Dol ore torac ic o: migl iore progn osi con sistol ic a elevat a Nei pazienti con dolore toracico acuto i valori di pressione sistolica misurati in posizione supina, registrati al momento del ricovero ospedaliero, risulterebbero inversamente associati all'incidenza di mortalità a un anno. L'osservazione, pubblicata su Jama, è di alcuni ricercatori svedesi della Linköping University che, utilizzando il Risks-hia (Registry of information and knowledge about swedish heart intensive care admissions), hanno per la prima volta indagato la relazione tra pressione sistolica in condizioni di stress ed esiti clinici. Dal registro sono state estrapolate informazioni relative a circa 120mila pazienti, ricoverati in unità di terapia intensiva per dolore toracico tra il 1997 e il 2007. Quattro i gruppi considerati: Q1, sistolica inferiore a 128 mm Hg; Q2, compresa tra 128 e 144 mm Hg; Q3, compresa tra 145 e 162 mm Hg e Q4, pari o superiore a 163 mm Hg. Ebbene, dopo gli aggiustamenti per età, sesso, pressione diastolica, impiego di antiipertensivi e anticoagulanti, la migliore prognosi è stata riscontrata nel quartile Q4. In questi pazienti il rischio assoluto di decesso a un anno è apparso inferiore del 21,7% rispetto a quelli del quartile Q2. Ciò anche quando l'analisi è stata ristretta a un sottogruppo di pazienti con diagnosi di angina o infarto miocardico. L'indagine prospettica ha, poi, consentito di stimare una riduzione del suddetto rischio del 15,2% nel gruppo Q3 rispetto a Q2 e un aumento pari al 40,3% in Q1 rispetto a Q2. JAMA. 2010 Mar 24;303(12):1167-72 R imodel l amen t o cardiaco men o efficien te nel le don ne Le differenze tra uomo e donna si hanno anche nella capacità di riprendersi da un infarto miocardico grazie al rimodellamento cardiaco; le donne, per essere esatti, sembrano caratterizzate da un rischio maggiore di andare incontro a scompenso rispetto ai maschi. È quanto risulta da uno studio multicentrico appena pubblicato sull'American journal of cardiology, in cui si sono analizzate le differenze di genere nelle relazioni tra i parametri ecocardiografici di rimodellamento e gli esiti clinici in pazienti con angina cronica stabile. Nello studio Action, su 7.016 pazienti, sono stati misurati la frazione d'eiezione alla baseline, il volume telediastolico e quello telesistolico. La mortalità da tutte le cause, cardiaca e lo scompenso cardiaco incidente sono stati determinati dopo una mediana di 5 anni. Ed ecco i risultati. L'associazione tra frazione d'eiezione e mortalità si è rivelata differente in modo significativo tra uomini e donne, con un aumento più marcato del rischio in queste ultime al ridursi della frazione d'eiezione, rispetto ai maschi. Inoltre, un'interazione significativa in base al genere si è vista circa l'associazione tra volume telesistolico e il rischio di scompenso. Questi reperti possono aiutare, secondo i ricercatori, nell'identificazione di donne ad alto rischio cardiovascolare. Am J Cardiol, 2010;105(7):943-7 Dal l'alb umin a plasmat ic a l'esit o dell'infart o mioc ardico In pazienti colpiti da infarto miocardico acuto (Ima), la misura nelle 24 ore dell'albumina modificata dall'ischemia (Ami) rappresenta un elemento predittivo forte e indipendente di outcome cardiaco a un anno e potrebbe aiutare a identificare i soggetti che necessitano di un trattamento medico più aggressivo. È la conclusione di un recente lavoro svolto dal French Nationwide OPERA Study. I ricercatori, considerando l'Ami un marker di ischemia piuttosto che di danno cellulare miocardico, hanno ipotizzato che i relativi livelli plasmatici potessero fornire un valore prognostico addizionale ai classici marker di rischio clinico e biologico nei pazienti con Ima. Sono state rilevate le concentrazioni