3. IPERCORPO, IPERIMMAGINE, IPERREALTÀ ARMANDO PUNZO MASSIMO MARINO I pescecani della Compagnia della Fortezza1 Quindici anni di teatro in carcere, a Volterra. Quindici anni di Compagnia della Fortezza. Armando Punzo li celebra con uno spettacolo duro, sogghignante, provocatorio. Bellissimo. Capace di rovesciare lo spettatore e le sue certezze, portandolo ancora una volta vicino all’urgenza di corpi di carcerati che rappresentano qualcosa di universale, la voglia di essere presenti totalmente, di contare, di raddrizzare un mondo capovolto. Il regista napoletano inaugura il festival Volterrateatro 2003 con I pescecani – ovvero cosa resta di Bertolt Brecht, riprendendo, come l’anno scorso, l’Opera da tre soldi. Tenendosi ancora lontano, per problemi di diritti d’autore, ma non solo, dalla lettera dell’originale: smarginandola, trasformandola in un cabaret espressionista e infernale denso di umori, di violenza e riso. In una sala dai soffitti bassi, rossa di luci e lucine, con tavoli, sedie, gradinate, palchetti bassi e praticabili alti, archi, finte finestre, finti soggiorni, finte stanze da letto, con una banda come pietrificata in un angolo e il podio per un’orchestrina rock, sono disseminati personaggi, puttane, soldati, poliziotti dai grandi cappelli, preti e vescovi, dolci travestiti muscolosi in paillettes, giovanottoni fassbinderiani a torso nudo, spose, capitalisti dai lunghi cilindri, violinisti lunari, trafficanti d’ogni specie. Un’umanità fra Grosz e Dix, caricata dei segni esteriorizzati di una deformità interiore. Un rumore penetrante, come di eliche, una turbina, un aereo. Musica. L’inizio è il Moritat di Mackie Messer, “Quanti denti ha il pescecane…”, ma anche barzellette, macchiette siciliane, canzoni di sceneggiata napoletana, interpretate dagli insinuanti, bistratissimi Vincenzo Lo Monaco e Nicola Camarda. Fra rullate di tamburo e note di pianola viene evocato il dio in terra di Arcore, che chiamò i suoi discepoli, spezzò il pane e disse: “Me lo tengo tutto per me”, mentre una poesia rivela che la vita è una merda, senza il bacio di una donna, senza poter seguire il volo di un uccello, inferno in terra riconosciuto dal papa all’Angelus, dominio dei forti, degli ipocriti, dei potenti, regno senza giustizia per chi sta in basso e di ingiustizia patentata di impunità per chi sta in alto, per i potenti che non saranno mai processati, mentre quaggiù non arriverà neppure un indultino... La condizione di chi sta dietro le sbarre diventa tribuna etica da cui giudicare tempi in cui il delinquere diventa legge di stato e l’imbroglio regola della realtà. I toni non sono mai didascalici: il Novecento si dissolve nel ghigno, con Bertolt Brecht in persona, e i suoi famosi cartelli, che mettono in discussione la rappresentazione, l’attualità e la possibilità stessa di nominare la realtà, perché “tutto è già stato detto” e le uniche parole spendibili sono quelle false. In questo finto inferno ambientato tra le sbarre reali del cortile di una prigione, i 38 gradi si raggiungono non per maledizione meteorologica ma per il caldo che sprigionano gli esseri umani, corpi, occhi sempre in caccia, in cerca di prede. Così recita un cartello, mentre un altro ammonisce: “Troppo”. Le spose festeggiano a una tavolata dove ognuno imbocca di spaghetti qualcun altro, fino all’esasperazione, poi vengono possedute, iterativamente, da molti. La copula dilaga, come i balli, tristi lenti di uomini nerboruti, scatenati cancan ripetuti a ritmi sempre più forsennati, minacciando – per scherzo! – il pubblico con qualche pistola. I monsignori in tonaca ridono, occhieggiano, volteggiano dondolando alle travi. I violinisti depongono l’abito triste per lanciare, con viso stravolto, profezie sullo stato terminale di questa civiltà, mentre altri profeti superuomini invocano l’ipocrisia, la forza, la violenza. 1 «L’Unità», luglio 2003. Armando Punzo ha composto una danza di morte scatenata, vitale, che travolge, distanzia, rapisce. In questo contromondo troviamo più verità che in quello reale. Urlano, soprattutto, fra il Cielo in una stanza cantato in francese da Carla Bruni e le musiche jazzate della banda di Pomarance, negli stridori acidi del complessino rock, i corpi: fisici forti, compressi, che si trasformano in personaggi con i segni della degradazione di un’epoca, evocando la necessità di una diversa libertà, di un mondo migliore. La canzone finale, un ritmato, forsennato Fuori dal tunnel di Carapezza, unisce spettatori e attori in un ballo, un corteo, un abbraccio finale che si vorrebbe non finissero mai. Sabato 26, per la prima volta dopo molti anni, la Compagnia esce dalla Fortezza per rappresentare I pescecani al Teatro Persio Flacco, alle 21. MASSIMO MARINO Il vuoto, ovvero quello che resta di Bertolt Brecht di Armando Punzo2 Dopo il premio Ubu per I pescecani, Armando Punzo torna a Brecht con un nutritissimo gruppo di attori e attrici giovani, di diverse nazionalità e lingue, senza i carcerati della Compagnia della Fortezza. Lo stesso significativo sottotitolo del lavoro costruito nel 2003 nella prigione di Volterra, Quel che resta di Bertolt Brecht, è preceduto ora da un titolo perentorio: Il vuoto. Il nuovo spettacolo ha debuttato al Festival di Liegi, una rassegna che interroga il presente con il teatro, la danza e la musica, che “si tuffa nel cuore del reale”, come scrive il direttore Jean-Louis Colinet, che racconta i conflitti del mondo in cui viviamo con artisti africani e sudamericani, ma anche con Ascanio Celestini, Emma Dante e Lars Noren. Non poteva, allora, mancare un artista dirompente come Punzo. In una scena espressionista e infernale, sghembi stanzini illuminati di rosso sovrapposti su più piani, buchi di caverne civilizzate con i mobili inclinati da qualche terremoto, si agitano ladri, puttane, poliziotti, bellimbusti, magnaccia, ecclesiastici. È tutto un copulare, un vivere e mostrasi di corpi giovani, vecchi, segnati. Un’orchestra di pallide figurine di allucinato presepe è incastonata in parte in uno dei piani più alti, in parte ai piedi del palco, condotta da un direttore spiritato, pronto a trascinarla con salti frenetici verso ritmi insostenibili. Su un bordo della scena impazza un complesso rock. Come nello spettacolo visto in carcere, qui ripreso e approfondito, un can can ripetuto a ritmi sempre più indiavolati rompe il quadro iniziale ispirato all’Opera da tre soldi di Brecht: il bordello, il matrimonio di Mackie Messer che subito sodomizza la sposa sul tavolo nuziale, vescovi alle prese con amplessi sadomaso, lascive gemelle siamesi, acrobati, esibizionisti, nani. Il movimento di offerta e di dominazione continuerà per tutto lo spettacolo, mentre alcuni personaggi gridano la violenza, la potenza, il sesso e il denaro come sole religioni dell’uomo. Nietzsche si incrocia con Marilyn Manson, il rock duro con le musiche di Kurt Weill, il cha cha cha fa bum bum come un revolver, balletti si chiudono con sventagliate di mitragliatrici, fra una struggente Indifferentemente che chiede «e damme ’stu veleno», liste di armi e un lentissimo bacio lesbico. Pistole e pugnali danzano lungo i corpi in pericolose seduzioni, voci di tentatori attirano nel buio, papi impiccati proclamano strozzati il mondo futuro. C’è di tutto e di più, Grosz e Genet, in un dichiarare urlato, che sembra finire e ricomincia, che straripa nella platea con cartelli, che chiama in campo Saddam e Bush, che rifiuta di parlare ancora del presidente del Milan e della resistenza. È un varietà grottesco che fa il vuoto per accumulo di troppo pieno, che piange l’impotenza dell’arte a cambiare il mondo, che fa esplodere le nostre ossessioni di possesso, di immagine, il nostro continuo venderci. Brecht è un residuo, una speranza naufragata, riassorbita, il gesto e il canto di una tamburina che prova a guidarci fuori da un inferno nel quale non possiamo non ricadere. Il teatro è cambiamento da inventare. La vita, soprattutto, è ancora da 2 «L’Unità», febbraio 2005. trasformare, e la società, sembra dirci Punzo, trascinandoci in continuazione per strade che sentiamo di aver già percorso, eppure ogni volta sgradevolmente nuove. Lo spettacolo, guidato dalle scariche elettriche del narratore Stefano Cenci e dalle apparizioni della carismatica, roca Gelsomina brechtiana di Martina Krauel, unisce attori che recitano in italiano, francese e tedesco a un gruppo di figuranti e di musicisti reclutati in ogni luogo di rappresentazione e integrati con un lungo laboratorio. Punzo, secondo il suo uso, durante le repliche cambierà il montaggio delle scene, aggiungerà o toglierà testi e canzoni, proclami, colpi allo stomaco e lampi di lacerata poesia. Questo artista, anche fuori dall’emergenza del carcere, non rinuncia a sperimentare il teatro come processo vivente, come tentativo di verità, di presenza totale e sorprendente al di fuori delle rassicurazioni della forma, atto effimero capace di spaccare e ricostruire. Non interroga solo le vecchie questioni senza risposta che Brecht ha posto. Ci chiede di rovesciare mille volte le apparenze le certezze le cose e noi stessi, per guardare radicalmente, dolorosamente a fondo. Coprodotto anche dal Teatro Metastasio – Stabile della Toscana, Il vuoto va in scena in prima nazionale, sottotitolato in italiano, al Fabbricone di Prato dall’8 al 12 febbraio. MASSIMO MARINO Da istituto di pena a istituto di cultura. Intervista ad Armando Punzo3 Nel dicembre 2005 ho realizzato due interviste ad Armando Punzo intorno al suo lavoro con la Compagnia della Fortezza. L’intervento nel carcere di Volterra, iniziato nel 1988 e sviluppatosi come principale attività dell’Associazione Carte Blanche, ha prodotto spettacoli annuali alla fine di laboratori svolti con continuità, con esiti artistici riconosciuti da pubblico e critica. A fianco degli spettacoli realizzati in prigione è cresciuto un importante festival di teatro, Volterrateatro. Punzo è riuscito a instaurare un rapporto particolare con il Ministero della Giustizia, con la Direzione della casa di reclusione di Volterra, con le guardie penitenziarie, trasformate in convinti collaboratori dell’esperienza, con le altre componenti della prigione. Nel 2000 è stato firmato un protocollo d’intesa tra la Compagnia, il Ministero della Giustizia, l’Ente Teatrale Italiano, la Regione Toscana, la Provincia di Pisa, il Comune e l’istituto penale di Volterra per la costituzione del Centro Nazionale Teatro e Carcere. Qual è secondo te la metodologia del lavoro teatrale in carcere? Io non ho “una” metodologia. Io posso parlare della “mia” metodologia. Ognuno ha la sua, quella che applica al suo laboratorio. Mettendo a confronto diverse metodologie si possono estrarre buone prassi comuni. Io, quando entro in carcere, abolisco innanzitutto l’idea di carcere dentro di me. Posso essere in un posto come in un altro. Mi dico: «Vado in un luogo a fare teatro». Così è stato fin dagli inizi, diciotto anni fa, quando abbiamo iniziato l’attività nel carcere di Volterra. Molti pensano che la mia sia stata una scelta dettata da motivi ideologici o sociali. Invece, semplicemente, in quegli anni volevo fare uno spettacolo con tanti attori e un giorno, guardando il carcere di fronte al nostro teatro, ho pensato che lì forse c’era la possibilità di farlo. Dopo qualche mese è arrivata dal Comune di Volterra, inaspettatamente, la proposta di realizzare un laboratorio di due mesi con i detenuti del Maschio. È stato un incontro così importante e ricco che da allora non siamo più usciti e abbiamo creato una vera compagnia di teatro lì dove sembrava impossibile che questo avvenisse. Anche se è evidente che col passare del tempo mi sono reso conto che non è mai