"Mucca pazza" pascola ancora tra i portatori sani

GENTE VENETA | Società e cultura
Martedi, 19 Aprile 2005
"Mucca pazza" pascola ancora tra i portatori sani
Se ne è parlato tanto nel biennio tra il 1996 e il 1998. Poi più nulla, o quasi. Ma a che punto
siamo con il problema "mucca pazza"? Parliamo del prione, l'agente infettivo della sindrome
della "mucca pazza", ma anche di tutte le encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSE), incluse
la variante di Creutzfeld-Jacob che colpisce l'uomo, la scaprie che colpisce le pecore e la
chronic wasting disease nei cervi. Dopo gli anni del boom mediatico l'attenzione è scemata, ma
la ricerca scientifica ha proseguito il suo cammino, cominciato ben prima della crisi. Per fare il
punto dei progressi raggiunti e per avere un confronto di idee, si è tenuto a Venezia, dal 7 al 9
aprile, il "II simposio internazionale sulla nuova biologia del prione: scienza di base, diagnosi e
terapia", grazie alla collaborazione dell'Istituto Zooprofilattico delle Venezie e all'Istituto Veneto
di Scienze, Lettere ed Arti. «I prioni sono degli agenti infettivi, ma non sono né batteri né
virus», dice Catia Sorgato, professoressa dell'Università di Padova e una delle organizzatrici
del convegno: «Si era da tempo a conoscenza di una malattia tipica delle pecore che
apparentemente non si trasmetteva per via né di un batterio né di un virus, ma a causa di una
proteina. Il problema è che, per alcuni biologi, dire che una proteina è in grado di replicarsi era,
ed è, una bestemmia. Questa capacità di moltiplicazione è infatti associata alla presenza di
Dna, ovvero alla presenza di acido nucleico. Ora, la proteina viene "fatta" dall'acido nucleico,
ma, in teoria, non potrebbe replicarsi. Questa era la corrente di pensiero fino agli anni Sessanta,
quando il Premio Nobel Prusiner riuscì a isolare questo organismo infettivo, dimostrando che si
trattava davvero di una proteina». Rispetto ad altre malattie infettive quali l'epatite e l'Hiv, la
frequenza con cui si presenta il prione è sicuramente molto bassa. In Italia la situazione non è
drammatica: si è avuto un solo caso riconosciuto della variante di Creutzfeld-Jacob e i casi di
mucca pazza sono ormai sotto controllo e in diminuzione (7 casi nel 2004 e 2 nel 2005).
Rimane però una malattia fatale e devastante: fatale, perché non esistono terapie in grado di
curarla; devastante, perché, creando danni nel cervello, comincia facendo perdere le funzioni
cognitive, prosegue con le funzioni motorie, giungendo infine allo stato di incoscienza. Nel giro
di tre mesi dal primo sintomo una persona muore. Per il tipo di sintomi riscontrati, in passato si
scambiava questa malattia per una forma di malattia senile, in quanto colpiva in prevalenza la
popolazione anziana sopra i sessant'anni. La diffusione nei giovani si è avuta solo con la Bse. Il
problema della Bse era scoppiato già a metà degli anni Ottanta e con un picco nel 1992. Le
notizie mediatiche sono arrivate così in ritardo perché, fino a che non sono stati imposti controlli
più severi, molti paesi erano convinti di non avere il problema in casa. La diffusione della
malattia era causata da alcune pratiche non corrette degli allevatori: quando il bovino
moriva, da lui si prelevava anche la carcassa che, ridotta in polvere, veniva aggiunta alle farine
alimentari destinate ad altri allevamenti. Diventa facile intuire come una sola mucca malata
potesse diffondere il morbo ad altri animali. In Inghilterra per questo motivo si sono dovuti
abbattere circa 800.000 capi. Le direttive prese a livello europeo sono riuscite a controllare, e in
pratica ad abolire, il problema a livello alimentare. Tra i punti positivi che si possono citare vi è
infatti non solo l'aver identificato in modo sicuro l'agente infettivo, ovvero il prione, ma anche
l'aver sconfitto la Bse. La cattiva notizia però smorza sicuramente i toni entusiastici: esiste infatti
un serbatoio di portatori sani, ovvero persone che negli ultimi vent'anni sono venute a contatto
con il morbo. Il grave problema è che attualmente non sono disponibili né metodi di
diagnosi né terapie. Per questo motivo non si sa quante e chi siano le persone che nel corso
della loro vita potrebbero sviluppare la malattia o potrebbero trasmetterla. E qui rientriamo nel
campo della ricerca: ancora non si è arrivati ad identificare quali siano i veicoli di trasmissione.
«Il sangue è un canale di trasmissione», dice Adriano Aguzzi, direttore dell'Istituto di
Neuropatologia nell'ospedale universitario di Zurigo: «Ci sono infatti stati due casi di persone
contagiate in seguito a una trasfusione. Altra possibilità sono i trapianti d'organo, come ad
esempio la cornea. Il problema riguarda anche gli strumenti chirurgici utilizzati in interventi
diffusi come la cateratta: le attuali tecniche di sterilizzazione sono specializzate nella distruzione
degli acidi nucleici, ma il prione è una proteina e come tale priva di acido nucleico». L'urgenza
principale è dunque quella di effettuare il maggior numero di analisi per poter capire qual
è il grado di incidenza e la frequenza con cui si presenta la malattia. «In Svizzera continua Aguzzi - uno dei paesi più colpiti dal morbo dopo l'Inghilterra, stiamo effettuando uno
studio unico al mondo. Poiché siamo in grado di riconoscere l'agente infettivo nelle tonsille,
abbiamo raggiunto un accordo con la Sanità che ci permette di analizzare, in maniera privata e
anonima, ciò che viene scartato dagli interventi di tonsillectomia. In questo modo stiamo
effettuando uno screening di un significativo campione di popolazione». Non esistono infatti
metodi diagnostici sufficientemente sensibili: una diagnosi certa si può avere solo una volta che
l'uomo o l'animale è morto. L'obiettivo che oggi si pone la ricerca è dunque quello di
perfezionare sempre più i test diagnostici e di conseguenza riuscire ad individuare i portatori
sani e i metodi di trasmissione del morbo. Questo è il primo passo in attesa di trovare anche
terapie efficaci in grado di sconfiggerlo.
Serena Gradari
Tratto da GENTE VENETA, n.15/2005
Articolo pubblicato su Gente Veneta
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