Fabio Guindani LA MEMORIA PRIVATA / LA MEMORIA

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Fabio Guindani
LA MEMORIA PRIVATA / LA MEMORIA RESTITUITA
Per un Archivio della memoria privata della Svizzera italiana
in rete con
l’Archivio diaristico nazionale onlus di Pieve Santo Stefano
Arzo, XII Festival Internazionale di Narrazione
Gli archivi della memoria, Corte dei Miracoli, 1 settembre 2012
Tutto, a Orizzonte, è quasi come allora. Ecco la grande cucina col suo bel camino
acceso, ecco il rame lucente che ricopre l’intera parete e l’imponente tavolo di noce; e di
là il tavolo della sala ricoperto dal solito tappeto di velluto rabescato, il lampadario a
frange di perline verdi e il campanello, ormai inutilizzabile, per chiamare la cameriera; il
quadro del Galbusera con l’uva e le pesche tanto vere che sembrano a portata di mano;
il salottino con i ritratti degli antenati; la veranda dalle ampie e luminose vetrate dove la
vista spazia fino al Monte Rosa; la biblioteca nella sua riposante penombra; la grande
camera dall’immenso letto matrimoniale dove la Gingia indugiava facendosi portare il
caffè del mattino dalla domestica e dove, col suo permesso, la raggiungevo assieme a
mia sorella per ficcarmi con voluttà sotto le coltri del “nanone”, come lo chiamavamo.
Tutte queste stanze sono rimaste come allora. Ma rivedo anche il vecchio telefono che
adesso non c’è più: quel telefono nero dei primi novecento appeso alla parete
dell’anticamera; lo sento trillare, vedo zia Angelina che risponde e si accascia
singhiozzando. E risento la mia voce infantile che qualche giorno prima, misteriosamente
profetica, aveva detto: “Gingia, stanotte… stanotte ho sognato del babbo, ho sognato
ch’era morto”.
Sylvana Baragiola, Flash back
Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, p. 212 (trascrizione)
Così si conclude Flash back, Retrovisione di una vita, il memoriale di Sylvana Guindani Baragiola (Riva S.
Vitale 1917 – Lugano 2009), finalista nel 2010 alla 26esima edizione del Premio Pieve. L’incipit del testo
(circa settecento pagine manoscritte che percorrono buona parte del Novecento) era ricorso alle
medesime parole
- Gingia – le dissi quel mattino, svegliandomi – stanotte ho sognato del babbo, ho
sognato ch’era morto –
Op. cit. p. 3
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replicate a più riprese nel corso della narrazione con un riavvolgersi della memoria in continui flash back:
termine cinematografico che, non a caso, titola l’autobiografia di un’attrice mancata. La memoria è un
terreno carsico, che a ogni passo riattualizza il passato scardinando l’ordine cronologico della Storia.
Mi sono risolto a citarvene un brano perché è il testo che sta a capo dell’incontro fra la memoria materiale
conservata a Villa Orizzonte di Castelrotto e la memoria scritta raccolta presso l’Archivio di Pieve Santo
Stefano; per finalmente condurmi oggi qui, al Festival di narrazione di Arzo, insieme a Camillo Brezzi e a
Chiara Macconi. Come è successo? Proverò a mia volta a raccontarvelo in prima persona.
Fu alla fine degli anni Settanta, se ben ricordo, che mia madre mi affidò i primi quaderni delle sue
memorie. Confesso di averli letti allora con qualche disagio finché, nel novembre 2008, ormai
novantunenne, gravemente sofferente e a poco più di un mese dalla sua morte, il regista televisivo Werner
Weick nel corso di alcune riprese a Villa Orizzonte mi chiese chi fosse la bellissima donna ritratta in alcune
fotografie. Gli dissi di mia madre, allora attrice giovane ai primordi della compagnia teatrale di Radio
Monteceneri. Mi propose di intervistarla e alla mia titubante richiesta, consapevole della riservatezza che
la contraddistingueva aggravata dall’età e dallo stato di salute, lei rispose inaspettatamente di sì. Alle
riprese della telecamera, la vidi, sbalordito, ringiovanita di vent’anni: l’attrice era rinata. Fu così che le
chiesi se volesse conservare il suo memoriale presso l’Archivio di Pieve Santo Stefano. Glie lo illustrai in
poche parole, e ancora più sorprendentemente acconsentì senza esitare. Capii solo in seguito, ritrovando
in epigrafe alle sue pagine la medesima citazione che intesta l’Archivio:
Quello di tenere un diario o di scrivere a una certa età le proprie memorie dovrebbe
essere un dovere “imposto dallo Stato”… Non esistono memorie, per quanto scritte da
personaggi insignificanti, che non racchiudano valori sociali e pittoreschi di prim’ordine.
Da: G. Tomasi di Lampedusa. Op. cit. p. 3
Un memoriale è, appunto, destinato a mantenerne memoria; e a questo fine la memoria va trasmessa,
fosse pure ai soli figli.
Presi contatto con Pieve ripromettendomi di rileggerlo, ma di lì a poco la situazione precipitò. Mi ritrovai
così a dargli voce, di sera in sera, al suo capezzale. Lei usciva dal torpore seguendomi attenta, senza
perdere una parola, ridendo talvolta. Fu l’estrema correzione di bozze della sua vita.
Ricordo con commozione la delicata attenzione con cui lo scritto fu accolto all’Archivio, quasi ne affidassi
loro, piuttosto che l’opera, la persona, inumandone lo spirito. E un anno dopo, di fronte alla folta platea del
Premio Pieve, Paola Roscioli ne lesse un brano e io stesso ne parlai intervistato da Guido Barbieri per RAI
Tre. Ne uscii con la netta sensazione di aver ”messo al mondo” mia madre.