plasmatiche di Ami e altri biomarker cardiaci (troponina, proteina C-reattiva, peptide natriuretico di tipo B) all'ammissione di 471 pazienti ospedalizzati con infarto. L'endpoint composito primario (morte, arresto cardiaco resuscitato, infarto miocardico ricorrente o ischemia, scompenso cardiaco, ictus) si è verificato in 75 (15,6%) pazienti ospedalizzati e in 144 (30,6%) a 1 anno; il 40% dei pazienti nel quartile più alto dell'Ami (>104 IU/mL) ha raggiunto l'endpoint rispetto al 20% del più basso (<83 IU/mL) entro 1 anno. Un'analisi di regressione logistica multivariabile ha identificato 4 elementi predittivi indipendenti di endpoint compositi a 1 anno: concentrazioni plasmatiche di Ami (P=0,01), peptide natriuretico cerebrale (P=0,001), scompenso cardiaco (P=0,005) ed età (P=0,003). Am Heart J, 2010;159(4):570-6 S t at in a migl iora campo visivo nel l'ipercolesterolemic o Nei soggetti con ipercolesterolemia, la riduzione dei lipidi ematici migliora i parametri del campo visivo e i maggiori effetti benefici si ottengono somministrando una statina (la pravastatina, in particolare) piuttosto che ricorrendo a una dieta povera di grassi: e ciò suggerisce che ai fini dei benefici visivi entrino in gioco le azioni pleiotropiche del farmaco. È quanto dimostra uno studio dell'Università di Malaga (Spagna) che ha coinvolto 180 soggetti ipercolesterolemici assegnati in modo randomizzato a un gruppo dieta (pochi grassi) o a un gruppo pravastatina (pochi grassi + 40 mg/die di pravastatina). All'inizio del trial e 6 mesi dopo l'assegnazione del trattamento, tutti i soggetti venivano sottoposti a un test perimetrico computerizzato e a una determinazione della concentrazione plasmatica di glucosio, colesterolo totale, colesterolo HDL, colesterolo LDL e trigliceridi. Dopo 6 mesi, entrambi i gruppi mostravano una riduzione significativa del colesterolo totale, di quello LDL e dei trigliceridi rispetto ai valori basali, e un aumento significativo di colesterolo HDL. Il gruppo pravastatina ha fatto registrare una riduzione significativamente maggiore di colesterolemia totale e LDL rispetto al gruppo dieta. Infine, tutti i parametri perimetrici sono migliorati in entrambi i gruppi dopo l'intervento, sebbene il miglioramento fosse più evidente nel gruppo pravastatina. Atherosclerosis, 2010;209(2):510-4 Esit i peggiori se si rit arda l'angiopl ast ic a Per ridurre il rischio di esiti ischemici avversi o morte, l'angioplastica dovrebbe essere effettuata entro 24 ore dalla comparsa di una sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto St (Nste-Acs). Lo dimostra una nuova ricerca effettuata dall'équipe di P aul S orajja della Mayo Clinic di Rochester, Minnesota, che scrive: «Finora erano disponibili poche informazioni riguardo l'impatto di un ritardo nell'esecuzione di un intervento coronarico percutaneo (PCI) in tali pazienti». I ricercatori hanno ora analizzato i dati provenienti da pazienti con Nste-Acs dell'Acuity trial (età mediana: 63 anni; 73% maschi). Tutti sono stati sottoposti a Pci: 2.197 entro 8 ore dopo la presentazione clinica, 2.740 in un periodo di tempo compreso tra 8 e 24 ore, 2.812 oltre 24 ore dopo la comparsa dei disturbi. Gli autori riportano che i pazienti sottoposti a Pci entro 24 ore dall'insorgenza dei sintomi hanno presentato tassi inferiori a 30 giorni e a 1 anno di morte, infarto del miocardio e ischemia. In particolare, la mortalità a 30 giorni nei gruppi con Pci effettuata entro 24 ore non è andata mai oltre lo 0,8%, mentre è arrivata a 1,7% nei casi di Pci eseguita oltre le 24 ore (p<0,0001). Un ritardo oltre le 24 ore è risultato particolarmente pericoloso per i soggetti ad alto rischio, nei quali la mortalità a 30 giorni è apparsa sostanzialmente raddoppiata. J Am Coll