INDIA, ELEFANTI E COLORI.
ETIMOLOGIE E SIMBOLI PER UN’IPOTESI DI RICOSTRUZIONE
CULTURALE
SANDRA GRACCI
1.0 Introduzione
Il colore è un tratto distintivo importante nella classificazione e
nella denominazione dell’elefante in tamil e sanscrito: un gruppo
abbastanza cospicuo di nomi che designano l’elefante ruota attorno a
questo sema lessicogeno. Gli elefanti sono generalmente associati al
colore scuro1; ci sono poi gli elefanti bianchi, albini maculati di bianco
o di rosa, il cui esempio più noto è Airāvata, cavalcatura di Indra.
Tre sono i colori ricorrenti nelle denominazioni dell’elefante:
·
Nero: il nero è, fra i colori, quello maggiormente utilizzato nei
processi onomastici, è infatti il colore tipico della pelle
dell’elefante. Fra le sue qualità generali, individuate dal MÛgaPak·i-ŚŒstram, il più antico trattato nel mondo sugli animali di
1
Le distinzioni dei colori in tamil non sono precise né ben definite. Sotto la
denominazione di ‘nero’, ad esempio, rientra un’ampia gamma di sfumature del
colore scuro in generale, dal vero e proprio nero, al blu scuro, al marrone scuro. E lo
stesso vale per gli altri colori in tamil come in sanscrito, dove l’opposizione
fondamentale che li distingueva era “lightness / darkness” (Sivapriyananda 1988:
33). Non è mai chiaro, dunque, se parole come kÛ·öa, nīla, asita, śyāma, kāla si
riferiscano al nero, al blu scuro, al grigio o al verde scuro; e se parole come pāö¶u,
pāö¶ura, gaura significhino bianco, giallo pallido o rosa.
terra e di cielo2, c’è proprio quella di avere corpo nero (Thaker
1994: 120).
·
Rosso: il rosso fa riferimento alla colorazione della pelle
dell’elefante, che, in particolar modo sul muso, si tinge di
chiazze marroncine, o anche alla particolare usanza di
dipingere gli elefanti per portarli nelle feste e nelle processioni.
Ed ancora il rosso, o forse meglio il color rame, potrebbe
essere distintivo di una particolare specie. Lo dimostrerebbe ta.
tāmirakaruöi ‘elefante femmina dell’ovest’, ma letteralmente
‘colei fornita di orecchie color rame’ in quanto prestito dal
sscr. tāmra-karöī, dove il primo termine è l’aggettivo tāmrá
‘rosso scuro, color rame’ e il secondo è la forma derivata in –
in dal sostantivo karöa ‘orecchio’ (TL, p. 1838).
·
Bianco: il bianco è sicuramente il colore distintivo della razza
albina. Per essa abbiamo il termine specifico di ‘elefante
bianco’: ta. veÂÂuvā (dalla radice ta. ve ‘essere chiaro’).
Nella Mātaºgalīlā ‘Il trattato scherzoso sugli elefanti’3 (VIII,
15), NīlakaöÊha spiega che i colori degli elefanti sono quattro: bruno
2
L’Istituto Orientale di Vadodara possiede un manoscritto di questo interessante
trattato composto da un autore Jaina di nome Haµsadeva, probabilmente nel
tredicesimo secolo d.C. La biblioteca universitaria dell’Università di Baroda,
Vadodara possiede anche una copia della traduzione inglese del trattato, tradotto da
M. Sundaracharya e pubblicato da V. Krishnaswami a Kalahasti nel 1927. I
riferimenti al testo, riportati qui e nei successivi paragrafi, sono tratti da un articolo
di Thaker (1994), in cui sono tradotti alcuni brani del trattato.
3
La Mātaºgalīlā, la migliore opera sanscrita disponibile sulla scienza degli elefanti,
è un breve trattato in 263 stanze, diviso in dodici capitoli di diversa lunghezza. Non
si possiedono notizie né sulla vita di NīlakaöÊha, l’autore del trattato, né sulla data di
278
fulvo, giallo, nero e bianco; essi sono rispettivamente prodotti dal
sangue mescolato con la bile, dal sangue mescolato con la flemma,
dalla bile e dalla flemma e somigliano al colore della coda del pavone
il bruno fulvo, al colore dell’oro il giallo, al colore delle nuvole il nero
e al colore della luce lunare il bianco. Ma tra questi soltanto l’elefante
nero esiste sulla terra; gli altri tre vivono nel mondo celeste.
