LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La Rivoluzione francese è stato l'evento culminante del Settecento europeo. In esso convergono le istanze
illuministe di miglioramento sociale e culturale, la necessità di porre fine ad una situazione di forte squilibri
nella ridistribuzione delle ricchezze, ma anche le rivendicazioni di un ceto a cui la nobiltà stava ormai
cedendo il passo: la borghesia. La rivoluzione francese infatti, nonostante abbia visto la sollevazione e la
partecipazione attiva delle masse popolari, in particolare di quelle parigine, non è stata, al contrario di
come spesso è dipinta nell'immaginario comune, un evento nato e gestito all'interno dei ceti più bassi,
bensì una rivoluzione borghese.
Cerchiamo di comprendere in quale contesto essa si sviluppa.
La Francia del Settecento non versava in una buona situazione. Lo Stato era fortemente indebitato, e il
gettito fiscale gravava tutto sul Terzo Stato (tra poche righe vedremo com'è composto tale ceto). La
Francia aveva poi investito ingenti risorse nella Guerra dei Sette anni contro l’Inghilterra (che, come si
ricorderà, era stata persa) e anche nel sostegno ai ribelli americani durante la rivoluzione contro la
madrepatria inglese. A rendere più pesante la situazione interna intervenne la profonda crisi dell’economia
europea che si verificò fra il 1770 e il 1790. i contadini videro peggiorare le loro condizioni, anche perché i
proprietari terrieri reagirono alla crisi rendendo più rigidi i vincoli feudali (corvées1 e tasse).
Al malessere economico si aggiungeva quello sociale. La società francese era infatti molto complessa,
anche se per semplificare usiamo dire che essa era divisa in tre Stati (la parola “Stato”, in tale contesto,
indica il ceto sociale), ovvero nobiltà, clero e Terzo Stato. Esaminiamo meglio la situazione.
La nobiltà costituiva solamente l'1% della popolazione francese, eppure non si presentava come un
gruppo sociale omogeneo. Accanto alle grandi famiglie aristocratiche, che vivevano nel lusso a corte, vi era
la piccola nobiltà di provincia, spesso in difficoltà a mantenere un alto tenore di vita. La grande nobiltà di
toga occupava gli alti gradi dell’amministrazione e costituiva ormai un ceto sempre più chiuso, che mal
tollerava l’ulteriore immissione di borghesi arricchiti negli uffici che ormai essa considerava di sua esclusiva
competenza.

Il clero costituiva lo 0,5% della popolazione ed era diviso in due categorie: una minoranza di alto
clero (vescovi, cardinali, abati…) che possedeva un quinto delle proprietà terriere francesi, percepiva
rendite elevatissime, riscuoteva la gran parte delle decime2 ed era considerato il simbolo
dell’oscurantismo3; una maggioranza di basso clero formata soprattutto da curati di campagna, mal pagati,
che campavano con una piccola parte delle decime.

Il Terzo Stato comprendeva tutti coloro che non godevano dei privilegi dei primi due ordini
(nobiltà e clero). Il Terzo Stato rappresentava oltre il 98% della popolazione francese; di esso facevano
parte sia la grande e piccola borghesia, sia il proletariato urbano e contadino. Sui contadini gravavano
ancora obblighi di lavoro sulle terre dei signori (le succitate corvées), tributi di tipo feudale, tasse che

1 Corvées: nel diritto feudale, serie di prestazioni personali dovute al signore, generalmente consistenti in alcune di giornate
di lavoro gratuite; s'è conservata fino alla fine del 18° secolo e, in alcuni stati italiani, fino alla fine del 19°.
2 Decima: tassa che consiste nel pagare alla chiesa la decima parte del raccolto di un contadino. La pratica della decima era
diffusa nella chiesa occidentale sin dal V secolo.
3 Oscurantismo: atteggiamento di opposizione sistematica al diffondersi dell’istruzione, al progresso, all’evoluzione sociale;
nel sec. 19°, era termine polemico adoperato soprattutto in contrapposizione a illuminismo o ad altri termini di valore più
assoluto (progresso, civiltà, libertà, ecc.).
dovevano essere pagate allo Stato e alla Chiesa (le succitate decime). Ciò che univa i contadini era quindi
l’avversione alla nobiltà, e la lotta contro i diritti signorili di origine feudale. I mercanti, i banchieri e gli
imprenditori sentivano l’esigenza di riforme che favorissero lo sviluppo economico e che eliminassero tutti
quegli elementi che impedivano la libera circolazione delle merci nel Paese, come i dazi e i pedaggi interni;
riforme, insomma, di stampo liberista, che all'epoca erano auspicate dato il soffocante controllo della
minoranza parassita al potere.
