figli nonni zii trisavoli e avi vari. [...]
Sono ormai mesi che esco dallo psicologo, dopo aver pagato le mie 80.000 lire,
che mi chiedo...ma di che abbiamo parlato? Boh... mi dimentico della seduta tre
minuti dopo. Mentre le risposte che date voi a volte diventano dei pilastri che
non si dimenticano mai, diventano come delle grate di salvataggio per dei
comportamenti da adottare. Senza nessun condizionamento da parte vostra, però
riuscite a far ragionare la gente nel migliore dei modi.”
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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Quando si ha un problema psicologico non è sempre indispensabile rivolgersi a
un professionista. Molte persone riescono da sole a smettere di fumare, eccedere con gli
alcolici, mangiare eccessivamente. Non di rado si riescono a vincere senza alcuna
terapia certe forme di ansia, depressione, fobie, disturbi alimentari e problemi sessuali.
Secondo alcune stime dall’8% al 73% percento delle persone che hanno un problema
psicologico meritevole dell’intervento di un professionista risolvono le loro difficoltà
senza farmaci o interventi psicologici. Le percentuali cambiano a seconda del tipo di
problema, della sua gravità e dell’arco di tempo considerato. Una stima media
attendibile della percentuale di queste “remissioni spontanee” sembra essere compresa
fra il 30% e il 53% (Roth e Fonagy, 1997).
Certe personalità tendono a modificarsi in senso positivo nel corso degli anni e
chi ha confusione sulle proprie mete nella vita tende col tempo a chiarirsi le idee, chi
non riesce a controllare le oscillazioni di umore tende a stabilizzarsi, chi è troppo
sensibile al giudizio altrui tende a ristabilirsi su un livello di sensibilità più compatibile
con una vita serena.
Questi fenomeni di “remissione spontanea” dei disturbi non vengono molto
studiati ma sembra assai ragionevole presumere che le persone possano recuperare
benessere ed efficienza in vari modi; in questo senso la remissione potrebbe non essere
spontanea ma indotta dalla person a interessata. Non si tratterebbe quindi di aspettare
che il tempo passi senza fare niente per stare meglio. È vero che il contesto in cui
viviamo può migliorare con il tempo un po’ per il nostro intervento, un po’ per caso: un
matrimonio deprimente può essere interrotto e così cessare di provocare sofferenze; un
insegnante troppo esigente può insegnare in una certa classe solo per un periodo limitato
di tempo; certe frequentazioni “patogene” possono evolversi positivamente o
interrompersi; un ambiente di lavoro ostile o stressante può essere abbandonato; una
situazione di isolamento può cessare; il disorientamento stressante per una situazione
nuova può venire meno quando si conosce meglio la situazione e via dicendo.
D’altra parte non è solo il contesto a cambiare. Le persone imparano e si
trasformano e queste nuove acquisizioni possono mettere in grado di gestire
positivamente ciò che in passato era fonte di sofferenza e menomazione. Ognuno di noi
quando sta male o non è in forma si dà da fare per comprendere cosa gli stia succedendo
e per rimuovere i fattori che ostacolano il suo benessere e la sua soddisfazione. Inoltre
un contributo non indifferente al nostro benessere proviene dalle relazioni affettive e
dall’aiuto proveniente da altre persone. Le esperienze affettive “correttive” e l’aiuto
degli altri possono avere anche effetti indiretti, mettendoci in grado di darci da fare per
capire le cause e i meccanismi che mantengono i nostri problemi e per modificarli
favorevolmente.
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Libri di autoaiuto
Questo processo di comprensione e soluzione autonoma delle proprie difficoltà
prende il nome di autoaiuto (dall’inglese self-help). L’arte di vivere può essere scoperta
da sé, insegnata direttamente da persone in carne e ossa oppure appresa dai mezzi di
comunicazione, per esempio leggendo. La ricerca della felicità interessa l’uomo da
sempre e alcuni filosofi come Epicuro Epitteto, Seneca, Marco Aurelio, Montaigne,
Pascal, Bentham, Mill e Kierkegaard ci hanno lasciato insegnamenti morali che
continuano a essere utilissimi ancora oggi6.
I problemi psicologici possono essere affrontati e migliorati imparando alcune
nozioni e compiendo alcune riflessioni che aiutano ad assumere verso di essi un
atteggiamento corretto. I libri di autoaiuto psicologico possono essere classificati a mio
avviso in due categorie. La prima è quell’insieme di letture da cui si può apprendere un
atteggiamento generale verso le esperienze tipiche della vita: il dolore, la frustrazione, la
fatica e l’impegno, la paura, la morte, l’amore, la separazione dalle persone a cui si
vuole bene, il piacere, la felicità, i cambiamenti, l’amore per se stessi, il rapporto con gli
altri, con il passato e con il futuro. Vi appartengono scritti di filosofi, religiosi e
psicologi, ma anche di romanzieri, poeti, giornalisti e persone sagge con qualsiasi tipo
di studi o di esperienze alle spalle. Anche molti film provvedono utilmente alla nostra
formazione morale.