1.1 “Elefanti neri”
Analizziamo innanzitutto alcune denominazioni dell’elefante
che hanno come sema lessicogeno il nero:
§
ta. kaÂapam 1. ‘giovane elefante’, 2. ‘elefante’: può essere
derivato da ta. kaÂam che significa 1. ‘nerezza, colore nero’, 2.
‘nuvola’ e che il TL (p. 812) spiega come prestito dal sscr. kŒla
‘nero, di colore nero, blu-nero’. Non è tuttavia semplice
spiegare il significato del restante –pam. Se il termine fosse
connesso a sscr. karabha ‘cammello’, ‘giovane cammello’,
‘giovane elefante’, alternante con kalabha ‘giovane elefante’,
si potrebbe ipotizzare un legame tra il suffisso ta. –pam e il
suffisso sscr. –bha. Quest’ultimo è stato spiegato dal KEWA
(p. 165, s.v. karabhaú) come suffisso indoeuropeo usato nella
formazione dei nomi di animali (cfr. gr. φος)4.
composizione dell’opera. Non avendo la possibilità di consultare direttamente il
testo, ho tratto la notizia da Edgerton (1985: 76-77) che ha interamente tradotto il
trattato. Un’altra traduzione, in tedesco, del trattato è quella di Zimmer (1979).
4
Brugmann (Grundriss: 386-390) sostiene che il suffisso –bho- / -bhŒ- compare in
alcuni aggettivi, soprattutto nomi di colore, e in alcuni sostantivi, soprattutto nomi di
animali. Lo studioso propone come probabile origine la forma verbale antico
indiana, bhŒ-ti ‘sembra, appare’, ipotizzando che l’uso del suffisso –bho- abbia
279
§
ta. karamai ‘elefante’, ta. kari ‘elefante’, ta. karumŒ 1. ‘maiale
selvatico’, 2. ‘elefante’, ta. karēöu 1. ‘elefante femmina’, 2.
‘elefante’, ta. kariöi 1. ‘elefante femmina’, 2. ‘elefante’:
termini
dalla
difficile
spiegazione
etimologica,
molto
probabilmente connessi alla parola ta. karumai (karu-mai), che
significa ‘nerezza, colore nero’, ‘grandezza, eccellenza’,
‘vigore, forza’, ‘vivacità’, ‘severità, crudeltà’, e che deriva da
una radice ta. kar- unita al suffisso –mai che esprime qualità
astratta o condizione (TL, p. 3367).
Analizziamo anche il termine ta. mŒ che, designando tre concetti
diversi, ma strettamente correlati l’uno all’altro, lega in modo
inequivocabile l’elefante al nero. I significati di ta. mā sono:
1) ‘animale,
bestia
(specialmente
riferito
al
cavallo
e
all’elefante)’ (DEDR 3917, ta. mā÷ ‘cervo, bestia’, ma. mā÷
‘cervo’, te. māvu ‘cavallo’, kol. māg ‘cervo’, kur. māk
‘antilope, cervo rosso’). Nelle varie lingue, dunque, il termine
si specializza a designare alcune specie zoologiche, e infatti il
TL (pp. 3141-3142) riporta oltre al suddetto significato, anche
quello di ‘cavallo’, ‘elefante’, ‘maschio di cavallo, maiale
selvatico, elefante’;
2) ‘nero, nerezza’ (DEDR 3918, ta. mŒ ‘nero’, mŒmai ‘nerezza’,
mŒci ‘nuvola’, mŒcu ‘nerezza, nuvola’, mŒyam ‘nerezza’,
avuto origine in nomi di animali derivati da nomi di colori e dal significato di ‘X
sembra del colore Y’.
280
mŒyava÷ ‘Vi·öu’, mŒyō÷ ‘persona colorata di nero, Vi·öu’,
mŒl ‘nerezza, nero, nuvola, Vi·öu’);
3) ‘grande, grandezza’5 (DEDR 3923, ta. mŒ ‘grande’, mŒtu
‘grandezza’, mŒl ‘grandezza, grande uomo’).
DEDR (3917, 3918, 3923) riporta le tre parole come se fossero
semanticamente separate fra di loro, interpretandole cioè come tre
omofoni; anche il TL le distingue, fornendo per ciascuna
un’etimologia diversa. Tuttavia, indipendentemente dall’etimologia, è
ragionevole ipotizzare che il significato di ‘animale’ abbia avuto
origine dai significati di ‘nero’ e ‘grande’ attraverso un processo di
sostantivazione dei corrispondenti aggettivi. Una conferma è data dal
fatto che i referenti a cui ta. mŒ ‘animale’ si riferisce sono tutte bestie
di notevoli dimensioni (in particolar modo l’elefante è il più grande di
tutti) e di colore scuro. Comunque, se non si volesse sostenere che
quest’ultimo significato sia nato proprio dagli altri due, si può
accettabilmente ipotizzare che i parlanti, nell’uso, associassero e
ritenessero collegate le tre parole.
