XXVIII CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI PIANIFICAZIONE STRATEGICA E MARKETING TERRITORIALE Paolo RIZZI1 1 Università Cattolica di Piacenza, Laboratorio di Economia Locale, via Emilia Parmense 84, 29100, Piacenza SOMMARIO Lo scopo del paper è quello di analizzare le basi teoriche e le connessioni tra la pianificazione strategica e il marketing territoriale anche a partire dalle esperienze in atto in Italia e in Europa. Se la missione principale dei piani strategici è la ricerca di una maggior coesione dei cittadini e dei loro interessi, con il fine di costruire consenso su determinate strategie e politiche di sviluppo attraverso reti “interne” di attori locali e reti “esterne” con sistemi produttivi ed operatori economici, il marketing territoriale diventa un utile strumento di policy capace di favorire l’incontro tra domanda e offerta di servizi urbani e territoriali. Nelle esperienze recenti di politiche territoriali vengono sempre più promossi aspetti immateriali della vita urbana, quali conoscenza, sicurezza, creatività, spirito dei luoghi. Di qui il marketing territoriale si sposta dalla proposizione di fattori economici e di convenienze localizzative a forme di cultural design in cui la città si comunica attraverso una ampia gamma di segni, simboli e luoghi. Nel paper si introducono anche gli elementi critici di queste esperienze di marketing territoriale: i rischi di commodification delle città e di accentuazione dell’aspetto commerciale nella promozione territoriale; i pericoli di selettività della comunicazione nella scelta di singoli attributi o progetti su cui impostare le campagne promozionali; i problemi di legittimazione democratica della pianificazione; il rischio di riprodurre in modo seriale strategie e azioni di promozione. 1.LA COMPETIZIOE E LA PROMOZIOE DEI TERRITORI La competizione globale produce pressioni crescenti alle aziende ed ai territori imponendo processi di riconfigurazione delle strategie di sviluppo delle singole unità produttive ma anche dei sistemi locali e delle città (Sassen 2002; Krugman 1997; Le Gales 2006)1. La competitività richiesta dalla nuova divisione internazionale degli scambi e del lavoro richiede da un lato efficienza e produttività, dall’altro in misura crescente capacità di attrazione sia per i prodotti che per i luoghi. Se le imprese cercano di attrarre e fidelizzare clienti e consumatori, i territori sono tesi a raggiungere e soddisfare cittadini residenti, turisti, investitori, visitatori. In questo processo di intensa concorrenza tra beni, servizi e luoghi emerge la forza competitiva delle specificità e della differenziazione, quale strumento strategico per vincere la standardizzazione e l’omologazione (Codeluppi 2001). Il locale riacquista pertanto una significativa valenza economica oltrechè culturale e relazionale. Di qui il ritorno alla centralità della città e del territorio nelle politiche di sviluppo economico e sociale ma anche nelle nuove forme di democrazia e partecipazione civile (Magnaghi 2000, Rizzi-Ciciotti 2005). Tra i fattori di competitività entrano in scena anche le strategie che gli attori locali pongono in essere per vincere la concorrenza. Le politiche di marketing territoriale in particolare divengono fattori rilevanti nella capacità competitiva di un sistema territoriale, sia per attrarre investimenti o turisti dall’esterno che per promuovere il territorio nei confronti delle imprese e dei cittadini che vi risiedono in modo da aumentare la coesione interna e lo spirito identitario. La nozione di marketing territoriale, pur recente, inizia a consolidarsi nella letteratura economica e urbanistica con una definizione ampia che riconduce il concetto alle azioni e alle attività dirette a far incontrare l’offerta delle funzioni urbane con la domanda da parte dei residenti, delle imprese interne ed esterne, dei turisti ed altri visitatori2. Si tratta quindi del processo attraverso cui le attività urbane sono relazionate alla domanda dei clientiobiettivo per massimizzare il funzionamento sociale ed economico dell’area considerata. Vengono applicati gli strumenti del marketing aziendale al territorio e ai suoi attori, dove l’offerta è data dal bene città e dai suoi servizi - le aree per insediamenti produttivi, le emergenze turistiche e naturalistiche, i servizi collettivi e culturali - e la domanda emerge appunto da cittadini e lavoratori residenti e imprese locali (marketing interno) e dagli investitori esterni e nazionali, dai turisti e dai cittadini potenziali (marketing esterno). Il marketing territoriale si differenzia da quello dei prodotti in quanto non profit marketing (Kotler 1993) perché gli obiettivi degli attori coinvolti (città, governo locale, soggetti 1 Il modello della città postindustriale evidenzia nuove forme di coo-petition, ovvero di collaborazione e competizione con la creazione di network globali e reti di territori che producono connessioni produttive e relazioni tecnologiche e culturali crescenti. In particolare gli enormi flussi di persone non sono solo riconducibili ai noti processi di emigrazione dai paesi poveri ma anche ai frequenti interscambi di risorse umane ad elevato livello di qualificazione (Florida 2003, Bellini 2007). 2 Sono ormai numerosi gli studi specifici in materia di marketing territoriale sia a livello internazionale (Kotler et al., 1993; Ashworth-Voogd 1995; Begg 2002; Van den Berg 1999; McCann2004), che nazionale (Varaldo-Caroli 1999; Valdani-Ancarani 2000; Bellini 2000 e 2005; Latusi 2002; Paoli 1999; Rizzi-Scaccheri 2006; Caroli 2006; Chiariello 2007; Kotler et.al. 2007). 2 economici e sociali del territorio) non tendono a massimizzare il profitto o la quota di mercato, ma ad assicurare e migliorare il benessere collettivo, attenuando il potenziale conflitto tra desideri dei consumatori, obiettivi di impresa e pubblico interesse. Non a caso anche nel marketing territoriale la qualifica principale risulta quella del marketing relazionale (Caroli 2006) per il bisogno di creare e consolidare un sistema di relazioni durature tra il soggetto che gestisce l’offerta e l’acquirente, relazioni peraltro di tipo anche cooperativo per la necessità di trovare coerenza degli obiettivi reciproci (chi attrae e chi è attratto). Ne deriva un’analogia con il marketing dei beni industriali più che con i beni di consumo proprio per le caratteristiche intrinseche dei primi che richiedono appunto relazioni di medio-lungo periodo con i clienti, reiterate nel tempo e con un’ampia gamma di servizi connessi con il sistema prodotto complessivo (Bellini 2005). Alcuni autori (Jensen 2005) evidenziano il rischio implicito di mercificare e “aziendalizzare” il bene urbano e territoriale, che per definizione è un bene pubblico, collettivo, intriso di valori culturali, etici e sociali, non strettamente riconducibili ai criteri del calcolo economico e dei prezzi. Ma va sottolineato come il marketing territoriale assuma solo gli schemi logici e metodologici di una disciplina aziendale consolidata che offre agli attori territoriali strumenti di analisi e di intervento, senza incidere sulle finalità “pubbliche” delle politiche connesse3. Un altro contributo delle discipline economiche è quello di applicare al territorio il concetto di vantaggio competitivo (Porter 1990 e 1995), che definisce il surplus di valore che un’area geografica può determinare in termini di costi di produzione, differenziazione e qualità dei prodotti, economie esterne. 