Il ruolo della finanza per un nuovo modello di sviluppo

Il ruolo della finanza per un nuovo modello di sviluppo
Silvano Andriani
Il ruolo eccessivo che la finanza è andato assumendo nei sistemi economici a partire dagli anni ‘80
dipende dalle caratteristiche del modello di sviluppo che si era andato affermando. In parte è dipeso
dall’accelerazione di un processo di globalizzazione sostanzialmente guidato dai mercati che tende
a spostare i rischi dalla gestione dell’attività produttiva al processo di riposizionamento delle
imprese sui mercati globali: lo sviluppo delle imprese dipende meno dalla crescita graduale delle
proprie conoscenze nei settori di pertinenza ed in misura crescente dalla capacità di entrare i nuovi
mercati e nuove attività, soprattutto attraverso operazioni di acquisizione e fusione di altre società
nel mondo e questa è diventata la modalità di gran lunga più importante di crescita e di
conglomerazione delle imprese, così l’uso della leva finanziaria è diventata molto importante ed il
ruolo delle banche d’affari, che sono state le vere protagoniste dell’ascesa della finanza, è diventato
determinante. Il processo di finanziarizzazione e di conglomerazione ha coinvolto tutte le imprese,
ma il ruolo delle banche ne è stato particolarmente esaltato, mentre anche per i manager delle
imprese non finanziarie diventava molto importante sapere usare la leva finanziaria.
Inoltre e, soprattutto, ha influito la crescita enorme del livello di indebitamento, soprattutto privato.
La crescita economica degli ultimi decenni è stata trainata dai consumi privati nei paesi avanzati,
finanziata col debito delle famiglie, in quanto le retribuzioni non crescevano ed aumentavano le
disuguaglianze. Questo processo ha riguardato la generalità dei paesi avanzati, ma non tutti nella
stessa misura, si che si è andato anche formando un profondo spartiacque fra paesi strutturalmente
debitori e paesi creditori; tra questi anche alcuni paesi emergenti. Tale situazione, che rifletteva un
crescente squilibrio delle economie reali, ha generato un forte squilibrio finanziario. Nel crescente
mare di debiti la finanza ha nuotato come un pesce ritagliandosi una crescente fetta della torta.
Se si considerano i principali prodotti della “innovazione” finanziaria – titolarizzazione dei crediti, i
principali derivati e i principali prodotti strutturati – la loro funzione è stata di ridistribuire a livello
mondiale l’enorme massa di rischi di credito che si andava accumulando. Tutto ciò ha nel tempo
cambiato sostanzialmente la natura dell’attività finanziaria generando una crescente separazione dei
soggetti che valutavano e prendevano i rischi da quelli che poi li acquistavano e li tenevano nei loro
portafogli. I primi diventavano propensi ad una valutazione lassista di rischi che poi sapevano di
potere cedere e gli acquirenti non avevano la competenza per gestirli. Spesso i debitori non sanno
più chi sono i loro creditori. Nel tempo diventava meno importante per le banche seguire
quotidianamente la clientela, imprese e famiglie, e più importante gestire la tesoreria con attività di
trading sui mercati finanziari. Di conseguenza si è affermata la tendenza ad usare speculativamente
prodotti che formalmente dovevano coprire i rischi dando avvio ad un processo di riproduzione per
partenogenesi dei prodotti finanziari il cui valore ascende ora ad un elevato multiplo del Pil

Questo testo è un contributo a un libro collettaneo in corso di pubblicazione, preparato dal Forum per l’economia della
Cgil in vista della elaborazione di un suo piano per il lavoro.
mondiale. Nell’enorme spazio creato da questo insieme di “innovazioni” è cresciuto lo shadow
banking, una pletora di imprese finanziarie informali operanti al di fuori dei controlli e variamente
intrecciati con soggetti finanziari ufficiali ai quali ha consentito di sottrarre ai controlli parti
importanti della loro attività. Tutto ciò ha reso la situazione assai rischiosa. Questo processo
degenerativo della finanza, che le autorità preposte al controllo della finanza non hanno voluto
vedere, è stato analizzato e criticato in tempo reale anche da grandi uomini della finanza, quali
Warren Buffett, George Soros, Claude Bébéar, che non hanno trascurato di mettere in evidenza la
loro enorme rischiosità.
All’interno di questo modo di fare finanza, denominato originate and distribuite model, si è andata
formando una netta gerarchia fra grandi banche, sopratutto inglesi e statunitensi, che operano in tutti
i campi della finanza e generano la gran parte dei prodotti finanziari e le banche medie e piccole.