E’ interessante a questo punto ricordare che il MÛga-Pak·iŚŒstram, nella sezione dedicata alle 13 specie di elefanti, ad ognuna
delle quali è dato un nome specifico e caratteristiche fisiche e
comportamentali diverse, attribuisce la pelle scura agli elefanti Dantin
(pelle
5
blu
scura),
Dantāvala
(pelle
nera),
Dvirada
Il TL (p. 3142) attribuisce a questa parola anche il significato di ‘forza’.
281
(corpo
estremamente scuro), Gaja (colore blu gradevole), MÛgagaja (color
fumo) (Thaker 1994: 121).
Il nero non fa riferimento soltanto al colore della pelle, ma
anche alla pazzia che, nei periodi di fregola, colpisce gli elefanti. La
pazzia
è
un
sema
lessicogeno
altamente
produttivo
nelle
denominazioni di questo animale, probabilmente per il fatto che gli
elefanti, nelle fasi di pazzia amorosa, diventano particolarmente feroci
e pericolosi per gli uomini6. Vediamo due denominazioni interessanti
a tal proposito:
§
ta. maiya÷mŒ ‘elefante’: composto da ta. maiyal ‘pazzia’,
‘eccitazione di elefante’ e da ta. mŒ ‘animale, bestia’ (TL, p.
3370) e che caratterizza quindi l’elefante come l’‘animale dalla
pazzia’.
§
ta. maruömā ‘elefante’: composto da ta. maru ‘intossicazione,
pazzia’ + ta. mā (TL, p.3091) e che caratterizza quindi
l’elefante come l’‘animale dallo smarrimento di mente’.
6
Alcune denominazioni dell’elefante legate al tema della pazzia sono:
ta. maåamali (TL, p. 3118) ‘elefante’ in quanto ‘colui che abbonda di collera’:
composto da maåam ‘rabbia, collera’ e da mali, verbo che significa ‘abbondare,
essere pieno’, ma da considerarsi ragionevolmente anche un sostantivo, visto che
nelle lingue dravidiche il suffisso –i è uno dei suffissi che ricorrono nella
formazione dei nomi, e in particolar modo dei nomi di animali.
ta. mattakuöam (TL, p. 3046) ‘elefante’ in quanto ‘colui dalla qualità della pazzia’:
prestito dal sscr. matta-guöa, dove il secondo elemento ha il significato di ‘tipo,
qualità’.
ta. aåuku ‘elefante’ in quanto colui che sradica alberi e li fa a pezzi’: deverbativo
dalla radice ta. aåu- ‘cessare, perire’, che al causativo assume il significato di ‘fare a
pezzi, spaccare, sradicare’, unita al suffisso nominale neutro –ku, usato
originariamente come suffisso verbale.
282
Che la pazzia è etimologicamente e semanticamente correlata al
colore nero è ben dimostrato da ta. maiyal (dalla radice mai- ‘nero /
nerezza’ + incremento eufonico –y- + suffisso nominale neutro –al),
antica forma di nome verbale che designa l’‘essenza nera’, l’‘oscurità’
e quindi la ‘pazzia’ che obnubila la mente e offusca ogni volontà.
1.2 “Elefanti rossi”
Anche se il nero è il colore che più di frequente si rintraccia nei
nomi di elefante, si può individuare un altro gruppo di parole che fa
riferimento al colore rosso, e in particolar modo al rosso scuro:
§
ta. cinturam ‘elefante’: secondo il TL (p. 1421), omofono di un
altro termine tamil (probabile prestito dal sscr. sindura, MW p.
1217) che significa ‘marchio rosso, circolare, posto sulla
fronte’ e che molto probabilmente alterna con un’altra forma
(ta. cintūram), che deriva dallo stesso termine sanscrito e che
ha i significati di ‘rossore’, ‘ombrello rosso’, ‘rosso’, ‘muso di
elefante, come a punti rossi’. E’ ragionevole supporre che non
si tratti di omofonia ma di polisemia: il significato di ‘elefante’
si sviluppa in tal caso dall’uso attributivo della parola ta.
cinturam ‘(quello) dal rossore’ oppure ‘(quello) dalla macchia
rossa sulla fronte’.
