Sintesi - NEOTERICO.it

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Capitolo 4
L’età dei Lumi
Un tap per aprire
la cronologia
Perché esiste lo Stato? A che cosa servono le leggi? È possibile
rendere migliori le condizioni di vita degli uomini? Come si può
favorire la crescita dell’economia? Questi e altri problemi furono
argomento di molti scritti e dibattiti, nei paesi europei, durante il
Settecento. Tutto fu messo in discussione: ordinamenti politici, scelte
economiche, princìpi morali e religiosi. Fu una vera rivoluzione delle
idee, a cui fu dato il nome di “Illuminismo” perché assumeva come
primo valore del pensiero e dell’azione umana la “luce”
dell’intelligenza e della ragione. Questo clima culturale contribuì in
maniera decisiva allo sviluppo della scienza, accompagnato da
numerose innovazioni tecnologiche.
4.1 L’Illuminismo e i suoi presupposti teorici
L’idea di progresso Un profondo rinnovamento intellettuale attraversò
l’Europa nel XVIII secolo: fu chiamato Illuminismo, per indicare che la “luce”
dell’intelligenza e della ragione era assunta come base su cui costruire una
nuova organizzazione della società e dell’esistenza. Ciò comportava un’analisi
critica delle idee e delle istituzioni tradizionali, giudicate un freno al progresso.
La stessa idea di “progresso” fu un’invenzione illuminista. La cultura
antica aveva immaginato la storia come una continua decadenza, dopo un
periodo originario di felicità denominato “età dell’oro”. Analogo significato aveva
il racconto biblico della cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre, e la cultura
cristiana rappresentava la vita dell’uomo come un doloroso passaggio a un futuro
felice, ma collocato nell’aldilà. Per questo fu profondamente nuova l’idea
illuminista della storia come evoluzione, del “progresso” come miglioramento
dell’esistenza umana dovuto all’uso della ragione e alla pratica dell’intelligenza.
Questa idea, pur con varie accezioni, è poi entrata a far parte del patrimonio
culturale degli europei.
Francisco Goya, Il sonno della
ragione genera mostri, 1797 ca.
La libertà del pensiero Allo stesso modo, fu rivoluzionaria l’idea che i
“moderni” sono superiori agli “antichi”. Il pensiero umanistico e
rinascimentale [cfr. vol. 1, 16] aveva rappresentato la cultura classica come
fonte indiscussa di autorità; il pensiero cristiano si rifaceva alla Bibbia. Agli inizi
del Settecento tale atteggiamento cambiò: il “nuovo” cominciò ad apparire più
importante, il principio di autorità cominciò a cedere di fronte a valori quali
l’indipendenza del pensiero, la libera ricerca della verità, l’autonomia della morale
dalla religione. L’aspetto innovativo della cultura illuminista fu così sintetizzato
dal filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804): «L’Illuminismo è l’uscita
dell’uomo dallo stato di minorità, cioè dalla incapacità di valersi del proprio
intelletto senza la guida di un altro».
I paesi liberali e le nuove filosofie Lo sviluppo della cultura illuminista ebbe
le sue premesse in alcuni filoni di pensiero nati, non casualmente, in Inghilterra
e in Olanda, i due paesi europei in cui maggiormente si erano diffuse idee e
pratiche liberali: tolleranza religiosa, ricerca scientifica, circolazione di libri e
giornali, dibattito politico, istituzioni parlamentari, avversione all’assolutismo
autoritario.
La diffusione dell’Illuminismo Furono questi i presupposti e, per così dire, l’atmosfera in cui si sviluppò
l’Illuminismo europeo. Amsterdam e Londra ne furono i luoghi di incubazione, poi il movimento trovò particolare
sviluppo a Parigi, dove, scomparso Luigi XIV, i rapporti culturali con l’Inghilterra si intensificarono: le nuove idee
d’oltre Manica diventarono quasi una moda, diffondendo un nuovo stile intellettuale che testimoniava il disagio per le
condizioni del regno e le sue tradizioni assolutiste. Dalla Francia il pensiero illuminista si diffuse nel continente,
incontrando particolare adesione nei settori più evoluti della nobiltà e tra i ceti borghesi.
4.2 Il pensiero politico e l’economia nell’età dei Lumi
La monarchia costituzionale di Montesquieu Sul piano politico gli illuministi combatterono l’assolutismo
monarchico, sostenendo la necessità di instaurare monarchie costituzionali (sul modello inglese) o forme ancora più
avanzate di Stato democratico.
La prima soluzione fu prospettata dal francese Charles de Secondat, barone di Montesquieu (1689-1755), che
teorizzò un modello di monarchia “temperata” in cui i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) non fossero
accentrati nella persona del re, bensì separati, secondo il modello inglese: al Parlamento spettava fare le leggi; al re e ai
ministri dar loro esecuzione; alla magistratura farle rispettare e punire i trasgressori. In questo modo i poteri si sarebbero
bilanciati e controllati tra loro, ponendo dei limiti al sovrano e garantendo la libertà dei sudditi.
Lo Stato democratico di Rousseau Più radicali furono le idee del ginevrino
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che immaginò una forma di Stato
democratico in cui il popolo esercita la sovranità direttamente, senza intermediari
né rappresentanti. Alla monarchia assoluta Rousseau contrapponeva la sovranità
popolare.
Il modello di questo Stato, descritto nel libro Il contratto sociale (1762), era
per Rousseau quello dei piccoli cantoni svizzeri, in cui, per antica tradizione, il
popolo si riuniva a discutere e a deliberare in merito a qualsiasi problema.
Rousseau riconobbe tuttavia che negli Stati di maggiori dimensioni tale forma di
governo, direttamente esercitata dal popolo, era impossibile da realizzare: si
doveva perciò ricorrere al sistema rappresentativo, secondo cui il popolo, per
mezzo di libere elezioni, sceglie un certo numero di persone di fiducia e affida a
loro l’incarico di governare. A queste idee si ispirarono la Costituzione degli Stati
Uniti d’America, nel 1787 [cfr. 6.3], e quella della Francia rivoluzionaria, nel
1791 [cfr. 7].
Frontespizio della prima edizione
del Contratto sociale di JeanJacques Rousseau, 1762
Nuove teorie economiche Secondo la maggior parte degli illuministi, anche
la vita economica doveva essere fondata sulla libertà, cioè sulla possibilità da
parte di tutti di svolgere le proprie attività senza impedimenti da parte dello Stato. Questa concezione fu comune alle due
principali teorie economiche del XVIII secolo: la fisiocrazia e il liberismo.
Il liberismo di Smith Il liberismo fu diffuso soprattutto dal filosofo ed economista scozzese Adam Smith
(1723-1790). Anch’egli sostenne, in un suo scritto del 1776, che il benessere e la ricchezza, individuale e collettiva,
nascono dalla libertà d’iniziativa, dal libero scambio e dalla libera contrattazione. Smith però pensava, al
contrario dei fisiocratici, che l’industria e il commercio fossero le principali attività produttive, e che fosse compito
dello Stato non ostacolarle: ciò perché i comportamenti individuali, dettati dall’egoismo e dal desiderio di successo,
secondo Smith erano la base del benessere collettivo. Ciò che li rendeva socialmente utili era la «mano invisibile» del
mercato, che, attraverso la legge “naturale” della domanda e dell’offerta, regola i meccanismi dello scambio e la
distribuzione della ricchezza. Destinata a grande fortuna, la dottrina liberista diventò un punto fermo nel periodo della
rivoluzione industriale [cfr. 10], fra il XVIII e il XIX secolo.
William Holl il Giovane, Adam Smith,
XIX sec.
DOCUMENTI
Adam Smith e la teoria della «mano inv isibile»
4.3 La battaglia contro l’intolleranza e l’ignoranza. La disputa
sulla Natura e sull’educazione
Elogio della libertà Secondo gli illuministi, la felicità collettiva si fonda sulla libertà individuale: a ciascuno deve essere
garantita la libertà di pensare, di parlare e di agire.
Soprattutto François-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778), una delle personalità di maggior rilievo tra gli
illuministi francesi, fu un convinto paladino delle idee di libertà e di tolleranza. Nel 1734 egli pubblicò le Lettere inglesi (o
Lettere filosofiche), ispirate a un viaggio in Inghilterra che fece anche per sottrarsi agli attacchi e alle censure a cui era
soggetto in patria. Nelle Lettere, Voltaire elogiò l’Inghilterra per tutto ciò che in Francia mancava: libertà, tolleranza,
apertura alle nuove idee filosofiche e scientifiche. L’opera fu condannata e bruciata pubblicamente, ma gli diede grande
notorietà in tutta Europa, facendolo diventare un punto di riferimento europeo nella battaglia per la tolleranza politica,
religiosa, civile.
Ignaz Unterberger, Una cerimonia
di iniziazione in una loggia
massonica viennese, 1786
Un’opera monumentale contro l’ignoranza Gli illuministi erano convinti che l’origine prima delle ingiustizie e dei
mali del mondo fosse l’ignoranza. Pertanto, scrisse il filosofo francese Denis
Diderot (1713-1784), «moltiplicare i libri e le scuole, diffondere l’istruzione
fra il più gran numero possibile di persone è uno degli scopi principali che si
devono porre gli uomini di governo».
A questa battaglia contro l’ignoranza e per la diffusione del sapere gli
illuministi francesi dettero un contributo fondamentale con la pubblicazione
dell’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri,
un’opera in 28 volumi, 17 di testo e 11 di tavole, pubblicata a Parigi tra il 1751 e
il 1772, sotto la direzione del matematico Jean-Baptiste D’Alembert (1717- Léonard Defrance, À l’ègide de
1783) e dello stesso Diderot.
Minerve, XVIII sec.
Scopo dichiarato di questo monumentale lavoro era di offrire «un quadro
generale degli sforzi compiuti dall’uomo in tutti i campi e in tutti i secoli», con un linguaggio chiaro e semplice,
accessibile ai più larghi strati della popolazione. Un’attenzione particolare fu dedicata alla scienza e alle tecniche,
alle macchine e agli aspetti pratici del lavoro, una novità, questa, che già bastava a segnare il netto distacco della cultura
illuminista da quella tradizionale.
Censura, soppressione, libri clandestini L’uscita dell’Enciclopedia fu
ostacolata dal governo francese e condannata dalla Chiesa cattolica, che per due
volte ne fece sequestrare i volumi. Le motivazioni del decreto di censura,
emanato nel 1752 all’uscita del secondo volume, illustrano molto bene la portata
rivoluzionaria dell’opera, vero manifesto della cultura illuminista. «Sua Maestà
ha constatato che in questi volumi sono state inserite parecchie massime tendenti
a distruggere l’autorità reale, a instaurare uno spirito d’indipendenza e di
rivolta». Di conseguenza «Sua Maestà, sempre attenta a ciò che concerne
l’ordine pubblico e l’onore della religione, ordina che i due primi volumi
dell’opera siano soppressi, e proibisce a tutti gli stampatori, librai o altri, di
stampare o far ristampare i suddetti volumi».
Manifattura di spilli in una tavola
Ma i tempi erano cambiati e l’Enciclopedia conobbe un successo strepitoso: dell’Encyclopédie, 1751-72
nonostante le censure del re, nonostante la condanna ecclesiastica, tutte le copie
della prima edizione (4000, una tiratura elevatissima per l’epoca) furono vendute
nel giro di due anni e continuarono a circolare in forma semi-clandestina. La tenacia di Diderot (che rimase direttore
unico dell’opera dopo l’abbandono di D’Alembert) giunse a concludere nel 1766 i volumi di testo, seguiti nei sei anni
successivi dalle tavole. Nel 1770 ne furono stampate due edizioni italiane, una a Livorno e l’altra a Lucca.
Il dibattito sull’educazione In questo clima si sviluppò un vivace dibattito sull’educazione dei bambini, in cui si
scontravano posizioni diverse, legate a opposte teorie sulla Natura. Da un lato c’era l’idea – prevalente nei secoli
precedenti – che la Natura fosse una realtà imperfetta, una “madre matrigna” che la Civiltà doveva correggere. In
questo senso, i bambini dovevano essere “educati” a perdere la loro istintività e a diventare adulti nel più breve tempo
possibile. Dall’altro c’erano idee diametralmente opposte, che il pensiero illuminista sviluppò con forza: che la Natura
fosse “buona” e che la Civiltà la corrompesse. Fu questa, in particolare, la posizione di Jean-Jacques Rousseau, che
sostenne (nell’opera Emilio) l’idea dell’infanzia come età da preservare il più possibile nella sua originaria innocenza.
All’interno di questo dibattito nacquero, nel Settecento, due nuove scienze: la pedagogia, che studia i problemi
dell’educazione infantile e i problemi specifici di questa età; la pediatria, cioè il ramo della medicina che specificamente
si occupa della salute e delle malattie particolari del bambino.
LE VIE DELLA CITTADINANZA
La c ultura c ome arma
Documenti
Cittadino del mondo
Per approfondire
Le donne sono adatte per lo studio?
4.4 Progressi della ricerca scientifica: la scoperta dell’elettricità
Cariche e scariche elettriche Una nuova scoperta suscitò particolare scalpore nell’Europa del XVIII secolo:
l’elettricità, misteriosa energia individuata allora per la prima volta e sperimentata in alcune delle sue manifestazioni più
semplici e immediate: per esempio, l’inglese Stephen Gray (1666-1736) mostrò che il corpo umano si può elettrizzare
mediante sfregamento e che la testa e i piedi di una persona elettrizzata attirano i corpi leggeri, come i frammenti di carta.
Questo e altri esperimenti suscitarono curiosità e stupore. Tutti volevano provare e si fecero dimostrazioni scientifiche
perfino nelle pubbliche piazze, specialmente dopo che il ricercatore olandese Pieter Musschenbroek (1692-1761) riuscì
ad accumulare una piccola carica elettrica in una bottiglia (nota come “bottiglia di Leida”, la città in cui fu fatto
l’esperimento); con questo tipo di apparecchio divenne possibile provare gli effetti della scarica elettrica sul corpo
umano.
