Appendici a - Università degli studi di Pavia

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Il federalismo di Mario Albertini nel secolo XXI
di Guido Montani
APPENDICI
1. Natura umana, nazionalismo e federalismo
E’ interessante accennare brevemente alla analogia esistente tra l’analisi di Albertini su nazionalismo
e federalismo, e i progressi compiuti negli ultimi decenni dagli studi del processo di ominazione, grazie agli
apporti della paleo-archeologia, dell’antropologia e della genetica. Rispetto all’idea originaria di
un’evoluzione lineare, a partire da 6-7 milioni di anni fa, è ora evidente che “la storia evoluzionistica della
famiglia ominide non è stata una storia lineare di raffinamento di una linea di discendenza centrale nel corso
degli eoni. E’ stata, invece una saga dinamica in cui numerose specie ominidi hanno avuto origine, si sono
date battaglia nell’arena ecologica e il più delle volte si sono estinte”1. Qui non ci interessa esaminare le fasi
salienti di questo processo, ma mostrare come questi studi sull’origine della nostra specie stiano
influenzando le scienze sociali, la storia e la filosofia. Lo ha fatto a più riprese, il biologo Edward Wilson che
ha giustamente richiamato l’attenzione degli studiosi di humanities sulla necessità di prendere in
considerazione il concetto di natura umana, superando le ingenue interpretazioni che ipotizzavano da un lato
il buon selvaggio (Rousseau) e dall’altro l’uomo-lupo (Hobbes). Vi sono due risultati degli studi di Wilson
che meritano attenzione. Il primo è il superamento del dibattito tra natura e cultura. Dalla comparsa di homo
sapiens (circa 160.000 anni fa), un brevissimo periodo nella storia dell’evoluzione di una specie, non è
pensabile che si siano manifestate evoluzioni significative nella sua struttura genetica, mentre dobbiamo
tenere in considerazione la sua straordinaria evoluzione culturale. Wilson propone pertanto l’utile concetto di
co-evoluzione di gene e cultura, per descrivere il vantaggio competitivo culturale di homo sapiens, a partire
dal linguaggio, rispetto a tutte le altre specie animali. Il secondo concetto interessante per la nostra analisi è
la ‘selezione multilivello’, che Wilson usa per indicare come la selezione naturale operi “a livello individuale
sulla base della competizione e cooperazione tra individui di un medesimo gruppo e la selezione di gruppi,
che scaturisce dalla competizione e cooperazione tra gruppi. La selezione tra gruppi può avvenire mediante
conflitti violenti o competizione per il ritrovamento o la raccolta di nuove risorse”2. La selezione multilivello
è stata osservata e teorizzata da Wilson e i suoi collaboratori grazie allo studio di una ventina di specie
animali che vivono in comunità (le formiche, le api, i primati, ecc.). La vita organizzata in comunità consente
di superare più facilmente i conflitti con altre specie e le avversità naturali. La competizione tra gruppi
migliora non solo la capacità di sopravvivenza di singoli individui, ma anche la capacità di sopravvivenza
dei gruppi. Wilson osserva che la competizione tra gruppi è una caratteristica anche della specie umana, che
sin dalla nascita nutre un interesse ossessivo a quanto fanno e dicono i propri simili, assimilando la cultura
famigliare, ambientale e le regole indispensabili per la vita in comunità. “Un tratto ereditario del
comportamento umano – osserva Wilson – è l’impulso dominante di appartenere primariamente a un gruppo,
condiviso con molti altri animali sociali. Restare forzatamente in solitudine è penoso e conduce alla follia.
L’appartenenza di una persona al suo gruppo – una tribù – è parte della sua identità. Gli conferisce un certo
grado di superiorità verso gli altri”3. Infine, Wilson accenna anche alle dinamiche che si manifestano tra
individui all’interno dei gruppi e tra i gruppi. “All’interno dei gruppi gli individui egoistici battono quelli
altruistici, ma i gruppi altruistici battono i gruppi degli individui egoistici. Ovvero, rischiando una supersemplificazione, la selezione individuale promuove il peccato, mentre la selezione di gruppo promuove la
virtù”4. Non è necessario approfondire ulteriormente queste dinamiche, né esser in accordo con questa
semplificazione; è tuttavia utile sottolineare una analogia con la teoria del nazionalismo proposta da
Albertini. In primo luogo osserviamo come il nazionalismo sia una forma di moderno tribalismo, un aspetto
forse sufficiente per comprendere le radici di un sentimento di appartenenza a una comunità organizzata da
un potere coercitivo che garantisce sicurezza e, nella misura del possibile, benessere. In secondo luogo,
ricordiamo il concetto di interdipendenza in profondità e interdipendenza in estensione, utilizzato da
Albertini per comprendere come lo stato nazionale abbia allargato la sfera di interdipendenza dei rapporti
1
I. TATTERSALL, The World from Beginnings to 4000 BCE, Oxford, Oxfors University Press, 2008; trad. it. Il mondo prima della
storia. Dagli inizi al 4000 A.C., Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 22.
2
E. O. WILSON, The Meaning of Human Existence, New York, Liveright, 2014.
3
Ibidem, op. cit., p. 30.
4
Ibidem, op. cit., p. 33.
1 umani tra comunità locali lontane, eliminando barriere di classe e territoriali; e, successivamente, come i
rapporti tra individui di diversi stati siano diventatati sempre più intensi, sino all’attuale globalizzazione.
Questo processo non differisce molto dall’evoluzione multilivello proposta da Wilson. L’analisi di Albertini
si riferisce naturalmente all’epoca moderna, ma il fenomeno ha origini antichissime. Alcuni antropologi
fanno osservare che anche nell’epoca in cui la famiglia era considerata il nucleo essenziale delle comunità
primitive, era necessario istituire forme di cooperazione ‘sovra-famigliare’. L’importanza delle
“organizzazioni sovra-famigliari nel gestire i rischi quotidiani della caccia e i rischi a più ampio raggio di
mutamenti nelle risorse dimostra chiaramente i limiti della indipendenza famigliare”5. In termini più
generali, Cyprian Broodbank osserva: “I cacciatori-raccoglitori erano, malgrado tutta la loro apparente
estraneità e distanza, individui con famiglie, parentele, vite sociali e figure pubbliche … Come molti
cacciatori-raccoglitori recenti, probabilmente vivevano per gran parte dell’anno in bande formate da una o
due dozzine di persone, condividendo il cibo e molte altre cose, e possedevano soltanto un’idea limitata della
proprietà personale. Ma ciascuna banda era collegata alle altre tramite più ampie affiliazioni sociali che
annoveravano continuità di persone. Queste connessioni aumentavano il flusso delle informazioni, delle
competenze e dei materiali, oltre alla scelta dei partner, compresi quelli per l’accoppiamento. Inoltre
agevolavano una stabilità più duratura riducendo i rischi che ciascuna singola banda doveva affrontare nelle
avversità”6. In definitiva, gli esseri umani sono animali sociali che possono vivere e migliorare la propria
esistenza all’interno di comunità organizzate, ma sentono anche l’impulso, come Ulisse, di entrare in
contatto con altri popoli e di rendere stabili queste relazioni: le tribù si sono unite nelle città, le città negli
imperi, ecc. L’interdipendenza in profondità e in estensione è una caratteristica strutturale della specie umana
o, per usare una terminologia antropologica, uno degli human universals7.
2. Il materialismo storico
In questa Appendice intendo discutere del materialismo storico, un argomento a cui Mario Albertini
ha dedicato molte riflessioni, ma che non è mai stato formulato analiticamente nei suoi scritti. In alcuni casi,
dove avrebbe potuto usare un richiamo al materialismo storico, Albertini ha preferito usare espressioni come
“aspetto storico-sociale”. Fortunatamente abbiamo a disposizione la trascrizione del suo corso di lezioni
dell’anno accademico 1979-80 a cura di Luisa Trumellini8, che ci consentono di apprezzare lo scrupolo e lo
sforzo di Albertini – grazio allo studio dei rapporti tra il pensiero di Marx a di Kant – nel definire il quadro
teorico in cui collocare l’azione politica.
A distanza di molti anni, un ripensamento dei problemi posti dall’uso del materialismo storico per
l’analisi storico-politica è opportuno, anche alla luce dei progressi compiuti nelle ricerche paleoarcheologiche e negli studi sul processo di ominazione, che dilatano enormemente sia la dimensione
temporale dell’avventura umana sul Pianeta sia la massa di materiale e di testimonianze a disposizione degli
studiosi. Ad esempio, oggi si può sostenere che l’affermazione di Marx nell’Ideologia tedesca, secondo cui
“gli uomini cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di
sussistenza”, non è corretta. Vi sono molte specie animali che sono in grado di usare tecniche ingegnose per
soddisfare i propri bisogni9. L’unica differenza cruciale tra homo sapiens e gli animali è l’uso del linguaggio,
che ha consentito a uomini primitivi di comunicare rapidamente e chiaramente con i propri simili significati
complessi, consentendo così di organizzare efficacemente la lotta contro le forze della natura e di altre
comunità umane ostili.