Cardiol, 2010;55:1416-24 Antipertensivi e rischio di infarto miocardico e stroke Di recente sul BMJ ), è stato pubblicato un articolo relativo ad uno studio casocontrollo che ha valutato lʼassociazione tra diversi regimi terapeutici antipertensivi e rischio di infarto miocardico e stroke. I regimi presi in considerazione includevano diuretici+beta-bloccanti (BB), diuretici+ACE-inibitori (ACE-I) o sartani (angiotensin receptor blockers, ARB) e diuretici+calcioantagonisti (calcium channel blockers, CCB). Lʼipertensione non trattata è fortemente associata ad infarto miocardico, stroke e insufficienza cardiaca. Sulla base dei risultati di studi clinici e metanalisi, diverse linee guida raccomandano lʼuso di basse dosi di diuretici sia come monoterapia che in associazione. Tuttavia, non è noto quale sia il farmaco di seconda linea più utile nella prevenzione delle malattie cardiovascolari in pazienti trattati con basse dosi di diuretici e che hanno bisogno di un trattamento aggiuntivo per ottenere un adeguato controllo pressorio. Nello studio, i partecipanti sono stati identificati fra i pazienti arruolati nel Group Health Cooperative. • • I casi erano rappresentati da soggetti di 30-79 anni con ipertensione trattata farmacologicamente e diagnosi di infarto miocardico fatale o non fatale nel periodo gennaio 1989-dicembre 2005 o di stroke fatale o non fatale nel periodo luglio 1989-dicembre 2005. I controlli erano rappresentati da ipertesi sottoposti a trattamento farmacologico e rispondevano agli stessi criteri dei casi, ma non avevano avuto infarto miocardico o stroke. Su 1305 pazienti (211 avevano avuto un primo infarto, 142 un primo episodio di stroke e 952 controlli), 629 sono stati trattati con diuretici+BB, 273 con diuretici +CCB, 403 con diuretici+ACE-I o ARB. • • Rispetto allʼassociazione diuretici+BB, il trattamento con diuretici+CCB è risultato associato ad un rischio maggiore di infarto miocardico (OR 1,93; IC 95% 1,34-2,77), anche dopo aggiustamento per età, sesso, index date, abitudine al fumo e colesterolemia totale (1,98; 1,37-2,87). Il rischio di stroke era simile per entrambi i trattamenti (OR aggiustato 1,02; 0,631,64). Un aumento del rischio di infarto miocardico è stato osservato anche quando la terapia diuretica si limitava ai tiazidici (2,08; 1,41-3,09) e quando venivano esclusi i pazienti con index date anteriore al 1994 (1,95; 1,24-3,08). Rispetto allʼassociazione diuretici+BB, il trattamento con diuretici+ACE-I o ARB potrebbe essere associato ad un rischio inferiore di infarto miocardico e stroke (infarto: 0,76; 0,52-1,11; stroke: 0,71; 0,46-1,10); tuttavia, non è possibile escludere che tale associazione sia stata dovuta al caso. La differenza nel rischio di stroke tra i 2 regimi terapeutici era più marcata quando lʼanalisi veniva limitata allo stroke ischemico (0,56; 0,330,96). • • • Tra i pazienti trattati con diuretici+CCB, il rischio stimato di infarto miocardico aumentava allʼaumentare della dose di CCB (a dose bassa 1,53; 0,82-2,87; a dose alta 2,19; 1,12-4,27), mentre nei pazienti trattati con ACE-I o ARB il rischio stimato di infarto miocardico si riduceva allʼaumentare della dose di ACE-I o ARB (a dose bassa 1,56; 0,77-3,16; a dose alta 0,61; 0,34-1,10). Limitando lʼanalisi ai farmaci più utilizzati per ogni classe, è stato osservato che, rispetto allʼassociazione diuretici+atenololo, lʼuso di diuretici più uno dei due CCB più prescritti si associava ad un aumento del rischio di infarto miocardico (verapamil: 2,24; 1,33-3,77; felodipina: 2,38; 1,16-4,89). Lʼuso di diuretici+lisinopril potrebbe essere associato ad un ridotto rischio di stroke (0,64; 0,39-1,05) e di infarto miocardico (0,81; 0,54-1,22), ma entrambe le stime non sono risultate significative. Nei sottogruppi