Tuttavia, ancora alla fine del Settecento, la più grande aspirazione dei ceti borghesi era quella di poter
acquistare una carica pubblica e per mezzo di essa ottenere un titolo nobiliare e una proprietà terriera, il
che vuol dire che la borghesia sino a quel momento non aveva contestato i fondamenti gerarchici della
società; fu solo quando la borghesia si rese conto che il vecchio sistema sociale non avrebbe mai
apprezzato o ricompensato le sue capacità, e che in un sistema simile l'avanzamento sociale era quasi
impossibile, che essa iniziò a considerare favorevole un cambiamento e divenne sempre più disponibile ad
accogliere nuovi principi politici e sociali, primo fra tutti l’uguaglianza.
In sostanza, ciò che accomunava il Terzo Stato era il comune desiderio di distruggere gli antichi privilegi e
il predominio sociale e politico degli aristocratici.
Si può quindi comprendere come la Francia versasse in forti difficoltà sia dal punto di vista economico che
sociale.
La grande contraddizione della Francia di questi decenni è il fatto che, pur essendo il Paese in cui si erano
sviluppati l'Illuminismo e le idee politiche e sociali più nuove e interessanti, la politica ristagnava ancora
nelle forme più retrive e tradizionali. In particolare dopo la morte di Re Sole Luigi XIV (1715), il conflitto tra
sovrano e Parlamenti si era inasprito. E la crisi economica francese esprimeva bene tale situazione.
Per sanare il deficit dello Stato Luigi XVI, che era salito al trono nel 1774, aveva incaricato ben tre ministri
(Turgot, Necker e Calonne) delle finanze, che però non erano riusciti a cambiare la situazione, in quanto se
il Re e i suoi ministri erano giunti alla conclusione di dover tassare nobiltà e clero, tali ceti si opponevano
alla soppressione dei loro privilegi. Si decise così di convocare gli Stati generali4, l'unico organo legittimato
a modificare il sistema di tassazione. Il Re non era favorevole alla convocazione degli Stati generali, ma
dovette cedere alle insistenze di nobiltà e Terzo stato, per una volta accomunati dalla stessa avversione
verso il re. La loro causa fu inoltre perorata da Necker, che era tornato ministro.
Tuttavia la votazione degli Stati generali presentava un evidente problema: il voto non era per testa, bensì
per ordine. Così facendo il Terzo stato sarebbe risultato sistematicamente in minoranza rispetto a nobiltà e
clero alleati, perché al momento delle decisioni vi sarebbero stati solo tre voti collettivi, uno per ciascun
ordine.
Contro il Parlamento si levò nel Paese un’ondata di proteste, su pressione dell’opinione pubblica, ma il
nodo delle votazioni rimase irrisolto.
È da notare che oltre alla massa popolare e alla borghesia, ad appoggiare le idee del Terzo Stato vi erano
anche alcuni esponenti del clero e della nobiltà sensibili alle idee illuministe, come l'abate Sieyès e il conte
Mirabeau, entrambi eletti fra i deputati del Terzo stato.
Il 5 maggio del 1789 si riunirono dunque nel castello di Versailles gli Stati generali. Il Terzo Stato chiese
subito che, al momento di deliberare, si votasse per testa e non per ordini. Di fronte al rifiuto della loro
richiesta, il 20 giugno i rappresentanti del Terzo Stato uscirono dall’assemblea e si riunirono nella Sala
della pallacorda (un gioco simile al tennis), ove giurarono di non separarsi fino all’ottenimento di una
nuova Costituzione. A essi si aggiunse anche la maggioranza del clero, e allora il Re dovette cedere ed
ordinò che nobili e clero si unissero al Terzo Stato. In sostanza l'Antico Regime (ancient régime), ovvero
l'antico sistema rappresentativo della società per ceti, cessava di esistere, e nasceva l'Assemblea Nazionale
4 Stati generali: l’assemblea generale dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati (clero, nobiltà e ‘terzo Stato’).
Costituente.