2. IL RUOLO DELLA GOVERACE LOCALE E LA PIAIFICAZIOE STRATEGICA La regolazione dei rapporti tra attori pubblici e privati è oggetto di crescente attenzione della teoria economica, sia negli approcci di political economy che nelle teorie neoistituzionaliste che riconoscono una pluralità di forme di governo delle transazioni à la Williamson che va oltre al dualismo mercato-gerarchia (Ciciotti-Rizzi 2005). Già North (1994) sottolineava la centralità nello sviluppo economico dell’ambiente istituzionale sia nella definizione dei diritti di proprietà sia nella promozione di modelli di collaborazione tra pubblico e privato, capaci di stimolare la produttività e l’imprenditorialità. Tuttavia l’affermarsi delle politiche consensuali e negoziali deriva più dal piano operativo e sperimentale che non da quello strettamente teorico, in particolare dalla culture of contract di origine inglese, diretta soprattutto al decentramento dei servizi e alla deregolamentazione, e dalla diffusa pratica di décentralisation e della conseguente rete di pratiche contrattuali in Francia (Ciciotti 2003, Bobbio 2000). 3 Va anche enfatizzata la diversità dell’offerta che è rappresentata non da un bene unico di tipo industriale o da servizi, ma da un prodotto complesso fatto di risorse tangibili (componenti fisiche della città), risorse intangibili (cultura, storia, clima), servizi (da quelli per il produttivo a quelli turistici fino ai servizi collettivi per i cittadini) e relazioni tra gli attori. 3 Anche in Italia negli ultimi anni si studia il ruolo delle “istituzioni intermedie” nello sviluppo locale, le ragioni delle politiche economiche locali e soprattutto il tema della governance dei processi e delle politiche di sviluppo locale (Provasi 2002, Arrighetti-Seravalli 1999, Biggiero et.al. 2002). La regolazione diventa così decentrata e basata su istituzioni e coalizioni di interessi locali dove l’“informalizzazione” dei rapporti economici e sociali avviene attraverso relazioni di potere non regolate formalmente da istituzioni e norme prodotte dallo Stato o da altri organismi collettivi a carattere nazionale (Berti 2002). L’offerta di beni pubblici locali o “local collective competition goods”4 (Le Gales-Voelzkow 2001) viene cioè favorita da varianti istituzionali, che non ricadono solo nel modello statale o pubblico e che sono tanto più articolate quanto più intensa ed estesa è l’istituzionalizzazione dei sistemi locali. A tal scopo l’approccio della governance offre significative chiave di lettura e indicazioni di policy territoriale. Se il termine “government” designa il governo come istituzione o l’attività dell’istituzione governo, con il termine “governance” è designato “l’insieme di interazioni che danno luogo a scelte di governo” (Gamble 2002). Rhodes definisce la nuova governance come di “governing without government” (Perulli 2000). L’architettura istituzionale che descrive i vari modelli di ordine sociale della governance può essere sintetizzata nell’articolazione tra le componenti di mercato, organizzazioni (imprese), Stato, comunità e associazioni. In questo schema si può distinguere tra “competizione (mercato), gerarchia (organizzazioni o aziende), coercizione sulla base del monopolio dell’uso della forza (Stato), solidarietà (comunità) e negoziazione (associazioni)” (Le Gales-Voelzkow 2001). Occorre tuttavia sottolineare le relazioni reciproche tra le diverse componenti della governance in termini di “modalità di soluzione dei problemi di coordinamento tra gli agenti economici di un sistema” (Fadda 2003). In tal senso la funzione della governance è proprio quella specifica della politica economica, cioè di superare i fallimenti del coordinamento, per raggiungere un risultato sociale ottimale riducendo gli sprechi di risorse. Un cambiamento radicale nei processi di formulazione delle decisioni a livello regionale e locale nell’ottica della governance è costituito dal passaggio da una pianificazione territoriale di stampo vincolistico, tipica degli anni 60-70, ad una pianificazione socio-economicoterritoriale di tipo strategico, a partire dagli anni Novanta5. La tradizione anglosassone, che fa riferimento alla legge urbanistica inglese, distingue tra piani strutturali e piani locali6, dove i primi contengono linee di indirizzo con riferimento allo sviluppo economico, ai trasporti, alle comunicazioni e agli insediamenti produttivi e abitativi, mentre i piani locali definiscono gli usi del suolo. Le decisioni strategiche si configurano come scelte che coordinano gli obiettivi di un piano e stabiliscono come realizzarli. La definizione statunitense importata nella pianificazione territoriale dalla corporate planning (Bryson 1988), sottolinea invece come 4 Definiti come vantaggi competitivi derivati dalla prossimità geografica e dalla densità relazionale tipiche dei sistemi locali territoriali. 5 Tra gli studi disponibili in tema di pianificazione strategica applicata al contesto economico-territoriale si ricordano i lavori curati da Ciciotti, Florio, Perulli (1994 e 1997), Spaziante e Pugliese (2003), Curti e Gibelli (1999), Perulli (2004) e Borelli (2005). I casi italiani sono analizzati in Fedeli e Gastaldi (2003), Gibelli (2003), Gastaldi (2003 e 2006),Censis-Rur (2006). 6 In Italia in questa direzione è impostata la legge 20/2000 della Regione Emilia-Romagna 4 l’obiettivo sia il miglioramento dei risultati e delle performance dell’organizzazione in oggetto, quindi con criteri performativi e non conformativi; emerge quindi l’esigenza che l’ente promotore sappia adattarsi all’ambiente ed essere selettivo nell’azione, così come il processo di pianificazione si debba costruire su un accordo tra gli attori locali. Ne scaturisce un ruolo centrale riconosciuto agli stakeholder (politici, amministratori pubblici, attori privati, imprese leader, cittadini singoli e riuniti in comitati) e la definizione delle strategie attraverso processi negoziali. Una visione in parte differente è quella di pianificazione strategica come metodo per la decisione in condizioni di incertezza, nel corso del quale le scelte sono fatte tra corsi d’azione alternativi: la selezione delle azioni si attua dopo la formulazione e la comparazione di possibili soluzioni, entro un vasto campo di decisioni relative a situazioni anticipate o attuali. La strategia non si identifica più con il livello gerarchico più alto, ma rappresenta un “modello di dialogo” in base al quale si stabilisce un confronto continuo