Bozza_01_ 26 febbraio 2016 ISTITUZIONI, CAPITALE e MONETA Storia dei sistemi finanziari contemporanei PARTE PRIMA: 1790-1914 [cap: 1-3] PRINCIPI, MERCANTI, INDUSTRIALI Cap. 1 Principi e mercanti: 1790 - 1850 Sommario 1.1 Il sistema mercantile: i caratteri generali 1.2 Il sistema mercantile: le componenti 1.2.1 La finanza pubblica 1.2.2 La finanza privata 1.2.3 Microstorie: Hope & Co., Baring Brothers, Rothschild 1.3 Il mercato di Londra 1.4 Sintesi Cap. 1 Principi e mercanti: 1790 - 1850 Sommario Tra gli effetti economici dalla guerra vi è la reattività che essa genera nel tessuto sociale. Nel caso delle guerre napoleoniche, combattute dagli stati europei nell’ultimo decennio del ‘700, essa ebbe l’esito di consolidare l’egemonia borghese: modi economici (la gestione del patrimonio) e modi civici (appartenenza ad un ceto sociale) non ebbero, da allora più distinzione. A questa condizione concorsero in primo luogo la capacità di definire strumenti e procedure di trasferimento dei titoli pubblici così da poter generare il vantaggio della loro commercializzazione; in secondo luogo la riorganizzazione dei patrimoni privati in cui ai beni immobiliari si unirono quote sempre crescenti di beni mobiliari in specie azioni e obbligazioni, monete. Il lessico coevo lo testimonia con efficacia indicando gli agenti del cambiamento come “negozianti e banchieri”. Essi furono in grado di governare sia il conto del valore capitale (lo stock) e chiudere le catene di transazioni per mezzo di contratti di negozio, sia di generare la disponibilità la liquidità (il flusso) degli strumenti utili al pagamento per tutti i beni (non necessari) di cui si nutre il nuovo vivere borghese. Le spese e gli investimenti specifici sostenuti dai privati e dagli Stati furono possibili solo in quanto compresi in un nuovo contesto istituzionale in grado da ridurre l’incertezza insita nell’aumento del volume degli scambi quello generato dal sistema finanziario mercantile. Il paragrafi seguenti comprendono: (1.1) le categorie di analisi; (1.2) la descrizione delle principali caratteristiche della finanza pubblica e privata nei mercati di Olanda, Inghilterra, Francia; fine del ‘700 questi mercati hanno svolto per decenni ruoli compenetrati, tanto da potersi considerare per molti aspetti un insieme. Nel paragrafo ( 1.3 ) l’attenzione è posta invece al modo in cui il processo di egemonia di quello inglese e in esso della City abbia potuto prendere corpo: ciò al fine di dare corpo, e consentire al lettore un terreno di verifica dell’efficacia analitica, delle categorie descritte nelle pagine precedenti. Il paragrafo (1.4) traccia una sintesi dei temi discussi. 1 1.1 Il sistema mercantile: i caratteri generali Unità di conto In un mondo in cui si scambino solo due tipi di beni il baratto è il modo più efficiente per condurre gli scambi; ma se i tipi di beni sono più di due il costo della ricerca di una doppia coincidenza dei desideri tra gli agenti è sufficiente a diffondere l’uso di un bene di conto e di pagamento, non necessariamente identici, ma obbligatoriamente legati tra loro da una relazione numerica, la moneta: l’unità di conto, con cui si misurare il valore dei beni scambiati. Condizione imprescindibile per ogni unità di conto è la condizione di non modificabilità. Essa fu ottenuta – nei mondi in cui i costi per produrre un bene “non alterabile”, un falso, erano proibitivi –, riconducendo ad un’unità di misura immateriale il conto del valore. A questo fine furono utilizzati sia strumenti convenzionali, come monete coniate non più in circolazione, sia monete “immaginarie”, cioè mai coniate. Queste procedure furono individuate come le uniche in grado di rendere il conto affidabile, tali, cioè, da renderne impossibile l’alterazione, senza che a ciò fosse dedicata l’azione, e il costo per imporne l’uso, di una magistratura. Tali procedure indussero l’uso del pagamento con strumenti diversi da quelli di conto, sebbene con essi necessariamente coordinati. Moneta Questo modo di intendere il significato di moneta porta a comprendere come il suo valore vada inteso prima che come pari al suo costo (di produzione e/o di detenzione), come pari al reciproco del prezzo delle cose che si ritiene esso sarà - se e quando utilizzato - in condizione di pagare. Questo modo di intendere consente di specificare la moneta come l’oggetto di fides che nella catena degli obblighi che culturalmente si ritengono gravare a seguito dello scambio sulla parte che riceve il bene scambiato è in grado di liberalo dagli obblighi verso chi gli ha ceduto il bene. E’ la fiducia degli agenti nella possibilità di disporre di uno strumento di definitività dello scambio, che consente di superare il limite del baratto attribuendo ad una merce o a una procedura la fiducia di strumento di pagamento del conto del valore. Questa condizione ha portato ad attribuire - per estensione – l’uso del termine moneta anche allo strumento di pagamento più diffuso, e a far comprendere nel prezzo del bene scambiato anche il costo di disporne per pagare. Tuttavia, si tratta di un errore, o meglio una semplificazione nell’uso delle categorie che è bene rimuovere1. Mercato Tale semplificazione ha infatti portato a interpretare la disponibilità e la stabilità del prezzo di una merce (per esempio l’oro), come la condizione perché vi potesse essere disponibilità e stabilità negli scambi; facendo coincidere moneta con fiducia e questa con certezza. Ciò ha reso possibile guardare al mercato come un luogo naturale in cui si realizza per mezzo di uno strumento convenzionale neutro (avente valore convenzionale) la condizione di incontro di offerta e domanda, il prezzo di equilibrio nello scambio tra i 1 J. Hichs, 1989 2 beni. La possibilità di disporre di un bene neutro ha consentito diverse scale di semplificazione. La prima e più rilevante è quella di conferire allo stesso bene un medesimo prezzo in mercati diversi, tra cui in primis quello del capitale, del lavoro così da favorirne l’interscambiabilità come fattori della produzione, definendo di riflesso mondi (comparabili) nelle preferenze di portafoglio dei consumatori. Tuttavia, essendo il frutto di una semplificazione concettuale, tale interpretazione del mercato non può che intendersi errata. Il mercato non è neutro; non è “sempre esistito”. Al contrario esso può essere inteso solo come un luogo artificiale esteso quanto l’insieme della rete dei contratti dello scambio dei fattori della produzione e dei beni consumati. Esso risulta quindi continuamente essere creato dalla società civile, dalle modalità con cui gli operatori organizzano la loro rete di relazioni in modo da rendere l’incertezza statica, insita nello scambio, superabile attraverso una pratica ripetuta di conoscenze che dà luogo a regole, istituzioni, alla formazione del capitale sociale. In questo modo si intende come una parte del prezzo con cui i beni vengono scambiati è formata anche dai costi sociali risultanti dallo scambio medesimo, cioè quelli definiti dalle relazioni con cui gli agenti si accordano su un contratto che dà loro potere liberatorio sul bene scambiato per mezzo di una moneta. Ciò consente di indicare la moneta come una quasi rendita, poiché disporre di ogni specifica moneta darà luogo a una condizione (rendita) di accesso specifico ai mercati; diversamente, occorrerà passare per i costi (opposti alla rendita) di transazione/cambio. Catena di definitività I modi stessi degli agenti che partecipano allo scambio, dividendosi tra ottimisti e pessimisti nella valutazione dell’incertezza che il prezzo dei beni resti stabile, hanno portato all’attuazione di procedure identificabili come una catena di definitività che ha consentito agli agenti di prendere decisioni, pur a fronte di incertezza, così da poter proseguire nel tempo con la scelta di divisione di lavoro e di aumento nel volume e nella tipologia dei beni scambiati2. È altresì evidente che la possibilità che uno degli agenti che partecipano alla catena degli scambi la interrompa, appropriandosi del valore ricevuto senza attuare il pagamento con titoli solvibili, dà luogo ad un rischio post-contrattuale che porta a precludere contratti che comportino l’uso di investimenti specifici, compresi, dunque, quelli che servono ad attuare il pagamento attraverso una specifica moneta e/o procedura. A questa difficoltà fu posto un limite, mercantile e politico, attrezzando il proprio negozio/banca con la raccolta di miscellanee di monete e autorizzando il valore legale della moneta in base al peso del metallo nobile coniato; in termini finanziari, venne affinata la procedura di trasmissione del titolo e del diritto economico ad esso associato per mezzo, ad esempio, della girata: l’impegno veniva preso a fronte di una terza parte che ne faceva da garante e, nel caso di effetti usati come strumento di pagamento, il titolo richiedeva la firma olografa del soggetto trasferente. Ma gli effetti di pagamento trasmessi per girata, sebbene continuativamente presenti in tutti i mercati dell’età moderna in poi, essendo una promessa di pagamento costruita su una triangolazione (es. i pagherò, i warrant), si diffusero tanto quanto la reputazione dell’agente che faceva da vertice del triangolo, di norma una banca di giro che ne garantiva l’esecuzione; fatta eccezione per i titoli garantiti da banchi pubblici (ad es. quelli di Genova e Venezia), questi titoli restarono così all’interno di mercati domestici e non furono in grado di generare un mercato finanziario internazionale in senso pieno. Maggiore diffusione – e quindi maggior incidenza nella formazione di un effettivo per volumi e dimensione – ottennero fin dal XVI secolo, per la loro stessa struttura contabile, altri titoli di origine mercantile quali le “lettere di cambio”, che costituivano un ordine di pagamento 2 North, 2005 3 strutturato su catene di definitività con un modulo di quattro operatori, non necessariamente tutti in contatto tra loro. Attraverso le lettere di cambio, un agente attivo in un dominio commerciale A, ovvero il mercato all’interno del quale egli aveva costruito la sua reputazione e la sua rete di conoscenze, aveva la possibilità di attuare un pagamento, ad esempio, in un dominio commerciale D, che gli era invece totalmente estraneo. Tale possibilità era ottenuta dall’agente del dominio A attraverso una lettera che ordinava ad un mercante-banchiere di sua fiducia, attivo nel suo dominio ma con buone relazioni anche in altri domini come, ad esempio, in un dominio B. Tale mercante-banchiere, che lavorava quindi sia in A che in B, aveva il compito di pagare, per conto dell’agente di A, ad un mercante-banchiere, ignoto a quest’ultimo e attivo nei domini esterni B e D, una somma da lui dovuta all’agente attivo nel dominio D con cui aveva scambiato merci o titoli. In questo modo – attivando queste catene di definitività - si passava da una promessa di pagamento – quale la girata – ad un ordine di pagamento tramite costi (quelli di commissione) che esistevano solo perché poteva esistere un mercato di tipo fiduciario, etimo poi mutato in finanziario. Le catene di definitività hanno così dato luogo per tramite del loro incrociarsi ad un effetto di rete di scambio e di pagamento differito nel tempo e nello spazio. La finalità comune all’insieme degli agenti portò all’affermarsi di contabilità costruite su tavole di eguaglianza – dapprima tra i mercati di fiera e poi nei mercati con monete coniate da zecche pubbliche – che consentivano di conoscere a chi ne era esterno il valore della moneta diffusa in ogni mercato interno, consentendo così di scambiare tra i diversi mercati. I mercanti-banchieri divennero così agenti di un processo di estensione della fiducia prima attraverso la rete della conoscenza e reputazione definitasi nello scambio commerciale, poi specializzandosi nella negoziazione di specifiche transazioni delle diverse tipologie di effetti finanziari: in primo luogo della cambiale, cui, a seconda del grado di solvibilità e onorabilità del soggetto trasferente (il traente), veniva dato un grado di qualità (si distinguevano così cambiali di primo grado, di secondo ecc.); in secondo luogo, le banconote, titoli di debito convertibili su richiesta i metallo emesse da banche. Interdipendenza Nei sistemi di scambio di mercato dove sono attive catene di definitività di tipo finanziario-mercantile, quando ci si riferisce ad un prezzo di equilibrio non si intende quest’ultimo come la risultante dell’azione di una “mano invisibile”. Quest’ultima, nella migliore delle ipotesi, avrebbe potuto definire la divisione del lavoro, ma non certo la formazione del prezzo, oggetto della continua azione di agenti e di istituzioni che, posti in condizione di operare per mezzo di un insieme di contratti, regolavano lo scambio in e tra i mercati non in ragione della concorrenza del prezzo (che può essere sostenibile senza portare alla distruzione di valore/lavoro solo se la concorrenza risulta attiva anche nella fase di produzione del bene), ma in ragione della loro capacità di negoziare, in tempi e modi diversi, acquisto e vendita dello stesso bene. Proprio questa interdipendenza distingue l’età mercantile da quella industriale, nella quale prevalgono condizioni di simultaneità nella definizione del prezzo sui mercati, poiché su quest’ultimo incide principalmente l’informazione dei costi di produzione, comune ai tre mercati dei capitali, del lavoro e dei beni, rispetto a quella delle scelte operative specifiche della distribuzione e del consumo. Il doppio equilibrio: ex-ante ed ex-post allo scambio In un sistema economico in cui la definizione dei prezzi non avviene simultaneamente all’interno dei tre mercati dei beni, dei capitali e del lavoro, si avrà equivalenza/equilibrio 4 solo quando il prezzo-valore del bene scambiato sarà nelle condizioni di essere lo stesso ex ante ed ex post al momento dello scambio. Scorte Affinché ciò potesse essere realizzato, sarebbe stato necessario disporre di beni di scorta tali da garantire una continuità nella produzione di beni durevoli, ad esempio con ritmi annuali, in connessione ad eventi di scambio di lungo periodo, quelli, quindi, in cui si può verificare il cambiamento di un fattore produttivo, come le fiere; oppure in connessione alla distribuzione dei beni in tempi brevi, i tempi di consumo, ovvero con ritmi giornalieri e settimanali. Monetizzazione La monetizzazione delle economia, quindi, ovvero l’uso di moneta negli scambi, ebbe in primo luogo l’effetto di creare una estensione delle reti di definitività e quindi un aumento nello spessore dei mercati. Quest’ultimo venne reso manifesto dalla maggiore fiducia nell’azione dello scambio e nella riduzione del prezzo, reciproco della moneta, investimento specifico utile all’efficacia del contratto: condizione che fu portata al suo estremo per mezzo di carta-moneta, con l’uso di una moneta- merce “intrinsecamente inutile”. Questo risultato, a cui era favorevole l’insieme della comunità mercantile, si impose per il