Il Re reagì a questa situazione in modo ambiguo: da una parte mostrò di non opporsi, dall’altra licenziò il
ministro Necker (che aveva appoggiato gli Stati generali) e fece concentrare le sue truppe a Versailles. Il
popolo parigino interpretò il licenziamento di Necker come un tentativo di reprimere questa rivoluzione
istituzionale, e si preparò ad insorgere. Tra il 12 e il 13 luglio si verificarono i primi tumulti; il 14 luglio un
corteo di alcune migliaia di persone alla ricerca di armi giunse sotto le mura della Bastiglia, la fortezza in
cui in quel momento erano rinchiusi solo sette prigionieri, ma che costituiva uno dei simboli dell’Antico
regime. Quando il comandante della guarnigione ordinò di far fuoco sui dimostranti, l’antica prigione
venne presa d’assalto e conquistata. Il popolo di Parigi insorse. Esso era composto per lo più da artigiani,
bottegai, lavoratori salariati e disoccupati, per oltre 2/3 alfabetizzati: erano gli strati più poveri del Terzo
Stato, che avrebbero assunto un ruolo di primo piano negli avvenimenti successivi. La difesa della città
passò alla Guardia nazionale, una milizia volontaria guidata dal marchese La Fayette, un aristocratico di
idee illuministe divenuto popolare per aver partecipato come volontario alla Rivoluzione Americana.
Una terza spinta rivoluzionaria, accanto a quella dell’Assemblea nazionale e a quella dei parigini, si verificò
nella seconda metà di luglio quando vi fu la sollevazione dei contadini. In diverse località rurali di tutta la
Francia i contadini in rivolta assaltarono castelli e conventi, appiccarono roghi a castelli e granai,
distrussero gli archivi che contenevano i vecchi documenti feudali e rivendicarono il possesso della terra. Si
parlò per questi eventi di “Grande Paura” perché spesso i contadini prendevano le armi impauriti da
presunte congiure aristocratiche, presunte invasioni straniere o di briganti (false voci diffuse per seminare
il panico) e dalle confuse notizie che arrivavano da Parigi. Tali rivolte, dunque, non avevano molto a che
vedere con le istanza rivoluzionarie, ma segnarono l’ingresso delle masse contadine nella rivoluzione, che
fino a quel momento era stata un fenomeno urbano e borghese.
La rivolta contadina ebbe immediate ripercussioni sull’azione politica dell’Assemblea nazionale. Essa, tra il
4 e il 5 agosto 1789 emanò alcuni decreti che abolirono il regime feudale e i privilegi fiscali (inclusa la
decima). I diritti feudali gravanti sulle persone (come le corvées) furono aboliti.
Il 26 agosto venne proclamata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui venivano
enunciati i principi generali sui quali doveva fondarsi il nuovo regime politico. Tali principi erano: la libertà
personale, l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto di proprietà e la sovranità popolare.
Il re rifiutò di approvare i decreti di agosto e la Dichiarazione dei diritti, ma sui decreti dovette cedere in
seguito ad un corteo di donne parigine a cui si unì la Guardia Nazionale. Inoltre il popolo parigino reclamò
che il Re lasciasse Versailles e tornasse a Parigi, e pertanto Luigi XVI acconsentì a trasferirsi, con la famiglia,
nella reggia delle Tuileries a Parigi.
Infine, anche i beni ecclesiastici furono requisiti. I voti monastici vennero proibiti, gli ordini religiosi aboliti,
tranne quelli che si occupavano dell'assistenza ospedaliera e dell'insegnamento. I beni della Chiesa
divennero beni dello Stato e servirono come garanzia per l'emissione di nuovi titoli di Stato, gli
“assegnati”. Furono riconosciuti i diritti civili ai protestanti e agli ebrei di alcune zone francesi. Tre anni
dopo fu anche abolita la schiavitù nelle colonie.
Il nuovo rapporto tra Stato e Chiesa portò a considerare i religiosi come dipendenti statali: la
Chiesa francese venne nazionalizzata, e il clero veniva stipendiato dallo Stato. Nel 1790 ai preti fu
richiesto il giuramento di fedeltà alla costituzione. Si ebbero così da una parte i preti “giurati” e
dall’altra quelli “refrattari”. La Chiesa di Roma nel 1791 con Pio VI condannò queste misure, ne
derivò uno scisma che portò una parte sempre più consistente del clero ad avversare la
rivoluzione.
Potrebbe forse sembrare che lo schieramento rivoluzionario fosse compatto ed omogeneo, ma così non
era.
Vi erano profonde divisioni tra i vari club (circoli riservati agli iscritti); in essi si discuteva di tutte le
questioni politiche fondamentali e idee da sottoporre alla Costituente. Il club dei cordiglieri (così chiamato
dal nome del convento in cui usavano riunirsi) aveva come principali personalità l'avvocato GeorgesJacques Danton e il medico Jean-Paul Marat. Il club giacobino invece aveva come proprio esponente di
punta l'avvocato Maximilien Robespierre, ed era un club particolarmente rigido e selettivo (i primi anni
accettava solo membri dalle rendite ingenti). Come si vede, gli esponenti di spicco dei diversi club non
erano certo appartenenti agli strati più umili. E questo è un dato da tenere bene a mente, in quanto è vero
che il Terzo Stato è stato protagonista della rivoluzione, ma è anche evidente che all'interno del Terzo
Stato l'alta borghesia ha avuto un ruolo predominante; ecco perché non è così corretto parlare della
Rivoluzione francese come rivoluzione popolare, ed è invece corretto parlarne come di una rivoluzione
borghese.