Una seconda categoria di libri, scritti prevalentemente da psicologi esperti della
materia, affronta argomenti specifici. Da un lato ci sono tutti i lavori che riguardano fasi
della vita e situazioni specifiche. Da questi libri si può imparare cosa ci si deve aspettare
da certe situazioni critiche e quali siano i modi più efficaci per affrontarle in modo da
raggiungere certi obiettivi desiderati e ridurre sofferenze inutili. Gli argomenti trattati
sono molto vari: il rapporto con un partner fisso, la nascita del primo figlio, la nascita e
l’educazione di un figlio disabile o gravemente malato, la psicologia del bambino e del
ragazzo nelle varie fasi della crescita, l’adolescenza dei figli, le difficoltà connesse al
rapporto con la scuola, con il sesso, con le droghe, i divorzi e le separazioni e via
dicendo. Sempre in questa categoria ci sono libri che insegnano a conoscere la
sessualità, rendersi ben accetti dagli altri, a far valere le proprie ragioni, a gestire bene i
conflitti con gli altri, a concludere contratti favorevoli, a vendere oggetti, a parlare in
pubblico, ad amministrare il denaro, a gestire emozioni come la vergogna, la collera, la
paura eccetera. Ognuno di questi libri, se è scritto da persone competenti nella materia,
intelligenti e capaci di esprimersi in modo corretto e facilmente comprensibile insegna
più di molte ore di conversazione con un esperto. Costituiscono degli utili punti di
riferimento da avere a portata di mano perché prima o poi nella vita arriva il momento
in cui ce n’è bisogno.
Esempi di libri di autoaiuto scritti da psicologi su fasi della vita e tematiche specifiche
Problemi emotivi generali
In genere si tratta di libri utili sia per sviluppare le proprie potenzialità di benessere, sia
per prevenire e alleviare problemi emotivi, bassa autostima, demotivazione e difficoltà
generali legate ai rapporti con gli altri.
6
Due letture facili per accostarsi agli insegnamenti morali della filosofia sono De Botton A., Le
consolazioni della filosofia, Guanda, Parma, 2000 e Savater F., Etica per un figlio, Laterza, Bari, 1992.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Dryden W., 10 passi verso il pensiero positivo, Calderini, Bologna, 1999.
Dyer W., Le vostre zone erronee, Rizzoli, Milano, 1990.
Ellis, A., L'
autoterapia razionale emotiva. Come pensare in modo psicologicamente
efficace, Erickson, Trento, 1994.
Greenberg e Padesky, Penso dunque mi sento meglio, Erickson, Trento
Lazarus A. e Lazarus C., Il tuo strizzacervelli portatile. 116 pillole di saggezza pronta
all'
uso per non uscire di testa, Positive Press, Verona, 1998.
Lazarus A.A., Lazarus C.N. e Fay A., La vita è già difficile, perché complicarsela?,
Positive Press, Verona, 1995.
Mahoney M.J., Cambiare se stessi. Strategie per risolvere i problemi personali,
Astrolabio, Roma, 1985.
Seligman M.E., Imparare l'
ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero,
Giunti, Firenze, 1996.
Problemi emotivi specifici
Ansia e fobie:
Fossum L., Dominare l'
ansia. Corso di autocontrollo (con giochi, test e questionari),
Angeli, Milano.
Lorenzini R e Sassaroli S (1991), Quando la paura diventa malattia. Come riconoscere
e curare le fobie, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo.
Ross J., Liberi dalla paura. Le tecniche più efficaci per curare ansia, nevrosi, attacchi
di panico e fobie, Geo, Milano, 1995
Vergogna
Dryden W. (2001), Vincere la vergogna, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI).
Gelosia
Dryden W. (2000), Gelosia. Come viverla in “sicurezza”, Editori Riuniti, Roma.
Timidezza, ansia sociale, fobia sociale
André C., La timidezza, Editori riuniti, Roma, 1999
Zimbardo P.G., Vincere la timidezza, Geo, Milano, 1977
Depressione
Clayton L. e Carter S., Che fare per vincere la depressione, Sipiel, Milano, 1996
Rivolto ad adolescenti depressi
Gulant M. e Gulant S.K., Che cosa fare se le persone a voi care sono depresse,
Longanesi, Milano, 1996
Coppia e sessualità
Beck A.T., L'
amore non basta. Come risolvere i problemi del rapporto di coppia con la
terapia cognitiva, Astrolabio, Roma, 1990.