tra le istituzioni pubbliche locali e la collettività. È implicito un meccanismo di apprendimento, in base al quale il decisore è in grado di incrementare e migliorare le possibilità di risposta agli stimoli provenienti dall’ambiente. La pianificazione strategica è intesa così come forum di rappresentazione degli interessi locali e come forma di organizzazione del governo locale per il coordinamento delle azioni dei vari attori locali e la loro interazione. La sua missione principale è la ricerca di una maggior coesione dei cittadini e dei loro interessi, con il fine ultimo di costruire consenso su determinate strategie e politiche di sviluppo. Gli elementi chiave della pianificazione strategica sono allora la pluralità dei soggetti pubblici e privati e la complessità dei loro rapporti. Il pianificatore diviene animatore locale che “fa il massimo uso dell'intelligenza con la quale i diversi attori perseguono i propri obiettivi piuttosto che sostituirvisi, svolgendo un ruolo di messa in rete, di indirizzo, di sostegno e di facilitazione dei processi virtuosi piuttosto che di controllo e guida di tutti i processi” (Irer 1992). In sintesi la pianificazione strategica è uno strumento finalizzato alla formazione del consenso su obiettivi strategici e alla definizione di una visione strategica dell'area di riferimento attraverso processi di analisi dei problemi, monitoraggio dei risultati, apprendimento collettivo. Tra le connotazioni operative di questo approccio vanno segnalate il carattere multi-settoriale e non solo territoriale della pianificazione; la natura di medio-lungo periodo degli scenari; la logica reticolare che deve governare il cambiamento; la necessità di risolvere i potenziali conflitti nella fase di attuazione del piano e quindi l'esigenza di avere adeguati strumenti di compensazione, oltre che di incentivazione; la necessità di operare scelte e di prendere decisioni in base a processi di natura "negoziale" nei confronti dei diversi attori pubblici e privati e non in base a criteri di ottimizzazione/razionalizzazione di tipo aziendale (Ciciotti 2003, Gastaldi 2003). La sequenza vision versus progetti, cioè la definizione e implementazione di specifiche azioni territoriali dopo aver individuato e condiviso visioni strategiche di sviluppo locale (come nei casi più studiati in Italia di Torino, Venezia e Firenze), non è necessariamente unidirezionale e sequenziale. In alcuni casi è possibile prevedere un percorso inverso rispetto all’ordine logico e strategico, cioè dalla progettualità alla vision partendo quindi dall’elenco indistinto dei progetti ritenuti prioritari per lo sviluppo 5 dell’area dai diversi soggetti pubblici e privati del territorio (si vedano i piani strategici di Lodi, Cremona, Piacenza). Solo in seconda battuta si possono ricostruire la vision, le strategie e gli obiettivi programmatici che contengono e giustificano i progetti emersi. Apparentemente questo percorso presenta alcuni limiti di carattere definitorio e contenutistico: l’incompletezza delle politiche selezionate, l’emersione asistematica dei progetti, la confusione tra azioni, politiche e strumenti. Il processo assume, in questo caso, una duplice connotazione bottomup: innanzitutto perché nasce dai fabbisogni e dalle sensibilità dei diversi stakeholder territoriali e in secondo luogo perché derivato dai progetti prima che dalle strategie. E tuttavia questa doppia “emersione dal basso” può consentire di costruire un elevato grado di coesione e partecipazione, che rappresenta la molla trainante per l’intero processo di pianificazione strategica locale (Ciciotti-Rizzi 2005). Le critiche emerse negli ultimi anni alla pianificazione strategica sono di triplice natura. In primo luogo la posizione neoliberale o del liberalismo “attivo” (Moroni 2007) critica alle fondamenta ogni forma di pianificazione territoriale, ivi compresa quella strategica, per la difficoltà di disporre delle informazioni necessarie a mettere in atto i piani, perché alcune informazioni non sono acquisibili di principio (preferenze e opportunità) o addirittura inconsce; ma soprattutto per le difficoltà nel portare un sistema complesso ad uno stato finale desiderato, per l’insorgere di “catene imprevedibili di effetti in intenzionali”. In tale ottica anche la pianificazione strategica sconta il rischio di ridurre le libertà individuali (negative) attraverso norme specifiche e congiunturali, e di limitare l’”efficienza catallattica” cioè l’ampiezza di possibilità degli individui di perseguire il proprio piano di vita inibendo la produzione e l’utilizzo di conoscenza diffusa attivata dagli individui. Una seconda tipologia di critica è riconducibile ai teorici della democrazia diretta, che sottolineano l’emergere di gruppi di stakeholder “forti” nel definire le strategie e le azioni di sviluppo, non dando voce a categorie deboli o incapaci di rappresentanza collettiva (Aa.vv. 2004). Infine si diffondono anche analisi che enfatizzano i limiti operativi delle prime esperienze in atto in Italia e all’estero sia per la modesta propensione all’innovazione organizzativa sia per la definizione di ricette precostituite, replicate in modo seriale da città e aree. La prima stagione dei piani strategici italiani (Fedeli-Gastaldi 2004, Censis-Rur 2006, Gastaldi 2006, Rizzi-Scaccheri 2006) registra spesso scarsa capacità attuativa dei progetti individuati, anche per lo scollamento con i bilanci e la programmazione finanziaria degli enti locali o degli attori coinvolti, e meccanismi partecipativi sterili o troppo costosi. 3.LA CITTA’ COME MERCATO-PRODOTTO-AZIEDA Se le città e i territori ritornano o continuano ad essere il motore principale dello sviluppo geograficamente localizzato, il bisogno di collegare domanda e offerta territoriale diventa essenziale. Di qui la mutuazione degli strumenti del marketing dall’azienda alla città, dall’attività commerciale alla politica urbana (Kotler et.al.1993, Caroli 2006, Chiariello 2007). In realtà le prime azioni di promozione territoriale risalgono a metà ’800 con casi 6 conosciuti di campagne pubblicitarie per attrarre immigrati nelle colonie e nelle new town nordamericane o turisti nelle prime destinazioni balneari (Bellini 2007). Si trattava di casi di boosterism ovvero di promozione enfatica delle nuove città o aree di sviluppo, tesa a connotare i luoghi per la propria qualità attrattiva (McCann 2004). Ma la grande rivoluzione degli ultimi decenni consiste nell’applicazione consapevole degli approcci di marketing ai territori, che deriva da precise tecniche comunicazionali e promozionali. Il marketing diventa anche per i territori una leva competitiva, proposta da esperti e professionisti legati alle discipline aziendali, dell’economia regionale ed urbana, della pianificazione territoriale, della geografia e della political science. Ma le esperienze ed i concetti di base risultano spesso differenziati, talora contraddittori. Si possono individuare almeno tre metafore