definiti per età, sesso, livello di glicemia, pressione sistolica pre-trattamento, pressione sistolica trattata e durata dellʼipertensione, rispetto allʼassociazione diuretici+BB, il rischio relativo di infarto miocardico legato allʼuso di diuretici+CCB era simile per tutti i parametri considerati, ad eccezione della durata dellʼipertensione, in quanto lʼassociazione era limitata alla durata più breve rispetto a quella media (p=0,01). Il rischio di stroke era simile in tutti i sottogruppi sia per i trattati con diuretici+CCB sia per i trattati con diuretici+BB. Anche il rischio di infarto miocardico e stroke nei trattati con diuretici+ACE-I o ARB era simile tra i sottogruppi. Secondo i risultati di questo studio caso-controllo condotto su pazienti a rischio relativamente basso, l ʼuso di diuretic i +CCB si assoc ia a d un rischi o maggi ore di infart o mi oc ar di c o rispet t o a l le assoc ia zi oni diuretici + B B o diuretic i +AC E-I o ARB . Questi risultati supportano le linee guida del National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE), che non raccomandano lʼassociazione diuretici+CCB. Bogel-Megiddo I et al. Myocardial infarction and stroke associated with diuretic based two drug antihypertensive regimens: population based case-control study. BMJ 2010; 340: c103; doi:10.1136/bmj.c103. Trial interrot ti in anticipo, dati positivi spes s o esagerati Interrompere i trial clinici in anticipo per gli effetti chiaramente positivi dei trattamenti presi in esame? Una scelta a volte prematura, perché spesso basata sullʼesagerazione dei dati positivi. La denuncia arriva dal Journal of the American Medical Association. La meta-analisi dei ricercatori della Mayo Clinic coordinati da Victor M. Montori ha preso in esame 91 trial clinici interrotti e li ha confrontati con 424 trial condotti a termine. “La nostra ricerca mostra che nella maggior parte dei casi lʼinterruzione anticipata dei trial porta a una stima alterata dei risultati, che può portare decisioni errate su rischi e benefici dei vari trattamenti”, afferma Montori. “In media, trattamenti inefficaci mostrano invece una riduzione del rischio relativo di circa il 30% nei trial conclusi in anticipo, mentre trattamenti con una reale capacità di riduzione del rischio relativo del 20% mostrano una riduzione del rischio relativo di circa il 40% nei trial conclusi in anticipo”. Praticamente tutte le parti in gioco hanno vantaggi dallʼinterrompere prematuramente un trial positivo: ricercatori, sponsor, riviste mediche, giornalisti… Tutti tranne i pazienti, che potrebbero ritrovarsi a ricevere un trattamento meno efficace di quanto si creda. Bassler D, Briel M, Montori VM et al and the STOPIT-2 Study Group. Stopping Randomized Trials Early for Benefit and Estimation of Treatment Effects: Systematic Review and Meta-regression Analysis. JAMA 2010; 303:1180-1187. S trat egia morbida per la fibrill azione atriale Nei pazienti in fibrillazione atriale (Fa) permanente, rispetto a un rigido controllo della frequenza, come raccomandato dalle linee guida, impostare una strategia più "morbida" risulta altrettanto efficace per prevenire morbilità e mortalità cardiovascolari, oltre a essere più agevole da conseguire. È questo il risultato di una sperimentazione effettuata al Dipartimento di Cardiologia dell'Università di Groningen (Olanda) nella quale 614 pazienti in Fa sono stati assegnati in modo casuale a una strategia basata su un controllo "attenuato" della frequenza (a riposo: <110 battiti al minuto) o, al contrario, impostata su un controllo rigido (a riposo: < 80 battiti al minuto; < 110 battiti al minuto durante un moderato esercizio fisico). L'outcome primario era costituito dall'insieme di: morte da cause cardiovascolari, ospedalizzazione