Dall'Orto G., Manuale per coppie diverse, Editori Riuniti, Roma, 1994.
Dryden W. E Gordon J., Tra me e lui. I nodi da sciogliere per stare bene insieme,
Calderini, Bologna, 1996.
Lazarus A.A., 24 miti che possono rovinare un matrimonio (o peggiorarne uno già in
crisi), Positive Press, Verona, 1996.
Lo Iacono G., D'
amore e d'
accordo. Guida psicologica per la vita di coppia, Erickson,
Trento, 1999. Vengono affrontati in modo completo e chiaro i vari aspetti della
convivenza.
Subotkin R. e Harris G., Sopravvivere all'
infedeltà, Armenia, Milano, 1998.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Problemi alimentari
Dalle Grave R., Il peso ragionevole. Che cos'
è, come raggiungerlo e come mantenerlo,
Positive Press, Verona, 1995.
Bryant-Waugh e Lask, Disturbi alimentari
Fairburn C., Come vincere le abbuffate, Positive Press, Verona, 1996
Ossessioni e compulsioni
Baer L., Come raggiungere la padronanza il controllo di sé, Bompiani, Milano, 1994.
Rapporto con gli altri e comunicazione
Anchisi R. e Gambotto Dessy M., Non solo comunicare. Teoria e pratica del
comportamento assertivo, Edizioni Libreria Cortina, Torino, 1992.
Dryden W., Con te non parlo più. L'
arma del broncio nei rapporti interpersonali,
Calderini, Bulogna, 1995
Lo Iacono G., D'
amore e d'
accordo. Guida psicologica per la vita di coppia, Erickson,
Trento, 1999
Rolla E., Piacersi non piacere. La difficoltà di farsi capire, SEI, Torino, 1987.
Schulz von Thun F., Parlare insieme. Psicologia della comunicazione, TEA, Milano,
1997
Aiutare i figli
Hirschmann J.R. e Zaphiropoulos L., Come prevenire i problemi alimentari nei figli,
Positive Press, Verona, 1995
Kendall e Di Pietro, Terapia scolastica dell’ansia, ...
Lewis D., Mamma ho paura. Come aiutare vostro figlio a superare ansie e timori,
Angeli, Milano, 1993
Zimbardo, Il bambino timido, Erickson, Trento, 2001.
Migliorare le capacità di genitore
D'angela S., Il genitore competente, Erip, Pordenone, 1990
Di Pietro, L’educazione razionale-emotiva, Erickson, Trento
Douglas J., Quella peste di mio figlio. Manuale di sopravvivenza per genitori di
bambini "troppo vivaci", Angeli, Milano, 1992.
Eberlein T., E tutti fan la nanna. Come insegnare ai bambini a dormire tranquilli e altri
piccoli suggerimenti, Salani, Milano, 1999. Gordon T., Genitori efficaci. Educare figli
responsabili, La meridiana, Molfetta, 1994.
Gottman J., Intelligenza emotiva per un figlio, Rizzoli, Milano, 1997.
Petter G., Il mestiere di genitore, Rizzoli, Milano, 1997
D’altro canto, sempre in questa categoria di libri specifici, c’è un filone di opere
che ha l’obiettivo di sostituire in parte, o integrare, la psicoterapia. Si tratta di buona
divulgazione scientifica o della proposta di parte delle stesse attività psicoterapeutiche
usate dal professionista con il paziente. Ci sono opere di ogni genere che aiutano a
conoscere, “vincere”, “superare” o “dominare” lo stress, l’ansia, le fobie, le paure, le
ossessioni, i disturbi alimentari e altri disturbi mentali. Alcuni di questi testi insegnano
ad aiutare persone che hanno di questi problemi. Non sono a conoscenza di studi
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sull’efficacia di questi libri di autoaiuto ma presumo che solo in rari casi riescano a fare
centro e ad essere utilizzati esattamente nel modo che l’autore immaginava. Ad ogni
modo, quando danno indicazioni fondate logicamente e nella pratica, possono essere
utilissimi a mettere sulla strada giusta la persona in difficoltà, colmando l’ignoranza,
confutando convinzioni sbagliate, dando la preziosa sensazione di non essere soli con il
proprio problema (con la dimostrazione che il proprio è un problema noto, diffuso e
studiato), rassicurando sulla possibilità di soluzioni e informando sul loro
funzionamento e la loro accessibilità. Alcune opere riescono a risolvere in parte i
disturbi mentali che affliggono il lettore perché vanno a modificare proprio quel tipo di
pensieri, di atteggiamenti, di comportamenti e di idee che causano e mantengono il
disturbo stesso. A volte ottengono un altro importantissimo risultato: fanno piazza pulita
di convinzioni erronee sul proprio problema, che possono avere un ruolo importante nel
mantenerlo.
