UALE
psicologia
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
Società Italiana di Psicoterapia Strategica
Società Italiana di Psicoterapia
7
Nuova Serie
Settembre 2016
QUALE psicologia
Semestrale dell’Istituto per lo Studio delle Psicoterapie fondato nel 1992
Organo della Società Italiana di Psicoterapia e della Società Italiana di Psicoterapia Strategica
Anno 3 – Numero 7 - Settembre 2016
Direttore scientifico
Filippo Petruccelli
Comitato scientifico
Barbara D’Amario, Pierluigi Diotaiuti, Guglielmo Gulotta, Fausto Massimini, Luciano Mecacci, Patrizia Patrizi, Irene Petruccelli, Valeria Schimmenti, Chiara Simonelli,
Rosella Tomassoni, Giulia Villone Betocchi, Valeria Verrastro
Direttore responsabile
Valeria Verrastro
Redazione
Elena Cabras, Rocco Chizzoniti, Cristina Colantuono, Clarissa Albanese, Anna Rizzuti,
Valeria Saladino, Maria Teresa Serranò, Marzia Proietto, Anna Maria Sansoni, Patrizia Ottocento
Grafico
Renato De Marco
Direzione, Redazione e Amministrazione
00185 Roma – Via San Martino della Battaglia 31
Telefoni 06 44340019, 328 6068080 – Fax 06 44340017
www.qualepsicologia.it
Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 86 del 17 Aprile 2013
ISSN 1972-2338
È consentita la riproduzione dei testi citando la fonte
Finito di stampare in proprio a Settembre 2016
QUALE psicologia, 2016, Numero 7
QUALE psicologia
Numero 7 – Settembre 2016 – Nuova Serie
SOMMARIO
5 Aggiungere vita agli anni…attiva-mente: un progetto di potenziamento cognitivo nella
Terza Età
Adding life to years…mind-actively: a project of cognitive empowerment for seniors
Vincenza Pecora, Annunziata Rizzi
14 Lo stalking da un punto di vista psico-giuridico
Stalking by a psycho-legal point of view
Alessandra Grieco
21 Disfagia psicogena: un caso clinico trattato con psicoterapia strategica
Psychogenic dysphagia: a clinical case with strategic phsychotherapy
Lorena Calandi
37 La psicoterapia strategica applicata a livello familiare integrata ad un percorso di rieducazione neuropsicologica individuale
Psychotherapy strategically applied at the household level integrated to a path of individual
neuropsychological rehabilitation
Lorena Calandi
51 Quando il sesso diventa un problema
When sex becomes a problem
Simona Nigro
57 Recensione, Petruccelli F., Verrastro V. (2012). La relazione d’aiuto nella psicoterapia strategica. Milano: Franco Angeli
Valentina De Franco
59 Norme Redazionali
QUALEpsicologia, 2016, 7
3
Aggiungere vita agli anni…attiva-mente:
un progetto di potenziamento cognitivo nella Terza Età
Adding life to years…mind-actively: a project of cognitive
empowerment for seniors
Vincenza Pecora, Annunziata Rizzi1
Riassunto
L’articolo racchiude in sé l’intento di descrivere l’immagine dell’anziano attraverso
uno sguardo volto a esaltare la dimensione della persona-soggetto a fronte dei
cambiamenti che l’invecchiamento impone. La riflessione prende avvio dall’analisi
della realtà dell’invecchiamento a livello nazionale per poi descrivere un progetto che
ha interessato un gruppo di 20 anziani, coinvolti in un ciclo di incontri di “Ginnastica
della mente”. Il presupposto generale di questi incontri è quello per cui ognuno di noi
possiede delle capacità che, per svilupparsi o mantenersi, devono essere stimolate e
incoraggiate a qualsiasi età.
Parole chiave
Persona, cambiamenti, invecchiamento, ginnastica della mente
Abstract
This study has the purpose to describe elderly conditions focusing on the people-subject
dimension across aging changes. Discussion starts analyzing the national aging reality
to introduce later a project that involved a group of 20 senior citizens who attended a
cycle of meeting about “Mental Gymnastics”. The general assumpition of these
meetings supports that everyone hold skills that need to be stimulated and encouraged
at any age to get developed or maintained.
Keywords
Person, changes, aging, mental gymnastic
La situazione della Terza Età
L’Italia è uno dei paesi in cui è stato possibile osservare un alto tasso di invecchiamento
della popolazione. Fra le varie fotografie demografiche sviluppate dagli istituti di
ricerca emerge un’immagine prospettica che vede rispetto al 2000 un incremento del
48% nel 2026 e del 77% nel 2051. Questo significa che le persone con più di 65 anni di
età, attualmente circa 11 milioni e mezzo, saranno quasi 15 milioni nel 2026 e poco
meno di 18 milioni nel 2051 (www.eurispes.it). Un ritratto che vede nel continuo
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aumento dell’invecchiamento il riflettersi di una forte affermazione che descrive
“l’Italia come il paese più vecchio al mondo” secondo l’analisi dell’Onu risalenti al
2002.
Le dinamiche demografiche del processo d’invecchiamento sono dovute a due
componenti:
la dinamica naturale ricavata dal saldo fra i nati e i morti che in Italia è negativa,
in quanto il numero dei morti è superiore al numero dei nati in uno stesso anno a
causa di un basso tasso di natalità persistente e una costante crescita delle
aspettative di vita;
la dinamica migratoria ricavata dal saldo fra i nuovi ingressi e le uscite
dall’Italia è positiva e nelle proiezioni rimane costante nel tempo con un tasso
positivo dell’1,9 per mille fra il 2000 al 2010.
Grazie a questi fattori la struttura demografica subisce continui cambiamenti che
contribuiscono alla crescita dell’indice di vecchiaia. L’indice passa in dieci anni da 125
a 146: ciò significa che si passa dalla presenza di 125 anziani su 100 giovani a 146
anziani su 100 giovani con un aumento della popolazione anziana al di sopra dei 75 anni
cospicuo dovuto alle maggiori aspettative di vita (www.istat.it).
Anche in Italia come in Europa il livello di invecchiamento si differenzia a livello
regionale. La prospettiva al 2010 del tasso di incremento medio annuo a livello
nazionale è di 1,4 per mille, valore positivo che racchiude però valori contrastanti che
oscillano dai più alti tassi positivi nel Trentino Alto Adige, della Valle d’Aosta, del
Veneto, delle Marche e della Lombardia, ai tassi negativi di una certa rilevanza quali
quelli della Liguria, del Molise, della Basilicata e della Calabria (www.istat.it).
L’invecchiamento è un processo che si sviluppa lungo l’intero arco di vita
dell’individuo, ma che inizia a manifestarsi dopo il raggiungimento della maturità.
Nell’uomo le modalità con cui esso si realizza sono il risultato dell’interazione di
diversi fattori: biologici, psicologici, ambientali, sociali ed economici.
Da un punto di vista biomedico, l’invecchiamento è un processo che induce molteplici
modificazioni a carico dei diversi organi, sistemi e apparati, in conseguenza delle quali
l’individuo perde sempre di più la capacità di adattarsi all’ambiente (omeostenosi) e,
conseguentemente, acquisisce una crescente probabilità di morire; esso causa, quindi,
una progressiva perdita dell’efficienza delle riserve funzionali e dei meccanismi che
l’organismo utilizza per mantenere il proprio equilibrio interno (omeostasi).
L’invecchiamento è un processo continuo e progressivo che si caratterizza per
un’estrema eterogeneità, sia interindividuale, nel senso che si sviluppa con velocità
diversa da soggetto a soggetto, che intraindividuale, non interessando in maniera
omogenea nello stesso soggetto i diversi organi e apparati e, all’interno di essi, le
diverse componenti (Franceschi C., 1993).
È possibile distinguere tre tipi di invecchiamento (Franceschi C., ibidem):
invecchiamento di tipo 1: è quello che attualmente riguarda la maggior parte
delle persone anziane; si caratterizza per una progressiva riduzione dell’etàdipendente delle capacità psico-fisiche del soggetto in presenza di malattie;
invecchiamento di tipo 2: riguarda la quasi totalità degli anziani sani; si realizza
con i segni classici della progressiva riduzione delle loro capacità psicofisiche,
in assenza di importanti malattie età correlate;
invecchiamento di tipo 3: identifica anziani sani con prestazioni eccezionali per
la loro età; rappresenta il cosiddetto invecchiamento di successo.
Molti degli elementi che differenziano l’anziano dall’adulto sono espressione dei
cambiamenti subiti dal cervello nel corso della vita, al cui determinismo contribuiscono
non solo il processo della senescenza di per sé e numerosi fattori ambientali (dallo stile
di vita al ruolo familiare e sociale) ma, anche, malattie pregresse o persistenti che,
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direttamente od indirettamente, compromettono la funzionalità dell’organismo. In senso
stretto si definisce invecchiamento il cambiamento, nel tempo, delle caratteristiche
funzionali di un organismo; con il termine senescenza s’intende quel sottoinsieme di
cambiamenti che hanno un effetto negativo.
Anche se in misura diversa da soggetto a soggetto, tutte le funzioni cerebrali risultano
modificate in tarda età, da quelle cognitive, all’affettività, alla motricità, all’equilibrio,
al ritmo sogno-veglia, realizzando il peculiare modo di essere di ciascun anziano.
Le manifestazioni dell’invecchiamento dell’individuo si hanno quando la ridondanza e
la plasticità dei vari sistemi non sono in grado di compensare efficacemente la perdita di
struttura alla quale si va incontro con l’età. L’esatto momento in cui ciò si realizza
dipende dalla relazione fra fattori genetici e ambientali. I fattori genetici sono
responsabili di caratteristiche quali, ad esempio, la ricchezza nel patrimonio neuronale,
la diversa resistenza a diverse noxae patogene e l’efficienza dei meccanismi di
compenso. I fattori ambientali sono invece rappresentati da tutta quella serie di
condizioni, estremamente eterogenee, in grado di accelerare o contrastare
l’invecchiamento, come per esempio lo stile di vita, il tipo di attività lavorativa e
l’esposizione a sostanze tossiche. Definire quale sia il peso relativo dei fattori genetici e
di quelli ambientali sull’invecchiamento non è aspetto di poco conto. Che l’ambiente
svolga un ruolo primario nelle modalità d’invecchiamento del cervello è stato costatato
dall’esperienza clinica. Numerosi sono i casi descritti di grave compromissione dello
stato mentale in prigionieri costretti a vivere in ambienti angusti, al buio, senza alcuna
possibilità di interazione umana. Nei confronti di questi quadri da “deprivazione neurosensoriale”, l’anziano è soggetto particolarmente a rischio in rapporto alla maggiore
precarietà omeostatica del suo cervello (Mecocci P., Cherubini A., Senin U., 2002).
Garantire pertanto all’individuo una condizione di vita attiva, ricca sul piano psicoaffettivo e delle relazioni sociali, gratificante su quello professionale, stimolante da un
punto di vista culturale, significa metterlo nelle migliori condizioni per un
invecchiamento di successo (invecchiamento di tipo 3), quello cioè che lo vedrà, anche
in età molto avanzata, in condizioni psico-fisiche ottimali in piena autonomia di vita.
Questi principi mantengono la loro validità anche in chi è già anziano, come dimostrato,
fra l’altro, dalla possibilità di migliorare le sue capacità cognitive mediante opportuni
esercizi di stimolazione mentale.
Il Brain Training
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’Invecchiamento attivo come
“il processo di ottimizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e sicurezza per
migliorare la qualità della vita della popolazione durante l’invecchiamento.
L’invecchiamento attivo consente alle persone di mettere a frutto il proprio potenziale
per il benessere fisico, sociale e mentale lungo l’intero arco dell’esistenza e partecipare
alla vita sociale offrendo loro al contempo un’adeguata protezione, sicurezza e
assistenza in caso di necessità”.
Le abilità cognitive di base, come la memoria, l'attenzione e la velocità di elaborazione
possono essere migliorate con un allenamento adeguato.
Uno studio sulle abilità cognitive degli anziani, chiamato ACTIVE (Advanced
Cognitive Training for Independent and Vital Elderly) e finanziato dal National Institute
of Health, ha dimostrato che gli adulti più anziani sono migliorati nelle loro capacità
cognitive con un allenamento appropriato mantenendo alcuni di questi benefici molti
anni dopo. In questo trial randomizzato (ACTIVE, 1999-2001), condotto da ricercatori
di diverse università statunitensi (University of Alabama, Hebrew Rehabilitation Center
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for the Aged in Boston, Indiana University, Johns Hopkins University, Pennsylvania
State University, University of Florida/Wayne State University di Detroit), oltre 2800
adulti di età compresa tra 65 e 94 anni hanno ricevuto un allenamento nel campo della
memoria, del ragionamento o della velocità di elaborazione. Dopo circa 10 ore di
allenamento, ogni gruppo è nettamente migliorato nel settore in cui è stato preparato e
cinque anni dopo, i soggetti hanno mantenuto molti dei loro progressi (Journal of the
American Geriatrics Society Volume 62, Issue 1, pages 16–24, January 2014).
Sono molti i fattori che influenzano la capacità cognitiva in età avanzata. Si ritiene che
grazie a uno stile di vita sano e ad un esercizio psicofisico costante, le persone anziane
possano rallentare il processo di deterioramento mentale. In generale, è possibile
asserire che l’attività costituisce il fattore di fondamentale importanza per il
mantenimento di una buona qualità della vita in età avanzata.
Il Progetto
Gli esercizi del programma di Ginnastica della Mente sono progettati per stimolare la
neuroplasticità e portare ad un miglioramento delle capacità cognitive.
Gli incontri di “Ginnastica della mente” svolti nel Progetto sono stati programmati con
l’obiettivo della stimolazione mentale delle capacità cognitive, quali memoria,
attenzione, linguaggio, ragionamento logico, orientamento, e di quelle affettive
riconducibili all’intelligenza emotiva. Il presupposto generale è quello per cui ognuno di
noi possiede delle capacità che, per svilupparsi o mantenersi, devono essere stimolate e
incoraggiate a qualsiasi età.
Gli incontri sono stati progettati da un’équipe costituita da una psicoterapeuta, una
psicologa e un’assistente sociale e, poi, condotti dalle ultime due figure professionali,
con la co-conduzione di una tirocinante in psicologia; sono stati svolti in un salone della
Parrocchia dei Santi Filippo e Giacomo in Sant’Agostino di Reggio Calabria. Il corso si
è svolto in un arco temporale di tre mesi ed è stato articolato in incontri settimanali della
durata di un’ora ciascuno, per un totale di 10 ore. Il gruppo era costituito da 20 anziani,
di età media di 73 anni, autosufficienti e senza patologie cognitivo-relazionali.
Le attività sono state realizzate tramite l’utilizzo del gioco finalizzato. Attraverso il
gioco si possono fare nuove esperienze. Si è prevista, quindi, una metodologia di lavoro
attiva ed equilibrata per questa fascia d’età, nella quale l’anziano potesse lavorare con
tranquillità, distensione e rispetto dei propri tempi evitando qualsiasi atteggiamento non
supportivo per l’autostima e l’autoefficacia. Il lavoro dell’anziano è stato motivato
attraverso l’agevolazione della partecipazione e l’offerta di tutte le informazioni
necessarie per il corretto svolgimento degli esercizi proposti.
Le finalità proposte attivando il corso di Ginnastica della Mentale sono state le seguenti:
1. Potenziamento delle risorse cognitive, emozionali e comportamentali dell’anziano;
2. Prevenzione delle patologie degenerative cerebrali;
3. Attivazione di un clima di sostegno empatico all’interno del gruppo per sviluppare
al meglio le proprie capacità.
Gli obiettivi sono stati i seguenti:
1. Potenziamento dei canali dell’attenzione: attenzione selettiva, uditiva, ascolto,
attenzione selettiva visiva, attenzione divisa;
2. Potenziamento fase ingresso delle informazioni;
3. Potenziamento fase di elaborazione dell’informazione: attivazione pensiero laterale,
pensiero creativo, pensiero logico, pensiero critico, memoria;
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4. Potenziamento della fase di uscita delle informazioni: assertività, dare feedback
positivi, gestione dei conflitti, gestualità e tono di voce, gestione della tensione e
dello stress.
L'allenamento mentale è stato basato sia sull'esercizio individuale sia sulla
socializzazione e la condivisione tra i membri del gruppo. Si è scelto di usare anche il
metodo del lavoro di gruppo come proposta di cambiamento e arricchimento dal punto
di vista cognitivo, affettivo e relazionale nella prospettiva di raggiungere obiettivi
comuni. Lavorare in gruppo comporta molti benefici:
lo scambio di esperienze, vissuti, idee e sentimenti;
l'ascolto reciproco e il confronto costruttivo;
la condivisione di scopi collettivi;
l'appoggio emotivo e sociale;
la crescita nella fiducia personale;
il sentirsi valorizzati e affermati.
Ogni incontro è stato aperto con frasi di presentazione del tema centrale e di spiegazione
delle finalità dei singoli esercizi da svolgere. Si ritiene questo un buon avvio
dell’incontro stesso poiché, in tal modo, viene diminuita l’apprensione iniziale che
tormenta verosimilmente la maggior parte dei partecipanti. Codesta apertura
contribuisce a motivare la loro adesione attraverso la comprensione degli obiettivi che si
possono realizzare. La breve introduzione, inoltre, rafforza l’importanza di una
partecipazione attenta e consapevole agli esercizi.
Il modo in cui le esercitazioni sono presentate può e deve essere funzionale agli obiettivi
dell’esercizio stesso e alle esigenze dei partecipanti al gruppo. Le prove sono state
spiegate in maniera chiara e comprensibile. Prima di iniziare l’esercizio vero e proprio,
è stato verificato che tutti avessero capito correttamente le istruzioni; se ciò non
avvenisse, il conduttore è tenuto a ripetere, con parole diverse, i concetti e i punti non
chiari.
Durante gli esercizi è stato chiesto ai partecipanti di lavorare da soli, in coppia o di
dividersi in squadre.
Le squadre sviluppano competitività e possono dare risposte costruttive in termini di:
aumento della motivazione alla partecipazione;
aumento del coinvolgimento;
cooperazione tra i membri;
senso di unità all’interno della squadra;
entusiasmo ed energia diretti al conseguimento di un obiettivo;
senso di appartenenza a un gruppo definito.
Per quanto concerne la coppia, la stretta collaborazione tra due partecipanti durante un
esercizio consente di sperimentare i seguenti atteggiamenti e mettere in atto i seguenti
comportamenti:
decisionalità congiunta;
sostegno e solidarietà reciproche;
comunanza di opinioni;
cooperazione;
comunicazione vicendevole di informazioni, esperienze, sensazioni.
L’individuo da solo, invece, può essere molto forte o molto vulnerabile. In un esercizio
in cui al partecipante è stato chiesto di impegnarsi individualmente, ciò è stato
finalizzato ad aiutarlo a scoprire le proprie potenzialità di soggetto posto in relazione
con gli altri. Il lavoro individuale in generale è finalizzato alla messa in atto dei seguenti
comportamenti:
prendere decisioni;
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assumersi responsabilità;
osservare e valutare obiettivamente le proprie debolezze e i propri punti di forza;
migliorare le capacità già acquisite;
sperimentare la riuscita e il successo;
accrescere la fiducia in se stessi.
Alla fine di ogni esercizio c’è stato un confronto. Quest’ultimo momento è stato molto
importante, poiché, ha costituito l’occasione per parlare di ciò che ha avuto luogo, per
tradurre in parole le difficoltà affrontate e iniziare ad individuare e consolidare strategie
funzionali di osservazione, memorizzazione e problem-solving.
In chiusura si è chiesto al gruppo di riassumere il tema del giorno e indicare i punti
chiave emersi nel corso dell’esercizio, invitando i partecipanti ad esprimere i propri
vissuti.
Ciascun incontro è stato chiuso con una nota positiva e, infine, con la descrizione breve
del tema dell’incontro successivo, ricordando a tutti i membri il giorno, l’ora e il luogo.
È stato utilizzato un questionario all'inizio e alla fine del percorso al fine di verificare i
miglioramenti conseguiti, sia nell'area specifica delle capacità cognitive sia nell'area più
generale dello stato di benessere soggettivamente percepito.
Di seguito sono riportati alcuni esempi di esercitazioni.
Il gioco dell’intruso
In questo gioco le abilità stimolate sono state: l’attenzione sostenuta e attenzione
selettiva, controllo e inibizione della risposta impulsiva e la memoria. È stato indicato ai
partecipanti un preciso luogo della casa (per esempio la cucina). Successivamente sono
stati elencati una serie di oggetti e i membri del gruppo hanno alzato la mano ogni volta
che hanno sentito il nome di un oggetto che non appartiene alla categoria semantica
scelta.