Fulmini e parafulmini Di particolare interesse furono gli esperimenti del
ricercatore americano Benjamin Franklin (1706-1790), che attribuì un’origine
elettrica ai fulmini e pensò di scaricare la loro elettricità mediante conduttori
metallici muniti, in cima, di una punta: idea a cui diede attuazione pratica
costruendo il primo parafulmine (1725).
Dalle rane... In Italia furono fatte ricerche sperimentali sull’energia elettrica da
Luigi Galvani (1737-1798), professore di anatomia all’Università di Bologna:
osservando che una rana senza vita mandava dei guizzi se toccata in certe
posizioni con delle punte metalliche, egli ne concluse che gli animali sono dotati
di elettricità propria.
Alessandro Volta (1745-1827), professore di fisica all’Università di Pavia,
ripeté l’esperimento, servendosi di un arco formato da due metalli diversi, e notò
che in questo modo le contrazioni dell’animale si facevano più violente; ciò gli
fece concludere che l’energia elettrica aveva origine non dalla rana ma dai metalli
in mezzo ai quali era collocato l’animale, che in tal modo funzionava da
conduttore dell’elettricità.
... alla pila Tra i sostenitori delle due teorie nacque una lunga disputa, che Benjamin West, Benjamin Franklin
dimostrò come in entrambe vi fosse una parte di verità: negli animali esiste attira l’elettricità del fulmine, 1816
veramente energia elettrica, sia pure in quantità minima, ma è altrettanto vero che
un arco di metalli diversi può produrre elettricità. Proprio sviluppando questa idea, Volta giunse a costruire un
apparecchio costituito da una colonna di dischi alternati di rame e zinco, separati da un feltro imbevuto di liquido acido: la
pila, il primo apparecchio capace di produrre energia elettrica con continuità [cfr. Modulo 2, Invenzioni e innovazioni].
Gli esperimenti, gli studi, le ricerche sull’elettricità continuarono e si approfondirono in molti paesi. Tuttavia dovette
passare ancora un secolo prima che tali scoperte avessero delle applicazioni pratiche e mostrassero la loro straordinaria
utilità per la vita dell’uomo.
Georges-Louis Leclerc de Buffon in
un dipinto del XVIII sec.
Un laboratorio chimico, metà XVIII
sec.
Discussione storiografica
Il trionfo delle scienze e la rivoluzione della lettura
Ascensione umana in pallone
aerostatico, XVIII sec.
Invenzioni e innovazioni
La pila
La pila è un dispositivo che serve a convertire energia chimica in energia
elettrica. Il funzionamento si basa su un fenomeno di scambio chimico che
avviene al suo interno: una sostanza subisce un processo di ossidazione, perdendo
elettroni; una seconda sostanza li acquista, attraverso un processo di riduzione.
Sfruttando il flusso di elettroni tra le due sostanze, la pila genera corrente
elettrica. Nelle pile cosiddette “primarie” la reazione è irreversibile: quando essa
raggiunge uno stato di equilibrio, la pila è scarica e non più utilizzabile. Nel caso
invece in cui la reazione sia reversibile, il dispositivo viene chiamato “pila
secondaria” o batteria o accumulatore. Gli apparecchi di questo tipo, se
vengono alimentati con energia elettrica, sono in grado di invertire il senso della
reazione chimica, ricostruendo i reagenti iniziali e “ricaricando” la pila.
La pila è stato il primo generatore elettrico della storia. La sua invenzione si
deve all’intuizione del fisico italiano Alessandro Volta (1745-1827), nativo di
Como, professore di fisica all’Università di Pavia, che la realizzò nel 1799, partendo
dagli studi sulla corrente elettrica effettuati da Luigi Galvani. La pila “voltaica”,
come fu detta dal nome del suo inventore, consisteva in una colonna di dischetti
di rame e di zinco alternati e inframmezzati da un feltro imbevuto di una soluzione
acida; inseriti verticalmente in un supporto di legno, i dischetti erano collegati da
due fili di rame alle due estremità della colonna. La corrente elettrica era generata
dalla differenza di potenziale elettrico fra i due metalli, sollecitata dalla reazione
chimica provocata dal panno umido: mentre il rame rimaneva intatto, lo zinco si
consumava cedendo elettroni. Nel 1801 la straordinaria novità fu presentata da
Volta all’Istituto Nazionale di Scienze e Arti di Parigi, alla presenza di Napoleone
Bonaparte, e fece enorme scalpore.
Per oltre mezzo secolo la pila restò l’unico modo per produrre corrente elettrica.
Bisognava aspettare il 1869 perché il fisico pisano Antonio Pacinotti (18411912) inventasse la dinamo, capace di generare elettricità attraverso il
Giuseppe Bertini, Alessandro Volta
mostra la pila a Napoleone
Bonaparte, 1897
La pila voltaica
movimento, cioè mediante l’energia meccanica.
Dopo la pila voltaica, e sul suo modello, molti altri tipi di pila furono costruiti nel XIX
secolo. Nel 1812 il fisico veronese Giuseppe Zamboni realizzò il prototipo della
prima pila a secco che poi fu perfezionata da altri studiosi nella cosiddetta pila
zinco-carbone (con l’eliminazione delle sostanze liquide interne). Nel 1836
l’inglese John Daniell mise a punto una pila più potente (con un maggiore
“voltaggio”, come ben presto si cominciò a chiamare, dal nome dello stesso Volta,
la misura della tensione elettrica). La prima “pila secondaria”, o accumulatore al
piombo, fu opera del francese Gaston Planté che nel 1859 inventò la prima
batteria ricaricabile (quella utilizzata nelle automobili, nelle moto e nelle barche per
l’avviamento del motore e l’illuminazione). Alla fine dell’Ottocento, il chimico Pubblicità di una delle prime pile a
secco, 1889
americano Edward Weston creò il modello di pila che nel 1911 fu adottato
come standard internazionale. Una pila al mercurio fu creata nel 1942
dall’americano Samuel Ruben (commercializzata a partire dal 1957, essa fu vietata sul finire del XX secolo perché altamente
inquinante, con alcune eccezioni). Negli anni Cinquanta l’ingegnere canadese Lewis Urry ideò la pila alcalina, evoluzione
della pila a secco che utilizzava come sostanze lo zinco e il carbone in polvere immersi in una gelatina alcalina. Negli anni
Settanta apparvero le prime batterie al litio (non ricaricabili), spesso di forma piuttosto piccola, come un bottone, ma
dal potenziale alto. Di realizzazione piuttosto recente (1991) sono invece le batterie ricaricabili agli ioni di litio
(abbreviato Li-Ion), piuttosto pericolose se costruite senza particolari accorgimenti ma attualmente tra le più diffuse per
ricaricare telefoni cellulari e computer portatili.
Nonostante la produzione di elettricità sia oggi possibile in modi diversi, la pila rimane uno strumento fondamentale per
un’infinità di oggetti della vita quotidiana (torce, orologi, calcolatrici, macchine fotografiche, telecamere, telecomandi,
giocattoli, strumenti cardiaci, apparecchi acustici, ecc.) e anche per applicazioni più complesse come le strumentazioni
spaziali.
La pericolosità ambientale delle sostanze chimiche impiegate nelle pile o nelle
batterie richiede però attente strategie di smaltimento, a cui oggi si presta
particolare attenzione. Le pile contengono miscele di metalli pesanti come
cadmio, piombo, cromo, nichel e mercurio (alcune pile possono contenere anche
1 grammo di mercurio che, da solo, è sufficiente a inquinare 1000 litri di acqua).
Secondo le stime ufficiali, l’Unione Europea produce ogni anno circa 160.000
tonnellate di pile esaurite (i cui metalli sono in parte riciclabili) e così, per ridurre
questa minaccia per la salute dell’uomo e dell’ambiente, dal 2006 sono entrate in
vigore una serie di direttive. In Italia, il riciclaggio di pile e batterie è
regolamentato da una legge del 2008, che prevede la costituzione di consorzi fra
i produttori, responsabili di smaltire (o recuperare) i materiali impiegati nella
fabbricazione di questi dispositivi. Nel 2013 inoltre l’Ue ha esteso il divieto di uso
del cadmio nelle batterie degli apparecchi portatili e del mercurio nelle pile a Lo smaltimento delle pile esauste
bottone.
Sintesi
L’età dei Lumi
L’Illuminismo e i suoi presupposti teorici
Nel XVIII secolo l’Europa fu attraversata da un vasto
rinnovamento culturale che fu detto “Illuminismo” perché fondato sul “lume della ragione”, sulla luce dell’intelligenza
umana, portatrice di una nuova fase di progresso. L’idea di “progresso”, cioè della storia come evoluzione e miglioramento
del genere umano, era del tutto nuova ed ebbe come conseguenza il distacco dell’uomo illuminista dalla cultura antica, che
perdeva il suo primato di indiscussa superiorità. Il concetto di libertà di pensiero soppiantò il principio di autorità.
L’Illuminismo prese avvio da filosofie maturate in Inghilterra e Olanda, paesi liberali in cui si erano affermati i princìpi di
tolleranza civile e religiosa. In Olanda maturò il giusnaturalismo, secondo cui il diritto ha carattere naturale e razionale e non
teologico. Da questo principio John Locke maturò il concetto di politica come contratto sociale, stipulato dagli uomini e
non per volere divino. Il razionalismo fu alla base anche del deismo (John Toland) e del sensismo (David Hume).
Nato ad Amsterdam e a Londra, l’Illuminismo trovò terreno fertile a Parigi e da qui si irradiò per tutto il continente mutando
profondamente le coscienze europee.
Il pensiero politico e l’economia nell’età dei Lumi
L’Illuminismo ebbe ripercussioni anche sul piano
politico ed economico. Montesquieu teorizzò la monarchia “temperata”, con la separazione dei tre poteri dello Stato
(legislativo, esecutivo, giudiziario); Rousseau propose uno Stato democratico, in cui il popolo esercita direttamente la
propria sovranità (delegando, se necessario, a propri rappresentanti eletti l’incarico di governare); Quesnay sviluppò la teoria
economica detta “fisiocrazia” sostenendo che solo l’agricoltura è alla base della ricchezza di un paese e Smith teorizzò il
liberismo, sostenendo che l’industria e il commercio sono le attività produttive principali.
La battaglia contro l’intolleranza e l’ignoranza. La disputa sulla Natura e
sull’educazione
Il principio della libertà di pensiero, della tolleranza, della comprensione, della lotta all’assolutismo
incontrarono ampio successo non solo negli scritti di filosofi come il francese Voltaire, o in movimenti come la Massoneria
(una società segreta con l’obiettivo di costruire una nuova società), ma anche nei salotti dei ceti borghesi e aristocratici.
Fondamentale fu la battaglia degli illuministi contro l’ignoranza, considerata il primo male della società. A tal fine Diderot e
D’Alembert si cimentarono nella pubblicazione di una monumentale Enciclopedia che aveva lo scopo di offrire a tutti, in
modalità e linguaggio accessibili, un quadro quanto più completo dei risultati dell’uomo nell’ambito del sapere, con una
particolare attenzione alle scienze e alle tecniche. La portata rivoluzionaria dell’opera spinse il governo francese e la Chiesa a
censurarla ma venne diffusa clandestinamente con enorme successo.
In questo clima si sviluppò anche un vivace dibattito sull’educazione dei bambini, basato su posizioni contrastanti: da un
lato l’idea di una Natura imperfetta, da migliorare tramite la Civiltà; dall’altro l’idea (sostenuta in particolare da Rousseau) di
una Natura innocente e “buona”, da preservare dalla corruzione della Civiltà. In seno a questo aperto dibattito nacquero
due nuove discipline: la pedagogia e la pediatria.
Progressi della ricerca scientifica: la scoperta dell’elettricità
L’impulso dato dall’Illuminismo
alla ricerca scientifica produsse significativi risultati in molti campi. Particolarmente importanti furono gli studi sull’elettricità
compiuti da Gray sul corpo umano, da Musschenbroek con la sua “bottiglia di Leida”, da Franklin cui si deve il parafulmine,
da Galvani e da Volta, l’inventore della pila.
Le scienze naturali, la chimica e la conquista dell’aria
Anche nelle scienze naturali e biologiche
si fecero grandi progressi: Buffon per primo propose un’idea “dinamica” dei viventi che si modificano e si migliorano nel
tempo; Lamarck coniò il termine “biologia” ed elaborò una teoria sulla ereditarietà dei caratteri acquisiti; Linneo approfondì
la classificazione scientifica degli organismi viventi, ideando la nomenclatura “binomiale” tuttora in uso; Spallanzani scoprì
l’infondatezza della “generazione spontanea” (secondo la quale la vita poteva nascere in modo spontaneo da elementi
inanimati).
Contemporaneamente nacque la chimica moderna con Lavoiser e i suoi studi sugli elementi naturali, distinti in semplici e
composti, e in Francia nel 1783 i fratelli Montgolfier furono in grado di innalzare un pallone, vincendo per la prima volta lo
spazio aereo. A questo primo tentativo altri ne seguirono, dando vita a una sfida (volare) che da millenni affascinava gli
uomini.
Capitolo 5
Illuminismo e riforme
Il rinnovamento di idee portato dall’Illuminismo suscitò particolare
interesse in alcuni sovrani europei, i quali, abbandonata la
tradizionale figura del monarca di origine divina, si attribuirono un
nuovo ruolo di re “illuminati”, capi assoluti ma allo stesso tempo
attenti a garantire il bene dei sudditi. Protagonisti di questo
cambiamento furono i sovrani di Prussia, Russia, Svezia e
dell’Impero asburgico. Le riforme da loro attuate, ispirate ai nuovi
scenari della scienza e del pensiero politico, aprirono la strada alle
riforme più radicali che si sarebbero verificate in seguito.
Un tap per aprire
la cronologia
5.2 Il riformismo nell’Impero asburgico
Le riforme di Maria Teresa d’Austria La punta avanzata del riformismo illuminato fu la monarchia
asburgica, che regnava nell’Impero d’Austria, un dominio vasto, multinazionale, politicamente difficile, in cui si svolse
l’azione di Maria Teresa [cfr. 2.2] e di suo figlio Giuseppe II, associato al trono nel 1765 e imperatore dal 1780 al 1790.