In sintesi, i libri di autoaiuto sono spesso un condensato di molte di quelle
informazioni che dovrebbero comunque essere apprese dalla persona sofferente
pagando sulla propria pelle gli inevitabili errori di un percorso di apprendimento. Molte
di queste informazioni inoltre possono difficilmente essere scoperte per conto proprio
da una persona che fa la sua solita vita nei soliti ambienti: potrebbero, in linea di
massima, essere trasmesse solo o principalmente da uno psicoterapeuta.
Nel rapporto umano con uno psicoterapeuta in carne e ossa continua tuttavia a
restare un qualcosa in più di cui molti hanno bisogno per risolvere i propri problemi. Da
un lato la comunicazione fra libro e lettore può essere meno efficiente della
comunicazione terapeuta paziente: il terapeuta, per esempio, adatta i suoi messaggi alle
reazioni del paziente e li personalizza, mentre il libro è dato e statico. Dall’altro ci sono
molti altri aspetti insostituibili – che qui non c’è lo spazio per descrivere - legati alla
presenza di una persona, per di più esperta nella soluzione di problemi umani.
Uso dei libri di autoaiuto in psicoterapia: la biblioterapia
La biblioterapia è una tecnica d’intervento che viene impiegata nella psicoterapia
cognitivo-comportamentale e che consiste nell’utilizzo di libri, pubblicazioni e opuscoli
come aiuto alla terapia stessa. Lo psicoterapeuta consiglia testi, o parti di testi, che il
paziente può consultare a casa, nell’intervallo tra una seduta e un’altra. L’uso della
biblioterapia si basa sulla convinzione che il cambiamento che si desidera ottenere con
una psicoterapia possa essere facilitato se ai colloqui si aggiungono altri elementi che
possono rimanere presenti anche al di fuori della seduta. Le parole dello psicoterapeuta
possono essere dimenticate o sembrare meno convincenti una volta che il paziente esce
dal suo studio e torna nel proprio ambiente.
Il fatto di avere dei testi che riprendono le considerazioni fatte durante la seduta,
aiuta la persona a comprendere meglio gli argomenti affrontati insieme al terapeuta.
Infatti, durante il colloquio il paziente spesso non è nella condizione migliore per poter
imparare cose nuove, utili per la comprensione e il miglioramento della sua situazione:
egli può essere in uno stato emotivo non adatto all’ascolto (per esempio, può essere in
ansia o triste), può avere il desiderio di parlare più che di ascoltare, può avere difficoltà
a riflettere in presenza di un’altra persona. A casa, invece, egli può scegliere il momento
più adatto per pensare ed è possibile che, da solo, riesca a comprendere meglio certe
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
questioni. Naturalmente le letture proposte vengono poi discusse nelle sedute
successive, in modo da valutare che effetto abbiano avuto sul paziente e da chiarire
eventuali ambiguità o incomprensioni.
I libri proposti possono servire per fornire informazioni su certi argomenti
specifici. Nel caso di un problema sessuale, per esempio, è possibile che la mancanza di
nozioni sul funzionamento fisiologico e sessuale nell’uomo e nella donna costituisca
parte del problema: la lettura di un testo che spieghi in maniera chiara tali aspetti può
essere utile per il paziente. Oppure può essere consigliato un testo che spieghi come
funziona la psicoterapia che il paziente sta intraprendendo in modo che costui abbia la
possibilità di prepararsi al lavoro di conoscenza di sé e di cambiamento che seguirà. In
casi come questo, la biblioterapia ha uno scopo prevalentemente didattico: si tratta di
fare in modo che il paziente apprenda delle nozioni la cui conoscenza può facilitare il
superamento del problema e il proseguimento della terapia.
L’uso dei libri non serve solo a dare informazioni su determinati argomenti, ma
anche a fornire l’opportunità di compiere riflessioni e considerazioni sul problema del
paziente o, in generale, su come raggiungere il proprio benessere psicologico, sulla
felicità e sul dolore, sui valori della vita; tutti aspetti che di solito vengono “toccati”
duranti i colloqui con il terapeuta.
Come farsi aiutare da amici e parenti7
Il peso della sofferenza dovuta a un problema psicologico, come si è detto
nell’introduzione di questo capitolo, può essere alleviato dal sostegno di altre persone.