Occhio alla parola
In questo esercizio le abilità stimolate sono state: l’attenzione sostenuta e attenzione
selettiva, attenzione divisa, memoria di lavoro, linguaggio (comprensione). Il
riabilitatore ha letto una breve storia e i soggetti hanno dovuto contare mentalmente
quante volte è stata proposta una singola parola precedentemente stabilita. Tutti i
partecipanti hanno riferito il numero e infine è stata data loro la soluzione corretta.
I cambiamenti
Questo esercizio è servito a migliorare la capacità di una persona di percepire
correttamente gli altri e di essere inventiva. Si tratta di un gioco in cui sono state
formate due squadre che si sono disposte in modo tale che ogni giocatore si trovasse di
fronte a un giocatore dell’altra squadra. Una delle squadre si è girata verso il muro,
contemporaneamente ogni membro dell’altra ha cambiato tre elementi del proprio
aspetto. Ritornata alla posizione iniziale, la prima squadra ha cercato di individuare i
cambiamenti. In seguito si è proseguito il gioco aumentando il numero delle modifiche
effettuate.
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Quante più cose vengono in mente
In questo esercizio le abilità stimolate sono state: linguaggio, memoria semantica,
accesso al lessico, uso di strategie cognitive. Sono state mostrate ai partecipanti delle
tessere in cui è stata specificata una determinata categoria semantica. Per ciascuna di
quest’ultima ogni partecipante ha riferito tutte le parole che gli sono venute in mente
cercando di stare attento alla non ripetizione dei termini già espressi dai precedenti
partecipanti.
Indovinelli
In questo esercizio le abilità stimolate sono state: linguaggio, memoria, ragionamento
logico, comprensione. Sono stati letti degli indovinelli con risposta a scelta multipla e i
partecipanti agli incontri, divisi in due squadre, hanno provato, dopo essersi consultati, a
dare la risposta corretta. A ogni risposta corretta è stato assegnato un punto alla squadra.
Inoltre è stato richiesto alle squadre di ricordare più indovinelli possibili tra quelli
precedentemente letti.
Che strada devo fare?
In questo esercizio le abilità stimolate sono state: orientamento spaziale, memoria
autobiografica, memoria di lavoro, ragionamento logico. In questo esercizio è stato
chiesto a ogni membro del gruppo che strada possono compiere per arrivare dalla
parrocchia a casa loro. I partecipanti hanno dovuto descrivere le direzioni da prendere
per esempio: “uscito di casa giro a destra, proseguo dritto e arrivo in una piazza ecc.”.
La medesima cosa è stata fatta in riferimento ad altri luoghi. Tutti gli individui sono
stati coinvolti nell’esercitazione.
Conclusioni
Quello che è emerso in maniera univoca è che l’entità delle modificazioni delle funzioni
cognitive è fortemente influenzata, oltre che dall’invecchiamento, da una molteplicità di
fattori ambientali.
Le difficoltà nella memorizzazione sono state le più osservate negli anziani e sono state
anche quelle di cui essi si sono maggiormente lamentati. A differenza della memoria a
lungo termine, quella a breve termine è risultata particolarmente labile. Alcuni anziani
hanno presentato una ridotta capacità di codificazione, cioè di implementare strategie
finalizzate al mantenimento dell’informazione.
Grazie agli esercizi effettuati, con il suggerimento di tecniche di codifica, le
performance dei soggetti sono migliorate. Per quanto concerne, invece, la memoria
storica, sia quella che fa riferimento a fatti relativi alla vita del soggetto (memoria
episodica), che quella relativa a conoscenze comuni (memoria semantica), non sono
state osservate compromissioni rilevanti. È, probabilmente, il loro richiamo frequente e
la loro valenza affettiva a rendere la loro traccia così forte nella memoria da essere
difficilmente persa anche in età avanzata.
Le abilità visuo-spaziali e visuo-prassiche, quelle cioè relative alla capacità di percepire
e manipolare informazioni visive di tipo non verbale (ad esempio la disposizione di
figure geometriche nello spazio) sono apparse leggermente compromesse per la minore
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efficienza delle funzioni sensoriali. A quest’ultima è attribuito il rallentamento dei tempi
di reazione di alcuni soggetti negli esercizi proposti.
Per quanto riguarda il ragionamento logico, la maggior parte dei soggetti ha presentato
capacità inalterate anche in età avanzata; tuttavia nelle attività che necessitavano una
rapida elaborazione d’informazione, vi era un rallentamento nell’emissione della
risposta.
Quello che è stato riportato in maniera euforica e che ha gratificato moltissimo i
conduttori è il benessere generale dei partecipanti che hanno ringraziato per gli incontri
effettuati, chiedendo una riproposizione dell’esperienza.
I partecipanti si sono messi in gioco e sono stati protagonisti di un’avventura innovativa
grazie alla quale hanno costruito una diversa immagine della propria vecchiaia
accrescendo e rivalutando il bagaglio esperienziale.
Il corpo che decade allontana dagli anni trascorsi e dalle energie che si potevano avere
in gioventù ma il bagaglio di risorse dell’uomo, di competenze, di relazionalità non si
arresta e continua a evolversi (Deluigi R., 2008).
Questi anziani hanno continuato a vivere la loro quotidianità; come ha detto un membro
del gruppo “come se avessi ancora vent’anni”, memori di un tempo trascorso e
desiderosi di non arrendersi al vincolo del proprio corpo. Grazie a questi incontri tutto
ciò è stato possibile poiché è stato creato un ambiente aperto alla relazione, a favore di
un riconoscimento di sé e degli altri in quanto protagonisti dell’esistenza.
“L’essenziale è invisibile agli occhi” (A. de Saint-Exupéry A., 1943), proprio per questo
non ci si può soffermare a uno sguardo esteriore e superficiale, limitato e limitante, ma
bisogna considerare l’anziano in una prospettiva evolutiva anziché involutiva.
Bibliografia
Deluigi, R. (2008). Divenire Anziani, Anziani in Divenire. Prospettive pedagogiche fra
costruzione di senso e promozione di azioni sociali concertate. Roma: Aracne Editrice.
De Saint-Exupéry, A. (1943). Il piccolo principe. Milano: Bompiani.
Franceschi, C. (1993). Basi biologiche dell’invecchiamento della longevità. Trattato di
Gerontologia e Geratria, UTET, 63-90.
Mecocci, P., Cherubini, A., Senin, U. (2002). Invecchiamento cerebrale, declino
cognitivo, demenza un continuum? Roma: Critical Medicine Publishing Editore.
Organizzazione Mondiale della Sanità (2002). Invecchiamento attivo: un quadro
strategico. OMS. Ginevra
Libri usati per le attività
Bergamaschi, S., Iannizzi, P., Mondini, S., Mapelli, D. (2010). Demenza 100 esercizi di
stimolazione cognitiva. Milano: Raffaele Cortina Editore.
Remocker, A.J., Stortch, E.T. (1983). Gesto come parola. Manuale di tecniche non
verbali per terapie di gruppo. Torino: Edizione Omega.
Sitografia
www.eurispes.it – comunicati stampa, 2004
www.istat.it – previsioni della popolazione residente
12
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Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
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Lo stalking da un punto di vista psico-giuridico
Stalking by a psycho-legal point of view
Alessandra Grieco1
Riassunto
Lo “stalking” , costituisce un fenomeno sociale molto rilevante e in costante emersione,
come dimostrano le pagine di cronaca dei quotidiani o mettono in luce le statistiche.
Intuitive sono le conseguenze negative sulla vittima, così come è enorme l’impatto
sociale. Lo stalker produce nella vittima profondi turbamenti che ledono, molte volte in
maniera irreversibile, l'equilibrio fisico e psichico di quest'ultima perché in seguito
all'evento la vittima sperimenta un deterioramento mentale che va ad intaccare il suo
benessere psicofisico.La sistematica violazione della libertà personale posta in essere
mediante comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di
contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o
preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi può condurre a reazioni
psichiche delle vittime, a volte tali da rendere necessaria un’indagine medico-legale
finalizzata alla valutazione del danno alla persona.
Parole chiave
Stalking, stalker, vittima,ordinamento giuridico, indagini psico-forensi
Abstract
The "stalking", constitutes a very important social phenomenon and constantly
emerging, as the news pages of newspapers or highlight statistics. Intuitive have
negative consequences on the victim, as well as the social impact is huge. The stalker
produces in deep turmoil affecting the victim, often irreversibly, the physical and mental
balance because of the latter following the event the victim experiences a mental
deterioration going to affect their psychological and physical well-being. The
systematic violation of personal freedom in being placed by repetitive behaviors and
intrusive surveillance and control, the search for contact and communication with a
victim who is annoyed and / or concerned by these unwelcome attentions and behaviors
that can lead to psychological reactions of the victims, sometimes that may require
forensic investigation aimed at evaluating the damage to the person.
Keywords
Stalking , stalker , victim, legal system , psychological and forensic investigations
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Lo stalking nell’ordinamento giuridico italiano.
Il fenomeno dello Stalking ,altrimenti detto “sindrome del molestatore assillante”, ha
cominciato a destare un certo interesse, non solo nell’opinione pubblica, ma anche da
parte di alcuni studiosi della psicologia e della sociologia, in seguito a certi eventi,
accaduti negli anni ’80, in cui la molestia assillante venne indirizzata a dei personaggi di
spicco dello Star System, personalità dello spettacolo e dello sport. Tra gli altri
ricordiamo le tenniste Martina Hingis e Serena Williams inseguite in tutti i tornei
internazionali dai propri persecutori, le attrici Theresa Saldana pugnalata dal suo stalker
a Los Angeles nel 1982 e Rebbecca Shaffer assassinata nella sua metropoli dal suo
persecutore nel 1989, episodi questi, che hanno ispirato la prima legge anti-stalking in
California, in vigore dal 1992. Altre vittime sono state Sharon Stone, Jodie Foster,
Nicole Kidman, Steven Spielberg ed in Italia Irene Pivetti e Catherine Spaak. Studi
epidemiologici hanno però dimostrato che episodi di stalking avvengono con maggiore
frequenza al di fuori del mondo ristretto delle celebrità e dei fatti di cronaca nera,
verificandosi all’interno di quella vasta area che è la violenza domestica (Picozzi &
Zappalà , 2001)
Da un punto di vista etimologico, la parola “stalking” deriva dal linguaggio tecnico gergale della caccia e letteralmente significa “fare la posta”. Questa definizione,
sebbene sia la più semplice fra le tante in seguito enunciate da diversi studiosi della
materia, sembra la più vicina al comportamento tipico del molestatore assillante che è
quello di seguire la vittima nei suoi movimenti o meglio “appostarsi” alla sua vita
(Micoli, 2012).
Lo “stalking” quindi, costituisce un fenomeno sociale molto rilevante e in costante
emersione, come dimostrano le pagine di cronaca dei quotidiani o mettono in luce le
statistiche. Intuitive sono le conseguenze negative sulla vittima, così come è enorme
l’impatto sociale: lo stalking è tale da generare danni alla salute, in alcuni casi lo stalker
giunge a sopprimere la sua preda oppure la vittima si suicida, nella maggior parte delle
situazioni i disagi psichici ed esistenziali dei danneggiati producono rilevanti
ripercussioni sulle famiglie e sulle persone vicine alla vittima (Picozzi & Zappalà ,
2001) .
Nonostante lo stalking costituisca un fenomeno di antica data, la sua criminalizzazione
risale a tempi abbastanza recenti, considerato che la prima legislazione antistalking, è
stata emanata in California nel 1990 ( De Fazio & Galeazzi, 2004).
Attualmente lo stalking costituisce reato nella maggior parte degli ordinamenti dei Paesi
di lingua inglese, quali Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda e Regno Unito .In
Europa, invece, detta condotta inizialmente assumeva rilievo solo in ambito civile. Il
fenomeno veniva inquadrato in altre fattispecie destinate a sanzionare altre condotte
illecite che, normalmente, vi si accompagnano , quali, ad esempio: omicidio, lesioni
personali, ingiuria, diffamazioni, violenza privata, minaccia, violazione di domicilio,
danneggiamento(Caldaroni, 2009).
Lo stalking anche in Italia è diventato reato con l’art. 612 bis, che rappresenta una delle
novità più significative introdotte con il D.L. 23.2.2009, n. 11, recante «Misure urgenti
in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di
atti persecutori» (Merra & Marzi, 2009). Il nuovo reato, prevede la pena della reclusione
da sei mesi a quattro anni a carico di chi, con condotte reiterate di minaccia o molestia,
ingeneri nella vittima «un perdurante e grave stato di ansia o di paura», ovvero un
«fondato timore» per l’incolumità propria, di un congiunto o di una persona a lei legata
da una relazione affettiva, ovvero la costringa ad «alterare le proprie abitudini di vita»
(Sorgato, 2014).
15
Bisogna tener presente che ogni anno circa 70.000 donne sono vittime di stupri o di
tentati stupri, pertanto il nuovo reato di “stalking” o atti persecutori, incrimina quelle
condotte reiterate di molestia o minaccia che causano rilevanti disagi psichici alla
persona offesa. La scelta del legislatore, dal punto di vista normativo, è stata quella di
introdurre nel codice penale una nuova fattispecie incriminatrice. Tale condotta
delittuosa è stata collocata nella sezione dei delitti contro la libertà morale (Parodi,
2009).
Definizione di stalking.
Con il termine “stalking” si intende una serie di comportamenti tramite i quali una
persona affligge un’altra con intrusioni e comunicazioni ripetute e indesiderate, a tal
punto da provocare ansia e paura ( Penati, 2011).
La sindrome è costituita da:
1. un attore (stalker) che individua una persona nei confronti della quale sviluppa
un’intensa polarizzazione ideo – affettiva;
2. una serie ripetuta di comportamenti con carattere di sorveglianza e/o di
comunicazione e/o di ricerca di contatto;
3. la persona individuata dal molestatore (stalkingvictim) percepisce soggettivamente
come intrusivi e sgraditi tali comportamenti, avvertendoli con un associato senso di
minaccia e di paura (De Fazio & Sgarbi, 2012).
Le condotte indesiderate possono essere di tre tipologie principali:
Comunicazioni indesiderate che di solito sono rivolte alla vittima direttamente,
ma possono anche consistere in contatti o minacce con la famiglia, gli amici e i
colleghi della stessa vittima. Lettere e telefonate sono le forme più frequenti di
comunicazione, insieme ad sms ed email;
Contatti indesiderati che comprendono i comportamenti dello stalker diretti ad
avvicinare direttamente la vittima come pedinamenti, appostamenti,
frequentazione dei luoghi frequentati dalla vittima oppure svolgimento delle sue
stesse attività;
Comportamenti associati che consistono nell’ordine o cancellazione di beni e
servizi a carico della vittima, al fine di intimidirla o danneggiarla ( Daphne,
2007).
Una parte della dottrina individua l’origine etimologica del termine “stalking” nella
lingua inglese, dove assume il significato di caccia. Quindi lo “stalker”, è il cacciatore
che insegue furtivamente la preda ( Cadoppi, 2008).
I vari comportamenti di uno stalker, pur essendo spesso innocui e normali se considerati
singolarmente, visti nel loro ossessivo insieme rappresentano una gravissima invasione
della sfera personale della vittima, che si trova costretta a vivere un’esistenza
costantemente condizionata dalla presenza del molestatore, e dalla paura che la molestia
possa sfociare in pericoli per l’incolumità propria e dei congiunti.
In maniera schematica, ricordando quanto detto dell’agito del molestatore assillante, i
comportamenti, sebbene si presentino con maggiore frequenza in modalità mista,
possono essere così classificati:
lettere e fiori 60%
telefonate 78%
pedinamento 75%
sorveglianza sotto casa 35%
danno alla proprietà 35%
violazione di domicilio 26%
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visita sul luogo di lavoro 40%
appostamenti vari 40%
minacce di violenza 76%
violenza a terzi 6%
violenza fisica di diversa entità 37%
violenza sessuale 10%
tentato omicidio 3%
omicidio/omicidio familiare 5%
omicidio/suicidio 5% ( Caretti & Craparo, 2011).
Tale classificazione non rispecchia i criteri di ordine di frequenza, quanto quelli di
gravità. Tra i casi estremi la violenza a terzi, solitamente animali, deve essere concepita
come vera e propria minaccia da non sottovalutare in quanto spesso sconfina con la
possibilità omicidiaria ( Abazia, 2015).
Definizione di stalker.
Lo stalking è un fenomeno in primis relazionale, che trova la sua genesi in equivoci e
incomprensioni nei rapporti interpersonali, nella non accettazione dell’atteggiamento
altrui, in difetti di comunicazione oppure nella volontà del molestatore di imporre
sull’altra persona un particolare tipo di rapporto che, per chi ne è destinatario, risulta
fortemente indesiderato ( Ravazzolo &Valanzano, 2010).
Ci sono varie tipologie di stalker:
il molestatore assillante erotomane;
l’amante ossessivo, il tipico stalker psicotico che prende di mira persone famose
o perfetti sconosciuti;
il tipo più diffuso è il semplice molestatore assillante che inizia lo stalking dopo
un rapporto reale finito male ( Kamphuis & Emmelkamp, 2009)
Un altro tentativo, dovuto a Meloy, di classificare gli stalkers, è basato su tre classi di
vittime di stalker:
ex o attuale partner
conoscenti
sconosciuti
Una terza tipologia è quella elaborata da Mullen e altri, che distinguono:
lo stalker rifiutato
lo stalker in cerca di intimità
il corteggiatore inadeguato
lo stalker rancoroso
lo stalker predatore( Berri, 2012)
Queste tipologie confermano la concettualizzazione di stalking come riflesso di una
patologia dell’attaccamento. La percezione del rifiuto o dell’abbandono, attiva il sistema
di attaccamento maladattivo dello stalker e lo porta a cercare la vicinanza di una figura
di attaccamento, anche quando proprio quest’ultima potrebbe essere la fonte di
minaccia. Si potrebbe dire che lo stalker, motivato dall’ansia di disintegrazione di un
auto-sistema vulnerabile, è incapace di staccarsi dalla persona che possiede la chiave del
suo fragile equilibrio psichico ( Kamphuis & Emmelkamp, 2009).
La maggioranza dei comportamenti assillanti vengono messi in atto da partner o expartner di sesso maschile (in Italia il 70% degli stalkers è uomo), con un’età compresa
tra i 18 ed i 25 anni (il 55% dei casi) quando la causa è di abbandono o di amore
respinto o superiore ai 55 anni quando ci si trova di fronte ad una separazione o ad un
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divorzio. Sebbene sia possibile un certo uso ed abuso di sostanze e/o di alcool, questa
non risulta essere una caratteristica essenziale del quadro descrittivo del molestatore in
questione.
L’età dei soggetti fa intendere, da un punto di vista psicologico, una personalità debole
o non ancora ben formata e che, per la paura di essere abbandonati, magari come
ripetizione di esperienze infantili precoci di separazioni avvenute, si lega
ossessivamente a qualcuno. Oltre a ciò, è possibile che egli sviluppi patologie
psicologiche associate di personalità (Asse I del DSM IV); in particolare, nel caso del
soggetto stalker tipicamente di indole narcisistica ( Kamphuis & Emmelkamp, 2009).
Sono state individuate cinque possibili strategie difensive, per prevenire e difendersi
dallo Stalker :
1. fuga/evitamento: nel caso dell’aggressione è la miglior risposta, ma la sua probabilità
di successo si riduce dipendentemente dall’età e dalla prestanza fisica dell’aggressore e
della vittima; spesso avviene in un luogo isolato, senza via di scampo, a volte di fronte a
più aggressori.
2. risposta verbale non confrontativa: la vittima si trova di fronte al molestatore e, con
l’intento di dissuaderlo, cerca di suscitare empatia (“ti ascolto” o “ti capisco”), essendo
sincera (“ho paura”) o negoziando, al fine di prendere tempo ed escogitare una strategia
migliore. Spesso però lo stalker, troppo eccitato, non si interessa di queste frasi.
3. resistenza fisica non confrontativa: resistenze simulate (svenimenti, epilessia,
mutismo) o del tutto involontarie e spontanee (pianto o in casi gravi perdita del
controllo sfinterico). Queste tecniche possono offrire un’opportunità alla vittima.
4. risposta oppositiva verbale: si urla per attirare l’attenzione o ci si sfoga per la rabbia.
Lo scopo è comunque lanciare nello stalker il messaggio di non essere disposti a
sottomettersi.
5. resistenza oppositiva fisica: si colloca lungo un continuum che va da risposte
moderate (divincolarsi) a risposte violente (colpi volontari su collo e genitali). In questo
caso bisogna che la vittima si aspetti una reazione a questa ancora più aggressiva.
