Clara Cipolliari (a cura di): Scenari turistici, pp 91-105. Centro d’Informazione e Stampa Universitaria – CISU, Roma, 2009. ISBN 978-88-7975-441-5 Tre momenti epistemologici nella relazione antropologia e turismo1. Antonio Miguel Nogués-Pedregal Introduzione Foucault ritiene che il potere produca sapere. Quest’affermazione permette di considerare da un punto di vista differente, da un lato, la relazione tra le scienze umane e sociali, tra cui l’antropologia e, dall’altro, quell’insieme di attività, (tra le quali si possono annoverare il trasporto, l’alloggio e l’intrattenimento) che fanno sì che determinati gruppi di persone possano trascorrere un certo periodo di tempo in luoghi distanti da quelli abituali, unitamente a ciò che essi fanno in quei luoghi e che, per comodità, mettiamo sotto l’etichetta generica di “turismo”. Dalla prospettiva teorica cui si è fatto cenno è opportuno considerare i risultati finora ottenuti e domandarsi perché si dovrebbe continuare a studiare il turismo. Un dubbio, questo, che, in accordo a quella prevalenza della ragione tecnica contro cui si appunta il pensiero di Habermas, si potrebbe forse formulare, in maniera più diretta ed strumentale, così: “A qual fine le scienze umane e sociali dovrebbero studiare il turismo?”. L’articolo che segue comincia con l’ipotesi di trasformare il processo nel corso del quale si costituisce il sapere antropologico sul turismo, nell’oggetto stesso di questo sapere. In tale ottica si tratterà in maniera sintetica della genesi dell’apparizione del turismo come oggetto di studio fenomenico dando conto dei tre momenti epistemologici successivi nei quali è maturata la relazione tra antropologia e turismo. Il suo corso rende evidente un abbandono progressivo dei sistemi di analisi dialettici e distintivi che vengono via via sostituiti dai modelli contestuali nei quali predominano le metafore del continuum e della dialogica. Dalla metà degli anni Novanta del secolo passato gli studi sui processi turistici realizzati nell’ambito delle scienze umane e sociali hanno incontrato un’indiscutibile espansione. Centinaia sono le riviste, i libri, i congressi, i seminari e gli articoli scientifici che se ne interessano e ne trattano da differenti punti di vista, prospettive disciplinari e tipi di approccio. Analisi di aspetti puntuali, descrizioni dettagliate dello sviluppo dell’industria turistica e lavori che presentano affascinanti visioni d’insieme e nuove concettualizzazioni teoriche sollecitano i ricercatori da un numero incalcolabile di testi specializzati. Alcune indagini bibliometriche basate sull’indicizzazione degli abstracts delle riviste specializzate, e condotte su un impianto costruttivista (Tribe, 2006), concludono che l’uso che si fa della letteratura produce un sapere parziale e frammentato che impedisce che si consolidi un corpus teorico valido. Una situazione che si aggrava, aggiungo, a causa della velocità e precipitazione nella scrittura, condizioni imposte dall’accettazione della logica di produzione capitalista traslata al lavoro di creazione culturale universitaria. Questo connubio si risolve in una diminuzione della capacità teorica (Franklin e Crang, 2001) e nello spreco degli sforzi individuali realizzati nell’ambito dei gruppi di ricerca periferici (Leengkeek e Swain, 2006). Un panorama piuttosto avvilente che ha condotto alcuni autori a incoraggiare la costituzione di un movimento post-disciplinare che sia indirizzato alla produzione di sapere negli studi sul turismo (Coles et al., 2005). La realtà di questi studi in Spagna non è differente dall’abbozzo tratteggiato dagli autori di area anglosassone, anche se il contesto storico locale ha prodotto alcuni tratti peculiari: Spain is different2. Forse il principale, quello che ci invita maggiormente a riflettere, è che nonostante il peso che l’industria turistica ha guadagnato nei decenni nella bilancia commerciale del paese, le 1 Desidero ringraziare il mio collega Prof. Santiago Fernàndez-Ardanaz per i suoi consigli e suggerimenti su questo testo. 