In alcuni casi avere a fianco una persona capace di ascoltare, capire, incoraggiare,
discutere con calma, spassionatamente e razionalmente e consigliare può metterci in
condizioni di accettare o risolvere le nostre difficoltà, magari ricorrendo al contempo
anche ad altri metodi di aiuto informale o formale. Altre volte i problemi che ci
affliggono non si risolvono nonostante l’aiuto ricevuto; ciò nondimeno la sensazione di
non essere soli e abbandonati resta pur sempre un’indispensabile antidoto verso i
sentimenti di ansia e demoralizzazione che si accompagnano a ogni problema
psicologico. Anche la vergogna, il senso di colpa e la rabbia per il fatto di continuare a
divincolarsi in un garbuglio che non si riesce a dipanare possono dissiparsi confidandosi
con chi è in grado di ascoltare, accettare e comprendere senza giudicare.
Una persona vicina ci può aiutare anche consigliandoci di cercare l’aiuto di un
professionista. È un atto di responsabilità e di coraggio anche quello di riconoscere e
ammettere i propri limiti. Stare spesso vicino a una persona con disturbi di panico e
agorafobia o depressione o un disturbo ossessivo compulsivo gravi – per non parlare di
psicosi, disturbi generalizzati dello sviluppo o altre situazioni difficili – è impegnativo e
doloroso. Per la persona che aiuta, vedere che i propri sforzi di alleviare le sofferenze
psicologiche hanno effetti scarsi e nulli può essere estremamente frustrante. Il dolore di
una persona amata può essere vissuto come proprio. Le persone vicine possono
dimostrare la loro partecipazione e la loro lucida intraprendenza anche dandosi da fare
per incoraggiarci a trovare un aiuto appropriato.
7
Nel libro Lo Iacono G., D’amore e d’accordo, Erickson, Trento, 1999, si trova una descrizione
dettagliata dei modi per aiutare il partner o una persona intima.
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
I parenti e gli amici che sono più in grado di aiutarci sono quelli da cui in
generale ci sentiamo più capiti e accettati. Meglio se si tratta di persone intelligenti,
calme e equilibrate. Meglio ancora se anche loro hanno passato difficoltà simili alle
nostre e ne sono uscite.
La prima cosa da fare è chiedere aiuto apertamente e senza paura: prendetele
singolarmente in disparte e spiegatele con calma il vostro problema. Chi è timido o ha
paura della possibile reazione può pensare a come si comporterebbe se un amico gli
chiedesse aiuto; nella maggioranza dei casi si è ben disposti ad aiutare un amico.
Poi, è opportuno in genere spiegare bene in cosa consistano i propri problemi.
L’altro deve potersi mettere nei nostri panni e per farlo è necessario che capisca sia la
situazione oggettiva in cui ci troviamo sia il nostro modo soggettivo di viverla. Il
tentativo stesso di descrivere con precisione a un’altra persona cos’è che temiamo, che
non riusciamo a capire, che ci addolora o che ci sta logorando può permetterci di
organizzare per la prima volta razionalmente le idee e fare il punto della situazione.
Questo può essere molto importante perché può mettere in evidenza il bandolo della
matassa, il punto di attacco per i nostri problemi o il loro nucleo centrale. Se il nostro
modo di vedere la nostra situazione diviene più ordinato, essa può apparirci meno
incomprensibile, incontrollabile e minacciosa.
La conversazione con un’altra persona che ci pone puntualmente domande
mirate a fare chiarezza nelle lacune e nei punti oscuri del nostro racconto, può essere
molto utile proprio per organizzare la nostra rappresentazione mentale del problema in
modo tale che esso assuma dei contorni chiari, dei limiti, lasciando intravedere per la
prima volta i punti da cui si può cominciare a tentare di risolverlo. Spesso chi soffre
psicologicamente tende a generalizzare i difetti propri e altrui, fino a vedere
negativamente ogni cosa; è allora evidente quanto sia importante fare precisamente il
punto di cosa non va e di cosa invece continua a funzionare per il verso giusto. Ogni
intervento che aiuti a distinguere, a precisare, a circostanziare, a contestualizzare e a
relativizzare, per esempio, può avere un effetto positivo sulla chiarezza del pensiero e,
di conseguenza, sull’umore e la motivazione.
Per aiutare le persone vicine ad aiutarci possiamo anche rivolgere loro richieste
specifiche. In altre parole se vogliamo da loro qualcosa è bene dirlo in modo molto
chiaro, invece di affidarci completamente al loro intuito.
Sarebbe poi sconveniente dimenticare che anche chi ci aiuta ha i suoi bisogni e i
suoi problemi. A questo proposito, si può cercare di non eccedere nelle richieste di
attenzione (per esempio, non cercarlo tutti i giorni). Inoltre si può cercare di
contraccambiare. Da un lato si possono inviare semplici segnali di riconoscenza, per
esempio frasi come “grazie per avermi ascoltato, mi sei d’aiuto”, piccoli regali o
biglietti di ringraziamento. Dall’altro, se si è in condizioni di farlo, si può
contraccambiare ascoltando e cercando di capire le difficoltà che ha l’interlocutore; ciò
servirà non solo a dimostrare gratitudine e reciprocità ma anche a prendere le distanze
dai propri problemi quando si è eccessivamente concentrati su di essi.