6. sottomissione: spesso risultato della paura o della convinzione che così ci si possa
salvare. E in generale lo è, soprattutto nella riduzione dei danni fisici.
La strategia migliore sembra essere quella comunque di indurre lo stalker a parlare di
sé, facendo leva sul suo narcisismo; in tal modo la vittima, fino a quel momento
oggettivizzata, si riappropria di una sua esistenza come persona (Picozzi & Zappalà,
2001).
Gli effetti dello stalking per la vittima.
Lo stalker produce nella vittima profondi turbamenti che ledono, molte volte in maniera
irreversibile, l'equilibrio fisico e psichico di quest'ultima perché in seguito all'evento la
vittima sperimenta un deterioramento mentale che va ad intaccare il suo benessere
psicofisico (Ghirardelli, 2011).
In seguito al trauma, lo stato d'animo della vittima potrebbe essere riassunto in una fase
disorganizzativa, nella quale è riscontrabile uno stato di negazione, meccanismo di
difesa che serve ad allontanare il pensiero di quei tragici momenti. Nel tentativo di
superare l'accaduto o di minimizzare i danni vengono messi infatti in atto dei veri e
propri meccanismi di difesa. Tuttavia, nel tempo, tale "materiale rimosso" viene a
colludere con un sentimento di ricerca della realtà, in seguito al quale la vittima sarà
pervasa da senso di colpa.
Il soggetto "stalkizzato", infatti, ripercorre mentalmente più volte la scena del crimine
ponendosi domande cercando di capire cosa altro poteva dire o fare per prevenire ciò
18
che invece si è verificato. Le vittime di stalking conserveranno a lungo delle vere e
proprie ferite; le conseguenze dello stalking infatti, per chi le subisce, sono variegate e
spesso si cronicizzano. Difatti, a seconda degli atti subiti e delle emozioni sperimentate,
nella vittima, si possono riscontrare vari quadri sintomatologici. In seguito all'evento
traumatico, infatti, la vittima sarà pervasa da stati d'ansia acuti, problemi di insonnia
fino a dei veri e propri quadri di Disturbo Post Traumatico da Stress (Fabbroni & Giusti,
2009).
Le indagini psico-forensi in tema di “stalking”.
La sistematica violazione della libertà personale posta in essere mediante
comportamenti ripetuti e intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e
comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali
attenzioni e comportamenti non graditi può condurre a reazioni psichiche delle vittime,
a volte tali da rendere necessaria un’indagine medico-legale finalizzata alla valutazione
del danno alla persona. Il timore di rappresaglie, oppure il pudore e il senso di colpa che
affliggono il partner responsabile di aver interrotto la relazione affettiva, possono, in
buona parte dei casi, scoraggiare la vittima dal darne segnalazione all’autorità
giudiziaria o persino parlarne con i propri cari (Penati, 2014). Il legislatore ha pertanto
strutturato il delitto di atti persecutori all’interno della sezione del Codice Penale
dedicata ai delitti contro la libertà morale e l’ha organizzato secondo una condotta a
forma libera. Sulla base delle definizioni normative, lo psicologo forense, magari
coadiuvato da altri specialisti, è chiamato quindi ad esprimere un parere tecnico sulle
condizioni indispensabili per la realizzazione della fattispecie, ovvero ad identificare la
presenza o meno di derive psicopatologiche che potrebbero caratterizzare quella
nozione di malattia propria del delitto di lesioni personali (art. 582 C. P.).
Alcuni autori come Melissa Collins e Mary Beth Wilkas descrivono una vera e propria
sindrome specifica nella vittima di stalking, definita STS (Stalking Trauma Syndome) e
caratterizzata da aspetti analoghi ad altre fattispecie quali il disturbo post-traumatico da
stress, la sindrome da maltrattamento e la sindrome da trauma da rapimento. È anche
vero che la dimostrazione del nesso causale che può esservi fra una condotta tipo
stalking e una patologia lamentata dalla vittima potrebbe dipendere, in modo esclusivo e
concausale, da fattori differenti e riconducibili a vissuti familiari problematici, a disagio
lavorativo o a stati di difficoltà emotiva, a turbamenti del tutto diversi e persino
preesistenti disturbi psichici della vittima, in conseguenza dei quali tali comportamenti
verrebbero percepiti irragionevolmente e ingiustamente fatti ricondurre nella categoria
dello stalking (Rocca, Zacheo & Bandini, 2010) . Alcuni autori sostengono che, in
ragione di una “multifattorialità” causale, si potrebbe giungere ad attribuire
“concausalità” a tutti gli eventi con la conseguente difficoltà di selezionare quelli
giuridicamente rilevanti. Dinnanzi a uno stesso evento traumatico sono dunque possibili
reazioni del tutto differenziate e coerenti con la personalità di base del danneggiato. Per
comprendere la reazione patologica che ne può derivare, provocando uno scompenso
all’equilibrio psichico preesistente, è fondamentale analizzare compiutamente la
struttura psichica che coordina l’attribuzione del significato all’evento traumatico allo
scopo di verificare la sussistenza di un nesso di causalità fra l’evento psicotraumatizzante e le conseguenze psicopatologiche dello stesso.
Di fronte a tale complessità valutativa, l’indagine psico-forense ha il compito
importante e decisivo di descrivere e motivare adeguatamente i percorsi che conducono
da un’esperienza traumatica ad un esito psicopatologico, differenziandone, caso per
caso, gli elementi rappresentativi per giungere alla comprensione e alla spiegazione del
19
rapporto causale. Un simile approccio potrà consentire una corretta valutazione dei
singoli soggetti e, dei casi dubbi o complessi e quindi difficilmente risolvibili.
Secondo Mullen, la maggioranza degli stalkers sono persone sole che sono socialmente
incompetenti, ma con la capacità di spaventare e di turbare le loro vittime (Mullen,
Pathé&Purcell, 2000) .
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fenomeno attraverso il racconto di storie vere. Milano: Franco Angeli.
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Sorgato, A. (2014). Maltrattamenti e stalking. Milano: Antonio Tombolini editore.
1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
20
Disfagia psicogena: un caso clinico trattato con psicoterapia
strategica
Psychogenic dysphagia: a clinical case with strategic
psychotherapy
Lorena Calandi1
Riassunto
In questo lavoro è trattato un caso clinico di Disfagia psicogena con l’approccio
strategico breve. Dopo una breve introduzione, che descrive la disfagia come
un’alterazione qualitativa e quantitativa della deglutizione, esso prosegue con la
definizione dei disturbi psicosomatici e la descrizione del percorso terapeutico
effettuato. Il trattamento realizza importanti cambiamenti già con la riflessione intorno
ai vantaggi secondari del comportamento sintomatico.
Parole chiave
Approccio strategico breve, disfagia, deglutizione, disfagia psicogena, disturbi
psicosomatici
Abstract
In this work has treated a clinical case of psychogenic dysphagia with the strategic
approach short. After a brief introduction, which describes dysphagia as a qualitative
and quantitative swallowing, it continues with the definition of psychosomatic disorders
and description of the course of treatment carried out. The treatment produces
important changes already with reflection around the secondary benefits of
symptomatic behavior.
Keywords
Strategic approach short,
psychosomatic disorders
dysphagia,
swallowing,
psychogenic
dysphagia,
Introduzione
Per deglutizione s’intende l’abilità dell’individuo di convogliare sostanze solide,
liquide, gassose o miste dall’esterno allo stomaco (Logemann,1995).
Il termine disfagia, invece, indica un’alterazione qualitativa e quantitativa della
deglutizione e quindi non configura una malattia con eziologia, patogenesi ed
evoluzioni proprie, ma è un segno o sintomo di una patologia.
21
La deglutizione è un atto fisiologico articolato che consente la normale progressione del
cibo dal cavo orale allo stomaco e con il termine disfagia si definisce rappresenta
l’alterazione di questo processo.
La disfagia di conseguenza è una disfunzione anatomo-funzionale dell'apparato
digerente, consistente nella difficoltà a deglutire, ed al corretto transito del bolo nelle
vie digestive superiori. Esistono diverse tipologie nosografiche delle disfagie, a seconda
dell'eziologia, della localizzazione ed alla funzione svolta in questo processo.
Nel transito del bolo dall’esterno allo stomaco, le alterazioni possibili possono essere
divise in due grandi categorie:
disfagie oro-faringee che riguardano le prime tre fasi del processo di
deglutizione;
disfagie esofagee che riguardano l’ultima fase e sono correlate a patologie
esofagee e gastriche.
Si parla, invece, di disfagia psicogena, quando essa accade in assenza di ostacoli
obbiettivamente rilevabili al transito del bolo e non si riconoscono cause organiche,
anatomiche, e fisiopatologiche, ma è ricondotta a disturbi del comportamento
alimentare o altre psicopatologie.
La disfagia può riguardare cibi solidi, liquidi, semiliquidi, semisolidi, gassosi e può
essere persistente o saltuaria.
La disfagia ha una prevalenza nella popolazione generale riportata intorno al 3-5%
(Lindgren e Janzon, 1991). Tale numero aumenta fino al 16% nei soggetti oltre gli 85
anni (Bloem et al, 1990).
Un aspetto a cui è necessario prestare maggiore attenzione è quello legato alle
restrizioni sociali del paziente disfagico e alla conseguente compromissione della
qualità di vita (Gustafsson et al, 1992).
Di conseguenza, si tratta di un vero e proprio handicap: in quanto è sempre più chiara la
relazione tra disfagia e riduzione di attività psicologiche e sociali e il conseguente
peggioramento della qualità della vita come espressione di riduzione di autostima,
sicurezza, capacità lavorativa e svago (Ekberg et al, 2002).
Oltre a rappresentare un problema debilitante e costoso dal punto di vista sociale per
pazienti e familiari, la disfagia è causa di numerosi ricoveri ospedalieri, anche ripetuti
nel tempo (Martin-Harris, 1999).
La gestione della disfagia orofaringea è complessa e costosa, e richiede sia nella fase
diagnostica sia in quella terapeutica un’ampia rete di esperti, costituita da medici
specialisti e da altro personale sanitario.
Strutture anatomiche coinvolte e fasi
La deglutizione, come altre funzioni fisiologiche, dipende da una rete neuronale che
coinvolge molte strutture cerebrali: corteccia, aree sottocorticali, tronco cerebrale e
nervi cranici (V trigemino, VII facciale, IX glosso-faringeo, X vago, XI accessorio e
XII ipoglosso).
La deglutizione riflessa e volontaria è attivata dal giro precentrale e postcentrale, insula
e giro cingolato anteriore.
La funzione deglutitoria viene suddivisa in quattro fasi cronologicamente successive e
distinte, con riferimento alle regioni anatomiche via via interessate dal transito del bolo
alimentare (Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari, 2013).
Prima della deglutizione l’osso ioide, come postura preparatoria si sposta in posizione
di moderata elevazione; contemporaneamente si verifica l’arresto della “manipolazione”
intraorale e l’inibizione della respirazione, che si rendono indispensabili per
22
l’incrociamento tra via aerea e digestiva, in modo da alternare funzione deglutitoria e
respiratoria.
La prime due fasi, dette preparatoria orale ed orale,durante le quali si verifica una
contrazione rapida dei muscoli che danno inizio ai movimenti della deglutizione, che
sono sotto il controllo della muscolatura volontaria.
Nella successiva fase faringea entrano in azione i muscoli faringei, la cui contrazione è
di tipo involontario.
L’ultima fase, anch’essa involontaria, si conclude a livello esofageo.
1. Fase preparatoria orale.
Nella fase preparatoria, sotto il controllo della volontà, il cibo e la saliva sono masticate
insieme per formare il bolo e la lingua lo comprime contro il palato duro.
2. Fase orale.
Nella fase orale la lingua opera un movimento verso l’alto ed indietro, in un’azione
sequenziale di compressione e srotolamento verso il palato, spingendo così il bolo in
faringe. A questo punto la deglutizione avverrà autonomamente in modo coordinato
con il riflesso peristaltico.
Normalmente l’atto deglutitorio si svolge al di fuori del controllo corticale ma la fase
orale si differenzia dalle altre perché consapevole e volontaria, ciò è di fondamentale
importanza ai fini terapeutici poiché consente nei casi di presenza di deglutizione
atipica, di correggere la prassia infantile in quella di tipo adulto, con esercizi volontari
di rieducazione neuromuscolare.
Nel trattare casi di deglutizione atipica l’attenzione è focalizzata sulle prime due fasi
che nella deglutizione adulta o matura sono caratterizzate da precisi e rigorosi schemi
motori che vedono coinvolti lingua, mandibola, labbra e guance.
3. Fase faringea.
La fase faringea ha una durata di circa 1, 2 sec. ed è caratterizzata da una serie di eventi
complessi che proteggono le vie aeree: quando il bolo si muove verso la faringe, il
respiro cessa momentaneamente e si innesca una rapida sequenza di eventi
biomeccanici .
4. Fase esofagea.
Quando il bolo passa in faringe, la stimolazione di questa per via riflessa, porta al
rilasciamento dello sfintere esofageo superiore che permette al bolo di entrare in
esofago dando inizio allo stadio esofageo. Si ha poi la contrazione di tale sfintere che si
richiude impedendo il reflusso alimentare esofago-faringeo.
Il movimento verso l’interno, con progressive contrazioni ad onda, delle pareti faringee,
mantiene una pressione continua, necessaria per spingere il bolo nello sfintere esofageo
superiore (SES) e permette al bolo di entrare in esofago. Il passaggio del bolo determina
la chiusura del SES, che blocca il suo riflusso in laringe, e l’attivazione delle onde
pressorie dell’esofago che lo incanalano verso lo stomaco. Mentre le strutture faringee
ed il respiro riprendono la configurazione “normale” il bolo, spinto dalle peristalsi
esofagee, oltrepassa lo sfintere esofageo inferiore (LES) e giunge nello stomaco.
Insieme, SES e LES, funzionano come protezione per prevenire sia che l’esofago si
riempia d’aria durante altre attività come il parlare, sia che venga invaso da materiale di
reflusso dallo stomaco.
In ogni emisfero cerebrale è presente un centro della deglutizione, capace di attivare
l’atto deglutitorio; tali centri sono interconnessi sia tra loro che con i centri cerebrali
responsabili del vomito, del respiro e della masticazione (ibidem).
23
Trattamento
Il trattamento è eziologico, vale a dire volto a trattare la causa della sintomatologia. In
caso di restringimenti dell'esofago per anomalie della muscolatura intrinseca (acalasia),
il trattamento farmacologico sarà volto a favorire il rilassamento della muscolatura
tramite farmaci miorilassanti come i calcio-antagonisti, il trattamento chirurgico sarà
volto alla dilatazione dell'area coinvolta (generalmente lo sfintere esofageo inferiore)
tramite dilatazione pneumatica o miotomia. In caso di tumori comprimenti o infiltranti
l'esofago il trattamento si avvarrà di rimozione chirurgica del tumore con eventualmente
chemioterapia adiuvante. L'intervento sarà palliativo o curativo a seconda della
tipologia e dello stadio del tumore in questione. In corso di sindrome di PlummerVinson sarà effettuata terapia marziale eventualmente supportata da chirurgia dilatativa.
Per disordini psicogeni il trattamento è psicologico o psichiatrico (Agenzia Regionale
per i Servizi Sanitari, 2013).
Disfagia psicogena
Se consideriamo l’organismo come un’unità integrata di ordine biopsicosociale, ogni
variazione introdotta in un livello va a modificare tutti gli altri livelli. In questa ottica la
malattia diventa l’espressione di un disagio, di un rifiuto, di un’incapacità che non è
solo del corpo ma di tutta la persona, un messaggio da decodificare, uno dei molteplici
modi con cui il nostro corpo può comunicare. Con le osservazioni di Freud (1892-1895)
sulle manifestazioni somatiche dell’isteria e della nevrosi di angoscia e i successivi
contributi di autori come Stekel e Groddek comincia a emergere una medicina
psicosomatica sebbene il termine sia stato introdotto già nel 1818 da Heinroth, la
nascita della disciplina può essere fatta coincidere con la pubblicazione delle opere di
H.F. Dunbar (1947) e F. G. Alexander (1950).
E’ necessaria una distinzione tra reazioni e disturbi psicosomatici. La prima è episodica,
momentanea, e scaturisce da un evento stimolo: per esempio nella tachicardia da
spavento c'è una evidente alterazione del battito cardiaco, che è solo momentanea e che
scompare non appena cessa la reazione emotiva. Nei disturbi psicosomatici esiste,
invece, un'alterazione duratura, funzionale oppure organica. Nel primo caso l'organo
non è leso, ma si comporta come se lo fosse. Nella malattia organica esiste, invece, una
lesione dell'organo in questione: per esempio l'ulcera gastro-duodenale, che oltre ai
sintomi comporta un reperto anatomo-patologico ben preciso ed individuabile.
Un’emozione o un affetto possono incidere sul soma fino a procurarne un disturbo
funzionale o una lesione.
Lipowski (1987) definisce la somatizzazione come la tendenza a provare e comunicare
il malessere psicologico sotto forma di sintomi fisici e a richiedere consulenza medica
per questi.
Kellner (1994), osservando le caratteristiche cliniche di pazienti affetti da disturbi
medici funzionali come la dispepsia non ulcerosa e la sindrome dell’intestino irritabile,
ha proposto di definire un individuo che somatizza come una persona in cui sono
raggruppati diversi sintomi psicofisiologici come quelli funzionali somatici e di
attivazione del sistema nervoso autonomo.
Si è resa ben presto necessaria la creazione di sistemi di classificazione che, pur
presentando numerosi limiti, rappresentano il tentativo di ordinare dati e fenomeni per
facilitarne la comunicazione fra diversi professionisti.
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Con il termine di “malattie psicosomatiche” si intende infatti quell’ampia fascia di
patologie che si situano tra lo psichico ed il corporeo, con produzione di una
sintomatologia di tipo funzionale ed organico in cui è possibile ravvisare una origine
psicologica (Berti Ceroni,Grava 2005). .
Con i ritmi di vita sempre più veloci ed il moltiplicarsi dei fattori di stress cui ognuno di
noi è sottoposto, le malattie psicosomatiche sono in netto aumento e rappresentano le
risposte estreme dell’organismo, inteso nella sua interezza di corpo-mente, di fronte a
problematiche di natura affettiva ed emotiva e sotto le pressioni di tipo socioambientale.
Il meccanismo della “somatizzazione” può intendersi, come il meccanismo
trasformativo che, a partire da specifici contenuti psichici, opera un cambiamento a
livello somatico, attraverso il coinvolgimento dei sistemi endocrino ed immunitario.
Alcuni autori hanno poi ipotizzato in questo tipo di disturbi la presenza di una
iperattività dei sistemi nervosi parasimpatico e simpatico, iperstimolati e condotti ad un
disfunzione cronicizzata, unitamente ad alcuni altri fattori predisponenti tra i quali la
specifica personalità del soggetto, una particolare “vulnerabilità d’organo” (cioè il fatto
che ogni individuo può presentare un organo “bersaglio” sul quale vengono canalizzate
di preferenza le tensioni interne), ed un certo tipo di ambiente esterno.
Ad esempio, una aggressività intrapsichica eccessivamente inibita viene canalizzata, in
base a precedenti modalità di gestione di simili vissuti emotivi, attraverso un
meccanismo di somatizzazione producendo un sintomo organico (p.es. a livello di
apparato gastroenterico).
Ecco dunque che il corpo si incarica di comunicare la presenza di contenuti
“disturbanti” per la coscienza, attraverso il ricorso al sintomo fisico. In questo senso
specifico, la somatizzazione costituirebbe una sorta di “codificazione” di contenuti
affettivi ed emotivi non mentalizzabili (Albarella ,Racalbuto,2004).
La classificazione secondo il DSM IV-TR ed il DSM-5
La categoria dei “disturbi somatoformi” è entrata nella nosografiapsichiatrica nel 1980,
con la terza edizione del DSM (DSM-III, 1980) e comprende, nella versione del DSMIV-TR, 2000:
il Disturbo da Somatizzazione
il Disturbo Somatoforme Indifferenziato
il Disturbo di Conversione
il Disturbo Algico
l’Ipocondria
il Disturbo di Dismorfismo Corporeo
il Disturbo Somatoforme Non Altrimenti Specificato
Nella realtà, così come è possibile osservare nella pratica clinica quotidiana, i pazienti si
presentano con problematiche diverse e quadri più complessi, non omogenei fra loro.
Inoltre, il DSM, ponendosi come strumento diagnostico ateoretico e categoriale basato
sull’osservazione dei sintomi, esclude ogni ricerca sulle cause e introduce una visione
discontinua dei disturbi mentali.