solo un caso trovarsi in un posto o in un altro e che evidentemente stavo cercando qualcosa che non trovavo nel così detto teatro ufficiale. Bisogna sempre chiedersi: cosa voglio fare quando entro in carcere? Voglio rafforzare o indebolire l’istituzione? Il mio intervento non è finalizzato al carcere, al detenuto. Cerco di 3 Questa intervista, fin’ora inedita, è stata realizzata nell’ambito della ricerca condotta da Massimo Marino su Teatro e carcere in Europa, di prossima pubblicazione. creare un’isola dentro il carcere: il teatro è un modo per eliminare il carcere. L’obiettivo è trasformare un luogo. Come fai ad “abolire il carcere”? Entro. Faccio sentire una bella musica, leggo un testo… Sono sempre come pennellate per cancellare il carcere, per fare apparire altre realtà. Voglio cancellarlo, il carcere, dentro di me e dentro i soggetti che partecipano al lavoro. Può sembrare solo una scelta artistica, questo modo di lavorare; in realtà è un modo di operare che dà risultati. Io non voglio sostituirmi agli operatori sociali. Devo porre un obiettivo più alto di quello che possono darsi l’istituzione, gli agenti, gli educatori, il direttore, i detenuti. Devo alzare l’obiettivo, alzare l’ostacolo, fare appello alle forze migliori. A volte parto da una musica, altre volte da un testo, da una proposta artistica, da un obiettivo condivisibile. Questo è discriminante rispetto a altre esperienze: il fatto che possano crescere, evolvere, oltre la normale socializzazione, proprio perché l’obiettivo è alto. Negli incontri metto una musica, o leggiamo Seneca, Schiele, Brecht, Pasolini… E qualche detenuto lo nota subito: quando mai avrei immaginato di poter avere un lusso tale, di stare a parlare con le persone in galera, di discutere di opere letterarie, di poeti, di porre e porsi delle domande… Entrando in un carcere con il teatro credo che si debba distruggere anche l’idea stessa di carcere, lo stereotipo che generalmente alberga nella mente dello spettatore, dell’opinione pubblica ma anche in quella di chi lo vive direttamente come detenuti, agenti, direttori, giudici, amministrazioni statali e pubbliche amministrazioni. Non ti poni, quindi, scopi direttamente rieducativi? Io non credo al teatro usato per altri scopi, al teatro per i vecchi, per i bambini, per i matti, per i carcerarti; non credo nel teatro come strumento per ottenere qualcosa. Se si pone direttamente al centro il teatro in sé, potrai avere indirettamente altri effetti. Le ricadute sociali sono degli “effetti collaterali”; lo scopo principale è quello di aprire un altro tempo e un altro spazio. Noi sperimentiamo tecniche per entrare in un altro mondo: per misurare il nostro mondo, quello dove stiamo. Nel mio lavoro il carcere assume una doppia valenza: relazione forte con un aspetto della realtà che ci appartiene e metafora di un carcere più ampio, che è il nostro, quello in cui tutti viviamo. Dentro il carcere vediamo all’opera i risultati delle contraddizioni e delle illusioni dei nostri tempi. Vedi uno spaccato della realtà esterna. Gli Istituti di Pena contengono persone che vengono ormai da tutte le parti del mondo, e dal sud del mondo in particolare; lì incontri una ricchezza di lingue e culture che può essere vista come un opportunità. La Compagnia della Fortezza è di fatto diventata una compagnia internazionale. Ho pensato che questo luogo inaccessibile, sconosciuto, estraneo da sempre alla città, visto come una presenza negativa e ingombrante dovesse diventare un luogo di produzione teatrale e culturale. Una marginalità poteva e doveva diventare un centro. Fin dall’inizio ho lavorato per trasformare il Carcere di Volterra da Istituto di Pena in Istituto di Cultura. Non ho potuto dichiarare subito apertamente le mie intenzioni ma con il tempo si è avuta una tale trasformazione della natura di questo Istituto che oggi è sotto gli occhi di tutti. Ho messo il teatro al centro della mia relazione con questa istituzione. Non ho pensato al carcere, ai delinquenti, e nemmeno mi sono fatto affascinare da questo luogo: ho guardato alle potenzialità degli esseri umani. Il carcere mi interessa perché dimostra che gli esseri umani possono avere evoluzioni che ad alcuni sembrano improbabili, impossibili. Siamo cittadini di un mondo molto discutibile: o rimaniamo invischiati in questo mondo, o dobbiamo darci altre regole, nuove prospettive. La nostra pratica di teatro ha dimostrato che l’azione artistica, la cultura possono produrre azioni concrete che trasformano i luoghi e le persone. Non credo al teatro “rieducativo” anche per un altro motivo: quello rimane incollato addosso al carcerato, lo ricollega al suo vissuto, all’ambiente esterno dal quale proviene. Non c’è salvezza là. Là è iniziata la sofferenza. Rifiuti, quindi, l’indagine autobiografica? Il discorso è diverso, più complesso. Non accetto di mettere direttamente in scena il carcere e i suoi problemi. Ma una relazione con se stessi è necessaria, con l’autobiografia, con i luoghi di provenienza, con un vissuto più ampio. Se ci ripenso, quello che ho provato a fare, entrando nel carcere di Volterra, e questo devo dire in maniera ostinata, decisa, scelta, è cercare di creare un’esperienza il più possibile “distruttiva”. Distruggere per modificare, era il mio obiettivo principale. Distruggere l’idea molto limitata e comune a molti di teatro, attore, arte, artista, era ed è ancora il mio scopo. Distruggere quanti più cliché e luoghi comuni possibili. Individuarli e metterli in luce. Eliminarli. Distruggere, di conseguenza, entrando in un carcere con il teatro, anche l’idea stessa di carcere, lo stereotipo che generalmente alberga nella mente dello spettatore, dell’opinione pubblica ma anche in quella di chi lo vive direttamente come detenuti, agenti, direttori, giudici, amministrazioni statali e pubbliche amministrazioni. Distruggere me stesso, i miei stessi limiti. Distruggere tutte le resistenze. Spendere completamente la propria vita in un’esperienza, andare fino in fondo, mettersi in difficoltà e scegliere sempre la strada più difficile, sapendo che alla fine è sempre quella più conveniente. Parlo di un tentativo di distruzione quasi fisica, una sorta di lotta quotidiana nella quale sai già che in qualche modo, forse, perderai. Però è divertente farlo. È necessario. Uso la parola divertente per indicare uno stato d’animo che partendo da un giudizio negativo su alcuni aspetti della realtà che ci circonda e avendo la consapevolezza di far parte di una minoranza non perde in ogni modo il piacere, la gioia e la determinazione della propria azione. Stanare, attraverso un’azione consapevole quotidiana, quelli che vogliono che tu perda, che vorrebbero che tu perdessi, quelli che in qualche caso ti fanno perdere, obbligarli a svelarsi, far emergere sempre nuove contraddizioni, nuove domande. Questo è il compito che mi sono dato e il mio divertimento maggiore, un’occasione di crescita e di comprensione dell’essere umano e della nostra cultura, unici per me. Tentare di portare, provocatoriamente, negli ultimi diciotto anni, questo tipo d’esperienza verso la normalità, è stato, in fondo, un lungo processo e un tentativo di distruzione di resistenze culturali, personali e d’idiozie generalizzate inimmaginabili e anche quasi impossibili da elencare. Ma non credo ci siano altre strade credibilmente praticabili quando vuoi fare qualcosa che esula dagli schemi previsti. Parlo anche, in concreto, di una sorta di distruzione economica, parlo di condizioni economiche assolutamente penalizzanti per chi si occupa e vive di queste esperienze. Questo tipo di teatro è realizzato, nonostante gli aiuti e i contributi, in sostanza con le briciole. Non c’è nessuna relazione reale tra il bisogno di fondi che occorrerebbero e quelli che sono messi a disposizione. Letteralmente, ti viene fatta pagare la scelta di contrapporti a un sistema teatrale e culturale asfittico e mortale. E sarà sempre così. Mi è molto difficile immaginare o addirittura credere, specialmente in Italia, che questo teatro, nonostante la gran qualità dei suoi spettacoli, e il suo forte rapporto con i temi e le problematiche contemporanee, possa mai sperare e ambire a maggiori finanziamenti e riconoscimenti istituzionali. Il teatro convenzionale avrà sempre la parte da leone e difficilmente qualcuno proporrà di aumentare i finanziamenti per il teatro e la cultura in modo da far crescere un confronto più equilibrato con i diversi modi di intendere la funzione del teatro e della cultura. Anche se non era il mio obiettivo principale, ma era inevitabile, adesso si parla del Carcere di Volterra come di un carcere pilota per le attività, come di un carcere che è cambiato radicalmente, aperto alla comunità esterna, dove la pena non è solo fine a se stessa e i detenuti, gli agenti e tutti gli operatori hanno un tasso di vivibilità assolutamente migliore rispetto a diciotto anni fa. Anche questo è uno dei risultati di un gran lavoro di distruzione, di demolizione e non credo ci siano altri termini per rappresentare meglio quello che è accaduto e accade in certe situazioni e in certi luoghi rispetto alle resistenze che s’incontrano. Come operi concretamente? Io arrivo con delle proposte. Un tema, un testo, brani su cui lavorare. I detenuti partecipano e scelgono su cosa effettivamente concentrarsi. Portano altri materiali. Se ripenso a come ho iniziato, era subito chiaro il metodo, anche se poi, naturalmente, ha subito vari adattamenti. Diciotto anni fa avevo come la sensazione che solo con loro, con i detenuti, avrei potuto realizzare il mio progetto. Perché sono persone straordinarie (ma questo, forse, l’ho scoperto dopo). Il mio progetto iniziale consisteva nella creazione di un teatro, sono entrato in carcere per realizzare il mio teatro, antagonista al mondo intero. Il lavoro in carcere, di solito, pone il problema della saltuarietà dell’intervento, e impegna solo una parte della vita dell’artista. Per me è stato diverso. Credevo che solo con loro avrei potuto realizzare questo teatro, un teatro fatto di presenza. Loro non sono professionisti che possono fare le cose a comando: o ci sono, con tutti se stessi, oppure io per loro non posso fare nulla. Loro per me erano il meglio per realizzare il teatro. In realtà, per la società sono il peggio: ma per uno, per me, erano (e sono) il meglio. È un approccio che serve al gruppo, a costruire il gruppo. Io non volevo lavorare con attori, ma con non professionisti, con gente che avesse molto tempo, curiosità e disponibilità. Certo, potevo lavorare con non professionisti di altro genere. Ma lavorare in carcere mi sembrava una sfida superiore. Sei andato in carcere, quindi, per fondare un teatro “diverso”? Sì, per rifiuto del teatro istituzionale. Se tu non entri in carcere con una necessità e un’urgenza tua, è più facile che l’istituzione ti ponga problemi insormontabili, ai quali prima o poi cederai. Lavorare su un testo diventa un pretesto: non serve a prendere coscienza del personaggio o eventualmente di un ruolo sociale, ma a un lavorare quotidiano, a mettersi in discussione. In galera, chi sceglie di fare teatro rinuncia ad andare a fare l’aria, a parlare della pena, forse a progettare rapine. Si mette alla prova su una complessità. Il rapporto tra attore e regista diventa una relazione di fiducia personale. Io non condivido con loro solo uno spettacolo, ma un percorso di vita. Costruiamo un oggetto in comune, dove ci sono sì personaggi, testo, parole, immagini, ma dove soprattutto si intrecciano rapporti che fanno sì che quegli altri elementi abbiano effetto. Puoi spiegare meglio la relazione che instauri con i detenuti? Mi interessa l’idea e la pratica di