vantaggio di estendere un costume comune, l’uso di uno standard, che la letteratura economica indica convenzionalmente come gold standard, che fu in realtà molto più eterogeneo dello standard oro in senso materiale poiché comprese monete in argento e rame, banconote, obbligazioni private (le lettere di cambio) e pubbliche, titoli del debito di Stati, governi, città etc. Price-specie flow mechanism La letteratura economica rimanda la possibilità che questo meccanismo di definizione dei prezzi potesse attuarsi mediante la regola proposta da David Hume, definita price-specie flow mechanism. Secondo tale regola, muovendo da una posizione di equilibrio tra i mercati A e B, quando in uno dei due si viene a determinare una radicale contrazione o aumento dei prezzi – espressi in uno strumento di pagamento indicato come spice, termine che possiamo intendere, per semplicità, come sinonimo di moneta coniata valida in entrambi i mercati – a causa di una improvvisa assenza e o moltiplicazione di determinati beni avvenuta, secondo le stesse parole di Hume, “tutta in una notte”, si avrà un afflusso di oro nel paese in surplus commerciale e una riduzione nel paese in deficit. Se vale la teoria quantitativa della moneta, allora i prezzi aumenteranno nel paese in surplus e scenderanno nel paese in deficit. I beni esteri torneranno a diventare più convenienti di quelli nazionali, i consumatori cambieranno abitudini di spesa e il surplus sparirà fino a ritornare ad una situazione di equilibrio. Molte volte si è aperta la discussione tra filosofi ed economisti sulla validità di questo automatismo, assimilato da Keynes a quello delle regole del gioco, per ottenere la misura dell’equilibrio negli scambi della bilancia commerciale tra i paesi. Inoltre, all’efficacia retorica dell’idea di indicare la regola, è stata associata poi in molti autori contemporanei quella di farla coincidere con lo standard nel pagamento cioè con l’uso del metallo coniato destinato alle operazioni di saldo valutario. In questa sede, non riteniamo opportuno assumere come valido il meccanismo proposto da Hume. Esso, infatti, presuppone la capacità di una rapida variazione dei 5 prezzi interni e del loro naturale riverbero sul mercato internazionale3. La moneta (unità di conto) è una quasi rendita, poiché il suo valore, diverso in ogni momento, deriva dal comportamento non solo dalle scelte del possessore ma, soprattutto, da quelle degli agenti che in ogni momento la richiedono o se ne liberano, facendo si che il possessore le attribuisca il valore non di ciò che ha acquisito, ma di quello che potrà acquisire. Questo modo di intendere implica l’esclusione dell’automatismo tra i flussi. Essi, infatti, possono avvenire solamente in seguito alla decisione del proprietario degli effetti de pagamento di alienarli, cedendo, in questo modo, a fronte di un bene o di un servizio equivalente, il suo privilegio e/o rischio di rendita ad un altro operatore4. Stopping rule e gold standard Nei mercati di fine Settecento, all’intero di società preindustriali, si realizzano, come documentato dalle testimonianze dei contemporanei, una molteplicità di scambi ordinati secondo la preferenza di portafoglio degli agenti. Questi ultimi attivano una catena di definitività estesa per azione dell’arbitraggio fino a quando il flusso di moneta metallica, misurata in funzione dello standard, non viene a cessare o per mancanza fisica del mezzo di pagamento in grado di per poter continuare la catena, o perché il costo per ottenerlo è percepito, o è di fatto, superiore al vantaggio che esso potrebbe garantire. Tale condizione, nota come stopping rule, è documentata dai libri dei contabili dei mercanti che venivano portati come evidenza di prova nelle inchieste promosse dal Parlamento inglese nei primi anni dell’Ottocento. Ad esempio, la stopping rule è esplicitata in modo puntuale nella corrispondenza di un operatore di cambi quale fu, prima della sua attività politica ed accademica, David Ricardo. 5 L’attenzione, con chiara finalità di politica economica, riservata nel secolo scorso, a partire da Keynes, alle inchieste parlamentari appena menzionate, ha portato alla sovrapposizione tra l’idea e la pratica del gold standard e le modalità con cui il sistema dei pagamenti è stato effettivamente regolato. Se si osserva, però, la storia di quest’ultimo con attenzione, si noterà che i due aspetti rimangono nettamente distinti. Si deve, ad esempio, ricordare che l’uso di monete in oro come strumento di pagamento nelle transazioni all’interno dei mercati domestici e in quello internazionale si ebbe solamente a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, ovvero dopo che i parlamenti della Germania ed in seguito degli Stati Uniti stabilirono il corso legale esclusivamente alle monete in oro. Diversamente, quello che ha interessato il sistema mercantile, quasi un secolo prima, è stata la sua condizione di gold standard che se riferita al pagamento, va intesa come sistema di stopping rule; se riferita al cambio, va intesa come egemonia della sterlina inglese, egemonia dovuta alla centralità che la piazza di Londra riuscì ad acquisire sia nel mercato internazionale delle merci, sia in quello dei titoli finanziari. Tuttavia se la prima Veniva postulata, cioè, un’effettiva condizione di parità del potere di acquisto tra i due mercati, tale da esercitare una sequenza di riallineamento delle partite correnti e, in ultimo, della bilancia commerciale tra i due paesi in modo aggregato al punto di dare alla moneta il valore di un bene neutro, convenzionale. 4 Ritengo inoltre che non si possa anticipare al sistema mercantile la capacità di operare in una condizione di legge del prezzo unico; cioè di essere in grado di organizzare gli scambi per ogni possibile punto della funzione di domanda con un bene identico su mercati diversi tale per cui lo scambio può avvenire solo al suo prezzo naturale, quello imposto dal costo medio, indipendente dalle variazioni a breve della funzione della domanda - poiché solo variazioni nel prezzo relativo dei fattori, cioè nel lungo periodo – possono portare ad avere un diverso costo medio e quindi un utile diverso per il produttore di quel tipo specifico di bene e servizio. 5 La diversa lettura che ne è stata data deriva dal modo in cui essi sono visti; cfr. qui introduzione. 3 6 condizione, ovvero il gold standard riferito al pagamento come sistema di stopping rule, può essere accolta in ragione della sua semplificazione, questo non risulta vero per la seconda condizione, ovvero l’egemonia della sterlina inglese e della piazza di Londra. Resta infatti da spiegare perché, tra le grandi piazze mercantili e finanziare europee della fine del Settecento, ovvero Amsterdam, Parigi e Londra, fu quest’ultima, con la sua sterlina, ad acquisire, già negli anni Quaranta dell’Ottocento e poi maggiormente nei decenni seguenti, la posizione di moneta chiave negli scambi internazionali. 1.2 Il sistema mercantile: le componenti La composizione del portafoglio finanziario nell’epoca mercantile è riferibile a quattro tipologie di effetti finalizzati ad un unico obiettivo ottenere guadagno in conto capitale: titoli a lunga e a breve scadenza emessi da enti pubblici; cartelle fondiarie; cambiali; monete coniate. Questa condizione esplicita rimanda ad una gerarchia nell’uso distinto di due sottoinsiemi di effetti finanziari: il primo destinato al risparmio in modo diretto (accantonando valore) e assicurativo (garantendo ciò che è stato assegnato), in cui rientrano i titoli pubblici a lunga scadenza e le cartelle fondiarie; il secondo, destinato a migliorare l’efficacia degli scambi commerciali, la circolazione dei beni le pratiche di pagamento, che comprende cambiali, titoli a breve, pagherò, monete. Questa distinzione non riserva attenzione agli effetti finanziari utilizzati per pratiche speculative, come cambiali di arbitraggio, contratti a termine etc., non perché essi non fossero presenti, ma perché non componevano la parte fondante rivolta ad utilità come esito della contrattazione mercantile e non a utilità come esito del tempo di detenzione di un bene a fine speculativo (ad es. per la differenze nel valore dei tassi di interesse tra beni patrimoniali simili). 1.2.1 La finanza pubblica Nel corso del ‘700 si ebbe una rivoluzione nei rapporti finanziari tra potere centrale, Stato, Governo e popolazione. Nella età moderna, Stati e Governi si avvalsero del mercato finanziario per ottenere in un tempo più breve del normale le disponibilità di pagamento che i tempi e le scelte della politica imponevano loro: ciò accadde quasi sempre in caso di guerra. La soluzione istituzionalizzata a partire dal ‘500, sull’esempio della corte di Spagna, fu quella di concordare con mercanti contratti di anticipo sui gettiti fiscali dovuti al sovrano per tasse sulla proprietà, sui consumi, sugli scambi. Tali contratti prevedevano la vendita del diritto di ricevere il gettito di imposta tramite la nomina del creditore e dei suoi eredi all’incarico di esattore. Oppure, il creditore veniva iscritto come titolare di un vitalizio/pensione per un tempo che si poteva fin da principio definire come esteso in modo ereditario per alcune generazioni. In questo modo, per mezzo della vendita degli uffici, delle cariche pubbliche e delle esattorie, i sottoscrittori del debito dello Stato facevano da intermediari tra Corona e popolazione. Nel ‘700 la condizione si ribaltò: la Corona divenne l’intermediario tra i mercanti e la popolazione. Questa condizione modificò la centralità della relazione: nel primo caso il mercante offriva un capitale e chiedeva la restituzione del medesimo; mentre, nel secondo caso, il mercante collocava presso la popolazione i titoli che davano l’utile di quel capitale. 7 Il debito pubblico passò così da essere composto da prestiti a breve termine ed ad alto rendimento – non cedibili a terzi poiché definiti con vincoli personali (vitalizi) e titoli a breve scadenza (pagherò o simili) emessi dai governi per sostenere la spesa corrente di opere pubbliche – a essere composto da prestiti concessi da un insieme numeroso di sottoscrittori di titoli pubblici a lunga scadenza e a basso rendimento, negoziabili in quanto consentivano la riscossione di rendita proporzionale al loro valore nominale tramite la consegna a date prestabilite di una cedola – staccata dal titolo - pagata al portatore6. Rivolgendo l’attenzione alla diffusione alla rilevanza di questa pratica, è evidente che essa vada riferita all’azione congiunta di tre comunità mercantili/finanziarie: quelle olandese, francese e inglese. L’opportunità di considerare l’insieme congiunto dell’azione delle tre comunità mercantili deriva innanzi tutto dal contributo dato da ognuna alla formazione del mercato dei titoli, e inoltre dalla possibilità di considerare l’effettiva rilevanza di questo mercato solo dopo che tutti e tre i protocolli, con cui le singole comunità nazionali li hanno trattati, furono completati. Le regole – contratti istituzionali – che consentono la soluzione di problemi di gestione della cosa pubblica, sono state molto spesso copiate da Stato a Stato, specie quando definivano procedure su beni scambiati sul mercato internazionale, non fosse altro perché il loro assetto contribuiva alla definizione del prezzo finale del bene scambiato, rappresentando una barriera non tariffaria. In sintesi le diverse procedure, inizialmente definite dai tre Stati (dalla metà del ‘600 a quella del ‘700) e poi progressivamente integratesi reciprocamente nel secolo seguente (dalla metà del ‘700 a quella dell’800), sono riferibili a tre contratti tra i soggetti creditori e debitori, in se’ e in modo congiunto, che possiamo immaginare come i lati e l’area di un triangolo. - Il primo fu rivolto a definire le modalità capaci di dare garanzia al creditore (sottoscrittore) della solvibilità effettiva del debito, a definirne cioè le caratteristiche che doveva avere il titolo per poter “assicurare” il sottoscrittore, che svolgeva, acquistandoli, una azione di risparmio tutelato dallo Stato e non di rischio indotto dal potere pubblico (qualità, quest’ultima, che avevano avuto fino ad allora i mercati dei titoli; l’ultimo caso rilevante è quello del consolidamento dei 2/3 attuato dalla Repubblica Francese nel 1797). - Il secondo fu costituito per rispondere all’esigenza comune ad entrambi – creditori e debitori – di conoscere con certezza il costo dell’emissione di ogni partita di debito/credito che il mutare delle condizioni del mercato finanziario delle altre rendite (quelle fondiarie, immobiliari etc.) poteva suscitare sul valore nominale del titolo della rendita pubblica precedentemente sottoscritta, comportando di riflesso possibili perdite in conto capitale per i sottoscrittori e possibili variazioni in conto interessi per l’emittente. - Il terzo fu rivolto a definire le modalità capaci di dare garanzia al debitore (Corte/Governo) interessato a ordinare e mantenere la stabilità del valore annuale del debito (flusso), che veniva a far parte delle uscite delle casse dello Stato, in modo da controllare la politica fiscale e il consenso politico del governo. La soluzione titolo – cedola propone - in modo evolutivo – il titolo finanziario: fede di deposito e warrant, cioè la soluzione di anticipazione su deposito merce e negozio del titolo pronti contro termine che ne deriva; una soluzione diffusasi a partire dai docks di Londra dalla metà del 600 finalizzata ad attuare lo scambio merci a partire dal momento in cui si era sicuri del loro arrivo/giacenza in porto. 