Secondo la definizione del manuale, “la caratteristica comune dei Disturbi Somatoformi
è la presenza di sintomi fisici che fanno pensare ad una condizione medica generale, da
cui il termine somatoforme, e che non sono invece giustificati da una condizione medica
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generale, dagli effetti diretti di una sostanza, o da un altro disturbo mentale (per es. il
Disturbo di Panico).
I sintomi devono causare significativo disagio o menomazione nel funzionamento
sociale, lavorativo, o in altre aree. A differenza dai Disturbi Fittizi e dalla Simulazione, i
sintomi fisici non sono intenzionali (cioè sotto il controllo della volontà)” (DSM IVTR,2001).
Nel manuale è prevista inoltre, come categoria a se stante, quella denominata “ Fattori
Psicologici che influenzano una condizione medica”.
Questi fattori psicologici o comportamentali “includono disturbi in asse I,disturbi in
asse II, sintomi psicologici o tratti di personalità che non soddisfano appieno i criteri per
un disturbo mentale specifico, comportamenti dannosi alla salute, o reazioni
fisiologiche a fattori stressanti ambientali o sociali”. Questa categoria, di grande
interesse per il medico,racchiude in parte le malattie psicosomatiche nella cui genesi ed
evoluzione sono implicati fattori psichici diversi (esperienze ed emozioni stressanti,
fattori di personalità predisponenti, condizioni conflittuali) che agiscono con vari
meccanismi.
Il termine disturbi somatoformi del Dsm-IV-Tr creava confusione ed è stato sostituito
da disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati nel Dsm-5.Nel Dsm-IV esisteva
un'ampia sovrapposizione delle diverse categorie e non vi era mancanza di chiarezza sui
reali confini diagnostici. L'attuale classificazione del Dsm-5 di conseguenza riduce il
numero totale dei disturbi e delle sottocategorie. precedenti criteri attribuivano
un'eccessiva importanza ai sintomi dal punto di vista medico (in Dsm-5, 2014). La
nuova classificazione definisce la diagnosi principale,disturbo da sintomi somatici,sulla
base di sintomi oggettivi (sintomi somatici che procurano disagio accompagnati da
pensieri,sentimenti e comportamenti anomali, e comportamenti adottati in risposta a tali
sintomi) (ibidem).Questa sezione del Dsm-5 comprende:
Il Disturbo da sintomi somatici
Il Disturbo da ansia di malattia
Il Disturbo di conversione (Disturbo da sintomi neurologici funzionali)
Fattori psicologici che influenzano altre condizioni mediche
Disturbo fittizio
Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati con altra specificazione
Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati senza specificazione
Caratteristiche del Disturbo
Il Disturbo di Conversione si caratterizza per le manifestazioni sintomatiche (sintomi
“pseudo-neurologici”) inerenti le funzioni motorie volontarie o sensitive senza la
presenza di una compromissione anatomica o organica che ne giustifichi la presenza:
I sintomi motori includono alterazioni della coordinazione e dell'equilibrio, paralisi
localizzate, perdita della voce (afonia), difficoltà di deglutire o sensazione di nodo alla
gola, ed infine ritenzione urinaria;
I sintomi sensitivi comprendono invece perdita della sensibilità tattile o del dolore,
cecità, sordità, allucinazioni, attacchi pseudo-epilettci o convulsioni.
L’assenza di una qualche compromissione organica lascia presagire che il quadro
sintomatico trae origine da una qualche ragione psicologica come un conflitto o una
condizione di stress; tale supposizione deve essere incoraggiata dalla correlazione
temporale tra le manifestazioni sintomatiche o il loro aggravamento e i fattori
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psicologici responsabili. In altre parole, le manifestazioni sintomatiche
rappresenterebbero la simbolizzazione di un conflitto interno.
Freud aveva già messo in evidenza tale meccanismo, soprattutto nei suoi studi
sull’isteria, a proposito del quale parlava di “vantaggi primari e secondari della
malattia” intendendo con “vantaggio primario” la risoluzione del conflitto psichico, e
quindi dell’angoscia, attraverso la sua simbolizzazione nella malattia mentre, per
“vantaggio secondario”, intendeva i vantaggi concreti che la condizione dell’esser
malato può garantire (deresponsabilizzazione, cura, affetto ecc.) (Bollas,2001).
Le manifestazioni sintomatiche di conversione sarebbero dunque una sorta di
compromesso tra lo psichico e il somatico. Gli individui affetti dal disturbo appaiono
particolarmente suggestionabili (non ha caso una delle prime cure sperimentate da
Charcot e da Freud per curare l’Isteria fu l’ipnosi) tanto che le manifestazioni
sintomatiche possono variare o dipendere da condizioni esterne come l’attenzione degli
altri. Un’altra caratteristica che può accompagnare il disturbo è la belle indifference”,
ovvero un atteggiamento distaccato, quasi indifferente, che accompagna le
manifestazioni sintomatiche (paralisi, cecità, afonia, sordità ecc.) dell’individuo (Ferro,
Riefolo2006).
Il sintomo o deficit non è intenzionalmente prodotto o simulato (come nei Disturbi
Fittizi o nella Simulazione).
Il Dsm-IV-Tr (2001) sostiene che al Disturbo di Conversione si possono accompagnare
Disturbi Dissociativi, il Disturbo Depressivo Maggiore e il Disturbo Istrionico,
Antisociale, Borderline e Dipendente di Personalità.
A seconda del tipo di sintomo o deficit, si può specificare:
Con Sintomi o Deficit Motori
Con Attacchi Epilettiformi o Convulsioni
Con Sintomi o Deficit Sensitivi
Con Sintomatologia Mista
Il Dsm-5 (2014), invece, specifica i seguenti sintomi:
Con debolezza o paralisi
Con movimento anomalo (es. tremore, movimenti distonici, mioclono, disturbi
della deambulazione);
Con sintomi riguardanti la deglutizione
Con sintomi riguardanti l'eloquio (es. disfonia,biascicamento);
Con Attacchi Epilettiformi o Convulsioni
Con anestesia o perdita di sensibilità
Con sintomi sensoriali specifici (problemi visivi,olfattivi o uditivi)
con sintomi misti
Inoltre si tende a specificare se si tratta di episodio acuto (i sintomi sono presenti per
meno di 6 mesi) o persistente (i sintomi si presentano per 6 mesi o più) e se vi è o meno
un fattore psicologico stressante.
In fase diagnostica si utilizzano alternativamente le definizioni di "funzionale"
(riferendosi al funzionamento anomalo del sistema nervoso centrale) o
"psicogeno"(riferendosi ad un'eziologia presunta tale) (ibidem).
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Caso clinico: Il nodo alla gola
Viviana, 34 anni, vive in provincia di Enna ed è impiegata. E’ sposata con Giuseppe da
7 anni dopo un lungo fidanzamento, ed è mamma di un bambino di quasi 3 anni.
Viviana è una bella ragazza, esile con gli occhi azzurri. Si presenta allo studio
accompagnata dal marito.
La paziente esordisce raccontando come è venuta a conoscenza dell’approccio
strategico che ritiene adeguato per la risoluzione del suo problema. Dopo diversi
tentativi di risoluzione intrapresi, farmacologici e psicoterapici risultati
fallimentari,riferisce che attualmente il disturbo si è accentuato "…il mio medico….lo
scorso anno è stato…mi indirizzò da uno psicoterapeuta…sicuramente un ragazzo
bravissimo…e tutto quanto….però poi….alla fine…non ho….non ho continuato questa
psicoterapia…ci dovevo andare diverse volte la settimana…naturalmente…dovevo fare
una cura….doveva capire le mie…problematiche ,naturalmente….non….e niente….poi
un pochettino mi….niente non lo so….non sono stata neanche incoraggiata…non lo so
manco io…come….cosa è….l’ho presa così…niente poi….finì così….non l’ho
fatto….ora praticamente poi ultimamente ho questo mio disturbo…accentuato".
Il terapeuta tenta di indagare e fare una definizione del problema di Viviana "..io ho un
problema….che non so a cosa è dovuto….non riesco ad ingoiare….ero già sposata….mi
ero sposata…ed ho avuto questo disturbo che non capivo cosa fosse…ed un po’ mi sono
spaventata...perchè mi veniva di non respirare…ho fatto una visita otorino-laringoiatra
….e…niente….questa visita fatta un po’ così…perché…non sono riuscita a farmi fare la
gastroscopia…sempre dovuto a questa mia ansia…un esame dal naso…un tubicino che
mise nel naso ed andò un poco nella gola una cura che dovevo prendere una bustina
anti-acidodopo che pranzavo…che rilassano …delle goccine per rilassare i muscoli….
Mi diede 5 goccine di Lexotan la mattina e 5 il pomeriggio…ed io l’ho fatto… queste 5
goccine di Lexotan e poi altre 5….poi quando io ci sono andata nuovamente da
lui…sono ritornata e dico….dottore…io non mi sento bene…dico….io penso di essere
tranquilla con la testa…penso….non ne ho depressione…io non mi sento che c’ho la
depressione".
Secondo l’approccio strategico il terapeuta, sin dal primo incontro con il paziente non si
sofferma sul suo passato ma valuta e prende in considerazione alcuni aspetti
fondamentali (Nardone,Watzlawick,1997):
cosa avviene nelle relazioni che il soggetto crea con se stesso, con il mondo e
con gli altri;
come il problema che viene presentato sia “funzionale” all’interno di queste
interazioni; le tentate soluzioni che il soggetto ha cercato ed azionato per
risolvere la sua difficoltà e che, spesso, risultano essere il “vero” problema;
come è possibile cambiare questa situazione di disagio nel modo più facile e
veloce possibile.
Si tratta di enunciare il problema nei termini più concreti possibili, identificando quale
sia il sistema interattivo disfunzionale (i 3 sistemi interattivi: l’individuo in relazione
con sé stesso, con gli altri, con il mondo) che lo mantiene.
Una chiara definizione del problema, inoltre, permette di evitare di lavorare su pseudoproblemi (Haley,1976);
Il terapeuta mira a definire il problema della paziente cercando di contestualizzarlo
("non riuscivo ad ingoiare…eh…..praticamente….allora non ce l’ho avuto
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fortissimo….ci sono stati periodi in cui sono stata tranquilla…voglio dire…da un po’ di
tempo…l’estate….l’estate del….non questa estate che …..l’estate scorsa
diciamo...Giulietto era più piccolino….poteva avere un annetto …il primo anno che
siamo andati a mare…e mi ricordo che eravamo a cena…stavamo mangiando del
pesce ed ho avuto la sensazione come se mi fossi ingoiata una lisca....Giulio stava
dormendo…noi stavamo cenando…ed io ho avuto questa cosa…ho detto…mamma mia
Giuseppe…mi sono ingoiata una lisca…ed ho avuto la sensazione che…e lui mi ha
risposto….è la tua impressione… stiamo mangiando….tu ti sei presa....ed ho avuto la
sensazione che ho ingoiato….il gambero non ha quelle…non mi viene come si
chiamano…quelle antennine…non lische…mi sono impressionata che no…stavo
morendo….mi dicevo ora muoio così…come faccio…e…e sono andata in ospedale… gli
dissi….senta mi deve controllare…io ho questa sensazione che ho questo corpo
estraneo…mi fece aprire la gola e mi disse…signora non ha niente…prenda queste
goccine…. io mi tranquillizzai…e ce ne siamo tornati da questo villaggio che eravamo
e piano piano mi sono tranquillizzata ed è passato...da allora….praticamente…io mi
spaventavo a….tutte le cose…tutto….e dicevo mamma…e se incontro…tipo mentre
mangio…qualcosa…io muoio….gli dissi…dottore…io ultimamente penso che ho
qualcosa…qualcosa che comunque dico…non lo so….cosa potrebbe essere…chi sacciu
chi posso avere….io non riesco più a mangiare…mangio tipo
gli
omogeneizzati…mangio la pastina…non riesco a fare una vita normale…perché
comunque…avendo un lavoro…io parto la mattina prestissimo…cioè….sono….non
sono costretta…mmm…comunque la mia giornata si svolge anche fuori…ed io
dico….con questa cosa che ho…che mi spavento a mangiare…dico….devo tornare a
casa a mangiare per evitare…prima solitamente mi capitava che il pranzo lo facevo
pure con i colleghi …il panino…la qualsiasi cosa…ora tipo io evito di fare questa
cosa…perché dico…se mi viene di soffocarmi dico…mamma mia che brutta figura che
dovrò fare con gli altri….ed allora evito….ed arrivo a queste conclusioni….allora il
dottore mi disse…una volta che tu mi stai dicendo tutte queste cose…è un pochino più
pesantuccia come cosa…se tu devi mangiare pastina…non posso ingoiare la
carne…mangiare l’omogenizzato….mi grattugio la mela…questa situazione…un
pochettino dobbiamo essere …..con un lavoretto un po’ più fortino…sai che
rilassa….poi un po’ di tempo fa….lui mi indirizzo…questo mio medico….lo scorso anno
è stato…mi indirizzò da uno psicoterapeuta...forte…più…come mio marito….che mi
dice…ma che dici…ma che hai….non hai niente……non mi crede……tipo….non che
non mi crede….non glielo so spiegare dottore…ad esempio lui non mi capisce").
Il terapeuta indaga il sistema reattivo-percettivo della paziente, individuando una paura
dei cambiamenti e delle novità determinandole notevole ansia.
Il principio è che ogni persona ha un proprio sistema di percezione della realtà e, di
conseguenza, un proprio modo di reagire ad essa. L'individuazione del sistema
percettivo-reattivo del paziente è uno dei primi passi che viene compiuto in terapia.
Il sistema utilizzato dalla paziente è di tipo cenestesico. Il nostro sistema percettivo
reattivo funziona come un filtro che seleziona i significati da dare alle cose, come una
cornice che inquadra un fenomeno interpretandolo in un senso o nell’altro, secondo i
propri criteri (emotivi, motivazionali, logici, valoriali e secondo gli stati della mente). Il
sistema percettivo-reattivo individuale è frutto dell’interazione con l’ambiente. Noi
siamo in contatto col resto del mondo per mezzo dei nostri cinque sensi, connessi con la
nostra sensorialità interiore.. ("ora invece hanno un pochettino rimodulato tutte le
cose…..io sono stata spostata in un altro ufficio… dopo quell’evento che ho diciamo
avuto un pò di anni fà… dovuto anche ad una situazione di stress che
vivevo…..perchè…che ne so…per me i cambiamenti …le cose nuove anziché essere
presi in modo positivo…io…li prendo sempre in modo negativo…allora io…questa
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cosa che mi sono sposata…che me ne dovevo andare a vivere in un altro paesino…che
non era quello in cui abitavo…in un paesino vicinissimo….però…questa cosa del
cambiamento mi ha un po’…un attimino…scosso…non ero molto….e ho avuto questo
evento…che poi però è finito…si…mmm….quando mi sono sposata…io penso di essere
tranquilla con la testa…penso….non ne ho depressione…io non mi sento che c’ho la
depressione….io ce l’ho davvero sto fastidio se mi mangio una cosa…mi resta
qua…mi resta qua….un corpo estraneo….ogni cosa che mi mangio…mamma
mia…dico….mi devo riprendere io stessa…mi sto facendo una cura..dico..per la
depressione…tipo che io mi volevo fare forza … dico…io devo mangiare…se no dico
muoio se non mangio…queste cose mi venivano per la testa…dico….la devo
finire….che cosa sto facendo dico…niente...un periodo….perchè poi ho avuto Giulio
….magari ero…..60 Kg ci pesavo…sicuro….si anche di più di 60 Kg…ero bella in
carne…si…ad esempio quest’estate …siamo andati al mare…siamo tornati
naturalmente a mare…e tipo io….già iniziavo ad essere…avere dei disturbi più
forti…tipo che ne so….io mi ricordo che mio marito comprava il pane…le baguette…ed
io tipo…non ne cercavo pane…o cerco il pane quello morbido…o comunque mi mangio
la mollica").
Il terapeuta rende concreto il problema evitando generalizzazioni,preconcetti ed autoinganni ed analizza le “tentate soluzioni” che la paziente mette in atto nell’assunzione di
cibo,indagando nella sua storia personale l’eventuale presenza di disordini alimentari
pregressi. Si tenta di indagare i gusti alimentari di Viviana sia prima che dopo
l'insorgenza del problema (" tutto vorrei mangiare…no no…allora….mi piacerebbe
mangiarmi tutte cose…e non me le posso mangiare….e mi dispero…si…si…ora mangio
cose che non hanno gusto secondo me…che ne so….ad esempio…quando stavo
bene…non mi veniva di mangiare tipo le fave…bollite e fatte a purè…non me le
mangiavo per dire…a volte capitava che mia mamma faceva ste cose così….e gli dicevo
mamma che è….e lei…dai mangiatele…lo sai che sono sostanziose…io ad esempio tipo
mangio…non mangio più la carne perché non la posso ingoiare e mi mangio gli
omogeneizzati
oppure ad esempio tipo…ste fave così…per essere più
sostanziose…perché poi penso posso morire…e mi mangio sti passati a purè
…parmiggiano ed olio…a volte la saltavo prima….o una cosa qualsiasi…tipo
cornetti…mangiavo tutto….io sono un tipo che mi piace mangiare…ora prima che vado
a lavoro…mangio a casa…perché dico poi non posso mangiare fuori…allora la mattina
mi alterno…mi mangio a volte il latte …però siccome ho il sospetto di reflusso ed il
latte può fare male…sto latte o forse mi accentua comunque sta patologia…anche
questo…può essere una forma di reflusso…e quindi a volte mi mangio il latte con i
biscotti..plasmon…perché si sciolgono subito e non mi possono dare fastidio…e quindi
mi sto mangiando i biscotti a casa col latte…e a volte lo alterno con l’orzo…alcolici
niente…tipo domenica…ho avuto invitati a casa mia…ed ho fatto con tanto piacere….le
lasagne…per dire…no…le ho mangiate…ma mi sono sentita male…stavo
soffocando…stavo morendo…sono dovuta andare nell’altra stanza…senza fare capire
niente perché poi mi vergogno...no….no…dicevo mamma sto morendo….dove se n’è
andato qua di traverso…si…io sento che mi resta qua…e a volte….quando lo
ingoio….io mi rendo conto che devo mangiare…se io non mangio dico muoio").
Il terapeuta analizza le abitudini alimentari familiari ed emerge che anche il fratello
della paziente ha il suo stesso problema,anche se lei stessa dice che non è grave come il
suo problema "allora mio fratello praticamente…ultimamente…ha questa patologia
come la mia…l’anno scorso gli venne per la prima volta…e non capì
cos’era…mmm….lui mi dice che ci brucia tutta la gola…mi dice che non
riesce….però….mi dice che non riesce a deglutire….dice che non riesce a….però
rispetto a me io lo vedo un pochettino meglio".
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Viviana racconta che nella sua storia familiare non ci sono storie di disordini
alimentari,sebbene tutti in famiglia avessero una corporatura esile.
Ultima di tre fratelli, Viviana ha conosciuto il marito Giuseppe, di 14 anni più grande,
all’età di 19 anni mentre studiava. Descrive la sua vita sentimentale per certi versi
appagante, insoddisfacente per altri. Oggi la sua vita appare improntata inevitabilmente
al ruolo di madre e moglie.