In questa Appendice presento una revisione critica di un mio precedente tentativo di utilizzare il
materialismo storico, in particolare il concetto di modo di produrre. Allora mi proponevo di definire una base
5
A. W. JOHNSON, T. EARLE, The Evolution of Human Societies. From Foraging Group to Agrarian State, Stanford, Stanford
University Press, 2000, p. 67. 6
C. BROODBANK, The Making of the Middle Sea, London, Thames & Hudson, 2013; trad. it. Il Mediterraneo. Dalla preistoria alla
nascita del mondo classico, Torino, Einaudi, 2015, p. 117.
7
Su questo concetto cfr. D. E. BROWN, “Human Universals, Human Nature, Human Culture”, in Daedelaus, vol. 133, 4, 2004, pp.
47-54.
8
L. TRUMELLINI, “Le riflessioni di Mario Albertini per una rielaborazione critica del materialismo storico” in Il Federalista, L, 2008,
pp. 13-50; e “Le riflessioni di Mario Albertini sulla filosofia della storia di Kant e la sua integrazione con il materialismo storico”, in
Il Federalista, LI, 2009, pp. 90-115.
9
Per un’ampia documentazione cfr. P. Picq, Y. Coppens (eds), Aux origines de l’humanité. Le propre de l’homme, Paris, Fayard,
2001. 2 storico-scientifica per sostenere il progetto federalista come nuovo pensiero politico10. In quel libro avevo
tentato di formulare una “tassonomia dei modi di produzione” che negli anni successivi, in particolare grazie
agli studi sul processo di ominazione e l’ecologia, ho dovuto rivedere. Qui mi limito a presentare alcuni
argomenti che mi hanno condotto a un ripensamento e che possono stimolare un eventuale dibattito.
1. L’uso del materialismo storico e in particolare del tipo-ideale “modo di produzione” è legittimo,
ma non è molto utile come strumento per indagare sia le epoche moderne sia quelle pre-moderne, vale a
dire lo sviluppo economico, scientifico e politico delle società industriali e pre-industriali.
Albertini ha definito con precisione i tipi-ideali weberiani e delimitato il loro campo di validità, nel
saggio su “L’unificazione europea e il potere costituente”11 del 1986, dove li rinomina “schemi ad hoc”.
Indica la loro funzione specifica nell’individuazione dei caratteri salienti di un processo storico in corso, non
ancora concluso. “Weber ha dimostrato – osserva Albertini – che questa relazione – che mette in
corrispondenza le ‘individualità storiche’ con schemi teorici tipici – vale per ogni conoscenza storica. … Ne
segue una regola precisa: l’elaborazione teorica deve essere condotta solo sino al punto nel quale essa rende
possibile la conoscenza storica e non oltre, perché al di là di questo punto essa si convertirebbe nella pretesa
di sostituire la conoscenza storica (come stadio ultimo dell’indagine) con la conoscenza teorica: in pratica,
nel tentativo contradditorio di teorizzare in anticipo anche dei fatti del tutto privi di regolarità (quelli relativi
al caso e all’innovazione). Per applicare bene questa regola bisogna tener presente che il ‘tipo ideale’ è una
congettura più la decisione di usarlo come strumento per la conoscenza fattuale”. Questa definizione del
tipo-ideale e il suo rapporto con l’azione, dunque la progettualità politica, è molto precisa e utile per evitare,
come spesso si usa fare nell’accademia, elaborazioni sovrabbondanti di uno schema interpretativo del
processo storico per trasformarlo in una teoria, dunque in un modello simile a quello delle scienze naturali,
nella illusione di poterlo dotare di capacità previsive. Inoltre, l’uso che si intende fare dello schema ad hoc
condiziona anche la ricerca e la ricostruzione dei fatti storici.
Per cercare di mettere in luce alcune difficoltà riguardanti l’uso dei tipi-ideali in relazione alla
dottrina del materialismo storico, tentiamo ora di darne una formulazione analitica12. Definiamo con c le
condizioni storiche singolari di un processo storico, e con t, oppure t1, t2, ecc. se sono più di una, le tendenze
singolari che possiamo dedurre dall’analisi della situazione. Si può allora affermare – impropriamente – la
“legge” che tutte le volte che si manifesta c si deve manifestare anche t. Questa formalizzazione è utile per
chiarire la differenza tra tendenza di un processo storico individuale e teoria scientifica. Nelle scienze sociali
si tenta, quando possibile, di formulare teorie scientifiche che consentano di prevedere certi fenomeni. Ad
esempio, nell’economia un modello semplicissimo, basato sul postulato di razionalità dei soggetti che
esprimono preferenze individuali ordinabili, è quello della relazione tra domanda e offerta. Il comportamento
di consumatori e offerenti è definito da precise funzioni. E’ allora possibile prevedere che vi sarà un prezzo
di equilibrio e mettere alla prova sperimentalmente questo modello per un singolo mercato, ad esempio il
mercato del grano, dove si possono misurare, in un certo anno, sia la domanda che l’offerta di grano. Il
semplice modello che abbiamo appena presentato consente applicazioni pratiche previsive perché si basa su
ipotesi che riducono l’individuo a un soggetto razionale il cui comportamento può essere previsto a priori. Si
tratta dunque di un modello chiuso, la cui applicabilità pratica dipende dal fatto che normalmente (salvo casi
eccezionali, anch’essi studiati dagli economisti) gli individui nel mercato del grano (un mercato
relativamente isolato da altri mercati) si comportano in realtà come postulato nelle condizioni iniziali.
Questo modello economico differisce tuttavia dal tipo-ideale, o schema ad hoc, perché una tendenza non è
una legge, anche se spesso si fa confusione in proposito o si alimenta la confusone (come avverte Albertini).
Una tendenza riguarda solo una certa regolarità statistica, ma non consente di fare previsioni. Se un incidente
stradale provoca la morte del conducente dell’automobile, non possiamo affermare che tutti gli incidenti
stradali avranno questo effetto. Tuttavia, anche una tendenza è utile: da osservazioni ripetute di questi casi
possiamo dedurre che l’uso della cintura di sicurezza è consigliabile. Si tratta di avvenimenti che hanno una
certa probabilità di verificarsi. Nel caso in cui vogliamo applicare questo modello tendenziale alla storia
dobbiamo cercare di definire con precisione le condizioni iniziali. Ad esempio se vogliamo affermare che
tendenzialmente i regimi di democrazia diretta degenerano in dittature, dobbiamo cercare di delimitare con
10
Mi riferisco a G. MONTANI, Il federalismo, l’Europa e il mondo. Un pensiero politico per unire l’Europa e per unire il mondo,
Manduria, Lacaita, 1999; in particolare il cap. II, “Il materialismo storico e la globalizzazione”.
11
M. Albertini, “L’unificazione europea e il potere costituente” in Il Politico, LI, 1986; ora in Tutti gli scritti, op. cit. vol. IX, pp.119135; in particolare cfr. i paragrafi 5 e 6.
12
Ho tratto lo schema analitico da K. POPPER, The Poverty of Historicism, Great Britain, Lowe and Brydone, 1957; trad. it Miseria
dello storicismo, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 116, n. 29.
3 precisione il campo di applicazione di questa affermazione che può essere vera o falsa a seconda che si
applichi a certe situazioni storiche (ad esempio, le città stato della Grecia classica) o ad altre (come il caso
dei cantoni svizzeri dell’epoca moderna). Quanto più precisamente vogliamo esaminare “tendenze” (non
leggi), tanto più articolate e precise devono essere le condizioni inziali c. La storia è un sistema complesso di
relazioni umane “tendenzialmente” aperto, a meno che si sia disposti a difendere l’ipotesi di un
determinismo storico assoluto.
Se ora prendiamo in considerazione il concetto di modo di produrre possiamo subito constatare come
il punto di vista dello storico o del politico possano influenzare i parametri storici delle condizioni iniziali in
relazione all’uso che se ne vuole fare. Si può ad esempio descrivere il modo di produzione “industriale” se
siamo interessati all’epoca che si è aperta con la Rivoluzione industriale inglese, poi estesa ad altri paesi del
continente europeo, negli Stati Uniti, ecc. sino ai nostri giorni, nei paesi emergenti. Da questa indagine
possono scaturire insegnamenti utili per i governi che intendono promuovere l’industrializzazione del loro
paese. Oppure si possono individuare fasi post-industriali, con caratteri differenziali rispetto alle epoche
precedenti. Si può, in altri casi, definire un modo di produzione “scientifico”, se si vuole mettere in evidenza
il fenomeno culturale dello sviluppo della scienza moderna, iniziato con Copernico, Galileo e Newton nelle
società occidentali, ma ora messo in discussione per la sua pretesa discontinuità storica.13 In questo caso
possiamo esaminare le condizioni sociali, politiche e culturali esistenti in Europa all’epoca del Rinascimento
per metterle a confronto con quelle esistenti negli altri continenti nella stessa epoca e nei paesi in via di
sviluppo. Dal confronto si possono trarre utili indicazioni (ad esempio, l’importanza dell’istruzione per lo
sviluppo economico o la sostituzione del lavoro ripetitivo con robot intelligenti). Infine, possiamo definire un
modo di produzione “capitalistico” prendendo in considerazione lo sviluppo del calcolo economico nei
sistemi economico-mercantili del tardo medio evo. La calcolabilità economica è stata considerata cruciale
per il capitalismo da von Mises14 che ha contrapposto il sistema di mercato, dove la concorrenza fondata
sulla proprietà privata consente il calcolo della profittabilità di un’impresa, al sistema economico pianificato,
dove la mancanza della proprietà privata dei mezzi di produzione rende impossibile il calcolo economico.