2 Con questo slogan si voleva promuovere il turismo in Spagna negli anni Sessanta. discipline scientifico-umanistiche si sono, tuttavia, poco avvicinate al suo studio (Mazón, 2001:3745). Non inutilmente, ogni volta che se ne racconta la genesi, da quei primi lavori che oggi si considerano classici (Costa-Pau, 1966; Gaviria, 1974; Mandly, 1977 e 1983; Jurdao, 1979; Estivill, 1979) fino ai testi più recenti (Nogués, 2003; Santana e Prats, 2005; o il numero monografico di Archipiélago: cuadernos de crítica de la cultura, nº 68, 2005), si rileva che la relazione tra la teoria e ciò che si realizza sul terreno è stata segnata da tutto ciò che, sul piano della produzione di sapere, è generatore di ignoranza: in special modo l’imprudenza e il disinteresse. Molte sono le prove dell’incapacità di comunicazione che, senza bisogno di fare archeologia, sono offerte da queste virtù. L’indiscriminato sfruttamento urbanistico comprende, ad esempio in Spagna, situazioni mediatizzate come Marbella (Málaga), evidenti come Carboneras (Almería), solari come il profilo delle Rías Baixas (Pontevedra), dolorose come il taglio delle pinete ad Ávila e malsane come la colmazione della Laguna di Calpe (Alicante). Purtroppo questi sono solo alcuni esempi tra gli innumerevoli casi di “neo-colonialismo dello spazio di qualità”, per riprendere una volta ancora l’espressione puntuale di Gaviria (1974), che conferma le conseguenze nefaste dell’assenza di pianificazione e della indipendenza di giudizio che hanno mostrato molte amministrazioni rispetto agli studi scientifici. Esempi ai quali occorrerebbe aggiungere gli adattamenti imposti al calendario rituale dal ciclo produttivo che instaura l’arrivo dei visitatori; la valorizzazione di elementi culturali nuovi pubblicizzati, invece, come tradizionali (Fernández Ardanaz, 2000); la costituzione ad hoc di tecno-associazioni di municipi3 per gestire linee specifiche di finanziamento che fomentano il turismo rurale; l’istituzionalizzazione e la spettacolarizzazione di feste e celebrazioni locali; l’apertura di strade, percorsi e itinerari turistici che frammentano il territorio e ricreano passati mitici, eccetera. In definitiva una sequela di comportamenti che, promossi dal settore privato o appoggiati da istituzioni e organismi pubblici, non hanno tenuto conto del valore della continuità per la produzione di senso culturale inteso come amalgama necessario che struttura la dinamica sociale. Un imprudente tecnotropismo4 che nel migliore dei casi ha risignificato (nel senso di “ridato nuovo significato ai luoghi”) i luoghi trasformandoli in territori turistici5 e, nel peggiore, ha vuotato di senso le basi sociali e culturali su cui riposa la convivenza dei gruppi umani e, come mostra Zarkia (1966), sostituito le regole di ospitalità e socievolezza tradizionali con le leggi che reggono lo scambio mercantile. Tuttavia, la mancanza di collaborazione tra queste realizzazioni sia pubbliche che private e gli scienziati sociali (trasformati da quello stesso tecnotropismo in esperti), non può attribuirsi esclusivamente all’imprudenza dei promotori. In questo senso ha giocato un ruolo importante anche il disinteresse di molti accademici, avvolti da una malcompresa veste intellettuale, nei confronti di tutto ciò che è in relazione con il turismo. La leggerezza sociologica con la quale Boorstin, Turner e Ash, o MacCannell lo hanno qualificato come pseudo-realtà, invasore o inautentico, ha contagiato molti antropologi che, perduto lo spirito critico, hanno utilizzato categorie della stessa risma per 3 Attraverso iniziative economiche e programmi come LEADER e PRODER, l’Unione Europea ha promosso la creazione di associazioni di municipi (mancomunidades in spagnolo) per gestire questi fondi strutturali. Questi sono assemblaggi tecnocratici con deboli radici storiche riconosciute dai cittadini. 4 -tropo: desinenza greca per indicare la direzione del movimento. Così, helio-tropo: che gira in direzione del sole. Tecno-tropo: che gira in funzione di elementi puramente tecnici della gestione che provoca dispersione delle persone e dell’amministrazione degli oggetti. 5 Per organizzare i dati della ricerca sul campo in contesti turistici, (dal punto di vista teorico e metodologico) c’è bisogno di differenziare le dimensioni spaziali ed espressive, oltre che per chiarezza terminologica. Per cui nella dimensione spaziale – riferita agli spazi turistici – appare (1) un ‘territorio’ turistico dove localizzare le premesse turistiche, e (2) un ‘luogo’ che indica dove i locali vivono. Nella dimensione espressiva della cultura si può distinguere: (1) un ‘territorio turistico’ da cui i turisti sono sedotti per trovare le motivazioni che li spingono a viaggiare e (2) un ‘luogo’ attraverso cui i locali si esprimono come gruppo semantico (la comunità). Il ‘territorio negoziato’ suggerisce le dialogie e le diacronie del modello generale di conversione di un luogo attraverso lo spazio turistico (Nogués, 2007, p. 79-81). 