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Pubblicato il 26 Novembre 2016
L'opera di Giacomo Puccini in scena con successo al Teatro del Giglio di Lucca
È veramente La Bohème dei giovani
servizio di Simone Tomei
LUCCA - Pensando a La Bohème di Giacomo Puccini il primo ricordo che affiora alla mente risale a
trentacinque anni fa, nel pieno della mia adolescenza, quando ebbi per la prima volta il mio incontro
con il melodramma; fu grazie alla dedizione della mia insegnante di educazione musicale delle scuole
medie che ebbe idea di portarci al teatro di Via Solferino a Firenze nell’ambito della stagione lirica
invernale; ricordo ancora la nostra collocazione alla destra del palco nella zona più alta della sala; ho il
ricordo del pranzo di quel giorno, del viaggio con il treno regionale che impiegava - ed impiega tutt’ora oltre due ore per percorrere meno di ottanta chilometri, dell’allegria e dell’entusiasmo di noi neofiti che
per la prima volta varcavamo le soglie di un Teatro; ricordo anche che fu un amore a metà; la gioventù.
la spensieratezza, l’incoscienza e quella voglia di godere di una giornata lontano dalla famiglia in
compagnia degli amici di scuola prevalsero sull’ascolto attento dell’opera; i primi due quadri filarono lisci come l’olio: la
goliardia del primo, con la parentesi amorosa e la spensieratezza del secondo, aiutarono non poco il nostro ascolto; dopo
questi due momenti l’opera per noi finì e sprofondammo in una noia mortale che ci accompagnò fino alla fine; ricordo
chiaramente quella noia, quella difficoltà di ascolto; non c’erano i cellulari e quindi non potevamo nemmeno “spippolare”
sulle tastiere dei telefoni, non c’erano i lettori mp3 che potevano isolarci da quello che succedeva intorno a noi, ma sopra
tutto questo, c’era una grande forma di rispetto per quel regalo che ci era stato fatto dalla nostra insegnante ed il nostro tedio
fu consumato nel più rispettoso silenzio, in attesa della fine e del successivo rientro a Lucca. Alla fine questa esperienza,
forse non del tutto idilliaca, nel mio animo il seme gettato ha germogliato e dopo la nevicata adolescenziale che molto
spesso è foriera di prosperosi raccolti, è sbocciato il fiore che mi vede qui ancor oggi dopo più di sette lustri ad emozionarmi
delle grandi pagine che fanno parte del nostro patrimonio storico e culturale.
Ecco che con la serata del 25 novembre 2016 al Teatro del Giglio di Lucca, con
la prima rappresentazione della Bohème pucciniana ha preso il via, non solo la
stagione lirica del teatro cittadino ma anche la prestigiosa iniziativa di Lucca
Puccini Days; questo festival, che la città dedica al suo più illustre concittadino,
giunge alla terza edizione portando in scena dal 25 novembre 2016 all’8
gennaio 2017 un intrigante mix di appuntamenti dedicati al Maestro, per una
indimenticabile esperienza musicale tra le antiche strade e piazze nello
splendido capoluogo della provincia toscana. Fra i big ospiti del festival, tanti
nomi di punta del mondo dello spettacolo nazionale e internazionale: Cristina
Mazzavillani Muti, Peppe Servillo, Fiorenza Cedolins, Nicola Paszkowski,
Elisabetta Salvatori, Peter Guth, l’Orchestra della Toscana, l’Ensemble Berlin e
la Budapest Gypsy Symphony Orchestra, per una #pucciniexperience senza
precedenti che dalla lirica passa alla contaminazione con il jazz, il rock e la
musica tzigana, per sconfinare nel teatro di narrazione. La manifestazione, frutto
della collaborazione tra Comune di Lucca, Fondazione Giacomo Puccini e
Teatro del Giglio e realizzata con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio
di Lucca, Fondazione Banca del Monte di Lucca, Lucar, Tagetik, Unicoop Firenze
e Gesam Gas e Luce, vanta i patrocini di MIBACT - Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali e del Turismo, Regione Toscana e AGIS Toscana. Nota doverosa per ribadire e sottolineare l’importanza di un
evento che, assieme ad altri, vuole portare la città di Lucca, ad essere una “piccola Salisburgo” come ho già avuto modo di
sottolineare in altri miei scritti precedenti su questa testata.