utilizzate (Van den Berg-Braun 1999): la città come mercato, per enfatizzare che anche la vita urbana e collettiva richiede l’incontro tra domanda e offerta, tra clienti e produttori di beni e servizi, con meccanismi di prezzo o contrattazioni volontaristiche; la città come prodotto, per sottolineare le caratteristiche del territorio come sistema complesso di beni e servizi destinati a cittadini, lavoratori e imprese; la città come azienda, per insistere sulle forme di new urban management che contraddistinguono le nuove modalità di gestione di erogazione dei servizi pubblici degli enti locali territoriali. Quindi il marketing territoriale appare sia come principio manageriale che ispira gli amministratori locali a pensare in termini di clienti e mercati, sia come toolbox di tecniche e metodiche da applicare ai contesti territoriali, sia come strategia connessa alla pianificazione territoriale. La fertilizzazione incrociata tra metodi di promozione commerciale e marketing territoriale appare quindi molto articolata: le città imparano il branding, l’utilizzo dei marchi, gli strumenti dei piani strategici (vision, mission, progettualità) con rischi di mercificazione del prodotto-città (anche l’abuso di terminologia prettamente aziendalistica esplode in modo diffuso), ma anche positive tensioni verso l’espansione della coscienza collettiva e comunitaria di tipo territoriale. Le nuove forme della competizione globale e il crescente potere dei media pongono le città e i territori in forte pressione alla ricerca di investimenti, lavoro qualificato, “talenti” e turisti (Florida 2000 e 2003): cercano quindi di migliorare la propria immagine attraverso insediamenti immobiliari e architettonici di richiamo (museo Guggenheim di Bilbao, piramide del Louvre e Defense a Parigi), processi di riqualificazione dei centri urbani (Londra, Berlino, Lille, Catania), eventi fieristici e sportivi (Valencia, Genova, Atene, Barcellona, Torino), il prestigio di produzioni ad alto contenuto di conoscenza (California, Boston, Cambridge). Il marketing entra quindi con forza nella programmazione territoriale, i pianificatori vengono sempre più spesso supportati se non sostituiti da esperti in comunicazione e marketing, in generale cresce lo sforzo di utilizzare gli schemi promozionali aziendali per gestire i complessi rapporti con i clienti-cittadiniinvestitori. In queste dinamiche l’attenzione si focalizza su identità e stile (dal prodotto alla città), sull’immagine (dalle cartoline ai siti alle riviste), sui contenuti estetici (di monumenti e 7 verde urbano), su divertimento e intrattenimento (come bisogno collettivo diffuso)7. In particolare le forme comunicazionali dei territori e delle città si sviluppano passando dalla promozione degli aspetti materiali e infrastrutturali (marketing territoriale di prima generazione) alla comunicazione dei contenuti conoscitivi e di competenze delle risorse umane (seconda generazione) fino alla promozione degli aspetti immateriali dei luoghi: lo “spirito” della città, la coscienza collettiva, i valori diffusi, le eccellenze locali, la relazionalità sociale (marketing di terza generazione)8. In generale vengono sempre più promossi aspetti immateriali della vita urbana, quali sicurezza, conoscenza, creatività, spirito dei luoghi. Di qui il marketing territoriale si sposta dalla proposizione di fattori economici e di convenienze localizzative a forme di cultural design in cui la città “parla” e si comunica attraverso una ampia gamma di segni, simboli e luoghi (Foglio 2005, Bergonzi 2005) 4.LE CATEGORIE E GLI STRUMETI DI MARKETIG TERRITORIALE I sistemi urbani cercano di distinguersi e “vendere” le proprie specificità non solo produttive ma anche culturali, storiche, relazionali. Di qui le prime esperienze di politiche per attrarre investimenti esterni con la costituzione di apposite agenzie di marketing territoriale, che nei paesi anglosassoni operano da alcuni decenni (Kotler et.al.2007)9. In Italia questo percorso si attiva a fine anni novanta, prima con alcune esperienze pilota a livello regionale (Investi Torino Piemonte) e comunale (InvestiaCatania), poi con tentativi (peraltro quasi fallimentari) su scala nazionale (Sviluppo Italia). Si riconosce come il modello di sviluppo territoriale non possa più essere fondato solo sul paradigma della crescita endogena (fondata sui fattori locali della competitività, tradizionalmente incarnati dal modello dei distretti produttivi e della Terza Italia), né solo sul modello di sviluppo esogeno determinato dagli investimenti pubblici o esterni (la grande illusione dello sviluppo dall’alto nel Sud Italia degli anni 70) (Trigilia 2005, Rizzi 2005). Dall’altro lato anche il rapporto con la domanda interna (cittadini, lavoratori, imprese locali) esige nuovi interventi di analisi-conoscenza, verifica di adeguatezza dell’offerta, stimolo alla trasformazione urbana. Il marketing territoriale interno inizia a proporsi per favorire il rapporto difficile tra amministrazioni e amministrati, tra 7 “Le città non sono prodotti ma dobbiamo imparare da Armani, Boss e Porche per vendere le regioni” (Kunzman 2005). 8 Le campagne pubblicitarie si differenziano per target segmentati verso i quali si promuovono specifici fattori localizzativi: per i cittadini le opportunità di lavoro e la sua sicurezza, la qualità della vita, il sistema scolastico e dei servizi sociali e sanitari, l’ambiente culturale; per gli operatori del turismo l’accessibilità, le strutture ricettive, le iniziative di intrattenimento; per gli investitori le opportunità localizzative e di ritorni economici, la copertura geografica dei media; per i consulenti di impresa il cosiddetto business climate, l’immagine e l’accessibilità; per i creativi gli spazi culturali, le opportunità di scambi di conoscenza, la vitalità delle iniziative di intrattenimento; per gli operatori finanziari la sicurezza degli investimenti e i lori ritorni economici; per gli studenti ed i knowledge workers la presenza di università di eccellenza, lo stile di vita e i costi residenziali; per i giornalisti e gli operatori dei media l’ambiente culturale, la presenza di celebrità, la produzione televisiva e mediatica; per i politici i meccanismi e le arene della governance territoriale, etc. 9 Emblematici i casi del Galles e dell’Irlanda, dove la deindustrializzaione e la dismissione di interi settori produttivi tradizionali (acciaio, cantieri navali, carbone) lascia il posto all’insediamento di imprese multinazionali in particolare nei nuovi comparti dell’high technology. 