Maria Teresa d’Austria si dedicò innanzitutto a uniformare il sistema amministrativo nelle varie regioni dell’Impero,
fino ad allora separate da consuetudini e leggi diverse. Una scelta importante, per quanto impopolare, fu quella di
assoggettare anche la nobiltà al pagamento delle tasse. Inoltre Maria Teresa sottrasse alla Chiesa il monopolio
dell’istruzione, rendendola obbligatoria a partire dal 1774 e istituendo scuole elementari e superiori sotto il diretto
controllo dello Stato. Per incentivare la crescita economica diede sviluppo alla rete stradale, favorendo gli scambi e i
commerci.
Giuseppe II, il vero sovrano illuminato Ancora più radicale fu l’opera del
figlio Giuseppe II, forse l’unico sovrano che si lasciò guidare senza riserve dalle
idee illuministe nell’attività di governo. Per distribuire con maggiore equilibrio il
carico delle imposte, egli fece compilare un elenco generale delle proprietà dei
sudditi, il catasto, un’opera senza precedenti, sperimentata dapprima in
Lombardia e realizzata in tutto l’Impero tra il 1781 e il 1789, per una più equa
distribuzione del carico fiscale. Inoltre, molti beni ecclesiastici furono
incamerati dallo Stato e i sacerdoti diventarono stipendiati pubblici, secondo il
modello inaugurato da Caterina II in Russia. Importanti furono anche le riforme
di natura sociale ed economica: Giuseppe II migliorò le condizioni dei
contadini abolendo i servizi di lavoro obbligatori (le corvées, di origine
medievale) e varie forme di servitù feudale che ancora esistevano in alcuni paesi.
Sul piano religioso, l’imperatore abolì ogni discriminazione nei confronti
degli ebrei e nel 1781 emanò un editto di tolleranza per tutti i culti e le
confessioni, istituendo, per i non cattolici, il matrimonio civile.
Manifesto in lode dell’editto di
tolleranza dell’imperatore Giuseppe
II, XVIII sec.
Opposizioni alle riforme Gli interventi di Giuseppe II ovviamente
incontrarono l’opposizione delle classi privilegiate, l’aristocrazia e gli
ecclesiastici. Per rimediare al malcontento il suo successore, il fratello Leopoldo II (1790-92), che pure si era segnalato
come convinto riformatore nella sua veste di granduca di Toscana, credette bene di venire a compromessi e di
ammorbidire gli indirizzi politici del predecessore.
LE VIE DELLA CITTADINANZA
C ontro la pena di morte
Il mondo della tecnica
L’invenzione del catasto
Una delle riforme più importanti promosse dall’imperatrice Maria Teresa (su un più
antico progetto già impostato dal padre Carlo VI d’Asburgo) fu l’introduzione del
catasto, che fu poi compiutamente realizzato da Giuseppe II. Destinato nel
tempo ad avere in tutta Europa conseguenze profonde, sia livello sul piano fiscale
ed economico sia livello sul piano sociale, il nuovo sistema di censimento
incontrò l’opposizione della nobiltà e dei grandi proprietari terrieri, che vedevano
nella sua applicazione una minaccia ai loro interessi.
La sperimentazione del nuovo progetto partì per la prima volta in Lombardia (che
funse da “laboratorio” della politica innovatrice austriaca). Qui, dopo prolungate
difficoltà, il catasto entrò in vigore nel 1760 sotto la direzione di Pompeo Neri
(1706-1776), un giurista fiorentino a cui l’imperatrice in persona aveva affidato nel Mappa del catasto teresiano a
Monticello (Cremona), XVIII sec.
1749 l’incarico.
Il catasto, ossia il censimento generale dei beni fondiari, era effettuato tramite
diretta e precisa rilevazione dei pubblici funzionari e non più, come in passato, tramite denunce degli stessi proprietari
(che facevano in pratica un’autodichiarazione delle loro proprietà) e serviva a determinare il carico di tasse dovute da
ciascun proprietario. Il nuovo sistema era l’indispensabile premessa per attuare una più equa distribuzione delle
imposte e attraverso il suo utilizzo furono aboliti i privilegi di nobili ed ecclesiastici, fino a quel momento esentati dal
pagamento delle tasse.
Oltre a ciò, il catasto offrì allo Stato uno strumento essenziale per pianificare gli interventi sul territorio, per esempio
lo scavo di un canale o la programmazione di una bonifica. La minuziosa rappresentazione delle case di abitazione, dei locali
di servizio, delle terre, degli alberi, dei sentieri, dei canali fu tipica delle mappe catastali che si realizzarono nella Lombardia
austriaca nella seconda metà del XVIII secolo e confermano la grande perizia con cui il progetto fu attuato. Questi
disegni, dunque, anche se ci stupiscono per il fascino che emanano, non nacquero con uno scopo estetico, ma erano
finalizzati alla riorganizzazione fiscale del territorio, prima quello lombardo e poi, su più larga scala, quello asburgico.
5.3 Illuminismo e riforme in Italia
Il “laboratorio” lombardo Anche in Italia, nel corso del Settecento, le idee della cultura illuminista furono di stimolo
alla volontà riformatrice di alcuni sovrani.
La Lombardia, dominio austriaco, trasse un indubbio beneficio dall’attività riformatrice degli Asburgo, che
stimolò la vita economica e fu positivamente accolta dalla parte più consapevole e matura della società. La Lombardia fu
anzi, per gli Asburgo, una sorta di laboratorio in cui sperimentare le nuove politiche riformatrici. Qui, come abbiamo
visto, fu messo in pratica per la prima volta il progetto di un catasto.
In Lombardia, come negli altri paesi soggetti all’Impero, furono aboliti i privilegi dei nobili e degli ecclesiastici e tutti
furono sottoposti all’obbligo di pagare le tasse. Anche l’inquisizione e la censura furono abolite, mentre le scuole, fino
ad allora gestite dagli ecclesiastici, furono rese pubbliche e obbligatorie, e affidate a dei laici.
Il fermento intellettuale a Milano Alla crescita economica si accompagnò
un originale movimento intellettuale. A Milano si distinsero i fratelli Pietro
(1728-1797) e Alessandro (1741-1816) Verri, fondatori di un’associazione
chiamata, polemicamente, “Accademia dei Pugni”, per indicare l’intenzione di
rinnovamento e di rottura col passato. Con il medesimo scopo fu fondato il
giornale «Il Caffè», pubblicato tra il 1764 e il 1766, aperto al dibattito politico e
culturale. Molto clamore suscitò l’opuscolo Dei delitti e delle pene, pubblicato
nel 1764 da uno dei fondatori dell’accademia e della rivista, Cesare Beccaria
(1738-1794): in esso si proponeva di abolire la tortura e la pena di morte,
tradizionali strumenti di giustizia che Beccaria riteneva indegni di una società
civile e oltretutto inutili come deterrenti del crimine. Il libro fu tradotto in molte
lingue e suscitò interesse in tutta Europa.
Antonio Perego, Riunione
dell’Accademia dei Pugni, XVIII sec.
L’attività riformatrice nel Granducato di Toscana Particolare rilievo ebbero le riforme attuate in Toscana dal
granduca Pietro Leopoldo, fratello di Giuseppe II e figlio dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Il suo lungo regno,
durato dal 1765 al 1790, portò nel granducato un fermento innovatore generato dalla fruttuosa collaborazione fra il
sovrano e gli intellettuali “illuminati”, la parte più avanzata del ceto dirigente toscano. Gli interventi di riforma furono
proposti con fermezza ma con gradualità, per limitare scontenti e opposizioni.
In linea con le teorie fisiocratiche [cfr. 4.2], Pietro Leopoldo dedicò particolari attenzioni all’agricoltura, ritenuta il
settore fondamentale dell’economia: tra il 1766 e il 1775 liberalizzò il commercio dei grani e degli altri generi
alimentari, intralciato da secolari barriere doganali e da vincoli legislativi. Anche l’abolizione delle corporazioni
cittadine (1770) e l’uniformazione del sistema doganale (1781) contribuirono al progetto di liberalizzazione. Vasti
lavori di bonifica furono effettuati in val di Chiana e in Maremma sotto la guida dell’ingegnere idraulico Vittorio
Fossombroni (1754-1844).
Anche la giustizia fu riformata. Il Codice leopoldino, promulgato nel 1786, unificò la legislazione in tutto lo Stato e
abolì la tortura e la pena di morte: in tal modo la Toscana fu il primo Stato in Europa a tradurre in pratica le idee
diffuse da Cesare Beccaria e con questi interventi si pose all’avanguardia tra gli Stati italiani.
Spunti di riforme da Napoli al Piemonte Negli altri Stati italiani, le riforme ebbero minore diffusione. Nulla si
mosse a Napoli, nonostante il fermento intellettuale e la presenza di personalità di rilievo europeo come il filosofo Gian
Battista Vico (1668-1744), gli economisti Antonio Genovesi (1713-1769) e Ferdinando Galiani (1728-1787), il giurista
Gaetano Filangieri (1753-1788).
Alcune riforme furono effettuate nel Piemonte sabaudo: centralizzazione amministrativa, limitazione dei privilegi,
censimento dei beni, ma senza un piano coerente di modernizzazione. Agli occhi degli osservatori stranieri il Piemonte
appariva in quei decenni quasi «una caserma», governata in modo antiquato e militaresco, mentre gli intellettuali più aperti
alle idee nuove erano costretti a emigrare: così fecero il letterato Giuseppe Baretti (1719-1789), il tipografo Giambattista
Bodoni (1740-1813), il poeta Vittorio Alfieri (1749-1803).
Sintesi
Illuminismo e riforme
Il riformismo nell’Impero asburgico
Lo Stato in cui le riforme illuministe si svilupparono maggiormente fu
l’Impero d’Austria sotto il regno di Maria Teresa (1748-80), che tentò di uniformare l’amministrazione dei domìni imperiali;
impose il pagamento delle tasse anche ai nobili; rese obbligatoria e statale l’istruzione scolastica; favorì lo sviluppo della
rete stradale e dei commerci. Riforme ancora più radicali fece il figlio Giuseppe II (1780-90), che portò a
compimento la compilazione del catasto, strumento fondamentale per distribuire in modo più equo il carico fiscale; sottrasse
beni alla Chiesa rendendo i sacerdoti degli stipendiati pubblici; abolì le corvées e la servitù feudale. Questi provvedimenti
incontrarono la forte opposizione delle classi privilegiate, tanto che il successore Leopoldo II ammorbidì questa linea
politica.
Illuminismo e riforme in Italia
La Lombardia faceva parte dell’Impero e fu quasi un “laboratorio” delle
riforme promosse dagli Asburgo: qui fu introdotto per la prima volta, in maniera sperimentale, il catasto; qui fu abolita la
censura e l’inquisizione; l’istruzione divenne obbligatoria, pubblica e laica. A Milano il fermento culturale si
manifestò nella fondazione dell’ “Accademia dei Pugni” da parte dei fratelli Verri e della rivista «Il Caffè», in entrambe spiccava
la figura di Cesare Beccaria che, per primo, teorizzò nell’opera Dei delitti e delle pene (1764) l’abolizione della tortura e
della pena di morte.
In Toscana il granduca Pietro Leopoldo (1765-90) promosse una serie di riforme graduali. In ambito economico fu
liberalizzato il commercio dei grani e dei generi alimentari, abolendo vincoli e barriere doganali; furono abolite le corporazioni
cittadine; furono effettuate bonifiche di terreni. In ambito giuridico fu approvato il Codice leopoldino, in cui, per la prima
volta in Europa, si abolivano la tortura e la pena di morte.
Negli altri Stati italiani le riforme ebbero una minore diffusione. A Napoli, nonostante un grande fermento intellettuale e la
presenza di figure intellettuali di rilievo, non si ebbero riforme. In Piemonte ve ne furono alcune, a opera dei sovrani
sabaudi: centralizzazione amministrativa, limitazione dei privilegi, censimento dei beni, ma senza un piano coerente
di modernizzazione.
Modulo 3
Rivoluzioni dell’età moderna
J.G. Moitte, L’Uguaglianza mostra la
tavola dei «Diritti dell’uomo» e
regge una livella, XVIII sec.
[Musée de l’Histoire vivante, Montreuil]
Capitolo
Capitolo
Capitolo
Capitolo
6
7
8
9
La Rivoluzione americana
La Rivoluzione francese
La Francia repubblicana
Il ventennio napoleonico
Competenze
Schematizzare
le caratteristiche geo-economiche delle colonie inglesi d’A merica.
Collocare nel tempo e nello spazio
gli eventi della rivoluzione americana.
Contestualizzare
le rivendicazioni e le proteste del terzo stato alle soglie della Rivoluzione francese.
Analizzare
il significato dell’abolizione del regime feudale in Francia e la trasformazione del ruolo sociale del clero e della nobiltà.
Mettere in relazione
i princìpi dell’Illuminismo con le istanze rivoluzionarie.
Evidenziare
le differenze e le analogie tra la Dichiarazione di indipendenza americana e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo francese.
Riconoscere
l’eredità della Rivoluzione francese nell’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.
Contestualizzare
l’ascesa e il trionfo di Napoleone.
Individuare
le riforme napoleoniche che hanno avuto maggior impatto sul mondo contemporaneo.
Capitolo 6
La Rivoluzione americana
Il XVIII secolo si concluse con due rivoluzioni destinate a cambiare il
corso della storia: la Rivoluzione americana e quella francese. La
prima si compì tra il 1775 e il 1783 e fu opera dei coloni inglesi
stanziati sulla costa atlantica dell’America settentrionale. Ribellatisi
alla madrepatria, essi ottennero l’indipendenza e fondarono la prima
nazione della storia moderna organizzata in forma democratica: la
Repubblica degli Stati Uniti d’America.