Quanto appena esposto è evidente se si considerano gli eventi del dicembre 1789, in cui si decisero i
criteri in base ai quali attribuire i diritti politici, ovvero il diritto di voto. In tale frangente, i cittadini furono
divisi in attivi e passivi su base censuaria (in base alla ricchezza). Se quindi oltre 4 milioni di cittadini maschi
dai 25 anni in poi entrarono a far parte del corpo elettorale, ben 3 milioni di cittadini maschi il cui reddito
non possedeva i requisiti richiesti furono esclusi dal voto, e pertanto considerati cittadini passivi. Tra i
cittadini attivi vi era poi un'ulteriore scrematura che ne rendeva eleggibili solo una parte che
possedesse una proprietà fondiaria e pagasse almeno una precisa somma di tasse. In questo
modo veniva rappresentata solo una parte del Terzo Stato, ovvero quell'alta borghesia che stava
dirigendo la rivoluzione e si preparava a divenire la classe dirigente della nuova Francia.
L'Assemblea Costituente, che dunque rappresentava gli interessi alto-borghesi, continuò nella sua opera di
innovazione della Francia. Con la Costituzione varata nel 1791, l'intero Paese fu diviso in 83 dipartimenti, i
quali a loro volta furono ulteriormente suddivisi in circondari e poi in circoscrizioni: fu insomma riformata
l'amministrazione francese. Si stabilì la separazione dei poteri: i giudici divennero elettivi, il Parlamento
aveva la funzione legislativa, e il re manteneva quella esecutiva, e poteva opporre un veto sospensivo alle
leggi elaborate in Parlamento. Inoltre furono varate delle leggi che sopprimevano le corporazioni di
mestiere e vietavano gli scioperi e le leghe operaie. È evidente che si intendeva favorire un potere di tipo
liberista e capitalista in cui la classi lavoratrici non avessero tutele né voce in capitolo.
E il Re? Come reagiva a queste immense novità che stavano trasformando la Francia suo malgrado?
Luigi XVI lavorava in segreto per affermare una controrivoluzione. Molti aristocratici francesi erano infatti
emigrati all'estero e lì si organizzavano in modo da restaurare in Francia l'Antico Regime e poter tornare in
patria. Per fare ciò si sperava nell'aiuto di potenze straniere alleate del Re e dell'aristocrazia francese che
intervenissero militarmente in Francia ponendo fine alla rivoluzione. Anche Luigi XVI tentò la fuga
all'estero assieme alla sua famiglia, ma nonostante il travestimento da domestico, fu riconosciuto a
Varennes. La fuga fallita del re spaccò ulteriormente le varie fazioni politiche. Se i cordiglieri invocavano la
fine della monarchia e l'inizio della repubblica, se Robespierre chiedeva che il Re fosse sottoposto a
processo, la maggioranza borghese (rappresentata da La Fayette e Mirabeau), che era moderata e avrebbe
voluto mantenere una monarchia (regolata però dalla Costituzione), si trovò in difficoltà a giustificare il
gesto del Re, e per coprirlo finse che Luigi XVI in realtà fosse stato rapito in seguito ad una congiura, e che
non avesse tentato la fuga. Di fronte a questa evidente finzione, la frattura tra repubblicani e monarchici
divenne insanabile.
A ciò si aggiunge che l'idea della Repubblica era sostenuta anche dai sanculotti (popolani parigini così
chiamati da Robespierre in quanto al posto delle culottes, i calzoni al ginocchio indossati dagli aristocratici,
portavano i pantaloni lunghi), i quali iniziarono a rumoreggiare nelle piazze. La spaccatura arrivò a un
livello tale che La Fayette ordinò alla Guardia Nazionale di sparare sui sanculotti riuniti nel Campo di
Marte, uccidendo cinquanta persone.
Frattanto, sempre nel 1791, l'Assemblea Costituente si sciolse e fu sostituita dal nuovo Parlamento,
l'Assemblea Legislativa, che era così costituita: 250 deputati moderati (chiamati foglianti, dal nome del club
in cui si riunivano), 350 costituzionali (perché si riconoscevano nella Costituzione), e 136 deputati
giacobini, tra cui un gruppo di girondini guidati da Brissot.