un’arte “delinquenziale”. Ho visto, dall’inizio della mia carriera a oggi, tante rappresentazioni assolutamente inutili, banalmente rassicuranti. Ho visto video, filmati, ho letto di registi e artisti, grandi attori che hanno messo in scena certi testi e ho pensato che bisognava trovare una strada diversa. Anche se questo nella società in cui viviamo è in ogni caso compreso e previsto. Non bisogna, trattandosi di detenuti, avere un adesione ipocrita e buonista. Questo ci mette al riparo da una troppo facile e offensiva commiserazione. In fondo il mio teatro ha affrontato attraverso la metafora del carcere, fin dall’inizio, il tema del rapporto con la diversità. Mi piace ricordare un’espressione molto nota di Brecht: «Non lasciatevi sedurre», che mi piacerebbe variare in «lasciatevi sedurre e fate attenzione a non lasciarvi sedurre». La normalizzazione, da cui ancora riusciamo a difenderci, passa attraverso un facile e falso atteggiamento buonista, una sorta di sentimento forzato che tenta di comprendere e inglobare tutto. Un atteggiamento tipico della nostra cultura che ha bisogno di riportare a sé tutte le diversità. Penso, invece, che debba restare forte l’idea che noi non saremo mai quello che sono gli altri e che per fortuna gli altri non saranno mai completamente come noi. Dovremmo imparare ad ascoltare, comprendere e accettare anche le ragioni dell’altro. A un certo livello si possono opporre all’idiozia e all’arroganza solo atti culturali, portare cultura, azioni simboliche. La Compagnia della Fortezza, da questo punto di vista, nonostante tutto, non esiste ancora. Esiste solo come provocazione, come azione simbolica. Se per esistenza s’intende anche il fatto di vivere, come altri vivono, del proprio lavoro. Questo è il mio divertimento, il mio lavoro: immaginare e lavorare affinché i miei attori-detenuti facciano qualcosa che sembra non si possa fare e mettano in scena testi che sembrano non dovergli appartenere. Parlino di cose di cui non dovrebbero parlare per il solo fatto di avere un passato delinquenziale. Come operi per arrivare allo spettacolo? Nelle fasi di lavoro il punto di partenza può essere anche l’improvvisazione. Oppure si possono trovare nel testo parti consone, vicine a ognuno. I detenuti leggono il testo, scelgono e trovano singole parole o situazioni che risuonano in loro, anche se spesso non sanno perché. Trovano nelle parole di altri qualcosa che si radica in ognuno di loro. Le parti da assegnare le scelgo poi io: corrispondono a dati caratteriali. Non possono essere distaccate e fredde. Devono piuttosto marcare vicinanze: cerco tutto quello che nei personaggi e nelle situazioni può risuonare dentro di loro, gesti, movimenti, pensieri. Negli stimoli esterni, bisogna trovare un buon punto per sé. Il lavoro decide chi è il primo attore. Ma è importante non far vivere una scelta come emarginate per alcuni: bisogna trovare i modi per rendere condivise tutte le decisioni. Ci sono, evidentemente, delle dinamiche da gestire: ci sono quelli che vorrebbero fare molto, e non ne sono capaci. C’è tutta la dinamica di una compagnia di teatro e poi c’è la dinamica del conoscersi, del relazionarsi in gruppo. Pensi che il teatro possa anche essere “terapeutico”? Ossia che interpretando personaggi diversi da sé si possa mettere in discussione la propria personalità? È troppo semplicistico dire che attraverso un testo i detenuti “studiano” caratteri diversi da sé e capiscono chi sono, e magari anche gli “sbagli” commessi: non significa nulla, nella realtà. Tutto sta nella dinamica del processo; quanto dei loro dati personali, autobiografici, riescono a entrare in questa dinamica. Io provo a trovare gli spazi per tutti. Ma ci sono spettacoli che sentono più vicini e altri che sentono più lontani. Quando l’obiettivo riesce a diventare comune, gli spettacoli sono più forti. Quando lo spettacolo fa più presa su me che su loro, il risultato è più traballante. Ogni lavoro cerca di risolvere i problemi aperti da quello dell’anno precedente. Così l’Opera da tre soldi cercava di risolvere quelli suscitati da Amleto, e così via… Cerchiamo sempre una motivazione forte, personale; altrimenti il teatro nasce morto, senza l’urgenza di essere espresso. Cerco di portarli verso un obiettivo comune. Cerco la coesione del gruppo, qualcosa che amalgami i numerosi collaboratori esterni della compagnia e quelli che stanno dentro. E non basta il teatro. Bisogna trovare motivazioni condivise. Perché ti poni sempre l’obiettivo di arrivare a uno spettacolo? L’obiettivo dello spettacolo è servito all’inizio per costituire il gruppo, poi per coltivarlo e per far conoscere l’esperienza. L’istituzione carceraria diventa un istituto di cultura, che difendi e fai sviluppare facendo spettacoli, mostrando il lavoro dei carcerarti al pubblico, agli operatori, alla critica, organizzandovi intorno un festival, intrecciando rapporti con la società, con la scuola, con l’università. Poi difendi e sviluppi quello che hai costruito anche con le regole di lavoro: gli iscritti al teatro sanno che non devono scatenare risse, che devono dimenticarsi di essere detenuti e così via. Altrimenti tutto quello che abbiamo conquistato è messo in pericolo. C’è un insieme di regole condivise. Il problema non è essere più bravo dell’altro, ma far crescere la compagnia. L’istituzione ne beneficia indirettamente. Anche se l’obiettivo non è migliorare l’istituzione, ma creare un teatro. Poi, se migliora la vita, si aprono anche più spazi nel carcere. In realtà l’istituzione e la mentalità distorta che genera devono essere eliminate. Non si mostra il lavoro in pubblico per mettersi in mostra o per avere eventuali benefici nella vita del carcere. Certo, poi ognuno ha la propria motivazione. Ma è necessario trovare quella comune. Nel teatro non ci sono alibi: non puoi fingere, sennò con il pubblico non funziona. È proprio il contrario del modo di comportarsi che si assume nell’istituzione totale. Io lavoro sul gruppo e su ognuno di loro, sulle capacità e sui limiti. Quanto dura il lavoro per uno spettacolo? Il lavoro per uno spettacolo si distende per un intero anno, tutti i giorni. Sarebbe il sogno di tutti gli artisti: avere una compagnia stabile, che possa lavorare senza limiti di tempo. È un impegno fuori dalle leggi del mercato, quello che tutti i grandi maestri rivoluzionari della scena del Novecento hanno desiderato, da Stanislavskij a Grotowski. Nel carcere crei le condizioni di quei teatri che si chiamavano “teatri liberi”. È un’utopia che fa bene al teatro e, indirettamente, fa bene a loro, ai carcerati e all’istituzione. Come ti rapporti, appunto, con l’istituzione? Il lavoro con le istituzioni deve proteggere questo spazio. Noi costituiamo un terzo polo tra le guardie e i ladri: importante, perché interrompe il conflitto a due; introduce un testimone, un punto di vista altro da quello istituzionale. Con le istituzioni ho parlato sempre attraverso il teatro e le sue esigenze. Ho chiesto un luogo, una stanza, e per fortuna me l’hanno data molto piccola, così ho potuto usare tutto l’istituto: alla fine nel carcere di Volterra non c’è spazio dove non ho fatto qualcosa. Ho trattato su tutto, in modo puntiglioso: sulle modalità di accesso al laboratorio, sul tempo, chiedendo il maggior tempo possibile, ragionando su un radicamento e sull’espansione dell’esperienza, facendo tesoro di ogni cosa. Sono stati importanti anche i contributi esterni: le persone che mi aiutavano a rinforzare la credibilità e la concretezza del teatro. Il carcere riassorbe, ingoia: se inviti un mimo come Bustric a fare i suoi giochi di prestidigitazione, le sue magie, rimetti in moto energie, processi. Il carcere è un buco nero: il teatro è una presenza che può cambiarlo, dargli vita nuova. Far vedere come si può usare la voce, presentare un artista che usa bene la voce da vicino, non da lontano come la tv, suscita interesse, attenzione e rinforza l’esperienza. Il carcere, in fondo, è lo specchio di quello che avviene fuori. Mettere al centro la cultura è fuori dal mondo. Perché il buco nero del carcere è uguale a quello che c’è fuori. Il carcere è un microcosmo della realtà esterna. Mutandone le regole, prefiguri una società diversa. Quello che ti minaccia, dentro lo vedi chiaramente: fuori un po’ meno. Hai sempre presentato gli spettacoli a un pubblico esterno e hai lottato perché la compagnia potesse portarli in tournée. Perché? L’apertura verso l’esterno è importantissima. Verifichi lo spettacolo, l’oggetto a cui hai lavorato, superi gli ostacoli che vengono frapposti, verifichi i rapporti. Finito lo spettacolo, importanti sono le tournée. L’intenzione è quella di non fermarsi mai, tranne che per le vacanze estive. Lo spettacolo non è l’unico obiettivo. È un punto di partenza. Lo scopo è lavorare insieme. Creare un teatro, cioè un altro progetto di realtà. L’ambizione è la stessa che avresti in un teatro stabile: trasformare una dinamica sociale, un luogo. Il metodo sperimentato all’interno del carcere credi che sia applicabile anche in lavori esterni? Quando faccio un laboratorio fuori dal carcere gli iscritti vogliono capire tutto subito. Io sono contro. Dico: lavoriamo, esploriamo, poi si vede. C’è il rischio di perdersi, è chiaro, ma anche di aprirsi e di scoprire. Il tema non è la messinscena dello spettacolo: è altro. Lavorare su una scena è una fase avanzata del lavoro: bisogna arrivarci, sennò si mettono insieme solo degli stereotipi. Lo stesso avviene dentro. La tua scelta di “cancellare il carcere” è condivisa dagli operatori dell’istituzione? Il carcere nella sua pesante concretezza è la metafora di un carcere più ampio, di una situazione sociale oppressiva, sclerotica, chiusa, escludente. Il nostro lavoro dà senso anche a chi opera direttamente nell’istituzione. La direttrice del nostro carcere dice: anch’io sono d’accordo che dovete fare solo cultura e non rieducazione. Perché qualcosa si cambia, anche nella realtà carceraria. Ma questo metodo non è applicabile solo al carcere: è un modello culturale. Facendo teatro in carcere rifiuto la parola dominate oggi in Italia: “compatibilità”. Guardo piuttosto alle esigenze delle persone. E ai maestri del teatro del Novecento. Il teatro in carcere è un laboratorio di utopia. Facendo teatro in una prigione io voglio sottolineare il dato culturale e sociale che può portare la gente chiusa là dentro. L’attenzione dei media, il successo dell’esperienza di teatro in carcere, permette di lavorare contro la marginalità. Il successo è il piede di porco per riportare il problema fondamentale al centro. Chi aveva energia, una grande energia, e l’ha usata spesso in una direzione illegale, può direzionarla altrove. Io cerco di eliminare ogni idea di carcere. Perché il carcere porta sofferenza. Instauro una libertà, altre regole, che sono quelle del teatro: cercare le abilità, l’energia, al di là della situazione carceraria. È un percorso di libertà che vuole rifare le regole della realtà; è una forma di costrizione per rompere i muri, per cercare una via uscita. In carcere è importante confrontarsi con tutto quello che è concreto, che ti mette alla prova. ROMEO CASTELLUCCI MASSIMO MARINO Atlante di una tragedia infinita. La Tragedia Endogonidia della Socíetas Raffello Sanzio4 Si è concluso a dicembre il cammino della Tragedia Endogonidia, il progetto itinerante della Socíetas Rafaello Sanzio, undici spettacoli in dieci città d’Europa. Finalmente possiamo vedere dispiegato tutto il tracciato di un’opera che ha rappresentato una sfida alle consuetudini della drammaturgia, della creazione scenica, della produzione teatrale, e azzardare a comporre episodi, figure, invenzioni in un