2 svilire i risultati ottenuti dopo ricerche sul campo anche molto serie. Questo curioso paralogismo ha fatto sì che non solo si diffondesse l’abitudine di screditare i testi - quando non gli stessi autori -, ma ha anche comportato un certo ritardo nella comprensione antropologica delle dinamiche locali che nel frattempo stavano modellando le nascenti strutture turistiche. In linea generale si può dire che si è perso troppo tempo a cercare una valutazione, buona o cattiva, del turismo sforzandosi, come molti hanno fatto, di intendere se le pratiche turistiche preservassero o compromettessero ciò che toccavano, senza però mai raggiungere nessuna conclusione definitiva. Per cominciare si trattava di un compito impossibile considerando che la dinamica globale imposta dall’ideologia dello sviluppo già allora forzava, in molti casi, l’incorporazione della nuova logica, in forma di desiderabilità, ancor prima dell’arrivo del turista, come mostra il documentario di Christian Lallier (2001) su un villaggio degli aridi altipiani del Sahel in Burkina Faso. Perciò, sebbene oggi siano in pochi a mettere in dubbio la fattibilità e la riuscita delle indagini antropologiche intorno ai processi sociali e culturali negli contesti turistici6, è di particolare interesse provare a delineare una genealogia di una relazione tanto fortuita a partire dalla maniera in cui l’antropologia ha guardato, e guarda, al turismo. Da una prospettiva dialogica evidenzio tre momenti epistemologici prodotti dal gioco delle forze e dagli interessi sociopolitici, che si sviluppano negli ambienti turistici, tra (1) le condizioni macro-sociali imposte (a) dall’industria turistica (imprese nazionali e/o società transnazionali con pratiche potenzialmente di carattere neocoloniale) e (b) dalla presenza simbolica dei dispositivi di dominazione ideologica, che condizionano il desiderabile e istituzionale che a sua volta condizionano il realizzabile (governi, amministrazioni locali, mezzi di comunicazione, associazioni imprenditoriali, etc.); e (2) le diverse possibilità che si attivano a livello micro-sociale e che si realizzano nelle pratiche dei distinti gruppi umani che convivono nello stesso intorno turistico (la pluralità della società indigena, insieme a, per esempio, la complessità dei residenti stranieri e la diversità dei lavoratori immigrati). Nell’insieme questi tre momenti lasciano intravedere un spostamento dell’elemento centrale delle analisi dal distinto ad una maggiore attenzione per il continuo, processo che si fa palese con il progressivo abbandono di prospettive sistemiche che privilegiano una dinamica dialettica, verso una maggiore diffusione di metafore topologiche in cui prevale la rilevanza del processo e della dialogica. Un spostamento che non è da mettere in relazione con il carattere ideografico e nomotetico della angolatura antropologica, ma piuttosto con la maniera in cui si definiscono le categorie del ragionamento scientifico. Nel momento A l’antropologia avrebbe considerato il turismo, paradossalmente, come fenomeno praticamente isolato dai processi globali. Il turismo sarebbe, infatti, qui inteso come un agente esterno che si introduce nel territorio quasi senza essere invitato. Questa impostazione ha fatto sì che l’attenzione delle ricerche di campo fosse indirizzata allo studio dell’impatto e delle trasformazioni che si verificano sul piano socio-culturale. L’espansione del turismo in tutti gli angoli del pianeta con modalità tanto differenti (turismo rurale, sportivo, culturale, religioso…) ed esotiche (si pensi al turismo d’avventura, “zaino in spalla”, sessuale, safari…), la diffusione di massa dei viaggi più stravaganti e delle guide turistiche più dettagliate, hanno evidenziato la necessità di prestare attenzione a questioni relative allo sviluppo e alla valorizzazione delle risorse endogene: in special modo alla cultura. Questo processo, contraddistinto dalla sottomissione del sapere scientifico al criterio dell’efficienza (Lyotard, 1979), avrebbe poi costituito il nocciolo teorico del momento B, nel corso del quale l’antropologia si fa carico della preoccupazione della propria applicabilità tecnica anche al campo del turismo. Il momento C è invece quello della transdisciplinarietà. La distorsione della differenza spazio temporale tra nativi e turisti, l’arrivo di nuovi attori nei luoghi del turismo (come ad esempio i residenti stranieri, i lavoratori immigrati o gli studenti erasmus), le nuove modalità tecniche turistiche di difficile inquadramento, o l’apparizione 6 La nozione di contesti turistici è utile per esaminare la produzione di significato e di senso in contesti sociali e culturali dove avvengono pratiche turistiche o dove esse sono i risultati attesi. 