Un tap per aprire
la cronologia
6.1 La colonizzazione inglese dell’America settentrionale
Un dominio europeo Il continente americano, che oggi è costituito quasi totalmente di nazioni indipendenti, nel
XVIII secolo dipendeva dall’Europa. Dopo la scoperta di Colombo, quell’immenso territorio era stato un po’ alla volta
conquistato dagli europei, che avevano fondato diverse colonie e assoggettato le popolazioni indigene. Nella parte
centrale e meridionale del continente, dove un tempo sorsero le civiltà dei Maya, degli Aztechi e degli Incas [cfr. vol. 1,
11; 17], si erano imposti gli spagnoli e i portoghesi; nella parte settentrionale, abitate da numerose tribù di “pellirosse” ,
si affermarono i francesi e gli inglesi.
Verso la libertà del Nuovo Mondo Le colonie inglesi erano tredici, disposte lungo la costa atlantica dell’America
settentrionale. La prima era stata la Virginia, fondata nel 1580 durante il regno della regina Elisabetta [cfr. vol. 1, 21.3]; le
altre erano sorte successivamente, nel corso dei secoli XVII e XVIII. La popolazione era costituita in massima parte da
emigrati inglesi, e da consistenti nuclei di scozzesi, irlandesi, olandesi, tedeschi: nel complesso, circa due milioni di
abitanti nel 1763. Tutti costoro avevano abbandonato l’Europa sperando in migliori condizioni di vita e anche per trovare
maggiore libertà; molti, infatti, erano fuggiti per sottrarsi alle persecuzioni politiche e religiose che avevano attraversato
l’Europa tra il XVI e il XVII secolo.
I “padri fondatori” Un tipico esempio fu quello dei puritani inglesi, cristiani
di fede protestante, sostenitori di una vita estremamente morigerata, che nella
prima metà del Seicento abbandonarono la patria piuttosto che sopportare
l’oppressione e le persecuzioni dei re Giacomo I e Carlo I Stuart [cfr. 1.1],
sovrani di fede cattolica. I primi di questi esuli, partiti nel 1620 a bordo della nave
Mayflower (‘Fior di maggio’) e giunti l’11 novembre sulle coste del
Massachusetts, sono indicati dagli americani con l’appellativo di padri fondatori
(o padri pellegrini), nucleo iniziale della futura nazione, che con il loro spirito di
libertà gettarono i semi della democrazia. In ricordo di questo evento ancora oggi
in America si festeggia a novembre il Thanksgiving Day, ‘Giorno del
ringraziamento’.
Jean Leon Jerome Ferris, I padri
pellegrini a Plymouth: il primo
sermone nella nuova terra, 1621,
XIX sec.
Tredici colonie in espansione: tre tipi di sviluppo A metà del Settecento
le tredici colonie inglesi erano in piena espansione economica.
In quelle del nord – Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island,
Connecticut – dal terreno montuoso, accidentato e poco adatto alle attività
agricole, la popolazione si era dedicata all’industria e al commercio, costruendo
cantieri navali, fabbriche tessili, distillerie.
Le quattro colonie del centro – New York, Pennsylvania, New Jersey,
Delaware – erano dette “colonie del pane” perché vi erano nate numerose
fattorie, grandi e piccole, in cui si coltivavano grano, orzo, mais e si allevavano
maiali, bovini, cavalli.
Il clima caldo, le piogge abbondanti e il terreno fertile delle cinque colonie del
sud – Maryland, Virginia, Carolina del nord, Carolina del sud, Georgia – avevano
concorso a sviluppare le piantagioni, fattorie di ampia estensione dove si
coltivavano per lo più il tabacco e il cotone, con mano d’opera costituita
prevalentemente di schiavi.
Autonomia politica, vincoli economici A differenza delle colonie spagnole,
le colonie inglesi godevano di larghe autonomie amministrative e
Colonie americane tra il 1763 e il
politiche, affidate a Parlamenti locali che in ogni colonia si affiancavano ai 1783
governatori inviati da Londra. Nella vita economica, invece, ogni attività era
subordinata agli interessi inglesi. Le colonie, considerate come regioni di
sfruttamento, avevano l’obbligo di fornire materie prime alla madrepatria e di acquistare dalla stessa i manufatti. Era
vietato aprire fabbriche in concorrenza con quelle inglesi; il commercio d’esportazione si doveva effettuare solo con navi
britanniche; lo zucchero e il frumento dovevano essere venduti ai prezzi stabiliti da Londra.
Queste restrizioni erano accettate dai coloni senza particolari proteste, perché si trattava di norme a quel tempo
comuni e diffuse in ogni paese. Inoltre, poiché l’Inghilterra con le sue forze militari difendeva i coloni americani dalle
frequenti aggressioni dei francesi del Canada, la popolazione delle colonie considerava i privilegi a favore di Londra una
sorta di compenso dovuto in cambio di un servizio. Poi c’era il contrabbando che, largamente praticato dai coloni e
tollerato dalle autorità britanniche, attenuava il peso delle leggi restrittive.
Per approfondire
Istruzione obbligatoria e università per i coloni americani
6.2 Dalla tassa sul bollo alla guerra
Nessuna tassa senza rappresentanza I rapporti fra i coloni e la
madrepatria si guastarono a partire dal 1765, quando il governo di Londra, al
termine della guerra dei Sette anni, per compensare le ingenti spese del
conflitto impose una tassa sul bollo (lo Stamp Act), che rendeva obbligatorio
l’uso della carta bollata per tutti i documenti pubblici, commerciali e giudiziari, e
l’applicò anche ai coloni d’America.
I coloni respinsero l’imposizione, sostenendo che secondo la Dichiarazione
dei diritti del 1689 [cfr. 1.2] nessuna tassa poteva essere imposta senza
l’approvazione dei rappresentanti del popolo in Parlamento; e poiché ai coloni,
che pure erano cittadini inglesi, non era concesso avere rappresentanti nel John Bluck, Una seduta della
Parlamento di Londra, il provvedimento era da ritenersi illegale. Gli uffici Camera dei Lord al tempo di Giorgio
governativi furono presi d’assalto e Londra si decise ad abrogare la tassa. III, XIX sec.
Tuttavia il Parlamento inglese e l’autoritaria volontà del re Giorgio III (17601820) riaffermarono il proprio diritto a dettare legge alle colonie: così nel 1767 fu approvata una serie di dazi sul
commercio del tè, della carta, del vetro e di altre merci inglesi, che gli americani importavano dalla madrepatria.
Il boicottaggio delle merci inglesi I coloni reagirono con forza, decisi a non accettare più imposizioni in campo
fiscale ed economico, tanto più che era venuta meno la necessità di una protezione britannica contro le minacce francesi,
dal momento che il Canada, con la guerra dei Sette anni, era diventato colonia inglese. Fu stabilito, così, di boicottare,
cioè di non comprare più merci dall’Inghilterra e si reclamarono per i coloni d’America i medesimi diritti degli inglesi
d’Inghilterra.
Ne nacque una forte tensione, seguita da incidenti.
La rivolta A Boston, nel 1770, i soldati inglesi spararono su un gruppo di
dimostranti, provocando alcuni morti. Nel 1773, ancora a Boston, un grosso
carico di tè trasportato da navi inglesi fu gettato in mare all’arrivo nel porto
(l’episodio, noto come Boston Tea Party, segnò il punto di non ritorno della
rivolta). Nel 1775, a Lexington nel Massachusetts, i volontari americani aprirono
il fuoco sulle truppe della guarnigione britannica; altrettanto accadde a Concord
nel New Hampshire. Giorgio III ordinò di reprimere la ribellione e dall’Inghilterra
cominciarono a partire navi cariche di truppe e di armi, mentre le colonie
arruolavano volontari per costituire un esercito. Il conflitto economico si era
ormai trasformato in scontro militare.
Stampa satirica sul tema
dell’indipendenza americana, fine
XVIII sec.
DOCUMENTI
L’ec onomia americ ana a serv izio del monopolio inglese
6.3 La conquista dell’indipendenza e la nascita degli Stati Uniti
d’America
La Dichiarazione di indipendenza Gli insorti misero insieme un esercito di
ventimila uomini e ne affidarono il comando a George Washington (17321799), un ricco proprietario di piantagioni della Virginia, già noto per essersi
battuto contro i francesi del Canada.
Il 4 luglio 1776 i rappresentanti delle tredici colonie riuniti a Filadelfia ruppero
con Londra e si proclamarono autonomi, sottoscrivendo una Dichiarazione di
indipendenza redatta da Thomas Jefferson (1743-1826), deputato della
Virginia. Il testo si ispirava alle idee illuministe [cfr. 4] innestate sulla tradizione
politica inglese e vi si affermava che «gli uomini sono stati creati uguali e hanno Joseph Trumbull, La «Dichiarazione
alcuni diritti fondamentali, il diritto alla vita, alla libertà e alla felicità: se un di indipendenza» degli Stati Uniti,
firmata a Filadelfia il 4 luglio 1776,
governo non rispetta questi diritti, i cittadini possono abbatterlo e sostituirlo».
Attenta agli aspetti etici e religiosi, la Dichiarazione si preoccupò di giustificare part., XVIII sec.
la ribellione da un punto di vista morale oltre che politico, sottolineando come la
controparte, cioè la monarchia inglese, fosse venuta meno agli impegni nei confronti dei sudditi, e come, di conseguenza,
i sudditi fossero autorizzati a ritenere sciolto il patto che li legava alla monarchia: argomentazione che evidentemente si
rifaceva all’idea del “contratto sociale”, elaborata in Inghilterra prima ancora che in Francia [cfr. 1.3].
Alleati d’oltre Oceano Di fronte all’offensiva delle superiori forze inglesi, i ribelli subirono diverse sconfitte. Risultò
pertanto chiara la necessità di trovare alleati in Europa. A fare opera di propaganda per la causa degli insorti fu inviato il
libraio e scrittore Benjamin Franklin, noto anche per i suoi studi sull’elettricità e l’invenzione del parafulmine [cfr. 4.4].
La Francia, sperando di rifarsi delle perdite coloniali subite nella guerra dei Sette anni, decise di intervenire a fianco dei
coloni e inviò un corpo di spedizione, al quale si aggiunsero contingenti spagnoli e olandesi.
La vittoria dei coloni In seguito all’allargamento del conflitto, gli inglesi si resero conto che la possibilità di ottenere
una vittoria definitiva diventava improbabile. Perciò decisero di metter fine alla guerra. Il 5 settembre 1783 fu firmata la
pace con il trattato di Versailles, presso Parigi. L’Inghilterra riconobbe l’indipendenza delle tredici colonie e
restituì alcuni territori che aveva conquistato con la guerra dei Sette anni: alla Francia ritornarono il Senegal (Africa
occidentale) e Tobago (Indie occidentali), mentre la Spagna riottenne Minorca e la Florida.
Uno Stato federale Prima ancora della fine delle ostilità con l’Inghilterra, nel
1781 i rappresentanti delle tredici colonie riuniti a Filadelfia decisero di aggregarsi
in una federazione, alla quale fu dato il nome di Stati Uniti d’America.
Inizialmente la federazione ebbe vita difficile, poiché gli interessi di ogni
singolo Stato sembrarono prevalere sulle esigenze comuni. I piantatori della
Virginia o della Georgia erano lontani dal comprendere i punti di vista e le
necessità dei commercianti e degli industriali degli Stati del Nord, né questi si
rendevano conto dei bisogni e delle aspirazioni dei piantatori. Il problema di come
conciliare le autonomie locali e i poteri centrali fu discusso dagli esponenti di tutti
gli Stati in un’assemblea, riunita ancora a Filadelfia nel 1787.
Gli Stati Uniti d’America (17831803)
Il passo decisivo: la Costituzione I lavori dell’assemblea durarono quasi un anno e dopo accesi dibattiti si giunse a
una soluzione di compromesso, grazie all’opera soprattutto di Washington e
Franklin. Il 17 settembre 1787 fu approvata la Costituzione federale degli
Stati Uniti d’America, ispirata al principio dell’equilibrio dei poteri. Ciascuno
degli Stati fondatori fu simboleggiato da una stella bianca nella bandiera azzurra
della nuova repubblica, a indicare l’unità e, al tempo stesso, la molteplicità degli
interessi rappresentati. Nel 1789 fu eletto il primo presidente, George
Washington (1789-97).
Un segnale per il mondo La formazione degli Stati Uniti d’America ebbe un
forte significato politico e simbolico. Si trattò infatti del primo Stato dell’età
moderna fondato su basi democratiche, secondo i princìpi dell’uguaglianza e
dell’autogoverno.
«Ci auguriamo – scrisse Thomas Jefferson – che la rivoluzione americana sia
per il mondo un segnale». Così in effetti fu, soprattutto in Europa, dove il
“segnale” ebbe particolare risonanza. Gli avvenimenti americani avevano
mostrato che le aspirazioni a costruire un mondo diverso non erano destinate a
rimanere idee astratte, ma potevano tradursi in realtà. Di lì a pochi anni, anche in
Francia sarebbe scoppiata una rivoluzione epocale.
Gutzon Borglum, I ritratti colossali
dei presidenti americani, XX sec.
LE VIE DELLA CITTADINANZA
Un nuov o modello di Stato
Sintesi
La Rivoluzione americana
La colonizzazione inglese dell’America settentrionale
Nel XVIII secolo il continente americano
era formato da colonie dipendenti da Stati europei: nella parte settentrionale si erano insediati francesi e inglesi. Sulla costa
atlantica del Nord America si trovavano tredici colonie inglesi, abitate in prevalenza da emigrati europei. I “padri
pellegrini”, un gruppo di puritani inglesi fuggiti nel 1620 dalle persecuzioni religiose, sono considerati il primo nucleo della
futura nazione americana.
Alla metà del XVIII secolo le colonie inglesi vivevano una fase di espansione economica. In quelle settentrionali erano
praticati commercio e industria, in quelle centrali (dette “colonie del pane”) agricoltura e allevamento, in quelle
meridionali si erano sviluppate le piantagioni con manodopera schiavistica. Dal punto di vista politico esse godevano di
larghe autonomie ed eleggevano Parlamenti locali. Dal punto di vista economico i loro interessi erano subordinati a quelli
della madrepatria inglese, che dettava i prezzi e le regole del commercio. Inizialmente queste disparità erano tollerate, anche
come contropartita della protezione inglese data ai coloni contro i francesi del Canada.