È d’uopo ora di tornare a questa umida sera novembrina lucchese per narrarvi di questa opera che vede i suoi natali al
Teatro Regio di Torino, il primo febbraio del 1896; sono passati centoventi anni da quella sera quando Arturo Toscanini sul
podio diresse la prima assoluta della Bohème pucciniana; centoventi anni di infinite repliche e riproposte di questo
capolavoro del melodramma italiano e, da campanilista, direi anche lucchese; centoventi anni di studi, di interpretazioni, di
rivisitazioni, di approfondimenti, di scempi musicali e registici, ma anni che non sono riusciti a far invecchiare questo
capolavoro, bensì a renderlo ancora più attuale e sempre denso di significato.
Rispetto al mio ascolto fiorentino da scolaro, con la testa di un tredicenne, oggi la visione e l’immedesimazione in questa
serata lucchese sono stati molto diversi ed anzi hanno suscitato in me, come ormai mi succede sempre più sovente, delle
riflessioni legate alla mia sfera personale, ma anche a quello che ci circonda nel quotidiano vivere.
Un pensiero che mi è balenato nella mente è stato legato al concetto di paragone: meditavo sui protagonisti del capolavoro
pucciniano, come evolvono il loro pensare, la loro vita, il loro rapporto con il futuro dal primo al quarto quadro: un po’ come
sono evoluti, il mio pensare, la mia vita, il mio rapporto con il futuro dagli anni dell’adolescenza ad oggi; non che con il quarto
quadro, o con il mio oggi tutto finisca, ma come nel quarto quadro e nel mio oggi, non si sa cosa ci sarà dopo; in entrambi i
casi tutti siamo un po’ più coscienti, consapevoli e con una visione forse meno fatalista, ma più matura, grazie alle
esperienze e le prove cui la vita ti sottopone; la soffitta fredda e povera dell’inizio era sublimata dalla spensieratezza, dalla
voglia di vivere e dall’incoscienza di poter vivere un po’ alla giornata non curandosi appieno del proprio futuro: è un po’ come
la vita e il pensiero dell’adolescente che vive appieno le emozioni e le sensazioni del presente potendosi permettere,
educatamente, di annoiarsi di fronte al terzo e quarto quadro di Bohème; la soffitta del quarto quadro ha un sapore diverso: è
figlia di un percorso di vita che passa attraverso la sofferenza, il dolore, la malattia ed infine la morte; un percorso che
trasforma, che fa vedere le cose sotto un’altra angolazione, che dona sensazioni più forti e coinvolgenti; un po’ come nella
mia vita e credo nella vita di tutti: il terzo e quarto quadro di questa Bohème lucchese, sono stati quelli che da un punto di
vista emozionale - se allora mi avevano annoiato a morte - mi hanno preso di più, sono stati quei momenti in cui le corde più
intime dell’animo sono state solleticate in maniera molto intensa e sono quelli che alla fine hanno fatto scaturire dei moti
emozionali talmente forti che alla fine il viso è rimasto solcato da una sobria lacrima che veniva dal cuore.
Come ho sempre detto nei miei interventi, le emozioni del cuore sono sollecitate quando vi è materiale su cui riflettere e direi
che in questa produzione lucchese nulla è mancato affinché forti ed intense sollecitazioni andassero a toccare l’animo
umano.
Una rappresentazione che rispecchia in maniera molto fedele La Bohème in cui l’epoca del 1830 a Parigi trova al sua
essenza nelle scenografie, nei costumi, nelle movenze, nelle intenzioni; una rappresentazione che trasuda di Puccini, delle
sue note dei suoi librettisti, Giuseppe Giacosa e Luigi Illica e di quel fantastico connubio che avevano creato con la loro
intima collaborazione.
Il regista Marco Gandini, lo scenografo Italo Grassi, i costumi di Anna Biagiotti e le luci di Marco Minghetti, hanno saputo
trovare quella magica interazione con il dramma non andandolo mai a violentare bensì portandolo allo scoperto nella sua
essenza più recondita; il lavoro sui personaggi è stato molto accorto e direi quasi maniacale, ma alla fine ha prodotto
egregiamente i suoi risultati riuscendo a trovare quella simbiotica amalgama tra “ars scenica” e vocalità (nota: uso la parola
"amalgama" al femminile, quella preferita dai letterati; al posto del uso maschile prediletto dagli scienziati...).