Nel 1792 l'Assemblea Legislativa decise di dichiarare guerra all'Austria. Non fu una decisione facile e le
varie parti non erano tutte d'accordo: se Brissot spingeva per questa guerra che, nei suoi intenti, doveva
porre fine alle varie cospirazioni di aristocratici emigrati e diffondere in Europa gli ideali della rivoluzione,
Robespierre era preoccupato che concentrarsi sulla guerra potesse frenare la rivoluzione. Il Re
naturalmente era favorevole perché credeva che la guerra avrebbe posto fine alla rivoluzione.
Dopo le prime sconfitte militari, l’Assemblea legislativa l’11 luglio aveva proclamato la patria in pericolo e il
popolo parigino dei sanculotti era insorto chiedendo la sospensione del re. La famiglia reale fu trasferita in
prigione dalla folla inferocita. La monarchia era finita. Il 21 settembre 1792 fu proclamata la Repubblica, ad
opera dell'Assemblea legislativa che frattanto aveva assunto il nome di Convenzione nazionale. A Parigi
intanto continuavano disordini e violenze, l'energia del popolo insorto probabilmente riuscì a far sì che le
sorti della guerra contro l'Austria si capovolgessero: i francesi ottennero una vittoria a Valmy che fu
percepita come qualcosa di straordinario. Eppure il ruolo dei sanculotti, che nonostante non avessero
avuto diritto a votare alle elezioni, erano la forza trainante della rivoluzione, era uno dei punti su cui
divergevano le due grandi forze della Convenzione Nazionale, ovvero i girondini e i montagnardi (di cui
facevano parte Robespierre, Danton, Marat). L'altro grande punto su cui essi divergevano era la sorte del
Re. I girondini non riuscirono ad ottenere, alla fine del processo del Re, l'appello al popolo che avrebbe
potuto salvarlo, e Luigi XVI fu processato, condannato per alto tradimento e decapitato come un uomo,
come un cittadino, qualunque. Era il secondo re a morire condannato dal popolo, dopo Carlo I Stuart re
d’Inghilterra nel 1649.
La decapitazione di Luigi XVI suscitò una forte impressione nel resto d’Europa; inoltre la guerra, dalla
vittoria di Valmy in poi, stava volgendo positivamente per la Francia, la quale aveva invaso Savoia e Belgio
ed era prossima a fare altrettanto in Olanda. Nel 1793 si formò dunque una prima coalizione anti-francese
(Austria, Prussia, Inghilterra, Spagna, Olanda e da tutti gli Stati italiani).
Furono anni tremendi per la Francia. Era economicamente in grosse difficoltà, e l’esercito francese iniziò a
perdere una battaglia dopo l’altra e a ritirarsi dalle terre conquistate. Servivano più soldati, i volontari non
erano sufficienti, e fu indetta la leva obbligatoria; la protesta, soprattutto da parte dei contadini, che
avrebbero dovuto dunque abbandonare i propri campi per andare in guerra, esplose soprattutto in
Vandea. I vandeani, aiutati da ufficiali aristocratici esperti, uccisero i sanculotti incaricati del reclutamento,
e spalleggiati dalla flotta inglese pronta ad invadere la Francia, dilagarono in diverse regioni, invocando il
ritorno alla monarchia. La rivoluzione si era trasformata in una guerra civile.
Di tutto ciò la responsabilità fu attribuita ai girondini, accusati di aver voluto una guerra insensata in
combutta col re. Furono mandati alla ghigliottina, e Robespierre assunse le redini della situazione. Istituì
un “Comitato di Salute Pubblica” che divenne il vero organo di governo. La giustizia ordinaria fu soppressa
e sostituita da tribunali speciali. Robespierre mandò a morte una cinquantina di alti ufficiali dell’esercito i
quali, essendo di origine, erano sospettati, non a torto, di perdere appositamente le battaglie. Al loro
posto furono promossi sul campo soldati particolarmente meritevoli. Tra questi un certo Napoleone
Bonaparte.
Nel settembre 1793 Robespierre sospese la Costituzione del ’91 e instaurò una dittatura che chiamò egli
stesso “Terrore”, la quale fu spinta dal continuo incalzare dei sanculotti, che mantenevano una certa
influenza sui giacobini. Robespierre fece decapitare tutti coloro sospettati di essere “nemici della
rivoluzione” (circa 17.000 persone) tra cui la ex regina Maria Antonietta e Brissot. Impose un calmiere, cioè
un prezzo massimo per la vendita dei generi di prima necessità. Represse la rivolta in Vandea
(massacrando la popolazione civile) e ricacciò fuori dai confini tutti gli eserciti stranieri. Attualmente, tra le
decapitazioni e i massacri, gli storici contano circa 30000-40000 vittime.