Nel tardo medio evo, in Europa, la numerazione romana, inadatta al calcolo, venne sostituita da una nuova
numerazione, quando si adottarono i numeri indiani, in uso già nel 400 A.C. e successivamente utilizzati dai
matematici arabi. La nuova numerazione si diffuse in larghi strati della popolazione grazie allo sviluppo del
commercio a lunga distanza tra le città europee. In conclusione, la definizione delle varie epoche che
intendiamo esaminare differisce a seconda dell’accento che viene messo su alcuni aspetti che si intende
selezionare. Si comprende, ad esempio, perché molti autori che si richiamano alla dottrina marxista della
lotta di classe preferiscano utilizzare le tendenze che possono essere individuate con l’uso del tipo-ideale
‘modo di produzione capitalistico’.
Per quanto riguarda l’uso del concetto di modo di produzione nell’età pre-moderna o antica, si
dovrebbe accettare l’esistenza di un modo di produzione “agricolo”, preceduto da quello definito “caccia e
pesca” o meglio della semplice raccolta di vegetali e piccole prede, poiché per migliaia di anni questa è stata
la condizione naturale di homo sapiens. Concentriamo la nostra attenzione sulla prima rivoluzione
economica, l’agricoltura, che può essere fatta risalire a circa 10.000 anni fa. Ci troviamo in questo caso di
fronte ad un’epoca, definita dal modo di produzione agricolo, che va dalla fine del Neolitico sino al tardo
medio evo europeo. Una fase lunghissima della storia umana che include civiltà molto differenti, come
quella Assiro-Babilonese, Greca, Persiana, Egiziana, Romana e, al di fuori dell’Europa, Cinese, Indiana,
Atzeca, Inca, Maya, ecc. In comune, queste civiltà hanno il fatto di essere riuscite a sfruttare la riproduzione
di vegetali e di animali per soddisfare i bisogni di vaste popolazione addensate in città, che intrattenevano
intensi scambi con la campagna circostante. Ma, al di là di queste osservazioni generali, è difficile, usando
solo il concetto di modo di produrre, esaminare gli avvenimenti storici specifici, interni a ogni civiltà ed i
loro eventuali rapporti, per un’epoca storica durata circa 10.000 anni.
13
Jim Al-Khalili, dopo aver documentato gli sviluppi notevoli della chimica, della geometria, dell’algebra, della fisica,
dell’astronomia, della medicina e della filosofia nei paesi musulmani dal VIII secolo sino all’età moderna, osserva che il
Rinascimento europeo non rappresenta una rottura netta con il passato, oggi “si tende a vedere nel Rinascimento un’accelerazione di
un processo continuo le cui origini risalgono all’antichità. E’ sicuramente sbagliato … pensare che il Rinascimento abbia segnato la
nascita della scienza o del metodo scientifico. Sarebbe più opportuno parlare di ‘rinascita’ di una tradizione accademica che in
Europa era andata perduta da molto tempo”. (J. AL-KJALILI, Pathfinders. The Golden Age of Arabic Science, London, Penguin Book,
2010; trad. it. La casa della saggezza. L’epoca d’oro della scienza araba, Torino, Boringhieri, 2013, p. 275)
14
L. VON MISES, “Economic Calculation in the Socialist Commonwealth” in F. A. Hayek (ed), Collectivist Economic Planning, New
York, A. M. Kelley, 1975 (1933).
4 2. La transizione dalla preistoria alla storia non può essere compresa mediante un singolo tipoideale. L’uso di un insieme di tipologie è indispensabile per la comprensione di un processo storico
complesso.
Il passaggio dal nomadismo, dalla raccolta di vegetali e dalla caccia di animali selvatici,
all’agricoltura – cioè la riproduzione controllata di vegetali e l’addomesticamento di animali – è stata
fondamentale per l’inizio di ciò che definiamo storia, vale a dire la consapevolezza crescente degli esseri
umani della loro capacità di controllare sempre più il mondo esterno, riducendo le minacce alla loro
esistenza provenienti dall’ambiente naturale e da altre comunità umane. La creazione delle città, dei primi
documenti scritti e delle prime forme di istituzioni politico-religiose sono il sintomo evidente dell’inizio
della storia. Tuttavia, l’origine dell’agricoltura e delle città è una questione molto dibattuta da storici e
archeologi a causa delle difficoltà di reperire adeguate testimonianze. Ciò nonostante, qualche affermazione
fondata su fatti è possibile. La nascita delle città dipende certamente dalla produzione di un surplus di
prodotti agricoli necessario per alimentare la popolazione cittadina.
In una accurata ricostruzione storica della nascita delle città in Mesopotamia, le più antiche della
storia e le prime di cui esista una sufficiente documentazione archeologica, van de Mieroop si chiede come
possa essersi formato un surplus. Osserva giustamente che “nessuna famiglia produrrà di più di quello che è
necessario per la sua sussistenza a meno che sia forzata a farlo da una autorità superiore, o perché i benefici
della produzione del surplus siano ovvi e indispensabili”15. La spiegazione della nascita del surplus non può
essere solo di natura economica. La soluzione che van de Mieroop propone è di tipo sociologico, nel senso
che prende in considerazione quattro fonti del potere: il potere ideologico (nell’età antica, la religione),
quello politico, quello economico e quello militare. In sostanza, la città nasce come una costruzione umana
articolata in tutte le funzioni essenziali per l’esistenza di una comunità, integrata al proprio interno da un
potere politico-religioso-militare-economico, e organizzata per la sua sopravvivenza materiale grazie alle
capacità di procurarsi le risorse necessarie alla difesa dei suoi confini nei confronti delle altre comunità. Le
prime città sorsero nel sud della Mesopotamia e si estesero rapidamente nel nord, grazie alla esistenza del
fiume Eufrate e dei suoi numerosi canali, dove intorno all’anno 2800 A.C. si può individuare una rete di città
che si estende dal Golfo Persico sino all’attuale Bagdad. Il commercio a lunga distanza era in origine
controllato dal tempio, il potere religioso, e dai mercanti affiliati al tempio, e basato sullo scambio di prodotti
manufatti con legno, materiali edili e metalli. A fianco del tempio, si organizzò il potere temporale, il Re e la
sua amministrazione, che sviluppò una propria ideologia, la cui base, “consisteva in una combinazione di
leadership militare e religiosa”16.
La spiegazione fornita da van de Mieroop della nascita dell’agricoltura e della città non differisce
molto – salvo gli interessantissimi dettagli della vita quotidiana nelle prime città Mesopotamiche – da
quella, riguardante un’epoca e una dimensione geografica “globale”, fornita da Jared Diamond17, che
propone un “determinismo ambientale o geografico” per spiegare come nella regione definita Mezza Luna
Fertile sia sorta la prima civiltà umana e come si sia poi diffusa, in alcuni casi per imitazione, nel continente
euro-asiatico, in Australia e nelle Americhe.
3. La pretesa di usare un unico tipo-ideale per interpretare l’intera storia dell’umanità non è
accettabile, non solo perché non conosciamo (o conosciamo molto poco) le condizioni iniziali all’origine
della storia di homo sapiens, ma anche perché introdurremmo implicitamente l’ipotesi di un determinismo
assoluto (il trend t) nella storia, negando così il principio del libero arbitrio.
Lo scienziato sociale, lo storico e il politico devono evitare di cadere nella trappola del determinismo
assoluto. Le tipologie tipico-ideali servono per individuare dei determinismi (il fatto A è causato da B, ed
eventualmente C, ecc.). Questo normale processo della conoscenza storico-sociale è necessario per orientare
l’azione. Tuttavia, in alcuni casi si cade nella trappola del determinismo assoluto se si pretende che nella
storia si succedano certi stadi (la teoria degli stadi di sviluppo) tutti spiegabili da un singolo tipo-ideale. In
altri casi, si pretende che un certo tipo-ideale possa fungere da modello generale per tutte le scienze sociali.
Questa pretesa non è fondata perché ogni scienza sociale studia l’azione umana da un certo punto di vista, e
con proprie categorie analitiche e metodologie: ad esempio, il comportamento economico è differente da
15
M. VAN DE MIEROOP, The Ancient Mesopotamian City, Oxford, Oxford University Press, 1999, p. 29.
Ibidem, p. 33
17
J. DIAMOND, Gun, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies, New York, Norton & Co., 1997; trad, it. Armi, acciaio e
malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi, 1998. 16
5 quello politico. Si può sostenere che le scienze sociali abbiano in comune il metodo della ricerca18, ma non
l’oggetto. Le scienze sociali, se il loro oggetto di studio lo consente, possono elaborare vere e proprie teorie e
leggi, come fanno le scienze naturali. Tuttavia, è bene tenere presente che non sempre questo è possibile e
che, anche quando è possibile, come nell’economia, è bene non dimenticare che nessuna realtà sociale può
essere completamente descritta da un modello teorico fondato sul principio di razionalità. Tendenzialmente
le scienze umane elaborano modelli utili alla conoscenza storica – in effetti, la ricerca storica si è molto
avvantaggiata dell’uso dei concetti elaborati dalle scienze sociali –, ma non devono mai cedere alla
tentazione di rinunciare all’apporto delle altre discipline. Le scienze sociali sono strutturalmente incomplete
ed i loro modelli sono provvisori, perché la realtà sociale muta rapidamente. L’interdisciplinarità è
fondamentale per consentire di pensare ogni disciplina come un sistema aperto.