8 governi locali e stakeholder territoriali, con tentativi di sondaggi di customer satisfaction, programmazione negoziata, pianificazione strategica. Come il marketing mix a livello aziendale, anche a livello di territorio le leve di azione sono riconducibili a prodotto, prezzo, promozione e politiche distributive (Kotler et.al. 1993). Dove per prodotto intendiamo il bene città o territorio con tutte le caratteristiche tangibili e intangibili; per prezzo le componenti economico-finanziare dei prodotti urbani (dai biglietti dei musei al costo delle aree produttive fino al costo della vita e del lavoro nell’area); per politiche distributive si considerano tutte le azioni tra produzione e consumo territoriale (dall’accessibilità geografica alla fruibilità delle reti di trasporto e di accesso anche virtuale); per promozione le azioni di pubblicità e costruzione dell’immagine della città/territorio. La pianificazione del marketing territoriale segue fasi sequenziali con propri strumenti e metodi di implementazione (Rizzi-Scaccheri 2006, Chiariello 2007). Si parte dall’analisi del mercato e dalla definizione della città/regione in termini di prodotto. Di qui l’individuazione della visione dello sviluppo futuro del territorio e degli obiettivi di crescita. Ne seguono appropriate strategie di marketing e un piano di azione di marketing operativo che deve prevedere anche forme innovative di attuazione e di valutazione e monitoraggio. La prima fase è quella dell’analisi di mercato o del posizionamento della città/territorio che si attua secondo le tecniche delle analisi swot: l’audit interno punta a definire i fattori di eccellenza e i vincoli alla crescita del sistema locale considerato per individuare gli attributi territoriali in grado di influenzare le percezioni dell’area (swot interni) mentre l’audit esterno è teso a conoscere l’ambiente competitivo in cui si inserisce il territorio (swot comparati) definendo così il posizionamento della città sul mercato degli investimenti esterni o dei flussi turistici, cercando di evidenziare le minacce prodotte dai competitors e la loro gravità sugli scenari evolutivi del sistema locale e le opportunità di sviluppo in termini di livello di attrattività territoriale e soddisfazione dei consumatori attuali. La seconda fase è la determinazione dei gruppi target, cioè della domanda attuale e potenziale: si tratta quindi di segmentare il mercato innanzitutto distinguendo tra domanda interna ed esterna. Per domanda interna si considerano i residenti e i lavoratori attivi, le imprese locali, laddove la domanda esterna è rappresentata da turisti, visitatori per affari, imprese esterne in cerca di localizzazione produttive, investitori, potenziali nuovi residenti e mercato delle esportazioni10. La terza fase è costituita dalla definizione dell’interazione tra offerta e domanda, segnatamente dall’analisi dell’opinione dei gruppi obiettivo sull’offerta esistente, tramite tutti gli strumenti delle analisi di mercato (indagini campionarie, interviste sul grado di soddisfazione dei clienti e sulle possibili attrazioni territoriali). La quarta fase riguarda la definizione dell’offerta attuale e potenziale in termini di formulazione di possibili adattamenti dell’offerta urbana, del suo ruolo e della sua identità. E’ questa la fase che più si lega ai processi di emersione e costruzione delle politiche di sviluppo locale e di pianificazione 10 Nella fase di definizione della domanda vanno studiate anche le caratteristiche del processo di acquisto dei vari gruppi di clienti e sub-mercati, in base all’intensità d’uso del prodotto territoriale, ai benefici/vantaggi attraverso cui un singolo prodotto può essere acquistato, alle variabili geografiche, alla distinzione tra utenti attuali e potenziali. 9 strategica perché si devono valutare le possibili alternative dello scenario, si deve optare per il modello di crescita territoriale per costruire la visione del futuro della città/territorio, in termini di selezione delle attività economiche e dei settori produttivi su cui puntare, della tipologia di abitazioni e usi del suolo urbano, dei servizi assicurati dal governo locale o dalle imprese private, delle modalità di finanziamento dei servizi urbani. La quinta fase è l’elaborazione del piano operativo di marketing territoriale con discussione partecipata da parte di tutte le componenti interessate. L’ultima fase è l’avvio del piano attraverso l’inizio delle attività di promozione rivolte ai diversi target. In questa fase si costruiscono le diverse partnership pubblico-privato tramite agenzie ad hoc (per l’attrazione di investimenti o per la promozione turistica) e si attivano i diversi strumenti operativi (incentivi agli investimenti, vendita di aree, pacchetti promozionali e turistici). Le misure funzionali vanno dal disegno urbano ai servizi collettivi, le politiche di attrazione e di miglioramento delle infrastrutture (per le comunicazioni, per l’innovazione e la tecnologia, per la formazione, per la qualità della vita, per la regolazione dei mercati) fino alle politiche di formazione e creazione del tessuto relazionale collettivo (atteggiamenti di ospitalità, capacità relazionale). Si può quindi rappresentare l’articolazione delle diverse forme di marketing territoriale per destinatari e strumenti operativi. Clienti target Cittadini e lavoratori Marketing interno (consolidamento e customer satisfaction) Imprese locali Nuovi residenti Investitori esterni Marketing esterno (attrazione e retention) Turisti Produttori locali Strumenti operativi Consulte e giurie di cittadini Forum e sondaggi (e-democracy) Piani strategici territoriali Bilanci sociali degli enti locali Azioni di valorizzazione commerciale PPP (public-private partnership) Progetti in project finance Agenzie di sviluppo locale Campagne promozionali Politiche per la casa per gli immigrati Agenzie di attrazione di investimenti Siti internet investiaC Pacchetti di localizzazione (incentivi) Sistemi turistici locali Campagne pubblicitarie e promozionali Agenzie di promozione turistica Consorzi di sostegno all’export Promozione dei prodotti locali Partecipazioni a fiere e missioni Sul fronte del marketing interno destinato sia ai cittadini residenti che alle imprese insediate sul territorio sono ormai diffuse le iniziative direttamente rivolte agli abitanti finalizzate ad incrementare la customer satisfaction relativa ai servizi erogati dagli enti locali (misurata tramite sondaggi e analisi di mercato) o la partecipazione civica tramite bilanci sociali e partecipati, giurie dei cittadini, piani strategici nonché le nuove forme di e-democracy attraverso il web. Lo stesso vale per il sostegno alle attività produttive locali, per le quali le amministrazioni territoriali attivano incubatori di impresa, parchi scientifici e tecnologici per facilitare lo sviluppo innovativo ed il raccordo tra ricerca universitaria ed applicata e realtà 10 produttive11. Ancora a questa area fanno riferimento tutte le iniziative di marketing urbano propriamente dette, che si circostanziano in attività di valorizzazione dei centri storici sia per incentivare le attività commerciali (oggetto di forte concorrenza da parte della grande distribuzione localizzata in misura crescente nelle cinture periurbane capaci di ospitare i grandi insediamenti degli ipermercati) che per rilanciare la vivibilità di tali centri