Dopo la maternità ha ripreso a lavorare in un paese a circa 2 ore e mezza da casa propria
che l’ha costretta a portare il bambino in un asilo nido comunale, in quanto il marito è
ingegnere nei cantieri. Inoltre, la difficoltà nella gestione dei ritmi familiari l’hanno
costretta per un breve periodo a tornare a vivere nella casa paterna col marito ed il
figlio. Il terapeuta cerca di far notare a Viviana un punto di vista diverso della sua vita
quotidiana attraverso la tecnica strategica della ristrutturazione. ("ma tu non hai una vita
normale…questo è un buon motivo per non affrontare il vero problema che è avere una
vita normale per Viviana… vita no stop…questa è .tragica…eh….dovremmo lavorare
su questo anche noi……dovremmo trovare il modo di dare a Viviana tanti stop…cioè
se uno sta in una situazione difficile …come la sua adesso…dovremmo intervenire
anche sulla situazione…perché se io mi sento bella…forte…ed in grado di
affrontare…situazioni difficili ….perchè questa vita no stop….ho come l’impressione
che sia una vita senza prospettive…o sbaglio? uno dice…mi faccio un periodo con mia
mamma….un super periodo finchè mio figlio diventa più grandicello…va all’asilo e poi
mi metto a vivere per conto mio...lo so….. eh….ce lo possiamo tenere anche per
un’altra volta…perché non credo sia l’ultima volta che ci incontreremo…anche se…lei
è abituata ad andare dallo psicoterapeuta una volta…e poi non ci va più…uhm…questa
è la vita di Viviana eh……solo la vita di Giulio…la vita di Giuseppe…la vita di
mamma…la vita di….ma di Viviana…solo parlando della gola di Viviana….ma
Viviana c’ha i capelli…gli occhi…il naso…la bocca…le spalle…fino ai piedi….staremo
un quarto d’ora per dire che Viviana non è solo la gola di Viviana…ma cosa fa lei per
tutto….oltre alla gola….benissimo lei c’ha male qui…e mi occupo della gola….ma chi
si occupa di Viviana..no….ma cosa fa per Viviana mi chiedo…a 34 anni ….cioè mi
chiedo….vita no stop….ottima mamma…moglie abbastanza ….voglio dire senza nessun
problema…figlia….eh…..ma Viviana dove sta….lei non si è nemmeno
permessa….voglio dire prima di 19 anni era una ragazzetta…una ragazzina…non ha
mai avuto una vita per Viviana ….quanti viaggi da sola fa?ma quando lei mi parla di
vita no stop…ho la sensazione che lei non c’ha un futuro…un’immagine…un
futuro….questa vita no stop non finirà tra un mese…due mesi…questa vita no
stop….Viviana…non se l’immagina nemmeno…come potrebbe finire …cambiare….a
meno che….per grandi rivoluzioni….non lavoro… amiche ce ne ha?quale sarebbe una
vita normale per Viviana? Che farebbe Viviana se non avrebbe questo problema? Cosa
cambierebbe nella vita di Viviana quando non avrà più questo problema?......non riesci
nemmeno ad immaginartela tu una vita normale…o si? Te lo riesci ad immaginare?
eh…cosa ci dobbiamo fare con questa vita…Viviana non è Giuseppe…può essere un
po’ Giulio…sicuramente….ma….tutta questa vita di Viviana deve essere indirizzata
verso una gratificazione…un miglioramento della qualità della vita di Viviana….io
non so se le persone che ti stanno vicino giocano a favore di questo o giocano
contro..non lo so…ma non è questa….la troveremo la soluzione…ma sarà una
soluzione anche non facile da….raggiungere…perché sa questi sintomi sembrano cose
molto…..molto come dire circoscritti…eh si…è vero….ho come l’impressione che sei
una…compressa….non so dirti come…e poi chiaramente viene fuori la rabbia…viene
fuori il mal di gola….viene fuori così….viene fuori").
Il punto centrale di questa tecnica è che se il problema può essere visto e vissuto in
maniera alternativa, allora può essere ridotto, eliminato dato che la sua esistenza è
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intimamente associata con la prospettiva di coloro i quali sono coinvolti. L’effettiva
ristrutturazione della situazione non dipende unicamente dalla reale possibilità di
alterare la stessa. Infatti, in alcuni casi, la situazione non potrebbe neanche essere
alterata ma, finché essa è percepita diversamente, anche le sue conseguenze potranno
essere diverse (Gulotta, Petruccelli, 2005). La ristrutturazione è un aiuto alla persona
per riorganizzare il suo modo di capire una situazione. Nel ristrutturare un’idea o
concezione, non si mette in discussione l’idea o la concezione ma si propongono diversi
percorsi logici e diverse prospettive di approccio a tali idee e concezioni. Non si cambia
il contenuto del quadro ma solo la cornice.
Nel corso della seduta il terapeuta utilizza una serie di interventi che mirano a proporre
diverse alternative alla paziente attraverso l’uso dei paradossi. Viviana viene messa di
fronte al cambiamento avvenuto nella sua vita.
La psicoterapia breve strategica considera la “realtà” il prodotto di una costruzione
personale (Erickson,1982). La pratica clinica mira a sostituire una “realtà”sgradita e
limitante, ossia problematica, con una più soddisfacente. Ciò comunque nella
consapevolezza che la nuova “realtà” non può essere ritenuta più vera di quella
precedente.
Nelle parole di Watzlawick et al (1967), “la psicoterapia si occupa della ristrutturazione
della visione del mondo del paziente. Nell'analisi della costruzione del problema,
particolare attenzione viene rivolta al sistema percettivo-reattivo del paziente: le
specifiche modalità di attribuzione di senso agli eventi e le relative strategie
comportamentali messe abitualmente in atto dalle persone costituiscono una solida
impalcatura a mantenimento del disagio psichico. Il terapeuta, pertanto, interviene con
la finalità di perturbare, in modo strategico, il sistema percettivo-reattivo del paziente”.
Un intervento mirato alla ristrutturazione che consiste nell’indurre il paziente ad una
ricodificazione d’immagini e percezioni della realtà, mediante lo spostamento del punto
di osservazione. Se il problema può essere visto e vissuto in maniera alternativa, allora
forse può essere affrontato e gestito in maniera efficace.
L’utilizzo della persuasione in psicoterapia strategica comporta un atto che comporta
sempre una scelta, un esercizio di libera volontà del paziente, significa, cioè, indurre un
cambiamento dell'opinione altrui solo per mezzo di un trasferimento di idee, un
passaggio di puri contenuti mentali.
Una comunicazione strategica è caratterizzata dal suo essere sempre orientata in
direzione di un obiettivo da raggiungere. L’interlocutore, lascia intravedere la possibilità
che per un’altra via, attuando un altro comportamento, si potranno raggiungere gli stessi
obbiettivi o gli stessi benefici, salvaguardando i propri valori. Il solo fatto che si possa
ammettere l’esistenza di altre possibilità distoglie la persona dalla sua rigidità ed apre
nuove prospettive.
L’obiettivo generale che Viviana si pone è riuscire a non avvertire più la sensazione di
morire e soffocare ogni qualvolta mangia qualcosa e riprendere la sua vita normalmente
"ma posso guarire da sta cosa…o no?poi penso porca puttana ma proprio a me mi
doveva venire….meglio un’altra cosa…ma non questo….che non mi permette di stare
serena….non mi permette di condurre una vita normale…io voglio
iniziare…seriamente".
Il terapeuta a questo punto spiega alla paziente che il suo ruolo sarà direttivo e che lei
dovrà fare ciò che lui le dirà. Le prescrizioni di comportamento,utilizzate nel modello
strategico,permettono al paziente di fargli sperimentare azioni concrete di vita che
rompono il meccanismo di azioni,retroazioni e tentate soluzioni che mantengono il
problema.
Il terapeuta, quindi, assegna a Viviana due prescrizioni comportamentali dirette:
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Non parlare del suo problema con la madre ed il marito e di conseguenza non
condividere i pasti con loro (Congiura del silenzio);
Fare una lista delle sue paure;
Si parte dalla convinzione che il cambiamento passi attraverso esperienze concrete, e la
prescrizione di sequenze comportamentali, da eseguire tra una seduta e l’altra, ha il fine
di far vivere quelle esperienze individuate come portatrici di cambiamento (Verrastro,
V., 2004). Le prescrizioni dirette sono quel tipo di indicazioni chiare di azioni da
eseguire tese alla risoluzione del problema presentato, o al raggiungimento di uno dei
progressivi obiettivi del cambiamento. E’ utile nei casi di persone molto collaborative e
che hanno una scarsa resistenza al cambiamento, alle quali è sufficiente dare la chiave
di risoluzione del problema, prescrivendo loro come comportarsi di fronte alla
situazione problematica in maniera da disinnescare i meccanismi che la mantengono
operante. Si sposta così l’attenzione dal singolo individuo al sistema, dall’intrapsichico
al relazionale. Particolare interesse è rivolto al modo in cui ognuno comunica e si
relaziona non solo con se stesso, ma anche con gli altri e con il mondo.
Se è vero che per migliorare bisogna cambiare, questo è possibile solo “agendo”. Quello
che diventa prioritario è come fare, quali mosse attuare, quale strada percorrere per
arrivare all’obiettivo stabilito, piuttosto che soffermarsi semplicemente sulle cause di un
problema o sul perché della soluzione.
Quindi, niente analisi del profondo ma analisi delle attuali relazioni che il paziente
instaura e immediata modificazione del comportamento disfunzionale. Da qui deriva
l’importanza dello studio e della conoscenza di quanto riguarda la vita quotidiana del
paziente.
Secondo il modello strategico non è necessario che il paziente raggiunga l’insight (cioè
la consapevolezza delle cause che in passato hanno determinato un disturbo presente),
in quanto i problemi possono essere risolti mediante tattiche mirate a rompere il sistema
disfunzionale in cui è caduto (Petruccelli,Verrastro 2012).
Al secondo incontro,Viviana appare più rilassata. Racconta che nel periodo trascorso tra
una seduta e l’altra, è cambiato il suo modo di approcciarsi al cibo. Un giorno, infatti,
ha deciso di provare a mangiare un panino croccante, dopo che per molto tempo non lo
assaggiava ho visto in questo periodo che…allora c’è stato un periodo che non sono
riuscita a mangiare quasi nulla…mentre ultimamente…sono riuscita a mangiare
tipo…mezzo….mi sono detta…un po’ di giorni fa…non sono riuscita a trovare un
panino morbido…ed allora mi sono detta…perché non provare quello giusto…che
sempre questo coso morbido…che poi ultimamente…questo coso morbido…mi dava
ancora più fastidio…tipo che quella mollica diventava una poltiglia…mi dava
fastidio…e quindi mi sono detta…quel giorno non c’era…ora mi prendo quello giusto
croccante che a me piaceva questo prima…e l’ho…prova...comprato…poi sono
arrivata a casa e mamma mia come me lo mangio questo panino…e se poi mi sento
male…pensavo..come devo fare non lo so…posso morire? Soffoco….Non
respiro…come faccio…quindi mi sono detta…mamma mia…chi se ne importa…ma se
gli altri non si soffocano…io non mi devo soffocare neanche se non ho niente….e quindi
mi sono mangiata il panino…mi sono messa l’acqua vicino…e mi sono detta…ma….se
mi soffoco…soffoco….me lo devo mangiare sto panino….e piano piano….l’ho
masticato tantissimo…e poi l’ho deglutito…c'ho impiegato un po’ di tempo…perché
l’ho fatto a pezzettini piccolini…perché era bello croccante…mi veniva di addentarlo
un po’ di più…c’ho messo il prosciutto dentro…il toast…l’altro giorno mi sono
mangiata il toast con la sottiletta e prosciutto…l’ho tostato non tantissimo…e mi sono
resa conto che ultimamente…se sono troppo morbidi…mi danno fastidio…tipo che
questa mollica diventa….un tappo").
33
Il terapeuta cerca di far sì che la paziente possa prospettarsi in una vita senza il sintomo
che possa rappresentare allo stesso tempo la definizione di obiettivi specifici concreti da
raggiungere per stare bene attraverso l’uso della tecnica del Miracolo ("ogni giorno è un
giorno nuovo…se tu dovessi immaginarti… una vita… tra virgolette…felice….senza
tutte queste….cose che ti danno fastidio…come te la immagineresti?che cosa faresti di
diverso da quello che fai?").
La miracle question ha lo scopo di supportare il paziente nella definizione di un
obiettivo terapeutico chiaro e realistico, e di individuare quali risorse egli può utilizzare
per raggiungerlo (Verrastro,V.2004). La domanda del miracolo crea un clima di fiducia,
stimola la persona a rappresentarsi possibili soluzioni ancora intentate e rileva il suo
atteggiamento verso un possibile cambiamento (ibidem).
Il terapeuta indaga sulla vita matrimoniale di Viviana e sul suo livello di soddisfazione
"ma quando ti….deprimi….ti scoraggi….è solo per il cibo?o ti vengono in mente altre
cose che secondo te non c’entrano nulla…la tua vita…è una vita felice
indipendentemente da questo….o vorresti essere più felice…io vorrei capire se la tua
vita…quanto ti soddisfa…quando dici non felicissima…quali sono i pensieri…che
strillano…le cose che non vanno…le cose pesanti".
Viviana affronta le difficoltà insite nel suo rapporto coniugale dopo il matrimonio.
Si descrive diversa caratterialmente dal marito. Dice di esprimere le sue emozioni con
parole ed abbracci a differenza di lui. Il terapeuta cerca di fargli capire come sia
inevitabile con la nascita di Giulio perdere di vista la relazione di coppia, ma cerca di
farle notare come sia necessario trovare del tempo da condividere assieme per il
benessere del proprio figlio.
Il terapeuta ristruttura il suo sistema percettivo-rappresentativo cercando far capire alla
paziente i vari scenari possibili di un rapporto di coppia attraverso l’offerta di
alternative peggiori. Questa tecnica è utilizzata per far eseguire al soggetto i
suggerimenti del terapeuta lasciandogli un margine di autonomia nel prendere decisioni
e nel trovare nuovi modelli di comportamento (Haley,1976). Il terapeuta utilizza la
tecnica della concretizzazione. Dinnanzi a problematiche formulate in maniera generica,
lo scopo della tecnica risulta nell'accumulazione di un numero sufficiente di esempi
concreti che permettono di incominciare a scorgere i contorni del problema, la maniera
in cui il paziente lo percepisce, i ruoli assunti, le diagnosi inespresse ("ma se voi non
avete nessuna intimità…cioè non vi fate mai….una passeggiata insieme voi due…non vi
fate mai un week end insieme voi due…non vi fate mai…una cenetta romantica…voi
due….non fate niente…scusami…voi due…..come coppia…voi c’avete la famiglia e vi
siete incaprettati…in questa famiglia…che per altro è un famiglia un po’
allargata…con
i
suoceri…i
genitori…che
lo
fanno
solo
per
piacere…naturalmente…però…voi due vi siete persi….non so se siete mai stati voi
due…forse quando eravate fidanzatini…ne sono convinto….ma secondo te…c’ anche il
problema che tu non sai che fare in una storia così?...scusa la volgarità…se tuo marito
non ti cerca…o ti cerca…tre o quattro volte dopo che è nato tuo figlio…sono cambiate
le cose così quando ti sei sposata o quando è nato tuo figlio…quand’è che hai notato un
calo...anche perché se vi perdete voi…e questo è il modo migliore di
perdersi…facciamo il solito figlio quando uno non vuole separarsi…ma secondo te…lui
c’ha altri modi di avere…una vita sessuale…non lo so…c’ha altre persone…non
t’incuriosisce saperlo?non lo so…ci sono donne che quando vedono che il proprio
marito non le cerca più…vanno in paranoia…cominciano a controllare i
telefonini…non lo so…le peggio cose…ma non è che si sistema perché tu dici così…si
sistema se cominci a rendertene conto se ci sta qualcosa che non va…da questo punto
di vista…e che forse molto del tuo malessere è legato a quello…tu ti aspettavi un
34
matrimonio così….no…non ti aspettavi un matrimonio così…a parte proprio l’atto
sessuale…questo non ti stringe la mano…non ti fa una carezza…e quando queste
fantasie diventeranno più forti…a quel punto che cosa farà una signora che si sente
che il marito….lasciamo perdere…..cominci a stare male…e secondo me…hai iniziato a
starci male….e cercherà aiuto…e tu già lo stai facendo…naturalmente per un problema
diverso….ma chi lo sa se poi i problemi sono esattamente così staccati dentro di
noi…che poi uno sta male ed un po’ quello..un po’ questo…un po’…un’altra cosa che
si punta sul mangiare e poi non mangia più").
Viviana inizia a scorgere nella sua vita degli aspetti che prima non aveva mai notato
"non lo so…certo è un accumulo di tante cose la mia…al punto che….da capire ha
anche un’intensità la vita….comunque viaggio…devo svolgere un lavoro….un impegno
della casa….pulizie della casa...un po’ di distacco tra noi due c’è".
Se il problema può essere visto e vissuto in maniera alternativa ("si…ma il Buco
affettivo…c’è…poi c’abbiamo pure il problema col cibo…di ingoiare…lo stress
lavorativo….mia madre sempre in mezzo….per dire…però ci sta…"), allora può essere
ridotto o eliminato, dal momento che la sua esistenza è intimamente associata con la
prospettiva di chi è coinvolto.
Il terapeuta rimanda a Viviana i cambiamenti ottenuti fino a quel momento in vista del
raggiungimento dell’obiettivo prefissato "vabbene…signora…io sono molto contento
dei tuoi progressi!". Inoltre, cerca di distogliere l’attenzione della paziente dal sintomo,
su cui era incentrata tutta la sua vita, attraverso la tecnica del Seminare concetti, che
permette a Viviana di prendere consapevolezza del nucleo conflittuale che si cela dietro
al sintomo organico, mentalizzando le emozioni nascoste ed attribuendogli un
significato.
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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
36
La psicoterapia strategica applicata a livello familiare
integrata ad un percorso di rieducazione neuropsicologica
individuale
Psychotherapy strategically applied at the household level
integrated to a path of individual neuropsychological
rehabilitation
Lorena Calandi1
Riassunto
In questo lavoro è trattato un caso clinico di Disturbo Pervasivo dello sviluppo Sindrome di Asperger con un percorso di rieducazione neuropsicologica individuale
integrato ad un intervento familiare con l’approccio strategico breve. Dopo una breve
introduzione, che descrive il disturbo sul piano qualitativo, esso prosegue con la
descrizione del percorso terapeutico effettuato. Il trattamento realizza importanti
cambiamenti attraverso la consapevolezza dei membri sul funzionamento del sistema
familiare.
Parole chiave
Approccio strategico breve, disturbo pervasivo dello sviluppo - Sindrome di Asperger,
valutazione neuropsicologica.
Abstract
In this work has treated a case of Pervasive development - Asperger Syndrome with a
path of individual neuropsychological rehabilitation concomitant to a family
intervention with the strategic approach short. After a brief introduction, which
describes the disorder in terms of quality, it continues with a description of the course
of treatment carried out. The treatment produces important changes through the
awareness of the members on the functioning of the family system.
Keywords
Strategic approach short, pervasive
neuropsychological assessment
development
-
Asperger
Syndrome,
Introduzione
Ogni bambino cresce con ritmi di sviluppo individuali per imparare a camminare, a
correre, a parlare, a disegnare, a giocare, a leggere e scrivere, a stabilire rapporti
37
sociali e ciò avviene con tempi e modi che dipendono sia dalle sue caratteristiche
costituzionali, sia dagli stimoli ambientali che riceve.
Quando il percorso di crescita di un bambino si discosta in modo significativo da quello
dei coetanei,può rendersi necessario approfondire i motivi dei ritardi o delle atipie che si
manifestano in determinate acquisizioni.
Non esistono misurazioni precise, soprattutto quando si tratta di valutare competenze
presenti o assenti, come camminare o pronunciare le prime parole, ma competenze che
si organizzano progressivamente, come disegnare soggetti riconoscibili, giocare con
regole adeguate, saper raccontare e farsi capire, ben più difficili da misurare.
Nei primi due anni di vita, rallentamenti di pochi mesi nella crescita possono già
definirsi come scarti o divari degni di osservazione, mentre durante lo sviluppo i tempi
di un ritardo possono allungarsi soprattutto se non sono coinvolte le funzioni più
importanti dello sviluppo.
Nei bambini possono anche presentarsi comportamenti che appaiono atipici, quali un
eccesso di isolamento, instabilità,comportamenti oppositivi o aggressività, e sentimenti
intensi di paura, tristezza, rabbia vissuti dagli adulti come sproporzionati e incongrui
rispetto al contesto. I criteri che si possono utilizzare per differenziare le situazioni
dovute a specifiche crisi evolutive o a disagi temporanei da un vero e proprio disturbo
dello sviluppo sono:
l'ampiezza e la gravità del divario tra ciò che il bambino sa fare e le attese in
rapporto all'età e al confronto con i coetanei;
durata e frequenza dei comportamenti immaturi, inadeguati o bizzarri, sia a
livello cognitivo che emotivo.
Un campanello d'allarme si deve accendere solo quando il comportamento diverso del
piccolo si discosta in modo significativo da quello dei coetanei, ovvero quando il
divario tra ciò che il bambino sa fare e le attese in rapporto all'età e al confronto con gli
altri bambini, si rivela ampio e rilevante e quando diventa ripetuta la frequenza dei suoi
comportamenti "immaturi, inadeguati o bizzarri". Soltanto in presenza di questi dati
intrecciati, è indispensabile prendere in mano la situazione clinicamente, con urgenza,
determinazione e in maniera sinergica. Poiché, con l'intervento precoce, i disturbi più
lievi possono riassorbirsi quasi completamente, e i più gravi potranno comunque avere
una evoluzione migliore e una prognosi più favorevole.
I genitori devono evitare d'inseguire il falso mito del “super bambino” a tutti i costi e
dedicare attenzione ai suoi reali bisogni, non pretendere performance da piccolo genio
ma rispettare l'individualità di ogni piccolo, in modo da saper riconoscere quando un
supposto ritardo o un'anomalia comportamentale manifesta le caratteristiche non di un
semplice tempo evolutivo diverso, bensì di un reale disturbo dello sviluppo.