Inoltre aiutare un altro (specialmente quando si applicano i principi della terapia
cognitivo-comportamentale) aiuta moltissimo a mantenere il proprio equilibrio
psicologico, prevenendo e migliorando quei problemi propri che sono analoghi a quelli
altrui su cui si è intervenuti. Per esempio, aiutare una persona a vincere la sua vergogna
mediante l’uso di argomenti razionali è estremamente utile per vincere la propria
vergogna. Ormai la psicologia ha identificato molte strategie efficaci per la soluzione di
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
una gran varietà di problemi psicologici. Questi principi sono esposti in forma
divulgativa in tanti libri di autoaiuto a cui si può attingere per il proprio
automiglioramento o per aiutare gli altri.
Per ottenere un aiuto efficace mi sembra importante anche non attribuire agli
altri troppe responsabilità; chi ci sta vicino può fare qualcosa per noi, ma occorre non
scivolare nell’atteggiamento estremo e scorretto di ritenere che chi ci aiuta sia il
principale responsabile del nostro stato d’animo e dei nostri problemi. L’esito probabile,
quando si assume un atteggiamento di questo tipo, è che i nostri problemi non si
risolvono – dato che il loro miglioramento dipende in primo luogo da noi – e che l’altro
si allontana o diviene ostile.
Un’ultima osservazione a proposito del linguaggio che facilita la relazione di
aiuto. Quando ci si rivolge a qualcuno (semplice confidente o professionista) per avere
aiuto, l’uso di un linguaggio eccessivamente drammatico ed emotivo per descrivere la
propria difficile situazione potrà servire ad alleggerire la propria tensione e ad essere
sicuri che il messaggio “io soffro” sia arrivato ma non facilita all’altro il compito di
aiutare. Infatti per aiutare è sufficiente sapere che tipo di situazione e di sofferenze
l’altro stia vivendo mentre soffrire insieme all’altro ridurrà la lucidità e la capacità di
risolvere efficacemente i problemi.
Gruppi di auto e mutuo aiuto
Alcolisti Anonimi è il gruppo di auto e mutuo aiuto più antico, ampio e
conosciuto. È stato il modello per la proliferazione di moltissimi altri gruppi di auto e
mutuo aiuto in tutto il mondo che radunano persone accomunate dalle circostanze più
svariate8. In questi gruppi i membri condividono le loro esperienze, le loro risorse e le
loro speranze allo scopo di risolvere il problema che li accomuna. Essi sono spesso
un’alternativa e un complemento dell’intervento dello specialista.
Il termine autoaiuto fa riferimento al fatto che in questi gruppi non sono diretti
da uno specialista – come nei gruppi psicoterapeutici – ma sono organizzati e gestiti dai
diretti interessati (anche se esistono organizzazioni, come l’italiana AMA, che attivano
gruppi di auto e mutuo aiuto su varie tematiche senza essere costituite da persone che
condividono tali problemi). A volte i gruppi sono coordinati da una figura professionale
che facilita e attiva i processi di comunicazione nel gruppo. Ma l’aiuto è reciproco e non
prevalentemente unidirezionale (dal terapeuta ai pazienti) come nel gruppo terapeutico –
da qui deriva l’espressione mutuo aiuto: “io aiuto te e tu aiuti me”.
Ma il termine auto aiuto fa riferimento anche al fatto che aiutando gli altri ogni
persona aiuta anche se stessa. Il fatto di aiutare un’altra persona a condividere un modo
più realistico, razionale o utile (e quindi più salutare) di considerare la sua situazione si
rivelerà utile anche a chi aiuta, nel momento in cui si troverà a vivere la stessa
situazione o fare su di essa le stesse considerazioni.
Negli ultimi decenni sono sorti molti gruppi di auto e mutuo aiuto
principalmente a causa dell’insoddisfazione per le spiegazioni e gli interventi di tipo
medico e per la maggiore accettazione dell’idea di cercare sostegno presso persone con
gli stessi problemi. In questi gruppi ognuno può finalmente sentirsi “normale”,
8
Vedi per esempio la sezione Risorse di aiuto psicologico/Autoaiuto/Associazioni all’indirizzo Internet
http://www.psicologonline.it/risorse/1c.asp
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
accorgendosi che le proprie esperienze con un certo problema non sono uniche o
incomprensibili. La sensazione di non essere i soli a portare un certo peso, di avere un
proprio posto nella comunità umana e di avere qualcosa da offrire e ricevere da altri
uomini è molto profonda.