La vittoria dell’esercito francese cambiò nuovamente lo scenario politico interno alla Repubblica. Il regime
creato da Robespierre non aveva più ragione di esistere dal momento che il pericolo esterno era stato
scongiurato, ma il dittatore cadde anche per le numerose divisioni interne al governo stesso. Bisogna
infatti considerare che la ghigliottina di Robespierre fece decapitare anche chi aveva combattuto in nome
della Rivoluzione sin dall’inizio, tra cui i cordiglieri, Danton e alcuni membri del Comitato di salute pubblica
giudicati corrotti.
Il 9 termidoro (27 luglio) i diversi oppositori di Robespierre si coalizzarono, Robespierre, Saint-Just e altri
19 esponenti del suo partito furono arrestati e il giorno seguente vennero ghigliottinati senza alcun
processo. Finisce così il potere dei giacobini, ed inizia una forma di governo chiamata “Direttorio”.
La morte di Robespierre non segnò la fine della rivoluzione: semplicemente essa si trasformò, in quanto
venne smantellato il sistema di potere giacobino, furono chiusi i club giacobini, furono liberati migliaia di
prigionieri politici. La severità austera e sanguinosa dei giacobini lasciò il posto ad un nuovo ceto
emergente di giovani arricchitisi con la guerra e con le speculazioni. I sanculotti persero il sostegno di cui
godevano presso i giacobini, e i loro tentativi di insurrezione vennero facilmente soffocati dall'esercito.
Il “Direttorio” governò per quattro anni, dal 1795 al 1799, durante i quali dovette confrontarsi più volte con
le forze controrivoluzionarie, rappresentate dai realisti (sostenitori del re) ma anche da moltissimi
contadini, che non volevano sottomettersi al controllo dello Stato. Il Direttorio, quindi, non aveva una base
sociale su cui reggersi, e per non crollare era costretto a fare affidamento sull’uso continuo dell’esercito.
Per quel che riguarda l'estero, la Francia era riuscita ad annettere il Belgio e l'Olanda e aveva mire di
espansione in Austria e in Italia (ricordiamo che buona parte della Lombardia era sotto dominio austriaco).
Della campagna in Italia si occupò Bonaparte. Egli ottenne grandi successi vincendo prima i piemontesi e
poi gli austriaci tra Milano e Mantova. La marcia dell’esercito francese proseguì con la conquista di Venezia
e con il tentativo di conquista dell'Austria: i Francesi, a soli 100 KM da Vienna, ottennero che gli Austriaci
firmassero i preliminari di pace di Leoben, mentre il papa firmava il Trattato di Tolentino, con cui
concedeva alla Francia il dominio su Emilia e Romagna. Bonaparte era ormai divenuto un personaggio
celebre, tanto che gli fu permesso di condurre in prima persona le trattative con l'Austria: fu così che si
arrivò al Trattato di Campoformio con cui l'Austria riconobbe l'egemonia francese in Lombardia e in Emilia,
oltre all'annessione del Belgio e della riva sinistra del Reno. In cambio l'Austria venne ricompensata con il
Veneto, l'Istria e la Dalmazia. La Repubblica di Venezia veniva così smembrata, perdeva Corfù e le isole
Ionie, e cessava di esistere. La fine di questa Repubblica il cui splendore aveva attraversato molti secoli di
storia italiana fu un trauma per i patrioti italiani, soprattutto per coloro che avevano salutato l'arrivo di
Napoleone in Italia come una speranza di liberazione dagli oppressori stranieri. Essi avevano una visione
troppo ideale della Francia e di Napoleone: semplicemente, l'Italia ancora una volta era considerata terra
di conquista e preda, per cui grandi somme di denaro prelevate in Italia furono destinate al mantenimento
dell'esercito francese, e grandi tesori d'arte, soprattutto provenienti dalle proprietà papali a Roma, furono
trafugati legalmente e portati a Parigi. Si parla di centinaia di opere, tra cui dipinti di Raffaello, Mantegna,
Veronese, e molto altro, che solo in parte poi furono restituite. Per completezza di informazioni,
ricordiamo che, contrariamente a quanto si crede, la “Gioconda” di Leonardo da Vinci non fu trafugata da
Napoleone, poiché l'opera si trova in Francia sin dal 1517 in quanto acquistata dal re Francesco I. Vero
invece che Napoleone trafugò diversi codici leonardeschi tra cui il Codice Atlantico, la più ampia raccolta
esistente di disegni e scritti del grande artista. Tale codice, a differenza degli altri, tornò in Italia grazie
all'interessamento dello scultore Antonio Canova il quale si dedicò con tenacia al recupero delle opere
italiane traslate in Francia.
