HUGO METTE IN SCENA “HERNANI”1 di Elena Randi Come di prassi, la distribuzione delle parti di Hernani è compiuta dall’autore ed è ancora lui, Victor Hugo, a guidare le prove, iniziate il 6 dicembre 1829, come dimostrano diversi documenti, a partire dai Mémoires di Dumas, che ai difficili rapporti fra il drammaturgo e gli attori dedica pagine citatissime. Per esempio, quelle relative alle continue richieste di Mlle Mars, cui è affidato il personaggio di Doña Sol, affinché Hugo cambi le battute che non la soddisfano. Il primo compito del giovane ma già illustre scrittore alle répétitions, dunque, concerne la guida degli interpreti. In effetti, la persona a cui essi si rivolgono quando sorge qualche problema e che deve dire l’ultima parola nel corso della preparazione dello spettacolo è l’autore, costantemente presente e attento, come Hugo vuole che sia e come afferma in modo piuttosto esplicito in una nota alla prima edizione: Shakspeare, par bouche de Hamlet, donne aux comédiens des conseils qui prouvent que ce grand poète était aussi un grand comédien. Molière, comédien comme Shakspeare et non moins admirable poète, indique en maint endroit de quelle façon il comprend que ses pièces soient jouées. Beaumarchais, qui n’est pas indigne d’être cité après de si grands noms, se complaît également à ces détails minutieux qui guident et conseillent l’acteur dans la manière de composer un rôle. Ces exemples, donnés par les maîtres de l’art, nous paraissent bons à suivre, et nous croyons que rien n’est plus utile à l’acteur que les explications, bonnes ou mauvaises, vraies ou fausses, du poète. C’était l’avis de Talma, c’est le nôtre. Hugo alle prove non solo pone attenzione alla corretta memorizzazione delle battute da parte degli attori, ma anche si cura che ne colgano le intenzioni secondo il suo punto di vista. Come dimostrano l’autografo e il manuscrit du souffleur (entrambi ancora esistenti), nel corso delle répétitions e poi anche delle repliche, il testo viene ampiamente modificato. Esaminando il copione, si nota che si operano anzitutto modifiche di tipo stilistico e aggiustamenti delle soluzioni poco credibili. Le prove rendono evidente inoltre l’eccessiva ampiezza di alcune parti di Hernani rispetto ad altre. Soprattutto lo spartito verbale di Doña Sol risulta contenuto in confronto a quello di alcuni personaggi maschili, ai quali risponde sempre in modo stringato, se si eccettua il caso della scena del secondo atto in cui si oppone a Don Carlos. Mlle Mars protesta, e Hugo non resta insensibile. Durante il lavoro a teatro, infatti, cerca di aggiungerle alcuni versi, ma per lo più ne riequilibra la parte mediante tagli (per la verità abbastanza modesti) delle battute di Firmin-Hernani. Evidentemente scottato dalle vicende censorie di Marion de Lorme, Hugo in sede di prove viene colto da timori d’ordine politico e problematici gli appaiono anche i passaggi in cui si realizza un mescolamento di piani alti e bassi, elevati e grotteschi. Se spesso Hugo resiste alle pressioni esterne e ai propri dubbi “autocensori”, in certi casi cede, altre volte, invece, prima opta per la soluzione più “morbida”, poi ci ripensa e ripristina l’originale. Più guardingo appare nelle frasi che potevano suonare blasfeme. Non ci sembra condivisibile l’idea di John Janc secondo cui la versione della prima edizione, pubblicata poco dopo il debutto alla Comédie - e dunque anche le versioni delle 1 L’intervento è pensato per essere proposto al convegno parigino Avènement de la mise en scène moderne / Crise du drame ed è qui offerto nella forma breve e discorsiva suggerita dal fine a cui è destinato. Mancano dunque anche le note. Mi perdoneranno i molti verso i quali sono debitrice, e che si troveranno debitamente citati nel più ampio scritto sulla prima rappresentazione di Hernani, che sarà pubblicato nel mio volume dedicato a sei “prime” date alla Comédie-Française tra 1829 e 1837, volume la cui uscita è prevista per il mese di aprile per i tipi di Pagina. www.turindamsreview.unito.it successive “edizioni” Barba del 1830, in quanto sostanzialmente ristampe, come dimostra Flavien Michaux - non corrisponderebbe ai desideri di Hugo, affermazione che metterebbe in dubbio la soddisfazione dell’autore anche nei confronti della lezione del copione e di conseguenza il suo potere decisionale in sede di prove, data l’estrema somiglianza della versione corretta del manuscrit du souffleur con la princeps. La tesi di Janc è basata presumibilmente su quanto scrive il drammaturgo in una nota datata 1836, stesa in occasione di una nuova edizione di Hernani. Per intenderla occorre premettere che il testo del 1836 ripristina alcuni passaggi obbedendo alla redazione dell’autografo. In questa nota Hugo fa credere di aver ristabilito in buona parte l’originale nell’edizione del 1836, aggiungendo che nella prima edizione (del 1830) aveva dovuto proporre una lezione del testo di Hernani che apprezzava poco, vale a dire quella per la rappresentazione. L’articolatissimo esame dei diversi strati “archeologici” delle molteplici correzioni compiuto da Evelyn Blewer sul copione di Hernani dimostra che la partitura scritta con cui Hugo si presenta alla prima lettura agli attori non permane per nulla immutata, ma le modifiche introdotte per la scena (e mantenute per lo più nella princeps) non sono il frutto di semplici battibecchi con gli attori – la Mars in primis –, ma di ripensamenti, incertezze, revisioni di Hugo soprattutto. In altre parole, l’esperienza in scena – acquisita attraverso le insistenze e le obiezioni, talvolta giustificate e condivisibili, degli interpreti, ma anche secondo varie altre modalità – mette in luce incongruenze, rischi, difetti stilistici, ed il giovane scrittore-allestitore è pronto ad attuare le modifiche utili all’opera, facendo tesoro di questa spesso snervante attività. Egli lavora come un apprendista-metteur en scène che non ha ancora molta esperienza del teatro e vuole imparare e che dunque mantiene una notevole elasticità e disponibilità alle rettifiche anche testuali, restando, però, padrone del gioco. Forse effettivamente avrebbe preferito non dover cassare o ritoccare alcuni passi del dramma per la rappresentazione, ma quando ciò avviene, a parte per i casi di censura, si verifica per una sua scelta, sulla base delle motivazioni a cui si è rapidamente accennato. Uomo di polso e dotato di potere e prestigio, insomma, può permettersi di interdire agli interpreti modifiche senza la sua approvazione, non acconsentendo a cedere ai capricci, alle vanità e alla volontà di emergere spesso da loro manifestati. Il veto imposto agli attori è sostenuto dalla normativa di legge. I drammaturghi che aspirino a rappresentare una loro pièce devono infatti proporla ad un teatro, il quale può rifiutarla, accettarla com’è, o chiederne modifiche. Una volta attuate le correzioni e accolto il lavoro, «non è più in potere» del teatro «esigere dagli autori alcuna correzione», a meno che questi non diano il beneplacito. Checché Hugo faccia credere nella nota del 1836, oltretutto, moltissime correzioni compiute in sede di prove o anche a seguito delle prime rappresentazioni permangono nelle edizioni successive alla prima, compresa quella del 1836, a dimostrazione che molta parte del prodotto testuale suggerito dal lavoro a teatro lo soddisfa più di quello realizzato “a tavolino”. E ciò può essere confermato da un’ulteriore considerazione. Quando Hugo nel 1830 firma il contratto di edizione con Mame, gli consegna una copia dell’autografo (evidentemente la sola disponibile subito) per approntare rapidamente l’atto d’esordio. Ma non appena riesce ad avere una trascrizione del copione, passa quella all’editore, affinché su quella siano stampati