Basta considerare la composizione dei portafogli di questi diversi tipi di banche per rendersi conto
che i crediti delle banche europee nel 2011 rappresentavano circa il 70% degli asset di quelle
medio-piccole ed il 50% circa di quelle grandi1.
Se è evidente la corrispondenza tra la conformazione ed il ruolo che i sistemi finanziari sono andati
assumendo ed il tipo di crescita economica, tale evoluzione è stata resa possibile dal ruolo assunto
nella politica economica dalla politica monetaria. La maturazione delle condizioni che hanno
generato la crisi non può essere compresa a prescindere dalla forte complementarietà fra
l’evoluzione dei sistemi finanziari e la politica monetaria. L’approccio neo-liberista dominante
escludeva la possibilità di politiche industriali, cioè di interventi pubblici rivolti ad orientare
direttamente l’evoluzione della struttura produttiva, ma escludeva anche una regolazione pubblica
della domanda sia di tipo anticiclico e sia di tipo sistematico, da realizzare attraverso il controllo
politico della distribuzione del reddito. La politica macroeconomica restava affidata praticamente
alla politica monetaria, come sottolineato ora anche in sede Fondo Monetario Internazionale2, che
avrebbe dovuto, peraltro, svolgere un ruolo neutrale limitandosi a fornire ai mercati la base
monetaria richiesta con il vincolo del tasso di inflazione ritenuto accettabile. Il ruolo della politica
monetaria e più in generale delle Banche Centrali, come è stato notato già negli anni ‘903,
cambiava, esso non era più quello di tutelare alcuni beni pubblici, a cominciare dalla stabilità dei
mercati finanziari, ma quello di favorire il migliore rendimento del capitale finanziario.
È stato all’interno di questo meccanismo che le Banche Centrali hanno consentito un consistente
trasferimento del loro signoraggio monetario verso le banche, realizzatosi con il potenziamento
della capacità di quest’ultime di concorrere alla formazione della base monetaria e, soprattutto, di
incrementare l’offerta di moneta. Tutto ciò è avvenuto sia in seguito a politiche monetarie
sistematicamente espansive, rese possibili dalla pressione verso il basso dell’inflazione esercitata
dall’enorme aumento dell’offerta di lavoro nel mercato mondiale, sia consentendo un forte aumento
del livello di leverage delle banche. Una ricerca di Banca d’Inghilterra, relativa ad uno dei paesi
1
High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector – Chaired by Erkki Liikanen, 2012.
Olivier Blanchard, Giovanni Ariccia and Paolo Mauro (2010), Rethinking macroeconomic policy, IMF Staff position
note, IMF, Washington.
3
Padoa-Schioppa, T. and F. Saccomanni (1994), 'Managing a market-led global financial system' in P.B. Kenen (ed.),
Managing the World Economy. Fifty Years After Bretton Woods, Institute for International Economics, Washington,
DC, pp. 235–68.
2
promotori di questa evoluzione, mostra che il valore degli asset delle banche inglesi, che equivaleva
al 50% del Pil negli anni ‘70, equivaleva a cinque volte il Pil nel 2007, di conseguenza il tasso di
profitto della banche, che era negli anni ‘70 mediamente pari al 10%, in linea con quello delle altre
imprese, era nel 2007 pari al 30%4. Questo enorme aumento dell’assunzione di rischi da parte delle
banche è avvenuto nel corso di una tendenza storica affermatasi a livello mondiale, rilevata anche
dalla suddetta ricerca, ad aumentare le garanzie pubbliche a favore delle banche, con relativo
aumento di azzardo morale. Abbiamo assistito così al paradosso che mentre le banche
rivendicavano con forza crescente la loro natura di imprese private al pari delle altre aumentavano
enormemente i rischi che esse ponevano sulle spalle della collettività.