quadro unitario. Per tre anni la compagnia di Cesena ha prodotto spettacoli a ritmi diversi, prima blandi, poi sempre più stringenti, sorprendendo ogni volta, ma anche creando una rete di rimandi, associazioni, sviluppi di immagini che ora ci sembra di poter padroneggiare. Il principio era quello di tessere una tragedia d’oggi: in dialettica con la forma inventata nell’antica Atene, eppure profondamente diversa. Una tragedia dell’eroe anonimo, che si oppone, esplora i limiti delle norme, o forse semplicemente vive, e si scontra con il potere, senza una comunità che accompagni la sua lotta, senza una polis, un coro che possa dare un senso più alto alla sua sofferenza, al suo sacrificio. Non c’è compianto, non c’è catarsi, non c’è esemplarità, non c’è società, ma solitudine e spersonalizzazione. Una realtà oppressiva colpisce con i suoi simulacri, le sue rappresentazioni che non si riesce a scalfire, con tavole della legge pesanti come pietre tombali, con poliziotti a volte simili a quelli delle comiche del cinema muto, a volte feroci e impassibili come macchine delegate a macerare ogni divergenza. Una tale tragedia non ha parole o ne ha poche, scritte, frammentate, dette con fatica, dissolte; il testo è abbandonato: si assiste, come si vedrà, alla deriva degli alfabeti e dei sensi. Parla la lingua del corpo, del pericolo fisico e morale, del mito, la vanità della lotta e lo svuotarsi della storia. Non ha più personaggi ma “figure”, come scrive Romeo Castellucci, ideatore, regista, inventore di scene, luci e costumi del ciclo, coadiuvato da Chiara Guidi per la regia, la 4 Il saggio è apparso nella rivista francese «Ubu-Scène d’Europe», nn. 35-36, luglio 2005. composizione drammatica, sonora e vocale, da Claudia Castellucci per gli scritti, da Scott Gibbons per le musiche originali, suoni elettronici tellurici. La figura è una tensione fra il genere e l’individuo, qualcosa che abiura il personaggio e lo rende mobile. La tragedia, prodotta insieme a festival e teatri francesi, belgi, tedeschi, inglesi, italiani, con un finanziamento del Programma Cultura 2000 della Comunità Europea, in ogni episodio prende il nome dalla città che la ospita, riprodotto in una sigla con numerazione progressiva. Ogni tappa nasce come non replicabile, unica, messa a punto in relazione con un determinato luogo e con un’occasione. Ogni episodio genera l’altro dall’interno come un organismo monocellulare endo-gonide. Queste le regole di partenza, che saranno poi moltiplicate e violate. Moltiplicate, perché a un certo punto iniziano ad apparire, accanto agli episodi maggiori, le “crescite”, performance di durata variabile, perlopiù non superiore alla mezz’ora, che sviluppano una o due figure di tappe precedenti, dando nuove soluzioni e cercando imprevisti cortocircuiti. Violate, perché le tragedie nate per una città saranno poi replicate altrove, dimostrando come “anonimi” non siano solo gli eroi, oggi, ma anche i luoghi, intercambiabili perfino nei loro segni caratteristici. Una camera dorata può evocare una pittura medievale avignonese ma può anche, semplicemente, sospendere la visione in una temporalità astratta e sottrarre allo spazio naturalistico la prospettiva; un marmo ministeriale e obitoriale possiamo ritrovarlo a Bruxelles come a Roma o a Parigi; il bosco come la visione sfumata dalla nebbia stanno dentro ognuno di noi oltre che a Londra o nella Romagna. D’altra parte la contraddizione è inevitabile in un organismo che si definisce già come un accostamento di termini distanti, perché la tragedia finisce con la morte dell’eroe, mentre l’endogonide si perpetua per partenogenesi. La Tragedia Endogonidia opera sull’immagine che sfuma o, impercettibilmente, si sfoca, sul suono delle azioni e delle cose, sulla presenza e l’assenza, sul colore e il buco nero, sul riflesso, sulla deformazione e rottura degli specchi riflettenti. «Credo che tutto quello che possediamo siano delle onde», scrive Castellucci nel primo numero di «Idioma Clima Crono», il giornale nero di lungo formato che ha raccolto, per otto numeri, più uno bianco dedicato agli scritti composti in un seminario all’Università di Bologna, le memorie, le ipotesi, i riflessi di questo palpitante divenire. Onde, sfocature ed enigmi, sfide alla comprensione razionale materiate di folgorazioni che lasciano nello spettatore il senso di una partecipazione, di una lotta fisica e psichica, di una rottura, di una ricerca. Già dall’inizio semisegreto di Cesena, C. #01 Cesena (25-26 gennaio 2002), con un corpo polimorfo in trasformazione, donna uomo vecchio bambino, sesso che espelle materie sotto la minaccia di una macchina automatica che dardeggia frecce, mostro, essere oscuro, bios, liquidi, esplosione di sangue da gambe in latex pendenti. Ambiguità e germinazione di forme sotto un display meccanico, di quelli da stazione, didascalia che tornerà in altri episodi: maledice, lo spettatore e l’autore, chi ha concepito, fatto, visto, promette una vendetta del logos, si sbriciola in lettere mancanti, in grumi di consonanti, in frasi senza senso. Corpi vecchi, mascherati, che ballano, sussurri nel buio, dolore preparano la visione finale di un corpo steso in terra in una pozza di sangue, Carlo Giuliani, il ragazzo ammazzato dalla polizia a Genova per il G8 del 2001 come icona, con un uomo a torso nudo e pantaloni da carabiniere che con voce evirata d’angelo intona un lamento, fino a che una grande X non si incendia in proscenio e in proiezione lettere di umani alfabeti pulsano impazzite. Gli elementi sono già tutti in questa tappa preparatoria, siglata dai simboli e dai suoni affidati alla sonda Voyager come testimonianza della civiltà umana per gli spazi galattici, rivolta a critici, organizzatori, artisti per dare un’idea del progetto e cercare le strade produttive per renderlo possibile: il mistero, il dolore della trasformazione che non ferma forme indominabili, la minaccia, la legge, lo sfaldarsi del significato di fronte al corpo e alla violenza. Le tavole della legge, bianche, mosaiche, appariranno al Festival di Avignone per A. #02 Avignon (7-15 luglio 2002), come pure il capro, origine della tragedia, che produce una poesia materica percorrendo lettere trasformate da due donne in suono. Gli spazi sono due: uno nero, dove assistiamo alla ripresa video del capro che si muove su una scacchiera di vocali e consonanti; l’altro bianco, delimitato da un sipario con soprascritta una misteriosa sigla e due nomi che associano la tragedia a lontani miti e favole, Ur e Oz. Un bambino in toga, due donne che dietro una plastica incisa da colpi o pallottole piena di un liquido lattiginoso leggono il tracciato dei segni calpestati dal capro, lettere che traducono gli aminoacidi dell’animale all’alfabeto latino nella pretesa di un linguaggio inscritto nel corpo anteriore a quello che rappresenta le cose, la materia nucleare prima della significazione della tragedia, tragos-oidé, canto del capro. Uomini in costumi da soldati di Rembrandt, che offriranno al bambino una pelle di montone e lo opereranno. Rivelazioni, in uno spazio ulteriore dietro il sipario bianco, una stanza dorata, delle trasformazioni fisiche di Cesena, manifestate da un clown che irrompe dall’esterno. Levitazione del bambino; rituali come un sacrificio. Finale simile a quello di Cesena: il corpo morto di un ribelle, il canto, la croce di fuoco. L’episodio rappresentato all’Hebbel Theater di Berlino, B. #03 Berlin (15-18 gennaio 2003) cambia atmosfera: la scena diventa una nebbiosa Avalon e un ghiacciato paese degli Iperborei, in un grigio che rende incerte figure che si sdoppiano o annullano, in un bianco che rompe i riferimenti spaziali, evadendo da ogni concezione prospettica. Un velario appanna tutto: una madre è al centro della scena, su un letto, con donne simili a vedove, a mannequin guerrigliere, a infermiere che la accudiscono e la martirizzano. Madre orfana e senza volto che piange una figlia morta, simula di estrarla ancora da sé e partorisce stracci, ritorna la sua bambina, si masturba, esibisce un sesso che non può generare fra coiti di donne incappucciate che mimano immaginari porno, fra sospiri ansimi vagiti risatine grida. Lo spazio smaterializzato del cordoglio (o della rievocazione di un assassinio primigenio commesso dalle proprie stesse mani) diventa un antro avvolto in scariche di energia baluginante, un luogo illuminato da lune malate, da soli neri, minacciato dalle catastrofi sospese sulla nostra terra. Il grigio di forme vaghe cede il posto a un paese ghiacciato di favola dove irrompono pelosi abominevoli uomini delle nevi, pronti a costruire cancelletti da baita alpina. La scena è lontana dal pubblico, assiepato nelle gallerie del teatro: nella platea siedono grandi conigli neri di pezza, che saranno poi abbattuti da yeti debordati dalla cornice scenica. L’immagine è devastante, fra lo sventolio di bandiere con grandi scritte misteriose, forse ebraiche: una tomba in scena, le bianche tavole della legge, la bambina rediviva che danza, il lutto che contorce la madre e quei corpi del coro-coniglio-spettatore abbattuti, come i ceceni e gli ostaggi nel teatro Dubrovke di Mosca, subito fermati in agghiaccianti istantanee che hanno fatto il giro dei mass media della terra per i nostri occhi voraci. Il sipario si chiude sulla tomba richiusa, su un girotondo di yeti e su un concerto di canti di gallo che annunciano una qualche livida alba. Br. #04 Bruxelles (4-7 maggio 2003) è concentrato e violentissimo. Torna un’idea del tempo circolare, dove gli effetti precedono le cause, dove la morte irraggia un’energia mefitica che altera lo scorrere delle cose. Lo spazio sembra un marmoreo ministero o obitorio. Una bambino di pochi mesi gioca, inconsapevole. Un’inserviente nera pulisce una macchia invincibile. Una donna in gramaglie proietta una fiamma. Incombono nere tavole della legge. Un vecchio in bikini a fiori veste paramenti sacerdotali e poi si trasforma in poliziotto Altri due poliziotti entrano. Uno versa un liquido viscoso in terra, l’altro si spoglia. Assisteremo a un pestaggio violento, violentissimo, il corpo picchiato dai tutori dell’ordine si contorce, si rivolta nel sangue finto, si imbratta e finisce in un sacco a bestemmiare in una lingua fatta di scarti di lingue, di suoni inarticolati raschiati in gola, nella pancia. Era quella la macchia che l’inserviente puliva. La donna in nero si raserà i capelli e tutto diventerà come dopo l’esplosione di un cancro, di una bestia radioattiva. Col vecchio che si spoglia, annulla i suoi lineamenti con un passamontagna e sprofonda in un letto dove sparisce, come seme di un’umanità terminale, esausta, indistinta e futura. A questo punto il ritmo di produzione diventa incalzante: l’episodio presentato nella capitale belga al KunstenFESTIVALdesArts è preparato parallelamente a quello che debutta in Norvegia all’International Festival Norway, Bn. #05 Bergen (22-25 maggio 2003). Qui vengono usati molti dei materiali di Avignone, in una specie di ricapitolazione di figure e situazioni precedenti, con variazioni. Troviamo le due donne che intonano le lettere della “poesia del capro” di fronte al liquido che scema a poco a poco rivelandone i volti (latte? sperma del capro?); vediamo il capro stesso che si aggira in uno sfondo nebbioso. Una vecchia viene sacrificata e una bambina appare al suo posto, rinnovamento del ciclo, regina di favole venerata e minacciata, posta da quattro guardie con cappellacci da guardie di Rembrandt ad assistere a un filmato di lettere pulsanti, di macchie in movimento, una visione divina o lisergica che si muta in fungo atomico. Un ariete da guerra ricoperto di pelle caprina incombe contro il