Chi partecipa a un gruppo di auto e mutuo aiuto lo fa con l’aspettativa di
ricevere sostegno emotivo, condividere esperienze personali, e trovare nuovi modi per
affrontare il problema comune. Uno degli aspetti che dà forza, nei gruppi messi in piedi
con l’iniziativa propria e di persone simili, è l’esperienza dell’autonomia, del controllo
del gruppo, dell’essere esperti del proprio problema.
La partecipazione ai gruppi di aiuto sembra essere una via particolarmente
efficace per vincere la sensazione di “non essere normali” (vedi capitolo terzo). La
riduzione dei sentimenti negativi e dalla demotivazione che possono nascere dal senso
di essere diversi e soli nella propria sfortuna può costituire una buona premessa per una
iniziativa personale di autocambiamento. D’altra parte i gruppi di auto e mutuo aiuto
offrono anche un’altra opportunità inconsueta e importate: quella di conoscere persone
che, essendo partite da condizioni di menomazione e sofferenza simili alle proprie,
hanno cominciato efficacemente a prendere il controllo della propria situazione di
disagio. Queste persone dimostrano che il problema che accomuna il gruppo può essere
veramente vinto e spesso sono disponibili a spiegare come hanno fatto a risolvere la
situazione; essendo andati “in avanscoperta” posso avvertire chi è rimasto indietro di
quali sono i passaggi più difficili e di come è possibile superarli utilizzando le proprie
risorse mentali ed emotive.
Gruppi di auto e mutuo aiuto on line
Nei gruppi di auto e mutuo aiuto on-line i membri si danno vicendevolmente
sostegno psicologico, scambiano informazioni di utilità pratica, si danno consigli,
condividono esperienze, fungono da modelli per gli altri con i loro punti di forza, si
rafforzano, aiutano se stessi aiutando gli altri e si difendono vicendevolmente così come
nei gruppi di auto e mutuo aiuto faccia a faccia.
I forum on line e le mailing list di auto e mutuo aiuto offrono alcuni vantaggi
rispetto ai gruppi con incontri faccia a faccia: disponibilità ventiquattro ore su
ventiquattro, maggiore libertà nella scelta dei messaggi a cui rispondere e degli
argomenti da iniziare e a cui partecipare, anonimato e riservatezza, possibilità di
rispondere immediatamente o successivamente, possibilità di conservare la registrazione
di tutti i messaggi scambiati. Nessuno può sentirsi giudicato per il suo aspetto.
Nel box 10.1 riporto un estratto da un forum di auto e mutuo aiuto, che dimostra
come i visitatori espongono i loro problemi e che tipo di aiuto possono ricevere.
Box 10.1 Estratto dal forum di Psicologonline
(http://www.psicologonline.it/wel_forum.asp) dedicato ai problemi sentimentali e
sessuali. L’argomento è “Dimenticare?” ed è stato proposto da un visitatore che ha
scelto lo pseudonimo Pepito.
Pepito 19/10/2000
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
Come per l'autore di "Catastrofe sentimentale", anch'io vivo una storia simile. Dopo tre
anni e mezzo in cui sembrava che fossimo destinati a vivere insieme per sempre, è
avvenuto che lei, il giorno dopo il ritorno da una vacanza insieme, abbia deciso di
chiudere con me. Decisione apparentemente improvvisa, ma che ho poi scoperto essere
il frutto di riflessioni ed episodi non lontani nel tempo. Mi ero dedicato a lei anima e
corpo: adesso mi riesce difficile persino uscire con i miei amici di un tempo. Niente mi
va bene, sto diventando un musone incredibile, ne vorrei uscire al più presto, ma non so
come fare. A volte mi sforzo di parlarne con amici e persone vicine, la cosa mi fa stare
meglio per un po', poi torna tutto come prima. Ho una grande voglia di dimenticare
tutto, ma come?
Prima risposta a Pepito
Nervosa 19/10/2000
Ciao
Pepito.
A me dispiace molto quando sento di storie come la tua, forse xché' temo che possano
benissimo capitare anche a me. Poi però riflettendo rimetto sempre in gioco una
teoria:ogni cosa ha sia il lato positivo che quello negativo. Non so se hai letto il
problema che io ho col mio ragazzo, ma comunque: se io non fossi fidanzata con lui
sicuramente non lo avrei, ti pare? Perciò pensa ai problemi che avevi con lei, alle
eventuali incomprensioni o mancanze di complicità tra te e lei, o altro insomma.
Sicuramente c'era qualcosa di lei che in fin dei conti non ti piaceva tanto. L'amavi
molto? Beh, se e' finita significa che doveva finire e che di certo qualcosa ne guadagni
pure tu dalla fine di questa storia. Sii lucido e pensa al futuro: la vita è bella perché
varia, e tu adesso hai la libertà di scegliere, decidere e vivere come ti pare e piace a te. E
non è roba da poco! CIAO.