3 di compagnie aeree low-cost, determinano l’allontanamento degli studi dalla costruzione fenomenica separata in favore di una visione più contestuale del turismo come continuum che riprende, nello stesso tempo, la centralità della cultura come oggetto caratterizzante del sapere antropologico. Il turismo come fenomeno: lo studio degli impatti Se consideriamo che le parole acquisiscono e perpetuano il proprio significato attraverso l’utilizzo che se ne fa e che queste, a propria volta, determinano lo stato di un linguaggio, dobbiamo convenire che il termine “fenomeno” per come lo si è impiegato nella storia del pensiero e per come lo si impiega oggi è altamente equivoco. Se per alcuni “fenomeno” è ciò che nasconde la realtà, per altri è, invece, la realtà ultima e, per una grande maggioranza, è ciò attraverso cui la realtà si manifesta. Secondo Kant il fenomeno si trasforma nell’oggetto dell’esperienza e, tanto gli oggetti quanto le qualità che gli attribuiamo, sono considerati come qualcosa di dato nella realtà. Impostazione che, tralasciando per un momento ulteriori considerazioni circa il ruolo che svolge la coscienza intenzionale, è quella che predomina nel pensiero scientifico. Affermare, dunque, che il turismo dovrebbe cominciare ad essere affrontato come qualcosa di diverso da un fenomeno provoca, nella maggior parte dei casi, e come minimo, un aggrottarsi di ciglia. Per quanto già negli anni trenta Redfield descrivesse i mutamenti generati dall’arrivo di visitatori forestieri che assistevano alle feste yucateche (Nogués, 2005), si può notare che quando un suo allievo, Núñez (1963), si trovò, trent’anni dopo, “di fronte al turismo” a Cajititlán (Jalisco) lo trattasse come un fenomeno ancora da studiare. Tuttavia, in questi quasi ottanta anni di studi sulla presenza di turisti in tanti luoghi del pianeta, abbiamo imparato che quello che chiamiamo “turismo” non è altro che un complesso ordito di processi socio-economici che vanno dalla costruzione immaginaria delle destinazioni come luoghi di svago e divertimento, fino alle pratiche di stabilimento neocoloniale dell’industria turistica, passando attraverso la trasformazione delle forme proprietarie dei suoli e delle risorse locali, il mutamento radicale dei territori, della stratificazione sociale, del mercato e delle modalità del lavoro, o della distribuzione del reddito. Un ordito complesso che è, contemporaneamente, un campo dove si scambiano diversi tipi di capitali, se ne altera la composizione, la distribuzione ed il volume, ma che è anche un’arena politicoeconomica dove si confrontano gruppi di potere, fazioni, partiti e interessi contrapposti. Un insieme complesso con molte sfaccettature e dinamiche diverse al quale, per comodità e anche per la fortissima influenza di altre scienze sociali, continuiamo a rivolgerci e che continuiamo a trattare come se fosse un solo fenomeno: il turismo. La maneggiabilità concettuale e la facilità testuale che permettono l’impiego di un solo termine, che proviene dal linguaggio comune dove assume un significato ben definito e connotazioni chiare, è una trappola linguistica che limita le possibilità che offre l’antropologia. Se, al contrario, si inserissero queste analisi nel corpus teorico della disciplina, mantenendo ferma la centralità dello studio della cultura e cercando di perlustrare, ad esempio, come le pratiche concrete acquisiscano significato attraverso i desideri che produce l’ideologia dello sviluppo nella versione dell’industria turistica, allora potremmo avanzare un poco di più nella comprensione di tutto l’insieme. Troppi i lavori etnografici sono ancora fermi al momento A ricorrono ad impostazioni, schemi e nomenclature ancora radicati nella logica funzional-strutturalista, e qualificano la dinamica del turismo come un elemento alieno alle società dove compaiono i turisti. E’ sufficiente segnalare che lo stesso utilizzo del termine “destinazioni” - insieme all’altro “società ricettrici”- già definisce gli interni turistici come elementi subordinati ad una azione turistica che si produce in maniera indipendente a migliaia di chilometri di distanza. E’ comprensibile che, all’inizio, l’antropologia si concentrasse sulla comprensione dei processi sociali e culturali prodotti a partire dalla relazione sempre asimmetrica tra ospiti e ospitati 4 (mercificazione, acculturazione, trasformazione dei luoghi e creazione dei paesaggi, neocolonialismo e dipendenza, costruzione di non luoghi, produzione del patrimonio, artigianato e gastronomia, invenzioni culturali, cambiamenti nello spazio sociale e nelle modalità di stratificazione…)7. La costruzione delle destinazioni solo come periferie di piacere riduce, ad ogni buon conto, la comprensione di questa stessa dinamica alla interazione commerciale che si stabilisce esclusivamente in seno al binomio nativo-visitatore e la analizza secondo i principi della logica mercantile, spiegando, in ultima istanza, i processi sociali e