pubblico. Spazi che si aprono uno dentro l’altro, bianchi prima, dorati poi. Teatro nel teatro? E dentro, cosa c’è? Figure che non si possono spiegare: si dispiegano nel mistero, con soffi, ansimi, sbuffi, terremoti per teatrali metamorfosi, offrendo il soma in pasto a qualche potere pronto a divorare. Un uomo rosso resta in scena: si spoglia, rivelando un fangoso corpo femminile, che si scopre ancora maschile, in una ginnastica che pare agonia. Gli abiti, vuoti, ascendono al cielo e l’attore rimane inerte, adagiato sulla terra. Flusso, conflitto, empatia. Olocausto sottratto alla comprensione e alla compassione; solitudine e assenza di senso che rompono le maschere di spiegazioni e rassicurazioni. Gli episodi di Parigi e Roma, ancora preparati in parallelo, apriranno questo mondo baluginante ad apparizioni di figure storiche, mescolate a miti che si smontano, a cori muti che si dissolvono, al cinema e alla fotografia come arti della riproduzione, di una ripetizione del vivente che suona come terrore o come farsa. P. #06 Paris (18-31 ottobre 2003), presentato negli spazi industriali dell’Atelier Berthier dell’Odeon per il Festival d’Automne, ospita in scena un’orchestra che non suonerà una nota: si alza e fugge quando un Cristo irrompe in scena fracassando le porte esterne. Un sacrificio di Isacco avviene poco prima che la figura di un dio in cilindro e vestito rosso, simile alla figura di Bergen ma con la barba bianca, faccia vedere il montone che doveva sostituire il ragazzo, vittima immolata su due lavatrici in centrifuga, con l’acqua che dilaga e trasforma l’entrata di alcuni poliziotti in una comica dei primi film dei fratelli Lumière. Groppe di cavalli sbucano dal muro; una sfinge, una casa nera scossa da urla attraversano la scena. Bandiere francesi sbattono nello spazio svuotato lottando contro rombi di guerra, e poi avvizziscono. Irrompe il Cristo e una donna intabarrata come un’emigrante spreme un seno per nutrirlo, ma non sgorga neppure una goccia di latte. Piovono automobili dalla soffitta della sala: saranno le croci cromate di un Golgota contemporaneo, dove il Cristo si crocifiggerà, per esser poi deposto alla guida, in un abitacolo, come noi tutti i giorni. Un rito di festa cinese, il liquido dell’eroe, coriandoli, fuochi e pioggia di carta come neve disegnano qualcosa che assomiglia ai resti di una barricata di qualche rivoluzione fallita: un vecchio si aggira fra le rovine, con le sembianze del generale De Gaulle. In R. #07 Roma, presentato per Romaeuropa Festival (21-30 novembre 2003), emergeranno da uno spazio bianco, labirinto che falsa le proporzioni, che nasconde gli angoli, le entrate e le uscite, due lati del carattere italiano, Mussolini e Arlecchino. E prima un essere inconsapevole, come il bambino di Bruxelles, il bios puro, si muoverà vivendo: un vero scimpanzé davanti a un monolite, con una citazione folgorante dell’odissea nello spazio di Kubrick. Giovani preti con le fruscianti zimarre nere giocano a girotondo o a basket, come in una famosa foto di Mario Giacomelli. E il grassone che sembra un papa re vestito di bianco, e poi si precisa come un grottesco Mussolini, firmerà con loro un patto, la scellerata transizione fra stato e chiesa (il riferimento è ai Patti Lateranensi del 1929), la spiritualità avvilita a norma di stato. Ma fra la legge e la natura dell’animale stanno il delitto e la rappresentazione. Un rosso uomo che già conosciamo vampirizzerà Mussolini, per poi trasformarsi in Arlecchino. Un terremoto fa franare le scene e mutare orizzonte in una scena multicolore. Una donna passa e si spoglia, si esibisce nuda davanti al carrello della spesa, vergognosa, inquisita da una voce di colpa esterna. Irrompe un girotondo di preti e una forte campana li disperde. Il palcoscenico si svuota nuovamente, in attesa di qualcosa: il pavimento si squarcia e torna Arlecchino con un fucile; minaccia come un guerrigliero. Tutto diventa buio, squarciato da lampi al magnesio, mentre una voce ripete: «Non devi guardarmi!». Lo scandalo della visione e dell’esibizione, dell’attore e dello spettatore legati in un patto scellerato che chiede a entrambi di uscire da sé, di apparire, di avere bisogno dell’altro per definirsi, ritorna come ai tempi dell’Amleto del 1992, confliggendo con la storia e con la vita “naturale”, senza risoluzione. In S. #08 Strasbourg, rappresentato al Théâtre Le Maillon della città alsaziana (17-20 febbraio 2004), cambieranno completamente le figure, ma la concentrazione sull’atto della rappresentazione sarà più forte. Lo spazio dell’ex fiera trasformato in luogo teatrale è unico. Nel capannone chiuso da una vetrata un monte di terra sul fondo segna lo spazio scenico. Oltre la vetrata scorre la normale vita della sera: nel palazzo del ghiaccio, di fronte, si gioca una partita di hockey. Una parte degli spettatori può vedere i pattinatori volteggiare. Nel piazzale arriva un torpedone che scarica attori-turisti che scruteranno il pubblico seduto all’interno, e poi si metteranno a guardare un film che presto lascia lo schermo bianco. All’interno, in un accampamento ai bordi del vasto, accidentato spazio desertico, prende vita un muto popolo di donne africane, in abiti militari. Nel centro della vecchia Europa, al confine tra Francia e Germania, in una terra contesa nei secoli, attraversata da armi e armate, si fronteggiano due mondi. Si rispecchiano l’uno nell’altro il guardare di noi occidentali, persi in uno spettacolo continuo, in una rappresentazione generale, e gli atti essenziali di quel muto popolo dei deserti, che ricordano vagamente antichi riti o funzioni primarie o moti di ribellione, alzarsi, inchinarsi, pregare, pestare il grano, raccogliere acqua che scarseggia. Il muoversi delle donne nere è lento, spossato, fra avvallamenti e grandi zolle, sacrale, pacato, senza speranza. Viene dissotterrata una bandiera rossa, brandita un’arma senza forza. Si siedono in cerchio, sembrano ascoltare una terra esaurita. Un’Africa spolpata dal nostro guardare e consumare. I fragili ripari di tela crollano, mentre una ragazza fragile e forte, irata e rassegnata, sventola la bandiera rossa. Non c’è attesa di redenzione. C’è ascolto e presenza. Fuori lo schermo è diventato rosso. Ma lo slancio si esaurisce. Le donne ripuliscono lo spazio terroso e sfilano contro il vetro di fondo, ombre a specchio delle altre ombre accorrenti in direzione opposta dei turisti nostro specchio. Tutti i fantasmi svaniscono: un carro armato irrompe in scena, minaccioso, con il cannone puntato contro i nostri volti. L’unica cosa che rimane, con la polvere smossa e il freddo esterno, mentre il buio avvolge tutto, è un oggetto bianco simile alla pietra che riluce in un angolo della Melancolia di Dürer. Con L. #09 London, presentato al Laban Theatre per il London International Festival of Theatre (13-16 maggio 2004), ci ritroviamo di fronte a un quadro ottocentesco, un’immagine avvolta in una nebbia alla Turner che rivela una donna contro un muro, un interno borghese, figura chiara col volto nero che sembra tirare corde o esservi appesa, torturata. Si ribella, si spoglia con gesti di rabbia, riveste solo di una maschera di tragedia il sesso; il suo corpo è plasticamente teso, statuario, mosso, contorto, minacciato da blocchi che sembrano di marmo, sporcato nel fango. Svanisce nel buio, lasciando solo un’ombra luminescente di sé in scena. Le sue tracce saranno cancellate da una comica compagnia di pulizia. Poi vedremo apparire un San Paolo in abiti ottocenteschi, come un capitalista di Dickens, che nutre una famiglia di gatti della sua lingua, che fronteggia bambini travestiti da vecchi marinai in sciopero, che trasmette, da leggere, le prime battute di una sua lettera ai Londinesi sull’obbedienza totale alla nuova legge, quella dell’amore. Un corto circuito fra il nuovo tempo messianico proposto dall’apostolo Paolo e le derive del capitale, che subito sfuma in una scena vuota dove l’Union Jack combatte sotto rombi di battaglia, e una bambina e la donna, ora col volto bianco, stanno appese, a manovrare il teatro o legate come prigioniere a una macchina di supplizio. Ambiguità, rovesciamento della visione. Continua sfocatura del quadro, dove un dettaglio è sempre incerto, sfumato, dove la visione in un angolo, in un particolare, è imprecisa, sfuggente, imprendibile. A Marsiglia e a Cesena, alla fine del percorso, lo spazio tornerà a duplicarsi (ma questa tendenza alla germinazione e alla dilatazione è osservabile, diversamente, in più tappe). Nella città francese, M #10 Marseille va in scena a Les Bernardines e al Théâtre du Gymnase con due spettacoli diversi (20-26 settembre 2004). A Les Bernardines si replica due volte lo stesso episodio, prima e dopo quello del Gymnase: l’ordine di visione risulta casuale, dipendente dalla prenotazione del biglietto. Non c’è un’unica successione, né un finale privilegiato. La parola irrompe nella Tragedia. La parola come flusso, come residuo, che non costruisce un senso. Pittura sonora ambientale e evocazione di conversazione, di idee, di emozione, incapace, comunque, di fondare un atto di conoscenza, di comunicazione, una verità. L’azione dei Bernardines si apre come una cena ottocentesca: uomini in palandrana e cilindro, donne in ampi abiti, chiacchiere. Poi i signori diventano spettatori e entra in scena un possente cavallo nero, che sarà inondato di latte, lavato senza potergli sbiancare il manto. Una donna, invece sarà spogliata, derisa, costretta a esibire le parti più intime, scrutata con compiacimento e noncuranza, legata, fotografata. A ogni foto scenderà sul palcoscenico una lastra di vetro. L’ultima istantanea viene rivolta verso il pubblico: e tutte le lastre esplodono in mille frammenti. Nell’altro atto quasi non ci sono figure. Solo suoni e forme in mutamento, colori, strisce e quadrati di luce mutevoli, aperture, chiusure, tagli di immagini astratte che evocano Rothko, Fontana e altri maestri dell’informale. Un pulsare luministico entro cui appare una vasca ribollente che richiama la materia primaria della Genesi, lo spettacolo che precedeva immediatamente la ricerca della Tragedia Endogonidia. Alla fine esplodono macchie, quelle del filmato di Bergen, con la loro minaccia psichica e atomica, contrappuntate dalla figura in controluce di una donna che si inerpica in note dolcissime di cantate antiche smaterializzate da Scott Gibbons. L’ultimo episodio, C. #11 Cesena, rappresentato al Teatro Comandini (16-22 dicembre 2004), è come un noir. C’è un’aria da film, un sapore anni cinquanta, l’aria di freddo, di mistero e di favola. Un bambino entra, si mette a letto, legge un fumetto. Arriva una madre grassa e amorosa, poi una donna delle pulizie di colore. Un uomo che sembra il padre, infine, aprirà la porta a un gruppo di individui intabarrati, col cappello, che si rivelano come membri di una polizia, funzionari di un potere generale e ramificato. Il tempo precipita e torna indietro. Fra pose che mimano quadri antichi, un vecchio viene spogliato e cosparso di polvere bianca. Inginocchiato, resta solo in scena. Sorride e ci guarda. Anche un cavallo, che mangia biada sul letto ormai vuoto, ci guarda. E sembra sorridere. L’aria familiare diventa sempre più misteriosa, cerimoniale, sacrificale. Si insinua il sospetto di un delitto, si dà la caccia al bambino, al suo seme, secondo l’ordine di una fata (una favola, ancora, ansiogena), si esibisce il capino mozzato di un gatto. Un siparietto, che mostra solo le gambe dei personaggi già visti, rivela che l’inserviente nera è la capobanda e mostra gli uomini che torturano la madre. Il contenitore di una pellicola cinematografica guiderà il pubblico nello spostamento