4. Le recenti conoscenze del processo di ominazione hanno consentito ulteriori progressi nelle
scienze storico-sociali. Gli esempi della storia economica e dell’antropologia storico-culturale.
Marx ha affermato che gli uomini fanno la storia, ma non sanno di farla. Non ci si deve dunque
stupire se gli storici non sono in grado di trovare un accordo sul senso della storia, sebbene l’incentivo
maggiore allo studio della storia derivi proprio dalla ricerca di un senso che illumini l’azione che intendiamo
compiere oggi. Si tratta di un paradosso apparente. Il politico responsabile e i federalisti, che si considerano
una avanguardia politica, non possono fare a meno di interpretare e studiare la storia per darle un senso.
Forse viviamo l’alba di un’epoca in cui gli uomini faranno la storia sapendo di farla.
Cominciamo a considerare la storia economica e la sua metodologia, come propone Douglas North19.
La storia è fatta da uomini dotati di coscienza che agiscono per raggiungere scopi. “E’ il pervasivo sforzo –
afferma North – di ridurre le incertezze dell’ambiente. Ma i veri sforzi degli umani di rendere il loro
ambiente intelligibile provoca continue alterazioni in quell’ambiente e perciò nuove sfide alla sua
comprensione. Lo studio del mutamento economico deve cominciare perciò con l’esplorazione dei pervasivi
sforzi degli esseri umani di percepire e di affrontare l’incertezza in un mondo non-ergodico”. I modelli
costruiti dagli economisti sono definiti ergodici, perché escludono la variabile tempo e le altre variabili
convergono verso un valore definito. Pertanto la storia economica studia processi non-ergodici, vale dire
mutamenti temporali che non convergono verso alcun stato predefinito. In altre parole, la storia non ha un
senso determinabile.
Nonostante questa drastica limitazione, si possono tuttavia trarre importanti informazioni dallo
studio della storia economica come un processo aperto. La prima riguarda il postulato di razionalità degli
economisti, che non viene messo in discussione, ma viene messo alla prova con esperimenti di psicologia e
di economia sperimentale che dimostrano come le scelte degli individui non siano esogene, ma siano
influenzate dalla loro cultura, tradizioni e reazioni istintive. Modelli economici realistici possono dunque
differire da quelli fondati sul postulato di razionalità. Inoltre, gli esseri umani tendono a costruirsi un
ambiente che trasformi l’incertezza in un rischio prevedibile (come avviene con le assicurazioni). Un modo
tipico per affrontare queste sfide è l’adozione di norme, di codici di condotta e di istituzioni. Oltre alla
conoscenza esplicita, esiste una conoscenza implicita che viene adottata senza che vi sia una riflessione in
proposito. Tuttavia, l’umanità è in grado di costruire impalcature imponenti di istituzioni da essa controllate,
che insieme a usi e costumi consentono di ridurre sempre più l’incertezza dell’ambiente. L’incertezza non è
causata solo da fattori economici e, nella storia, i grandi mutamenti sono causati da una serie complessa di
cause. “L’ascesa del mondo occidentale fu in ultima istanza una conseguenza del tipo di abilità e conoscenze
(non solo ‘conoscenze per la produzione’ ma principalmente conoscenze di tecnologia militare) che erano
considerate rilevanti per le organizzazioni politiche ed economiche del mondo occidentale medievale”20.
Una osservazione di North è particolarmente interessante ai nostri fini. Egli afferma che
nell’antichità il commercio, lo scambio di beni, avveniva su base personale, per ridurre l’incertezza. Con il
tempo l’organizzazione degli scambi, non solo di beni, è diventata sempre più complessa, ad esempio con
l’uso di cambiali e di altri mezzi impersonali di scambio. Oggi possiamo affermare che l’incertezza proviene
solamente dall’ambiente completamente artificiale e globale costruito dell’umanità. Inoltre, quanto più è
ricca la struttura istituzionale, con molte alternative possibili, tanto più efficace sarà la risposta in caso di
18
In questo senso cfr. K. POPPER, “Models, Instruments, and Truth” in The Myth of the Franework. In Defence of the Science and
Rationality, London, Routledge, 1994; trad it. “Modelli, strumenti e verità. Lo status del principio di razionalità nelle scienze sociali”
in Il mito della cornice. Difesa della razionalità e della scienza, Bologna, Il Mulino, 1995. 19
D. C. NORTH, Understanding the Process of Economic Change, Princeton, Princeton University Press, 2005.
20
Ibidem, p. 63.
6 shock imprevisti21. Si tratta di osservazioni utili per confutare le conclusioni a cui giunge Jared Diamond alla
fine del suo stimolante saggio sulla nascita e lo sviluppo della civiltà. Secondo Diamond il “determinismo
ambientale” potrebbe rappresentare la base per fare della storia una vera scienza, alla pari di tutte le scienze
naturali22. Questa affermazione contraddice quanto abbiamo affermato in precedenza, vale a dire che non è
possibile applicare un unico tipo-ideale o modello interpretativo a tutta la storia dell’umanità. Il metodo
proposto da North ci consente di comprendere che l’ambiente in cui vive l’umanità oggi non è più
determinato solo dalla geografia, ma dall’umanità stessa che nel corso della sua evoluzione culturale ha
costruito un’imponente impalcatura di norme e di istituzioni che la allontanano sempre più dall’originario
stato naturale; anzi, oggi ciò che designiamo natura ha un inevitabile aspetto di artificialità, perché è
l’umanità stessa a decidere della continuità e della eventuale fine della vita sulla Terra.23 Il determinismo che
deciderà, nel bene o nel male, il futuro dell’umanità dipende dalla nostra capacità di comprendere quali
pilastri della impalcatura culturale e istituzionale esistente potrebbero cedere rovinosamente e come potremo
ripararli.
Se il determinismo ambientale (o geografico) non ci può essere d’aiuto per comprendere le sfide
attuali della storia, forse conviene rivolgere la nostra attenzione al soggetto stesso della storia, vale a dire le
donne e gli uomini che la generano con le loro attività quotidiane. E’ questo il campo di studio della
antropologia storico-culturale che, secondo Christoph Wulf, “è il risultato di un atteggiamento scientifico che
si propone di indagare questioni relative a culture ed epoche storiche differenti”24; le sue indagini tendono a
dissolvere i confini tra discipline differenti, sia tra le scienze naturali sia tra le humanities. Qui non è
naturalmente possibile discutere dei concetti essenziali dell’antropologia: ci limitiamo a sintetizzare alcune
osservazioni e analisi riguardanti i problemi di cui abbiamo discusso, specialmente quelli relativi alla
globalizzazione. Il primo riguarda la nozione stessa di natura umana, che si può definire solo in termini di un
processo durato centinaia di migliaia di anni, perché mentre ogni essere umano ha una data di nascita, la
specie umana non ha nulla di simile. La sua natura è allo stesso tempo il risultato della sua evoluzione
biologica e di quella culturale, vale a dire: “l’allungamento del periodo di svezzamento, il proseguimento
dello sviluppo cerebrale dopo la nascita, un periodo infantile prolungato con legami affettivi più lunghi tra le
generazioni e, di conseguenza, la possibilità di un ampio apprendimento culturale”. Grazie al suo eccezionale
sviluppo culturale, ma anche alla relativa brevità della storia documentata dalla memoria orale e scritta,
convivono nell’uomo aspetti ferini e culturali contrastanti. “L’homo sapiens e l’homo demens sono legati tra
loro in modo inscindibile e tutti i grandiosi progressi del genere umano vengono puntualmente ostacolati
dalle atrocità e dagli orrori”25. Si può dunque comprendere come l’umanità sia oggi entrata in una fase, dopo
la fine della guerra fredda, in cui l’involucro fragile della civiltà sembra essersi frantumato e la barbarie sia
tornata in scena.
Consideriamo ora il problema dell’altro, cioè dello straniero e dell’emigrante. Wulf osserva che
l’antropologia si è occupata dell’altro soprattutto in relazione ai popoli primitivi. In questo caso si tratta di
società composte da un numero di individui compresi tra una dozzina e qualche migliaio, dove prevalgono i
rapporti di parentela. “Queste società sono chiuse su loro stesse, il sentimento di appartenenza reciproca è
molto forte e la differenza rispetto ad altre etnie viene esperita in modo molto più radicale rispetto a quanto
accade nelle società più aperte, come le democrazie moderne”. In effetti, osserva ancora Wulf, “gli uomini
delle società industriali si trovano a vivere in una costante sovrapposizione di mondi e culture diverse e ciò,
naturalmente, richiede molta flessibilità e capacità di orientamento”. Tuttavia, quanta flessibilità mostrano le
società moderne? Certo non ricorrono facilmente a metodi violenti, come lo sterminio dei popoli stranieri
(ma avviene purtroppo anche questo). Per escludere l’altro, sono a disposizione tecniche culturali sofisticate,
come il logocentrismo (la svalutazione delle forme razionali di pensiero e di azione di altri popoli);
l’egocentrismo (l’imposizione di norme non accettabili alle altre culture) e infine l’etnocentrismo (quando la
propria cultura è considerata superiore rispetto ad altre ‘inferiori’).26 Inoltre, a queste tecniche ricordate da
21
Ibidem, pp. 70-71.