Essere in grado di valutare precocemente le prime avvisaglie di uno sviluppo atipico
oggettivo e autentico determina l’immediatezza dell’intervento e una maggiore
possibilità di garantire un risultato medico mirato ed efficace.
Quando è presente una patologia, che può interessare lo sviluppo globale di un bambino
o alcuni aspetti settoriali della sua crescita, è indispensabile effettuare una diagnosi che
non solo inserisca il bambino all'interno di una situazione clinica definita, ma riesca a
chiarire qual è il suo profilo di sviluppo in termini di deficit e risorse, punti di forza e
punti di debolezza, strategie cognitive utilizzate, modalità e qualità delle relazioni
sociali. Se un bambino presenta un disturbo dello sviluppo, ancora di più è
fondamentale rispettare i suoi tempi e i suoi modi di conoscere, esprimersi e
relazionarsi.
Su questo quadro conoscitivo è possibile programmare un intervento terapeutico (sugli
aspetti cognitivi, neuropsicologici o psicopatologici) finalizzato a favorire la risoluzione
del deficit, a ridurre l'entità e il peso del disturbo nello sviluppo della personalità del
38
bambino e a evitare il rischio che difficoltà emotive e relazionali complichino il quadro
iniziale.
Parallelamente al processo terapeutico del bambino devono essere attivati interventi di
supporto psicologico ai genitori per sostenere le loro competenze genitoriali e
affiancarli nel percorso di conoscenza ed elaborazione delle difficoltà del figlio.
Nei bambini si possono distinguere due tipi diversi di disturbi cognitivi: acquisiti o
evolutivi. Si parla di disturbi acquisiti quando, dopo un periodo di sviluppo normale, in
seguito ad una lesione neurologica o a una malattia (ad es. in seguito ad attacchi
epilettici) si determina un danno e la conseguente perdita di un’abilità precedentemente
esistente. Sono, invece, disturbi evolutivi quei casi in cui il disturbo si evidenzia nel
corso dello sviluppo, senza la perdita di funzioni precedentemente già acquisite in modo
normale. I bambini con disturbi evolutivi mostrano, in confronto ai coetanei, particolari
difficoltà nell’acquisire determinate capacità o abilità: linguaggio, lettura, scrittura,
calcolo, ecc. Questi disturbi possono assumere un diverso grado di intensità: dal lieve,
al moderato, al grave. In ogni caso, occorre intervenire tempestivamente con programmi
riabilitativi ad hoc, per impedire l’evoluzione del disturbo in forme più severe.
Disturbi evolutivi
Con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo (DSP), secondo il DSM-IV-Tr (2001), si fa
riferimento ad un quadro clinico caratterizzato dalla compromissione di tre aree
principali dello sviluppo psichico del bambino, rappresentate da:
interazione sociale;
comunicazione verbale e non verbale;
repertorio di attività ed interessi.
Le tipologie di disturbo pervasivo dello sviluppo (o disturbo generalizzato dello
sviluppo) sono le seguenti:
1. Il disturbo autistico (o autismo);
2. L'autismo atipico;
3. Il disturbo di Rett;
4. Il disturbo disintegrativo dell'infanzia;
5. Il disturbo di Asperger (sindrome di Asperger);
6. Il disturbo pervasivo di sviluppo non altrimenti specificato (PDD-NOS).
La sindrome di Asperger, è stata originariamente descritta da Hans Asperger (1944), che
trattava alcuni casi le cui forme cliniche somigliavano alla descrizione di Kanner (1943)
dell’autismo (problemi con interazione sociale e comunicazione e schemi di interessi
limitati e caratteristici).
La sua descrizione però vi si differenziava in quanto il linguaggio era in ritardo in modo
meno frequente; i deficit di tipo motorio erano più comuni; l’inizio della manifestazione
del disturbo si presentava più tardi; tutti i casi iniziali descritti riguardavano solo il sesso
maschile.
Inoltre, Asperger suggeriva che era possibile osservare alcuni problemi simili anche in
altri membri della famiglia, e particolarmente nei padri.
Per molti anni, questa sindrome è rimasta fondamentalmente sconosciuta, finchè una
serie di analisi di casi realizzati da Lorna Wing (1981), aumentarono l’interesse per
questa condizione, determinando un uso sempre maggiore di questo termine nella
pratica clinica e un continuo aumento del numero di rapporti di casi e di studi di ricerca.
Le caratteristiche cliniche della sindrome descritta abitualmente includono:
a) scarsezza di empatia;
39
b) interazione sociale unilaterale, inappropriata e senza malizia, poca abilità di formare
delle amicizie e conseguente isolamento sociale;
c) linguaggio monotono e pedante;
d) scarsa comunicazione non verbale;
e) profondo interesse in tematiche circoscritte come il tempo, i fatti di trasmissioni
televisive, gli orari ferroviari o le carte geografiche che, memorizzate in modo
meccanico, riflettono poca comprensione conferendo inoltre un’impressione di
eccentricità;
f) movimenti goffi, maldestri e posture bizzarre.
Il soggetto può parlare incessantemente di un argomento favorito, spesso non arrivando
a una conclusione ed i tentativi dell’interlocutore di cambiare discorso o intervenire sul
contenuto restano frustrati.
Dal punto di vista del funzionamento sociale, sono spesso soggetti isolati, pur
rendendosi conto della presenza degli altri e pur tentando approcci, che risultano però
inappropriati, poiché è spesso presente un’insensibilità verso i sentimenti e le intenzioni
altrui. I bambini affetti da questa patologia non sono infatti in grado di dare significato
alla comunicazione non verbale degli altri.
Nonostante Asperger avesse originariamente descritto la presenza di questa condizione
unicamente in persone di sesso maschile, che ne hanno più probabilità di esserne affetti,
attualmente vi sono pure casi di persone di sesso femminile.
Anche se risulta che la maggior parte dei bambini affetti da questa condizione si situano
nei normali parametri di intelligenza, in alcuni di loro è stato riscontrato un leggero
ritardo.
L’apparente inizio della condizione, o perlomeno la presa di coscienza di essa, ha luogo
probabilmente un po’ più tardi dell’autismo. È possibile che ciò sia dovuto al fatto che
le proprietà di linguaggio e le abilità cognitive sono migliori. La condizione tende ad
essere molto stabile nel tempo e le più alte capacità intellettive osservate suggeriscono,
a lungo temine, un miglior esito di quanto tipicamente osservato nell’autismo.
I soggetti possono essere in grado di descrivere, correttamente e con dovizia di
particolari, le emozioni e le intenzioni altrui, tuttavia non sanno agire sulla base di
queste conoscenze e restano rigidamente attaccati alle norme e alle convenzioni sociali.
Sono invece presenti singolari isole di abilità, che possono essere coltivate così
assiduamente da ignorare o impedire lo sviluppo di altre.
Dal punto di vista motorio, sono soggetti goffi, con deficit significativi delle abilità
visuo-percettive. Infine, il livello cognitivo risulta nella norma, anche se con
significativa prevalenza del quoziente intellettivo verbale su quello di performance.
È necessario prendere in considerazione sia i punti di forza sia i punti di debolezza della
persona stessa, fornendo quindi un intervento individualizzato che risponda a questi
bisogni (valutati e monitorizzati in modo adeguato).
Apprendimento non verbale
In neuropsicologia è stata dedicata una grossa parte della ricerca al concetto di Rourke
(1989) sulla sindrome del disturbo di apprendimento non verbale (NLD). Il contributo
principale di questa linea di ricerca è stato il tentativo di tracciare le implicazioni sullo
sviluppo sociale ed emozionale del bambino con un profilo neuropsicologico singolare
di abilità e deficit, che sembra avere un impatto deleterio sia sulle capacità di
socializzazione, sia sugli stili interattivi e comunicativi della persona. Le caratteristiche
neuropsicologiche degli individui con il profilo della disabilità di apprendimento non
verbale includono deficit nella percezione tattile, nella coordinazione psicomotoria,
40
nell’organizzazione visuo-spaziale, nella risoluzione di problemi non verbali e
nell’apprezzamento dell’assurdo e del senso dell’umorismo. Gli individui con disabilità
di apprendimento non verbale manifestano anche ben sviluppate capacità meccaniche
verbali e di memoria verbale, ma delle difficoltà ad adattarsi a situazioni nuove e
complesse, troppo attaccamento a comportamenti stereotipati in tali situazioni, nonché
dei deficit in aritmetica meccanica rispetto alle capacità di lettura di singole parole, poca
pragmatica, parlata monotona, e difficoltà significative nella percezione e nel giudizio
sociale e nelle abilità d’interazione sociale. Vi sono difficoltà notevoli
nell’apprezzamento di sottili e abbastanza ovvi aspetti non verbali della comunicazione,
i quali spesso hanno come conseguenza il disprezzo e il rifiuto da parte di altre persone.
Come risultato, gli individui con disabilità di apprendimento non verbale manifestano
una forte tendenza a ritirarsi socialmente e sono a rischio di sviluppare dei seri disturbi
dell’umore.
Molti degli aspetti clinici della disabilità di apprendimento non verbale sono stati
descritti anche nella letteratura neurologica come una forma di disabilità di sviluppo di
apprendimento dell’emisfero destro (Denckla, 1983; Voeller, 1986). I bambini affetti da
questa condizione mostrano dei disturbi profondi nell’interpretazione e nell’espressione
affettiva e in altre abilità interpersonali di base. Infine, un ulteriore termine presente
nella letteratura, il disordine semantico-prammatico (Bishop, 1989), riporta ugualmente
degli aspetti del disturbo di apprendimento non verbale e della sindrome di Asperger.
Al momento, non è chiaro se questi concetti descrivano delle entità differenti o se, ciò
che è più probabile, diano delle prospettive differenti di un gruppo eterogeneo, ma in
sovrapposizione, di disturbi che hanno in comune almeno alcuni aspetti.
Definizione categoriale
Come definiti nel DSM-IV (APA, 1994), i criteri per la Sindrome di Asperger
prevedono:
A.
Compromissione qualitativa nell’interazione sociale, come manifestato da
almeno 2 dei seguenti:
1)
marcata compromissione nell’uso di diversi comportamenti non verbali come lo
sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano
l’interazione sociale;
2)
incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo;
3)
mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi
con altre persone (per es. non mostrare, portare o richiamare l’attenzione di altre
persone su oggetti di proprio interesse);
4)
mancanza di reciprocità sociale o emotiva.
B.
Modalità di comportamento, interessi, e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati,
come manifestato da almeno uno dei seguenti:
1)
dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi stereotipati e ristretti, che
risultano anomali o per intensità o per focalizzazione;
2)
sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici;
3)
manierismi motori stereotipati e ripetitivi (per es., sbattere o torcere le mani o le
dita o movimenti complessi di tutto il corpo);
4)
persistente eccessivo interesse per parti di oggetti.
C.
L’anomalia causa compromissione clinicamente significativa dell’area sociale,
lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
D.
Non vi è un ritardo del linguaggio clinicamente significativo (per es., all’età di 2
anni sono usate parole singole, all’età di 3 anni sono usate frasi comunicative).
41
E.
Non vi è un ritardo clinicamente significativo dello sviluppo cognitivo o dello
sviluppo di capacità di auto-accudimento adeguate all’età, del comportamento adattivo
(tranne che nell’interazione sociale) e della curiosità per l’ambiente nella fanciullezza.
F.
Non risultano soddisfatti i criteri per un altro specifico Disturbo Generalizzato
dello Sviluppo o per la Schizofrenia.
Deficit d'interazione sociale
Individui con la sindrome di Asperger sono spesso isolati socialmente, ma non sono
inconsapevoli della presenza degli altri, anche se i loro approcci possono risultare
inappropriati e strani. Essi possono per esempio ingaggiare un interlocutore, spesso un
adulto, in conversazioni unilaterali caratterizzate da un modo di parlare interminabile,
pedante e volte a un argomento preferito, spesso inusuale e limitato. Inoltre, anche se gli
individui con sindrome di Asperger descrivono spesso sé stessi come dei solitari,
dimostrano frequentemente un grande interesse a stringere amicizie e incontrare della
gente. Questi desideri sono invariabilmente ostacolati dai loro approcci goffi e
dall’insensibilità verso i sentimenti delle altre persone, le loro intenzioni e le
comunicazioni non verbali e implicite (per esempio segni di noia, fretta di congedarsi e
necessità di privacy).
Riguardo all'aspetto emozionale della transazione sociale, gli individui con la sindrome
di Asperger possono reagire in maniera inappropriata nel contesto di un’interazione
affettiva, o anche sbagliare nell'interpretarne il suo valore, mostrando spesso un senso di
insensibilità, di formalità o d’indifferenza nei confronti dell'espressione emozionale
dell'altra persona. Nonostante ciò, possono essere capaci di descrivere correttamente, in
maniera cognitiva e spesso formale, le emozioni delle altre persone, le aspettative e le
convenzioni sociali, mentre sono incapaci di agire nei confronti di questa conoscenza in
maniera intuitiva e spontanea, mancando per questo motivo di "tempismo"
nell'interazione. Questa debole intuizione e questa difficoltà ad adattarsi
spontaneamente, sono accompagnate da un marcato legame a regole formali di
comportamento e a convenzioni sociali rigide. Questo comportamento è ampiamente
responsabile dell'impressione di ingenuità sociale e di rigidità comportamentale, che è
assai comune tra questi individui.
La comunicazione deficitaria
Ci sono almeno tre aspetti nelle capacità comunicative di questi individui che sono di
interesse clinico. In primo luogo, se le inflessioni e le intonazioni non sono del tutto
rigide e monotone come nell'autismo, la parola può essere marcata da una povera
metrica. Per esempio, ci può essere una gamma ristretta di intonazioni che sono usate
con poca attenzione verso il contenuto comunicativo del discorso (asserzione di fatti,
battute di spirito, ecc.). In secondo luogo, il discorso può essere approssimativo o
circostanziato, convogliando un senso di imprecisione di associazioni ed incoerenza.
Benché in alcuni casi questo sintomo può essere un indice di un possibile disordine del
pensiero, la mancanza di coerenza e di reciprocità nel discorso è il risultato di uno stile
conversazionale unilaterale e egocentrico.
Il terzo aspetto che caratterizza gli schemi comunicativi degli individui con sindrome di
Asperger è la marcata prolissità, che alcuni autori considerano come l’aspetto
differenziale più importante del disturbo. Il bambino o l’adulto può parlare senza mai
smettere, di solito del proprio argomento preferito, ignorando spesso completamente se
42
l’interlocutore è interessato, è impegnato, o tenta di intercalare un commento o di
cambiare il soggetto della conversazione.
Nonostante la possibilità di attribuire tutti questi sintomi, in termini di deficit relativi a
capacità pragmatiche e/o a mancanza di intuito e consapevolezza delle aspettative delle
altre persone, la sfida rimane di comprendere questo fenomeno in un’ottica di sviluppo,
quale strategia di adattamento sociale.
Oltre ai criteri specificati e considerati necessari per la diagnosi, c’è un ulteriore
sintomo associato alla diagnosi della sindrome di Asperger che non viene però ritenuto
come indispensabile per la diagnosi: il ritardo nel raggiungimento delle tappe di
sviluppo motorio basilari e la presenza di una "goffaggine motoria". Gli individui con
sindrome di Asperger possono avere dei ritardi nell'acquisizione di abilità motorie,
come per esempio pedalare, prendere al volo una palla, aprire un barattolo, arrampicarsi
su una scala a pioli, ecc. Spesso sono individui visibilmente impacciati caratterizzati da
un'andatura rigida, da posture bizzarre, da deboli capacità manipolatorie e da rilevanti
deficit nella coordinazione oculomotoria.
La Sindrome d'Asperger secondo il DSM-5
Con il DSM-5 (2013) si parla di Disturbi dello Spettro Autistico, definiti all’interno di
due sole categorie: “deterioramento persistente nelle comunicazioni sociali reciproche e
nelle interazioni sociali in diversi contesti” e “schemi comportamentali ripetitivi e
ristretti”, entrambi presenti fin dall’ infanzia, ma possono non diventare manifesti finché
le esigenze sociali non superano i livelli di capacità. A loro volta, tali categorie sono
descritte attraverso alcuni sintomi, tra cui, per la prima volta, l’ipo o iper sensibilità
verso gli stimoli sensoriali. La presenza di tali sintomi deve compromettere o limitare il
funzionamento quotidiano. La diagnosi ora richiede la presenza o l’assenza di disabilità
intellettiva correlata, di alterazioni del linguaggio, così come di condizioni mediche e
genetiche aggregate.
La Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti
Specificato scompaiono e le persone con Autismo appartengono ad uno stesso
continuum, piuttosto che costituire entità separate.
Ciò che differenzia, secondo il DSM V, e quindi dà origine a “sub diagnosi” è la
“gravità” che viene identificata nella necessità di “supporto” . La condizione autistica
può richiedere quindi “very substantial support”, “substantial support”, “support”.
E' stata sostituita la definizione di “Sindrome di Asperger” con quella di “Spettro
autistico”, specificando che la persona interessata non ha disabilità intellettiva, e che
non ha necessità di un supporto intensivo.
Caso clinico
L., 11 anni, ha iniziato un percorso di Training Cognitivo, su richiesta dei genitori, a
causa delle sue difficoltà scolastiche in determinate materie.
Le strategie che possiede una persona nel suo repertorio non sempre vengono utilizzate.
L'intervento rieducativo a tal proposito, punta a valorizzare le capacità e le potenzialità
inespresse del ragazzo ed attraverso il fenomeno della plasticità cerebrale permette di
sviluppare capacità che risultavano precedentemente inesistenti nel suo repertorio
comportamentale.
Si tratta, infatti, di un allenamento cognitivo che risulta utile per imparare ad esprimere
le potenzialità che il ragazzo possiede e svilupparne delle nuove; infatti col termine
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potenziamento si indica il miglioramento delle abilità di base e l'acquisizione di altre più
complesse.
Il ragazzo appare goffo, maldestro, non incrocia lo sguardo dell'interlocutore e se lo fa
lo discosta velocemente, mostrando un'incapacità a mantenere il punto di fissazione per
un tempo prolungato.
Fin da piccolo, L., ha sofferto di crisi convulsive febbrili, che hanno portato la famiglia
a periodici controlli neurologici, per cui ancora oggi segue una cura farmacologica con
medicine che lo portano ad ingrassare e lo costringono a stare a dieta e praticare nuoto.
I genitori riferiscono che il suo sviluppo motorio e cognitivo sia stato nella norma, a
differenza dell'aspetto linguistico che li ha spinti a sottoporlo ad un trattamento
logopedico dall'età di 4 anni fino all'inizio della scuola primaria.
Il ragazzo non ha mai avuto problemi scolastici: è sempre stato molto studioso,
addirittura troppo meticoloso e preciso nello studio, ma ha evidenziato negli anni
difficoltà relazionali con i suoi compagni di classe.
Nonostante l'eccessivo tempo dedicato allo studio, tale da impedire qualsiasi altra
attività di svago e tempo libero, il suo rendimento scolastico è sempre stato ai limiti
della norma, finché nella scuola secondaria, le sue difficoltà cognitive si sono messe in
evidenza nello studio di determinate materie.
La mamma riferisce che il ragazzo è molto sensibile e fin da piccolo è stato sempre
escluso dai suoi compagni, che lo hanno sempre deriso e preso in giro per il suo
atteggiamento goffo e il suo scarso tempismo.
La valutazione psicodiagnostica evidenzia un'immaturità sul piano emotivo ed affettivo
mentre, sul piano cognitivo, l'analisi quantitativa evidenzia un quoziente intellettivo ai
limiti della norma in riferimento alla popolazione di riferimento per età e scolarità.
Da un'analisi qualitativa, invece, emerge:
incapacità di astrazione e di pianificazione;
perseverazione e mancanza di flessibilità nella formulazione e nell’uso di
strategie cognitive;
scarsa capacità attentiva e di pianificazione delle azioni;
inadeguato impiego di strategie di problem solving con tendenza alla
perseverazione nei propri errori.
difficoltà nell'orientamento temporo-spaziale, che pregiudicano il processo di
apprendimento di nuove informazioni e la successiva verbalizzazione, causando
una erronea selezione dei dati immagazzinati in memoria.
Le difficoltà sono correlate alla tendenza da parte di L. alla ripetizione del modello, con
difficoltà nella valutazione e cambiamento della strategia in relazione al compito.