6 8 La costruzione del primo lato/protocollo fu opera dei mercanti olandesi, interessati a disporre di un bene rifugio/risparmio con cui tutelare la variabilità delle loro entrate, definendo la tipologia del bene scambiato come un titolo del debito pubblico non redimibile a basso interesse. In questo caso l’asimmetria tra sottoscrittore del titolo ed emittente – condizione che aveva per secoli portato ad una limita crescita d questo tipo di mercato inducendo i privati a chiedere la garanzia della restituzione da parte del potere pubblico, impegnando spesso in ciò una terza parte (una banca di giro) o ottenendo in compenso della sottoscrizione il beneficio delle entrate fiscali – fu reso possibile stabilendo il carattere di irredimibilità del debito sovrano e il basso valore intrinseco di ogni singolo titolo di sottoscrizione. Queste condizioni erano possibili nel caso della comunità olandese, poiché i sottoscrittori erano anche i rappresentanti dello Stato. La Repubblica olandese era infatti retta dalla sua comunità mercantile. Il rischio di non onorabilità del debito era dunque vicino a zero e la sottoscrizione svolgeva così la funzione di investimento/rifugio, di assicurazione contro la volatilità dei guadagni mercantili. La costruzione del secondo lato/protocollo fu opera dei mercanti inglesi, interessati a disporre di uno strumento di pagamento con cui favorire la crescita del volume degli scambi interni e raccogliere risparmio (oro) spendibile sul mercato estero. La condizione di commercio dei titoli definita in Olanda fu modificata e resa possibile in ogni un contesto istituzionale in cui non vi sia un potere assoluto del Governo che emette il debito – condizione che di per sé rende non credibile il pagamento dopo che il governo sia decaduto – , attraverso la promozione di una società finanziaria privata, la Banca d’Inghilterra, che riceve dal governo oltre al beneficio di un rendimento sul prestito, la possibilità di usare il capitale raccolto, di cui solo una parte è versata al Governo, come garanzia per la commercializzazione di effetti commerciali, tra cui l’emissione di titoli utilizzabili per il pagamenti interni allo Stato (banconote). Il terzo protocollo/lato fu opera dello Stato francese. L’esigenza di conoscere e definire l’entità dei flussi delle uscite che lo Stato era chiamato a sostenere in ragione delle rendite concesse al ceto nobiliare e alla nobiltà degli uffici portò l’amministrazione centrale a diverse iniziative di riordino delle rendite emesse e al loro mercato. Le guerre di fine secolo, indussero poi i proprietari dei titolo a venderli per poter mantenere il loro tenore di vita. Sebbene la svalutazione del valore dei titoli della rendita non potesse che costituire un vantaggio per il governo centrale, non poteva esserlo l’attività speculativa che vi si accompagnava, in quanto rendeva difficile stimare i possibili flussi di cassa. Al processo di riordino sistemico voluto da Necker negli anni ‘80 del ‘700 e negli anni della Rivoluzione, seguì, per opera dei governi Napoleonici, il completamento della riforma della Finanze, per mezzo della istituzione della Cassa di Ammortizzazione e con la delega alla istituita Banca di Francia di tutelare la parità del valore del titolo. Il cementarsi del mercato dei titoli tra le tre piazze finanziarie di Amsterdam, Londra e Parigi, fu poi come, già ricordato in paragrafo 1.1.1, l’esito della guerra; ma fu anche della capacità delle regole di diffondersi per imitazione dando tuttavia luogo a specifici effetti di articolazione e di implementazione. I paragrafi seguenti presentano la sintesi degli aspetti generali dei tre mercati nazionali. L’Olanda La modalità dei governi di ottenere finanziamenti a breve compensandoli con premi, con pensioni, privilegi fiscali o concessione di monopoli mercantili, finì con il primato commerciale delle città-stato. Tra queste si affermò nel corso del ‘600 la Repubblica Olandese, la cui popolazione prospera e frugale fu in grado sia di risparmiare abbastanza 9 per autofinanziare per decenni la guerra di indipendenza dalla Spagna, sia di investire nel commercio e nel debito di altri Stati. Governata da una aristocrazia mercantile la Repubblica Olandese strutturò la propria capacità di autofinanziarsi per mezzo della sottoscrizione di titoli destinati a sostenere le spese militari della Repubblica, cioè a garantirne l’esistenza politica, e le spese per opere pubbliche (quali dighe, canali, etc.), che ne assicuravano l’esistenza territoriale. Questi titoli divennero così di fatto negoziabili non solo poiché consentivano il trasferimento del diritto di alienazione del beneficio che rappresentavano, ma anche per la loro aspettativa di rischio vicino a zero: l’insolvenza del debito avrebbe potuto derivare solo dal fallimento politico della Repubblica o da gravissimi eventi naturali. Al fine di consentire una efficace emissione in volume e diffusione del titolo, il governo istituì un fondo di ammortamento per sostenere il premio di rimborso annuale al valore nominale dei titoli sorteggiati. Diventando, di fatto, ad essere simile a un premio di lotteria, il titolo pubblico si diffuse anche nei ceti non rivolti alla finanza, assumendo carattere di titolo di garanzia, di forma di risparmio tutelato, elemento necessario per una comunità che non poteva trovare questa condizione nell’acquisto di terre. Nel caso del ceto mercantile, a queste ragioni si unirono quelle di poter disporre di un bene ad alto valore nominale in modo continuo. Disponibilità del titolo e rendimento minimo compensato da certezza nella riscossione, davano così ai titoli pubblici olandesi una garanzia di liquidità che i mercanti gestivano attivando sulla propria piazza finanziaria, Amsterdam, procedure di clearing e di cambio coperto, simili a quelle che attivavano su pronti contro termine emessi in garanzia di compra/vendita di grani con ditte attive su Amburgo e/o Lisbona. Se nel corso del ‘600 la Borsa di Amsterdam aveva trattato principalmente azioni della Compagnia Olandese delle Indie orientali in merci e cambiali, nella prima metà del ‘700, l’aumento dei traffici mercantili e la decisione della Repubblica di mantenere una posizione di neutralità nei conflitti tra Russia, Austria, Prussia, Spagna, Francia e Inghilterra, la fece divenire sede privilegiata nella emissione e nel collocamento dei titoli del debito degli Stati coinvolti nei conflitti dinastici. Dal 1713 al 1763 furono emessi prestiti per una media annua di 4 milioni di fiorini (cioè circa un totale di 200 milioni), i quali, sebbene quasi esclusivamente emessi a vantaggio di Austria e Inghilterra, furono poi oggetto di transazione nel mercato secondario e consentirono la crescita del mercato dei titoli pubblici di altri Stati. Negli anni 1763-80 il volume aumentò fino al doppio del valore, e le emissioni si estesero fino a comprendere anche Danimarca, Svezia, Russia. Tra il 1780 e il 1794 – il periodo di massima espansione – il mercato raggiunse la media di 20 milioni annui di emissioni; a fronte di ciò l’elenco dei titoli ammessi alle contrattazioni passò dal numero di 41 a quello di 110. A fronte dell’attività finanziaria svolta sul collocamento dei titoli del debito di altri Paesi – per cui gli agenti ottenevano un premio di commissione – i titoli olandesi ebbero il tasso nominale più frequente a 2,5% e quotazioni di vendita di norma compresi tra 96 e 99 punti. Anche i tassi di sconto presso la maggiore banca olandese, la Banca di Amsterdam7, che assicurò liquidità tanto alla città emporio quanto alla Compagnia olandese delle Indie Orientali, restarono normalmente compresi tra il 24%. Tuttavia, in modo parzialmente contraddittorio con l’espansione nel volume del mercato dei titoli, la seconda metà del ‘700 vide il progressivo indebolimento della centralità finanziaria di Amsterdam. La rivalità tra Olanda, Francia e Inghilterra per il controllo delle rotte marittime e commerciali verso l’India e il sud-est asiatico e la crescita delle marine mercantili di Francia e Inghilterra, comportarono numerose restrizioni al L’istituto fondato nel 1609 fu tra maggiori enti nel commercio dell’oro e dell’argento almeno fino alla metà del 700. 7 10 commercio coloniale precedentemente sostenuto dagli olandesi e significativi mancati guadagni. Il successo con cui l’Inghilterra uscì dalla Guerra dei sette anni (1756-1763) fu determinante: il traffico commerciale con le colonie europee in Asia e in America fu crescentemente dominato dalla marina inglese; Londra divenne un sempre maggiore emporio, sia per le merci, sia per l’oro che riceveva dal Brasile. Il sostegno militare dato dall’Olanda alle colonie Americane nella guerra di Indipendenza finì poi per determinare il conflitto con l’Inghilterra (1780-84): la sconfitta olandese, e il conseguente consolidamento della forza militare e commerciale inglese nel commercio del mare Baltico, segnò una condizione effettiva di non ritorno. Il commercio navale, sia sulle rotte sulle aree coloniali sia su quelle europee, risultò destinato a confinare l’Olanda in una posizione di minoranza rispetto a quello sostenuto dai grandi Stati territoriali. Le guerre napoleoniche, cui la Repubblica Olandese partecipò come alleata dell’Inghilterra, ne segnarono in ultimo il declino anche sul piano politico: la Francia invase il territorio olandese nel 1794, condizione cui seguì la proclamazione di un nuovo Stato: la Repubblica Batava. Al declino della piazza finanziaria di Amsterdam contribuì inoltre il costituirsi del circuito di capitali tra Amsterdam e la City di Londra, destinato a consentire il pagamento dei sussidi che il Governo inglese inviò ai Paesi suoi “alleati” nella guerra contro la Francia. Questo, infatti, rafforzò i legami tra le comunità finanziarie inglesi e olandesi (l’esempio maggiore fu il matrimonio che nel 1796 unì le famiglie Hope e Baring), ma già dal 1763 la maggiore banca olandese si era trasformata da ditta familiare in Hope & Co., estendendo la società a 26 partner, tra cui anche l’ inglese J. Williams. Per almeno ancora il primo decennio dell’Ottocento la piazza di Amsterdam mantenne una forte rilevanza nel mercato di titoli pubblici. Sebbene nel 1800, per es. vi siano stati quotati settanta prestiti a favore di quattordici governi stranieri, per un valore di circa 500 milioni di fiorini, un valore pari al doppio del prodotto interno lordo olandese, le modalità mercantili, il vantaggio di ogni affare in conto capitale prima che in conto interessi, la portavano ad operare principalmente verso il commercio con le proprie colonie e a mantenere investimenti in titoli pubblici come forma di rendita. Ne seguì il “declino” della sua posizione di piazza di emissione: tra il 1814 e il 1860 vi si quotarono prestiti per 345 milioni. A questa, come detto, fece da reciproco la crescita del mercato coloniale: tra il 1830 e il 1850 i traffici con le Indie olandesi, che per la maggior parte transitavano per Amsterdam aumentarono ad un ritmo di 5 per cento annuo. In ultimo, dunque, ciò che risulta importante della esperienza olandese è la sua tendenza ad estendere i comportamenti mercantili ai titoli del debito pubblico, modellando questi ultimi per rischio e utilità in modo tale da renderli disponibili al ceto mercantile. La possibilità che il rapporto rischio/utilità potesse essere esteso all’insieme dello stock dei titoli restò una condizione propria solamente alla Repubblica olandese. In nessun altro Stato il ceto dei sottoscrittori era al tempo stesso così pienamente rappresentato nel poter politico da rendere il rischio di default pari a zero. La possibilità di estendere questo mercato si ebbe solo quando fu reso effettivo il processo di compravendita dei titoli in ragione della aspettativa di una stabilità – garantita dallo Stato – del flusso che il titolo assunto come irredimibile era in grado di dare, consentendo in questo modo una continuità nel tenore di vita e nella pratica di commercio. Queste condizioni trovarono la loro maggiore stensione nei contesti economici e sociali d’ Inghilterra e Francia. L’Inghilterra 11 Nel corso del ‘700 la comunità inglese contribuì a definire le modalità di funzionamento del mercato della rendita, sia accrescendo il volume dei titoli, sia definendo le modalità di gestione dell’emittente e del sottoscrittore. L’elemento centrale di questi processi di innovazione finanziaria fu l’associazione tra i titoli del debito pubblico e gli strumenti di pagamento bancario (banconote). L’uso dei titoli pubblici come forma di garanzia per le azioni di credito commerciale, operate con cambiali interne e/o banconote (invece che con oro e argento), consentì di far crescere il volume delle transazioni/speculazioni commerciali sul mercato interno, e di conseguenza affermò l’attività mercantile come una possibile alternativa al possesso di terra quale veicolo di successo economico e di mobilità sociale, specie per le persone che per motivi ereditari erano esclusi da un’utile ripartizione del patrimonio fondiario ed erano disposti a organizzare la loro attività economica in modo mercantile, cosa non ritenuta pari alla condizione di nobile, di Lord. Tenuto conto di ciò, si comprende come il cambiamento si abbia dopo la rivoluzione del 1688, cioè con la pratica di governo di un principe olandese divenuto re di Inghilterra, Guglielmo III, un monarca che si tenne tanto lontano dalle modalità del potere personale, assoluto, quanto vicino alla comunità mercantile degli Whig, che dominavano il Parlamento e che promossero la crescita della comunità dei mercanti/orafi-banchieri londinesi, in ultimo della City. Un contributo fondamentale al successo politico del governo di Guglielmo III fu la capacità di definire ed attuare nuove modalità di debito dello Stato, ovvero di prestiti al governo. Si avviò un processo di identificazione tra il re e la nazione di fatto simile a quanto era in uso nelle province olandesi. Tale processo ebbe però nel caso inglese una evoluzione imposta dal conflitto sociale e politico tra Wigh e Tory: questi ultimi, normalmente schierati con la casata degli Stuart, non avrebbero infatti mai riconosciuto il debito contratto da un altro sovrano. La non possibilità di contare sulla aristocrazia fondiaria come polmone finanziario per la guerra contro la Francia spinse così il governo a promuovere la sottoscrizione di un grande debito di guerra in modo compatibile con tecniche definite nella pratica mercantile, validando la sottoscrizione del prestito attraverso la costituzione di una società di sottoscrittori. Il parlamento votò nel 1694 una tassa sui traffici marittimi destinata alla remunerazione di chi avesse finanziato il debito utile al proseguimento della guerra contro la Francia. La finalità era raccogliere 1 milione 200 mila sterline. Si stabilì inoltre il privilegio per i sottoscrittori di associare le loro sottoscrizioni e porle a fondazione della azienda del governo denominata Banca di Inghilterra. Per il prestito del suo intero capitale, la Banca avrebbe ricevuto dal Governo una rendita annuale perpetua – esente da imposta – pari all’8 per cento. A ciò si univa il diritto di commerciare oro, argento e cambiali, ed emettere banconote convertibili. Il totale delle passività non poteva superare il capitale, che doveva essere versato per un quarto in contante. La banca accettava depositi dal Governo e dal pubblico ed emetteva note pagabili al portatore ed accettate in pagamento dal governo, il quale le usava per pagamenti verso terzi. I privati usavano le note per effettuare rimesse su Londra. Alla banca fu proibito di prestare a privati. Il divieto venne eliminato con il rinnovo dello statuto del 1709, data di scadenza del prestito di fondazione: con quella stessa operazione di riordino istituzionale fu deliberato il raddoppio del capitale, l’autorizzazione al credito ai privati e l’emissione di cambiali. Al tempo di Guglielmo III, salito al trono nel 1689, il debito pubblico inglese aveva uno stock vicino al milione di sterline, mentre alla fine delle guerre napoleoniche il suo volume era di 900 milioni. In ragione delle modalità di emissione, all’epoca di Guglielmo III, l’insieme del debito era composto da titoli a termine, mentre alla fine del ‘700 era composto da titoli consolidati. 