gli ultimi quattro atti, circostanza già di per sé indicativa del valore riconosciuto da Hugo alle correzioni (o a molte correzioni) intervenute in sede di elaborazione della messinscena. Ciò non significa, come si è capito, che egli valuti come perfetta la redazione per la rappresentazione. Per procedere speditamente alla pubblicazione e quindi vendere più copie sull’onda del clamore suscitato da Hernani a teatro, l’autore non può creare una versione “ideale”, ma, dovendo scegliere tra il manoscritto originario e quello per il suggeritore, opta per quest’ultimo. Studiando i manoscritti delle pièces di Hugo realizzati prima della composizione del copione si scopre che un gran numero di direttive sceniche figura sin dall’abbozzo: al www.turindamsreview.unito.it momento della stesura di un dramma, dunque, pensa già, esattamente come Vigny o Dumas père (ma anche, per esempio, come Diderot), alla rappresentazione. Anne Ubersfeld rileva, più precisamente, che nello stendere il testo Hugo immagina come le situazioni possano offrirsi visivamente. L’analisi sin qui proposta conduce ad alcune deduzioni. Il fatto che Hugo preferisca per la maggior parte le scelte compiute per la scena a quelle pensate “a tavolino” e che anzi aggiunga didascalie per la prima edizione per suggerire al lettore ciò che lo spettatore vede a teatro e infine la certezza che nel comporre l’opera allo scrittoio Hugo già immagini le soluzioni visive per lo spettacolo, tutti questi elementi inducono a ritenere che la creazione per così dire completa, esaustiva, ideale, non sia quella realizzata sulla carta, ma quella offerta a teatro, di cui la partitura scritta è solo una debole eco, una parte incompleta e lacunosa. Che il testo, in altre parole, sia considerato da Hugo solo l’embrione della “vera” creazione, costituita dalla scrittura scenica. Nel contempo, la constatazione che la versione per la stampa non sia uguale in tutto e per tutto alla lezione del copione ma contempli soluzioni talvolta differenti prova che le due aree sono distinte e non sovrapponibili: Hugo ha la consapevolezza che il tipo di fruizione è diverso e richiede dunque talvolta soluzioni diverse. Il suo essere il drammaturgo oltre che l’allestitore non significa affatto, a mio parere, che veda il risultato in cartaceo come ideale. L’allestimento di Hernani, come altri d’epoca romantica (di certo quelli di Vigny e di Dumas père), non risponde a criteri di “meccanico” coordinamento dei vari coefficienti spettacolari, non è la “messa in azione” o la semplice “traduzione visibile e udibile” di una partitura drammaturgica, unico elemento composto secondo un intento scientemente creativo, ma, invece, risponde ad una motivazione d’ordine propriamente estetico. Certamente la prima elaborazione dell’opera avviene a tavolino, ma già questa fase iniziale è pensata in funzione della scena e poi quel prodotto viene sensibilmente modificato durante il lavoro a teatro, sicché si può affermare che il testo è il pre-testo di una creazione futura o il post-testo di un evento pre-esistito. La tesi è confermata dall’analisi dell’allestimento, che, esattamente come si può ripetere per altre messinscene hugoliane, ritengo coordinato in tutti i suoi coefficienti da Hugo, il quale dirige gli attori, discute con gli scenografi le scelte relative ai décors (come indizi quasi indubitabili rivelano), con i costumisti le fogge degli abiti da confezionare (al proposito si conservano preziose indicazioni di mano di Hugo), si occupa delle luci (come testimoniano le didascalie di Hernani). Si deve dunque ritenere che l’autore faccia proprie e metta in atto le enunciazioni offerte da Pixérécourt nelle Dernières réflexions sur le Mélodrame (e da Pixérécourt concretamente osservate per anni, ben prima della messinscena di Hernani), secondo il quale una mente super partes, incarnata dal drammaturgo, deve