culturali in termini di resistenza a, o di accettazione di un’imposizione (attraverso il dominio, l’imposizione diretta o la manipolazione). Questa falsa dualità trasmette, a propria volta, l’illusione di un’omogeneità sociale interna a entrambi i gruppi e della loro interrelazione, cosa che sottrae all’analisi la componente di tensione e conflitto interno che costituisce la natura di qualsiasi relazione sociale (Nogués, 1996) e favorisce il mantenimento degli stereotipi sui quali poggiano tante tipologie di turisti. Una particolare relazione epistemologica, questa, che spiega il predominio e la permanenza nelle scienze sociali di modelli statici (Meethan, 2003), come sono gli schemi estesi di Mathieson e Wall o di Jafari, la semiotica di MacCannell, l’essenzialismo di Greenwood o l’irritante indice di Doxey. La ricambiata steriorità con cui l’antropologia guarda alle società generatrici e alle società ricettrici di turisti fa sì che molti ricercatori continuino, ad esempio, ad impegnarsi in complesse questioni di definizione delle categorie distintive di analisi e metodologia. Questo conduce autori come Tribe (1997), Ateljevic et al. (2005) e Coles et al. (2005) a sostenere che gli studi sul turismo si trovino in una fase pre-disciplinare, caratterizzata da disaccordi sulle basi fondanti, contraddistinta da una molteplicità di punti di interesse e da un sapere puntuale e casuale. Il binomio turismo e sviluppo: dalla cultura al patrimonio8 Nella I Reunión de Antropólogos Españoles (Siviglia 1974) già ci si schierò in favore della “collaborazione degli antropologi alla pianificazione dei piani di sviluppo economico e sociale, di popolamento, di emigrazione e di turismo” (Jiménez, 1975, p. 39). Tuttavia è solo da quando si è entrati nell’attuale fase del capitalismo, in cui la possibilità dell’esistenza delle discipline accademiche si regge sul loro valore di scambio nel mondo delle merci, e, soprattutto, da quando l’UNESCO ha proclamato il periodo compreso tra il 1988 e il 1997 come il decennio dello sviluppo culturale, che si è verificato un effettivo avvicinamento tra l’antropologia e i promotori delle attività turistiche. Avvicinamento che, nella opinione di Burns, conferma quella propensione verso gli studi applicati che già mostravano le ricerche antropologiche sul turismo (1999, p.81). L’introduzione di una certa modalità culturale come elemento chiave per lo sviluppo umano, unita alla preoccupazione della UE per la terziarizzazione dell’economia, la sua traduzione nella teoria dei nuovi giacimenti di lavoro e lo sviluppo dell’industria culturale (Commisione Europea, 1998) ha condotto la Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT) a interessarsi anche delle nuove possibilità che offriva la cultura. In diverse riunioni internazionali si sono trattate le potenzialità del cosiddetto “turismo culturale”: la conferenza dell’aprile 1999 tenutasi in Uzbekistan ha discusso i possibili benefici della preservazione del patrimonio culturale che potrebbero venire dalle enormi riserve di questo tipo di domanda turistica. Nel 2001 l’OMT ha pubblicato Cultural heritage and 7 La sociologia si è interessata più ad indagini sulle pratiche turistiche intese come prodotto di una società specifica (costruzione dei fenomeni di massa, alienazione, industria culturale, spostamenti…) o nella interpretazione del viaggio turistico come variante strutturale del sacro (vacuità, autenticità…). Per un’analisi delle tematiche privilegiate nelle scienze sociali in relazione al turismo si veda Crick (1989) e Burns (1999). 8 Un’argomentazione dettagliata delle idee qui accennate e una esposizione critica della opposizione tra “dare valore” e “valorizzare” [‘dar valor’ e ‘poner en valor’ nel testo in spagnolo, N.d.T.] nei contesti turistici, si veda Nogués 2006 e 2007. 5 tourism development e, nel febbraio del 2006, si è svolto a Jakarta un incontro sul turismo culturale e le comunità locali. La congiunzione tra la preoccupazione della industria turistica per la cultura e l’apparente situazione di stallo teorico e reiterazione tematica raggiunta dalla riflessione antropologica sul tema si spiega con l’avvenuto allontanamento dalla rigidezza disciplinare della materia e, in maniera complementare, con l’avvicinamento tra ricercatori e promotori delle iniziative turistiche, aspetti che nell’insieme caratterizzano il momento B. Questa collaborazione, da cui non si può prescindere in un’economia basata sul terziario, si materializza nella spettacolare proliferazione di progetti e di esperti che attraverso la valorizzazione delle cosiddette “risorse culturali” cercano di diversificare il prodotto turistico, dividere in settori