L’Unione Europea è l’area dove il livello di leverage delle banche è più alto e la situazione
complessiva più rischiosa. Il valore degli asset nei portafogli delle banche equivale a 3,5 volte il
prodotto lordo dell’area. Sulla media incide il livello delle banche inglesi, pari a 5 volte il Pil
dell’Inghilterra, derivante dal ruolo di punta svolto dalla finanza inglese, e di altri paesi con debito
totale molto alto, Spagna, Irlanda, Portogallo5. Nel caso europeo è ancora più evidente il rapporto
fra tipo di sviluppo e situazione della finanza. La crescita delle divergenze di competitività fra i
paesi dell’area si è tradotta in una crescita dell’indebitamento di alcuni paesi verso altri e, di
conseguenza, del leverage delle banche. Il livello di leverage delle banche riflette la profondità
degli squilibri prodottisi all’interno dell’area, soprattutto a partire dall’introduzione dell’euro. Nel
caso europeo appare ancora più evidente il ruolo esclusivo svolto dalla politica monetaria, in
mancanza di una politica fiscale comune ed in presenza di un patto di stabilità che depotenzia il
ruolo delle politiche economiche nazionali. Ed appare ancora più evidente il comportamento
monocorde tenuto dalla Bce cui non poteva sfuggire la formazione di squilibri così profondi, ma
che si è limitata ad occuparsi del tasso di inflazione e dei deficit pubblici non ritenendo di dovere
intervenire per salvaguardare la stabilità dei mercati finanziari minata dal formarsi di squilibri e di
bolle speculative, compito che, se anche non contemplato nello statuto della Banca, dovrebbe essere
parte costitutiva della ragione di esistere di qualsiasi Banca Centrale.
La risposta europea allo scoppio della crisi finanziaria si può riassumere in tre no: no ai default
delle banche; no alla ristrutturazione dei debiti degli Stati; no all’aumento del tasso di inflazione,
possibilità evocata anche dal citato saggio coordinato da Blanchard, per dare maggiore margine di
manovra alla politica economica e contribuire allo smaltimento del debito. In pratica un rifiuto di
tutte le forme di riduzione del debito e la difesa ad oltranza del valore della ricchezza finanziaria. La
vittoria dei paesi creditori. Quanto alla politica fiscale, dopo una temporanea accettazione della
generale adozione di stimoli fiscali, decisa dalle riunioni dei G20 successive al fallimento della
Lehman Brothers, l’Unione Europea si è spostata sulla politica di austerità. Il risultato di questa
strategia è non solo che l’economia europea è spinta verso una recessione generalizzata con danni
per l’intera economia mondiale, ma che il debito totale europeo non è diminuito e sta anzi
aumentando in quanto ad una certa riduzione del debito privato corrisponde un maggiore aumento
dei debiti pubblici e non diminuisce il livello di leverage delle banche con il rischio che ciò
comporta in una situazione nella quale la recessione tende a deteriorare la qualità degli asset. Vale
4
5
Piergiorgio Alessandri e Andrew G. Haldane (2009), Banking on the State, Paper, Bank of England.
High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector – Chaired by Erkki Liikanen, 2012.
la pena di ricordare che la Bce prima di Draghi è stata la principale oppositrice alla ristrutturazione
del debito pubblico greco e la principale sostenitrice della teoria della “contrazione espansiva”, base
della scelta della austerità.
I fatti hanno costretto ad una ristrutturazione del debito pubblico greco, ma il ritardo con cui tale
decisione è stata presa comporta un costo enormemente maggiore e ne rende l’esito molto incerto. Il
livello dei debiti pubblici sta aumentando anche in seguito agli interventi di salvataggio delle
banche. Dal 2008 a ottobre del 2011 I Parlamenti europei hanno messo a disposizione per
ricapitalizzazioni e garanzie 4,5 trilioni di euro, pari al 36,7% del Pil dell’Unione, di cui ne sono
stati utilizzati fino al 2010 1,6 trilioni comprese le garanzie, pari al 13,5% del Pil. Senza contare i
sussidi nascosti ottenuti soprattutto dalle grandi banche attraverso la politica monetaria6. È inutile
ricordare che questi interventi gravano sostanzialmente sulle spalle dei contribuenti e determinano
una redistribuzione di reddito inversa rispetto a quella che bisognerebbe realizzare.
Il dibattito sul ruolo della politica monetaria è iniziato prima dello scoppio della crisi in corso, in
particolare dopo lo scoppio della bolla tecnologica. A molti appariva chiaro che le politiche
monetarie particolarmente espansive adottate per rispondere alle tendenze recessive generate dalla
crisi finanziaria stavano alimentando una nuova bolla speculativa. L’immissione massiccia di
liquidità, in un contesto senza chiare prospettive di aumento della domanda, veniva incanalata dalle
banche massicciamente a alimentare l’indebitamento delle famiglie per l’acquisto della casa e di
altri beni di consumo generando un eccesso di indebitamento delle famiglie e del settore bancario e
una crescita eccessiva del valore degli immobili e di capacità produttiva nel settore immobiliare. La
domanda che fu posta da molti, e soprattutto dall’International Bank of Settlement (Bis)7, era se le
Banche Centrali, nell’adempimento del proprio mandato di garantire la stabilità dei prezzi,
dovessero occuparsi non solo dell’inflazione dei prezzi dei beni di uso corrente, ma anche
dell’inflazione da asset, in cui consiste la formazione di bolle speculative, tenuto conto che esisteva
una evidente correlazione fra la formazione di tali bolle e la formazione di eccessi di indebitamento
delle famiglie e delle banche alimentata dalla politica monetaria. La risposta esplicita di Greespan e
implicita della Bce fu che tale funzione non rientrava nei compiti delle Banche Centrali; in pratica
non si ritenne che fosse compito delle Banche occuparsi della stabilità dei mercati finanziari.