Mostra la tendenza ad applicare una strategia risolutoria già sperimentata ma inadatta
alla situazione contingente, o a considerare un'unica strategia escludendo a priori
strategie alternative. Ciò è noto come impostazione mentale negativa, che porta a
considerare come apprendimenti precedenti possano, se non interiorizzati con giusta
prospettiva, andare ad influire in maniera controproducente con nuovi apprendimenti in
campi similari ma che richiedono processi o strategie differenti. Una particolare forma
di rigidità nella soluzione di problemi è la fissità funzionale, un meccanismo mentale
consistente nella tendenza a prendere in considerazione gli elementi di un problema
secondo il loro uso comune o tradizionale, mentre la soluzione richiede che tali elementi
vengano impiegati in un ruolo insolito.
Gli apprendimenti passati possono anche essere benefici per la risoluzione di problemi,
se utilizzati in maniera creativa, come spunto per produrre analogie produttive tra
situazioni diverse. In psicologia infatti la creatività è intesa come la capacità di produrre
molte e diversificate idee, di compiere collegamenti tra idee usualmente considerate non
aventi elementi in comune (le quali tuttavia possono essere messe in rapporto attraverso
44
una serie di passaggi associativi), di ristrutturare le situazioni. Questi elementi
consentono una ristrutturazione più ampia del problema, consentendo anche di superare
eventuali fissità mentali e generalmente garantiscono una produzione più diversificata di
strategie risolutorie e una maggiore facilità nel rapportarsi a situazioni nuove.
La mente umana non si limita ad accumulare informazioni ma è anche in grado di
cogliere o formare relazioni tra esse. Questa è una capacità collegata allo svolgersi di
operazioni cognitive che portano alla costruzione di rappresentazioni mentali che a loro
volta costituiscono i contenuti del nostro pensiero. Questi contenuti non devono essere
immaginati come entità puramente astratte, ma sono strettamente collegati alle azioni o
alle operazioni che da loro conseguono. Inoltre sono sensibili (e lo dimostrano in
qualche modo anche gli studi sul condizionamento) alle risposte e agli stimoli
dell'ambiente. È anche importante sottolineare come molte operazioni pur se collegate a
processi mentali vengano eseguite automaticamente, mentre altre sono prettamente
consce e controllate.
L. mostra difficoltà nelle capacità sottese ai lobi frontali come la pianificazione, la
previsione, il monitoraggio, la flessibilità, l’apprendimento e l’impiego di strategie,
l’inventiva, la capacità di giudizio e di critica e l'elaborazione delle informazioni
rilevanti.
Eventuali carenze in queste abilità si esplicano nelle attività della vita quotidiana, per
cui il soggetto tenderà ad adottare soluzioni ovvie e superficiali o può essere incapace di
distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante, ciò che è essenziale da ciò che
non lo è, ciò che è appropriato da ciò che è estraneo (Lezak, 2004).
La variabile emotivo-motivazionale inoltre ha un ruolo fondamentale, poiché motore di
tutto lo stile di funzionamento della persona. Tale variabile si poggia direttamente sulla
fiducia nelle proprie capacità di portare a termine con successo delle attività e prende il
nome di autoefficacia. La propria autostima, che si raccorda con l’autoconsapevolezza
delle proprie capacità, può cambiare nel tempo, grazie ai rinforzi che si ricevono ed alle
persone che dimostrano di credere nelle abilità dell’altro.
Con L. si è cercato di effettuare un intervento integrato a più livelli:
rieducazione neuropsicologica delle capacità cognitive deficitarie attraverso
l’impiego di esercizi e programmi sulle abilità che risultano compromesse o
carenti;
miglioramento del metodo di studio ed apprendimento di strategie alternative
per la risoluzione dei compiti scolastici, lavorando soprattutto nell’ambito in cui
si riscontrano maggiori difficoltà;
sostegno emotivo-motivazionale per imparare ad affrontare le difficoltà che gli
si presentano in ambito scolastico e nella vita di tutti i giorni, in conseguenza
alle difficoltà relazionali;
parent training ad orientamento strategico per i familiari, che vengono educati
sul significato del disturbo ed a cui vengono insegnate le strategie da utilizzare
per gestire le difficoltà e rapportarsi con il bambino.
Intervento strategico familiare
Il modello di terapia breve evoluta si focalizza sulle interazioni presenti tra i membri
della famiglia e sulle loro storie attorno al problema, tralasciando le considerazioni sulla
struttura familiare.
Esso nasce dall’integrazione di tre indirizzi di terapia sistemica breve: l'approccio di
“terapia breve focalizzata sul problema” del Mental Research Institute (MRI) di Palo
45
Alto (Watzlawick et al., 1974), l'approccio di Shazer, (1986) e l'approccio narrativo di
White (White, 1992).
Il modello evoluto-integrato consente di spostarsi liberamente dal “parlare del
problema” al “parlare della soluzione” e viceversa, qualora questo modo di procedere si
adatti meglio alle prospettive dei clienti.
I genitori giungono al primo colloquio sottolineando le difficoltà scolastiche del ragazzo
e manifestando l'interesse nel fargli intraprendere il percorso cognitivo, di cui hanno
sentito parlare. Appaiono stupiti alla richiesta di recarsi al primo colloquio senza il
ragazzo, mostrando palesemente la loro convinzione che il colloquio effettuato sarebbe
stato privo di utilità sul piano clinico.
Ciò dimostra la credenza che negli anni si è strutturata nel sistema familiare: "L. è
piccolo e bisognoso e necessita della loro protezione".
I coniugi sono sposati da 19 anni ed hanno due figli, di cui L. è il più piccolo.
La mamma, A., è un’estetista, il papà è un elettricista.
A. attacca il marito sulla sua poca presenza a casa, giustificata da lui con gli impegni
lavorativi. Lei invece, sostiene di essersi sempre sacrificata per il bene di L., che fin da
piccolo ha necessitato della sua presenza a causa dei suoi problemi di salute.
Riferisce che L. ha sempre avuto difficoltà a relazionarsi con i compagni di classe, in
quanto tutti lo hanno sempre trattato male e deriso, e ciò ha sempre spinto L. a cercare
la compagnia di ragazzi più piccoli.
Molte volte lei stessa si è recata a scuola a parlare con gli insegnanti, per gli insulti
subiti dal figlio, o direttamente con i compagni, "sostituendosi" a lui nella gestione delle
situazioni.
A. ha deciso di iscriverlo ad un'associazione scout per facilitarne l'inserimento e
renderlo autonomo, ma dopo un avvenimento verificatosi al rientro da un'uscita esterna,
in cui L. è stato deriso suscitando in lui profondo disagio, A. ha deciso di non rinnovare
l'iscrizione.
Il padre ascolta senza proferire parola, annuendo con la testa quando la moglie dice che
tutto ciò che hanno sempre fatto è per il bene di L. La madre si sente "esaurita",
incapace di gestire e far fronte a questa situazione (definizione del problema).
Dopo tanti anni, infatti, in cui i problemi venivano disconosciuti, oggi sono diventati più
evidenti ed amplificati ai loro occhi, generando, soprattutto nella madre, notevole ansia.
A. è una donna precisa, che cerca di controllare tutto e si sente impotente nei confronti
delle difficoltà del figlio, dicendo di essere stanca e non sapere più cosa fare per lui. Ha
sacrificato il suo lavoro negli anni, riducendone il carico a mezza giornata in modo da
poter seguire meglio il figlio, mettendosi "a sua disposizione".
Con l'ingresso nella scuola secondaria, L. ha manifestato difficoltà scolastiche: il
trattamento neuropsicologico da un lato ha portato nel tempo dei miglioramenti nel suo
modo di approcciarsi alla realtà, dall'altro lo ha reso consapevole della sua incapacità di
effettuare dei ragionamenti complessi a differenza dei suoi compagni, determinando,
attraverso il ritiro dal contatto con l’esterno, un maggiore invischiamento con i genitori,
e con la madre in particolare, il porto sicuro su cui può sempre contare e che lo sostiene
e lo aiuta.
L. infatti, nel corso del trattamento, ha iniziato a lamentarsi con i genitori per tutte le
difficoltà che incontra a scuola, pretendendo che la madre si rechi dai docenti a
spiegargli quali siano le sue difficoltà.
Allo stesso tempo la mamma e il papà, in conseguenza alle sue lamentele e pianti, si
dedicano maggiormente al ragazzo, aumentando attenzioni e cure, e ciò aumenta i
sintomi, che sono alimentati dal loro stesso tentativo di soluzione, creando anche nel
fratello maggiore un atteggiamento di gelosia.
46
Per evitare la sera le sue continue lamentele e i pianti sulle sue difficoltà, L. costringe i
genitori a farlo studiare, dopo interi pomeriggi trascorsi in un centro che si occupa di
doposcuola (Tentate soluzioni).
Il loro atteggiamento costituisce in realtà un ostacolo al cambiamento, che per
verificarsi necessita di esperienze emozionali correttive più che di riflessioni razionali.
L'incessante desiderio di avere un controllo sulla situazione, che non può essere gestita
in tempi brevi, viste le difficoltà cognitive di L., genera un atteggiamento familiare
ambivalente, per cui da un lato si vorrebbe che L. imparasse a gestire le situazioni (a
livello scolastico, con una prestazione migliore) e che diventasse più autonomo,
integrandosi con i ragazzi della sua età, ma dall'altro lo si "protegge", ricercando
continue giustificazioni alle sue difficoltà e evitandogli le frustrazioni.
Nei primi incontri,il terapeuta affida ai genitori un semplice compito: sfruttando la loro
capacità di osservare, riflettere e spiegare i fenomeni, chiede loro di spendere quanto più
tempo possibile a capire non tanto le cause del comportamento di L., quanto piuttosto i
vantaggi che lui ne trae.
Nel modello strategico acquista una grande importanza far sperimentare al paziente
azioni concrete di vita che rompono il meccanismo di azioni, retroazioni e tentate
soluzioni che mantengono il problema.
In un approccio sistemico ai problemi, è da considerare che ogni elemento ha la sua
funzione, compreso il sintomo. Tale funzione si realizza spesso in un vantaggio che si
definisce “secondario”, intendendo con questo che le persone affette da un disturbo
traggono dai loro sintomi benefici di qualche tipo. Risulta dunque necessario avere
chiaro quale beneficio trae L. dall'evitare le situazioni potenzialmente "pericolose". Allo
stesso tempo, attraverso il compito prescritto, si ottiene anche il vantaggio di rendere i
genitori consapevoli delle logiche sottese a tale rifiuto.
Nel corso delle sedute, infatti, i genitori sembrano più consapevoli dei loro tentativi
fallimentari di gestire le situazioni e le difficoltà del figlio, impedendogli di sviluppare
un suo punto di vista sulle cose e di attuare quel processo di separazione-individuazione
tipico della fase adolescenziale.
Grazie a questa loro presa di consapevolezza,il terapeuta attua un processo di
ristrutturazione del comportamento di protezione, inteso come eccessivo amore nei
confronti del figlio, che gli impedisce di crescere, determinando delle ripercussioni
anche sul fratello maggiore che in fase adolescenziale si trova a vivere un periodo
particolarmente stressante, che gli causa un blocco nello studio, determinando un
sentimento d'impotenza, che lo porta a reagire con l'abbandono scolastico.
Nel corso delle sedute di parent training, emerge l'utilizzo di uno stile genitoriale
permissivo nell'educazione dei figli, che li ha resi incapaci di gestire le situazioni
frustranti ed ansiogene. I figli, infatti, senza delle regole chiare nel loro sviluppo, non
hanno avuto un percorso da seguire che gli permettesse di essere autosufficienti ed
aperti all'esplorazione, determinando di conseguenza un minor autocontrollo. Un
atteggiamento iperprotettivo, infatti, comporta una carenza d'impegno nell'affrontare le
nuove situazioni o le regole del vivere insieme.
Trasmettere le regole ed acquisirle vuol dire diventare persone costruttive e sviluppare
una sensazione di sicurezza e non di dispersione e di assenza di punti di riferimento
forti.
Il terapeuta affronta continuamente, durante il percorso clinico, il tema dell'educazione
facendo degli esempi concreti della modalità di stabilire delle regole su cui i figli
possano contare nel corso del tempo. Questa tecnica, definita della concretizzazione,
consiste nel fornire all'interlocutore degli esempi concreti che permettano loro di
scorgere i contorni del problema, la maniera in cui lo si percepisce, i ruoli assunti e le
diagnosi inespresse.
47
Viene rimandata ai coniugi la metafora del treno che scivola velocemente sui binari
verso una direzione prestabilita, ma che senza manutenzione e controlli periodici rischia
di deragliare, deviando il suo percorso.
Queste informazioni, sotto forma di feedback che il terapeuta dà ai genitori, consente di
attivare una ristrutturazione del problema, una vera e propria ri-codificazione di
immagini e percezioni della realtà mediante lo spostamento del punto di osservazione.
Secondo Gulotta (1997), la ristrutturazione consiste nel modificare la struttura
concettuale ed emozionale di una situazione, ottenendo un'alterazione del significato
che le viene attribuito.
Il terapeuta, però, evita di colpevolizzare il comportamento negativo dei genitori,
attraverso l'evitamento di forme negative, e ri-orientando in chiave positiva le
esperienze esposte in terapia.
La madre,però, continua ad avere un atteggiamento ambivalente nei confronti del
trattamento. Se da un lato si rende conto dell'importanza di un percorso psicologico che
aiuti il figlio minore ad acquisire maggiore autonomia, dall'altro non ammette i
cambiamenti che il ragazzo ha effettuato grazie ad esso e che hanno assecondato una
normale spinta fisiologica legata allo sviluppo tipico della fase adolescenziale.
In corso d'opera,il terapeuta utilizza la “miracle question”, che è stata sviluppata da de
Shazer nel 1986, particolarmente utile per suscitare le mete di trattamento ed una
descrizione particolareggiata della situazione senza il problema. Questa tecnica permette
di mettere il soggetto di fronte alla realtà attraverso il riconoscimento indiretto dei
progressi avvenuti durante il percorso terapeutico. Inoltre è applicata la “scaling
question” utile per assicurare una misurazione quantitativa del problema in modo da
valutare il livello al quale vorrebbero trovarsi per considerare il problema risolto. La
famiglia ha identificato la situazione del problema su una scala da 1 a 10 (essendo 10 la
situazione migliore).
Negli incontri con i genitori si esplorano le passate e le presenti tentate soluzioni e si
negozia una meta di trattamento separata indirizzando alcune loro aspettative o
preoccupazioni.
Dopo questa presa di consapevolezza da parte dei coniugi,il terapeuta assegna loro due
compiti: osservare senza intervenire, senza fare facce tristi o allegre; evitare di parlare
del problema con i figli, la cosiddetta congiura del silenzio, in quanto più se ne parla,
più si alimenta la paura dello stesso.
All'incontro successivo, la coppia ritorna e si avverte un clima meno teso. Il terapeuta
chiede loro se hanno effettuato le prescrizioni e loro hanno ad un certo punto realizzato
che i pianti di L. sono finalizzati all’aumento di attenzioni verso di lui, e che forse è
questo il vantaggio che rinforza nel figlio certi comportamenti. La nuova
consapevolezza rappresenta una diversa visione delle cose. Si chiede loro cosa
potrebbero quindi fare di diverso rispetto a quello che hanno finora fatto. I genitori
subito aggiungono che pur essendo stati tentati a non intervenire, a volte con minore
dolcezza, non avrebbero mai avuto il coraggio di mettere in atto il comportamento.
La madre riporta un avvenimento che non riesce a gestire, ovvero l'alzarsi tutte le
mattine per andare a scuola, che si trova a circa 1 km, e che diventa un momento
drammatico "L. non si sbriga nonostante le nostre insistenze e ci costringe a doverlo
accompagnare, perché non riesce a prendere il pulmino".
Il terapeuta le dice che deve lasciare che qualche mattina perda lo scuolabus e vada a
scuola a piedi, dopo avergli spiegato che non ha tempo per accompagnarlo.
Il terapeuta richiama ai genitori un'efficace analogia di Milton Erickson: “quando vostro
figlio ha mal di denti, che cosa volete che il dentista faccia? Che gli dia semplicemente
un qualche calmante per alleviargli il dolore o che lo curi facendogli male? Perché
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grande o piccola che sia, l’iniezione per l’anestesia locale sarà dolorosa”; immagine che
serve ad abbattere eventuali resistenze e pregiudizi relativi alle prossime manovre.
Allora viene data loro la prescrizione che ogni mattina devono svegliare L. un po’ prima
del solito, e quando è ormai pronto per la scuola, con affetto e calma, spiegargli che
capiscono quanto sia importante per lui lamentarsi e così vogliono che lo faccia adesso
prima di uscire, per un quarto d’ora, mentre loro possono ascoltarlo con attenzione
comodamente seduti sul divano; durante il resto della giornata, se si fosse lamentato,
avrebbero dovuto ricordargli che la mattina dopo aveva a disposizione ben quindici
minuti per farlo e che doveva quindi rimandare.
La seconda richiesta è di comportarsi “come se” non ci fosse il problema per cui sono
venuti, né altri problemi, limitandosi ad osservare quello che fa.
La manovra di “prescrivere il sintomo” ha la funzione di svuotare di significato il
comportamento del bambino privandolo della sua potenza emotiva. Chiedergli di
lamentarsi corrisponde ad appropriarsi del suo modo di fare per utilizzarlo in maniera
diversa, privandolo dei benefici che procura e quindi della sua funzionalità. E’ un
atteggiamento contrario a quello tenuto dai genitori fino ad ora, anche per questo
destabilizzante e quindi utile a spezzare il circolo vizioso attraverso nuove esperienze
emotive.
A questo si affianca uno stratagemma, quello del comportarsi “come se”, che
interrompe gli schemi relazionali soliti allontanando l’attenzione dal problema ma
soprattutto modificando la tendenza ad interagire solo in funzione di esso. Attraverso
questi nuovi comportamenti è veicolato il messaggio che i ruoli sono cambiati e che non
c’è più chi si lamenta e chi consola, ma chi parla e chi ascolta, in uno scambio limitato
nel tempo e nell’importanza.
Nel tempo i genitori si mostrano più rilassati e consapevoli dell'atteggiamento di L.
sostenendo che si è notevolmente ridotto e che adesso la sera non fa più storie, come se
avesse capito che il gioco è ormai stato smascherato e non funziona più. Riferiscono che
non ha mai utilizzato il quarto d’ora del mattino per lamentarsi se non il primo giorno.
La terapia prosegue per consolidare i risultati raggiunti, monitorare l’evoluzione
positiva del cambiamento, ma soprattutto per lavorare sull’ansia e i timori che il
problema ha provocato nei genitori e sulla loro tendenza a trasmetterli al bambino.
Queste convinzioni sulle sue difficoltà, se non adeguatamente trattate, possono
concretizzarsi in atteggiamenti di sfiducia o peggio ancora di rinuncia, che rendono più
difficile il percorso individuale.
Per evolvere in una direzione positiva si lavora sulla comprensione e su quanto è
necessario fare per aiutarlo, cercando di mantenere una visione realistica del problema.
Allo stesso tempo si utilizza un dialogo ricco di metafore e ristrutturazioni per
rinforzare le risorse positive individuali e di coppia e per mantenere alta la motivazione
al trattamento.
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1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
50
Quando il sesso diventa un problema
When sex becomes a problem
Simona Nigro1
Riassunto
Un’analisi che spiega e differenzia i disturbi sessuali non riconducibili a cause
organiche e le parafilie. Nello specifico come la terapia strategica affronta i disturbi
sessuali.
Attraverso la descrizione di un caso clinico si potrà avere la concretezza dell’approccio
utilizzato che si serve di prescrizioni per aumentare la consapevolezza del paziente ed il
suo conseguente cambiamento.
Parole chiave
Sessuologia, disturbi sessuali, psicoterapia strategica, prescrizione del sintomo,
consapevolezza e cambiamento
Abstract
An analysis that explains and differentiates the sexual disorders not due to organic
causes and paraphilia. In particular as strategic therapy deals with sexual disorders.
Through the description of a clinical case they'll get the concreteness of the adopted
approach that use provisions to increase the awareness of patient and his consequent
change.
Keywords
Sexology, sexual disorders, strategic psychotherapy, symptom prescription, awareness
and change
Per disturbi sessuali si intendono tutte quelle disfunzioni sessuali che incidono sulla
realizzazione di una attività sessuale normale comportando un elevato grado di disagio
personale e relazionale.
Il DSM-5 spiega che per poter parlare di disfunzioni sessuali il problema deve essere
presente per una durata minima di 6 mesi ed avere una frequenza del 75%-100%, cioè
deve verificarsi la maggior parte delle volte oppure sempre.