adeguati il mercato e differenziare le destinazioni, distinguendole a seconda delle loro particolarità Così, in un’accezione tecnico-politica della sostenibilità, che ha già convertito la natura in ambiente, nel corso del momento B si inizia la selezione degli elementi culturali per trasformarli in risorse amministrabili. Nasce in questo modo il patrimonio culturale come prodotto metaculturale (García García, 1998). Un patrimonio culturale che nella sua esposizione pubblica evita, o forse dimentica, le circostanze storiche che lo hanno prodotto (Abram, 1996), e riduce l’interesse emancipatorio, a cui secondo Habermas ogni sapere dovrebbe ambire, all’interesse tecnico per la gestione e il controllo dei mezzi. Un patrimonio culturale che, riprendendo le parole dello scrittore Eduardo Galeano, ha cessato di essere proprietà di “coloro che sono artigiani più che artisti” per diventare oggetto di consumo nel tempo libero e un campo di scambio del capitale economico tra esperti. Un tale modo di valorizzare il patrimonio, analogamente al farsi più esclusive le insaziabili esigenze della domanda turistica sollecitata, frattura la continuità nella produzione di senso culturale e dissolve gli stessi limiti dell’idea di patrimonio, che forse un tempo era nitida. Quando si utilizza in contesti turistici questo termine, si può far riferimento a qualsiasi elemento che, per quanto sia ridicolo, possa servire agli interessi locali. Questi, in sintonia con il processo di trasformazione dei luoghi dentro lo spazio turistico (Nogués, 2006), sono ogni volta più difficili da distinguere dagli interessi particolari e concreti dell’industria turistica. L’esempio che più chiarisce l’ampio utilizzo che si fa del patrimonio in contesti turistici è offerto dai nomi dei numerosi percorsi che, indipendentemente da qualunque legame con la memoria del luogo e facendo ricorso al solo potere evocatore o alla capacità descrittiva delle parole scelte, costituiscono l’impalcatura dei nuovi territori turistici: la strada del sole e dell’aguacate, il percorso del gotico-moresco, il tragitto di Washington Irving, etc. Il tecnotropismo incide direttamente su quell’antropologia che si occupa principalmente degli aspetti imprenditoriali o, almeno, di quelli che risultano più applicabili all’industria del turismo nella sua particolare versione della sostenibilità (Hughes in Tribe, 2006, p. 367). Questo non facilita certamente il pensiero critico (che non negativo) che caratterizza la disciplina, dal momento che dimentica troppe realtà sociopolitiche e privilegia, invece, determinate storie; cosa che, a sua volta, favorisce l’attuale mantenimento dello stato delle cose. Bisognerà riconoscere, se si mantiene quest’idea di sostenibilità turistica che poggia sulla valorizzazione della cultura, l’appropriatezza di quello che, con il consueto acume, afferma García Calvo rispetto alle ragioni che motivano la necessità di una visita alle piramidi egiziane: “Per essere reali, e continuare ad esserlo, è indispensabile muovere il capitale, amici miei: solo il denaro è la realtà delle realtà; e le cose che non sono riuscite a convertirsi in un modo o nell’altro in denaro possano pure ingannarsi di essere vive ma avranno perduto l’occasione di realizzarsi realmente e resteranno condannate alla non esistenza” (2005, p. 29-30). Il momento C: di fronte all’evidenza del trans- 6 Sono molti gli autori che hanno affrontato con un approccio simile il processo storico che chiamiamo “globalizzazione” e tutti si trovano d’accordo su alcuni punti essenziali: le nuove tecnologie della comunicazione comprimono le coordinate spazio-temporali, l’internazionalizzazione della produzione e degli scambi separano l’economia dalla società e relegano il ruolo dello Stato in secondo piano e l’aumento delle disuguaglianze socioeconomiche e la democratizzazione dei trasporti provocano e facilitano importanti movimenti di popolazione. La convergenza tra i nuovi usi dello spazio-tempo, la sparizione della società come sistema portatore di senso e la permeabilità delle frontiere geopolitiche, sono la filiazione dell’obbligata interculturalità che oggi esige una modificazione radicale della maniera in cui le scienze sociali si avvicinano allo studio, tra le altre cose, di questo complesso di attività e pratiche che, insisto, per comodità, riduciamo al solo termine di turismo. Lo scomporsi delle categorie tradizionali di analisi della vita sociale, impone il passaggio da un linguaggio sociale a un linguaggio culturale nel quale possiamo trovare la grammatica che renda scientificamente intelligibile ciò che ci sta attorno. Nell’attuale contesto di disocializzazione e di vuoto politico