attraverso riqualificazioni urbanistiche, nuovi arredi, eventi culturali e musicali. Sul fronte del marketing esterno, la prima importante distinzione va fatta tra l’attrazione di investimenti esterni e le conseguenti azioni di offerta di pacchetti localizzativi, incentivi e campagne pubblicitarie territoriali, e la promozione turistica con gli strumenti consolidati delle agenzie turistiche, oggi in fase di trasformazione con la costituzione dei sistemi turistici locali (L.135/2000). In particolare la nuova sfida in tema di investment attraction (Kotler et.el. 2007) è rappresentata dall’after care, ovvero dalle iniziative per favorire il radicamento permanente dei nuovi investimenti greenfield (nuove attività produttive e quindi posti di lavoro “creati”) e quelli brownfield (acquisizioni e riqualificazione di attività preesistenti e quindi posti di lavoro “salvati”). In effetti la stessa volatilità dei flussi di investimenti diretti esteri (Ide) che permettono nuove iniziative produttive multinazionali, talora si traducono anche in repentini abbandoni dei nuovi insediamenti alla ricerca di localizzazioni alternative che offrano maggiori vantaggi in termini di costo del lavoro e delle materie prime, reperimento di fattori produttivi strategici, incentivi finanziari e fiscali. Di qui l’esigenza di adeguate forme di retention per consolidare il radicamento degli investitori attratti ed impedirne il trasferimento altrove (coinvolgimento nei piani di sviluppo locali, servizi di facilitazione nei rapporti con la subfornitura o iniziative ad hoc per la formazione della manodopera e dei manager)12. Un’ultima distinzione importante è quella connessa alla tipologia del prodotto territoriale da promuovere (Van den Berg 1999): da un lato beni e servizi urbani/territoriali individuali, per i quali le azioni di marketing si focalizzano su specifiche localizzazioni e attrazioni; in secondo ordine i clusters di servizi interconnessi (l’offerta turistica o le infrastrutture viarie o portuali) che richiedono programmi integrati di valorizzazione e promozione; infine il livello urbano e territoriale nel suo insieme che, per la sua complessità e difficile definizione e interpretazione, necessita di piani di marketing segmentati e differenziati a seconda dei diversi target di destinazione. In questo terzo livello si inserisce il tema dell’immagine della città, dell’identità territoriale e dei processi di image-building. Quindi “clienti” differenziati, prodotti diversi e loro combinazioni, territorio complessivo come prodotto integrato, che coinvolgono produttori e manager multipli: dai governi locali alle agenzie pubbliche, dalle associazioni di categoria alle rappresentanze sociali e culturali 11 I casi dell’Area Science Park di Trieste, il San Raffaele di Milano e il distretto di Pisa costituiscono ad oggi le best practices italiane, ancora lontane tuttavia dalle eccellenze internazionali di Cambridge e Oxford in Inghilterra, Sophie Antipolis e Grenoble in Francia, Kista in Svezia, Monaco in Germania, Oulu in Finlandia, oltre alla Silicon Valley californiana. 12 Le prime esperienze di attività di after care vengono dal Galles, non a caso tra le regioni coinvolte dagli anni ’70 in massicci flussi di investimenti greenfield dai paesi orientali e americani, ed oggi in chiara sofferenza nel rispondere alla capacità attrattiva delle aree di nuova industrializzazione dell’Estremo Oriente. 11 locali, dalle singole aziende già insediate agli investitori esterni fino alle molteplici forme di associazionismo e partecipazione dei cittadini. Di qui le nuove esperienze di partnership pubblico-private, Comitati Strategici, Stati Generali e Community Development Corporation, attivate in tante città italiane ed estere. 5. I FATTORI LOCALIZZATIVI E L’IMMAGIE DEL TERRITORIO Il posizionamento delle città e dei territori sui mercati di insediamento delle imprese e sui mercati residenziali o turistici si definisce in base ad analisi dei punti di forza e debolezza13 e benchmarking che dal lato dell’offerta propongono gli aspetti promossi da un territorio e quelli percepiti dagli acquirenti, mentre sul fronte della domanda si configurano nelle esigenze di localizzazione o visita non solo in una logica “spaziale” ma in termini di vantaggi comparati e fattori di attrazione quali-quantitativi (Ancarani 2006, Viviani 2003, Kotler et.al.2007). Sul fronte delle localizzazioni di impresa, per studiare i comportamenti degli investitori (Ulaga et.al. 2002) si è introdotto il concetto di investability (Begg 2002) quale sistema di vantaggi comparati e fattori capaci di attrarre flussi di capitale e investimenti greenfield o brownfield. Si sono così diffuse a livello internazionale analisi di posizionamento e ranking di aree e province per comparare città e luoghi, che influenzano direttamente l’attrattività dei territori contribuendo a definire i vantaggi e le economie esterne positive delle diverse aree fino alle cosiddette amenities di carattere immateriale (Florida, 2000 e 2003). Anche la pubblicistica incide in questi mercati con una propria forza persuasiva, oltre che sui destinatari finali della pubblicità dei luoghi (persone e imprese) anche sui governi locali che definiscono e implementano politiche di sviluppo territoriale. Le note classifiche delle città più vivibili o con la migliore qualità della vita, attraverso il potere “discorsivo” e narrativo dei media, influiscono direttamente sull’agenda delle politiche urbane e locali (Rogerson 1999, McCann 2004) enfatizzando la retorica intorno ai best places in cui vivere e lavorare e producendo effetti di rincorsa per imitazione. In generale i fattori promossi in queste analisi di posizionamento sul fronte del mercato residenziale e turistico si riconducono non solo al sistema istituzionale (governo locale e pubblica amministrazione) e infrastrutturale, ma in misura crescente al sistema naturale e delle risorse, alla dotazione culturale e intellettuale, all’offerta di attrattive storiche e artistiche. L’ottica prevalente è quella degli indicatori di sostenibilità dello sviluppo che considerano gli aspetti economici, sociali ed ambientali del sistema territoriale considerato (Ciciotti-Dallara-Rizzi 2006). Soprattutto nel caso del marketing turistico e di attrazione di persone (Florida 2003), ma anche nel marketing per gli investimenti (Ulaga et.al. 2002, Hankinson 2001) il tema dell’immagine diventa centrale per stimolare e favorire adeguate azioni di promozione. L’immagine del territorio costituisce l’”insieme delle rappresentazioni affettive e razionali che di tale territorio vengono fatte da un soggetto o da un gruppo di soggetti” (Bellini 2007), 13 Per un approfondimento sulle metodologie di analisi swot si veda Ciciotti-Rizzi 2005 12 riflette le esperienze e costituisce un filtro che influisce sulla percezione del territorio in termini di qualità della vita, opportunità, prospettive di sviluppo futuro. Nell’immagine del territorio si sovrappongono