§
ta. tuvaritañ ‘elefante’: composto attributivo formato dalla
parola ta. tuvar ‘corallo’, ‘colore rosso’, ‘ocra rossa’, unita al
termine ta. itañ che, fra i numerosi significati attribuitigli dal
TL (p. 293), ha anche quello di ‘labbro’. L’intera
283
denominazione designa quindi l’elefante come ‘(quello dalle)
labbra rosse’.
§
ta. cŒmōåpavai ‘elefante femmina’: composto attributivo dal
sscr. sŒmōdbhavŒ ‘macchia rossa decorativa sulla fronte
dell’elefante’, che designa l’animale attraverso il riferimento ai
disegni simbolici tracciati sul corpo degli elefanti adornati per
le feste e per le processioni.
§
ta. tŒmirakaruöi ‘elefante femmina dell’ovest’ (cfr. § 1.0).
Che il colore rosso si riferisca alla particolare colorazione a
chiazze del corpo degli elefanti è confermato dal MÛga-Pak·i-ŚŒstram.
Fra le varie specie di elefanti trattati, l’elefante di tipo gaja è
caratterizzato proprio da macchie rosse sul muso. Il dato è confermato
dalla letteratura tamil, in cui, varie volte, si trovano riferimenti a delle
macchie di colore rosso che ‘fioriscono’ (questo è il verbo tecnico
utilizzato) sul muso degli elefanti. Metaforicamente, queste macchie
sono dai poeti associate a quelle che compaiono sul collo e sulle spalle
delle ragazze indiane, quando giungono alla pubertà, segno della
fertilità raggiunta. Di nuovo, il verbo utilizzato è il ‘fiorire’. Il
rapporto fra le macchie rosse degli elefanti, le macchie o nei sulla
pelle umana e i fiori è confermata dai significati che il MW (P. 584)
riporta per il sscr. padma ‘loto’, ‘un particolare segno o neo sulla pelle
del corpo’, ‘macchie rosse o colorate sul muso o sulla proboscide di
un elefante’. E infatti, sscr. padmin (padma + in) significa ‘chiazzato
(come un elefante)’, ‘fornito di loto’, ‘elefante’ (MW, p. 585).
284
Evidentemente, le macchie sono considerate dei fiori (e in particolare
dei loti) che sbocciano sulla pelle. Il tratto distintivo in comune è il
rosso.
1.3 “Elefanti bianchi”
Nonostante l’importanza che gli elefanti bianchi hanno nella
cultura e nei miti indiani, il colore bianco non si trova frequentemente
nei nomi che li designano. Bianco come il latte era l’elefante di Indra,
Airāvata, che secondo una versione del mito, fu tra le prime figure,
insieme alla dea Lak·mī7, ad uscire dal Latte dell’Universo8, da cui
emerse un curioso assortimento di personificazioni e di simboli. Ai
cosiddetti ‘elefanti bianchi’, albini maculati di bianco o di rosa, si
attribuisce un valore speciale, perché richiamano alla mente l’origine
di questo loro antenato dal Latte Universale: possiedono in maniera
eminente la virtù magica propria dell’elefante, la virtù di produrre
nuvole. Il nome della consorte di Airāvata, Abhramu, indica questo
speciale potere: mū- significa ‘foggiare, fabbricare, legare o
annodare’, abhra significa ‘nuvola’. Abhramu vuol dire ‘Produttrice
di nuvole’, ‘Colei che intreccia o lega le nuvole’, nel caso specifico le
nuvole benefiche del monsone che ravvivano la vegetazione dopo il
periodo infuocato della calura estiva. Quando esse non si fanno
vedere, ci sarà siccità, mancherà il raccolto e si avrà una carestia
generale (Zimmer 1993: 99-100).
7
La dea Lak·mī è la dea della fortuna, della prosperità e della bellezza, da cui gli
altri nomi sscr. Śrī e ta. Tiru ‘Prosperità, Fortuna’.
285
Due denominazioni dell’elefante collegabili al colore bianco
sono:
§
ta. veÂÂuvŒ ‘elefante bianco’: (veÂ-Â-uvŒ) è spiegato nel TL (p.
3797) come composto dall’aggettivo ta. ve ‘bianco’ (a sua
volta da ta. va ‘chiarezza’) unito al sostantivo uvŒ (da sscr.
yuvŒ ‘giovane uomo’, ‘gioventù’, ‘elefante di 60 anni’).