12 Per tutto il ‘700 il volume delle emissioni e la loro tipologia fu determinato dalle spese di guerra, il corso delle quali comportò di conseguenza il prezzo delle emissioni e di riflesso il rendimento dei titoli, che restarono acquisiti e venduti in ragione della loro possibilità di consentire guadagni in conto capitale. Nel 1702 la guerra contro la Francia fu finanziata con rendite annuali e prestiti a breve termine sostenuti dalla Banca d’Inghilterra. Le rendite annuali furono negoziate normalmente con scadenze trentennali, in alcuni casi anche con limiti fino ai 99 anni o perpetue. Dal 1715 la Banca d’Inghilterra prese ad amministrare tanto il debito consolidato quanto il fluttuante. Si determinò così un legame simbiotico tra il premio pagato dal governo e il premio richiesto per ottenere credito. Chi voleva contrarre prestiti, dunque, doveva competere con il governo, per cui quando il prezzo dei titoli pubblici era alto (vicino a 100) era facile ottenere credito per attività commerciali, mentre quando il prezzo era basso (vicino ad 80) diventava non più conveniente chiedere a prestito con finalità di commercio o di realizzazione di attività economiche, quali canali, strade recinzioni o simili. La Francia In Francia il titolo della rendita (rentes) derivò dalla pratica del concedere rendite, ovvero vitalizi perpetui, ai soggetti, in cambio di servizi resi al potere centrale. I renties offrirono, per esempio, prestiti non redimibili alla corona, ad un tasso del 8%, nel 1522, nel 1536, nel 1537 e nel 1543, ricevendo in cambio rendite coperte con imposte indirette. Il primo prestito, ad esempio, fu fondato sulla tassa sul vino. Più volte vi furono casi di sospensione dei pagamenti e conseguenti pratiche di concordato, con cui la Corona attuava una revisione del debito. Ne seguiva la sottoscrizione di prestiti emessi a prezzi “bassi” e alti tassi reali. In seguito vi furono altri interventi della Corona nella pratica di cancellare il debito, ad esempio ancora nel 1710 e nel 1713 la conversione portò a ridurre il valore nominale ad un terzo. Nonostante ciò, ogni guerra determinava incrementi di rentes. Nel 1789 metà delle rentes erano perpetue, il resto vitalizie, per due, tre, o quattro generazioni. La capacità di raccolta del governo rivoluzionario fu minima: esso si finanziò attraverso l’emissione di assegnati, obbligazioni garantite dalle terre confiscate a nobiltà e clero. La formazione di una nuova realtà statuale portò alla riforma del sistema della rente. È, questa, una condizione che troveremo essere specifica della storia del mercato finanziario francese: ogni volta che cambia la costituzione del governo centrale, cambiano le modalità del mercato della rente, la cui data di origine – intesa così come ancora oggi lo conosciamo - può essere riferita al 1793, data in cui fu creato il Grande registro del debito pubblico nel quale furono iscritti tutti i prestiti validi e le molte denominazioni delle rentes. In questo modo fu assicurata la uniformità e legalità dei diritti. Napoleone incrementò le tasse, consolidò il debito attraverso l’emissione di rentes perpetue retribuite non per mezzo di fondi di ammortamento, ma con modalità pay as you go, cioè con i flussi di entrate tratti dai pagamenti dei paesi sconfitti e si adoperò a stabilizzarne il corso. Nel 1797, l’intero debito pubblico fu consolidato in rentes al 5%. Operazione, quest’ultima, nota come bancarotta dei due terzi, poiché la legge stabilì che soltanto un terzo dei vitalizi poteva essere pagato in contanti, mentre la parte restante lo era in certificati di proprietà della terra. Questa condizione portò ad una rapida contrazione del valore reale del debito e ad un altrettanto rapido aumento dei tassi di interesse con cui si attuarono le azioni di compra/vendita dei titoli della rendita e fondiari. Nel 1797 le rendite furono quotate tra il 6 e il 36 % del loro valore nominale: da quell’anno è disponibile la serie storica delle quotazioni che ebbero, a seguito delle vittorie militari di Napoleone e dell’azione svolta dalla istituita Banca di Francia (1800), 13 un rapido recupero del loro valore nominale: ad esempio, nel 1800 il loro tasso medio fu del 16,25 % nel 1807 del 5, 37%. Nonostante le frequenti oscillazioni di valore per tutta la prima metà dell’Ottocento, i fondi a lungo termine furono utilizzati dalla maggioranza dei sottoscrittori come beni di risparmio, prima che come “investimenti” finanziari. Furono cioè intesi come modi per tutelare la composizione del patrimonio, prima che per aumentarne il valore8. Questo portò ad avere sempre una maggiore attenzione al momento dello scambio in relazione alle variazioni in valore capitale, cioè al prezzo del titolo prima che al suo tasso di interesse nominale e alla volontà dei sottoscrittori di non estinguere il credito poiché ci si attendeva possibili vantaggi in conto capitale. Per l’insieme del sistema finanziario mercantile l’intero mercato dei titoli fu costituito dalle rentes con quattro valori nominali: 3%, 4%, 4,5% e 5%; nel 1852 le rendite 5% furono rimborsate. Il periodo è scandito dalle differenze nei regimi: Impero napoleonico (1804-15); governo dei Borboni (1815-30); governo di Luigi Filippo (1830-48); Seconda Repubblica (1848-52). Ogni variazione rilevante nei rendimenti dei titoli coincise con i cambiamenti di regime; ciò a conferma della stretta relazione tra il titolo e le politiche fiscali (piuttosto che tra il titolo e la politica monetaria)9, si associa ad mercato monetario principalmente composto da strumenti di pagamento in metallico e alla stabilità della politica di sconto del principale operatore sul mercato dei titoli la Banca di Francia –istituita nel 1800 – da Napoleone con lo specifico fine di mantenere stabile il corso dei titoli del debito pubblico così da non favorire le tensioni sociali che si erano manifestare negli anni ‘90. Sotto Napoleone I, le rentes al 5% consolidate nel 1797 ebbero un recupero molto veloce: la loro media annua passò dal prezzo di 16,6 del 1798 a quello di 30, 6 nel 1800 a 56 nel 1804 a circa 80 nel quinquennio 1807-12; per tutto il periodo il rendimento rimase compreso tra il 6 e 8%. Nel periodo in cui il governo francese tornò ad essere guidato dai Borbone il mercato mobiliare ebbe una significativa crescita: il crollo del valore della terra, seguito alla Rivoluzione e alla privatizzazione forzata dei beni agrari, il rapido aumento della numerosità delle persone che potevano disporre di un patrimonio borghese non gravato da pesanti imposte, non fosse altro per il ventennio di pace che di fatto seguì al trattato di Vienna rese credibili le capacità di raccolta e le previsioni di spesa pubblica delle corti europee e portò ad un periodo di riconversione del debito sostenuto con nuove emissioni di titoli con un tasso di interesse reale di quasi identico a quello dei titoli in corso ma con un interesse nominale più basso, con la contrazione della spesa corrente per titoli. La Borsa di Parigi conobbe una grande espansione (il prezzo di un seggio passò dai 30 mila franchi del 1816 agli oltre 800 mila del 1830) e la maggior parte delle contrattazioni avevano a oggetto i titoli pubblici che passarono da un prezzo minimo di 52 nel 1815 a quello di 106 nel 1829. La rivoluzione del 1830, il governo di Luigi Filippo causò una netta svalutazione, la fine di una bolla speculativa sui titoli che essendo dal 1828 scambiati – dalle tesoreria pubblica contro contanti assunsero a fronte della crisi istituzionale il loro valore di mercato quello che poteva ricavarsi dall’ attività di credito commerciale attivo tra la piazza di Parigi e le periferie finanziarie dello stato. Nella seconda metà del XIX secolo il sistema industriale consentì alle imprese di autofinanziarsi utilizzando gli stessi metodi che nel sistema precedente erano stati usati dai governi: la raccolta dei risparmi destinata a investimenti fu attuate mediante la negoziazione e lo scambio di obbligazioni a lungo termine. 9 Condizione che vedremo essere invece propria al mercato della rendita inglese 8 14 L’ancorarsi di valore reale dei titoli della rendita con quello che si stimava possibile ottenere dalla attività mercantile; prima che da quanto potesse stimarsi come definito in funzione della politica finanziaria del governo, fu rilevante almeno fino alla metà del secolo e segnò uno dei caratteri espliciti del periodo finanziario mercantile. I titoli delle rendita erano infatti assimilati a tutti gli effetti a una riserva di liquidità nella composizione patrimoniale di un ceto attivo in un mercato che da un lato non ebbe – fino alla metà del secolo – una rete di agenzie bancarie in grado di supportare il credito commerciale dall’altro vide il ripetersi di pratiche di conversione nella forma di offerta di rentes contro contanti nel 1831 e 1832 per un tasso nominale del 5% e prezzi di 84 e 98,5; a prezzo pieno e rendimento del 4% nel 1835 e 1841; al rendimento del 3% nello stesso 1841 con prezzo di 78,5 e con prezzi di 85,7 e 78, 2 nel 1844 e 1847. E ancora al prezzo di 75,2 con rentes a 5% nel 1848 e conversione di tutta la rendita del 5% in essere con i nuovi titoli all’interesse di 4,5 %, nel 1852. In altri termini il periodo 1830-50 quando confrontato con il precedente decennale vide la discesa per i sottoscrittori dei titoli della rendita a lungo termine di circa il 10 per cento (da 5,40 a 4,86), sebbene si fosse in uno dei periodi di maggiore stabilità finanziaria dello Sato francese. Questa contrazione va intesa sia come indicativa di una tendenza strutturale alla riduzione dei consolidato in quanto i risparmiatori divenivano progressivamente confidenti con nuove forme di investimento finanziario verso azioni e obbligazioni sia come esisto della variabilità di questo tipo di titoli per la alla tendenza degli operatori di spostare le quote liquide del proprio portafoglio in operazioni speculative misurate dalla differenza dei guadagni ottenuti in conto capitale, siano stati questi azioni dei canali – tra cui quello di Suez – speculazioni sui cambi o sui titoli pubblici di Stati sovrani (es. Russia), e/o generalmente nel commercio stagionale quale per esempio quelli dei grani tra Parigi e Amburgo, Marsiglia, Livorno, o delle sete tra Parigi, Torino, Lione, Vienna. Belgio, Prussia e Baviera Tra quei paesi che costituivano la periferia economica vi erano il Belgio, la Prussia e la Baviera. Il Regno del Belgio nacque nel 1831, separandosi dalle Province Unite olandese alle quali era stato unito nel 1815 dal Congresso di Vienna con il fine di creare uno Stato cuscinetto a nord della Francia. Il nuovo Stato, retto da Leopoldo I, perseguì per gran parte del XIX secolo una politica commerciale di libero scambio, ispirata al modello inglese e olandese, adottando contemporaneamente, in campo finanziario, i metodi a quel tempo prevalenti. Anche la storia finanziaria tedesca si lega a doppio filo alla sua storia politica. Il processo di unificazione, che si velocizzò a partire dagli anni ’60 del XIX secolo, fu preceduto dall’organizzazione di un’unione economica e doganale, lo Zollverein, sotto la spinta della Prussia, che aveva lo scopo di oltrepassare le restrizioni al commercio causate dalla molteplicità di sistemi tariffari vigenti nei singoli Stati germanici. Alla costituzione della nuova nazione belga nel 1830, i tassi di interesse si portarono immediatamente su livelli elevati: le rentes al 2,5%, vendute ad un prezzo di 38,5 punti, davano un rendimento di 6,49% nel 1831, per poi calare nel quindicennio successivo rimanendo, però, su percentuali mediamente elevate, il cui minimo fu il 4,17% registrato nel 1845. Nello stesso periodo, le rentes al 5% rimasero anch’esse più o meno stabili su rendimenti elevati, iniziando con un 5,26% nel 1833 per arrivare, con lievi variazioni, al 5,03% del 1847. Per quanto riguarda i territori germanici, invece, il percorso di progressiva costruzione di un’unica entità statale su tutto il territorio tedesco è quindi un percorso di lunga durata, che giunge a piena maturazione, come detto, nel 1871. Parallelamente, questo significa che la gestione delle finanze pubbliche era, precedentemente a questa data, demandata alla miriade di entità statali che esistevano su 15 quel dato territorio. Tra queste la Prussia, che guidò il processo di unificazione, era senza dubbio il paese economicamente più ricco, con il maggior numero di abitanti e territorialmente più vasto, seguito dal Regno di Baviera. Nel periodo di tempo considerato, le obbligazioni tedesche a lungo termine conobbero un graduale ribasso dei tassi di interesse, i quali rimasero comunque su livelli alti se posti in relazione con quelli degli altri Stati europei. I rendimenti sui titoli al 4% emessi dal governo prussiano avevano, infatti, una media decennale del rendimento che si attestava al 4,92% nel 1829 e al 4,05% nel 1839. Il biennio rivoluzionario del 1848-1849, pur non toccando direttamente il Belgio e le sue città, demoralizzò notevolmente i mercati internazionali. I tassi d’interesse belgi aumentarono, contestualmente al loro deprezzamento: il prezzo delle rentes al 2,5% scese dai 52 punti del 1847 ai 35 del 1848, con un rendimento che salì al 7,15%; mentre le rentes al 5% calarono a 76 punti, rispetto ai 99 dell’anno precedente, con un rendimento che salì al 6,55%. Con il riassettarsi della situazione internazionale, sia a livello politico che finanziario, il tasso di interesse a lunga durata del debito pubblico belga si allineò con i trend della maggiori potenze europee, conoscendo un graduale ma costante calo. Esso raggiunse il suo minimo alla fine del secolo, ma già nel 1879 le medie decennali registravano un rendimento del 3,81% per le rentes al 2,5% e di 4,37% per quelle al 4,5%. Nei territori tedeschi, superate le rivoluzioni del 1848, il processo di unificazione, portato avanti da Otto von Bismarck, che divenne Primo ministro prussiano nel 1862, conobbe sostanzialmente tre fasi: nella prima venne annesso, in seguito ad una breve guerra contro la Danimarca nel 1864, il ducato di Schleswig-Holstein; nel 1866, dopo una guerra contro l’Impero austro-ungarico, condotta insieme all’Italia, fu fondata la Confederazione della Germania del Nord; infine, dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871 venne ufficialmente fondato l’Impero tedesco. I tassi di interesse a lungo termine registrate nella prima metà del secolo rimasero sostanzialmente invariate anche nei decenni successivi. Dopo un calo percentuale, lieve se paragonato ad altri Stati, dovuto al periodo di instabilità politica del biennio 18481849, i rendimenti conobbero qualche variazione ma si assestarono ad un livello alto: la media decennale calcolata nel 1869 era, infatti, de 4,25%. Un trend simile venne seguito dai titoli emessi dal governo bavarese, la cui media decennale del rendimento era di 4,54% nel 1829. Questa percentuale scese al 3,99% nel 1839 e al 3,87% nel 1859, per poi risalire toccando quota 4,19% nel 1869 e del 4,26% nel 1879, quando l’Impero tedesco era ormai una realtà unificata, anche se il governo bavarese conservava forti elementi di autonomia. A partire dagli anni ’80 del XIX