Ma qual era il progetto di Napoleone in Italia? Egli intendeva creare in Italia una serie di “Repubbliche
sorelle”. Così creò la Repubblica Cispadana (Emilia e Romagna), la Repubblica Ligure, la Repubblica
Cisalpina (Lombardia), a Roma la Repubblica romana (il povero Pio VI fu deposto e morì come prigioniero
di Stato).
Nemmeno Napoli, sotto dominio borbonico, si salvò dalla furia francese: nel 1799 fu occupata e venne
proclamata la Repubblica Partenopea.
Queste Repubbliche dovettero adottare Costituzioni modellate su quella francese del 1795. Va detto però
che la Costituzione adottata a Napoli, stesa sotto la direzione di Mario Pagano, era la più sviluppata in
senso democratico.
Per gestire le Repubbliche italiane i francesi si appoggiarono ai nobili e ai borghesi di orientamento
moderato con spregiudicato opportunismo. Tuttavia vennero comunque introdotte riforme importanti,
come l'introduzione dello stato civile e l'abolizione dei diritti feudali, mentre altre, interessanti sulla carta
(come quelle che miravano a sostituire la grande proprietà latifondista con la piccola proprietà contadina),
non vennero mai attuate.
I ceti popolari non furono mai coinvolti nelle decisioni delle Repubbliche italiane, per cui spesso
svilupparono una vera e propria avversione verso i francesi, il che portò a numerosi episodi di insorgenza,
ovvero di sollevazioni popolari.
In modo particolare nell'Italia meridionale, quando nel 1799 i francesi entrarono a Napoli, i “lazzaroni” (i
popolani) vi si opposero violentemente, seppur inutilmente. Né le cose migliorarono dopo la conquista di
Napoli, in quanto i contadini non trassero vantaggio immediato alle loro durissime condizioni di vita, e fu
quindi facile, per il cardinale Fabrizio Ruffo, emissario per conto dei Borbone, sollevare i contadini e
guidare le “armate della Santa Fede”, a cui si unirono anche bande di briganti, contro la Repubblica. I
sanfedisti riuscirono a conquistare Napoli e i Borbone poterono tornare al potere, operando una
sanguinosa repressione di tutti i maggiori intellettuali che avevano operato nella Repubblica partenopea:
Mario Pagano, Vincenzo Russo, Francesco Caracciolo ed Eleonora de Fonseca Pimentel (la cui storia è stata
raccontata nel romanzo storico “Il resto di niente” di Enzo Striano, da cui Antonietta De Lillo nel 2004 ha
tratto l'omonimo film di cui si consiglia la visione). Un grande intellettuale napoletano, Vincenzo Cuoco, in
un suo saggio del 1801, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, affermò che nessuna
rivoluzione può essere imposta, né con "la forza delle baionette", né ad opera di "un'assemblea di filosofi";
e che ogni popolo deve avere una sua propria costituzione adeguata alle sue caratteristiche, alla sua
cultura e alla sua storia. Il grande errore dei rivoluzionari francesi fu dare per assodato che vi siano valori
universalmente validi e universalmente applicabili a prescindere dalle particolari realtà storiche e sociali: si
tratta dello stesso errore commesso dall’illuminismo, che pecca di astrattezza allorquando pretende di
universalizzare e di assolutizzare ogni cosa. Ogni realtà ha le sue condizioni e le sue peculiarità, sicché non
è detto che, quanto risulta ottimo a Parigi, tale risulti anche a Napoli.
I progetti di conquista francesi frattanto proseguivano. Napoleone avrebbe voluto invadere l'Inghilterra,
ma non gli fu concesso. Il Direttorio però gli permise di organizzare una spedizione contro l'Egitto,
nell'ottica di colpire gli interessi commerciali inglesi in Oriente. Napoleone pertanto partì per l'Africa, e
forse il Direttorio acconsentì al suo progetto in quanto si era reso conto dell'enorme potere e prestigio che
Bonaparte aveva accumulato, e avvertì il pericolo che un personaggio così ingombrante risiedesse a Parigi.
L'esercito di Bonaparte si diresse pertanto in Egitto conquistando prima Malta, e strappandola ai Cavalieri
di San Giovanni che la governavano dal XVI secolo, e poi approdando ad Alessandria. L'Egitto a quel
tempo era una provincia autonoma dell'impero ottomano gestita dai Mamelucchi. Nella celebre battaglia
delle Piramidi, presso il Cairo, i Mamelucchi furono sconfitti. Il trionfo di Napoleone però durò poco perché
a sorpresa la flotta inglese, guidata dall'ammiraglio Horace Nelson, sorprese quella francese e la distrusse.