si rende necessaria una svolta verso un paradigma in cui a predominare sia il culturale, come dice Touraine (2005), motivata dall’apparizione di un soggetto cosciente di sé che si afferma lottando contro ciò che lo aliena e gli impedisce di auto-costruirsi e sostenuta dalla costituzione su una base culturale di comunità che esige il riconoscimento e l’esercizio dei propri diritti. La congiunzione di entrambi i processi favorisce l’apparizione negli intorni turistici di soggetti (tra gli altri immigrati che cercano lavoro –che li fanno credere di- nel settore turistico, imprenditori che cercano nuovi territori dove aprire un’attività, o residenti che cercano un posto di qualità dove trascorrere il tempo della pensione) che formano nuovi gruppi sociali che, a loro volta, dissolvono quelli finora conosciuti (stagionali, residenti, vicini, turisti, estivi, o visitatori). Proseguendo su questa medesima linea è forse nel testo curato da Boissevain (1996) che per la prima volta si mostra etnograficamente quanto l’impiego di termini come ospiti e ospitati riduca la molteplicità socio-culturale e il gioco di interazioni che si dispiegano negli intorni turistici. E questo specialmente nel momento attuale in cui molte di quelle che sono chiamate “società ricettrici” sono anche “società generatrici” di turisti e nel quale le attività turistiche appaiono tanto consolidate che non solo i turisti non provocano dei cambiamenti ma, anzi, la loro affluenza stagionale è attesa come una componente costitutiva di quelle società. Puijk (1996) in Norvegia e Abram (1996) in Francia insistono su quest’aspetto quando descrivono le relazioni tra i pescatori che arrivano per la stagione del baccalà e i turisti a Henningsvær, o come in un villaggio del dipartimento del Cantal dove i discendenti degli emigrati che visitano la zona non sono chiamati turisti dai residenti. O nella Costa Bianca (Spagna), in cui all’inizio gli immigrati europei erano percepiti come turisti e non come dei vicini e la cui prolungata permanenza ha inciso direttamente nella trasformazione sociale, culturale, economica e politica dei villaggi dove a tutt’oggi risiedono (Aledo, 2005; Giner, 2007). Infatti lo studio del continuum che formano gli immigrati e i turisti europei nel Mediterraneo, si affronta come un’espressione ulteriore dei movimenti transnazionali che caratterizzano la modernità (Urry, 2000, p. 26-32). Sul piano etnografico questa crepa, che fende la validità del pensiero distintivo, interessa l’organizzazione del lavoro di campo e la stessa possibilità dell’osservazione. Nel processo che porta dalla piazza del mercato – diade con cui è cresciuta la città –, alla grande superficie che si localizza nella periferia, passando per il supermercato e l’ipermercato, si sono rinnovati i luoghi di incontro e le regole del consumo nei paesi ricchi. Così, a partire da un grande gruppo di distribuzione principale dei beni di consumo (ad esempio Carrefour), che funziona come locomotiva, si costruiscono centri commerciali in cui si installano i negozi più famosi dei gruppi di fabbricazione e distribuzione tessile (ad esempio Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Oysho), gli esercizi affiliati al settore del casual-food (ad esempio Pans&Company), grandi distributori e proiezionisti cinematografici (ad esempio Filmax), providers di servizi telefonici insieme ad altri tipi di attività, anche ristorative, dal sapore più locale. 7 La proliferazione di questa formula commerciale nelle città, vera cattedrale per la socializzazione, lo svago, la ricreazione e il consumo, unita alla riattivazione economica dei centri storici risignificati come “centri commerciali all’aperto”-, e la pubblicizzazione del quotidiano come “attività dell’ozio” (passeggiare, andare a fare la spesa, fare una gita, andare in bicicletta, eccetera) rendono difficile una netta identificazione e distinzione delle pratiche turistiche da quelle ricreative. Sebbene il ricorso a concetti come “ricreazione”, “ozio” e “tempo libero” che risultano per l’antropologia etnocentrici, eppure diffusi, rinnova la centralità teorica di determinate discipline accademiche nei nuovi ambiti di studio (ozio, turismo, consumo, movimento di popolazione,…), le cui prospettive arricchiscono l’indagine di temi più antropologici. Per esempio l’attuale identificazione della festa come tempo di riposo, benché sia svanito il senso ecologico-culturale del tempo di festa, la ha attualizzata come marcatore dei nuovi ritmi economici culturali espressi nei fine settimana, ponti e vacanze (Nogués, 2005). D’altra parte la diversificazione del consumo che si osserva negli intorni turistici, nelle forme di ristoranti