presiedere all’allestimento nelle sue diverse componenti. Che si tratti di una prassi diffusa alla Comédie è provato da una quantità di fonti assai consistente: ricordi di direttori di scena, di régisseurs, attori e drammaturghi, trattati di legislazione del teatro, manuali del suggeritore, ecc. E che sia possibile concepire e realizzare uno spettacolo prodotto secondo precisi criteri estetici lo confermano varie circostanze, anzitutto la durata, assai prolungata delle prove (nel caso di Hernani, due mesi e mezzo, o due nel caso in cui siano state sospese per il periodo natalizio, un tempo del tutto usuale per l’epoca, quanto meno alla Comédie). È evidente che l’accuratezza nell’analisi testuale, nella resa delle intenzioni da parte degli attori, nella creazione delle scenografie e dei costumi dipende in primo luogo dal tempo a disposizione. La possibilità di costruire uno spettacolo unitariamente concepito è ribadita anche dalla conformazione stabile della compagnia, che può contare su un gruppo di artisti affiatati in quanto lavorano assieme da anni e che non è soggetta alla necessità delle tournées (come accade a molte altre compagnie europee) e dunque può permettersi di creare scenografie, costumi, luci ad hoc. www.turindamsreview.unito.it La macchina scenica a cui per la prima volta assiste il pubblico della Comédie la sera del 25 febbraio 1830, si snoda, a mio parere, attorno ad un filo rosso costituito dal percorso speculare compiuto da Hernani e da Don Carlos, sino al quarto atto proposti come le due facce, sostanzialmente antitetiche, di una stessa figura mitica: Don Giovanni. Propongo solo le conclusioni del mio studio. Per la dimostrazione, rimando al volume in corso di pubblicazione citato in nota. Nei primi tre atti si è in presenza di un Don Giovanni, già seduttore incallito, intento a possedere una fanciulla che non ama, ed incarnato dal re Don Carlos; nel quarto atto, il re acquisisce il nuovo statuto di imperatore, che lo modifica anche sotto il profilo comportamentale (in quella sorta di grembo materno costituito dal sotterraneo in cui giace Carlo Magno, Don Carlos nasce ad una nuova vita, contraddistinta da un carattere sacro). Il ruolo dismesso nel quarto atto da Don Giovanni-Carlos viene assunto da Hernani, che non a caso nello stesso momento riacquisisce il proprio nome e i propri titoli, e il suo nuovo nome è proprio Don Juan. Ma questo Don Giovanni redivivo accoglie le sembianze dei Don Juan romantici (a partire dalla figura concepita da Hoffmann), caratterizzati dalla capacità di innamorarsi e di convertirsi. Nel conclusivo quinto atto si svolge una situazione simile a quella con cui spesso si chiudono le commedie dongiovannee con la tipica apparizione della statua del Commendatore, incarnata da Ruy Gomez, cui spettano alcune peculiarità emblematiche: d’essere vecchio, di essere un alter ego del padre per la fanciulla sedotta, di essere identificato con la Morte, di essere scambiato per una statua, ecc. È proprio dalle scelte sceniche compiute da Hugo che questo percorso risulta particolarmente evidente. Mi soffermo solo su un paio d’esse. Vediamo, in particolare, alcune delle strategie impiegate per segnalare la gemellarità di Hernani e Don Carlos, presupposto, questo, indispensabile ad esprimere il loro essere un’unica figura distribuita in due personaggi. Sin dal loro primo ingresso si ingenera l’idea dei due uomini come doppi l’uno dell’altro, visto che entrambi, come recitano le didascalie, entrano illecitamente nella stanza di Doña Sol con mantello e cappello a coprire il volto. Fra l’altro, nel secondo atto Hernani salva la vita al re regalandogli e facendogli indossare il proprio mantello e così consentendogli di non essere notato dai fuorilegge e di passare indenne attraverso le schiere ai comandi di Hernani, uno scambio di vestito che segnala la con-fusione tra i