Dalla tassa sul bollo alla guerra
I rapporti con l’Inghilterra si incrinarono nel 1765, quando fu imposta la
tassa sul bollo (Stamp Act): i coloni rifiutarono di pagarla invocando il principio (affermatosi in Inghilterra fin dal Medioevo)
secondo cui nessuna imposizione poteva essere introdotta senza l’assenso dei rappresentanti del popolo in Parlamento, da
cui però gli abitanti delle colonie erano esclusi. La tassa fu ritirata. Due anni dopo furono però introdotte altre tasse, sul
commercio di alcuni beni (tè, carta, vetro) importati nelle colonie dall’Inghilterra. La reazione fu dura: i coloni stabilirono il
boicottaggio dell’acquisto di merci dalla madrepatria, invocando gli stessi diritti degli inglesi. Seguirono tensioni e incidenti, e
il re Giorgio III decise di intervenire con l’esercito per reprimere le proteste: si arrivò così allo scontro militare.
La conquista dell’indipendenza e la nascita degli Stati Uniti d’America
I coloni
armarono un proprio esercito, guidato da George Washington (1732-1799). Il 4 luglio 1776 i rappresentanti delle colonie
sottoscrissero la Dichiarazione di indipendenza, che sanciva la loro autonomia dalla madrepatria, ispirata ai princìpi
dell’Illuminismo: uguaglianza tra gli uomini, diritto alla libertà, possibilità di abbattere un governo irrispettoso dei diritti dei
cittadini. Le prime fasi del conflitto furono favorevoli agli inglesi, ma gli insorti riuscirono a ottenere l’alleanza prima della
Francia e poi della Spagna e dell’Olanda. Nel 1783, con la pace di Versailles fu riconosciuta l’autonomia delle colonie,
mentre Francia e Spagna ottennero territori coloniali precedentemente perduti.
Dopo l’approvazione della Dichiarazione di indipendenza, le colonie si unirono in una federazione, gli Stati Uniti d’America
(1781), inizialmente poco coesa, in quanto gli interessi particolari di ogni Stato erano prevalenti su quelli comuni. Una nuova
assemblea tra i rappresentanti degli Stati approvò la Costituzione federale degli Stati Uniti d’America (1787), che
disegnava una confederazione di Stati in cui fosse tutelato l’equilibrio tra i diversi interessi e poteri. Il primo presidente della
nuova democrazia americana, eletto nel 1789, fu George Washington.
Capitolo 7
La Rivoluzione francese
Nel 1789 la Francia fu teatro di una rivoluzione di straordinaria
importanza storica, che segnò la fine della sovranità dei re e l’inizio
della sovranità dei popoli. Per l’ampiezza delle forze che mise in
movimento e il valore universale delle idee a cui diede vita – la
libertà, l’uguaglianza dei diritti, la democrazia – la Rivoluzione
francese è considerata uno degli avvenimenti di maggiore significato
nella formazione del mondo contemporaneo.
Un tap per aprire
la cronologia
7.1 Una monarchia distante, un paese inascoltato. La società di
ancien régime
Rapporti di forza tra nobiltà e monarchia Negli ultimi decenni del Settecento la Francia era un paese in difficoltà.
La politica assolutista di Luigi XIV [cfr. 1.4] aveva creato una scollatura fra il governo e il paese e dopo la sua morte, nel
1715, la monarchia aveva perso prestigio e il potere nobiliare si era di nuovo consolidato. Il suo successore, il pronipote
Luigi XV, salito al trono ancora minorenne, regnò per oltre mezzo secolo (fino al 1774) ma non ebbe la forza di
combattere i privilegi dei nobili. Si creò dunque una situazione di stallo, che impediva di attuare qualsiasi riforma, in un
momento in cui la grave crisi finanziaria (dovuta principalmente alle spese enormi sostenute per i conflitti bellici)
avrebbe reso indispensabile assoggettare alle imposte anche la nobiltà e il clero, che tradizionalmente ne erano esenti.
Un paese bloccato Per certi aspetti, la Francia era uno degli Stati europei più evoluti: l’agricoltura era fiorente, nuove
industrie erano sorte nel campo tessile, metallurgico, navale. Il contrasto fra dinamismo economico e immobilismo
politico era clamoroso, e su tale situazione il dibattito era acceso: il pensiero illuminista e la critica politica diffondevano
la consapevolezza che il sistema di governo era inadeguato alle necessità del paese ed era quantomai urgente una riforma
fiscale.
La situazione si aggravò quando salì al trono Luigi XVI (1774-93), un sovrano debole, incerto, che per giunta si
trovò a dover fronteggiare una grave carestia (seguita da una serie di rivolte contadine) e un ulteriore aumento delle spese
pubbliche, per l’appoggio militare dato dalla Francia alla ribellione dei coloni americani contro la madrepatria inglese [cfr.
6.3].
La convocazione degli Stati generali Luigi XVI cercò di istituire
un’imposta straordinaria da applicare a tutti i proprietari terrieri, ma il progetto fu
bloccato dagli interessi di aristocratici ed ecclesiastici, decisi a conservare i
propri privilegi. Il re decise allora la convocazione degli Stati generali, l’organo
di rappresentanza dei tre “stati” sociali ufficialmente riconosciuti: nobili, clero e il
cosiddetto “terzo stato” (comprendente tutte le altre categorie sociali). Egli
pensava di affidare all’assemblea, che non si era più riunita dal 1614, la
discussione di una riforma fiscale che non soltanto le borghesie cittadine, ma
anche la parte più avanzata della nobiltà, di orientamento liberale e sensibile al
modello parlamentare inglese, ritenevano non più rimandabile.
Louis-Charles-Auguste Couder,
Apertura degli Stati generali il 5
maggio 1789
I tre “ordini” sociali La suddivisione della società in tre “stati” risaliva a uno
schema sociologico elaborato durante il Medioevo, la teoria dei tre “ordini”
(ordines) che svolgevano funzioni diverse a vantaggio di tutti: i guerrieri
(bellatores) assicuravano la difesa e il governo della società, i sacerdoti (oratores)
pensavano alla preghiera e al culto, i contadini (laboratores) a produrre i beni di
sussistenza [cfr. vol. 1, 1].
Nella Francia del XVIII secolo, il primo stato comprendeva i nobili: circa
350.000 persone nel 1780, che possedevano gran parte delle terre (un quarto Distribuzione della popolazione nei
dell’intero paese) e godevano di molti privilegi: totalmente esenti dalle imposte tre stati
statali, nei loro possessi riscuotevano tasse di vario genere derivanti dagli usi
feudali ed esercitavano le funzioni giudiziarie.
Il secondo stato era costituito dai religiosi: circa 120.000 persone nel 1780, anch’essi esenti dalle imposte e
autorizzati a riscuotere dalla popolazione uno speciale tributo chiamato “decima” perché calcolato sulla decima parte dei
redditi (frutti della terra e degli animali).
Il terzo stato era costituito da tutte le altre categorie sociali: la più numerosa era quella dei contadini, circa 20
milioni su una popolazione di 25 milioni, fra medi e piccoli proprietari, affittuari e braccianti. Su di essi gravavano i
carichi più pesanti, dalle imposte del re agli innumerevoli diritti dei nobili, alle decime dovute al clero. Al “terzo stato”
appartenevano inoltre le molteplici categorie della nuova borghesia urbana, differenziata in molteplici attività: operai,
artigiani, bottegai, impiegati, farmacisti, medici, commercianti, avvocati, notai, banchieri, funzionari di Stato.
Modalità di rappresentanza Questo schema ideale di società era ormai obsoleto, soprattutto perché il “terzo stato”
si era, nei secoli, articolato e differenziato. Ma esso determinava ancora le modalità di rappresentanza politica:
nell’assemblea degli Stati generali si votava “per stati” e i due gruppi privilegiati erano sempre sicuri di far
prevalere i propri interessi. La nobiltà e il clero, votando insieme, prevalevano regolarmente sull’unico voto del “terzo
stato”.
Per indicare quel vecchio modello di assetto sociale, politico, economico fu
coniata alla fine del Settecento l’espressione ancien régime, ‘antico regime’, ben
presto adottata in tutta Europa per indicare analoghe situazioni, e la volontà di
cambiarle.
Il clero e la nobiltà sulle spalle del
terzo stato, 1789
DOCUMENTI
Rimostranze e ric hieste
Per approfondire
Dal Medioevo al Settecento, i tre stati della società
7.2 Gli Stati generali e l’inizio della rivoluzione
L’Assemblea nazionale del terzo stato Gli Stati generali si riunirono a
Versailles il 5 maggio 1789. Sin dalle prime sedute gli avvenimenti presero un
andamento contrario alle aspettative degli aristocratici: il “terzo stato” dichiarò
di non accettare il tradizionale sistema di votazione “per stati” e propose
che si votasse “per testa”, cioè che ogni deputato disponesse di un voto
individuale. Accogliendo questa regola, il “terzo stato” avrebbe avuto la
maggioranza in quanto contava 600 deputati, contro i 550 degli altri due “stati”
messi insieme. Pro e contro la proposta sorsero discussioni accanite, fino a
quando, il 17 giugno, il “terzo stato” decise di separarsi dagli altri e di
proclamarsi Assemblea nazionale, con o senza la partecipazione dei nobili e
Il risveglio del terzo stato. Luglio
del clero.
Con quel gesto di sfida contro il re e gli ordini privilegiati, il “terzo stato” 1789
compì il primo atto di rottura che segnò l’avvio del movimento
rivoluzionario.
Il sovrano cercò di impedire al “terzo stato” di riunirsi ancora e fece chiudere la sala delle sedute. Ma i delegati, fermi
nel loro proposito, si radunarono in una sala attigua, una palestra adibita al gioco della pallacorda (una specie di pallavolo)
e qui giurarono di rimanere uniti per preparare il testo di una Costituzione. Il re finì per cedere e invitò i nobili e il clero a
prendere parte anch’essi ai lavori dell’assemblea, che, secondo il nuovo corso impresso dal “terzo stato”, aveva ormai
cambiato nome e scopo. Non più Stati generali, convocati dal monarca con funzioni consultive in materia fiscale, ma
un’Assemblea nazionale costituente volta a dare una Costituzione alla Francia e che avrebbe sostituito la monarchia
assoluta con una monarchia costituzionale.
Alla Bastiglia! Di fronte a questi avvenimenti, i consiglieri più intransigenti del
re tentarono un colpo di mano e fecero concentrare truppe intorno a Parigi, per
ristabilire la piena autorità regia nei confronti dell’Assemblea. L’intervento dei
militari scatenò il furore del popolo. Una folla si impadronì di fucili e cannoni
nella caserma detta “degli Invalidi” e assalì la Bastiglia, la fortezza in cui erano
rinchiusi i carcerati, occupandola e liberando i prigionieri.
Era il 14 luglio 1789, data che dal 1880 la Francia celebra come festa
nazionale. La presa della Bastiglia acquistò un valore di simbolo, rappresentò
Jean-Pierre-Louis-Laurent Houel, La
agli occhi dei cittadini la vittoria della libertà contro la tirannide. A Parigi si formò presa della Bastiglia il 14 luglio
un nuovo Consiglio municipale, costituito di membri non più di nomina regia 1789, fine XVIII sec.
ma eletti dal popolo, e contemporaneamente fu istituita a presidio della
rivoluzione una forza armata di volontari, detta Guardia nazionale, comandata dal marchese Marie-Joseph de La
Fayette (1757-1834).
La fine del regime feudale Da Parigi il moto rivoluzionario si estese alle
province: in molte città si formarono municipalità di cittadini eletti e corpi di
Guardie nazionali. Tra luglio e agosto del 1789 (una fase della rivoluzione
ricordata come la “Grande paura”), i contadini assalirono i castelli dei nobili,
distruggendo gli archivi e dando alle fiamme le carte su cui erano registrati i
diritti feudali e i privilegi nobiliari. Sotto la pressione di questo moto popolare,
l’Assemblea nazionale decretò l’abolizione del “regime feudale”,
espressione con cui si intendeva l’insieme dei diritti esercitati dai nobili a scapito
dei contadini. L’Assemblea stabilì inoltre l’abolizione di tutti i privilegi, compresi
quelli fiscali.
Il 26 agosto 1789 fu approvata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, ispirata alle idee dell’Illuminismo e ai princìpi di libertà e
uguaglianza, secondo il modello della Dichiarazione di indipendenza americana
[cfr. 6.3].
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo
e del cittadino, 26 agosto 1789
LE VIE DELLA CITTADINANZA
I diritti dell’uomo e del c ittadino
7.3 I gruppi d’opinione e i provvedimenti dell’Assemblea
costituente
Sinistra e cordiglieri, giacobini, girondini I lavori dell’Assemblea
costituente durarono circa due anni, nel corso dei quali incominciarono a
delinearsi correnti politiche diverse, che si manifestavano anche nella diversa
posizione dei seggi occupati in aula dai deputati. A sinistra rispetto alla
presidenza sedevano i gruppi di idee più avanzate: cordiglieri, giacobini, girondini.
I cordiglieri (così chiamati dal luogo in cui si riunivano, l’ex convento dei
francescani conventuali, detti Cordeliers) erano il gruppo che più accesamente
sosteneva i princìpi della rivoluzione; vi aderivano soprattutto i ceti popolari,
artigiani, operai, bottegai, piccoli commercianti; i leader più in vista erano i Un’assemblea giacobina nel gennaio
giovani avvocati Georges-Jacques Danton (1759-1794) e Camille Desmoulins 1792
(1760-1794), il medico Jean-Paul Marat (1743-1793), il giornalista JacquesRené Hébert (1757-1794).