per scompenso cardiaco, ictus, embolismo sistemico, sanguinamento, eventi aritmici con rischio per la vita. La durata del follow-up era compresa da un minimo di due a un massimo di tre anni. Al termine dello studio, l'incidenza cumulativa dell'outcome primario è risultata di 12,9% nel gruppo "morbido" e di 14,9% in quello rigido, con una differenza assoluta di due punti percentuali (P<0,001). Inoltre, sempre nel primo gruppo, un maggior numero di pazienti ha raggiunto i target di frequenza cardiaca (304 [97,7%] vs. 203 [67,0%] nel gruppo a stretto controllo; P<0,001) con un minor numero totale di visite (75 vs. 684; P<0,001). N Engl J Med, 2010;362(15):1363-73 Cau tel a con i glit azon i: a risch io compenso Fin dalla loro introduzione in Europa, nel 2000, i tiazolidinedioni o glitazoni, antidiabetici insulinosensibilizzanti, avevano dimostrato di causare ritenzione di liquidi e aumento del rischio di scompenso cardiaco nei pazienti con diabete di tipo 2. Il meccanismo attraverso il quale i glitazoni causano edema non è tuttora chiaro: studi in vitro e su animali suggeriscono che questi farmaci stimolino il riassorbimento di sodio nel nefrone distale attraverso la sovraregolazione dellʼespressione e la traslocazione dei canali epiteliali del sodio a livello del dotto collettore. In ogni caso un nuovo trial, denominato Record (Rosiglitazone evaluated for cardiac outcomes and regulation of glycaemia in diabetes), si focalizza ora sul rosiglitazone, uno dei membri della classe, valutando gli episodi di scompenso fatali e non fatali che il farmaco provoca, gli outcome e i fattori predittivi di insufficienza. I risultati dello studio multicentrico in aperto sono stati pubblicati sullʼEuropean heart journal. Il disegno del trial ha previsto la randomizzazione di 4.447 pazienti diabetici in monoterapia con metformina o una sulfonilurea e con un valore medio di HbA1c di 7,9% allʼaggiunta di rosiglitazone (n=2.220) o alla combinazione di metformina e sulfonilurea (n=2.227) e il loro monitoraggio per almeno 5,5 anni. Nel gruppo trattato con rosiglitazone, il rischio relativo (Hr) di morte od ospedalizzazione per scompenso cardiaco è risultato doppio: Hr=2,10; il tasso di eventi di scompenso in eccesso è stato di 2,6 per 1.000 persone-anno. Va peraltro sottolineato che non si è registrato nessun incremento nei valori di mortalità od ospedalizzazione cardiovascolari (Hr=0,99) o nelle morti cardiovascolari (60 vs. 71). Tra gli elementi predittivi indipendenti di scompenso cardiaco si sono individuati: lʼassegnazione alla terapia con rosiglitazone, lʼetà, il rapporto albumina/creatinina urinario, lʼindice di massa corporea e la pressione arteriosa iniziale. Unʼanamnesi positiva per una precedente malattia cardiovascolare non si è invece dimostrata indicativa di insufficienza cardiaca. Quanto alla durata delle ospedalizzazioni per scompenso e al tasso di reospedalizzazioni, sono stati simili nei due gruppi. Gli autori concludono che questi risultati confermano lʼaccresciuto rischio di episodi di scompenso cardiaco nei pazienti trattati con rosiglitazone e supportano la raccomandazione che questo farmaco non continui a essere utilizzato in persone che sviluppano unʼinsufficienza sintomatica mentre sono in trattamento. Secondo loro, follow-up ravvicinati per lʼaumentato rischio di scompenso, inoltre, dovrebbero essere riservati agli anziani, agli individui con indice di massa corporea marcatamente aumentato, alle persone con microalbuminuria/proteinuria, e ai soggetti con elevata pressione sistolica. (Eur Heart J, 2010; 31(7):824-31) Coron arie protet t e con depressione curat a Una maggiore attenzione terapeutica ai sintomi depressivi che colpiscono i pazienti con sindrome coronarica acuta (Acs) determina in