Tentiamo una diversa interpretazione: provando a spiegare
diversamente il secondo costituente, si trova nel TL (p.465)
una forma omofona, che deriva da ta. uv- e i cui significati
sono ‘luna nuova’, ‘luna piena’ e ‘mare’. Potrebbe essere una
semplice impressione suggestiva, ma vale la pena ricordare
che in base alla tradizione epico-mitologica, l’elefante bianco
fu generato dall’oceano, assieme alla luna e alla dea Lak·mī,
anche esse simboli della fertilità e della vita vegetativa (cfr.
Hariva×sa 2, 18, 1-ss).
§
ta. teÂÂi ‘elefante’: è, solo in via ipotetica, derivabile dalla
radice ta. teÂ- che indica l’‘essere chiaro’ (ta. teÂÂu ‘essere
chiaro, lucido’). Tuttavia questa radice non si riferisce
esclusivamente ad un colore bianco candido, per cui il nome in
questione potrebbe riferirsi anche a degli elefanti dalla pelle
marrone chiara. E comunque non è sicuro che ta. teÂÂi abbia
come referente specifico esclusivamente gli elefanti bianchi.
8
Per il mito del ‘Frullamento dell’Oceano di Latte’, cfr. MahŒbhŒrata I, 17 ssg.,
286
1.4 Non solo colori…
Da uno studio attento delle suddette denominazioni ci si rende
conto che i colori non sono significativi soltanto nei processi
onomastici, ma contribuiscono anche all’origine e allo sviluppo di
accostamenti metaforici e interpretazioni simboliche. In altre parole, la
percezione dei colori non riguarda esclusivamente un’esperienza
sensoriale di tipo visivo, il colore della pelle che diventa sema
lessicogeno delle denominazioni, ma fornisce l’input per attribuire
all’elefante valenze e significati più profondi e per accostarlo ad altre
realtà del mondo naturale. La ricostruzione linguistica del valore
descrittivo dei nomi diviene ricostruzione culturale in quanto in esso
sono riflesse le credenze e i valori che hanno selezionato le forme con
cui una determinata comunità di parlanti ha interpretato i dati
dell’esperienza.
Alcuni brani della MŒtaºgalīlŒ di NīlakaöÊha lasciano già intuire
la valenza tutta particolare che gli indiani attribuiscono ai colori. Nei
capitoli II e III vengono trattati i segni favorevoli e quelli sfavorevoli
degli elefanti, segni interpretabili tramite l’osservazione del colore
delle parti del corpo dell’animale. Nel secondo capitolo, tra i segni
favorevoli, si dice che è eccellente l’elefante che ha queste sette parti
del corpo colorate di rosso: le due estremità della proboscide, il pene,
la lingua, le labbra, l’ano e il palato. Ugualmente è buono un elefante
che ha le orecchie rosse e le zanne del colore del miele, ed è degno di
Vi·öu PurŒöa I, 9, Matsya PurŒöa, CCXLIX, 13-38.
287
un re quello il cui corpo è scuro come una spada, o anche rosso con lo
splendore di macchie lucenti a forma di svastika, di śrīvatsa, di ruota,
di conchiglia e di loto. Sono invece propizi per i re gli elefanti che
hanno le estremità della proboscide rossicce e sono raggianti come loti
rossi. Nel quarto capitolo, tra i segni di longevità, si dice che vivono a
lungo gli elefanti che hanno le suddette sette parti rosse e che sono del
colore delle nuvole blu scure. (Edgerton 1985: 54-61).
Se il rosso richiama alla mente l’idea di fertilità tramite il fiorire
delle macchie simili a loti sul muso degli elefanti, è soprattutto il nero
il colore che coinvolge l’animale in una catena di giochi metaforicoallusivi. Sono essenzialmente due gli elementi naturali a cui l’elefante
viene accostato per mezzo del tratto distintivo del nero:
1) serpente
2) nuvola9.
L’accostamento metaforico è testimoniato dalla lingua e
legittimato dalla mitologia.
Iniziamo dall’analisi del termine sscr. nŒga, passato in tamil
nella forma del prestito nŒkam. Il KEWA (p. 150) afferma che, nel
significato di ‘elefante’, è probabilmente la forma abbreviata da
*nāga-hasta ‘dalla mano serpentiforme’. L’elefante è, infatti, una
bestia che ha in sé qualcosa di serpentino: la proboscide,
morfologicamente associabile ad un serpente. Lo conferma anche
l’attributo lt. anguimanus, riferito due volte all’animale dal poeta
9
Le associazioni elefante-serpente e elefante-nuvola sono confermate da
considerazioni linguistiche e mitologiche che coinvolgono anche altri tratti distintivi,
ma l’analisi di esse esula dagli intenti della presente ricerca.