I giacobini (che derivavano il nome dalla loro sede, l’ex convento dei frati domenicani dedicato a san Giacomo e detto
dei Jacobins) rappresentavano numerosi gruppi della media e alta borghesia; erano il gruppo meglio organizzato, che per
certi aspetti prefigurava la struttura dei moderni partiti politici. Fra i membri di maggior prestigio si segnalavano gli
avvocati Maximilien Robespierre (1758-1794) e Jacques-Pierre Brissot (1754-1793). Quest’ultimo diventò in seguito il
leader dei girondini, un gruppo interno all’organizzazione giacobina, così chiamati perché provenienti in gran parte dal
dipartimento della Gironda.
Destra e foglianti, centro e pianura La destra dell’Assemblea era occupata dai foglianti (l’abate di Feuillant era
il fondatore del monastero in cui il gruppo aveva sede). Di saldi princìpi monarchici, provenivano per la maggior parte
dalla borghesia agiata.
Al centro sedeva il gruppo più numeroso, privo di forti riferimenti ideologici, persone di diversa estrazione sociale
che di volta in volta appoggiavano l’una o l’altra proposta, secondo le circostanze e le opportunità. Erano chiamati
pianura o anche, in tono dispregiativo, palude.
La separazione dei poteri e la riforma elettorale Benché di tendenze politiche diverse e talvolta contrastanti, i
deputati dell’Assemblea furono tutti d’accordo su un punto: il nuovo Stato doveva essere una monarchia
costituzionale di tipo inglese, nella quale i tre poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – fossero chiaramente separati.
Molto dibattuto fu il problema del diritto di voto: una parte proponeva di estenderlo a tutti i cittadini (limitatamente agli
uomini: in Francia, come in Italia, il suffragio universale esteso a uomini e donne fu acquisito solo nel 1946), altri
pensavano che dovesse essere riservato ai benestanti. Fu questa la proposta che prevalse, per cui alla fine i cittadini
con diritto di voto risultarono circa 4 milioni.
La vendita dei beni ecclesiastici Per far fronte all’annoso problema
dell’indebitamento dello Stato, l’Assemblea costituente prese un
provvedimento straordinario: espropriare i beni del clero, un patrimonio
fondiario di grande valore (il 10% del territorio nazionale) e venderli a privati. Il
provvedimento in realtà non riuscì a colmare il debito pubblico, ma ebbe
conseguenze politiche e sociali di enorme rilievo. Infatti, coloro che avevano
comprato una porzione dei beni ecclesiastici – per lo più borghesi e
agricoltori – si legarono strettamente alle sorti della rivoluzione e la
sostennero, da allora in poi, con decisione: da essa beneficiati, furono disposti a
Il prete al torchio, fine XVIII sec.
qualsiasi sforzo pur di non consentire un ritorno al vecchio regime.
Fu poi approvata la Costituzione civile del clero: gli ecclesiastici, se
volevano continuare a praticare la loro attività, diventavano funzionari dello Stato, a cui dovevano giurare fedeltà; gli
ordini religiosi furono aboliti, tranne quelli impegnati in opere di assistenza sociale. Provvedimenti simili erano già stati
presi in altri Stati, particolarmente in Russia e nell’Austria asburgica. Solo in Francia, tuttavia, essi furono praticati in
modo sistematico, accompagnati da una massiccia propaganda anticlericale.
7.4 La Costituzione del 1791 e la fine della monarchia assoluta
La fuga del re Gli sviluppi del movimento rivoluzionario spinsero molti nobili ad abbandonare la Francia. Lo stesso re,
sollecitato dalla parte più conservatrice della nobiltà e dalla moglie Maria Antonietta (1774-93), controrivoluzionaria
convinta, il 20 giugno 1791 abbandonò Parigi per rifugiarsi con la famiglia in Lorena, al confine orientale della Francia,
dove si era raccolta gran parte dei nobili emigrati. Ma a Varennes, presso la frontiera belga, fu riconosciuto e riportato a
Parigi sotto scorta armata.
La monarchia costituzionale Nel settembre 1791 l’Assemblea approvò la
Costituzione, con la quale la Francia ebbe una nuova forma di governo:
monarchia non più assoluta ma costituzionale; da quel momento il re doveva
condividere il potere con i rappresentanti del popolo. Al sovrano spettava il
potere esecutivo, all’assemblea dei rappresentanti del popolo il potere legislativo,
ai giudici il potere giudiziario. In tal modo era attuato il principio della
separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu, già messo in pratica negli
Stati Uniti d’America [cfr. 6.3]. Al tempo stesso fu riconosciuto il principio
della sovranità popolare sostenuto da Rousseau [cfr. 4.2]: infatti, sia i membri
dell’Assemblea legislativa sia i giudici non erano nominati dal re, ma eletti dal
popolo.
L’Assemblea procedette a una generale riforma delle strutture
amministrative dello Stato. La Francia fu suddivisa in 83 dipartimenti,
sostituendo il principio del decentramento a quello dell’accentramento,
Il decentramento amministrativo: i
dipartimenti francesi nel 1790
perseguito dalla monarchia assoluta.
Il 1° ottobre 1791 fu convocata l’Assemblea legislativa, il primo Parlamento della Francia costituzionale.
Discussione storiografica
Aspetti economici e sociali della Rivoluzione francese
Sintesi
La Rivoluzione francese
Una monarchia distante, un paese inascoltato. La società di ancien régime
Alla fine
del XVIII secolo in Francia il potere del re perse prestigio a vantaggio di quello nobiliare. Dopo un periodo di reggenza, nel
1723 divenne re Luigi XV, che cercò di riaffermare l’assolutismo ma senza intaccare i privilegi dei nobili e del clero,
tradizionalmente esentati dalle tasse mentre era in atto una grave crisi finanziaria. Vi era un forte contrasto tra dinamismo
economico e immobilismo sociale e politico. Luigi XVI (1774-93) tentò di istituire un’imposta fondiaria, bocciata dai nobili,
arroccati a difesa dei propri interessi. Si arrivò così alla convocazione degli Stati generali, l’assemblea di rappresentanza
degli ordini sociali, con l’obiettivo di discutere una riforma fiscale.
Quella francese era una società tripartita, secondo uno schema nato nel Medioevo: vi erano i nobili (primo stato), il clero
(secondo stato) e il terzo stato comprendente tutte le altre categorie sociali: i contadini, numerosissimi e gravati dagli oneri
più pesanti, e la borghesia urbana. Negli Stati generali prevaleva sempre la difesa degli interessi di clero e nobiltà, in quanto si
votava non per persona ma per stati, il che metteva regolarmente in minoranza il terzo stato. Era un modello sociale
obsoleto, che sarà indicato come ancien régime.
Gli Stati generali e l’inizio della rivoluzione
Gli Stati generali si riunirono a Versailles il 5 maggio
1789 e subito il terzo stato si oppose al voto “per stati”, reclamando il voto “per testa”. Di fronte alle resistenze del re e dei
due ordini privilegiati, il 17 giugno il terzo stato si proclamò Assemblea nazionale, affermando di agire in nome della
maggioranza dei francesi e separandosi dagli altri stati. I delegati, riuniti nella stanza detta “della Pallacorda”, giurarono di non
separarsi se non dopo l’approvazione di una nuova Costituzione. Era nata l’Assemblea nazionale costituente, che aveva
come fine l’instaurazione di una monarchia costituzionale. Il re, per tutta risposta, concentrò truppe attorno a Parigi. Il 14
luglio 1789 il popolo parigino assalì la fortezza della Bastiglia, dando inizio alla rivoluzione. A Parigi il governo fu
assunto da un Consiglio municipale elettivo, mentre la difesa fu affidata alla Guardia nazionale, composta da volontari.
La rivoluzione si estese da Parigi alle province. I contadini assalirono i castelli dei nobili, molti dei quali fuggirono, e diedero alle
fiamme le carte che registravano i diritti feudali. L’Assemblea nazionale decise pertanto l’abolizione del regime feudale,
dei diritti esercitati dai nobili sui contadini e dei privilegi fiscali di nobiltà e clero; fu approvata la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino, di ispirazione illuminista, basata sulle idee di libertà e uguaglianza.
I gruppi d’opinione e i provvedimenti dell’Assemblea costituente
Durante i lavori
dell’Assemblea si delinearono diverse correnti politiche, indicate in base ai posti dei seggi occupati. A sinistra vi erano i
cordiglieri, di idee rivoluzionarie radicali; i giacobini, appartenenti alla borghesia media e alta e organizzati in società affiliate;
i girondini, interni ai giacobini. A destra vi erano i foglianti, monarchici provenienti dall’alta borghesia. Al centro un vasto
gruppo (pianura o palude) che appoggiava di volta in volta le proposte meglio rispondenti ai propri interessi. I diversi gruppi
erano però uniti nel sostenere una monarchia costituzionale basata sulla separazione dei poteri. Si discusse molto sul
diritto di voto, che fu infine attribuito ai cittadini benestanti.
L’Assemblea si impegnò per risolvere il problema dell’indebitamento dello Stato, tramite l’espropriazione dei beni del clero
che furono messi in vendita. Questo provvedimento non riuscì a colmare il debito pubblico, ma ebbe grande rilievo sul
piano sociale. Coloro che avevano acquistato beni ecclesiastici, in prevalenza borghesi e agricoltori, si legarono strettamente
alle sorti della rivoluzione, per difendere i beni acquistati. Fu poi approvata la Costituzione civile del clero: gli ecclesiastici
dovevano giurare fedeltà allo Stato, che si faceva carico del loro mantenimento; gli ordini religiosi furono aboliti, tranne quelli
impegnati in opere di assistenza sociale.
La Costituzione del 1791 e la fine della monarchia assoluta
Molti nobili abbandonarono la
Francia; così tentò di fare anche il re (20 giugno 1791) che fu però riconosciuto e ricondotto a Parigi. Nel settembre 1791
fu approvata la nuova Costituzione, che disegnava una monarchia costituzionale fondata sulla separazione dei poteri e
sulla sovranità popolare. Il re dava esecuzione alle leggi, l’assemblea dei rappresentanti le votava, i giudici le facevano
rispettare. I componenti dell’Assemblea legislativa e i giudici erano eletti dal popolo. Fu riformata la struttura amministrativa
dello Stato, diviso in dipartimenti in base al principio del decentramento. La prima Assemblea legislativa fu convocata il 1°
ottobre 1791.
Capitolo 8
La Francia repubblicana
Gli ultimi anni della Rivoluzione furono assai difficili per la Francia,
assediata e invasa dagli eserciti delle altre nazioni europee e
sconvolta, all’interno, da disordini sociali e da una profonda crisi
economica. La monarchia fu abbattuta e si instaurò la repubblica,
che dapprima fu guidata dalle forze radicali della sinistra giacobina;
poi, dopo un periodo drammatico di scontri ideologici e rappresaglie
politiche, il governo passò alle forze moderate. Ciascuna di queste
fasi fu accompagnata dalla stesura di una nuova Costituzione.
Un tap per aprire
la cronologia
8.1 Contro l’Europa dei re: la Repubblica francese e l’uccisione di
Luigi XVI
La guerra contro l’Austria Alla fine del 1791 la Francia era diventata una monarchia costituzionale, il regime feudale
era stato abolito e l’autorità del re era stata limitata dall’istituzione di un Parlamento (l’Assemblea legislativa) eletto dai
cittadini. Erano momenti difficili: i sovrani d’Austria e di Prussia temevano che la rivoluzione si potesse estendere
ad altri Stati e dichiararono che in caso di pericolo per i reali di Francia sarebbero intervenuti in loro soccorso con le
armi. Il governo di Parigi, allarmato da questa minaccia, ritenne opportuno dichiarare guerra all’Austria. Ma le
operazioni militari portarono a una serie di sconfitte, dovute anche alla condotta incerta degli ufficiali francesi: molti di
loro erano di origine aristocratica e non intendevano combattere per la rivoluzione, quindi, una volta giunti sul campo di
battaglia, spesso disertavano, provocando sbandamento tra i soldati.
La fine della monarchia costituzionale Alla notizia delle sconfitte, a Parigi si parlò di tradimento e si accusarono il
re e i nobili di complottare con il nemico. Guidato dai giacobini, il popolo riprese l’iniziativa rivoluzionaria, s’impadronì
del municipio e si mosse all’assalto del palazzo delle Tuileries, residenza del re. L’Assemblea legislativa, sotto la
minaccia dei rivoltosi, dichiarò Luigi XVI sospeso dalle sue funzioni.
Cadeva in Francia, dopo nove secoli, la monarchia capetingia e con la monarchia crollava l’esperimento
monarchico-costituzionale, avviato nella prima fase della rivoluzione (1789-92).
La repubblica in Francia Caduta la monarchia, presero il sopravvento i gruppi repubblicani e in particolare i giacobini.
L’Assemblea legislativa, espressione della monarchia costituzionale, apparve non rappresentare più la volontà popolare:
essa pertanto fu sciolta e si indissero – per la prima volta in Europa – elezioni a suffragio universale maschile. Si
formò una nuova assemblea, detta Convenzione nazionale, che iniziò i suoi lavori nel settembre 1792 e come suo
primo atto proclamò la repubblica.
La guerra contro la Prussia Gli austro-prussiani, intanto, erano penetrati in
territorio francese e minacciavano di marciare su Parigi, il nuovo governo
repubblicano proclamò allora «la libertà e la patria in pericolo» e fece appello ai
volontari, costituendo battaglioni di soldati particolarmente combattivi e fedeli.
Si trattava in gran parte di popolani, detti “sanculotti” (in francese sans culottes,
‘senza culottes’), perché indossavano i pantaloni lunghi anziché quelli corti
fermati al ginocchio (culottes) tipici dei nobili. Portata dai volontari affluiti da
Marsiglia, si diffuse in quei giorni una canzone, la Marsigliese, che diventò poi
l’inno nazionale della Francia.
La vittoria di Valmy Dopo aspri combattimenti, il 20 settembre 1792 i nuovi
battaglioni francesi riuscirono a fermare i prussiani a Valmy e a farli ripiegare. La
vittoria ebbe un particolare significato simbolico in quanto fu il primo successo
militare della rivoluzione sull’Europa dei re, un successo di truppe
volontarie, reclutate tra il popolo, su un esercito regolare considerato tra i
migliori d’Europa.