DIAMOND afferma: “La sfida è quella di trattare la storia dell’umanità come una scienza, alla pari di scienze a carattere storico
come l’astronomia, la geologia e la biologia evolutiva”, Armi, acciaio e malattie, op. cit. p. 315.
23
Per una descrizione accurata e documentata su basi scientifiche e reperti archeologici dell’interazione tra geologia, ambiente fisiconaturale e i primi abitanti umani del Mediterraneo cfr. C. BROODBANK, Il Mediterraneo, op. cit. in particolare i cap. I-V. Broodbank
dimostra come l’alterazione dell’ambiente, della flora e della fauna – compresa l’estinzione di alcune specie di animali – sia
cominciata già dai primi insediamenti umani.
24
C. Wulf, Anthropologie. Geschichte, Kultur, Philosophie, Reinbeck, Rowohlt, 2004; trad. it. Antropologia dell’uomo globale.
Storia e concetti, Torino, Boringhieri, 2013, p. 18.
25
Ibidem, p. 36.
26
Ibidem, pp. 146-­‐7. 22
7 Wulf, occorre aggiungere l’ideologia nazionale che postula una differenza naturale tra connazionali e
stranieri. In pratica, le società moderne, democratiche e culturalmente progredite, hanno escogitato elaborati
sistemi di discriminazione meno violenti di quelli tribali, ma non meno crudeli.
Vediamo ora il problema della progressiva affermazione dell’inglese come lingua universale. Wulf
ricorda l’insegnamento di Humboldt che considerava linguaggio e pensiero come strettamente correlati,
perché il linguaggio è l’organo costitutivo del pensiero, è una sintesi di cognizione e comunicazione,
pertanto si parla-pensa insieme. Si può dunque temere che la globalizzazione stia producendo una radicale
semplificazione della pluralità culturale umana. “Da un punto di vista globale, afferma Wulf, è probabile che
in questo secolo scompariranno centinaia di lingue e si assisterà a una vera e propria riduzione della varietà
dello ‘spirito umano’. Si profila all’orizzonte una nuova lingua universale promossa dalle tendenze
omogeneizzanti della globalizzazione: essa, nonostante una crescente resistenza, finirà per ridurre la diversità
culturale”27. Si tratta di un processo secolare che è già iniziato con la formazione dello stato nazionale, che
ha distrutto quasi completamente le lingue regionali e locali, nonostante il recente revival di molte culture
regionali in Europa. Per quanto riguarda la globalizzazione, è bene tener presente che si potrebbe attenuare il
problema mediante l’adozione del bilinguismo, che sembra anche favorire lo sviluppo cognitivo dei bambini
in età pre-scolare e scolare. Con la globalizzazione, la perdita della diversità culturale non dovrebbe pertanto
risultare drammatica.
Infine, la conclusione metodologica di Wulf è interessante. “Il sapere antropologico – afferma – non
è unitario né dal punto di vista metodologico e teorico, né dal punto di vista tematico. Esso è
transdisciplinare, transnazionale e plurale. Il presupposto della ricerca antropologica non è la riduzione, ma
piuttosto l’aumento della complessità. … Il sapere intorno all’uomo può avere esclusivamente un carattere
frammentario e, nel suo insieme, l’essere umano non può che restare nascosto a se stesso. … non può
esistere un unico concetto di uomo: questa consapevolezza costituisce una condizione costitutiva
dell’antropologia”28. In definitiva, se l’antropologia deve, nonostante i metodi scientifici di ricerca adottati,
rinunciare a definire un unico concetto di uomo, è legittimo affermare che anche la storia, che è il risultato di
innumerevoli azioni umane, a volte coerenti e consapevoli, a volte irrazionali e violente, non può che
generare un processo aperto. Un processo aperto può tuttavia sfociare in tragedia o in un ordinamento ancora
più progredito, perché meno violento e più razionale di quello esistente. Per questo non possiamo fare a
meno di interrogare la storia con “schemi ad hoc” per agire e “progredire verso il meglio”.
3. Barbarie e civiltà
Abbiamo visto come la fine della guerra fredda abbia aperto una fase di ripresa del nazionalismo su
scala mondiale ed europea a causa della disgregazione dell’URSS e dell’inevitabile formazione di un sistema
multipolare, senza alcun centro di gravità possibile, poiché gli Stati Uniti non hanno il potere di svolgere il
ruolo di gendarme del mondo (o di super-potenza egemonica mondiale), mentre le nuove potenze emergenti
(Cina, India, Indonesia, Brasile, Messico, Sud Africa) e le vecchie (Russia e Giappone), cercano di allargare
la rispettiva area di influenza e di potere su scala regionale. Lo scontro tra grandi potenze è solo attenuato dai
vantaggi reciproci che tutte ottengono dal processo di globalizzazione. Si tratta di una situazione
contraddittoria e tendenzialmente instabile nel lungo periodo, se il dogma della sovranità nazionale
continuerà a dominare i rapporti politici internazionali.
Albertini aveva lucidamente analizzato la condizione in cui si sarebbe trovata l’umanità se non fosse
stata capace di superare la cultura della guerra: il ritorno alla barbarie. Nel secolo scorso era impossibile dire
di più. Oggi osserviamo una società civile interdipendente su scala mondiale, mentre la politica nazionale
continua ad alimentare la corsa alle armi di distruzione di massa, alla perpetuazione del divario tra ricchi e
poveri, al sospetto verso lo straniero, al rifiuto di cooperare con altri governi nazionali per la soluzione di
problemi comuni, quando la loro soluzione richiederebbe cessioni di sovranità, e al ricorso alla violenza
militare, quando la diplomazia fallisce. E’ questo un terreno fertile per gruppi politici che rifiutano un ordine
internazionale dominato da vecchie e nuove potenze. La rivolta inizia con l’organizzazione, su base religiosa
o etnica, di gruppi armati che usano le tecniche del terrorismo o, se possibile, la creazione di uno stato
terrorista, per sfidare l’ordine neo-imperiale. La cultura della guerra assume vesti nuove, ma nella sostanza si
fonda su un sistema politico che affida allo stato nazionale il potere supremo di vita e di morte sui propri
27
28
Ibidem, p. 311.
Ibidem, p. 373.
8 cittadini e sui cittadini del mondo. Chi giustifica la cultura della guerra, e tutti i governi nazionali lo fanno,
nega il principio di eguaglianza tra gli esseri umani e il loro diritto alla vita.
E’ ora necessario precisare, purtroppo senza l’aiuto di Albertini, cosa intendiamo per civiltà.
Consideriamo alcuni criteri empirici che gli archeologi prendono in considerazione per individuare le civiltà
del passato. Secondo Colin Renfrew29, che riprende ed estende gli studi avviati da Gordon Childe sulla
preistoria europea, la civiltà è un processo di isolamento dalla natura: i centri cerimoniali e di culto
consentono l’isolamento dall’ignoto; la scrittura rappresenta un mezzo per allontanarsi dal passato; infine, la
formazione della città consente di isolare la comunità dal mondo naturale e umano circostante. Questa idea
della civiltà come progressivo isolamento dell’umanità dalla condizione naturale è interessante perché si
accorda con due altre nozioni del processo di civilizzazione. Sigmund Freud30 osserva che la civiltà è
l’insieme degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e servono
a proteggerci contro la natura e per regolare i rapporti tra esseri umani. Tuttavia, la comunità civile, osserva
Freud, rappresenta un potere che si oppone al singolo, perché sicurezza e norme civili di condotta devono
essere garantite per tutti, mentre la libertà del singolo, comprese le sue pulsioni (eros e morte) e i suoi
desideri che non si accordano con l’ordine civile, devono subire delle limitazioni. La tesi di Freud è oggi
importante per comprendere come il confronto tra popolazioni che sostengono di appartenere a diverse
civiltà e che ritengono di identificarsi in valori in parte differenti da altre civiltà possa sfociare in contrasti e
conflitti violenti e come il superamento di questi contrasti rappresenti una nuova tappa del processo di
civilizzazione. La seconda concezione del processo di civilizzazione è di Norbert Elias31 che mostra come,
nella lunga fase che dal medio evo giunge sino alla costruzione dei primi stati nazionali monarchici
dell’Europa centrale, gli individui abbiano dovuto cambiare radicalmente i loro comportamenti quotidiani,
prima fondati sulle rozze e incivili abitudini dei servi della gleba, in modi cortesi e civili, sia nella vita
privata – nell’igiene personale o a tavola – sia in società, grazie a un controllo sempre più severo del potere
pubblico. “La monopolizzazione della costrizione fisica – afferma Elias – costringe gli uomini inermi che
vivono negli spazi pacificati, ad un atteggiamento controllato delle proprie capacità di previsione e di
riflessione; in una parola, li costringe in misura più o meno elevata a dominare se stessi”32. Il processo di
civilizzazione descritto da Elias non sarebbe mai avvenuto in Europa senza la centralizzazione del potere
politico su spazi nazionali e il continuo confronto, anche bellico, tra gli stati. Tuttavia, il processo di
integrazione tra le differenti culture e civiltà nazionali su scala mondiale non deve necessariamente seguire
lo stesso percorso, con scontri armati tra grandi potenze. E’ possibile apprendere dalla storia.