secolo, quando, cioè, il governo centrale cominciò ad emettere titoli di debito pubblico nazionali, le percentuali si avvicinano: nel 1883, ad esempio, le obbligazioni prussiane rendevano il 3,93%, quelle bavaresi il 3,94% e quelle del governo imperiale tedesco il 3,92%. La percentuale rimase sostanzialmente invariata anche quando i vari stati pre-unitari cessarono di emettere titoli propri del debito pubblico, i quali vennero sostituiti da quelli del governo centrale tedesco, che fecero registrare una meda decennale del 3,85% nel 1889 16 Tab. n. 1: Prezzo dei titoli pubblici a lungo termine (1800-1871) 1800 1801 1802 1803 1804 1805 1806 1807 1808 1809 1810 1811 1812 1813 1814 1815 1816 1817 1818 1819 1820 1821 1822 1823 1824 1825 1826 1827 1828 1829 1830 1831 1832 1833 1834 1835 1836 1837 1838 1839 1840 1841 1842 1843 1844 1845 1846 1847 1848 1849 1850 1851 1852 1853 1854 1855 1856 1857 1858 1859 1860 1861 1862 1863 1864 1865 1866 1867 1868 1869 1870 1871 INGHILTERRA FRANCIA OLANDA PRUSSIA BAVIERA BELGIO SVIZZERA STATIUNITI Titolial3% Rentesal5% Debitoirredibimibileal2% Obbligazioniemesseal4% Obbligazioniemesseal4% Rentesal4.5% Tassidiscontoapplicati dadiversebanchedi emissione Obbligazionidelgovernofederale Rendimento(%) Prezzo Rendimento(%) 63,687 4,71 30,625 16,28 61 4,92 53,75 9,3 6,44 70,937 4,23 54,5 9 6,02 60,125 4,99 56,75 8,8 6,16 56,625 5,3 56 8,9 6,29 59,5 5,04 57,625 8,7 6,38 61,625 4,87 68,75 7,3 6,14 61 4,92 82,375 6,1 6,08 65,937 4,55 83,125 5,98 5,96 4,49 80,125 6,25 5,85 4,47 81,5 6,15 5,82 4,67 80,5 6,22 5,08 80 6,25 6 4,92 63,875 7,9 6,83 6,3 8 7,5 7,64 66,812 67,125 64,25 59 61 61 Prezzo Rendimento(%) Prezzo Rendimento(%) Prezzo Rendimento(%) Prezzo Rendimento(%) Mediaannua(%) Rendimentodelle Rendimentodi nuoveemissioni mercatiselezionati (%) (%) 7,34 6,94 Prezzo 5,95 4,92 62,5 37,25 6,66 67 4,48 67 7,45 59,75 41 6,09 81,125 4,94 5,02 59,375 8,35 44 5,69 77 5,19 7,25 73,187 4,1 62 8,15 43,25 5,76 73,25 5,46 5,86 77,5 3,87 70 7,2 43 5,8 68,25 5,86 5,78 4,17 69 7,25 43,75 5,7 69,25 5,79 6,7 45,25 5,52 70 5,72 73,75 5,42 5-5,88 5,16 6,15 4,25-4,5 4,57 71,937 67,875 7-7,75 6,12 7,3 5,9 4,42 74,875 73,75 4,07 82,25 47,5 5,25 68,125 5,87 74,375 5,38 79,125 3,79 89,375 5,6 47,5 5,25 73 5,47 85,5 4,68 3,8 84,5 5,95 48 5,2 73 5,47 88,5 4,55 3,3 98,875 5,04 58,25 4,29 91 4,4 94 4,26 4,5 4,25 3,54 98,375 5,09 56 4,45 90,75 4,41 93,375 4,28 4,5 4,32 3,79 98,375 5,09 51 4,9 84,125 4,74 90,5 4,42 4,5 4,96 93,875 4,26 4,37 4,48 78,937 90,937 84,75 79,125 83,125 4,65 4,72 3,61 101,625 52,5 4,76 88,125 4,54 84,75 3,35 105,125 4,76 57 4,37 90,75 4,41 97,25 4,12 89,812 3,34 108,5 4,62 63,5 3,94 97,25 4,12 100,25 3,99 4,5 5,12 40 6,22 97,875 4,09 100,75 3,98 4,37 5,76 4,41 86 3,49 97,5 79,75 3,76 86,875 41,5 6,02 90,75 4,41 95 4,21 83,75 3,58 96 5,2 41,75 5,97 93,75 4,27 96,625 4,15 4,86 97,125 4,13 99,75 4,01 87,75 4,45 3,42 102,75 50 5 90,375 3,32 105,375 4,73 54 4,62 99,25 4,03 102 3,93 91,187 3,29 108,25 4,61 55 4,54 101,125 3,96 102,5 3,9 89,5 3,35 106,75 4,67 53,75 4,62 101,875 3,94 101,875 3,94 90,937 3,3 108,75 4,59 52,5 4,75 102,375 3,91 102,125 3,92 4 92,875 3,23 109,5 4,56 54,25 4,6 102,875 3,9 102,125 3,92 4,04 91,5 3,28 110,5 4,52 52 4,79 103,5 3,86 100,375 3,98 4,39 89,8 3,35 110 4,54 49,75 5,01 103,75 3,86 3,97 4,36 88,75 3,38 113,75 4,4 51,5 4,85 104,125 3,84 100,875 3,92 5,5-6 91,75 3,27 118,5 4,21 52,5 4,78 104,5 3,83 4,43 6-6,14 6,07 94,625 3,17 121,625 4,11 54,75 4,56 104 3,84 4,21 4,82-4,95 5,03 99 3,03 122,125 4,08 65 3,84 105,625 4,26 4,21 96,125 3,12 119,65 4,17 61,75 4,04 101,375 4,44 3,98 95,812 3,13 119,75 4,17 59,75 4,18 99,375 4,53 3,95 6 5,5 87,25 3,44 116,25 4,29 55 4,52 93,75 4,8 4,57 5,88 5,77 5,76 5,71 4,85 5,16 85,5 3,51 83,75 5,97 49,5 5,02 70,5 6,39 3,99 92,625 3,24 83,5 5,98 55,25 4,51 84 5,36 3,46 5,16 96,5 3,11 92 5,43 57,5 4,36 90,75 4,96 3,31 4,58 97 3,09 96,125 5,29 58,5 4,28 90,875 4,95 3,27 4,47 99,375 3,02 102,875 5,85 66,5 3,76 96 4,69 3,51 4,39 97,75 3,07 62,75 3,99 99,5 4,02 97,5 4,62 3,87 4,02 91,75 3,27 60 4,16 90,5 4,44 89 5,06 4,43 4,14 90,625 3,31 63 3,98 95,75 4,17 93 4,84 4,51 4,18 93,187 3,22 63,5 3,94 94,125 4,24 96,75 4,65 4,73 4,11 91,75 3,27 63,5 3,94 93,5 4,3 97,625 4,61 5,43 96,75 3,1 64,75 3,88 94,5 4,23 98,625 4,56 4,12 95,25 3,15 64 3,9 90,25 4,42 97,375 4,62 3,95 94 3,19 62,5 4 94,5 4,24 99 4,04 97,375 5,62 4,3 4,92 5,57 91,5 3,28 63 3,97 98,25 4,07 101 3,95 99,125 5,54 5,36 6,73 6,45 92,875 3,23 64,5 3,89 100 4 101,125 3,96 99,75 4,51 4,58 6 6,25 92,562 3,24 63,75 3,92 97,5 4,1 101,125 3,96 100 4,5 5,04 6 6 90 3,33 62 4,01 95,875 4,19 98,5 4,06 99,75 4,51 6,45 5-5,6 5,1 89,5 3,35 61,5 4,05 97,5 4,1 98,875 4,05 99,5 4,52 4,62 4,62-5,42 5,19 88 3,41 55,5 4,5 86,5 4,62 89 4,49 98,25 4,58 5,18 4,62-5,42 5,17 92,875 3,23 52,25 4,76 90,375 4,42 90,125 4,44 99,375 4,53 3,74 5,16 4,97 93,75 3,2 57 4,39 88,25 4,52 90,125 4,44 101,125 4,45 3,22 5,61 4,62 92,875 3,23 52,75 4,65 88,125 4,54 102,75 4,38 3,28 5,87 4,07 92,625 3,24 52,5 4,75 82,25 4,87 85,625 4,66 101,75 4,42 4,38 92,875 3,23 57,75 4,33 90 4,45 92,25 4,33 102,25 4,4 3,79 17 4,3 4,36-4,81 4,32 4,72 4,24 5 4,18 1.2.3 La finanza privata La modalità Onde Tra i più significativi (e antichi) contratti societari finalizzati alla migliore gestione di transazioni complesse, si possono considerare: le regulated company usato nel commercio delle merci tra i mercanti inglesi; la maòna usato nella gestione dei finanziamenti di enti pubblici, nelle città stato italiane; le società assicurative diffuse moltissimo tra i mercanti olandesi del 600, ma se si guarda non al primato, ma ad un contesto istituzionale in grado di dare continuità e condizioni di successo, questo è quello venutosi a creare in seguito alla Rivoluzione inglese del 1688 e alla crescita del commercio con l’India, sono queste condizioni che fecero di Londra la sede più favorita per la promozione di nuove società private mercantili. Nel 1695 se ne erano costituite più di cento, il capitale complessivo era vicino a 4,5 milioni di sterline. Nel primo ventennio del ‘700, e in specie dopo la promozione e il successo della South Sea Company, fondata nel 1711, come società privata con partecipazione pubblica, si ebbe un onda di promozione di nuove società solo in parte mitigata dal Bubble Act (20 giugno 1720) con cui si impose che le società per azioni dovevano avere una autorizzazione pubblica. Neppure la conferma (1735) e permanenza in vigore di questa legge - fino al 1824 che proibiva la vendita di azioni allo scoperto, non riuscì a frenare le manie speculative fondate sulla possibilità di effettuare un versamento parziale del valore nominale delle azioni acquistate. La pratica da un lato trovava infatti ragione d’essere nella possibilità di tutelare gli azionisti dal rischio di una cattiva gestione della società tramite il richiamo delle quote sottoscritte, dall’altro dava luogo a modi di guadagnare in conto capitale. Molte compravendite erano attuate con l’aspettativa di un aumento del prezzo del bene successivo al momento dell’acquisto, piuttosto che per il progetto funzionale per cui la società era stata costituita. Ciò che più importa osservare è quindi non il movente speculativo ma il modo in cui questi mercati operano, il procedere a onde nella costituzione di società anonime o in srl. Tale comportamento si rispecchia nella centralità data al prezzo di acquisto come vincolo di scelta per la misura dell’aspettativa di guadagni in conto capitale per effetto dell’affermarsi di quel tipo di società finanziaria, prima che quello di una aspettativa di rendimento a seguito del volume di attività produttiva; l’esempio più marcato in tal senso sono le società ferroviarie e le banche mobiliari. Entrambe queste forme societarie sono a tutti gli effetti un ponte tra il sistema finanziario mercantile e quello industriale si è scelto qui di dare riferimento in questo capitolo alle azioni delle ferrovie – poiché più simile ai titoli pubblici lungo periodo; nel prossimo a quello delle banche mobiliari per evidenziarne la differenza con quella delle nuove forme di attività di banca, il credito commerciale. Se non definitiva sul piano industriale, l’onda di investimenti ferroviari lo fu invece su quello delle borse valori. La numerosità delle emissioni obbligazionarie ferroviarie e la loro copertura pubblica nel caso della Francia da parte di enti locali e dello Stato o, dopo la metà del secolo, da parte di grandi banche d’affari nel caso inglese, a determinare il consolidamento delle borse valori come luogo di scambio dei titoli finanziari. a) Inghilterra La prima onda di società per azioni fu sostenuta dalla volontà di creare società per la costruzione di canali: tra il 1730 e il 1790 si ebbe il raddoppio della loro lunghezza (2.200 miglia) e, successivamente a questa spinta non esente da speculazioni, gli investimenti in società di navigazione furono maggiormente finanziati. 18 Tra il 1791 e il 1794 vennero emessi 81 decreti relativi alla costruzione e alla navigazione interna. Vennero inoltre costruiti 42 nuovi canali per il costo di 6.5 milioni di sterline. L’iniziativa fu principalmente sostenuta dai proprietari terrieri locali che sottoscrissero azioni per un valore nominale medio di 200 sterline. La promozione della rete fu in primo luogo opera delle industrie minerarie, specie di quelle di carbone, così come delle industrie di motori a vapore, come Bolton e Watt, e di porcellane, come Wedgwood. Erano questi operatori interessati alla riduzione dei costi di trasporto per cui l’investimento in canali risultava molto spesso essere complementare alla principale attività svolta, ne è la prova la condizione di proprietà dei titoli: il 56% delle azioni acquistate dopo il 1789 erano ancora in proprietà degli stessi acquirenti nel 1800. La seconda onda fu quella delle ferrovie. L’obiettivo era ancora – come per i canali – il movimento delle merci, specie il movimento di merci voluminose e con basso valore aggiunto per cui i costi di trasporto incidevano molto sul prezzo finale. La prima ferrovia fu finanziata, e infine costruita nel 1825. Tra il 1827 e il 1837 ne vennero finanziate altre 5, nel 1836 il numero salì a 29, mentre ammontava a 17 nel 1836. Fino al 1845 i finanziamenti furono per la quasi totalità tratta da capitali di provincia, la sola banca londinese Glyn aveva, fino a quel momento, investito nelle ferrovie. Per tutto il suo tempo, il sistema finanziario mercatile, fu organizzato in questo modo: non si attuavano investimenti nelle ferrovie, bensì si compravano e vendevano titoli ferroviari, ovvero le azioni. Vi sono numerose prove del funzionamento di questo meccanismo: i versamenti iniziali che accompagnano i progetti, che superano di rado il 10% del valore nominale; la pratica di emissione delle vendor shares, azioni che emesse dall’impresa a favore di appaltatori e fornitori per consentirne il pagamento delle attività venivano comprate e rivendute nel tempo in cui l’avanzamento dei lavori modificava il prezzo della loro quotazione; la crisi del 1847, la prima che coinvolse in modo netto i titoli ferroviari il cui crollo fu determinato dalla condizione congiunta della scadenza nel richiamo dei capitali (pari a oltre 6 milioni nel solo mese di gennaio) e dalla condizione di forte amento del prezzo del grano, che consentiva guadagni speculativi su quei mercati e sulle operazioni di cambio tra monete di oro e argento utilizzate con quotazioni diverse nei pagamenti dei mercati nazionali e specie nei mercati locali delle aree interne, più lontane dalle piazze del commercio internazionale e più esposte alla carestia e alla corsa dei prezzi. b) Francia La legge francese fu più liberale di quella inglese ma non diversa negli esiti. Dalla fine del ‘600 era consentita la costituzione di società di nome collettivo e di società in accomandita per azioni, che dovevano essere registrate ma non richiedevano l’autorizzazione da parte del governo. Nel decennio napoleonico la società anonima, introdotta negli anni della Rivoluzione come elemento normativo volto a semplificare e favorire la raccolta associativa di piccoli e medi proprietari, fu nuovamente affiancata dall’autorizzazione alle Sarl (Società a responsabilità limitata). Anche in Francia, come in Inghilterra, fu il secondo ventennio dell’800 quello con cui si aprì l’ondata delle società dei capitali in accomandita. I canali furono finanziati dai banchieri parigini, da houte banque, che ne trassero vantaggio gestendo poi il collocamento delle azioni tra i propri clienti. Negli anni di Luigi Filippo vennero poi registrate oltre 500 società in accomandita, con cui si dette luogo in tutta la Francia a imprese minori, dal tessile alle banche locali, impegnando capitali per circa 520 milioni di franchi10. 10 Levy- Leboyer 1964 19 Nonostante ciò il mercato finanziario francese non può intendersi rivolto altro che a garantire la dimensione patrimoniale e a dare tutela alle condizioni di agio della borghesia di provincia, il cui orientamento favorito restava l’investimento in titoli pubblici e terreni, su cui era, all’occorrenza, facile trarre ipoteche fondiarie e/o cambiali, destinate non tanto al commercio ma al consumo, ovvero a sostenere il tenore di vita della borghesia di campagna. La conferma di queste scelte è data dalle fatiche finanziarie con cui fu realizzata la rete ferroviaria francese. Le prime linee realizzate per il trasporto di carbone nell’alta Loira furono completate negli anni ‘30 e sostenute totalmente da privati. Ad esse seguì una vasta campagna di sensibilizzazione e l’impegno del Parlamento nella realizzazione di una rete ferroviaria nazionale disegnata dal centro – intendendo per questo Parigi - verso l’esterno, verso le diverse aree regionali. Il progetto nazionale fu approvato nel 1842 e previde la posizione di Parigi a centro di una stella che fu poi appaltata per molte parti, anche con la partecipazione delle maggiori banche parigine tra cui Rothshild, Bartholony, Pereire, Lafitte, e Talabot. Questi istituti si organizzarono e si contrapposero secondo una logica monopolistica: Rothshild controllò la Compagnia ferroviaria del nord; Lafitte e Blount ottennero concessioni per la realizzazione della Parigi-Rouen e per Rouen-Le Havre; Bartholony controllava la linea Parigi-Orleans e quelle del Centro; Talabot – appoggiato dai Rothscild – finanziò le linee del sud. L’impegno finanziario dell’insieme dei progetti fu significativo, superò i 900 milioni di franchi, ma non determinò vincoli industriali: i banchieri si limitarono al ruolo di broker collocando le azioni sottoscritte presso i loro clienti. La crescita della rete ferroviaria si ebbe solo dopo gli anni Sessanta, con la legge del 1863: l’intervento di società bancarie regionali quali il Credit Liones il sostegno marcato dall’azione di risconto delle obbligazioni da parte della Banca di Francia, azioni coerenti con l’ esplicito obiettivo politico di contrastare il successo economico inglese. c) Olanda La rilevanza della borsa di Amsterdam è già stata sopra ricordata in merito al mercato dei titoli pubblici, dell’emissione di titoli del debito pubblico che paesi stranieri attuarono per mezzo delle case bancarie olandesi in specie di Hope & co. Nel 1800 risultavano quotati settanta prestiti esteri a favore di 14 governi, condizione che - si stima – abbia comportato investimenti olandesi per circa 600 milioni di fiorini, valore vicino al doppio del PIL del paese. Nel corso del primo decennio del XIX secolo la rilevanza di Amsterdam venne superata da Londra e Parigi non lo furono però le modalità che introdusse nella attività finanziaria e in specie la promozione di figure quali quella dei brokers che rinunciando alla pratica mercantile di acquisto e vendita di merci per attuare invece quella di mettere in contatto compratore e venditore facendosi pagare commissioni o intermediando nelle operazioni di copertura – di garanzia - agli scambi favorì la disponibilità di capitale(risparmio) sul mercato dell’emissione dei titoli e così come negli scambi internazionali. 