288
Lucrezio (II, 536; V, 1302). Tuttavia, il KEWA (p. 150-151) riporta
anche l’ipotesi interpretativa di Charpentier (1918: 44ss.), più
interessante ai fini della nostra ricerca, che vede in sscr. nŒga
un’indicazione del colore e lo fa derivare da una radice *nē(i)gó-,
confrontabile con il gr. νηγάτεος e il lt. niger. Il termine sanscrito
significa, al maschile, ‘serpente’, ‘elefante’, ‘squalo’, ‘nuvola’, e, al
neutro, ‘piombo’, ‘stagno’ e ‘una specie di talco’. E’ evidente, fa
notare Charpentier, che alla base di tutti questi significati (per i quali
non si può pensare a vocaboli omofoni) può esserci una comune
indicazione di colore, il nero o comunque un colore scuro, e che
quindi non si deve esitare a collegare sscr. nŒga- < *nē(i)g-o- (o forse
*nō(i)g-o-) con gr. νηγάτεος e con lt. niger. Anche i significati di ta.
nŒkam ‘scimmia nera’, ‘piombo nero’ e ‘zinco’ confermerebbero
l’ipotesi. Charpentier (p.44) spiega *nē(i)g-, *no(i)g-, *nig- come
estensioni da una radice *n»i-, *n¼i-, *nä- ‘splendere’, da cui si può far
derivare l’aggettivo sscr. nÇla ‘di colore scuro’, ‘blu’, ‘nero blu’, la cui
affinità con lt. niger è stata constatata da Benfey (Wzlex. II, 57) e da
Bopp (Gloss. 222), come pure sscr. nīra ‘acqua’. Secondo Charpentier
(p. 44), non è insolito che l’acqua sia qualificata come ‘scura’, ‘nera’,
e che i nomi dei fiumi siano in relazione con vocaboli del genere (un
esempio si trova nelle forme correlate air. dobur ‘acqua’ e air. dub
‘nero’, a cui si possono aggiungere gall. Uerno-dubrum (nome di
fiume) ‘acqua fiancheggiata da ontani’, gall. Dubis (nome di fiume)
‘Doubs’). L’interpretazione di Charpentier è sicuramente molto
interessante e suggestiva e, se corretta, offre una valida prova
289
linguistica dell’associazione elefante-serpente tramite il
tratto
distintivo del colore nero, associazione che giunge a coinvolgere,
come ultimo anello della catena, l’acqua.
L’elefante e il serpente diventano, dunque, simboli della forza
vivificante delle acque10. Lo conferma nuovamente il termine nāga (e
il suo corrispettivo femminile nāginī) che designa i re (e le regine) dei
serpenti, che personificano e governano le acque terrestri dei laghi e
degli stagni, dei fiumi e degli oceani, e designa anche gli elefanti sacri
che originariamente avevano le ali e frequentavano le nuvole e che
ancora oggi, sulla terra, serbano il potere di attrarre le loro compagne
di un tempo, portatrici di pioggia. Ancora il termine nāga designa dei
geni superiori all’uomo che abitano paradisi subacquei situati sul
fondo di fiumi, laghi e mari, in palazzi tempestati di gemme e di perle.
Sono custodi dell’energia vitale accumulata nelle acque della terra,
nelle fonti, nei pozzi e negli stagni. Inoltre nella mitologia indù,
simbolo dell’acqua è il serpente (nāga), per questo Vi·öu è
generalmente rappresentato mentre riposa sulle spire di un serpente
prodigioso, il suo animale simbolico preferito, Ananta, ‘Infinito’. Da
ricordare, infine, che Airāvata, nome del bianco elefante di Indra, è
anche il nome di un nāga (Zimmer 1993: 61).