questi ultimi una migliore qualità di vita, una riduzione del disturbo dell'umore e un promettente miglioramento della prognosi. È questa la conclusione di uno studio, svolto al Dipartimento di medicina della Columbia University di New York, che ha voluto verificare gli effetti, in soggetti coronaropatici, di una terapia "potenziata" di un eventuale stato depressivo, condizione considerata predittiva di mortalità e di eventi avversi cardiaci maggiori (quali infarto miocardico non fatale, ospedalizzazione per angina instabile, rivascolarizzazioni in emergenza/urgenza). Dopo 3 mesi di osservazione per l'identificazione dei pazienti con Acs e sintomi depressivi persistenti, è seguito un trial randomizzato controllato di 6 mesi. Sono stati coinvolti 237 pazienti con Acs, comprendenti 157 persistentemente depressi randomizzati all'intervento (problem-solving therapy o farmacoterapia; n=80) o alle cure usuali (n=77) e 80 soggetti non depressi sottoposti a osservazione. Al termine dello studio, la proporzione di pazienti soddisfatti delle cure ricevute per la depressione (endpoint primario) era maggiore nel gruppo "intervento" (54% su 80) rispetto al gruppo "cure usuali" (19% su 77). Il punteggio Beck depression inventory, utilizzato per misurare i cambiamenti dei sintomi depressivi, pure è diminuito maggiormente nel gruppo "intervento" (5,7) rispetto all'altro (-1,9). Infine, eventi cardiaci avversi maggiori si sono registrati in 3 pazienti del gruppo "intervento" (4%), in 10 di quello "cure usuali" (13%) e in 5 soggetti non depressi (6%). Arch Intern Med, 2010; 170(7):600-8 R iparazione "edge to edge" dell a mitral ic a sugl i scudi La riparazione percutanea della valvola mitralica secondo la recente tecnica "edge to edge", basata sull'uso di un catetere munito di clip destinate a creare un ponte tra i lembi prolassati, è una procedura fattibile, con esiti favorevoli a breve termine in termini di sicurezza ed efficacia. Sono conclusioni tratte da risultati iniziali, e ottenuti su un numero molto ridotto di pazienti, ma per Corrado Tamburino, docente di Cardiologia dell'Università di Catania e prima firma di un lavoro pubblicato su European Heart Journal, esistono crescenti evidenze provenienti anche da altri centri sulle promettenti risorse del dispositivo. Il metodo attuale mima la procedura chirurgica ideata dal cardiochirurgo Ottavio Alfieri con la quale si crea un doppio orifizio mitralico mediante pochi punti di sutura che mantengono i due lembi uniti nella loro parte mediana. La sperimentazione dell'ateneo siciliano ha coinvolto 31 pazienti, selezionati per la procedura percutanea con consenso informato in quanto considerati a rischio per eccessiva morbilità e mortalità con la chirurgia convenzionale. Diciotto pazienti (58%) presentavano un disturbo funzionale e 13 (42%) una malattia organica degenerativa. In 19 soggetti (61%) è stata impiantata con successo una clip, in 12 (39%) se ne sono usate due. A 30 giorni dall'intervento, l'endpoint primario di sicurezza, definito come assenza di eventi avversi maggiori, si è attestato sul valore di 93,6%, mentre il successo acuto dell'uso del dispositivo si è osservato nel 96,8% dei pazienti. Rispetto ai valori di partenza, infine, i diametri del ventricolo sinistro, il volume diastolico del ventricolo sinistro, la dimensione diastolica anulare setto-laterale e l'area della valvola mitralica sono tutti significativamente diminuiti dopo 30 giorni. Eur Heart J, 2010 Mar 18. Mon i t or aggio pressorio: con t an o an c he sesso ed et à Ai fini della diagnosi e della gestione dell'ipertensione, per interpretare correttamente i valori di pressione arteriosa occorre tenere conto dell'età e del sesso del paziente e sapere se chi ha effettuato la misurazione è un