Le analisi di Freud e di Elias ci consentono di comprendere perché la civiltà umana richieda la
formazione di una rete di norme in parte spontanee e in parte istituzionalizzate che includono gradi più o
meno elevati di coercizione ai comportamenti di singoli individui. Il superamento dei contrasti tra differenti
culture e civiltà richiederà pertanto periodo lunghi e la creazione di istituzioni sovranazionali – non
necessariamente una federazione mondiale subito – almeno tra un gruppo importante di grandi potenze per
guidare verso uno sbocco pacifico l’intera comunità internazionale. Qui ci limitiamo a ricordare tre problemi
per mostrare la complessità delle sfide che attendono i governi e i popoli di buona volontà.
Il primo problema riguarda la sicurezza. La creazione di uno Stato Islamico in Medio Oriente, che
alimenta una feroce guerra interreligiosa e il terrorismo ovunque – in Europa, negli USA, in Africa e in Asia
– ha fatto esplodere un incendio che covava sotto le ceneri da tempo. Conflitti etnici e interreligiosi si erano
manifestati su scala minore in Africa (Rwanda, Nigeria, Ciad, Somalia), nel Caucaso (Nagorno Karabakh,
Cecenia), in Europa (tra le Repubbliche della ex-Jugoslavia), nel sub-continente indiano (tra Hindu, Sikh e
Cristiani, in Pakistan e Sri Lanka), in Cina (Uiguri, Tibetani). Questi conflitti hanno accelerato e amplificato
movimenti migratori già in corso, rendendo molto difficile il loro assorbimento in Europa e negli altri paesi
industrializzati. La sicurezza era nel passato garantita da armamenti militari convenzionali e da armi
atomiche possedute dai governi nazionali. Ora la difesa delle frontiere nazionali non è più garantita dalle
armi, sebbene il loro uso venga invocato da partiti nazionalisti vecchi e nuovi. L’involucro nazionale entro il
quale si è potuto sviluppare lo stato democratico si è lacerato. Per ora, i governi nazionali cercano a fatica di
conciliare le richieste di misure eccezionali, al limite la proclamazione dello stato di emergenza, con la difesa
29
C. RENFREW, The Emergence of Civilisation. The Cyclades and the Aegean in the Third Millenium BC, Oxford, Oxbow Books,
1972; qui riprendiamo la sintesi delle tesi di Renfrew in M. MANN, The Sources of Social Power, Cambridge, Cambridge University
Press, 20122, vol. I, p. 74. 30
S. FREUD, Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Boringhieri, 2012.
31
N. ELIAS, Über der Prozess der Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt, 19803; trad. it. Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione, vol.
II, Bologna, Il Mulino, 2010.
32
Ibidem, op. cit, p. 312. 9 dei diritti fondamentali. Tuttavia, i governi non hanno il coraggio di mettere in discussione la causa
all’origine della nuova barbarie: un ordine internazionale fondato sul principio della violenza legittimata
dallo stato. Gli stati nazionali e i gruppi armati che riescono a organizzarsi su base territoriale, come ha fatto
lo Stato Islamico, possono provocare il terrore ovunque, poiché non esiste alcuna base giuridica per impedire
la loro azione omicida contro civili inermi. Il modello originario di questo tipo di violenza è il nazionalismo,
come giustamente fa notare Arjun Appadurai: “una volta che il progetto della supremazia tedesca
(Germanness) venne definito in termini etno-razziali e la logica della purezza entrò in gioco, una quantità di
minoranze divenne il centro dell’odio per la loro incompleta purezza: omosessuali, anziani, infermi, zingari
e, soprattutto, ebrei”33. Questo fenomeno, definito da Appadurai, identità predatorie, è generato dalla cultura
dello stato nazionale e può essere estirpato solo con l’integrazione democratica tra stati e lo sviluppo di
politiche sovranazionali per superare le divisioni tra popoli di etnia e religione differenti. Un grande piano
mondiale per la cooperazione pacifica e lo sviluppo è un traguardo raggiungibile, a patto che si metta in
discussione la cultura della guerra.
Il secondo problema riguarda l’esorbitante influenza del processo di globalizzazione e del mercato
mondiale sulle politiche nazionali. La crisi finanziaria del 2008 è stata generata negli Stati Uniti anche con la
complicità del governo federale34, che ha ceduto al mito dei mercati finanziari efficienti e autoregolantisi. La
crisi ha avuto un impatto nefasto sulla fragile Unione europea e sulle economie emergenti e ha messo a nudo
l’incapacità dei governi nazionali di difendere i livelli di benessere e di giustizia sociale esistenti. La
globalizzazione finanziaria ha fatto dimenticare il principio della tassazione diretta e progressiva sui redditi.
Crescono le diseguaglianza tra cittadini ricchi e poveri, mentre si moltiplicano i paradisi fiscali, dove trovano
rifugio enormi ricchezze. Inoltre, lo strapotere del mercato globale sulla politica nazionale si manifesta su
altri fronti. La globalizzazione favorisce la criminalità organizzata, il terrorismo, la circolazione degli
armamenti e causa l’incapacità dei governi nazionali di controllare gli effetti negativi dello sviluppo
tecnologico. Si consideri, ad esempio, lo sviluppo dell’ingegneria genetica. E’ ormai possibile il geneediting, grazie alla tecnica Crispr che consente di manipolare il DNA in modo tale da rendere irreversibile ed
ereditaria la nuova struttura genetica di un individuo. Queste tecniche possono naturalmente essere usate per
eliminare malformazioni genetiche in alcuni individui, ma possono anche essere usate per finalità meno
nobili o criminali. Già le tecniche di fecondazione artificiale hanno creato un supermercato globale della
genetica, che nessuna legislazione internazionale regola. E’ pensabile che i governi nazionali, ancora sedotti
dalla cultura della guerra, si accordino per regolare, nel rispetto dei diritti fondamentali, un mercato da cui
loro stessi possono acquisire poteri per un eventuale miglioramento della ‘razza’ nazionale? Infine, va
ricordato l’allarme sollevato da Marta Nussbaum sulle decisioni dei governi di ridurre i finanziamenti
culturali alle humanities per dirottarli a favore delle discipline tecnico-scientifiche. “Gli studi umanistici e
artistici – scrive Nussbaum – vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella
universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in
cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serve a restare competitivi sul mercato globale, essi
stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e
allievi”35. Questa tendenza mette a rischio la stessa democrazia, perché l’aspetto critico, creativo e inventivo
delle discipline umanistiche è indispensabile per la formazione del cittadino.
Il terzo problema riguarda la possibile estinzione della vita sulla Terra. Esiste una sterminata
letteratura sull’argomento, alimentata da saggi scritti da scienziati allarmati e da rapporti di università e di
organizzazioni internazionali. L’effetto serra sta provocando un innalzamento della temperatura media
dell’atmosfera che, se non contrastato, può raggiungere livelli letali. Il destino della biosfera, la nicchia
ecologica in cui si è sviluppata la specie umana, potrebbe essere simile a quello di Marte, con la
trasformazione del Pianeta in un arido deserto. Inoltre, meno noto è un effetto altrettanto drammatico del
riscaldamento globale, vale a dire la rapida scomparsa di molte specie animali, dalla macro fauna agli insetti,
tanto che si prospetta come inevitabile una sesta estinzione36. Anche in questo caso i cittadini del mondo
assistono, da decenni, a una serie interminabile di conferenze al vertice con capi di stato e di governo che
promettono di mettere l’intera struttura produttiva del Pianeta sul sentiero di uno sviluppo sostenibile.
33
A. APPADURAJ, Fear of Small Numbers. An Essay on the Geogrphy of Anger, London, Duke University Press, 2006; p. 55.
Nel 1999, il Presidente Clinton ha abolito il Glass-Steagall Act, voluto da Roosevelt per separare le banche commerciali da quelle
speculative. 35
M. C. NUSSBAUM, Not for Profit. Why Democracy Needs the Humanities, Princeton, Princeton University Press, 2010; trad. it. Non
per profitto, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 22.
36
E. KOLBERT, The Sixth Extinction. An Unatural History, New York, Henry Holt and Co., 2014; trad. it. La sesta estinzione,
Vicenza, Neri Pozza, 2014.