Una conferma letteraria dell’associazione elefante-serpente si
trova nel capitolo VIII della Mātaºgalīlā, in cui sono elencate le
caratteristiche che permettono di classificare gli elefanti in base al loro
10
Non è difficile intuire l’origine dell’associazione: l’elefante trascorre gran parte
delle giornate immerso negli stagni e nei fiumi, coperto di fango e facendo
290
carattere. Sono considerati serpenti nel carattere gli elefanti che hanno
un odore come quello di pesce, śaivala (pianta acquatica), phaöirjaka
(tipo di basilico), fango, acquavite o carne cruda, che si spaventano
perfino quando sentono il brontolio delle nuvole, che sono arrabbiati
di notte e si dilettano dell’acqua e della polvere (VIII, 8). Inoltre sono
considerati serpenti anche gli elefanti che tradiscono la fiducia, sono
crudeli, camminano ricurvi e non mangiano molto quando sono in
calore (VIII, 13) 11 (Edgerton 1985: 74-76).
Il colore scuro della pelle ha contribuito in modo decisivo anche
all’associazione fra gli elefanti e le nuvole, specialmente le nuvole
portatrici di pioggia e quindi nere. Se poi proviamo ad immaginarci un
branco di elefanti che si muovono in lontananza all’orizzonte,
sollevando una grande quantità di polvere, non è difficile intuire come
possa aver avuto origine questa associazione. Contribuisce senza
dubbio anche la rumorosità del barrito, che può facilmente essere
paragonato al fragore del tuono12. Anche stavolta l’associazione è
confermata dalla lingua e legittimata dalla mitologia. Tre termini
tamil, che significano ‘nero’ e che si rintracciano in vario modo nelle
denominazioni dell’elefante (cfr. § 1.1), designano anche la ‘nuvola’:
§
ta. mai 1.‘nero’, 2.‘nuvola nera’;
§
ta. kaÂam 1.‘nerezza, colore nero’, 2.‘nuvola’;
zampillare acqua dalla proboscide per proteggersi dall’arsura del sole; il serpente ha
come habitat naturale gli acquitrini e le zone paludose.
11
In base al loro carattere gli elefanti possono essere anche dei, demoni,
gandharvas, yak·as, orchi, uomini e spiriti maligni.
12
La conferma linguistica è fornita da ta. makānātam, letteralmente ‘grande
rumore’, che designa contemporaneamente l’‘elefante’, la ‘nuvola’ e il ‘leone’.
291
§
ta. karu ‘nero’ e ta. karukkal 1.‘oscurità’, 2.‘nuvolosità’.
Ricordiamo anche ta. mataºkam che raggruppa in sé i significati
di ‘elefante’, ‘nuvola’ e ‘montagna’.
La mitologia conferma l’associazione elefanti-nuvole: nella
meravigliosa età primordiale gli elefanti avevano le ali e vagavano
liberamente nel cielo come le nuvole. Successivamente, però, un
gruppo di questi perse le ali e da allora sono costretti a restare sulla
terra. Si narra, infatti, la storia di uno stormo di elefanti che ebbe la
sventura di incappare nell’ira improvvisa di un santo asceta, un essere
al quale ci si deve accostare solo con il massimo rispetto e che va poi
trattato con molta circospezione, perché gli asceti sono per natura
molto suscettibili e irascibili. Un giorno sbadatamente, questi elefanti
alati e spensierati si posarono sul ramo di un albero gigantesco, a nord
del Himālaya. Là sotto sedeva un asceta chiamato Dīrghatapas (‘dalla
lunga ascesi’): in quel momento stava insegnando, quando il pesante
ramo dell’albero, incapace di sopportare il carico, si spezzò e piombò
sulle teste dei discepoli. Ne rimasero uccisi un buon numero, ma gli
elefanti, per nulla preoccupati, si arrestarono agilmente a mezz’aria e
si posarono su un altro ramo. Furibondo, il santo li maledisse a
dovere. Da quel momento essi e tutta la loro razza furono privati delle
ali e rimasero sulla terra, sottoposti all’uomo. E quel che è peggio,
insieme alla facoltà di librarsi nell’aria, persero anche il potere divino,
caratteristico delle nuvole e di tutte le divinità, di assumere qualunque
forma desiderassero (Mātaºgalīlā I, 11-12) (Edgerton 1985: 44; cfr.
anche Zimmer 1993: 100).
292
La conferma letteraria ci viene di nuovo fornita dalla
Mātaºgalīlā. Nel capitolo sulle tipologie e gli stadi dell’eccitazione
periodica, si trova la descrizione dell’elefante al secondo stadio di
fregola (IX, 13): le guance sono bagnate dalla secrezione che scorre
abbondante dalle tempie, è pieno del fragore del tuono che rimbomba
come un cumulo di nuvole e si avventa deciso ad uccidere perfino
quelli che si trovano a distanza (Edgerton 1985: 83). Invece, l’elefante
al settimo stadio di eccitazione, denominato ‘diminuzione’, brilla
come una nuvola che abbia già scaricato il suo accumulo di acqua
(Mātaºgalīlā IX, 18) (Edgerton 1985: 83-85).