talora due dimensioni diverse: la componente valutativa, che attribuisce valore ai fattori esistenti, e la componente preferenziale, che invece indica le aspirazioni di ciò che si vorrebbe essere (Bellini 2005). Ne deriva quindi la possibilità di dissonanze cognitive tra aspettative e percezioni, che possono produrre conseguenze significative in termini di perdita di credibilità e quindi di “consumo”. La coerenza tra qualità reale e percepita o tra visibilità e credibilità diventa quindi una priorità strategica in ogni seria azione di marketing territoriale, pena la perdita prospettica di clienti visitatori, turisti o investitori. Ma la seconda tipologia di relazione complessa è quella tra immagine, percepita dai clienti target, e identità del territorio, definita ed espressa dal territorio stesso e dai suoi stakeholder. Innanzitutto per la possibile esistenza di “identità multiple” derivate da compresenza di gruppi e segmenti differenziati per settore di attività e stratificazione sociale (Biggiero 2002), ma anche per l’emersione del “lato oscuro” della forte identificazione che caratterizza comportamenti di discriminazione nei confronti di soggetti non appartenenti al territorio. Può risultare difficile promuovere l’immagine all’esterno quando l’identità territoriale non sia condivisa e precisa tra chi vive il territorio stesso (cittadini e imprenditori). Questo gap relativo, se contenuto, può essere governato e stimolare politiche di marketing adeguate, ma, se eccessivo, produce effetti di dissonanza e confusione comunicazionale. L’esempio canonico utilizzato è quello di Firenze tra città della storia e dell’arte medioevale dei turisti stranieri e polo industriale e tecnologico degli operatori economici italiani (Bellini 2007). 6.LE RELAZIOI TRA MARKETIG TERRITORIALE E PIAIFICAZIOE STRATEGICA Dalle formulazioni teoriche emerse nella letteratura emergono numerosi punti di contatto tra marketing territoriale e pianificazione strategica: le finalità di sviluppo territoriale, la valenza sociale e di benessere collettivo, la natura intersettoriale e di medio-lungo periodo, le metodologie orientate alla partecipazione negoziale degli attori (Ciciott-Rizzi 2005). In particolare la partecipazione degli stakeholder territoriali e l’utilizzo di metodiche di negoziazione e concertazione (dai focus group ai comitati strategici, dai forum telematici di discussione alle indagini questionarie e di mercato) rappresentano un linguaggio comune ai percorsi di pianificazione strategica ed ai piani di marketing territoriale. Da questa osservazione si potrebbe evidenziare una sorta di confusione tra le due discipline, peraltro assai diffusa tra amministratori locali e policy maker. Ma una prima differenziazione rilevante è quella che sottolinea come il marketing territoriale non intervenga se non indirettamente nella modificazione delle caratteristiche strutturali di un’area; mentre la pianificazione strategica in quanto forma innovativa di definizione delle politiche territoriali copra una gamma molto ampia di settori di intervento direttamente finalizzati a modificare 13 l’offerta territoriale. Ne deriva che il marketing territoriale sia focalizzato più sulla domanda che sull’offerta urbana, allo stesso modo che nel marketing dei prodotti e delle aziende (Caroli 2006). Inoltre la pianificazione deriva o viene co-prodotta dal governo locale che ha propri percorsi istituzionali elettorali e di rappresentanza, laddove le azioni di marketing possono non rispettare gli stessi criteri di legittimazione democratica collettiva, affidandosi spesso ad esperti o società di consulenza specializzate. Quindi se la definizione di marketing territoriale utilizzata è nella sua versione più limitata, cioè di promozione del territorio data l’offerta urbana, la differenziazione con le politiche di sviluppo e la pianificazione strategica appare netta. Se tuttavia viene impiegata l’accezione allargata, cioè l’adeguamento dell’offerta territoriale alla domanda, prevedendo così la possibilità di agire sul prodotto città, le connessioni tra le due aree disciplinari risultano più strette. Anche se si può evidenziare come il marketing territoriale sia comunque più orientato alla domanda (definizione clienti - obiettivo, segmentazione della domanda, promozione ai clienti) laddove le pianificazione territoriale sia per lo più indirizzata all’offerta del prodotto urbano e alla sua trasformazione strategica evolutiva. In definitiva possiamo quindi affermare che il marketing territoriale costituisca uno strumento delle politiche territoriali in quanto schema metodologico e logico per progettare, implementare e valutare le politiche locali in un’ottica di pianificazione territoriale più o meno istituzionalizzata. In questa direzione sembrano indirizzate le esperienze italiane di pianificazione strategica: da una recente indagine comparata su otto casi nazionali (Torino, La Spezia, Venezia, Pesaro, Venezia, Verona, Piacenza, Firenze) emerge come in tutti i piani considerati siano presenti azioni di marketing territoriale (Diamante-Sacripanti 2006). L’indagine rileva anche come nei casi studiati prevalga una politica di marketing territoriale “derivata” dalla pianificazione strategica, quale strumento operativo o particolare fase promozionale interna ed esterna “funzionale” all’efficacia del percorso pianificatorio. Non a caso le sequenza temporale evidenzia la preesistenza del piano alle azioni di marketing, che vengono affidate ad agenzie esterne all’ente locale promotore del piano (Promofirenze nel capoluogo toscano, Investi Torino Piemonte nel capoluogo piemontese, Spedia nella città ligure) o agenzie interne (Agenzia di marketing territoriale a Piacenza, Pesaro Sviluppo nella città marchigiana) o addirittura ad uffici di comuni o province (Verona, Venezia, Treviso). Ancora la natura stessa dei piani strategici, fortemente orientati al consenso e alla negoziazione collettiva, ha richiesto nelle pratiche italiane iniziative di comunicazione focalizzate con strumenti simili: sito internet, forum di discussione, media locali, newsletter, eventi specifici. Non a caso le città ed i territori che oggi emergono come più “attrattive” sia in termini di investimenti esterni che di turisti e visitatori, risultano coinvolte in processi di pianificazione strategica consolidati (Torino, Firenze). 