medico o una figura sanitaria di altro tipo. Questo, in sintesi, il messaggio di uno studio multicentrico prospettico di coorte coordinato dall'Heart and Diabetes Institute di Melbourne (Australia), nel quale sono stati coinvolti oltre 8.500 partecipanti ipertesi (donne nel 54% dei casi) provenienti da 11 centri rappresentativi di sei stati del continente. Dopo aver raccolto i dati pressori registrati ambulatorialmente sulle 24 ore con dispositivi validati, si è utilizzata una regressione media geometrica per stabilire la relazione tra tali misure e i valori misurati da personale infermieristico o da medici, in clinica o in ambulatorio. Si è così confermato l'effetto "camice bianco": la pressione misurata dai medici in clinica era maggiore di 9/7 mmHg rispetto a quella letta da altri professionisti della salute e pertanto non si presterebbe bene alla valutazione del trattamento. Più affidabili le cifre lette in ambito ambulatoriale, di poco inferiori ai valori soglia più importanti: 4/3 mmHg in meno di 140/90 (limite inferiore dell'ipertensione di grado 1), 2/2 mmHg meno di 130/80 (target superiore per pazienti con condizioni associate) e 1/1 mmHg meno di 125/75 (target per pazienti con proteinuria significativa). I valori ambulatoriali, infine, sono risultati inferiori di 1/2 mmHg nelle donne rispetto agli uomini e di 3/1 mmHg nei pazienti di età superiore ai 65 anni rispetto ai più giovani. BMJ, 2010;340:c1104 S t en t in g diret t o riduce gli infart i Nell'intervento coronarico percutaneo è preferibile ricorrere all'impianto diretto dello stent, proposto circa dieci anni fa come alternativa alla tecnica tradizionale, o continuare a utilizzare lo stenting convenzionale con preventiva dilatazione del palloncino? Per rispondere a questa domanda, un gruppo di ricercatori dell'Università Federico II di Napoli, dopo una selezione svolta su vari archivi elettronici quali Medline, EMBASE e il Cochrane Central Register of Controlled Trials, ha effettuato una metanalisi su 24 trial randomizzati controllati, per un totale di 6.803 pazienti coinvolti, di cui 3.412 o 50,15% randomizzati allo stenting diretto e 3.391 o 49,85% randomizzati allo stenting convenzionale. Fino al follow-up di 6 mesi, l'endpoint primario composto da morte o infarto miocardico è apparso significativamente ridotto con lo stenting diretto rispetto all'altro gruppo (3,95% vs 5,10%, OR=0,76, p=0,02) e tale riduzione è risultata connessa soprattutto a una minore frequenza degli infarti miocardici (3,16% vs 4,04%, OR=0,77, p=0,04). "Questa metanalisi" è la conclusione degli autori "dimostra che, in lesioni coronariche selezionate, lo stenting diretto migliora l'outcome in pazienti sottoposti a intervento coronarico percutaneo, riducendo in primo luogo l'incidenza di infarti del miocardio". Heart, 2010; 96(8):588-94 Grasso pericardico predice placc a aterosclerot ic a La presenza di grasso pericardico è correlata alla presenza di placche coronariche aterosclerotiche, non stenotiche e non calcifiche, identificate mediante Tac multistrato ed è associata allo sviluppo precoce di coronaropatia in modo molto più marcato rispetto al rilievo di obesità addominale. Lo rivela uno studio condotto al Dipartimento di medicina cardiovascolare dell'Università di Kumamoto (Giappone). È noto che dal tessuto adiposo siano secreti molti fattori implicati nell'aterogenesi, ma finora non era stato chiarito il ruolo svolto dal grasso ectopico viscerale posto attorno alle coronarie nella patogenesi della coronaropatia. In 171 pazienti consecutivi sospetti per coronaropatia, mediante Tac a 64 slice i ricercatori hanno sia misurato il volume del grasso pericardico (PFV) sia determinato la presenza e le caratteristiche delle placche coronariche. Il valore di