Oggi le disfunzioni sessuali sono molto presenti nella popolazione e si assiste, rispetto
al passato, ad una nuova consapevolezza che porta chi ne soffre, escludendo cause
organiche e cliniche, a rivolgersi allo psicologo per comprendere e superare queste
difficoltà. Nello specifico quando parliamo di disturbi sessuali dobbiamo riferirci a :
Disturbo del desiderio sessuale (maschile e femminile), Disturbo da avversione
51
sessuale, Disturbi dell’eccitazione
sessuale (eccitazione sessuale femminile e
disfunzione erettile) Disturbi dell’orgasmo e Disturbi da dolore sessuale (Dispareunia e
Vaginismo).
Il DSM-5 indica inoltre che per potersi definire “disturbo” la problematica deve
provocare un “significativo stress” con disturbi psicosomatici correlati. Se il disturbo
non provoca problemi alla persona che lo manifesta, non può essere fatta la diagnosi di
disfunzione sessuale.
Differentemente dalle disfunzioni sessuali esistono quelle comunemente chiamate
“Parafilie” (dal greco παρά - oltre - φιλία - amore) termine che definisce l'insieme dei
comportamenti sessuali che non hanno nulla a che vedere con il classico atto sessuale
della riproduzione ma sono impulsi intensi e ripetuti o fantasie e atti sessuali rivolti ad
oggetti o situazioni che riguardano:
oggetti o esseri non umani
ricevere e/o infliggere un'autentica sofferenza fisica o morale (umiliazione) a se
stessi o al proprio partner
bambini o altre persone non consenzienti
Le parafilie, comunemente chiamate perversioni, più conosciute si identificano nel
feticismo, nel frotteurismo (eccitamento sessuale derivante dallo strofinamento reale
od immaginario verso una persona che non è consenziente) esibizionismo (fantasia
nell’esibire i propri genitali in maniera reale o fantastica, masochismo (eccitamento
sessuale fantastico o reale nell’essere umiliato o fatto soffrire dal partner) pedofilia
(eccitamento sessuale derivante dall’attività sessuale fantastica o reale con minori )
sadismo (eccitazione sessuale fantastica o reale derivante dall’infliggere sofferenza
psicologica o fisica al partner) feticismo (eccitazione sessuale derivante dall’utilizzo di
oggetti inanimati quali scarpe o biancheria intima) e voyeurismo (eccitazione sessuale
derivante dall’osservare, senza essere visti, persone nude o impegnate in attività
sessuali).
Stoller (1975-1985), sostiene che la crudeltà ed il desiderio di umiliare e di degradare il
partner sessuale o sé stessi è il fatto determinante per classificare un comportamento
come perverso.
Dopo la precedente e doverosa classificazione in questa sede sarà trattata la disfunzione
sessuale in rapporto all’approccio strategico.
In ambito clinico eziopatogenetico, a parte le disfunzioni sessuali a base organica
(anemie, obesità, diabete, malformazioni dell’apparato genitale, infiammazioni locali,
malattie endocrine e le intossicazioni da alcol e droghe) tutto il resto che rientra nella
sfera dei problemi sessuali è di origine psicologica; la breve specificazione categoriale
disfunzioni a base organica e disturbi sessuali propriamente dettisi è resa necessaria per
poter inquadrare l’argomento a livello psicologico poiché l’agire un tale comportamento
o il soffrire di disturbi nella sfera sessuale rende i soggetti afflitti, ansiosi, disturbati ed
estranei ad un sano equilibrio psico-fisico.
Purtroppo la storia e la società hanno reso i sani desideri sessuali imputabili di giudizio
e di vergogna.
Basti pensare ai pregiudizi provenienti dalla religione dove l’atto sessuale deve essere
agito solo per fini riproduttivi ed esclusivamente dopo aver contratto matrimonio, al
crescere con una educazione rigida dove ogni tentativo di scoperta della propria
sessualità veniva represso perché giudicato come sporco ed immorale (si pensi alla
masturbazione), agli stereotipi culturali che conducono al rifiuto dell’omosessualità
definendola contro natura. Dobbiamo inoltre considerare tutte quelle circostanze che
mirando a ledere l’autostima del soggetto ne minano sia la realizzazione che l’ autogratificazione.
52
Rispetto ai tempi passati, oggi bisogna anche tener presente il bombardamento
mediatico sul sesso a cui siamo costantemente sottoposti. Tale visione incoraggia
l’esibizione del proprio corpo e della propria potenza sessuale per essere visti, accettati
e riconosciuti. Tale fenomeno mediatico suggerisce che il sesso rappresenta l’obiettivo
primario per il raggiungimento della felicità e di conseguenza la sua mancata
realizzazione ci pone in una situazione di inferiorità, difetto e diversità.
Detto ciò appare chiaro che l’atteggiamento della società verso il comportamento
sessuale ne determina la funzionalità stessa.
Il complesso universo argomentato riporta alla personalità dell’individuo, alle sue
mancanze, alle sue ferite ed alle sue aspirazioni e così, tra una piega dell’anima
sgualcita ed un sorriso di circostanza ci si ritrova sulla poltrona dello psicologo con la
domanda imbarazzata ed a lungo rimandata del “perché non funziono come tutti gli
altri”?
L’Approccio strategico
L’approccio strategico si basa sull’assunto di Milton Erickson che considera” il
cambiamento un percorso interpersonale, intriso del suo significato di ristrutturazione
dell’esperienza, del comportamento e degli scopi del soggetto stesso, attuabile
recuperando e attivando le risorse già presenti nel paziente”(1979).
Per condurre il paziente ad un cambiamento si utilizzano stratagemmi comportamentali
e una comunicazione persuasiva che trae fondamento anche dall’ipnosi ericksoniana. La
strategia è confezionata ad hoc dopo l’analisi della domanda del paziente ed in base a
come lui stesso si percepisce a livello interpersonale. La differenza sostanziale tra
l’approccio strategico e le altre terapie risiede nel fatto che non si è alla ricerca di una
diagnosi e del legame tra presente e passato ma si utilizzano i particolari della vita del
paziente per definire l’intervento più appropriato alla risoluzione del sintomo sessuale.
Attraverso prescrizioni specifiche, si conduce il paziente ad utilizzare le proprie risorse
ed i propri strumenti in maniera diversa e costruttiva. In seno a questo intervento è di
fondamentale importanza creare un buon rapporto tra il paziente ed il terapeuta che
dirigerà ogni sua mossa in base alle convinzioni, le aspettative, la percezione che ha di
sé, del mondo, e di sé nel mondo.
Come cita Petruccelli (2013) “l’obiettivo generale consiste nel far sviluppare al
soggetto quelle capacità che gli consentono di affrontare al meglio il problema sessuale
intervenendo al fine di provocare una crescita personale attraverso la modificazione o
l’arricchimento delle competenze sessuali, relazionali e sociali”.
Non si dimentichi che la maggioranza dei problemi sessuali che affliggono le persone
sono inseriti in un contesto relazionale di coppia e che spesso la “disfunzione” non è
altro che lo specchio di un rapporto problematico intriso di una cattiva comunicazione.
La prescrizione, in terapia, di puri compiti comunicativi, apparentemente lontani dal
problema fisico, consentono al paziente di riscoprire quanto la sua capacità nel dire
equivale ad una rinnovata capacità nel fare. Nel tempo sbloccare gli ingranaggi
bloccati o disfunzionali rendono la consapevolezza dei comportamenti messi in atto che
hanno condotto a quel tipo di problema ed alla sua persistenza.
Gli strumenti cardine di questo approccio utilizzati per sbloccare i problemi sessuali
sono:
la prescrizione del comportamento che permette al paziente di interrompere il
meccanismo di azione e tentate soluzioni, sperimentare quindi un successo
permetterà un buon livello di capacità, competenza e speranza;
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la prescrizione del sintomo: “prescrivere al paziente ciò che egli sta già
mettendo in atto gli restituisce una dimensione attiva del problema” (Haley
1985);
l’utilizzo del paradosso che consiste in comunicazioni paradossali, illogiche e
bizzarre che producono una modificazione percettiva del problema e della
credenza che si ha su di esso;
l’utilizzo della resistenza nei casi in cui le prescrizioni non vengono eseguite e il
comportamento problema persiste.
L’utilizzo della resistenza in ambito strategico consiste nel prescrivere proprio la
resistenza per smontarne la funzione indirizzando il paziente verso il cambiamento
mettendo in luce ogni volta i pericoli e la difficoltà del cambiamento richiesto. In
pratica si aggira il “non lo faccio e decido io” con un “lo fai perché non puoi darmela
vinta”. Per chiarire questo concetto riporto il racconto degli incontri con un paziente
Arriva in studio Luca 47 anni, in anticipo di quindici minuti rispetto all’orario
concordato. Luca è un uomo semplice, vestito in maniera sobria, capelli arruffati e con
un faccione simpatico. Ha un linguaggio semplice ma dimostra di conoscere tante cose.
Mi chiede se può accendersi una sigaretta perché il problema che lo affligge gli crea
imbarazzo. Luca riferisce di essere sposato da 25 anni ed anche se in gioventù ha
sposato sua moglie pur non amandola, ha imparato a volerle bene ed ha creato con lei
una bella famiglia composta da tre figli.
Luca dice che il sesso con la moglie è sempre stato assiduo, anche oggi fino a
tre\quattro volte la settimana ma ultimamente, durante il rapporto, non riesce a
raggiungere l’orgasmo. Questa condizione lo preoccupa e lo spaventa perché dice “non
ho mai fallito”.
Sembra che la sua più grande preoccupazione sia quella di non riuscire più a dimostrare
la sua infallibilità.
Dagli sguardi bassi e le spalle incurvate intuisco che c’è qualcosa nel rapporto con la
moglie che lo abbatte particolarmente. Mediante domande specifiche Luca ammette che
tra lui e la moglie non c’è mai stato un gran dialogo se non mirato alla quotidianità, ai
figli ed ai problemi da risolvere. La moglie, racconta, è una donna più giovane di lui di
qualche anno, dedita completamente alla famiglia, una gran lavoratrice, senza grilli per
la testa e di poche parole.
Mi confida che il sesso con lei non ha mai conosciuto alcuna fantasia perché quando ha
provato a proporle qualcosa di nuovo o semplicemente ha pronunciato parole eccitanti
durante l’atto amoroso, lei si è subito ritratta e l’ha richiamato ad utilizzare un
linguaggio più adeguato.
Luca inoltre lamenta che la moglie durante i loro rapporti non si spoglia quasi mai ma
questo e tutto il precedente descritto, non gli ha mai impedito di soddisfare le sue
esigenze.
Nonostante i ripetuti fallimenti nelle ultime settimane non rinuncia a provare a fare
l’amore con la moglie ma senza buoni risultati. Questi fallimenti lo inducono a provare
ripetutamente fino a quando non riuscirà di nuovo.
A fine seduta chiedo a Luca di avere un solo rapporto con la moglie. Solo uno e gli dò
appuntamento alla settimana successiva.
C’è qualcosa che manca al suo racconto.
La settimana successiva Luca arriva in studio in anticipo di dieci minuti ed anche se
sono libera lo invito ad aspettare in sala d’attesa. Quando si accomoda Luca mi riferisce
che ha passato una settimana molto densa lavorativamente che gli ha provocato molta
stanchezza.
Ha avuto un solo rapporto con la moglie ma anche questa volta non è riuscito a
completare il rapporto.
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Decido di spostare immediatamente l’attenzione dal suo problema al piacere della
moglie.
Così, vengo a conoscenza che la signora, che qui chiameremo Ines, non solo non si
spoglia mai durante i rapporti, ma rifiuta ogni posizione che non sia quella classica ,
non ha mai preso l’iniziativa e che durante l’episodio, il primo, in cui Luca ha fallito,
Ines gli ha detto “Luca non preoccuparti che tanto a me basta così”.
Touchè.
La consapevolezza che la soddisfazione sessuale della moglie non fosse correlata al
coinvolgimento passionale e amoroso della coppia oltre che fosse del tutto irrilevante la
capacità di Luca nel soddisfare Ines, aveva gettato l’autostima dello stesso verso il
basso. Non riuscire a mantenere l’erezione a lungo gli dava di volta in volta la
percezione che aveva ragione la moglie e che tutti i suoi sforzi erano vani a mantenere
vivo un rapporto sessuale soddisfacente. Viveva piuttosto il rapporto sessuale come un
qualcosa di meccanico e di soddisfazione legata alla sua riuscita.
Senza troppe spiegazioni chiedo a Luca di non parlare più del problema con la moglie.
Di non provare nemmeno a dimostrare alla moglie che poteva farcela e di impegnarsi in
altre attività come uscire con gli amici. Gli ho prescritto praticamente di non fare sesso
perché, ho aggiunto, il problema era serio e necessitava di un periodo di riposo per
scongiurare conseguenze drammatiche e definitive.
Quel giorno Luca ha lasciato lo studio sollevato. Avevo compreso la gravità del suo
problema.
La volta successiva Luca arriva con soli cinque minuti di ritardo. Ha tagliato i capelli e
mi saluta con un gran sorriso. Racconta di aver fatto come gli ho detto. È uscito con il
fratello e con il figlio maggiore. Non ha accennato a nulla con la moglie e non ha
provato neanche a sfiorarla. “Mi sento meno oppresso” dice, mentre mi racconta la sua
settimana. Decido di continuare la seduta esplorando i suoi desideri, i suoi valori ed i
suoi progetti e lui sembra dimenticarsi del problema che l’ha portato fino al mio studio.
Al termine della seduta gli chiedo inaspettatamente: “Luca le dò un compito, per questa
settimana per tre volte, ma tre volte solamente, cominci un rapporto sessuale con sua
moglie ma non arrivi alla fine. Quando avvertirà di essere ad un livello importante di
eccitazione, si rivesta e girandosi di spalle a Ines dica ad alta voce “mi basta così,
buonanotte”. Luca mi guarda perplesso ma io ferma nella mia richiesta replico “si vesta
e girandosi di spalle dica mi basta così, buonanotte”.
Luca resta in silenzio e mi guarda con gli occhi sgranati. Vorrebbe ribattere ma la mia
fermezza lo fa desistere. Ho osato ma l’audacia potrebbe ripagare. Fisso l’appuntamento
successivo dopo 15 giorni.
Il giorno stabilito Luca arriva con un quaderno in mano, sorridente ed impaziente anche
se non ha alcun anticipo. Si siede non sulla poltrona usuale ma su quella accanto. È
soddisfatto e mi racconta che con imbarazzo ha portato a termine la prescrizione.
Riferisce che la prima volta Ines è rimasta attonita dal suo comportamento ma lui, ligio
al dovere, si è girato di spalle augurando la buona notte. La terza volta mi chiede scusa e
si giustifica per non aver potuto svolgere bene il compito assegnatogli poiché al suo
tentativo di rivestirsi Ines l’ha bloccato trascinandolo in una rapporto completo e
soddisfacente. Ancora non sò se era più felice di aver dimostrato la sua capacità sessuale
o aver scoperto il desiderio d’Ines.
Oggi Luca ha terminato il suo percorso che nelle sedute successive ha focalizzato
l’intervento sulle modalità comunicative e relazionali ma è stato importante
riappropriarsi di una capacità diversa dal puro gesto meccanico.
Ha scoperto che non sempre le cose hanno una verità oggettiva ma l’idea che abbiamo
le rende simili a quello che pensiamo. Cambiare i pensieri aiuta a cambiare le cose.
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Bibliografia
American Psychiatric Association (APA) (2014) Manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali.Raffaello. Cortina Editore.
A,Carderi, F.Petruccelli, V.Verrastro (2013) Terapia sessuale in ipnosi. Alpes
G.Nardone, M.Rampin (2015) Quando il sesso diventa un problema. Ponte alle Grazie
C.Simonelli, F.Petruccelli (cur.) (2002) Le Parafilie. Aspetti clinici, socio-culturali e
giuridici. Quale psicologia, suppl.n.2
P.Watzlawick (1999). Il linguaggio del cambiamento, elementi di comunicazione
terapeutica. Universale economica Feltrinelli
M. H. Erickson, E.L.Rossi, S.I.Rossi (1979). Tecniche di suggestione ipnotica Induzione
dell'ipnosi clinica e forme di suggestione indiretta. Astrolabio
1
Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
56
Petruccelli F., Verrastro V., (2012). La relazione d’aiuto nella
psicoterapia strategica. Milano: Franco Angeli
Valentina De Franco1
Filippo Petruccelli e Valeria Verrastro, psicologi, psicoterapeuti e direttori dell’Istituto
per lo Studio delle Psicoterapie di Roma, nel testo “La relazione d’aiuto nella
psicoterapia strategica” accompagnano il lettore, con grande attenzione e cura, alla
scoperta dell’approccio strategico, un approccio nuovo ed originale alla soluzione dei
problemi umani caratterizzato da specifiche prassi operative in costante evoluzione
(Nardone, 1990). Tale modello pone enfasi sul cambiamento, valutando il
funzionamento inadeguato del soggetto, e ponendo attenzione anche agli aspetti
contestuali nei quali prende vita il disagio. Analizzando il sistema percettivo-reattivo
dell’individuo, il terapeuta va ad aiutare il paziente attraverso interventi focalizzati e
brevi, delle vere e proprie strategie utili a migliorare la rappresentazione di sé, degli altri
e del mondo.
Il testo inizia con la presentazione dei principali autori e prospettive teoriche che hanno
contribuito allo sviluppo dell’approccio strategico, Bateson, Haley, Watzlawick ed il
fondamentale Milton Erickson con la sua pratica ipnotica; successivamente l’attenzione
si sposta in modo più specifico sulla relazione terapeutica, dall’analisi della domanda
allo specifico problem solving strategico, dalla conduzione del colloquio clinico alle
diverse fasi del trattamento, per concludere con un ampio capitolo che evidenzia la
grande importanza della comunicazione persuasiva, efficace e funzionale, l’utilizzo che
se ne fa nella terapia, con la presentazione anche degli strumenti specifici principali
della strategica (metafore, aneddoti, dialogo, paradossi, prescrizioni di comportamento,
ecc.).
Si evince, da subito, come il testo racchiudi al suo interno una panoramica precisa
sull’approccio e non stupisce, infatti, che sia un testo chiave nella formazione degli
allievi che frequentano la quadriennale Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve
ad Approccio Strategico (di cui gli autori sono tra i principali fondatori). La tesi
sostenuta é quella di vedere la relazione d’aiuto come un rapporto utile alla
trasformazione di una realtà disfunzionale, alla ridefinizione del problema e del disagio
portato in terapia che tenga conto sia della percezione che il soggetto ne ha, ma
soprattutto di come si inserisce nel suo funzionamento quotidiano, utile alla presa di
coscienza delle proprie tentate soluzioni che portano ad amplificare il senso di
fallimento sperimentato e a diminuire la fiducia nelle proprie capacità risolutive, nonché
relazione utile al raggiungimento del tanto auspicato cambiamento.
Per chi muove i primi passi nel settore e si imbatte “casualmente” nella psicologia
strategica, non padroneggiandone né contenuti né strumenti, il valore che il testo
assume é quello di guida, essendo a tutti gli effetti un manuale completo ed esaustivo di
come l’approccio strategico si traduca nella relazione d’aiuto. Questo per diversi motivi:
non solo per la scrittura che risulta chiara ed efficace, rendendo la comprensione del
testo abbastanza semplice, ma anche perché l’organizzazione del materiale esposto nei
capitoli risulta assolutamente funzionale per un coinvolgimento nella materia graduale,
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coscienzioso e critico. L’opera risulta, infatti, completamente armonica e si trasmette la
grande complicità e sintonia dei due autori che, vantando un’esperienza pluridecennale,
riescono ad essere chiari e diretti, infondendo nel lettore il loro stesso amore per lo
studio delle relazioni umane.
Confrontandola con altri testi originari, come il celebre pilastro strategico Change
(Watzlawick P., Weakland J.H., Fish R., 1974), l’opera appare quasi una sintesi
perfetta, dal momento che anche qui si riserva spazio alle prospettive teoriche, alla
formazione e soluzione dei problemi; il linguaggio utilizzato semplifica i concetti
principali, offrendo anche diversi esempi pratici che rendono il testo di Filippo
Petruccelli e Valeria Verrastro maggiormente fruibile nella pratica strategica. Inoltre,
mentre nel testo watzlawickiano si ritrovano ancora molti elementi strettamente
connessi ai principi sistemici e costruttivisti, il testo in esame si concentra
maggiormente sull’approccio elaborato dal Brief Therapy Center.
Possiamo dunque concludere che affinché la relazione d’aiuto sia efficace e il
cambiamento auspicato venga raggiunto e perduri nel tempo, padroneggiare la materia,
le metodologie e gli strumenti con la piena consapevolezza dei propri punti di forza, ma
anche di debolezza, é fondamentale ed é proprio per questo motivo che “La relazione
d’aiuto nella psicoterapia strategica” risulta un testo utile per capire, sapere ed operare
bene.
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Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
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