Nella regia di Gandini è risultata palese la trasformazione dei personaggi dopo il secondo quadro; dopo di lì succede
qualcosa che porta all’epilogo, ma all’epilogo si arriva non in maniera repentina, bensì a piccoli passi, senza possibilità di
inversione di rotta; già nel terzo quadro i protagonisti lo sanno e la scena goliardica del quarto quadro prima dell’arrivo di
Mimì, non ha più il sapore spensierato delle “baruffe” del primo, ma è un divertimento dal sapore amaro; i personaggi hanno
saputo ben mettere in risalto questo aspetto ed il lavoro del regista ha saputo ben cogliere questi particolari così spesso
bistrattati in altre rappresentazioni; ho trovato molto intelligente la scelta di concludere l’opera nella parte finale riproponendo
gli stessi ambienti del primo, ma scevri di qualsiasi oggetto di arredo, quasi come se fosse uno spazio che si annulla,
diventa rarefatto, forse come la mente dei giovani personaggi che si sgombra di quello che era una vita spensierata vissuta
con fatalismo, a vantaggio di quella consapevolezza maggiore che la maestra vita impartisce con il suo scorrere; ecco queste
sono una serie di suggestioni che il lavoro di questo straordinario regista ha saputo infondere nel mio animo: forse non
saranno quelle da lui pensate, ma la risposta che è arrivata alla mia mente è questa e con semplicità l’ho condivisa con voi
lettori.
Veniamo adesso allo spartito e parliamo di note: voce e musica hanno ancora da essere trattate come argomento di
racconto. Un cast giovane, con punte di giovanissimo ha affollato il palcoscenico del Teatro lucchese riuscendo ad infondere
ancora di più quella verosimiglianza che si smaterializza quando si parla di melodramma; giovani di belle speranza potrei
dire che con grandissima professionalità, ognuno con i suoi mezzi, hanno saputo creare quell’ambiente non fisico, ma direi
spirituale di cui è pregna la partitura pucciniana.
L’ordine del libretto di sala ci riporta come primo nome quello di Benedetta Torre nel ruolo della giovane fioraia Lucia, detta
Mimì ; meno di ventitré anni all’anagrafe e già alle spalle un bellissimo inizio di carriera, misurato nei debutti, ma maturo
nell’interpretazione; "Scusi..." è la parola con cui si presenta sul palcoscenico e la prima suggestione che è affiorata al mio
orecchio è di aver percepito un timbro molto simile, se non quasi identico, a quello della grande Mirella Freni; in tutto il
registro centrale prima del passaggio, la somiglianza è molto forte per poi prendere la sua individualità nella zona più irta
dello spartito; una voce che ha saputo trovare un grande legato, una morbidezza nell’emissione ed una capacità di tradurre in
scena le parole e i significati puri del canto; ventitré anni si vedono e si sentono e meno male; rispecchiano freschezza,
genuinità, amore e la consapevolezza che interpretare un ruolo di tale portata richiede grande impegno e grande
preparazione ed anche un pizzico di sfrontatezza, che non guasta quando serve a tirare fuori tutte le risorse e tutte le doti che
la vita ti ha regalato; la gioventù anagrafica ha reso poi tutto più credibile facendo emergere con grande franchezza un
personaggio a tutto tondo che è riuscito a coinvolgere il pubblico in maniera molto forte.
L a Musetta di Damiana Mizzi è stato quello che possiamo dire una bomba di energia, simpatia e ilarità; con un ingresso
scoppiettante, ha saputo catturare la mia attenzione sia da un punto di vista vocale che interpretativo; pazza scatenata, ma
non volgare, ha solcato le tavole del palcoscenico da cima a fondo, con una verve ed una carica uniche; seduta sulla sedia
alle spalle di Marcello ha poi intonato il suo valzer "Quando m’en vo", riuscendo a catalizzare l’attenzione di tutti fino alla fine
con un ottimo Si naturale intenso e pieno che è andato a morire su un perfetto filato con “due p”.
Alessandro Scotto di Luzio ha interpretato il ruolo del giovane Rodolfo: una voce di indubbia bellezza timbrica ha saputo
mettere in risalto degli ottimi acuti molto ben proiettati e nitidi ed una sicura intonazione; non posso dire altrettanto, per quello
che è stato il mio ascolto, della zona più centrale del rigo, dove accanto ad una precaria dizione che spesso non rimandava
nitidamente la parola, ho potuto ascoltare una voce molto meno generosa di armonici e tendente ad un suono più ingolato
che non rendeva quanto a smalto e brillantezza, come nella parte più acuta del rigo.