Seconda risposta a Pepito
Anonimo 19/10/2000
Ciao sono l'autore di catastrofe sentimentale "in arte" Davide. X me sono passati
ormai mesi e anche se sono passate le vere crisi (e fidati che mi ero veramente ridotto a
uno schifo) molto spesso soffro ancora ..... comunque adesso riesco a ragionare e
quando ho una "crisi" penso a lei nei momenti brutti passati insieme (ad esempio
quando litigavamo) e tanti altri momenti .... oppure penso a tutt'altro (musica .....
vacanze .... lavoro ......moto ecc ) vedrai che passa.....!!!! Te lo dice uno che ha diviso 8
dei suoi migliori anni con una lei!!!! Non ti sto dicendo che mi è passata
però..........!!!!!! Ti saluto e ti posso solo dire di non pensarla mai (è difficile lo so)
CIAO.
Terza risposta a Pepito
Audace 19/10/2000
Hai mai sentito la canzone che diceva... Eppur mi son scordato di te.... come ho
fatto non so....un tuffo dove l'acqua è più blu ...... ecc ecc Non te la
dimenticherai. Ti rimarrà nel cuore per sempre. E se l'odierai è solo perché il
bene che le vuoi è troppo e razionalmente ne inverti la polarità.... probabilmente
non ti sarà mai indifferente. Benvenuto nel club, dunque. A me è durata dieci
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
anni .... è finita 5 anni fa.... se è stata veramente profonda come dici... passerai,
probabilmente, un periodo di depressione prima, uno di evasione dopo, andrai a
letto con molte donne e ti sembrerà di nutrirti ogni volta che lo fai per poi, alla
lunga, avere l'impressione di morire di fame. É tutto OK. L'unica cosa da cui mi
sento di metterti in guardia, sono gli innamoramenti passionali. Spesso il nostro
bisogno di amore, ma a volte di compassione, ci fa innamorare di qualcuno che è
semplicemente una persona buona. Prenditi tutto il tempo che vuoi, ne hai
bisogno. Ah! Se qualcuno ti dice che non si è più innamorato dopo il grande
amore della sua vita.... sorridi... quella è stata una scelta, non la naturale
conseguenza delle cose. Ciao e scusa l'invadenza.
Pepito 8/11/2000
Grazie a te e agli altri che hanno risposto al mio messaggio. Leggere pareri obiettivi e
disinteressati, nonché belli, fa davvero bene. Pian piano mi sto organizzando per bene,
devo dire che il peggio è passato. Forse fra qualche tempo canterò "Eppur mi son
scordato di te, come ho fatto, non so"...
Per Moira: quando ho risposto al messaggio "sincerità", ero ancora troppo scottato e
sentivo tradita la fiducia che avevo riposto in una persona. A distanza di un po' di
tempo, devo dirti che hai perfettamente ragione: bisogna scegliere le persone con cui
essere sinceri. Sono sempre stato convinto che vivere nella falsità sia un delitto, anche
se poi si va inesorabilmente incontro a batoste tremende.
Per le persone che vivono in zone rurali, per coloro che hanno una disabilità che
limita le possibilità di movimento e per chi non se la sente di cercare il sostegno faccia a
faccia di altre persone concretamente presenti (per esempio, per problemi di insicurezza,
timidezza o ansia) l’esistenza dei forum di auto e mutuo aiuto su Internet rappresenta
un’opportunità rara. Oggi chi è confinato in un letto o è affetto da una malattia rara o
non può usare mezzi di trasporto può incontrare persone che vivono in condizioni simili
sparse per il mondo.
La partecipazione a questo tipo di gruppi non costa nulla, non richiede
spostamenti, permette di partecipare o non partecipare agli scambi di opinione senza
doverne rendere conto a nessuno. In alcuni casi, come nel forum di
www.Psicologonline.it, c’è anche la possibilità di segnalare il proprio indirizzo di posta
elettronica e di approfondire quindi in privato una conoscenza. A questo tipo di forum
partecipano persone già in terapia, persone che non si sono ancora rivolte a un servizio
professionale per il loro problema, persone che partecipano già a gruppi di auto e mutuo
aiuto faccia a faccia e persone che non condividono il problema di cui si parla nel forum
ma che semplicemente sono mosse da intenti altruistici.
Secondo alcune ricerche, i benefici psicologici della partecipazione ai gruppi di
auto e mutuo aiuto on-line sono sostanzialmente uguali a quelli della partecipazione a
gruppi di auto e mutuo aiuto reali (King e Moreggi, 1998).
Orientarsi nel mondo dell’aiuto psicologico
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