1.2.3 Microstorie: Hope, Baring e Rothschild Hope & Co., Amsterdam 20 La Hope & Co. ha le sue radici nel negozio commerciale del quacchero Archibald Hope, un mercante olandese di origini scozzesi che, alla fine del XVII secolo, riprese gli affari del padre incrementandone velocemente gli introiti. Nel 1694, egli sposò inoltre la figlia di un facoltoso fabbricante di bottoni, anch’egli quacchero, cominciando a creare forti connessioni nel vivace ambiente mercantile olandese. Nel 1720, è testimoniato il fatto che Archibald Hope possedeva alcuni maltifici in Inghilterra – precisamente nelle città di Ipswich, Stowmarket e Bury St. Edmund, tutte nel Suffolk, sulle coste del Mare del Nord dell’Inghilterra orientale – e alcuni vascelli che venivano usati per commerciare con l’Inghilterra e l’Irlanda. Durante i primi decenni del Settecento, entrarono nella gestione dell’impresa commerciale famigliare i figli di Archibald, ovvero Archibald Jr., Isaac, Zachary, Henry, Thomas e Adrian. Le fortune dell’impresa mercantile cominciarono ad aumentare durante gli anni ’30 del Settecento. Nel 1733 avvenne la morte di Archibald Jr. e Thomas Hope, insieme al più giovane degli Hope, Adrian, prese in mano le redini degli affari di famiglia, fondando ufficialmente la Thomas & Adrian Hope. In ogni caso, il punto di svolta nelle fortune commerciali e finanziari della famiglia Hope coincise con gli anni della Guerra dei sette anni, che fu combattuta, tra il 1756 e il 1763, tra le principali potenze dell’epoca, coinvolgendo quindi Gran Bretagna, Francia, Prussia, Austria e Russia. In questo periodo il fatturato degli Hope crebbe vertiginosamente, raggiungendo i 34 milioni di fiorini olandesi nel 1759 e crescendo fino a 47 milioni nel 1762. Questi dati testimoniano come gli Hope approfittarono, in diversi modi, di tutti i vantaggi che la neutralità olandese gli concesse durante la Guerra dei sette anni. Il commercio olandese di una vasta tipologia di beni, precedentemente orientato soprattutto verso la Gran Bretagna, si espanse in quegli anni in tutta Europa e verso le colonie, approfittando dei vari blocchi commerciali praticati dai paesi belligeranti nei confronti delle potenze nemiche. Gli Hope quindi, aprirono nuove rotte commerciali con il Nord America e le Indie occidentali. In questo contesto, gli Hope poterono avvalersi dell’azione di Henry Hope, il fratello maggiore di Thomas e Adrian, che era emigrato a Boston intorno al 1720. Sempre durante la Guerra dei sette anni, i fratelli Hope instaurarono forti legami commerciali con la zona caraibica. Le Antille francesi, infatti, erano state tagliate fuori dal commercio con la madrepatria grazie alla potente flotta inglese, che era in quell’epoca la maggiore potenza marittima. Il commercio tra le colonie francesi e la Francia stessa, quindi, sebbene minacciato dalla costante presenza di pirati finanziati dagli inglesi, fu mantenuto attraverso flotte commerciali di Amsterdam, che si appoggiavano sulle colonie olandesi di St. Eustasius e Curaçao. Nello stesso periodo in cui gli Hope entravano sempre più nei commerci francesi, garantendo il trasporto delle merci su mare, venivano cominciati ed essere offerti i primi prestiti finanziari. La principale beneficiaria fu la Gran Bretagna, che si indebitò per una cifra intorno ai 50 milioni di sterline con alcuni istituti mercantili e finanziari olandesi, tra cui anche quello dei fratelli Hope. La piazza di Amsterdam, sempre durante la Guerra dei sette anni, servì come centro di trasferimento di sussidi destinati agli alleati continentali della Gran Bretagna, in particolar modo alla Prussia. La pace firmata nel febbraio del 1763 non portò ad una diminuzione degli affari, di cui Amsterdam era divenuta il centro. Fondi continuavano infatti a venire richiesti per molteplici ragioni, come ad esempio per rinforzare la valuta in Prussia, indebolita durante la guerra, o per pagare i vari tributi imposti dalla pace. Dopo gli affari felicemente conclusi grazie alle vicende belliche del periodo 1756-1762, i fratelli Hope fondarono ufficialmente quella che, nel 1763, prese il nome di Hope & Co. Il commercio olandese crebbe con discreta intensità dal 1765, tuttavia la Hope & Co., da questo momento in poi, cominciò a orientare i propri affari sul versante finanziario, 21 sul mercato delle valute e nella gestione dei prestiti a enti pubblici o privati, mettendo così a frutto l’esperienza accumulata nel corso della Guerra dei sette anni. Così, nel 1768, venne concesso un primo prestito alla Svezia – ve ne saranno dodici in tutto nel periodo tra il 1768 e il 1787 – , mentre nel 1769 vennero prestati 250.000 fiorini al conte Luigi di Nassaus-Saarbrük; nel 1771, ad un tasso d’interesse del 4%, furono concessi 400.000 fiorini al Principe elettore di Baviera ed infine, nel 1777, venne negoziato un prestito di più di due milioni e mezzo di fiorini alla Polonia. Nello stesso periodo vennero concessi dei prestiti anche a enti privati, finanziando principalmente le piantagioni nelle Indie occidentali francesi, danesi e inglesi, con investimenti sulle isole di St. Croix, St. Thomas, St. John, Grenada e Tobago. Negli anni ‘70, tuttavia, la Hope & Co. risentì della crisi creditizia che si era originata a Londra nel 1772. Anche se la Hope & Co. riuscì a limitare le perdite, la crisi degli anni ’70 del Settecento determinò il passaggio del primato nei mercati finanziari mondiali da Amsterdam a Londra. Comunque, fino all’invasione francese del 1795, gli imprenditori che negoziavano prestiti con la Hope & Co. continuarono a crescere di numero. Durante il periodo delle guerre europee successive alla Rivoluzione francese e all’avvento di Napoleone Bonaparte, la Hope & Co. fu costretta a spostare i propri uffici a Londra, ormai il principale mercato finanziario del mondo, costruendo in quegli anni un forte legame con la Baring Brothers & Co., insieme alla quale gestì l’acquisto della Louisiana da parte degli Stati Uniti nel 1803. Baring Brothers, Londra La Baring Brothers venne fondata nel 1762 con il nome di John & Francis Baring & Co. I fondatori, John e Francis Baring, nacquero a Exeter rispettivamente nel 1730 e nel 1740. Essi erano entrambi figli di John Baring, originario di Brema ed emigrato in Inghilterra nel 1717, dove divenne un importante mercante nel settore laniero. Francis Baring ricevette la propria educazione a Londra dove, dal 1755, iniziò un apprendistato di sette anni presso Samuel Touchet, un importante mercante di cotone che aveva, dagli anni ’50 del Settecento, iniziato a diversificare la sua attività operando anche nel settore dei trasporti marittimi e delle assicurazioni. La John & Francis Baring & Co. cominciò, fin da subito, a costruire le proprie fortune mediante la fornitura di servizi commerciali e di intermediazione finanziaria per il commercio inglese. Al fine di facilitare le transazioni commerciali internazionali, vennero infatti stabilite connessioni con agenti finanziari che si trovavano nell’Europa occidentale, nella penisola iberica, in Italia, nelle Indie occidentali e, a partire dagli anni ’70 del Settecento, nel Nord America. I Baring furono, infatti, tra i primi ad intuire il potenziale commerciale nordamericano, stabilendo forti legami con alcuni commercianti della costa est: nel 1774, ad esempio, il primo cliente che si affidò ai servizi offerti dai Baring fu una delle imprese mercantili più importanti di Philadelphia, la Willing, Morris & Co., al cui interno operavano figure come Thomas Willing, futuro presidente della Banca degli Stati Uniti, e Robert Morris, finanziere che supporterà, di lì a pochi anni, l’indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria inglese. Fu proprio attraverso queste due figure che i Baring furono inseriti all’interno del circolo del futuro senatore William Bingham, uno degli uomini più ricchi e influenti dell’America di fine Settecento e inizio Ottocento. Agendo in qualità di agente londinese dei mercanti d’oltremare, i Baring divennero, in poco tempo, uno dei perni fondamentali intorno al quale si andavano costruendo le fortune del commercio internazionale tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, fornendo principalmente servizi di gestione delle consegne in entrata e in uscita, di amministrazione dei pagamenti, di organizzazione dei trasporti, terrestri e marittimi, e dello stoccaggio delle merci nei docks londinesi. 22 Il successo dei Baring deve essere largamente attribuito alla capacità di costruzione di una rete di connessioni globale, sia mediante propri agenti posizionati nei più importanti snodi mercantili del mondo, sia attraverso relazioni con altri istituti mercantili e finanziari internazionali come, ad esempio, la Hope & Co. di Amsterdam, che fu, fino alla fine del Settecento, il centro finanziario più importante dell’Europa continentale. Il legame con i banchieri olandesi, stabilito inizialmente durante gli anni ’60 del Settecento, divenne ancora più forte quando nel 1796, Pierre César Labouchere, un’importante figura all’interno del network commerciale e finanziario della Hope & Co., sposò la terza figlia di Baring, Dorothy. Dagli anni ’80 del Settecento, i Baring cominciarono ad estendere le proprie influenze anche alla sfera politica. Nel 1776 John Baring venne eletto al Parlamento come membro del collegio elettorale di Exeter. Inoltre, la sorella minore, Elizabeth, sposò nel 1780 John Dunning, che dal 1768 era membro del Parlamento per il collegio elettorale di Calne, nel Devon. Dunning era inoltre un intimo amico di Lord Shelbourne, che divenne Primo ministro tra il 1782 e il 1783. Proprio in quegli anni si avviava alla conclusione la Guerra d’indipendenza americana. I Baring, quindi, vennero interpellati proprio da Lord Sehlbourne, mediante Dunning, in qualità di esperti del commercio internazionale con le ex colonie, diventando i consiglieri in materia finanziaria per la stesura dei trattati di pace con i neonati Stati Uniti d’America. Lo scoppio delle guerre europee, combattute dal 1792 contro la Francia rivoluzionaria e, in seguito al colpo di Stato del 18 Brumaio 1799, contro le armate di Napoleone Bonaparte, fornirono enormi opportunità finanziare per tutti i mercanti-banchieri di Londra, ed in particolare ai Baring, che si ritrovarono con l’occasione di finanziare tutte le campagne belliche che l’Inghilterra intraprese, quasi senza soluzione di continuità, dal 1792 al 1815. In questo senso, i dati ci dicono come, dopo il 1799, i Baring risultano primi nella lista dei creditori pubblici della corona inglese in 12 dei successivi 15 anni. Inoltre, l’occupazione francese dell’Olanda, avvenuta tra la fine del 1794 e l’inizio del 1795 fece si che molti dei contatti e dei collaboratori della Hope & Co. ripiegarono a Londra, mettendo a disposizione dei Baring le proprie conoscenze e connessioni internazionali. Contestualmente al finanziamento delle spese di guerra inglesi, i Baring cominciarono ad organizzare quello che può essere considerato il primo mercato del debito pubblico estero londinese, fornendo supporto economico sotto varie forme alle potenze straniere alleate della Gran Bretagna nelle guerre contro la Francia rivoluzionaria. Durante questo periodo i fondatori, John e Francis Baring, cominciarono a ritirarsi dagli affari, il primo nel 1800 e il secondo nel 1804. Tra il 1803 e il 1807 la guida degli affari dei Baring venne presa dai discendenti dei fondatori – Thomas, Henry e Alexander Baring – che, proprio nel 1807, cambiarono il nome in Barings Brothers & Co. Agli inizi dell’Ottocento, come già accennato, vicende mercantili, finanziari, politiche, belliche e private portarono ad un sempre più stretto legame tra la Hope & Co e i Baring. Questa collaborazione raggiunse forse il suo apice con il progetto di acquisizione della Louisiana da parte della Franca dagli Stati Uniti nel 1803, che sancì, ancora una volta, l’importanza internazionale di intermediazione finanziaria che i due istituti di Londra e di Amsterdam avevano raggiunto. Grazie a questa intercessione, infatti, la Francia napoleonica vendette agli Stati Uniti la Louisiana per 15 milioni di dollari. Come la guerra, anche la successiva pace portò alla Barings Brothers & Co. larghe opportunità speculative. Nel 1816, infatti, nessun banchiere francese aveva i mezzi per poter finanziare le riparazioni che la Francia era obbligata a pagare alle nazioni vincitrici. I ministri di Luigi XVIII si rivolsero, così, nuovamente ai banchieri inglesi, i quali organizzarono un prestito enorme tra il 1817 e il 1818, radunando risorse da tutta Europa e facendo enormi profitti grazie ai servizi di intermediazione finanziaria forniti. 