Il Marcello di Italo Profesice è stato quello di un “pittore pittoresco” che ha voluto rendere omaggio con la sua voce notevole
al compositore lucchese nella sua terra con un ottimo dittico voce-recitazione; non disponendo di un’aria che lo caratterizza,
ha messo in luce la sua personalità artistica nell’interazione con gli altri personaggi riuscendo sempre a gestire i suoi
interventi con grande padronanza vocale - ottimo metallo ed efficace proiezione - non risultando mai sopra le righe, e senza
mai scadere nell’anonimato.
Anche Daniel Giulianini nei panni del musicista Schaunard si è saputo far valere per una bellissima interpretazione scenica
accompagnata da uno squillo basso-baritonale di grande piacere; voce più scura rispetto a quella del collega che
impersonava il pittore, si è reso partecipe ed accorato nelle numerose scene di assieme per poi concludere con una
grandissima ed intensa partecipazione nelle ultime pagine del dramma riuscendo ad emozionarmi in maniera molto forte
allorché la giovane fioraia dà il suo addio alla vita.
Colline, grazie all’interpretazione del basso Luca Dall’Amico, completa la compagine dei quattro giovani bohèmiens; dotato
di una voce molto penetrante e più grave rispetto alle altre voci, è stato un ottimo interprete nei momenti di assieme con una
grande personalità scenica e ha messo in luce le belle sfumature della sua vocalità interpretando una "Vecchia zimarra", in
cui ogni nota ha trovato il giusto colore con luminosa nitidezza in acuto e forte perentorietà nella parte più grave.
Frizzante ed al contempo grottesco il Benoît di Giorgio Trucco che ha interpretato anche il ruolo di Parpignol , dove più che
l’aspetto vocale, peraltro eseguito egregiamente, ha colpito più per la sua interpretazione da caratterista disegnando un
padrone di casa come era nelle corde di Puccini.
Graziano Dallavalle è stato molto convincente nel ruolo di Alcindoro sia da un punto di vista vocale, ma soprattutto scenico
regalandoci una bellissima pagina di divertimento e goliardia.
Nel ruolo del Sergente dei Doganieri un bravo Antonio Della Santa.
Ottimante preparato il Coro della Toscana sotto la guida del M° Maurizio Preziosi che si è difeso egregiamente nel ristretto
spazio scenico del secondo atto, assieme a quello delle Voci Bianche del Teatro del Giglio e della Cappella Santa Cecilia di
Lucca diretto dalla M° Sara Matteucci.
Un pensiero doveroso all’Orchestra della Toscana guidata dalla sapiente bacchetta del M° Nicola Paszkowskj; la loro unione
artistica ha trovato una grande piacevolezza nell’emissione sonora che non è mai stata invadente nei confronti del
palcoscenico, anzi trovando con esso sempre un’ottima intesa ed un proficuo dialogo; dal punto di vista di approccio alla
partitura, già nella conferenza di presentazione al pubblico dell’opera, Paszkowskj, aveva preannunciato una lettura molto più
dinamica e scevra di tanti orpelli, fronzoli e portamenti a cui la tradizione ci aveva abituato; vi è stato una sorta di ritorno alle
origini, prendendo come riferimento la lettura che lo stesso Toscanini, primo esecutore dell’opera sotto la guida del
compositore stesso; un’interpretazione che ho apprezzato e che all’inizio mi ha leggermente spiazzato - avendo ascoltato
anche la prova generale -, ma che al secondo ascolto mi ha soddisfatto in maniera convincente; come quando si scaglia una
freccia, la traiettoria è disegnata ed il punto di arrivo anche; proprio così ho percepito questo approccio alla partitura e di
questo ne ha giovato sicuramente una drammaturgia che si è risolta in modo più dinamico e frizzante; solo le ultime battute
segnano una stasi molto marcata della musica e del ritmo andando a evidenziare in maniera solenne e direi quasi elegiaca,
l’aspetto del dramma umano che si è appena consumato.
Il teatro era gremito in ogni ordine e grado, da un pubblico eterogeneo che non ha fatto mancare il suo calore e il suo
gradimento agli artisti e agli autori scenici del dramma. Ultima replica alle ore 16 di domenica 27 novembre 2016.
Crediti fotografici: Lorenzo Breschi per il Teatro del Giglio di Lucca
Nella miniatura in alto: il soprano Benedetta Torre (Mimì)
Sotto: ancora la Torre con Alessandro Scotto di Luzio (Rodolfo)
Nella sequenza al centro: Graziano Dallavalle (Alcindoro) e Damiana Mizzi (Musetta); Italo Proferisce (Marcello) con la Torre e Scotto di Luzio
In fondo: scena del Quartiere Latino (quadro II) in una bella istantanea di Lorenzo Breschi
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