etnici e negozi di artigianato vario, localizza il globale e, in un certo modo, si contrappone a una società iper-industriale che mostra una tendenza a comportamenti omologati e a una perdita generalizzata della coscienza individuale (Stiegler, 2004). Questa diversificazione motivata dalla rivitalizzazione della tradizione, dal desiderio di salvare una cultura o semplicemente da una strategia di vendita si ripercuote nella relazione tra le pratiche turistiche, le versioni più materiali e concrete della cultura e le prospettive scientifico-sociali del suo studio. Il vincolo che si evidenzia, ad esempio, nell’uso che si fa negli intorni turistici della cultura, del patrimonio, della gastronomia o dell’artigianato, è tanto stretto che alcuni autori hanno difficoltà a stabilire puntualmente una chiara demarcazione tra turismo e cultura (Rojek e Urry, 1997, p. 3; Richards, 2001). Altro esempio, questo, che dimostra che lo studio del turismo, come congiunto di pratiche socio-storiche che produce spazi materiali e immateriali (Chadefaud, 1987), non è riducibile alla analisi di parametri economici concreti e sottolinea la necessità di studiare la generazione dello spazio turistico come portatore di senso, in termini di produzione e di interpretazione. Questa svolta verso il culturale caratterizza il momento C e sta conducendo molti autori, da prospettive differenti e con un’enfasi su aspetti anche molto diversi, ad occuparsi più a fondo dello studio della cultura nei contesti turistici anziché dedicarsi allo studio di quell’insieme complesso che chiamiamo turismo. Conclusioni La realtà globale fa sì che i problemi attuali della ricerca scientifica siano, quasi per difetto, già trans-disciplinari nella loro natura (Hëllstrom en Coles et al., 2005, p. 1) e richiedano, perciò, nuove metafore che permettano una visione dialogica e continua dei fatti e dei processi. In queste pagine si è tracciato uno schizzo dei tre momenti epistemologici, consecutivi quanto all’origine ma simultanei quanto alla loro esistenza nella realtà di oggi, che hanno segnato la relazione tra l’antropologia e lo studio del turismo. Una sequenza che traccia un movimento sul piano teoretico verso il continuo e sul piano del contenuto verso il culturale inteso come insieme di pratiche che danno senso al gruppo e acquisiscono senso a sua volta nella vita del gruppo. L’approssimazione fenomenica intorno agli impatti del turismo, caratteristica del momento A, ha impedito che le prospettive critiche svelassero i meccanismi attraverso cui una certa modalità di sviluppo favoriva lo sfruttamento estensivo dei territori e delle culture che lo abitano. Situazione che si è trasformata nel momento B, nel corso del quale, e per necessità intrinseche all’evoluzione dello stato delle cose, si è consolidato un sodalizio tra alcuni ricercatori e i promotori delle attività turistiche che si concretizzava nell’auge degli studi sull’utilizzazione del patrimonio culturale e lo sviluppo sostenibile attraverso il turismo. Tuttavia gli scambi transnazionali hanno messo in discussione le categorie di classificazione della realtà e, conseguentemente, anche quelle analitiche. 8 Questo ha determinato il fatto che sia molto difficile, nel momento C, continuare a pensare il fenomeno del turismo, perlomeno per come lo si conosce nei paesi ricchi, secondo i modelli funzionali che fin qui abbiamo immaginato. Solo rinnovando le nostre idee si potrà far sì che lo studio scientifico-sociale del turismo esca dall’autismo teorico ed etnografico nel quale pare sia immerso. L’antropologia, grazie alla sua prospettiva olistica e comparativa, alla peculiare considerazione cui sottopone i processi socio-culturali e alla presa in considerazione delle diverse coscienze intenzionali che intervengono nella relazione interculturale che si produce nei contesti turistici, può aiutare ad affrontare quell’opposizione che si verifica tra sensibile e intelligibile. Provando a risolvere in questo modo, per quanto a titolo aneddotico, la domanda che faceva Pearce venticinque anni fa sul perché non esiste una corrispondenza tra la difficoltà che hanno i ricercatori nel definire un termine come turista e la chiarezza dell’immagine che quel termine acquisisce nell’uso quotidiano (1982, p. 33). Le aggettivazioni che l’industria turistica dà del turismo (congressuale, golfistico, rurale, sportivo, sole-e-mare…) per quanto possano ratificare lo stesso dissolversi del fenomeno, non possono trasformarsi nelle maschere che nascondono agli occhi degli investigatori gli elementi che costituiscono questo insieme di pratiche ed attività che, per comodità lessicale, abbiamo convenuto di chiamare turismo. 9