La potenza francese oramai era molto temuta e creava alleanze contro di essa: l’Inghilterra approfittò del
momento per costituire una nuova coalizione antifrancese, costituita da Inghilterra, Austria, Russia, Regno
di Napoli e Impero ottomano. La guerra in Europa riprese e poco a poco la Francia iniziò a perdere quanto
aveva conquistato, inclusa l’Italia. Napoleone tornò in fretta a Parigi e tentò un colpo di Stato per prendere
il potere; si trattò di un'azione dall'evidente carattere militare che riuscì positivamente. La rivoluzione
francese era ormai terminata.
Napoleone assunse la carica di Primo console; accanto a lui vi erano altri due consoli, i quali però avevano
solo funzione consultiva, mentre lui deteneva quella esecutiva. Egli redistribuì i poteri in modo da creare
una vera e propria dittatura, godendo dell'appoggio di intellettuali e popolo, e attuò una grande riforma
amministrativa che potenziava l'istruzione pubblica e allargava le competenze dello Stato. Il tutto,
ovviamente, ben reprimendo le voci contrarie e continuando a guerreggiare con gli altri Paesi. Con
l'Austria si scontrò nel 1800, riconquistando Milano e sconfiggendo l'esercito nemico a Marengo. Con
l'Inghilterra riuscì a stipulare una pace momentanea. Con il papa arrivò ad un patto (Concordato) che
ricompose la frattura che si era creata con la Chiesa cattolica (ma durò poco...). In Italia la Francia
incorporò il Piemonte, il Ducato di Parma, la Toscana, l'Umbria, il Lazio e una parte dello Stato pontificio
con Roma. Il papa reagì scomunicando Bonaparte e fu così arrestato. Nel Regno di Napoli furono deposti i
Borbone, e il governo fu affidato prima al fratello Giuseppe Bonaparte, poi al cognato Gioacchino Murat.
Giuseppe Bonaparte passò invece sul trono spagnolo (la Spagna aveva tentato di insorgere al dominio
francese ma inutilmente). In Olanda, Germania e Polonia Napoleone creò degli stati-satelliti della Francia
gestiti dai suoi fratelli o comunque da uomini di fiducia. L'Europa era stata ridisegnata da cima a fondo
dalle continue guerre, violenze e annessioni di Bonaparte, e il dominio europeo di Napoleone raggiunse
l'apice quando contrasse matrimonio con Maria Luisa, figlia dell'imperatore d'Austria e nipote di quella
Maria Antonietta che la rivoluzione aveva portato alla ghigliottina. Per contrarre questo matrimonio,
Bonaparte dovette sciogliere il precedente, con Giuseppina di Beauharnais, da cui non aveva avuto figli.
L'equilibrio costituito da Bonaparte non poteva però durare a lungo. Innanzitutto l'Inghilterra, acerrima
nemica francese, che aveva sconfitto a Trafalgar la flotta francese, non accettò il blocco continentale,
ovvero il divieto di mantenere relazioni commerciali con l'Inghilterra che Napoleone aveva imposto a tutti i
paesi del suo impero e a quelli alleati. A questo blocco aveva aderito anche la Russia, ma nel momento in
cui la Russia vi si sottrasse, Napoleone concepì il piano grandioso di invadere la Russia, sopravvalutando
però le forze francesi. Nel 1812 Napoleone, alla testa di un imponente esercito di 650000 uomini, iniziò
l'invasione; ma il clima russo unito alle strategie militari trasformarono quell'aggressione in una disfatta da
cui tornarono appena 100000 uomini.
Nel 1813 Inghilterra, Russia, Prussia e Austria si coalizzarono contro la Francia. La cosiddetta battaglia delle
nazioni, che si combatté a Lipsia, portò alla sconfitta francese e all'occupazione di Parigi. Napoleone
abdicò e i vincitori gli assegnarono il possesso dell'isola d'Elba. Ma poiché sul trono francese tornò un
Borbone, Luigi XVII, fratello di quel Luigi XV che era stato ghigliottinato durante la rivoluzione, e poiché i
Borbone erano odiati dal popolo parigino, Napoleone tentò di volgere la situazione a proprio favore e di
tornare alla ribalta. Nel 1815 dunque sbarcò nuovamente in Francia e arrivò a Parigi salutato trionfalmente
dal popolo, di cui però non cercò l'appoggio politico: ecco dunque che il suo esercitò subì un'ultima,
pesante e definitiva sconfitta a Waterloo, dopo la quale venne deportato sull'Isola di Sant'Elena, in pieno
Oceano Atlantico, dove morì nel 1821.