34
10 Tuttavia, gli stessi capi di stato e di governo si ritrovano dopo qualche anno per costatare desolati che gli
obiettivi che si sono dati non sono stati raggiunti. Si giustificano con il fatto che vi sono state emergenze più
importanti da affrontare, come guerre e crisi economiche. Alla fine, per evitare di essere biasimati, fanno
ulteriori solenni promesse che naturalmente non manterranno: loro hanno altre priorità, poiché il collasso
della biosfera avverrà quando non saranno più al potere. Può darsi che l’umanità riesca a salvarsi grazie alla
scoperta di tecnologie pulite, a nuove abitudini ‘ecologiche’ dei cittadini e alla buona volontà delle
organizzazioni non governative, ma per il momento un piano mondiale per lo sviluppo sostenibile
dell’economia mondiale non compare tra le priorità dei governi nazionali. Come una nuova dea dell’Olimpo,
l’umanità ha acquisito il potere di distruggere la natura. Se la cultura della morte dominerà incontrastata,
l’estinzione dell’umanità e di tutte le altre specie viventi sarà solo una questione di tempo.
Di fronte a queste emergenze chiedersi se l’umanità avrà un futuro è necessario. Gli intellettuali
sembrano disorientati. Alcuni filosofi37 osservano sconcertati che nell’epoca della globalizzazione, proprio
quando è possibile cogliere il senso della storia come un processo unitario, nessuno crede più che la storia
abbia un corso intelligibile. Eppure ogni individuo, ogni giovane, non può fare a meno di chiedersi se la sua
vita abbia un senso; ed è molto difficile dare un senso alla propria vita, in particolare se si cerca di
individuare un bene comune da perseguire, se non si può dare un senso alla storia38. Nel passato si credeva
che la storia avesse un senso quando si potevano individuare alcuni soggetti storici cruciali – la provvidenza
divina, gli imperi, gli stati, i popoli, le classi, le nazioni – in grado di imprimere una direzione agli eventi. Se
la storia non ha alcun senso, prevalgono il disorientamento, la mancanza di fiducia nel futuro, il nichilismo e
la barbarie39. Anche per questo la politica si degrada agli occhi dei cittadini. La lotta per il potere nazionale
non si accompagna più alla responsabilità: chi è eletto può solo fare promesse vaghe su problemi marginali,
risolvibili nel breve periodo. I progetti globali per il governo del mondo, gli ideali cosmopolitici delle grandi
ideologie, sono dimenticati. La crisi delle ideologie tradizionali impoverisce il dibattito politico e apre la via
a pulsioni irrazionali. Per reagire alla barbarie occorre progettare le istituzioni per una civiltà che sia
condivisa da tutti i popoli, al di là delle singole civiltà – orientali e occidentali – oggi esistenti. Si tratta, in
sostanza, di operare attivamente per far emergere un modo di sentire, di pensare e di agire cosmopolitico,
con progetti concreti per costruire le prime istituzioni sovranazionali della comunità umana.
4. Il federatore e la frusta federalista
Albertini non è mai stato un accademico nel senso tradizionale del termine. Ha sempre unito nella
sua vita pensiero e azione. Come dirigente federalista ha elaborato una strategia per la costruzione della
Federazione europea in termini originali, sia nei confronti dell’approccio gradualistico di Monnet sia nei
confronti del costituzionalismo di Spinelli. Nel 1962, in una fase difficilissima della vita del MFE e
dell’UEF, in occasione della proposta di de Gaulle per una confederazione europea, scriveva: “Eppure manca
ancora, come ha constatato proprio de Gaulle, il ‘federatore’. Sulla unificazione europea grava lo stesso
destino che gravò, nel secolo scorso, sull’unificazione italiana. Si trattava di un problema semplice e
terribile. … Semplice, perché era semplice capire che l’Italia era divisa dagli stati regionali, e che poteva
unirla solo uno stato italiano. Terribile, perché era terribile per la classe dirigente capire una politica – la
37
R. BODEI, Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti e Vitali, 1997.
KARL POPPER in un saggio su Kant, (“La liberazione di sé mediante il sapere” in Alla ricerca di un mondo migliore, Milano,
Armando, 1989, pp. 137-49), sostiene che per Kant l’idea decisiva dell’illuminismo consisteva nella liberazione di sé mediante il
sapere, idea che avrebbe reso l’individuo consapevole della dignità della propria esistenza. Senso della vita e senso della storia sono
due idee strettamente collegate. Popper afferma che una risposta alla domanda, “cosa devo fare?” è data “dalle idee kantiane di
libertà e d’autonomia e dalla sua concezione di un pluralismo limitato essenzialmente solo dall’idea d’uguaglianza davanti alla legge
e dall’attenzione alla libertà degli altri uomini; idee che possono contribuire, come quella della liberazione di sé mediante il sapere, a
conferire un senso alla nostra vita. In maniera simile stanno le cose con l’espressione ‘il senso della storia’. … In luogo di
interrogarci su un senso o uno scopo intimo, recondito della storia politica del mondo, dobbiamo chiedere a noi stessi quali mete
della storia politica universale siano tanto degne dell’umanità quanto politicamente possibili” (pp. 138-9).
39
Ogni giorno i mass media trasmettono immagini crudeli di eccidi, genocidi e atrocità di ogni genere commesse in nome di ideali
patriottici, etnici, religiosi o di altre ideologie, ma omettono di dire che l’ordine internazionale nel quale viviamo legittima la
violenza in politica. E’ necessario ricordare che la co-evoluzione gene-cultura ha consentito all’umanità di costruire ciò che noi
designiamo come civiltà, nel senso di un vivere civile all’interno di un potere statale. Tuttavia la costituzione genetica dell’umanità
non è mutata in homo sapiens così che i comportamenti che hanno indotto l’uomo dell’età della pietra al cannibalismo e allo
sterminio (oggi genocidio) dei propri nemici pur di evitare una possibile vendetta, sono ancora latenti nell’umanità contemporanea e
si manifestano con raccapriccio quando le istituzioni della vita civile vacillano (per una documentata indagine sulla violenza nella
preistoria e nella storia cfr. S. PINKER, The Better Angels of our Nature. Why Violence has Declined, Viking Penguin, London, 2011).
38
11 politica dell’unità d’Italia – che comportava la messa in pericolo, la riduzione o addirittura la distruzione
delle proprie posizioni di potere. I moderati seppero – dopo lunghe esitazioni – fare questa politica. Ma
furono indubbiamente aiutati dalla frusta mazziniana, dall’azione di una piccola classe politica rivoluzionaria
che si basava più sulle forze morali e culturali che su una situazione di potere. Qualche cosa di simile vale
per l’unità europea. Essa è frenata dal fatto che l’ostacolo sta proprio dove dovrebbe esserci il motore:
nell’ambito della classe politica. Il problema sarà quindi risolto solo se i federalisti sapranno maneggiare nel
futuro la frusta federalista – sinora non sono riusciti – e solo se le forze culturali e morali, superando lo
scetticismo che attualmente le tiene lontane da ogni politica ideale e a lungo termine, sosterranno questa
frusta federalista”40.
Questa citazione ci consente di esprimere alcune considerazioni sulla strategia e l’azione dei
federalisti grazie a due concetti chiave: quello di federatore e di frusta federalista; lo scopo è di precisare in
cosa consista la “forza” dei federalisti, un movimento politico che non lotta per la conquista di un potere
nazionale e si basa unicamente sul volontariato: è una avanguardia politico-culturale. Cominciamo con il
federatore, un concetto introdotto da de Gaulle nel linguaggio politico per contrastare la proposta di un
parlamento europeo eletto dai cittadini, che avrebbe avuto il potere di legiferare “contro” i parlamenti
nazionali, unica espressione genuina della volontà popolare, dunque delle nazioni. Un Parlamento europeo
eletto avrebbe esercitato un potere esterno, come una potenza egemonica sui popoli nazionali. Questa
interpretazione del ruolo del federatore è maliziosa ed errata, tuttavia il concetto di federatore è utile per
comprendere come sia possibile la transizione da un insieme di stati sovrani a una federazione. Jean Monnet
ha proposto, con intelligente realismo, la CECA come federatore, nella impossibilità di far accettare subito
dai governi europei una istituzione dotata dei poteri economici, militari e di governo sul modello degli Stati
Uniti d’America. Altiero Spinelli e i federalisti hanno perseguito la via della costituente, perché la
fondazione di uno stato federale avrebbe dovuto seguire una procedura democratica, dunque una costituente,
dove si esprimono i rappresentanti dei cittadini europei.
Appena avviata l’unificazione europea, Spinelli propose con audacia una costituente europea in
occasione del progetto della Comunità Europea di Difesa. La proposta fu accettata dai governi europei e
venne effettivamente convocata una costituente europea, ma alla fine il Trattato per una Comunità Politica
Europea fu bocciato dalla Francia nel 1954. Il processo d’integrazione europea riprese con la Comunità
Economica Europea (1957), che Spinelli considerò una “beffa” e, per questo, rilanciò la lotta per una
costituente europea con la campagna per il Congresso del Popolo Europeo (CPE). I federalisti organizzarono
in numerose città europee delle elezioni dirette per un Congresso europeo, grazie al quale le personalità
elette avrebbero chiesto e preteso, in nome del popolo europeo, ai governi nazionali la convocazione di una
assemblea costituente europea. Tuttavia, nonostante lo sforzo organizzativo dell’UEF, il Congresso non fu in
grado di imprimere una svolta democratica al processo di unificazione europea. I federalisti presero atto che
la loro strategia doveva essere rivista. In questa prima fase di lotta, il federalismo organizzato aveva tentato
di svolgere il ruolo di federatore. Ora, grazie al successo della Comunità economica europea, non si
potevano più ignorare le istituzioni europee e il loro consenso presso l’opinione pubblica.