23 La potenza finanziaria della Barings Brothers raggiunse in questi anni il suo apice. Il duca di Richelieu, Primo ministro della Francia di Luigi XVIII dal 1815 al 1818, affermò, infatti, che le sei maggiori potenze europee dell’epoca erano Gran Bretagna, Francia, Russia, Austria, Prussia e i Baring. Rothschild Il fondatore dell’istituto finanziario Rothschild fu Mayer Amschel Rothschild, nato a Francoforte nel 1743, figlio di un mercante di denaro ebraico. Dopo un breve apprendistato presso la banca Oppenheimer di Hannover, Mayer Rothschild si mise in privato, nel 1760. Cominciò la sua carriera di banchiere diventando, durante la seconda metà degli anni ’80 del Settecento, l’agente personale di Guglielmo I d’Assia, il quale aveva ereditato dal padre uno dei più grandi patrimoni dell’epoca. Da questo momento, Rothschild divenne, prima in società con altri banchieri e poi, alla fine del secolo, da solo, l’agente di fiducia di Guglielmo I, investendo i suoi risparmi, in particolare tra il 1801 e il 1806, e ricavando grandi profitti. Le guerre napoleoniche portarono, come ad altre case finanziarie, grandi possibilità e grandi profitti per i Rothschild. Il terzo figlio di Mayer si era già stabilito in Inghilterra, per la precisione a Manchester, doveva aveva avviato sin dal 1798 un florido commercio di materie prime e tinture. Il 12 giugno del 1804 egli venne naturalizzato britannico e nel 1805 si trasferì a Londra. Nei primi anni delle guerre napoleoniche, i Rothschild ottennero grande spazio e numerosi profitti dal commercio di lingotti d’oro e, tra il 1808 e il 1815, usarono tali risorse per finanziare le guerre di Wellington e dei suoi alleati sul continente europeo. Alla conclusione definitiva del conflitto, nel 1815, i Rothschild trovarono nuove possibilità di arricchirsi mediante la concessione di prestiti a diversi governi europei che dovevano servire alla ricostruzione europea dopo più di un decennio di guerre quasi ininterrotte. Tuttavia, in questo specifico settore, la concorrenza dei Baring era ancora, in quegli anni, forte. Gli anni che vanno dal 1817 al 1848 videro accrescere, invece, enormemente la fortuna dei Rothschild, che si diffusero su tutto il continente, fondando un ramo familiare, ognuno guidato da uno dei cinque figli del fondatore, con un’agenzia nelle quattro maggiori città finanziarie europee – Londra, Parigi, Vienna e Napoli – e diventando i banchieri principali per la concessione di prestiti a governi: James Rothschild si stabilì, quindi, a Parigi nel 1812; Salomon Rothschild si trasferì a Vienna, dopo un apprendistato a Parigi, nel 1820; Carl Rothschild fondò l’agenzia a Napoli nel 1821. Grazie alle connessioni che si mantennero tra i vari rami familiari sparsi per l’Europa, i Rothschild, come accennato, divennero i maggiori creditori dei governi europei, iniziando, nel 1817, acquisendo il debito del governo prussiano per un ammontare di un 1.500.000 fiorini e prestando denaro, in seguito, all’Austria, alla Gran Bretagna, al Regno di Napoli, alla Russia, alla Francia, al Belgio, al Brasile e ai vari stati tedeschi una somma che, al 1848, è stata calcolata in più di 130 milioni di sterline. Se agli inizi delle fortune dei Rothschild il ramo inglese di Nathan Rothschild fu predominante, dal 1830 in poi fu l’agenzia parigina di James Rothschild a diventare la più importante. Questo fu in parte dovuto alla continua rivalità che a Londra vi era tra i Rothschild e i Bearing, ed in parte alle geniali manovre finanziarie francesi di James Rothschild. Egli, infatti, divenne amico e agente finanziario di Luigi Filippo d’Orleans già prima che quest’ultimo succede al trono di Francia dopo i moti del 1830. La relazione finanziaria si rafforzò proprio durante gli anni di regno di Luigi Filippo e, tra il 1830 e il 1848, tale vicinanza permise ai Rothschild di accumulare molte ricchezze, gestendo tutte le transazioni finanziari della casa regnante, e concessioni, come ad esempio quella per la costruzione delle ferrovie nel nord del paese. Nel 1848, la banca dei Rothschild di Parigi aveva un valore stimato di 600 milioni di franchi, in confronto ai 320 milioni di franchi di 24 tutte la altre banche francesi messe insieme. Simili furono anche le operazione di Salomon Rothschild a Vienna, concedendo prestiti e avendo in cambio, oltre agli interessi, anche concessioni per la costruzione di ferrovie e sfruttamento di miniere. Dopo il 1848 e la caduta della monarchia orleanista, la leadership ritornò a Londra, il cui ramo dei Rothschild era ora nelle mani di Lionel Rothschild, figlio di Nathan, che aveva compiuto il suo apprendistato nei quindici anni precedenti nelle varie agenzie familiari a Londra, Vienna e Francoforte. Contestualmente, nel 1855, Wilhelm Carl von Rothschild, figlio di Carl Mayer von Rothschild di Napoli, succedette nella conduzione del ramo tedesco della famiglia, in quanto Mayer Amschel Rothschild morì senza figli. Sia Lionel a Londra, che Wilhelm a Francoforte, segnarono l’ingresso dei Rothschild anche nella politica: il primo venne infatti eletto al Parlamento inglese, per il collegio elettorale di Londra, dal 1847 al 1868, mentre il secondo divenne membro della Harrenhaus prussiana nel 1870. In questi decenni i legami con i governi, ed in particolar modo con il governo inglese, divennero molto stretti, con la concessione di nuovi prestiti per tutto il periodo. 1.3 Il mercato di Londra Se l’egemonia finanziaria di Londra su Amsterdam fu principalmente il portato dell’azione militare inglese, lo stesso non può dirsi del contrasto con Parigi. L’egemonia della sterlina sul franco – egemonia che si estese alla scelta della merce oro come merce nei pagamenti internazionali – fu anch’essa esito della guerra ma, almeno per una buona parte, con modalità opposte a quelle definitesi con la guerra all’Olanda. Nel caso francese, infatti, la sconfitta finanziaria non ai successi militari inglesi, ma piuttosto alle difficoltà che la guerra impose ai mercati del capitale in ambito domestico, si noti bene per entrambe le nazioni11. Fu l’esito a dir poco negativo dell’esperienza degli assignat, a spingere via dal franco i patrimoni francesi e poi più ancora l’istaurazione del Terrore del 1793 a far preferire ai mercanti e ai banchieri francesi la fuga dei capitali verso Londra, escludendo quindi la Piazza finanziaria di Parigi dalla emissione e dal collocamento dei titoli del debito emessi da altri paesi europei. Dal lato opposto la City, che si vide invasa da questi capitali, non aveva le competenze per trattarli in modo diverso da quanto era stato fatto fino ad allora, cioè secondo le modalità della stopping rule, che prevedevano si potesse procedere alla transazione ogni volta che questa fosse sostenuta da buone cambiali commerciali e dalla parità dei rendimenti tra i titoli pubblici e le cambiali di prima qualità (le cambiali internazionali). Sul mercato di Londra, e specie nella City, trovarono cosi sede, al fianco di case di commercio e/o finanza inglesi quali gli Hambro, Spt e i Baring, gli spazi del mercato dei titoli. Mercanti ed esperiti di finanza vi si trasferirono lasciando Amsterdam, come fecero gli Hope, e Parigi, ad esempio Rothschild, consentendo così la veloce crescita dentro la City anche del segmento dei titoli di stato. Alla fine degli anni ‘90 – momento in cui è possibile datare la formazione di fatto del primo sistema finanziario, quello mercantile – la piazza di Londra consentiva già più di ogni altra la possibilità di negoziare, in modo speculativo, nel commercio delle cambiali e dei titoli. Ma si deve sottolineare che questo avveniva ancora principalmente nella forma della stopping rule e che l’uso della sterlina oro come misura del conto e poi del pagamento Si veda a tal proposito, ed in particolare sul ruolo dei notai nella compra-vendita dei titoli azionari nel mondo francese, in contrasto con il crescente ruolo dominante dei broker inglesi: P.T. Hoffman, G. Postel-Vinay, J.L. Rosenthal, Entry, Information and Financial Development: A Century of Competition Between French Banks and Notaries, in «Explorations in Economic History», 55, 2015, pp. 39-57. 11 25 di transazioni internazionali non era in condizioni dominanti. Lo era, quindi, la piazza di Londra, ma non la sua moneta locale, la sterlina inglese. Gli eventi che portarono a quell’esito sono da mettere in relazione, ancora una volta, alla guerra e alle conseguenze che questa ha determinato sul mercato interno. Il parlamento inglese, chiamato a deliberare l’emissione di un enorme prestito di guerra, ritenne vantaggioso, ovvero meno costoso, potersi avvalere dei servizi di pagamento della Banca di Inghilterra (d’ora in poi BE), cui da un secolo era affidata la gestione dei titoli pubblici, e deliberò quindi il privilegio di banca di emissione di BE nel distretto di Londra (entro le 33 miglia) e la inconvertibilità delle banconote emesse da questo istituto. Il provvedimento sovrano poneva così un legame tra gli effetti pubblici, i titoli del tesoro inglese quotati in sterline e le notes della BE, la quale, essendo già attiva sul mercato dello sconto dei titoli commerciali e dell’oro, veniva ad essere posta in condizione di riunire in sé – per il tramite delle sue operazioni di sconto cambiali e anticipazioni su titoli pagate in banconote con valore nominale pari a oro – il centro della regolazione dell’equilibrio ex-ante ed ex-post dello scambio di un titolo finanziario, poiché ne poteva creare o distruggere la disponibilità delle scorte determinandone così, di riflesso, il prezzo effettivo. Il London Stock Exchange Per quanto concerne il mercato dei titoli, esso si era sviluppato a Londra già dal ‘600 ma fu con la formazione della Stock Subscription Room nel 1801 che è possibile far partire la storia della moderna borsa di Londra. L’aumento del volume delle transazioni, aveva infatti reso necessaria l’attuazione di regole per governare gli affari di questa specifica tipologia. La Borsa di Londra, dal 1801, si fondava quindi come un’istituzione privata che stabiliva regole, condotte e codici di comportamento ai quali i membri, che dovevano versare una quota e dimostrare di non avere altri affari al di fuori della compravendita dei titoli, dovevano sottostare. La Borsa di Londra venne ubicata nel cuore della City finanziaria della capitale britannica, vicino agli uffici dei maggiori banchieri e mercanti della città. Tale vicinanza era necessaria in quanto i brokers, gli agenti di borsa, operavano spesso in stretto accordo con i banchieri. La piccola scala delle transazioni generava, inoltre, un ambiente ristretto, dove si creava molta intimità e fiducia tra i brokers e i propri clienti. Nei primi quindici anni dell’800, l’attività principale della Borsa di Londra fu quella connessa con l’emissione di titoli del debito pubblico da parte del governo britannico per finanziare le guerre europee contro Napoleone. L’ammontare del debito pubblico, infatti, crebbe da 456 milioni di sterline nel 1801 a 755 milioni nel 1815, raggiungendo il suo picco nel 1819 con la cifra di 844 milioni. Nello stesso periodo, aumentarono anche i membri della Borsa di Londra, che divennero 541 nell’aprile del 1815. Il nuovo mercato dei titoli non serviva solamente al finanziamento del debito del governo, ma servivo anche, e forse soprattutto, come mercato secondario di questi titoli, che venivano scambiati al fine di ricavarne il maggior profitto possibile. Con la fine della guerra, il debito pubblico inglese cominciò a scendere. Dagli anni ’20 dell’800, quindi, gli investitori e i brokers spostarono la loro attenzione su altri due mercati molto remunerativi: il mercato dei titoli del debito dei governi stranieri; e il finanziamento e la compra-vendita dei titoli di società private. Mentre il debito pubblico inglese scendeva, infatti, l’economia cresceva enormemente: se nel periodo delle guerre napoleoniche il debito pubblico inglese era circa il doppio del reddito nazionale, raggiungendo un rapporto di 3:1 nel 1821, dagli anni ’20 in poi ci fu una costante inversione di tendenza. Nel 1831, infatti, il rapporto tra reddito nazionale e debito pubblico era di 2:3, di 1:8 nel 1841 e di 1:5 nel 1851. 26 Essendo, quindi, meno remunerativo investire sui titoli del debito del governo inglese, che cominciò a ripagarlo nel 1822 al 5% annuo, gli investitori cominciarono a finanziare e scambiare i titoli del debito pubblico di paesi stranieri. Sempre nel 1822, ad esempio, vennero emessi cinque prestiti a governi stranieri ad un valore nominale di 8,9 sterline, seguiti da altri due nel 1823, sette nel 1824 e altri sei nel 1825, per un totale di venti prestiti ad un valore nominale di 40,1 milioni di sterline. Molti prestiti furono richiesti dai nuovi paesi dell’America Latina che avevano appena raggiunto l’indipendenza, come Colombia, Cile, Perù, Messico e Brasile. Su questi titoli vi fu un’intensa attività speculativa, in quanto le informazioni su questi paesi erano molto scarse e i prezzi fluttuavano in quanto abbondavano le voci le aspettative erano molto variabili. Questa nuova attività speculativa sui titoli del debito di governi stranieri attirò nuovi membri, tanto che la Borsa di Londra fu costretta a creare un mercato apposito per la contrattazione e la compra-vendita dei titoli del debito non inglesi, che aprì il 1 gennaio del 1823. Si stabiliva, così, una separazione fisica tra i due mercati gli operatori dei quali, tuttavia, potevano facilmente entrare in contatto tra loro. Parallelamente, si incrementò anche l’altra attività principale di questo periodo, ovvero la compra-vendita di società per azioni, che coprivano molte diverse attività, dalla costruzione dei canali, alle ferrovie, fino al finanziamento di imprese mercantili e imprenditoriali. La compra-vendita di questa tipologia di titoli venne accettata all’interno della Borsa di Londra, ma relegata, come già fatto nel 1823, ad un mercato separato insieme a quello dei titoli del debito esteri, al quale venne aggiunto nel marzo del 1825. Una prima bolla speculativa esplose però alla fine del 1825 quando vi fu una carenza di moneta dovuta ad un cattivo raccolto che produsse il fallimento di numerose banche, le quali avevano a loro volta investito molti soldi nel mercato secondario dei titoli, provocando quindi gravi perdite anche sulla Borsa di Londra. Solamente un quinto delle società per azioni erano sopravvissute alla fine del 1826. Inoltre, molti paesi che si erano indebitati sulla piazza di Londra, e i cui titoli venivano scambiati costantemente, non si dimostrarono in grado di ripagare i propri debiti: al dicembre 1828, solamente il Brasile, tra tutti i paesi latino-americani, continuava a pagare gli interessi regolarmente; mentre in Europa avevano dichiarato default Grecia, Portogallo e Spagna. Dall’inizio degli anni ’30 i due mercati dei titoli del debito, inglese e straniero, cominciarono ad essere uniti: prima grazie alla convergenza di regolamentazione, decisa nel luglio del 1831; poi grazie al permesso, datato agosto 1832, di poter scambiare i titoli del debito pubblico straniero anche nella Stock Exchange Room – mentre scambiare i titoli del debito inglese rimaneva ancora proibito nel mercato del debito straniero; infine, i due mercati vennero del tutto unificati nel febbraio del 1835. Dietro questa convergenza vi era un rinnovato interesse verso i titoli del debito dei paesi stranieri: tra il 1833 e il 1837 vennero infatti emessi 11 nuovi debiti a governi esteri per un valore nominate totale di 23,2 milioni di sterline. Contestualmente, vi fu un nuovo flusso di investimento anche verso le società per azioni, in particolar modo nel settore ferroviario: inizialmente, però, e almeno fino alla seconda metà degli anni ’40, i titoli emessi dalle compagnie privati tendevano ad essere comprati su una base locale, da investitori e brokers locali, che, data la lentezza dei mezzi di comunicazione del tempo, potevano conoscere e toccare quotidianamente con mano l’azienda o l’impresa in cui avevano investito, o della quale scambiavano i titoli. Nacquero, quindi, numerose borse di provincia – alla fine del 1845 saranno ben 18, tra cui Liverpool, Manchester e Nottingham – , all’interno delle quali aumentarono notevolmente le transazioni sui titoli delle società per azioni dei diversi territori. Una volta passato il boom delle società per azioni di provincia, e con la diffusione del sistema del telegrafo, molte di queste borse provinciali scomparvero, in quanto non potevano competere con quella di Londra. 