nell’altra sala dove, con la voce pomposa dei vecchi documentari, si assiste alla morte di un nugolo di spermatozoi, l’esaurirsi della vita, la caduta, l’inerzia biologica. Poi si apre alla visione un bosco fatto di rami veri, resinosi, buio, notturno, con voci, squarci di pila, di fari, abbaiare di cani, l’inseguimento del bambino, ultima vittima, macchine che passano sullo sfondo, il sacrificio. Dal corpo dell’infante ripiegato sarà tagliata la testa di un gatto… L’innocente, gli innocenti, ancora sacrificati. Il buio nel quale abbiamo cercato di vedere, senza riuscire a impedire la banalità misteriosa, quotidiana, del male. Ritornano, in questa tappa conclusiva, ancora immagini di spettacoli del passato: l’ingrandimento microscopico degli spermatozooi del Combattimento di Tancredi e Clorinda, i semi iscritti nella nostra natura fisica, nella lotta del nascere e del morire; il buio del bosco di Hänsel e Gretel, un riferimento a uno dei lavori più forti del ciclo del Teatro infantile, all’in-fans, colui che non può parlare per dire l’orrore del mondo. La riproduzione, lo scandalo del guardare, dell’esser guardati e duplicati, in pellicola, in foto, in atti che arrestano la contraddizione del vivere e morire. La Tragedia Endogonidia ci lascia questo, insieme ai frammenti dagli spettacoli organizzati nel Ciclo filmico di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti e alla forza propulsiva che produrrà ancora varie “crescite”. Siamo davanti a uno spettacolo aporetico, fatto di anime contraddittorie, che si dissolve e si fissa, che si moltiplica e si ripete, che germina vite, trasformazioni, e genera morte e celebra sacrifici, che tende alla figura in movimento e si chiude in immagini che aprono infinite risonanze dentro lo spettatore, portandolo dalla maledizione dello sguardo, della rappresentazione, alla concentrazione in una poesia difficile, interna, affacciata a esplorare i confini di un mondo in rovina. La percepiamo, alla fine del percorso, come una ricerca-epopea che spinge il teatro oltre i suoi limiti, per farne uno strumento di indagine, che cerca di riformulare quel mondo cogliendone il ritmo oppressivo, mettendo in crisi le apparenze, ridefinendo un’etica possibile attraverso il dolore e la gioia di un’estetica graffiante, rigorosa, inflessibile. Fino a disegnare un atlante dei dolori e degli errori, dell’ambiguità e dell’insondabile, che fa vacillare tutto ciò che sembra definito e spiegato una volta per tutte; un libro-esperienza di creazione di flussi viventi, oltre il senso, più a fondo, più a fondo. ROMEO CASTELLUCCI Il sipario si alzerà su un incendio L’arte contro la comunicazione. Strategie di una fuga, necessaria a sostenere la portata di questa epoca. Contro il paesaggismo imperante nel teatro, creare un vuoto, una fessura nella realtà. In un intervento scritto per il convegno La bellezza necessaria, tenutosi all’Arboreto di Mondaino (RN) il 21 e il 22 maggio, Romeo Castellucci racconta la sua “scrittura” teatrale, contro l’economia dell’immagine, in cerca di rivelazione.5 Uno degli esiti politici del teatro che vedo ora è quello di andare fino in fondo alla propria specificità di linguaggio. Senza timore della incomprensione, della impossibile comunicazione, o traduzione, commento, spiegazione; senza l’ansia di giustificare la propria assenza di discorso e dal discorso in generale; con una strategia attorno alle parole e attorno alle immagini che organizza quella che appare, e quella che è, qualcosa come una nuova realtà. Questo è, in sintesi, il movimento del teatro così come personalmente lo intendo. La velocità del passo, della sua forma diventa una strategia di fuga, necessaria a sostenere la portata di questa epoca. Essere sempre sopra, o sotto, o a destra, o a sinistra dell’oggetto, per divenire il movimento improvviso che, all’ultimo istante, scarta in un’altra direzione - quello scarto che rifiuta la risposta di fronte alla domanda della scena. Non vi può essere risposta a quella domanda, ma la somma algebrica di una domanda posta a un’altra domanda. Creare un vuoto, una fessura nella realtà. Ma una sospensione della realtà la si ottiene solo attraverso una produzione di reale. Il teatro è veramente l’arte che più di ogni altra riesce a rifare concretamente un tipo di realtà: non più come il gioco dei bambini che interrompe temporaneamente le regole mondane, ma come un atto di conoscenza storica che, quelle stesse regole, permanentemente interpreta, giudica e redime; da un altro mondo, da un altro punto di vista; là dove scorre un altro tipo di tempo. Non si tratta più di andare a teatro per confermare la propria conoscenza in merito a un codice da tutti compreso e accettato. Il repertorio, di fatto, si è interrotto sotto i durissimi colpi di Beckett – in seguito, evidentemente, ci sono stati altri scatti, altre grida, ma come fulgide intermittenze destinate rimanere isolati lampi nella notte perchè il filo era già stato spezzato. Non siamo più in grado di riconoscere una scrittura che parli a una comunità formata e in cui tutti ritrovano una conferma, sia pur critica, sullo stato delle cose. Per ora. Occorrerebbe un gigantesco Beckett all’incontrario. Ma, per quanto ne so io, non è ancora nato. Non esiste ancora una drammaturgia che appartenga interamente a questa epoca. La drammaturgia di oggi dovrebbe fare i conti con tutti i linguaggi che la circondano, la sovrastano e la assediano: la pubblicità, la pornografia, la retorica politica, l’immagine televisiva, il cinema, la corrente delle immagini che, in numero incalcolabile, scorre incessantemente nelle vene dell’etere. Questi nuovi parenti, arrivati da poco, conoscono in tutto l’icasticità, l’hybris, l’economia furiosa con cui trattare un’immagine. Al teatro non basterà più un diniego sdegnoso di fronte alla bassezza di queste discipline; non gli basterà più dichiarare la sua antica stirpe di rango superiore per una semplice ragione: non è più vero. Il repertorio è, per definizione, una cosa morta. Pezzi di questo archivio sono spesso utilizzati per il gioco colto del commento e della “riattualizzazione” in chiave contemporanea. Lo studio dei suoi “personaggi” può divenire una infinita, estenuante variazione sul tema. Questa è un’epoca, teatralmente parlando, tra le più conservatrici della storia del teatro occidentale proprio in un momento in cui la posta in gioco si fa davvero alta in tema di 5 L’intervento è pubblicato nel sito www.arboreto.org. immagine. Questa è la ragione per cui, giustamente, il teatro è considerato, a tutt’oggi, un’arte minore. In nessun’altra epoca si è messo in scena così a lungo il teatro del passato così come succede ora nei teatri delle nostre città. Ma non è davvero questo il problema. I paesaggisti sono sempre esistiti e, per quanto mi riguarda, hanno anche loro il diritto di cittadinanza. Io credo che - una volta compreso che il palcoscenico non è più la casa del logos - una possibilità di potenza del teatro possa essere quella di andare al di sotto dell’immagine, là dove non batte mai il sole, al suo volto nascosto; innervarsi in essa per confondersi e lasciarsi trasportare dalla sua corrente. Ogni vera immagine ha una storia e una via da percorrere in una dimensione temporale inconoscibile. Anche il suo punto d’origine e la sua destinazione ci sono precluse. Si tratta di intersecare queste traiettorie misteriose e attraversarle cercando di riportare a casa la pelle. Per questa ragione non si può dire di utilizzare un’immagine. Non si può fare dell’immagine un’economia. Questo lo fanno loro. Per loro l’immagine è univoca e portatrice di un segno, conduttrice di un sentimento perché ciò che trattano è, in realtà un segno, un pezzo staccato di linguaggio. La vera immagine nessuno ancora la conosce. Non c’è nulla di mistico in questo: penso soprattutto a Giacometti che si fermava di fronte al mistero e allo stupore di quello che era sotto i suoi occhi esattamente “in questo momento”, in tutti i momenti della giornata. Parlava della incredibile profondità dello sguardo di fronte a tutte le cose e i mille, diecimila piani di profondità delle cose poste nello spazio “in questo momento”. L’immagine è lì, è sempre stata lì, sempre sotto i nostri occhi. Nelle cose reali, sospendendo la realtà, attraverso il reale di uno sguardo. L’immagine è sempre a fianco delle cose, appena un po’ più in là, fuori fase di quella misura tale per cui, per eccesso di evidenza, noi non riusciamo più a vederla. Mi viene in mente anche la lettera rubata di Poe. Quello che vogliamo vedere non siamo capaci di vederlo perché è esattamente sotto i nostri occhi. Non siamo in grado di vedere il reale della realtà. Artaud diceva che l’uomo deve ancora inventare la realtà. Lì c’è già tutto quello di cui abbiamo bisogno. Lì c’è già un altro mondo, o come artaudianamente diceva S. Paolo: il regno dei cieli è già in mezzo a noi. Questa frase è, a ben vedere, tutt’altro che mistica. Al teatro è chiesto quello che gli appartiene da sempre: affrontare il pericolo di morte della Gorgone dell’immagine. È questa lotta con l’immagine che dà accesso a una immagine. Il pericolo, che invochiamo, è che il suo sguardo si tuffi nelle nostre viscere, che ci possa tirar fuori dalla tana. L’immagine, come suggeriva Deleuze, non appartiene al visivo - perché noi siamo la sua pelle, i suoi muscoli e le sue ossa - ma piuttosto al dominio del tatto. Sguardo aptico. L’inesausta potenza del teatro consiste in ciò che ancora lo distingue da tutte le altre arti, da tutte le altre discipline: essere un al di qua. Il riflesso che specchia e guarda la realtà cambiando punto di vista. Cambiare punto di vista. Lasciarsi vedere eroticamente dalla realtà. Sulla confusione di questo riflesso si gioca il destino del teatro. La confusione su cui corre questo riflesso rimane innominabile, irriducibile. Questo campo irragiungibile dai nomi – non perché mistico, ma perché troppo veloce – è la via di fuga su cui il teatro potrà salvarsi. Io vado in un teatro, pago il biglietto e entro in una sala in mezzo a degli sconosciuti. Tra pochi istanti il sipario si alzerà su un incendio. L’esperienza del teatro credo sia fondata su questo. È l’esperienza intima dello spettatore. Solo la sua. Davvero. Ogni rappresentazione avviene in lui, e non già per lui. La vera rappresentazione nessuna la vede veramente. Gli autori e gli attori non c’entrano nulla. Ritengo chiusa l’epoca dei grandi artisti della scena e dei maestri. Gli artisti non c’entrano più nulla. Allora, se è così, sono una serie di intimità ad essere coinvolte. Se ad essere in gioco è la relazione di quegli spazi vuoti tra una intimità e un’altra, significa che è una comunità quella che viene qui formata; formata idealmente per la prima e ultima volta, nella durata precisa dello spettacolo. Un’ immagine diventa irradiante. Il problema non è più il bello o il brutto, credo, ma l’esatto o il non-esatto. Abbiamo bisogno di una forma esatta, invincibile, che ci trafigga con lo stiletto della precisione. Forse, Massimo, è questa la bellezza di cui parli? Che cos’è questa capacità operante del teatro che ci sorprende? Io entro in un teatro. Può essere un’esperienza sconvolgente per il mio corpo. Deve poter essere senza rimedio. Non c’è più la comunicazione che appartiene al mondo dei segni, ma la rivelazione delle immagini. Gli spettatori andranno a teatro, come individui, davanti a una immagine; pronti a raccogliere, ogni volta, una sfida giocata sul campo dell’estetica che li inerisce fino alla radice dei capelli. C’è una rivelazione. O meglio: è possibile che ci sia una rivelazione. Non c’è nulla da capire: c’è una rivelazione. In quell’attimo immobile