Anche il colore bianco attribuisce agli elefanti un valore speciale
in quanto richiama alla mente l’origine del loro antenato, Airāvata, dal
Latte Universale: gli elefanti bianchi possiedono in maniera eminente
la virtù magica, propria dell’elefante, di produrre nuvole. Come
Airāvata appartiene ad Indra, così gli elefanti appartengono ai re.
Nelle processioni solenni sono la cavalcatura simbolica del sovrano,
ma la loro funzione più importante è quella di attirare le loro parenti
celesti, le nuvole, elefanti del cielo. L’elefante è, dunque, considerato
una nuvola che cammina sulla terra. Quando la nuvola elefantina
terrestre è debitamente onorata le sue parenti celesti ne sono
compiaciute e sono indotte a mostrare la loro gratitudine favorendo il
paese con piogge abbondanti. Perciò i regnanti indù tengono degli
elefanti per il benessere dei sudditi: cedere un elefante bianco
renderebbe un re assai impopolare fra la sua gente. Un’azione del
genere è al centro di una storia che fa parte delle “Storie delle
293
Esistenze Anteriori del Buddha” (Jātaka). In essa si racconta che il
Buddha, nato come Bodhisattva, o Buddha in fieri, nelle spoglie del
principe Viśvāntara, praticando le virtù più alte del distacco, del
sacrificio di sé, della generosità e della compassione, donò l’elefante
bianco del regno di suo padre a un paese confinante che soffriva per la
siccità e la carestia. I suoi sudditi si sentirono traditi e abbandonati, e
lo costrinsero ad andare in esilio13.
Ancora oggi, l’elefante ha una parte significativa in una
cerimonia annuale che si celebra a Nuova Delhi allo scopo di favorire
le precipitazioni, un buon raccolto, la fertilità degli esseri umani e del
bestiame e il benessere generale della nazione. Un elefante, dipinto di
bianco con pasta di sandalo, è condotto solennemente in processione
attraverso la città; i suoi stallieri sono uomini travestiti da donna che
fanno gazzarra con motti salaci, frizzi e parole oscene. Con questo
travestimento rituale rendono onore al principio cosmico femminile, la
nutriente, materna, procreativa energia della natura, e con l’uso del
linguaggio licenzioso stimolano l’energia sessuale latente del potere
vitale. L’elefante viene, infine, adorato dagli alti ufficiali civili e
militari del regno.
1.5 Conclusioni
Nella cultura indiana il colore è un tratto distintivo fondamentale
per la classificazione e la denominazione dell’elefante. L’analisi
13
Cfr. Cowell, E.B. (1895-1907), The Jataka, or Stories of the Buddha’s Former
Births, tradotte dal pāli da vari studiosi, , 6 voll., Cambridge. Questa è la storia n°
547, l’ultima della serie.
294
etimologica dei nomi ha rilevato che il colore è un sema lessicogeno
frequentemente usato, ma da semplice indicazione del colore della
pelle fornisce l’input per l’origine di processi metaforico-simbolici
che affondano le radici in significati più profondi, legittimati dalle
testimonianze del patrimonio mitologico e letterario. La lingua è lo
strumento principale per la ricostruzione di questo patrimonio: la
ricostruzione linguistica è soprattutto ricostruzione di ideologie. Le
denominazioni dell’elefante testimoniano il legame fra l’animale e
numerosi altri elementi naturali, fra cui nuvole, serpenti e loti.
Pronunciare un nome dell’elefante significa, in molti casi, evocare
tutto questo patrimonio. Pronunciare, ad esempio, in sanscrito nāga o
in tamil nākam significa rievocare contemporaneamente più
frammenti di questa ideologia, dall’elefante, al serpente, alla nuvola,
alla montagna. Secondo la filosofia indiana, all’inizio tutto era
un’unica massa di materia omogenea, da essa in seguito, per mano
divina, hanno preso vita e forma tutti gli esseri. Nei nomi si conserva
ancora l’originaria unità.
Sandra Gracci
Dipartimento di Linguistica
Università degli Studi di Pisa
[email protected]
295
Abbreviazioni
Air.
antico irlandese
Lt.
latino
Gal.
gallico
Ma.
malayalam
Gr.
greco
Sscr. sanscrito
Kol.
kolami
Ta.
tamil
Kur.
ku¨ux
Te.
telugu
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