27 La Banca d’Inghilterra Va ricordato che la Rivoluzione inglese del XVII secolo si era conclusa con la revisione dei poteri del Sovrano rispetto alla aristocrazia fondiaria e mercantile. Condizione che aveva portato ad affidare ad un società di mercanti privati – la Banca d’Inghilterra, costituita con quello specifico scopo – , l’impegno di tutelare la parità del valore dei titoli del debito pubblico, così che il sovrano non potesse avere la libertà di ricorrere all’emissione e allo stesso tempo a quella di svalutare il suo debito modificando la tariffa con cui la Zecca coniava la moneta con cui quel debito era misurato. Ciò era ottenuto rendendo equivalente il valore di mercato della sterlina-oro coniata dalla zecca, con quello delle banconote della Banca d’Inghilterra e rendendo quest’ultimo pari al prezzo della merce-oro sul mercato di Londra rispetto a quello del Bank price, cioè con il prezzo a cui la Banca era disposta ogni giorno a comprare oro. Quest’ultima condizione era ottenuta dalla Banca per mezzo dell’incarico di intermediazione, non resa pubblica, che la Banca aveva dato a una sola ditta mercantile, la Mocatta & Goldsmid, che agiva di fatto come principale operatore sul mercato londinese. Dalle testimonianze di Aaron Goldsmid al Bullion Committee del 1810 e da quella di Isaac Goldsmid davanti al Committee on the Resumption of Cash Payments del 1819 sappiamo per esempio che era la ditta Goldsmid & Mocatta12 a disporre di una quantità di oro tale da poter definirne il prezzo sul mercato di Londra, prezzo che veniva pubblicato due volte a settima sul Wettenhall Bulletin. Il numero e l’ammontare delle transazioni era registrato presso il Bullion Office della Banca d’Inghilterra; sulla base di queste informazioni la Banca stabiliva, ogni giorno, il prezzo cui era disposta a comprare oro in cambio delle proprie banconote. La disponibilità della Banca a comprare diventava così la condizione per dare alla merce oro coniato (gold bar) una condizione in tutto simile a quella della disponibilità di scorte che consentiva alle merci di essere scambiate in condizione di stabilità, non speculativa, poiché il prezzo ex-ante ed ex-post allo scambio non veniva ad essere modificato dallo scambio stesso. Sul mercato di Londra si aveva così un primo prezzo stabile in oro della sterlina, pari a quello delle banconote della Banca di Inghilterra, e un secondo prezzo, quello dell’oro delle monete straniere. I due prezzi erano in parità solo se la bilancia commerciale del paese straniero si trovava ad essere in una specifica condizione di vantaggio commerciale verso quella dell’Inghilterra che consentiva di disporre di un buffers di riserva di titoli di pagamento sufficienti per stabilizzare il prezzo di quella moneta. Diversamente si aveva una differenza che dava luogo ad un arbitraggio sul mercato del cambi fino a che, ottenuto un equilibrio ex ante ed ex post allo scambio, si aveva uno stop all’arbitraggio, ma non agli scambi commerciali. A queste due condizioni riferite alla scelta di usare una merce, l’oro, come moneta, se ne associava una terza, ovvero il commercio, legale e clandestino, dell’oro stesso, attuato, come per qualunque altra merce, in ragione della sua differenza di prezzo tra le piazze di scambio. Fino a che fu consentito ai privati di recarsi alla Zecca di Stato portando oggetti e/o monete che contenevano oro per chiedere, al costo di una commissione, di coniarlo/monetarlo sulla base della tariffa stabilita dallo Stato, in sostanza pari al primo prezzo – quello che la regola vuole fosse stabile – , agivano le tensioni di una aspettativa della stima della disponibilità, e quindi della riserva dell’oro, che sarebbe scaturita dai nuovi coni. La base per il profitto commerciale di un mercante di oro era così data dalla sua capacità di definire la differenza di condizioni sui mercati dell’oro e dei cambi: queste potevano essere motivate dalle differenze stagionali nel volume degli scambi delle merci in ragione del tempo dei raccolti o della possibilità di disporre di materia prima per le principali lavorazioni manifatturiere. Esse interessavano così merci quali grano, vino, Sulla Goldsmid & Mocatta e sul mercato dell’oro in Londra vedi oltre paragrafo. 3 VEDI MARCUZZO –p. 116 sgg 12 28 cotone e seta grezza; a queste partite della bilancia commerciale si univa poi la forza del sistema legale e giudiziario nell’impedire i flussi di contrabbando nel mercato dell’oro. Alcuni esempi danno un quadro di queste condizioni. Il mercante J. Parish Jr. espose al Bullion Committee in modo lineare queste condizioni riferendole all’attività di scambio tra Londra e Amburgo. La maggior parte delle operazioni di cambio tra Amburgo e Londra avviene ad Amburgo e quindi il tasso di cambio di solito si stabilisce e si forma inizialmente ad Amburgo e il suo valore è regolato soprattutto dal tasso di cambio tra Londra ed Amburgo. Poiché quando ci sono più bills ad Amburgo di quelli richiesti per fare effettivamente dei pagamenti i mercanti impiegano parti dei loro capitali nell’acquisto di titoli in eccesso e li spediscono a Londra per trarne interesse. Nel calcolo del tasso di cambio viene perciò incluso sia il tasso di cambio dei bills spediti a Londra, per pagamento merci, sia di quelli inviati da Londra per ricavarne interessi come titolo a termine, insieme a quella delle commissioni dei due agenti di cambio e di quella del mercante di Londra. Tutto questo da origine ad una differenza del 5%, senza considerare altri profitti: si ha quindi una differenza di uno scellino fiammingo per sterlina. Quando le difficoltà di comunicazione sono maggiori e vi sono possibilità di subire conseguenze penali in seguito alla introduzione di restrizione agli scambi i costi sono maggiori; quando le difficoltà furono altissime la differenza fu di due scellini per sterlina. Di tali condizioni si ha puntuale verifica nelle analisi della vita mercantile, come ad esempio nell’analisi di Heaton del mondo mercatile dei commerci tra Portogallo e Inghilterra dei primi anni dell’800. L’esportazione dei metalli preziosi da Lisbona e da Cadice verso Londra era consentita solo a chi ne avesse autorizzazione13. Ma gli ufficiali e i marinai delle navi postali e delle navi da guerra inglesi passavano dalla casa del Console inglese e dalle case dei mercanti e se ne andavano con sacchetti pieni di monete che legavano appesi alle spalle per nasconderle sotto i vestiti. Se gli ufficiali portoghesi erano cosi indiscreti da cercare di fermarli mentre tornavano alle loro navi, qualche testa finiva rotta. Le navi da guerra non potevano essere perquisite. L’arrivo della flotta da Rio con il suo carico di oro brasiliano provocava sempre uno scoppio di attività di contrabbando e consentiva così il pagamento di debiti da tempo scaduti con gli esportatori inglesi, olandesi e francesi. L’acquisizione di questa modalità di egemonia si realizza in seguito ad una duplice condizione: - il volume del traffico merci, e la conseguente numerosità di richiesta in un unico luogo di monete di una molteplicità di mercati. Tale richiesta, date le condizioni materiali dello scambio, non era sempre colmabile e dava così luogo alla quotazione delle monete e alla generazione di titoli finanziari di pronti contro termine posti a garanzia del cambio e della transazione commerciale; - il mutamento nelle relazioni tra la Banca d’Inghilterra, il Parlamento e il mercato commerciale avutosi nel primo ventennio dell’800, in seguito al ripristino (1819) della convertibilità in metallo coniato (in oro) delle banconote emesse dalla Banca d’Inghilterra e alla rapida emissione sulla piazza di Londra di una molteplicità di prestiti pubblici di Paesi europei, che furono oggetto, a partire da quello Prussiano del 1818, non solo di quotazione e scambio su Londra, ma di una effettiva inglesizzazione. L’emissione fu fatta, infatti in sterline e gli interessi furono pagati su Londra. Le banche private che si fecero carico della organizzazione, di fatto i Rothshild, organizzarono anche per questi prestiti, circa 40 nel ventennio 1820-1845, un fondo di ammortamento simile a quello previsto nelle emissioni del debito inglese. Ciò aveva consentito di avere una stabilità del valore dei titoli del debito che, consentendo una rendita stabile, erano oggetto di risparmio così come lo era l’acquisto di 13 JEH_ num.6 (1946) A Merchant adventur in Brazil 1808-1818. 29 una terreno fondiario. Da ciò la equivalenza tra beni mobiliari e immobiliari e la crescente necessità pubblica tutelare allo stesso modo proprietà (della terra) e valore (dei titoli del debito). Ora questa operazione di protezione della quasi-rendita rappresentata dal possesso di proprietà fondiarie e di risparmi quotati in un valore espresso in sterline oro era stata fortemente compromessa negli anni delle guerre Napoleoniche. Ciò in ragione sia della impossibilità di garantire una normale affluenza dei circuiti del mercato dell’oro, sia per il rischio della sconfitta, cui aveva fatto seguito una politica di sussidi, in moneta e in titoli di pagamento della Banca d’Inghilterra, verso i Paesi e le ditte impegnate a sostenere la Corona inglese. A queste scelte era associata quella di non consentire la convertibilità delle banconote della Banca d’Inghilterra con sterline coniate, condizione venuta poi a cessare nel 1819 con conseguente contraccolpo sulla stabilità del valore che si era potuto mantenere stabile e ad un livello vicino al quello del 1797 – anno di inizio della inconvertibilità – poiché l’accrescimento del traffico commerciale dei titoli finanziari di cambio associati ai sussidi consentivano di far affluire su Londra una numerosità di moneta metalliche – o titoli equivalenti – di altri paesi per cui la Banca era stata posta in grado di adeguare le proprie riserve all’emissione e fare così fronte alla richiesta di convertibilità. Nel secondo decennio dell’800 a questo fine aveva contribuito anche la scelta della borghesia rurale e mercantile che aveva depositato il proprio risparmio in metallo coniato presso banche locali e queste lo avevano a loro volta impiegato in titoli e aperture di credito (depositi) presso banche corrispondenti aventi sede nella City. Per via di questa espansione, sia interna che esterna, della capacità di pagamento le notes della Banca d’Inghilterra finirono per essere – una volta ripristinata la convertibilità – utilizzate come fonti per stabilizzare (rendere pari a zero) la diseguaglianza tra valore nominale e valore reale della sterlina oro. Così facendo l’aristocrazia inglese che aveva posto il mercato a garanzia del comportamento finanziario della Corona si trovava ora a dover chiedere alla Corona di porre garanzia al comportamento finanziario del mercato, garanzia ottenuta nel 1833 attribuendo corso legale alle banconote della Banca d’Inghilterra e ancor più nel 1844 con il BCA che divideva la Banca d’Inghilterra in due dipartimenti responsabili di specifiche quote della circolazione delle banconote convertibili, quello dello Stato e quello del Commercio, e fissava per entrambi un limite fisico alla quantità dell’emissioni, individuate per il primo in una quota proporzionale congrua con la memoria delle richieste di convertibilità, e per il secondo in quota 1:1 con la disponibilità della merceoro acquisito dalla Banca d’Inghilterra sul mercato e disponibile nelle sue riserve. Le voci del bilancio della Banca d’Inghilterra riportavano la classificazione dei crediti, che al comntrario di oggi non veniva indicata con simboli alfabetici (AAA, AA etc.) ma esplicitamente cominciava con “le persone che trattano ampi affari”, continuava con “commercianti con ottima reputazione di rispettabilità e solidità finanziaria”; poi con “persone che agiscono in affari di più modesta dimensione”; fino a “persone di scarsa affidabilità”. Così come per i titolari del credito, anche per le valute con cui esso era misurato si applicava un principio gerarchico: è a questa modalità di principi che dobbiamo rimandare la comprensione del termine gold standard con cui è regolato il sistema dei pagamenti per tutta l’età che precede la prima guerra mondiale. 30 1.4 Sintesi L’identità del sistema finanziario mercantile. La condizione di interdipendenza con cui gli agenti hanno operato nel mercato dei capitali tra Settecento e Ottocento ha portato, a quattro caratteri strutturali che sono divenuti identitario del sistema finanziario mercantile: la negoziabilità dei titoli finanziari ( rendita pubblica, cambiali, warrant, pagherò, pronti contro termine ...), cui ha fatto seguito la specializzazione del lavoro di alcune tra le ditte mercantili che, pur mantenendo i propri costumi, hanno mutato la loro azione funzionale, diventando agenti di intermediazione finanziaria, brokers; la localizzazione degli agenti del mercato dei capitali e la loro concentrazione fisica in luoghi e tempi specifici, ovvero i mercati mobiliari, le borse valori, che si costituirono all’interno degli empori commerciali pur essendo da questi distinti; la gerarchia dei titoli scambiati in ragione della loro affidabilità (cambiali di primo ordine, titoli in sopra e/o sotto il pari) e delle piazze finanziarie, in cui vi erano maggiori possibilità di trovare esattamente quel titolo con un rendimento o con una scadenza che si stava cercando. Questi caratteri hanno generato la condizioni di gestione del portafoglio con cui gli agenti hanno lavorato nella negoziazione e nella diffusione di una molteplicità dei mezzi di pagamento. Essa trova la propria ragione nella tutela del rischio patrimoniale. Il patrimonio posseduto da un agente è in primo luogo un bene rifugio, una assicurazione sulle condizioni future. La possibilità di speculare, di ottenere il massimo rendimento possibile, esisteva certamente, ma era applicata ad ogni singola transazione e non ad un impegno nel tempo, ad investimenti “rischiosi”, la monetizzazione degli utili e la stabilità dl valore (gold standard) erano l’unica ortodossia del tempo. Ogni agente operava così con un insieme eterogeneo di titoli e di mezzi di pagamento, sia sul mercato interno che su quello estero, con le alterne finalità di ottenere utili o dalla sequenza di arbitraggio sul differenziale dei valori e/o sulla commissione ricevuta per aver procurato a terzi la disponibilità del titolo utile a chiudere la catena degli scambi. L’insieme di queste scelte determinava la formazione dei prezzi dei titoli finanziari che si definiva prima sul piano della distribuzione che su quello della capacità di solvibilità e/o reddito del soggetto rappresentato; a questo si deve l’effetto di onda nella libera circolazione del mercato dei capitali dell’800 che si manifesta nel boom dei prestiti pubblici così come in quello delle azioni delle ferrovie. 31