e atemporale si è trafitti dallo sguardo trasparente della scena che illumina, solo per un istante, la solitudine dello spettatore. Una solitudine nuovamente anonima e eroica, nuovamente capace di causare un inconcepibile, necessario incontro con se stessi È lo spettacolo che guarda lo spettatore? O forse è lo sguardo dello spettatore che si curva fino a vedere la propria nuca; fino a vedersi, solo e di spalle, nella sala di quel teatro. La persona nuda, sotto lo sguardo di tutti, è proprio lui, lo spettatore. La vergogna, chiamata in causa e essenziale in ogni rappresentazione, è sempre stata la sua. ÁRPÁD SCHILLING MASSIMO MARINO La realtà è uno show di plastica6 La parola è la grande protagonista della scena ungherese. Anche quando si sparano sullo spettatore musiche techno o lo si investe con immagini proiettate. Il biennale Festival di Drammaturgia Contemporanea di Budapest è un buon osservatorio per capire il teatro di questo paese, sospeso fra una solida tradizione di realismo e l’aspirazione a rinnovarsi usando altri linguaggi, ispirandosi a esperienze che vengono da ovest. Nelle ultime edizioni questo festival ha segnalato definitivamente all’attenzione internazionale una giovane coppia di artisti. Si tratta del drammaturgo István Tasnádi, trentun anno, e del regista Árpád Schilling, ventisei. Capaci di rovesciare la realtà, spiazzando lo sguardo dello spettatore. In Pubblic enemy, del 1999, raccontavano il Kohlhaas di Kleist dalla parte dei cavalli dell’eroe, quelli ingiustamente sequestrati dai prepotenti signori, quelli che scatenano la ribellione dell’eroe. Cavalli dotati, nello spettacolo, di cortesia e altre umane qualità, in contrapposizione con la grottesca follia di un mondo umano animalizzato. Il grottesco è una cifra ricorrente non solo nell’opera dei due, ma di molti dei nuovi drammaturghi ungheresi. La realtà è ribaltata, posta in instabile e comico equilibrio sulle mani, da raddrizzare. In Nexxt – Frau Plastic Chicken Show Tasnádi e Schilling ci trascinano in uno studio televisivo, al ritmo di una scatenata orchestrina elettrica, in una scenografia metallica. Un presentatore con la giacca laminata e la gestualità del venditore televisivo di tappeti annuncia che assisteremo a una puntata del grande show di Frau Chicken, la caccia a un serial killer teletrasmessa in diretta, con autorevoli commenti in studio. La presentatrice, con treccine raccolte a crostata sul capo, appare trasportata da un carrello elevatore tra fumi e luci da discoteca. Si pianta a un leggio. La sua immagine, ripresa dal basso, come nel Grande dittatore, viene trasmessa sul grande schermo che chiude la scena. Attenzione - dice - perché il criminale, il pedofilo, il ladro, l’assassino può essere seduto vicino a voi, può essere the nexxt, tuu, tuu, tuu (luci sul pubblico, occhio di bue a scrutare, telecamere che riproducono volti sul grande schermo). Poi il collegamento col ristorante, dove il serial killer tranquillamente cena: un adrenalinico inviato racconta, travestito lo segue, lo intervista, lo 6 L’articolo è apparso in «Art’o - rivista di cultura e politica delle arti sceniche», primavera 2001. placca… In studio, ospite, Alex di Arancia meccanica, opportunamente riabilitato, curato dal virus della violenza, dimesso. Imbarazzato si tormenta le mani: i dettagli vengono ingranditi sullo schermo. Un pestaggio, in studio, di un barbone, Frau Chicken chiede ad Alex di colpire, per verificarne gli istinti. Il suo volto è sofferente… Ma il barbone altri non è che lo psicologo, il vittimologo dello show, che seguirà l’arresto in diretta, che scruterà nel passato e nel presente di Alex. Continua così, con tagli veloci, colpi di scena, stupri a ritmo di balletto, flash back, incursioni nel locale, catture, confessioni, scatenamenti di pulsioni violente, surreali scene splatter, commenti e ingessati dibattiti, seduzioni della conduttrice che si trasforma in sensuale cantante dalle lunghe chiome sciolte o in querula “chi l’ha visto” o “carramba che sorpresa”… Si ascolta anche un canto tradizionale di uno spettatore contadino, un ungherese, di quelli di una volta, in questo mondo americano e plastificato. Fino all’arresto del serial killer, all’arrivo felliniano di un cardinale che scatena una gara di pentimento in cui è in palio la grazia, e poi un’ecatombe finale del killer che sembrava redento, Frau Chicken sgozzata, e la fuga in elicottero del criminale con quella canzone straziante, ungherese, in sottofondo. E in rutilante finalissimo la resurrezione di Frau Chicken che dà appuntamento alla prossima puntata dello show. Un gioco sul mondo della televisione, kitsch, pulp, eccessivo, ma anche molto coraggioso. Capace di mettere gli spettatori al centro di un’alienazione che vivono tutti i giorni, inondandoli con tanti materiali da produrre un inevitabile rigetto. Un effetto simile allo straniamento brechtiano, ottenuto per saturazione, inondazione, superrealtà. In Ungheria la televisione non è ancora così invadente come da noi. Da noi, dominati come siamo dal mezzo catodico, uno spettacolo del genere nessuno lo ha ancora pensato. ALVIS HERMANIS MASSIMO MARINO Dal realismo sociale al reality show7 Come pesci in un acquario: mangiano, guardano la televisione, si muovono, dormono, litigano, reclusi in una casa di plexiglas che sembra uno studio televisivo, scrutati da una telecamera a vista. I dettagli rubati a queste vite trascinate li vediamo ingigantiti su uno dei tre schermi sovrastanti la scena; su un altro gli attori, abbandonati i personaggi, confidano pensieri e smarrimenti, mentre in quello centrale scorrono immagini geometriche, ogni tanto simili a svastiche. By Gorky, presentato al festival modenese organizzato da Emilia Romagna Teatro, è un capolavoro a firma di Alvis Hermanis. Per due ore, in lettone, tiene incollata l’emozione dello spettatore a una struttura complessa che incrocia il realismo sociale e il “grande fratello”, lo sfaldarsi del Novecento e il nostro presente mediatico, immagini video e attori, brani di Nei bassifondi di Maksim Gorkij recitati fuori dalla gabbia trasparente, intorno a un tavolo in proscenio, e lo scorrere di azioni quotidiane. Come in lavori di altri registi quarantenni dei paesi dell’ex impero sovietico, una solida tradizione d’attore si cimenta con i segni più dissonanti della nostra contemporaneità. By Gorky si collega a The long life, un precedente lavoro “realistico” che trattava dell’insopportabile vecchiaia, passato l’anno scorso al festival di Parma. Gorkij nel 1902 cercava di fotografare la miseria della metropoli ai tempi della prima industrializzazione; situazioni e personaggi estratti dal suo testo si sovrappongono ai comportamenti noncuranti, 7 L’articolo è apparso su «Hystrio», n. 1, 2006. Lo spettacolo By Gorky è stato presentato a Modena nell’ottobre 2005 nel corso della rassegna VIE - Scena Contemporanea Festival organizzata da Emilia Romagna Teatro. Questa la scheda: regia di Alvis Hermanis. Scene e costumi di Monika Pormale. Musiche di Armando Strazds. Suono di Andris Jarans. Luci e proiezioni di Oskars Plataiskalns. Con Elita Klavina, Regina Razuma, Mara Kimele, Jana Civzele, Maija Apine, Inge Alsina, Gundars Abolins, Alvis Hermanis, Andris Keiss, Andis Strods, Aleksandrs Radzevics, Monika Pormale, Aivars Krastins, Jevgenijs Isajevs. Prod. New Riga Theatre, Lettonia. solitari, intimamente aggressivi che si sviluppano all’interno della “casa”, sempre sospesi in attesa di un gesto, di un sentimento, di un contatto fra esseri che si incrociano senza riconoscersi, come in una danza di ombre. La molteplicità di piani ci svela qualcosa di bruciante, con momenti di emozione pura, distillati da attori capaci di conquistare con uno sguardo, un movimento, un tono di voce. Gorkij, letto “alla Stanislavskij” quasi come un Cechov socialista, precipita nel tentativo di cogliere la realtà in flagrante di molte avanguardie, si inerpica nella poesia di una danza con un sacchetto di plastica “alla Pina Bausch” o in qualche gruppo vivente “alla Living”, in citazioni di Beckett, del circo, di Beuys, per sfociare nell’iperrealismo del reality show. La vita si rivela un involucro in attesa di una qualche forma di esibizione, un insopportabile “truccarsi l’anima”, un perdersi nella più svagata o rabbiosa finzione che sembra vita di tutti i giorni. Si respira un vuoto pesante, insieme a una disperazione in cerca di un po’ d’amore, o di una speranza, o almeno di una consolazione come quella dell’arte. Intanto qualcuno si accontenta di un karaoke su una nostalgica canzone, o di un energico massaggio sotto le note del Sigfrido di Wagner. Un testo di Alvis Hermanis8 Venezia è una città che, per motivi ovvi, non ha mai ospitato un cavallo. Horatio de Verecol spargeva merda di cavallo nelle piazze di primo mattino (trasportata dalla terra ferma in città non senza difficoltà). Dopodiché, osservava la stupore dei Veneziani e dei turisti che guardavano la merda sui ciottoli di piazza San Marco poi alzavono gli occhi al cielo dove volavano soltanto colombi e aeroplani. L’arte sembra includere la promessa di cambiare il mondo e quindi si potrebbe dire che, tramite il suo vettore, l’arte rappresenti un’attività rivoluzionaria. Logicamente, se si segue questo vettore in maniera consequenziale, l’arte penetra la dimensione la cui definizione più appropriata sarebbe quella del terrorismo. A titolo d’esempio Hacim Bay lo chiama “terrorismo poetico”. Di pari passo la più alta forma di critica d’arte sarebbe un assalto fisico su un oggetto d’arte indesiderato, ovvero la jihad estetica. Come è ben noto il “nuovo ordine mondiale” ha dichiarato il terrorismo suo nemico più grande, e quindi la stessa cosa vale anche per l’arte. Chiaramente stiamo parlando di prodotti d’intrattenimento di massa, perchè l’arte non è una merce di scambio, come tutti cercano di farci capire quasi tutti i giorni. Eppure diventa praticamente impossibile resistere, e tutti noi ci siamo lasciati sedurre dalla pressione pubblicitaria, dai soprusi dei professionisti del marketing, direttori artistici, impresari; abbiamo progressivamente tradito i nostri ideali, ci siamo arruolati nell’esercito degli zombie, ci siamo messi a far il loro gioco. La merda d’artista in scatola si è venduta di recente per 80,000 dollari. Curt Cobain si trova a bordo di un Jumbo Jet personale. Il direttore dell’Istituto di Latvia, il cui compito è di dare lustro all’immagine del suo paese, suggerisce in maniera paterna che il gruppo folk “Ilgi” farebbe meglio a cantare in inglese. Meriterebbe come minimo una torta in faccia per questa sua proposta, ma mi viene il dubbio che se ne vanterebbe, visto che il suo nome si aggiungerebbe all’elenco che include BilI Gates, Milton Friedman, il Principe Carlo d’Inghilterra, Andy Warhol, Silvester Stallone, Oscar de la Renta, Topolino & Co. Ovviamente il terrorismo politico non è un gioco da ragazzi. In Norvegia tre persone sono state arrestate per aver lanciato aeroplani di carta contro l’ambasciata americana. È successo durante i primi giorni di bombardamento dell’Afganistan. Non c’è dubbio che siamo sotto sorveglianza stretta. Le telecamere lavorano sia in senso positivo sia in quello negativo. I centri commerciali in Latvia, che sono diventati il principale spazio d’aggregazione pubblica, sono gestiti da persone che hanno una preparazione teatrale. Ci guardano nei loro monitor e noi siamo tutti attori nel loro film. Poche persone ne sono consapevoli: esiste, però, un piccolo gruppo di artisti che eseguono nel campo di visione di 8 I testi che seguono sono tratti dal sito www.viefestivalmodena.com. una telecamera anonima scene tratte dal teatro di Beckett e