La lotta riprese grazie all’iniziativa dei federalisti italiani che proposero, prima, di sfruttare i Trattati
per chiedere l’elezione diretta del Parlamento europeo e, poco dopo, di creare una Unione Economica e
Monetaria, con una Banca Centrale europea e un governo federale europeo. Nel corso degli anni Settanta,
dopo una serie di iniziative per premere sui parlamenti nazionali, sui governi e sulle istituzioni europee,
finalmente i federalisti ottennero sia l’elezione diretta del Parlamento europeo, sia il primo passo verso la
moneta europea, il Sistema Monetario Europeo (SME). Il 1979 fu un anno di svolta, grazie alla prima
elezione europea e all’elezione di Spinelli nel Parlamento europeo. La trasformazione del Parlamento
europeo in una assemblea costituente sembrava ora a portata di mano ed effettivamente, nel 1984 il
Parlamento europeo approvò il progetto di Trattato di Unione Europea, in sostanza, una costituzione federale
per il governo dell’Unione Economica e Monetaria (la difesa, in una fase transitoria, era lasciata ai governi
nazionali). Dopo questi successi, il metodo del “gradualismo costituzionale” appariva come la risposta
adeguata per indirizzare il processo di integrazione verso l’obiettivo della federazione41.
Nel secolo XXI, in un frangente drammatico, come quello in cui il futuro dell’Unione europea è in
pericolo, i federalisti devono affrontare una duplice sfida. La prima è di natura politico-organizzativa. Dopo
la vittoria ottenuta nel Parlamento europeo con il Progetto Spinelli, nonostante il rifiuto del Consiglio di
M. ALBERTINI, Tutti gli scritti, op. cit., vol. IV, pp. 141-2. Su metodo del gradualismo costituzionale cfr. M. ALBERTINI, “Elezione europea, governo europeo e stato europeo” in Il
Federalista, 1976, pp. 200-12. 40
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12 approvare il progetto di Unione, il ruolo di federatore è passato nelle mani del Parlamento europeo, che è
riuscito anche a conquistare il potere di promuovere la convocazione di una nuova Convenzione e dove il
Gruppo Spinelli dei parlamentari federalisti continua l’azione per una riforma federale dell’Unione. La
capacità di utilizzare la frusta da parte del federalismo organizzato si è così affievolita, perché i cittadini
sanno che le decisioni sul futuro dell’Unione spettano, oltre che ai governi nazionali, ai loro legittimi
rappresentanti nel Parlamento europeo. Le lezioni europee sono diventate il momento in cui si mobilita e si
esprime la volontà del popolo delle nazioni europee. Per i federalisti la capacità di mobilitazione diretta dei
cittadini è limitata a iniziative simboliche. Occorre prendere atto che la forza dei federalisti, un movimento
autonomo dai partiti politici, è di natura morale e progettuale, non esecutiva.
La seconda sfida riguarda i rapporti tra politica europea e politica mondiale. Nel 1980, al Congresso
di Bari del MFE, Albertini ha presentato delle tesi su “Unire l’Europa per Unire il mondo”, anticipando molti
dei temi che la globalizzazione incipiente stava mettendo all’ordine del giorno: per Albertini era necessario
un nuovo pensiero politico “per la sopravvivenza e il futuro del genere umano”. Le tesi di Bari consentirono
ai federalisti europei di rinnovare la politica di reclutamento dei giovani e di avviare i primi contatti con il
World Federalist Movement (WFM), che era stato fondato nel 1946 a Montreux, contemporaneamente
all’Unione Europea dei Federalisti (UEF). Tuttavia, le priorità della lotta per l’unificazione europea,
impedirono che si sviluppasse un’efficace azione congiunta mondiale. Di fatto, lo slogan “Unire l’Europa per
unire il mondo” è stato interpretato come una politica in due tempi: prima l’Europa poi il mondo. Ora, la
crisi dell’ordine internazionale mostra che la ripresa mondiale del nazionalismo ha inciso profondamente
anche sul processo di unificazione europea. I capi di governo dei paesi dell’UE si comportano come attori
primari di grandi, o piccole, potenze mondiali, rifiutano di affidare all’Unione i poteri di governo necessari
per superare la crisi, pur di difendere meschini privilegi nazionali della classe politica e della burocrazia. In
un mondo dominato da potenze continentali, come gli USA, la Cina, l’India, la Russia, ecc., i governi
europei discutono per anni se riformare o meno il sistema bancario, se aiutare o meno i paesi dell’unione
monetaria in difficoltà, e così via sino alla tragedia dei rifugiati e degli immigrati, vittime innocenti della
miopia europea. Anche l’ignavia produce barbarie.
Che fare? Un primo passo per uscire da questo dilemma potrebbe consistere nel riconoscere che
“Unire l’Europa per unire il mondo” non può essere disgiunto da una politica di unificazione mondiale. Lo
slogan “Unire il mondo per unire l’Europa” non ha senso in questa fase politica, ma è comunque vero che un
mondo diviso da un crescente nazionalismo è un pericolo mortale anche per un’Europa governata da
dirigenti incapaci di reagire al nazionalismo. La via da percorrere è dunque “Unire l’Europa e unire il
mondo” contemporaneamente. Questa politica è possibile se si arricchiscono i contenuti della politica estera
europea con progetti concreti per la sicurezza internazionale – che si dovrebbe fondare sempre più su un
ruolo attivo dell’ONU, anche di natura militare –, per la riforma dell’ordine economico mondiale, incluso un
sistema che assicuri la stabilità monetaria, finanziaria e il superamento del divario tra paesi ricchi e poveri.
Infine è necessario affrontare il drammatico problema del collasso ecologico incombente mediante un piano
vincolante per lo sviluppo sostenibile dell’economia mondiale. Progetto concreti per unire il mondo
rafforzeranno anche il fronte politico favorevole a un’Europa federale.
Una strategia federalista globale non può scaturire solo da un dibattito interno ai federalisti europei:
serve un dibattito mondiale, perché è necessario porre tra gli obiettivi morali e culturali della nuova politica
la creazione di una civiltà cosmopolitica. E’ necessario un dialogo tra le grandi civiltà continentali e le
maggiori religioni mondiali. In pratica, è necessario riformare il World Federalist Movement o fondare una
Unione mondiale dei federalisti, affinché raggiunga una efficace capacità di azioni su scala intercontinentale.
La storia del federalismo in Europa è stata fondata su presupposti che oggi sarebbero considerati
‘cosmopolitici’. Il Manifesto di Ventotene inizia così: “La civiltà moderna ha posto come proprio
fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma
un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo
storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero”. E’, su questa base, che è stata tracciata la
linea di divisione tra progresso e reazione, tra federalismo e nazionalismo.
I federalisti devono affermare, contro tutti gli scettici, i profeti di sventura, i nichilisti e i propagatori
della crisi della ragione, che un senso della storia esiste, che il progresso è possibile42 mediante la
42
I. KANT, nel saggio “Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio” (in N. BOBBIO, L. FIRPO, V. MATHIEU (a cura di),
Scritti Politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet, 1965, pp. 213-228), ammette che il progresso umano non segue
affatto un andamento lineare, ma che fasi di regresso, anche lunghe, si possano manifestare. Tuttavia, a proposito della rivoluzione
francese osserva che gli spettatori hanno manifestato “una partecipazione d’aspirazioni che rasenta l’entusiasmo” e che “il vero
entusiasmo si riferisce solo e sempre a ciò che è ideale, a ciò che è puramente morale …un tale fenomeno nella storia dell’umanità
13 costruzione di una civiltà cosmopolitica come sola risposta ragionevole alla barbarie e alla violenza
dilaganti. Le forze attive su questo fronte sono consistenti. Basti pensare alle migliaia di organizzazioni
internazionali di volontari che si dedicano a scopi umanitari e che colmano i vuoti finanziari, organizzativi e
morali degli stati nazionali. Sono questi i primi alleati dei federalisti, un’avanguardia politica che non si
rassegna a un mondo violento e senza futuro. Se la frusta federalista schioccherà forte, e se verrà individuato
come obiettivo politico un federatore mondiale all’interno dell’ONU, i partiti e i governi seguiranno.
non si dimentica più, poiché ha rivelato nella natura umana una disposizione e un potere per il meglio tale che nessun uomo politico
ha potuto fino a oggi desumerlo dal corso delle cose” (p. 219 e p.222). E’ su questa base morale che si deve fondare la lotta politica
per la creazione di una civiltà cosmopolitica. I popoli di tutti i paesi civili, nonostante le loro differenti culture, hanno appreso per
esperienza diretta che il vivere civile, dunque entro un ordine politico che punisce la violenza tra individui e difende i diritti
fondamentali, è un progresso rispetto a uno stato di barbarie. Il ricordo della condizione civile, sebbene vissuta per un periodo
transitorio, sino a che gli stati nazionali convivevano più o meno pacificamente in spazi isolati, alimenta la speranza di una sua
estensione allo spazio cosmopolitico. Questa esperienza dei popoli civili, oggi minacciata dalla situazione di crescente violenza
internazionale, non si dimentica più.
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