due. La prossimità dei due è ribadita dai loro ingressi in quasi tutti gli atti. Nel secondo Don Carlos arriva nell’ombra sotto la casa di Doña Sol e, dopo avere aspettato qualche tempo, la chiama facendosi credere Hernani e la agguanta. Poco dopo, a sorpresa, sopraggiunge nello stesso luogo al buio Hernani che, immediatamente, gli strappa Doña Sol. Anche l’entrata del terzo atto è speculare: prima Hernani bussa al castello di Ruy Gomez e, dopo una certa attesa, gli viene aperto, poi alla stessa dimora bussa Don Carlos, che deve attendere qualche tempo prima d’essere accolto. Nel quarto atto, scendendo dalla maestosa gradinata centrale, arriva il sovrano, che poi si nasconde al buio nella tomba di Carlo Magno; successivamente attraversa la stessa scala Hernani, e giunge nei medesimi sepolcri. È come se i due fossero legati da un eguale progetto e fossero destinati a percorrere le stesse vie, sottolineate dai loro spostamenti in scena. Solo una volta che Don Carlos è diventato imperatore, sul finire del quarto atto, le strade dei due personaggi si separano. La scenografia (in parte realizzata ex novo da Ciceri e ricostruibile grazie al prezioso lavoro di Barry Daniels) in cui si colloca la separazione merita di essere almeno rapidamente segnalata. Raffigurante la maestosa cripta di Aix-la-Chapelle in cui è sepolto Carlo Magno, è un imponente monumento, dominato da una grandiosa scalinata centrale tridimensionale e praticabile, dalla quale sembra si dipartano due loggiati altrettanto praticabili, struttura che consente agli interpreti di agire su diverse altezze. Dal livello del palcoscenico, verso il fondo, due scale laterali più piccole sprofondano nelle cavità più remote della cripta, soluzione resa possibile dall’apertura di botole nel pavimento. Non se ne vede la base, poiché vanno immergendosi nell’ombra sempre più profonda. www.turindamsreview.unito.it Il suo riprodurre le cavità sotterranee, poi, induce a pensare ad una natura intima, segreta, profonda del luogo, ad una specie di grembo materno. Questo “utero” partorisce il nuovo imperatore, nel senso che, mentre è lì, il re Don Carlos viene eletto imperatore, e lo stesso interno “mette al mondo” Don Juan, in quanto nello specifico ambiente il neo-imperatore restituisce ad Hernani l’antico nome (Don Juan, appunto) e i titoli nobiliari. Sicché la catacomba è nel contempo spazio di accoglienza della morte (del passato imperatore, del re Don Carlos e di Hernani), ricettacolo luttuoso, ed è anche sede di rinascita ad una nuova vita. Vita e morte, dunque, secondo i criteri della poetica del grottesco cara a Hugo e nella prefazione al Cromwell esplicitamente connessa al mito dongiovanneo, convivono nel territorio sotterraneo descritto, peraltro per nulla sobrio o modesto, ma, al contrario, maestoso, solenne, importante, luogo di nascite e dipartite ragguardevoli e sacre. Altrettanto studiate da Hugo appaiono le scelte relative a gesti e intonazioni vocali degli attori diversi da Firmin (Hernani) e da Micheot (Don Carlos) e dei cento figuranti, alle quattro scenografie non descritte, ai costumi e alle luci. Da un’analisi piuttosto puntuale, consentita dalla mole di fonti a cui attingere (copione, recensioni, bozzetti di scenografie, figurini di costumi, memorie, didascalie rispondenti alla concreta messinscena, ecc.), sembra indubbio che nella costruzione dello spettacolo sia presente un’acuta mente ordinatrice (quella di Hugo) che, al modo del regista, si occupa di rendere la propria visione estetica, sorvegliando le soluzioni relative agli elementi attorici, costumistici, scenografici, luministici e sonori di dettaglio, e controllando l’erezione di un edificio scenico solido e ben organizzato, in cui ciascun particolare rientri in modo coerente, in cui, cioè, ogni elemento sia una parte coesa con il tutto e ad esso amalgamata. www.turindamsreview.unito.it