7.I PARADOSSI DEL BRADIG E DEL MARKETIG TERRITORIALE 14 L’etimologia del brand richiama l’operazione della marchiatura col fuoco del bestiame, per identificarne la proprietà e proteggere i diritti dei proprietari in termini di animus revertendi ovvero per distinguere gli animali di proprietà da quelli selvaggi e al pascolo libero. In realtà oggi il branding corrisponde ad un’azione di burning nella mente del consumatore, per segnare in modo indelebile nell’immaginario delle persone i caratteri di unicità, inimitabilità, riconoscibilità di prodotti e servizi (Jensen 2005, Zucchella-Denicolai 2007). Nel caso delle città e dei territori il marchio riconduce a narrazioni evocative, rappresentazioni e riconfigurazioni di immagini in una sorta di “collective impression management” (Bignè et.al. 2001, Hankinson 2001). Non a caso si introduce la nozione di “geosemiotica” quale sistema di segni/simboli che interagiscono e si sovrappongono con richiami associativi multipli. Parallelamente assistiamo ad un passaggio metaforico dalla città “costruita” alla città “parlata”, in cui i territori-testi si condensano in immagini, parole, narrazioni, documenti; in fondo è lo stesso processo che si verifica nelle nuove forme di pianificazione strategica in cui la politica locale passa dal disegno di città (cartografia, zoning e prescrizione dei piani regolatori) alla descrizione verbale, narrativa e di scenario. Il primo paradosso connesso alla nozione di marketing territoriale è relativo al rischio di mercatizzare il territorio: con il termine commodification of the city si sottolinea proprio la tendenza a mercificare la città, nello sforzo di accentuarne la dimensione commerciale di vendita o offerta di mercato attraverso gli strumenti di marchio, comunicazione, fidelizzazione relazionale. In questa prospettiva va tuttavia evidenziata la differenza strutturale tra product/corporate branding e location/city branding: non solo si evidenzia una diversa segmentazione dei clienti-destinatari14 ed una differente tipologia di interessi espressi, ma soprattutto un salto di intensità nella legittimazione dei valori espressi. Nel marketing territoriale si introducono conoscenze e identità preesistenti da salvaguardare o consolidare, laddove nel marketing del prodotto questa sfera semantica appare contenuta se non del tutto assente15. Il secondo rischio connesso a tutti i processi di branding è relativo all’attitudine a promuovere i punti di forza del prodotto o territorio e tacere o ignorarne “il lato oscuro” ed i punti di debolezza. Nella maggiorparte delle campagne promozionali e pubblicitarie, che hanno come oggetto i luoghi e le città, il rischio di iperbole narrativa appare pressante, anche quando il destinatario risulti il cittadino stesso e la sua loyalty al luogo considerato (pensiamo anche ai sempre più diffusi bilanci di mandato delle amministrazioni locali, in cui i confini tra rendicontazione sociale e propaganda elettorale risultano sempre più labili). Questo fenomeno è legato anche all’antinomia tra componente valutativa e componente preferenziale del marketing territoriale, tra esperienza/realtà percepita e immagine/desideri/visioni dichiarati e promossi (Bellini 2005). In entrambe le prospettive il tema principale è quello della selettività 14 Per il product brand la sola audience dei consumatori; per il corporate brand i proprietari, i manager, i lavoratori, i clienti; per il location brand la popolazione, gli investitori, i residenti 15 “You don’t have to ask the beans in the can how they feel about the label” (Jensen 2005) 15 della comunicazione dei territori, della scelta di singoli attributi o progetti flagship su cui impostare le campagne promozionali e di marketing. Ovviamente tale selettività comporta operazioni di sintesi dell’offerta territoriale talora discutibili per la loro natura necessariamente semplificatoria. Emerge inoltre un problema stringente di legittimazione democratica del marketing territoriale, sulla scelta della narrazione o della vision da promuovere. Anche nei piani strategici delle città e dei territori spesso si alzano critiche pungenti per ricordare la difficile emersione degli interessi deboli quando le linee strategiche e progettuali vengono discusse e condivise da rappresentanze e istituzioni locali, con rischi evidenti di forme di neo-corporativismo (Bobbio 2000). Gli stessi meccanismi di derivazione aziendalistica (swot, benchmark, analisi di mercato, sondaggi di opinione, processi di valutazione e monitoraggio) per lo più elaborati da esperti e tecnici non possono certo sostituirsi ai processi democratici di deliberazione collettiva e partecipazione politica, ma solo supportarne l’effettiva implementazione. Il terzo paradosso del marketing territoriale deriva dalla forza persuasiva dei marchi e della commercializzazione. Il potere della marca (Codeluppi 2001) non solo incide sui comportamenti dei consumatori ma può influenzare la natura stessa dei rapporti tra individui e luoghi. Il caso degli gli abitanti di Celebration, la città statunitense ideata e costruita dalla Disney16, enfatizza come sia possibile associare anche brand e vita, in una sorta di “vita griffata” le cui conseguenze antropologiche e sociali sono difficilmente valutabili. Il processo di “vetrinizzazione sociale” in corso (Codeluppi 2007) sempre più si connette anche alle città e ai territori con effetti di trasformazione importanti nelle naturali relazioni identitarie dei luoghi. L’ultimo contenuto critico connesso al marketing territoriale riassume i tre precedenti elementi di rischio di commodification dei luoghi, selettività degli attributi e vetrinizzazione sociale. Secondo alcuni autori (McCann 2004) il marketing territoriale diventa espressione del consenso neoliberale in quanto strumento di una visione competitiva dello sviluppo economico e urbano, in cui la concorrenza tra città e territori determina un gioco a somma zero dove lo stesso flusso di investimenti o persone attratte in un luogo non può più raggiungere altri sistemi locali in competizione. Per assurdo l’esigenza di differenziarsi e specializzarsi alla ricerca dell’attrattività e della vivibilità porta le città ed i luoghi a riprodurre in modo seriale strategie di promozione che puntano alla realizzazione di eventi e festival, iniziative di riqualificazione urbanistica e costruzione di edifici/musei con strutture architettoniche di avanguardia, realizzazione di parchi scientifici e produttivi soprattutto focalizzati su nuove tecnologie e settori della new economy. In realtà questi sforzi verso nuove forme di entrepreneurialism delle città raramente riescono a produrre innovazioni effettive in termini di sviluppo urbano e territoriale. Si favorirebbe cioè un effetto-treadmill, di ricorsa competitiva senza reali avanzamenti qualitativi e di posizionamento. L’adozione generalizzata di politiche di marketing territoriale porta con sé l’aumento anche delle aspettative dei clienti target che cercano amenities, attrattive, servizi localizzativi, esattamente come in un tappeto rullante (treadmill appunto), dove corriamo ma siamo sempre al medesimo punto, perché con 16 O del recente progetto Disney di un nuovo ospedale ad Orlando dedicato a Mickey Mouse. 16 noi corre anche il tappeto sotto i nostri piedi. Quindi i territori avvertono la pressione competitiva cercando di promuovere e qualificare le proprie politiche urbane e di attrazione, in realtà talora solo con l’effetto di mantenere il proprio posizionamento nella gerarchia dei luoghi e delle città. 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