Perché di questo si tratta, e in ciò consiste il progetto che ne è conseguito di un Archivio della memoria
privata della Svizzera Italiana in rete con l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, al fine di
restituirla al mondo e agli stessi soggetti che ricordano.
La sfera del privato, normalmente protetta e segregata dalle mura domestiche a salvaguardia dell’intimità
della persona, trae infatti origine dall’dea di deprivato, di sottratto alla pubblica ingerenza e visibilità. Dal
suo canto la memoria, psicologicamente intesa è una facoltà interiore della mente, inaccessibile agli altri.
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Ma appena prende parola, o a maggior ragione si oggettiva in qualcosa (scrittura, immagine, manufatto)
essa “viene al mondo”: si fa presente al di fuori di noi, trova esistenza. Riflessi nello specchio mondano dei
nostri ricordi (una lettera, una foto, un oggetto), noi ci riconosciamo per ciò che siamo e siamo stati,
differenti e identici a noi stessi.
E’ stato il caso di mia madre quando, all’ultimo atto della sua vita, si riconobbe nel proprio memoriale letto
dal figlio. Ma è anche il caso della mia personale, quasi ventennale esperienza di apertura degli spazi
privati di Villa Orizzonte:
Tutto, a Orizzonte, è quasi come allora,
lei scriveva negli anni Settanta, e tale la villa è rimasta, dalla sua prima pubblica apertura per la Giornata
Europea del Patrimonio 1996, fino a tuttora.
Una cosa l’ho capita nel corso di questi anni: a differenza di un palazzo nobiliare, che si ammira senza
perlopiù parteciparne la memoria, Villa Orizzonte è una casa borghese come tante, scomparse nei fatti ma
ancora presenti nel ricordo. Migliaia di visitatori si sono andati riconoscendo negli spazi, ambienti e oggetti
d’epoca della villa, e soprattutto in quella particolare atmosfera di altri tempi: “Quello stipetto ce l’aveva
eguale la mia vecchia zia”, “Ho ritrovato una foto come questa in fondo a un cassetto”. Essi rievocano altre
dimore, altri racconti, altre memorie personali, sottratte al mondo perché incentrate sulla persona di chi
ricorda, e quindi reputate irrilevanti. Ma:
non esistono memorie, per quanto scritte da personaggi insignificanti, che non
racchiudano valori sociali e pittoreschi di prim’ordine.
Esse ingenerano una rete potenzialmente illimitata, che dal microcosmo privato porta lontano, fino a farsi
Storia. Nel mondo omologato della società mediatica di massa, è di questa pluralità di memorie che
abbiamo principalmente bisogno.
Infine, memoria scritta e memoria materiale si sostengono a vicenda. Ne è indice il brano citato: il letto
matrimoniale in stile Chippendale è, agli occhi di una bambina degli anni Venti, il “nanone” dove rifugiarsi
al tepore dell’amata zia che vi si indugia sorbendosi il caffè (e, di rimando, rievocando la cameriera che
glie l’ha portato). Le Stanze della memoria, sperimentate l’anno scorso nella villa (stanze nel duplice senso
di “locali” e di “strofe poetiche”), letture ambientate del fondo biblioteca, svolgono, di converso, la funzione
di dare referente e visibilità alle parole del testo.
Così abbinati, l’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano e la casa-museo di Villa Orizzonte hanno avviato
un fitto scambio e incontri finalizzati al comune progetto di promuovere un Archivio della memoria privata
della Svizzera Italiana in rete con l’Archivio nazionale italiano. Lanciato il 17 ottobre 2010 con un
programma di mostre e manifestazioni (Villa Orizzonte, La memoria privata / la memoria restituita), ad
esso hanno aderito, fra gli altri, l’Associazione scrittori della Svizzera Italiana (ASSI) e gli Archivi riuniti
donne Ticino (ARDT). Un mese di iniziative indette l’anno scorso, principalmente mirate all’informazione e
divulgazione del progetto (Presentazione dell’Archivio di Pieve per conto di Natalia Cangi e Loretta Veri;
Spettacolo di Mario Perrotta Il paese dei diari al Foce di Lugano; Mostra I diari di viaggio della famiglia
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Gansser a Villa Orizzonte; Le suddette Stanze della memoria, letture ambientate nei locali della villa) ha
dato esito a un gruppo di lavoro che lo va mettendo a punto. Esso prevede un primo avvio con
l’informatizzazione e la messa in rete delle duecento opere concernenti la Svizzera già giacenti presso
l’Archivio italiano. La progressiva raccolta, per la catalogazione e informatizzazione del restante,
potenziale e sommerso patrimonio di scritture private della Svizzera italiana, non potrà che essere affidata
alla risposta della gente.
Devo però, in conclusione, qui ribadire che la soglia fra privato e pubblico, e in particolare applicata alla
memoria, è un crinale impervio che segna il percorso di reali persone: non tutto si può ricordare, e talvolta
non lo si deve. Ne è storico esempio il silenzio che colse la prima generazione di superstiti dello sterminio
nazista, solo in seguito rievocato con l’ampia diffusione delle Giornate della memoria. Lo scrittore
israeliano David Grossman racconta della rabbia che lo colse adolescente, quando si rese conto che i
genitori gli avevano taciuto il proprio passato. Ma racconta anche di quando, fatto adulto, il suo bambino al
rientro dalla scuola materna gli aveva chiesto: - Papà, cos’è l’Olocausto? – e lui non aveva osato dirglielo.
Forse dei settemila manoscritti conservati a Pieve Santo Stefano, uno meriterebbe il premio fra tutti: è
stato consegnato chiuso e nessuno potrà mai aprirlo.
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