Jarry. L’unico spettatore è l’ignoto agente della security. Un membro di un gruppo d’artisti ci racconta: «Nei centri commerciali carichi di telecamere è vietato ai clienti girare un film o fare fotografie. Scelgo un membro del personale e inizio a fargli delle domande. “Che cosa sono quegli aggeggi misteriosi appesi al soffitto? Non sono videocamere? Mi state riprendendo senza il mio consenso?” La commessa s’imbarazza, e viene chiamato l’addetto alla security, che dà delle giustificazioni, dandomi poi del paranoico. Quando dice che solo un ladro ha paura della videocamera, tiro fuori la mia e gliela punto contro.» Il teleschermo a casa mia si è trasformato in macchina di sorveglianza perché non sono io che guardo lo schermo ma lui che guarda me e mi segue. Ad esempio, il telegiornale della sera mantiene l’illusione della democrazia e della scelta politica perché i media lettoni adorano tutto ciò che è americano e i politici lettoni sono ingenuamente orgogliosi di emulare Thatcher e Reagan. L’illusione sta nel fatto che si sa da tempo che l’economia globale ha assunto le funzioni della politica e quindi tutto questo gioco di partiti non è altro che una fiction televisiva. La parola “fiction” sta bene qua perché l’arte è una finta, una parvenza di realtà messa a fuoco per la camera. Il XXI secolo sarà il secolo della manipolazione, e l’arte sarà valutata in funzione della sua capacità d’essere utilizzata come strumento di manipolazione. Molti di noi lo sanno già, ad esempio le accademie d’arte la cui funzione effettiva è diventata quella di preparare periti pubblicitari. Se parliamo di terrorismo poetico come alternativa e precursore di un’arte del futuro, si deve ammettere che, messa così, l’idea suona aggressiva; ma non per questo deve essere violenta. Ci sono eccezioni. Un tizio chiamato Ronald C. Croniack, il quale aveva appena fatto una rapina in banca, si è messo subito a distribuire banconote ai passanti che incontrava per la strada dicendo: «Ho appena fatto una rapina in banca. Buona giornata.» Prima, cioè, dell’arrivo della polizia. Se, durante la Biennale di Venezia, Bill Gates lasciasse cadere da un aereo un milione di dollari lo chiameremmo installation artist o performance artist. (Lo è già da mo’). Perché l’arte deve disseminare non idee e concetti ma gioia. Giusto? E che cosa ci può dare gioia se non il denaro? Tutti i giorni sono in circolazione un miliardo di miliardi di dollari. La civiltà ha trovato finalmente la sua unica religione universale. Finalmente il mondo è unito. Prima c’era l’Età della Pietra, poi l’Età del Bronzo, poi altre Età. Adesso siamo nell’Età del Denaro. La storia è finita. Anche qua a Riga, in Latvia. C’è chi resiste ancora a questo nuovo ordine mondiale, ma vi assicuro che non siamo noi. Ci siamo schierati, furbescamente, dalla parte dei più forti. La guerra è scoppiata anni fa e si svolge oggi tutto attorno a noi: la più fragile delle poesie deve affrontare le armi batteriologiche potentissime “made in Hollywood”. Per quanto elegante sia il nostro ipocrita pattinaggio su ghiaccio, il tempo giunge in cui bisogna fare una scelta. In Uganda, Africa, un cacciatore è stato processato per aver sparato alle scimmie con siringhe cariche di tranquillante. Le scimmie sono state travestite da clown e poi liberate nella giungla. Rimane a noi artisti e performers il compito di mantenere in uno stato di vigilanza lo spirito umano. Un esempio. Il conducente di un autobus a Seattle, R. Wilson, intrattiene i suoi passeggeri raccontando barzellette, aneddoti, e poesie composte a casaccio. All’interno della vettura ha attaccato disegni di visi sorridenti, mentre sotto il sedile sono nascosti dolci e altre delizie. Ci sono peluches per bambini, e assieme agli altri passeggeri canta spesso canzoni, tra cui quella più amata recita: «Ride, ride, ride the bus / Gently down the street.» Malgrado tutto, si verificano malintesi. Ad esempio a Londra, durante una processione per le strade, alcuni ragazzi che si trovavano nei paraggi, hanno circondato l’attore che interpretava la parte di Gesù, e hanno sciolto le corde che lo legavano alla croce, liberandolo. «Su! Corri! Corri! Ti copriamo noi.» ALBERTO DI GENNARO realtà+attore=fantasia. Conversazione con Alvis Hermanis9 Iniziamo dal pubblico dei suoi spettacoli... Ho paura di essere identificato con qualcosa fuori di me, oppure d’essere etichettato e rimanere per sempre legato a un giudizio irrevocabile. Quando si diventa rigidi come statue, cadere è pericoloso: rimangono solo frantumi, tutto ciò che di bello esisteva si polverizza in un istante. Se il mio nome rimane impigliato a ciò che di buono faccio ora, non ci sarebbe più ragione di continuare. Non voglio che gli spettatori vengano ai miei spettacoli solo perché ne ho fatti di buoni prima. Ripensa oggi alle sue prime esperienze teatrali quando l’urgenza di fare teatro era diversa? In generale non mi interessa quello che è già compiuto, quello che ho fatto in passato. Sono invece proiettato verso lo spettacolo che devo fare. Verso qualcosa che non conosco in anticipo. Le mie scelte vanno sempre ad indagare quello che ignoro, così trovo il modo d’imparare. Mi pare triste trovare finalmente il proprio stile, un’unica via da seguire per tutta la vita. Nel periodo cruciale per la Lettonia, tra il ’90 e il ’92, mi trovavo a New York. Al tempo, non credevo che la liberazione della propria nazione potesse essere più importante della libertà individuale. Dovevo prima di tutto aprirmi dall’interno ed esplorare e liberarmi. Più tardi ho capito che il punto sulla carta geografica dove mi trovavo, non aveva alcuna importanza e incidenza. Quindi, sono tornato. Crede ad un teatro con una funzione anche politica? Per me il teatro è senza funzione, nel senso che non si può usarlo come strumento. Tanto più se politico. C’era forse un senso quando l’opposizione andava fatta, con tutte le forze, contro un regime che controllava le idee. Ma ora la Lettonia è un paese indipendente e in piena crescita, Ci sono dei “giochi” economici che accadono ancora, ma è una situazione comune in molti altri luoghi. L’arte deve spostare la propria attenzione verso la realtà. Nel senso di guardare o nel senso di resistere? Oggi, la resistenza non è da intendersi in senso politico. Si deve resistere e reagire agli ostacoli che minacciano il proprio lavoro. Qualsiasi ostacolo. L’arte è il mio lavoro, ma è anche uno specchio di come sono dentro. Se qualcosa ostacola il tuo lavoro, sei tu come persona che devi rispondere. Si parla oggi, anche nel campo dell’arte visiva, nel cinema, di “nuovo realismo”... A mio avviso, la storia di ogni persona che si incontra per strada è molto più importante di tutte le opere di Shakespeare messe assieme. Il tema che mi ha sempre interessato è la ricerca della libertà individuale. E questo è connesso inevitabilmente alla realtà, a quello che ci succede ogni giorno, ad una realtà non spettacolare. Potremmo intendere l’arte come un’attività rivoluzionaria? Sì, certo. L’arte include la promessa di cambiare il mondo. Al limite potremmo trattarla come un’attività terroristica. Hakim Bey parla di “terrorismo poetico”. Ma il terrorismo culturale a scopo, direi, umanitario, non è privo di rischi: qui a Riga sono state arrestate tre persone che hanno fatto volare degli aerei di carta “contro” l’ambasciata degli Stati Uniti, quando sono cominciati i bombardamenti in Afghanistan... 9 Pubblicato in «Teatro/PUBBLICO», aprile-maggio, 9. E quanto invece di “disumano”, nel senso di tecnologico, nuovi media, linguaggi virtuali c’è nell’ambito della sua ricerca teatrale? Non ho il cellulare e il mio segretario è il portiere di questo teatro. Ma, a parte questa nota, il teatro è l’unica forma d’arte che non può essere riprodotta o prestata in maniera indiretta, quindi non mi sembra così importante, almeno per il teatro, che viviamo oggi in un’era elettronica. Comunque si confronta con i nuovi media. In uno degli ultimi spettacoli, Tâlâk (By Gorky), metà del boccascena è coperto da un lungo schermo, su cui vengono proiettate immagini d’interviste e immagini riprese in diretta sulla scena... Sì. Ma come ho detto non seguo uno stile collaudato e congelato; in modo che tutto possa accadere. E come immagina si svilupperà il teatro? Sono quasi sicuro che il teatro perderà completamente la funzione di procurare divertimento. È chiaro che se qualcuno vuole divertirsi, il teatro sarà l’ultimo posto dove pensa di andare. Ma con questo non intendo che il teatro sia un’attività esclusivamente intellettuale. Cosa pensa dell’attore e come lavorate in rapporto alla realtà? Un giorno scrissi: A+B=C ovvero Realtà+attore=fantasia. La fantasia non si genera per caso, ma deve essere stimolata con costanza, continuando a provare con il proprio corpo e la propria mente. Se un attore non sale sul palco almeno quattro o cinque volte alla settimana, non può pretendere di diventare un buon attore. Il teatro è una professione che funziona come molte altre. Io cerco di far rispettare una disciplina e credo sia doveroso prendere seriamente la nostra attività. Non solo per essere credibili. Ma, pensando a Tâlâk (By Gorky), non si percepisce un senso di ordine sulla scena... Infatti quello che lo spettatore vede sul palco è la fantasia. Il teatro è la fantasia secondo cui la realtà si rigenera attraverso il lavoro dell’attore. Biografie Alvis Hermanis nasce a Riga, Lettonia, nel 1965. Cresciuto come attore presso il dipartimento di teatro del Conservatorio statale nella città di Riga, ne ottiene il diploma nel 1988. Inizia la sua carriera nell’ambito del teatro e del cinema come attore. Dal 1993 lavora al New Riga Theatre e fra il 1997 e il 1999 ricopre l’incarico di sovrintendente e direttore artistico. In seguito, da allora si concentra su quest’ultimo ruolo. Al New Riga Theatre ha messo in scena più di venti produzioni - di alcune delle quali è stato anche interprete e scenografo. Alcune sono state realizzate su drammaturgie originali che portano la sua firma, o da suoi adattamenti di opere in prosa, come Conversazioni sull’amore di Stendhal o Il ritratto di Dorian Gray di Wilde. Fra gli spettacoli messi in scena da Hermanis L’ispettore (Gogol), Il Gabbiano (Chekov), Mio povero Marat (Arbusow), La Città (Grischkowez), Bungee Jumping (Tätte), Arcadia (Stoppard), La Malattia della Morte (Duras) e Il Marchese de Sade (Mishima). Numerose produzioni hanno attraversato i palcoscenici d’Europa e sono state ospitate e premiate da festival internazionali in Lituania, Estonia, Polonia, Russia, USA, Canada, Austria, Germania, Slovenia, Finlandia, Belgio. Al Festival di Salisburgo 2003 Hermanis ha ricevuto il premio alla regia Montblanc young directors project (la penna “Max Reinhardt”). Ha lavorato inoltre come direttore a Tallin e al Teatro dell’Opera di Riga. New Riga Theatre (Jaunais Rigas Teatris) è un teatro professionale di repertorio votato all’innovazione, in sintonia con le esigenze dello spettatore attento al contemporaneo sia per contenuti che per forme di spettacolo. I principi dell’impegno artistico del NRT sono semplici: la ricerca di un’alta qualità professionale, estetica ed etica. Il teatro ha un repertorio acuto e brillante di alta qualità, focalizzato su un pubblico moderno, istruito e socialmente attivo. Nel 1997 il direttore artistico Alvis Hermanis ha assunto la guida del teatro. Si è formato un nuovo nucleo artistico di diciassette attori, in Lettonia i più accreditati professionisti della loro generazione. Nonostante sia un teatro statale, il New Riga Theatre conserva lo spirito e il metodo di lavoro di un teatro studio rivolto costantemente ai principi di un’arte non commerciale.