Dopo Valmy le armate francesi riportarono altre vittorie, occupando il Belgio,
la Savoia, Nizza e gran parte della Renania tedesca. Ogni occupazione era
presentata come una “liberazione”, una «guerra ai re per liberare i popoli»; ma
nonostante quelle nobili parole, le guerre condotte dai francesi significarono,
come tutte le guerre di invasione, la conquista e l’annessione dei territori
occupati.
Louis-Léopold Boilly, Il costume da
sanculotto, XVIII sec.
Luigi XVI alla ghigliottina Mentre gli eserciti estendevano le conquiste francesi, il governo fece processare il re.
Giudicato colpevole di tradimento contro la nazione, Luigi XVI fu condannato a morte e portato alla ghigliottina, il
nuovo strumento di esecuzione capitale scelto in quegli anni per assicurare ai condannati una morte rapida e senza inutili
sofferenze. L’esecuzione avvenne il 21 gennaio 1793 di fronte al palazzo delle Tuileries.
L’esecuzione di Luigi XVI il 21
gennaio 1793
Documenti
Si può vivere senza re?
I luoghi della storia
Le piazze della rivoluzione
Le piazze, assieme alle strade, furono luoghi cruciali della rivoluzione. Luoghi
pubblici per definizione, esse rappresentavano in modo visibile, e in qualche modo
simbolico, il “possesso” della città da parte del popolo. Un popolo costituito da
tanti uomini e da tante donne, molte delle quali – venditrici ambulanti,
apprendiste o salariate delle botteghe artigiane sparse lungo le vie cittadine –
vivevano e lavoravano quotidianamente all’aperto nella città: il loro numero,
sembra, superava quello degli uomini nella proporzione di tre a uno, e non c’è
quindi da stupirsi se il popolo parigino che diede vita alla rivoluzione fu in gran
parte un popolo femminile, come anche le raffigurazioni dell’epoca ci aiutano a
immaginare. Padrone della città, delle strade e delle piazze, le donne non
esitarono ad affiancarsi agli uomini nelle manifestazioni di protesta e a impugnare
esse stesse le armi.
In quegli anni drammatici, le piazze furono anche – come sempre erano state –
un luogo di cruenti spettacoli dove si eseguivano le esecuzioni capitali, che
non servivano solo a giustiziare un colpevole o presunto tale, ma anche a
“mostrarlo” in pubblico. Perciò la ghigliottina non funzionava in segreto, ma faceva
mostra di sé nella piazza della Rivoluzione, già dedicata al re Luigi XV e rinominata
in seguito piazza della Concordia (nome che porta tuttora).
Le piazze furono anche un luogo di festa, dove la rivoluzione affermò i suoi valori
innalzando quelli che furono chiamati “alberi della libertà”. Fu questo uno dei
principali simboli della Rivoluzione francese e del “nuovo ordine” che essa
intendeva instaurare: un palo (o un vero e proprio albero) issato sulle pubbliche
piazze delle città e dei paesi, attorno al quale si svolgevano feste, canti, balli. Già
utilizzato durante la lotta per l’indipendenza americana, l’albero della libertà
riprendeva un antico motivo del folklore popolare riempiendolo di un nuovo
significato politico e sociale. L’albero manifestava davanti a tutti la rottura con la
tradizione, non solo sul piano politico, ma anche culturale e religioso: in polemica
contro la religione cristiana, esso richiamava una religiosità di tipo “naturalistico”
come quella che, agli inizi della primavera, amava festeggiare il ritorno della fertilità
e del ciclo vegetativo innalzando alberi come simbolo della Natura che rinasceva.
L’importanza di questo simbolo era talmente sentito che, quando le forze
rivoluzionarie venivano più o meno temporaneamente sconfitte, la prima cosa che
Parigi durante la Rivoluzione
Jacques Bertaux, Presa del palazzo
delle Tuileries, 10 agosto 1792, fine
si faceva era abbattere l’albero.
La semplicità e la “spontaneità” di queste feste (anche se, in effetti, erano gli
stessi governanti a sollecitarne l’introduzione) erano polemicamente contrapposte
alle feste nobiliari, organizzate per pochi privilegiati e in luoghi chiusi. «Non sono
queste le feste del popolo felice – aveva scritto Jean-Jacques Rousseau – perché
solo all’aria aperta, sotto il cielo, ci si abbandona al sentimento della felicità e della
libertà. Piantate un palo di fiori in mezzo a una piazza, riunitevi intorno il popolo, e
avrete la festa». Soprattutto durante la dittatura di Robespierre furono
organizzate molte manifestazioni di questo genere, per creare fra il popolo
un’atmosfera di entusiasmo e accrescere il consenso politico attorno alla nuova
repubblica.
XVIII sec.
Pierre Antoine de Machy,
Esecuzione capitale sulla place de la
Révolution, 1793
8.2 La nuova Costituzione e il Terrore. Le leggi sociali
Alleanze antifrancesi e rivolte contadine L’espansione militare della
Francia e la morte violenta di Luigi XVI provocarono allarme negli altri paesi
europei, che, sentendosi minacciati dalla rivoluzione e temendo che l’espansione
della Francia alterasse pericolosamente l’equilibrio tra le potenze, costituirono
una coalizione antifrancese (la prima di sette). Vi aderirono l’Inghilterra,
l’Austria, la Prussia, la Russia, la Spagna e altri Stati. Attaccate da ogni parte, le
armate rivoluzionarie subirono pesanti sconfitte e dovettero ritirarsi,
incalzate dagli avversari che invasero il territorio francese.
Quasi negli stessi giorni, in Vandéa e in Bretagna, regioni sulla costa
atlantica, esplose un’insurrezione dei contadini i quali, esasperati dalle continue
leve militari imposte dal governo, sobillati dai nobili e armati dagli inglesi, si
levarono in un violento moto insurrezionale contro Parigi e contro la rivoluzione.
La Costituzione repubblicana e il Comitato di salute pubblica In
queste drammatiche condizioni – l’invasione militare e le ribellioni interne – la La Rivoluzione francese, 1789-95
Convenzione ricorse a misure eccezionali: nel 1793 si redasse una nuova
Costituzione repubblicana e si creò un governo dotato di poteri dittatoriali, il Comitato di salute pubblica, formato di
nove membri con Robespierre presidente, Danton incaricato degli affari esteri, Lazare Carnot (1753-1823) della
conduzione della guerra.
Le questioni più urgenti erano legate all’economia del paese e alla sua difesa. Per arginare la gravissima crisi
economica si fissò un “calmiere” che limitava i prezzi delle derrate agricole, delle merci e dei salari. Sul piano militare fu
istituita la leva di massa e l’esercito fu riorganizzato secondo criteri di disciplina e di merito, che aprivano possibilità di
carriera anche a ufficiali di estrazione borghese e popolana.
Il Terrore Il Comitato, diretto con inflessibile energia, prese i provvedimenti
ritenuti necessari ricorrendo all’uso sistematico della violenza; perciò quella fase
della rivoluzione fu detta “periodo del Terrore”.
Le insurrezioni della Vandéa e della Bretagna furono domate con le armi e con
esecuzioni di massa. Ogni sospetto di controrivoluzione fu bloccato per mezzo
del Tribunale rivoluzionario, un organismo speciale per i reati politici; le sue
sentenze erano inappellabili e immediatamente esecutive. Era sufficiente un
sospetto, anche senza prove, per essere arrestati e giudicati. Ogni garanzia dei
diritti individuali fu di fatto abolita, l’annientamento dei nemici della
rivoluzione (o supposti tali) fu condotto con spietato rigore.
Anche l’ex regina Maria Antonietta fu portata alla ghigliottina; identica Le vittime del Terrore del 1793,
sorte toccò ai molti nobili e sacerdoti che si erano rifiutati di prestare XVIII sec.
giuramento alla repubblica; così pure finirono ghigliottinati i generali accusati di
tradimento. Il Terrore, motivato dallo stato di guerra e dalla controrivoluzione interna, durò dall’agosto 1793 al luglio
1794 e fece migliaia di vittime.
Leggi sociali e laicizzazione Malgrado le difficoltà di quei momenti terribili, il governo rivoluzionario approvò una
serie di importanti leggi sociali. Nel 1794 fu abolita la schiavitù nelle colonie e fu introdotta l’istruzione obbligatoria
e gratuita per tutti i cittadini. L’educazione delle masse era infatti vista come
base della crescita civile e sociale. Nello stesso anno, il 21 dicembre, la
Convenzione fondò l’Ècole Polytechnique, la ‘Scuola politecnica’, un istituto
tecnico-scientifico distinto dall’università, a cui si accedeva per merito e che
diventò il modello di istruzione pubblica superiore. Un importante provvedimento
fu l’adozione del sistema decimale, un nuovo metodo di misura che superava il
particolarismo delle misure locali, creato per rendere uniformi e più semplici i
rapporti commerciali, che per la sua praticità fu poi adottato da quasi tutti i paesi
del mondo [cfr. Modulo 3, Invenzioni e innovazioni].
Altre riforme ebbero come oggetto la laicizzazione della società: furono
aboliti simboli e riferimenti al cristianesimo, sostituiti dal culto dei martiri Calendario rivoluzionario anno II
rivoluzionari o della Ragione; fu anche introdotto un nuovo calendario della repubblica, 1794
rivoluzionario. Fu sancita la libertà di culto per tutte le confessioni, istituendo
però anche il culto dell’Essere supremo, una religione razionale e simbolica di ispirazione deista [cfr. 4.1].
Il mondo della tecnica
Due rivoluzioni a base decimale: il metro e il calendario
Fra le novità introdotte dalla Rivoluzione francese, una delle più durature fu
l’istituzione di nuove unità di peso e di misura, basate su un sistema decimale
unificato. Fino ad allora, le misure erano prevalentemente di tipo “concreto”
(braccia, passi, ecc.) e variavano considerevolmente da luogo a luogo: nella sola
zona di Parigi si contavano una quarantina di sistemi diversi. Nel 1795 un’apposita
commissione governativa decretò l’abolizione delle antiche misure, simbolo del
particolarismo feudale, e la loro sostituzione con una misura “razionale” valida per
tutti. Anche questo fu un modo per esprimere il valore universale dei princìpi
rivoluzionari, e inoltre per favorire – a tutto vantaggio dei ceti borghesi –
l’unificazione dei mercati e il libero commercio. Questo è il testo ufficiale con cui
nel 1795 venne istituito il metro (dal greco metron, ‘misura’):
Adozione del sistema metrico
decimale, 1795
La Commissione di Commercio propone di stabilire una misura di lunghezza, comune a tutta la
Repubblica. Dopo aver dimostrato che il gran numero di misure ora esistenti, diverse tra loro a seconda dei luoghi, è di grave ostacolo al
commercio, la Commissione propone di copiare dalla natura l’unità di misura, per renderla costante e certa; prendiamo dunque come punto di
riferimento la lunghezza del meridiano terrestre, e da essa ricaveremo la nuova misura, il metro: esso sarà la quarantamilionesima parte di quel
meridiano.
Il governo rivoluzionario, dopo avere creato il sistema decimale, stabilì di mutare
anche il sistema di computo del tempo, introducendo un nuovo calendario a
base decimale.
L’anno era di dodici mesi e ogni mese comprendeva 30 giorni, distinti non più in 4
settimane, ma in 3 decadi, cioè tre gruppi di 10 giorni ciascuno. Considerato che
12 mesi di 30 giorni fanno in tutto 360 giorni, cioè 5 in meno rispetto all’anno
solare, si aggiunsero 5 giorni complementari, detti “sanculottidi”, consacrati a
feste nazionali, dedicate al Genio, al Lavoro, alle Belle Azioni, alle Ricompense e
all’Opinione. La festa dell’Opinione era una specie di carnevale politico in cui era
permesso criticare e prendere in giro gli uomini di governo. Ogni quadriennio,
inoltre, per colmare la lacuna di 5 ore e 48 minuti che veniva a presentarsi
rispetto all’anno solare, si aggiungeva un giorno supplementare di festa, dedicato
alla Rivoluzione. L’anno aveva inizio il 22 settembre, giorno dell’equinozio
d’autunno, chiamato 1° vendemmiale.
I giorni non furono più dedicati ai santi ma a fiori, frutti, animali e oggetti diversi,
che ricordavano il lavoro, l’agricoltura, la rivoluzione. Per esempio il 19 Messidoro
(giugno) era dedicato alla segale, il 20 all’avena, il 21 alla cipolla, il 23 al mulo, il 28
alla falce, il 30 ai fagioli.
Anche i mesi furono chiamati con nomi nuovi, ispirati alle stagioni e ai lavori
agricoli. Essi furono nell’ordine: Vendemmiale, Brumale (per la nebbia), Glaciale
(per la brina), Nevoso, Piovoso, Ventoso, Germinale (per i germogli primaverili), Allegorie del calendario
Fiorile, Pratile, Messidoro, Termidoro (‘che porta il caldo’), Fruttidoro (il primo rivoluzionario: i mesi di Fruttidoro e
Termidoro, fine XVIII sec.
corrisponde a settembre, l’ultimo ad agosto).
Il nuovo calendario ebbe vita breve. Introdotto dalla Convenzione il 24 novembre
1793, fu abolito da un decreto di Napoleone il 31 dicembre 1805. Il 1° gennaio 1806 ritornò in vigore il tradizionale
calendario gregoriano.
Invenzioni e innovazioni
Il metro e le misure “universali”
Il metro è figlio della Rivoluzione francese e rappresenta una svolta epocale nel
modo di concepire le unità di misura. Fino al XVIII secolo le misure erano definite
in modo “concreto”, in base alle attività e agli oggetti della vita quotidiana,
secondo l’uso che si faceva delle cose: le distanze si misuravano in passi, i tessuti
in braccia, i cereali in moggi o in staia (i contenitori di legno entro cui si
vendevano o si conservavano), il vino in anfore, il fieno in carri, i campi in “iugeri”
(in età romana, era lo spazio che una coppia di buoi aggiogati poteva arare in un
giorno) o in “tornature” (ancora con riferimento ai buoi che “giravano” l’aratro alla
fine del solco) e così via, con una grande diversità di riferimenti e di valori da un
paese all’altro, da una città all’altra. A queste misure “concrete” e variabili, il
governo rivoluzionario francese decise di sostituire nuove unità di peso e di Antiche unità di misura agraria:
misura, basate su un sistema decimale unificato. Questa scelta “tecnica” iugeri e tornature
nasceva da precise esigenze economiche e politiche: rendere possibili i confronti e
unificare il mercato nazionale, assecondando le aspirazioni della borghesia;
cancellando il particolarismo delle antiche misure si cancellava il particolarismo feudale, che la Rivoluzione aveva abbattuto.