PFV è risultato nettamente maggiore nei pazienti con placche coronariche, sia non stenotiche sia non calcifiche, rispetto a quelli senza placche. Inoltre, un'analisi di regressione logistica multivariata ha dimostrato che il PFV, ma non la circonferenza addominale, risultava associata in modo significativo con la presenza di placche coronariche. Atherosclerosis, 2010; 209(2):573-8 Con Crp progn osi long-term sull a sindrome coron arica Un notevole innalzamento dei livelli ematici di proteina C-reattiva (Crp) aumenta moderatamente il rischio a lungo termine di eventi ricorrenti cardiovascolari o di morte e può costituire un fattore predittivo ai fini della prognosi nei pazienti reduci da una sindrome coronarica acuta. È questo il risultato di una metanalisi condotta da un'équipe di epidemiologi cinesi, i quali hanno utilizzato come fonti elettroniche PubMed e Ovid Medline. Sono stati presi in considerazione 13 studi corrispondenti a 1.364 nuovi casi identificati in 9.787 pazienti nei quali si valutava, durante il follow-up, il rischio di recidiva o morte in base a diverse categorie di Crp, misurata entro 72 ore dall'insorgenza dei sintomi. Due ricercatori, in modo indipendente, hanno estratto dalla letteratura le informazioni relative ai disegni degli studi, alle caratteristiche dei partecipanti, agli outcome, con un costante controllo per la presenza di eventuali fattori confondenti. Rispetto alla categoria Crp inferiore (< o = 3 mg/l), i rischi relativi combinati e i loro intervalli di confidenza al 95% sono risultati di 1,40 (da 1,18 a 1,67) per la categoria intermedia (da 3,1 fino a circa 10 mg/l) e di 2,18 (da 1,77 a 2,68) per quella maggiore (>10 mg/l). Risultati sostanzialmente analoghi si ricavavano da altri studi che riportavano il rischio in base alle unità di Crp o alla trasformazione logaritmica di Crp. Heart, 2010; 96(5):339-46 Apelin a farmaco poten ziale per lo scompenso cardiac o L'apelina, ligando endogeno del recettore Apj accoppiato alla proteina G, rappresenta un nuovo potenziale agente terapeutico per i pazienti in scompenso cardiaco. La sua sommistrazione in fase acuta, infatti, è in grado di determinare vasodilatazione periferica e coronarica, oltre ad aumentare l'output cardiaco. Questo il frutto di una serie di studi randomizzati, in doppio cieco, controllati con placebo condotti al Royal Infirmary di Edinburgo (Uk) su 18 pazienti scompensati in classe Nyha II o III, 6 pazienti candidati a una coronarografia diagnostica e 26 volontari sani; obiettivo: chiarire, al di là dei modelli preclinici, gli effetti dell'iniezione dell'apelina a livello emodinamico periferico, cardiaco e sistemico. Le variazioni del flusso ematico dell'avambraccio, di quello coronarico, della pressione ventricolare sinistra e della gittata cardiaca sono state misurate rispettivamente mediante pletismografia veno-occlusiva, filo guida Doppler e coronarografia quantitativa pressoria, filo a pressione e bioimpedenza toracica. L'infusione sia di apelina, sia di acetilcolina, sia di nitroprussiato di sodio ha determinato vasodilatazione dell'avambraccio nei pazienti e nei controlli, però soltanto la vasodilatazione all'acetilcolina, e non quella all'apelina o al nitroprussiato di sodio, si è attenuata nei pazienti scompensati. La somministrazione di un bolo intracoronarico di apelina ha incrementato il flusso coronarico e il picco massimo di pressione ventricolare sinistra, riducendone il valore in fase telediastolica. Infusioni sistemiche di apelina (da 30 a 300 nmol/min) hanno infine innalzato l'indice cardiaco e ridotto la pressione arteriosa media e la resistenza vascolare periferica nei pazienti e nei controlli ma hanno aumentato la frequenza cardiaca solo nei soggetti sani. Circulation, 2010 Apr 12.