La nuova idea – una vera invenzione sul piano concettuale, destinata a
lunghissima fortuna – fu di introdurre misure “astratte”, definite a tavolino in
base a calcoli teorici, da proporre come strumenti “universali” e “oggettivi”, validi
per tutti. La lunghezza del metro fu determinata nel 1791 dall’Accademia delle
scienze di Parigi, dividendo per dieci milioni la lunghezza del meridiano terrestre fra
il Polo nord e l’equatore. Il governo francese la adottò ufficialmente nel 1795, poi
l’uso del metro si diffuse nel mondo intero, grazie al successo dell’idea che lo
aveva visto nascere: utilizzare misure precisamente definite, valide per tutti,
universalmente riconoscibili. Proprio per questo, in considerazione di una
persistente incertezza nel fissare la lunghezza del meridiano, nel 1889 il metro fu
ridefinito come la distanza tra due linee incise su una barra di platino conservata a
Sèvres presso Parigi. Nel 1983 la Conferenza Generale di Pesi e Misure ha di
nuovo modificato la definizione del metro, riferendosi non più a una dimensione
spaziale, ma a un’unità di tempo. Il metro si definisce oggi come «la distanza
percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1 / 299.792.458 di
secondo» (il che equivale a dire che la velocità della luce nel vuoto corrisponde a
L.F. Labrouss, Uso delle nuove
299.792.458 metri al secondo). La maggiore “universalità” di questa definizione
misure, 1800
dipende dal fatto che la velocità della luce nel vuoto si suppone che sia la stessa
ovunque, e che possa essere misurata con precisione maggiore rispetto alla
circonferenza della Terra o alla distanza fra due punti.
Assieme al metro, la Francia rivoluzionaria adottò il grammo come unità di misura del peso, definito come la massa di un
centimetro cubo di acqua distillata alla temperatura di 4 °C. Anche il litro fu introdotto come “nuova misura
repubblicana”, corrispondente a un decimetro cubo (ovvero lo spazio occupato da un chilogrammo, 1.000 grammi). Tutte
queste misure furono in seguito ripensate, riviste, ridefinite.
Ancora oggi il metro costituisce l’unità di base della lunghezza nel Sistema
internazionale delle unità di misura e di peso (abbreviato SI), il più diffuso
sistema metrico a livello internazionale, nato nel 1889. Inizialmente esso
comprendeva, oltre al metro, altre due unità fondamentali di misura: il
chilogrammo (misura della massa) e il secondo (misura del tempo). Nel 1935,
su proposta del fisico italiano Giovanni Giorgi, vi fu aggiunto l’ohm, unità di misura
della resistenza elettrica (sostituita nel 1946 dall’ampère, unità di misura della
corrente elettrica). Nel 1954 furono aggiunti il kelvin (unità di misura della
temperatura) e la candela (unità di misura dell’intensità luminosa). Nel 1971 la
mole (misura della quantità di sostanza, o massa molecolare).
Su queste sette grandezze fisiche (metro, chilogrammo, secondo, ampère, L’adozione del Sistema
kelvin, candela, mole) si basa attualmente il Sistema internazionale delle unità di internazionale delle unità di misura
e di peso
misura e di peso.
8.3 Dal Grande Terrore al Direttorio
Vittorie contro la Prussia La situazione militare a poco a poco migliorò. I nuovi eserciti organizzati da Carnot si
dimostrarono validi strumenti di vittoria. Comandati da giovani generali, che avevano ottenuto i gradi per le capacità
mostrate sul campo, essi fermarono l’invasione austro-prussiana (battaglia di Wattignies, 28 dicembre 1793) e la
coalizione antifrancese (battaglia di Fleurus, 26 giugno 1794) e costrinsero gli avversari a ritirarsi. Il territorio
nazionale fu liberato.
La crisi economica Le disposizioni di politica economica, invece, non diedero i risultati sperati. Nonostante il calmiere
dei prezzi, il razionamento delle derrate alimentari e la requisizione dei generi di prima necessità, il loro costo continuava a
crescere e c’erano giorni in cui i viveri mancavano. Sulle strategie da seguire vi erano proposte contrastanti: Danton
voleva interrompere i provvedimenti straordinari e lasciare libero corso all’economia; Hébert invocava interventi ancora
più duri per il controllo del mercato, a protezione delle classi deboli; Robespierre tentava una mediazione suggerendo di
lasciar libere le attività economiche senza dimenticare i bisogni della popolazione più povera.
Il “Grande Terrore” I contrasti si acuirono al punto che si tornò alla “politica del terrore”. Per ordine di
Robespierre, Hébert fu ghigliottinato sotto l’accusa di praticare teorie che affamavano il popolo; poi fu mandato a morte
Danton con molti suoi seguaci, che Robespierre riteneva affaristi arricchiti alle spalle del popolo.
In tal modo Robespierre rimase dittatore unico e avviò una sua personale politica che utopisticamente si proponeva
di estirpare la corruzione e i vizi e di far trionfare la virtù. Seguì un periodo chiamato “Grande Terrore” per l’elevato
numero di persone che finirono sotto la ghigliottina. In questo clima di paura maturò una congiura contro lo stesso
Robespierre il quale, accusato di tirannia, il 27 luglio 1794 fu mandato a morte con i suoi sostenitori.
Una Costituzione meno democratica Giustiziato Robespierre, la guida del paese, tenuta fino ad allora dai
giacobini, passò ai gruppi moderati. La Costituzione del 1793 fu abrogata e sostituita da una nuova Costituzione
(agosto 1795), la terza dall’inizio della rivoluzione (la prima era stata quella del 1791). Abolito il suffragio universale, si
riaffermò la limitazione del voto ai soli benestanti. La separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) fu
riconfermata. Il governo, cioè il potere esecutivo, fu affidato a un gruppo di cinque membri, chiamato Direttorio. Con il
Direttorio e la Costituzione del 1795 lo sviluppo della rivoluzione poteva considerarsi concluso.
La situazione però era tutt’altro che pacificata. Le condizioni economiche del paese erano disastrose, la popolazione
insorse e le fu mandato contro l’esercito.
La “congiura degli uguali” Fu in quella drammatica congiuntura che il giornalista François-Nöel Babeuf (17601797) organizzò una cospirazione, detta “congiura degli uguali”, per instaurare uno Stato basato sull’abolizione della
proprietà privata e sulla comunione dei beni. Alla cospirazione prese parte anche un italiano di origine fiorentina, Filippo
Buonarroti (1761-1837). Quando la congiura fu scoperta, alcuni dei promotori, tra cui Babeuf, furono ghigliottinati
(maggio 1797); Buonarroti e altri furono condannati al carcere.
La vicenda di Babeuf è considerata uno dei primi tentativi anticipatori dell’anarchismo, un movimento che si sviluppò
tra XIX e XX secolo [cfr. 18.2].
8.4 Fra uguaglianza e libertà: tre Costituzioni a confronto
La Costituzione del 1791 3 settembre 1791. 24 giugno 1793. 22 agosto 1795. Sono le date delle tre Costituzioni
della Francia rivoluzionaria: ciascuna di esse rappresenta una fase diversa della rivoluzione. La prima (1791) istituisce la
monarchia costituzionale. Tutti i privilegi sono aboliti. I tre poteri sono separati: il legislativo è delegato all’Assemblea
nazionale, l’esecutivo al re, il giudiziario ai giudici, eletti dal popolo. Il carattere borghese della Costituzione emerge in
particolare negli articoli relativi alla proprietà e al diritto di voto, riservato ai “cittadini attivi” che pagano le tasse, cioè ai
ceti abbienti.
La Costituzione del 1793 La seconda Costituzione (1793) è quella del nuovo Stato repubblicano: è la più
democratica delle tre. Nel preambolo, che richiama la Dichiarazione d’indipendenza americana, si legge che lo scopo di
un governo è «garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali»: primo fra tutti l’uguaglianza, e poi la libertà e la
proprietà. Si sottolinea il valore dell’istruzione, che deve essere «alla portata di tutti i cittadini». Il diritto di voto e il diritto
a essere eletti non sono più riservati ai benestanti, ma estesi a tutti.
La Costituzione del 1795 La terza Costituzione (1795) mostra un ritorno alle posizioni moderate del 1791. Fra i
diritti dell’uomo, il preambolo mette al primo posto la libertà, mentre nella Costituzione del 1793 al primo posto vi era
l’uguaglianza. Il voto torna a essere limitato secondo il censo.
Per approfondire
L’invenzione dello Stato laico
Sintesi
La Francia repubblicana
Contro l’Europa dei re: la Repubblica francese e l’uccisione di Luigi XVI
Di fronte ai
moti rivoluzionari francesi, i sovrani di Austria e Prussia dichiararono di essere pronti ad aiutare il re se fosse stato in pericolo.
Precedendoli, il governo rivoluzionario mosse guerra all’Austria ma subì una serie di sconfitte dovute alla condotta degli
ufficiali, che, di origine aristocratica, non erano disposti a combattere per la rivoluzione. I nobili e il re furono accusati di
tradimento e a Parigi il popolo assaltò la residenza reale delle Tuileries. L’Assemblea legislativa dichiarò decaduta la
monarchia. Il governo passò ai gruppi repubblicani e giacobini, che sciolsero l’Assemblea legislativa indicendo nuove elezioni a
suffragio universale maschile. Si insediò la nuova assemblea, la Convenzione nazionale, e nel 1792 fu proclamata la
repubblica.
Gli austro-prussiani intanto avanzavano verso Parigi e il governo iniziò a reclutare soldati volontari, perlopiù provenienti dalle
classi popolari (sanculotti). Nel settembre 1792 i prussiani furono fermati a Valmy: era il primo successo militare della
rivoluzione sugli eserciti delle monarchie assolute. A essa seguirono altre vittorie e occupazioni di territori, presentate come
una liberazione dei popoli dalla tirannide. Luigi XVI fu processato, condannato per tradimento contro la nazione e fu
ghigliottinato il 21 gennaio 1793.
La nuova Costituzione e il Terrore. Le leggi sociali
Ciò che stava accadendo in Francia portò
Inghilterra, Austria, Prussia, Russia, Spagna e altri paesi a stringersi in una coalizione antifrancese che penetrò nel paese
proprio mentre in Bretagna e Vandéa si verificavano insurrezioni contadine controrivoluzionarie. La Convenzione prese
allora misure eccezionali: fu redatta una nuova Costituzione (1793) e fu instaurato un governo dittatoriale, il Comitato
di salute pubblica, che fece ampio ricorso alla violenza (“periodo del Terrore”). Fu fissato un limite ai prezzi e ai salari per
tenere sotto controllo un’economia impazzita; fu introdotta la leva di massa e fu istituito un Tribunale rivoluzionario che
giudicava sui reati politici con sentenze inappellabili, irrispettose dei diritti individuali. Furono anche approvate importanti leggi
sociali: fu abolita la schiavitù nelle colonie (1794); fu poi introdotta l’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti i
cittadini, vista come la base della crescita civile e sociale. La Convenzione fondò la “Scuola politecnica”, un istituto tecnicoscientifico cui si accedeva per merito e fu unificato il metodo di misurazione, ricorrendo al sistema decimale. Importanti
riforme furono fatte anche per la laicizzazione della società: i riferimenti al cristianesimo furono sostituiti dal culto dei martiri
rivoluzionari o della Ragione; fu ammessa la libertà religiosa e si introdusse il culto deista dell’Essere supremo.
Dal Grande Terrore al Direttorio
In campo militare la riorganizzazione degli eserciti su base popolare portò
alla vittoria sugli austro-prussiani, e il territorio francese fu liberato. In campo economico invece non si raggiunsero risultati e
tra gli esponenti politici scoppiarono i contrasti sulle strategie da adottare. Gli avversari di Robespierre, Hébert e Danton,
furono messi a morte, e Robespierre rimase dittatore unico. L’aumento delle tensioni sfociò nel “Grande Terrore”: molti,
tra cui lo stesso Robespierre e i suoi seguaci, furono condannati a morte, in un clima di paura collettiva.
Dopo la morte di Robespierre, il governo passò ai moderati. Fu approvata una nuova Costituzione (1795) che chiuse il
processo rivoluzionario. Il diritto di voto fu nuovamente attribuito ai soli benestanti. Il potere esecutivo fu affidato a un
Direttorio composto da cinque membri. Rimanevano però gravi problemi di carattere economico, con un aumento ulteriore
dei prezzi e delle tensioni sociali. Nel 1797 fu sventata la congiura detta “degli uguali”, guidata da François-Nöel Babeuf,
che intendeva abolire la proprietà privata e introdurre la comunione dei beni.
Fra uguaglianza e libertà: tre Costituzioni a confronto
Tra 1791 e 1795 furono approvate tre
diverse Costituzioni, una per ogni fase rivoluzionaria. La prima (1791) introduceva la monarchia costituzionale, l’abolizione dei
privilegi, la divisione dei poteri, il diritto di voto per i cittadini benestanti. La seconda (1793) introduceva uno Stato
repubblicano democratico, che garantiva al cittadino i diritti ritenuti naturali (libertà, proprietà), evidenziava il valore
dell’istruzione, poneva l’uguaglianza come valore principale, introducendo il suffragio universale maschile. La terza (1795) era
caratterizzata da posizioni moderate: reintroduceva il diritto di voto per censo e la libertà, prima dell’uguaglianza, era al primo
posto tra i diritti dell’uomo.
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