Ora che i buoi sono scappati dalla stalla si propende a considerare che si debbano prevenire le bolle
speculative e, anche a livello europeo, viene messo in opera un organismo per il controllo
macroeconomico il cui compito, quello di controllare la formazione di squilibri che possano
generare crisi finanziarie, attinge un livello chiaramente politico che dovrebbe fare riflettere sulla
sua composizione. Il dibattito, dove è in corso e non è bloccato dal rispetto dell’ortodossia
germanica, si sta giustamente spostando da come evitare future crisi a come uscire da quella in
corso. Possiamo esemplificarlo riferendoci ad un recente confronto diretto tra le massime autorità
finanziarie inglesi: il Governatore uscente della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, ed il presidente
della Financial Stability Autority ora in estinzione. Entrambi sono favorevoli a interventi di
quantitative easing, (QE) che la Banca d’Inghilterra ha ripetutamente effettuato, entrambi ritengono
6
High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector – Chaired by Erkki Liikanen, 2012.
Vedi ad esempio C. Borio and P. Lowe (2002), Asset prices, financial and monetary stability: exploring the nexus”,
Bis working papers n. 114.
7
che la Banca possa acquistare titoli pubblici all’emissione ed entrambi si sono pronunciati contro la
politica di austerità. Entrambi ritengono che occorra focalizzare il presente, giacché, per dirla con
Turner, “ … la difficoltà non sta semplicemente nell’edificare un miglior sistema per il medio e
lungo termine, ma nella transizione verso di esso evitando di danneggiare la ripresa dalla Grande
Recessione che la crisi del 2008 ha prodotto. E governare la transizione e più difficile che definire
un migliore punto di arrivo”8.
Il punto di dissenso è, tuttavia, importante. Secondo Turner, nel disegnare la risposta al rischio di
deflazione bisogna considerare che “ … il solo quantitative easing può essere soggetto ad un
declino del suo impatto marginale, l’economia fa i conti con una trappola della liquidità … Così la
buona politica deve anche includere la volontà di usare politiche ancora più innovative e non
convenzionali, di considerare l’impatto combinato di una molteplicità di leve politiche – politica
monetaria, garanzia di liquidità della Banca d’Inghilterra, regolazione prudenziale e sostegno diretto
al credito all’economia reale …”. La risposta di King è venuta poco dopo “Il ruolo della Banca
d’Inghilterra è di creare il giusto ammontare di moneta, né troppo, né poco, per supportare una
crescita sostenibile entro il target del tasso di inflazione … Qualcuno ha parlato circa la possibilità
che la moneta creata dalla Banca potrebbe essere usata direttamente per finanziare una spesa
governativa addizionale, o anche che quella moneta possa essere regalata: facendo astrazione dalla
colorita metafora della ‘moneta dagli elicotteri’, tali operazioni combinerebbero politica monetaria e
politica fiscale …” e questo sarebbe “ … non solo non necessario, ma anche pericoloso”9.
Il richiamo della metafora della moneta lanciata dagli elicotteri, usata tempo fa da Milton Friedman,
ci serve per ricordare che anche un vero monetarista come Friedman era consapevole della
necessità, in caso di crisi grave, di sostenere la domanda con la politica monetaria e riteneva che ciò
si dovesse fare direttamente dalla Banca Centrale se il sistema bancario non risultasse più in grado
di fungere da canale di trasmissione della politica monetaria, dando direttamente denaro alla gente
perché aumentasse i consumi. La proposta di Turner, tuttavia, va in altra direzione: non a finanziare
la domanda di consumo, ma gli investimenti pubblici e privati. La risposta di King appare debole.
Innanzitutto chi decide il tasso di inflazione accettabile? Bisognerebbe smettere di nascondersi
dietro al numero magico del 2% e ammettere che la decisione circa il livello del tasso di inflazione è
una decisione che va presa di volta in volta nel quadro di una strategia distributiva, di una strategia
di sviluppo o di uscita dalla crisi e che non può essere presa che a livello politico ed implicare l’uso
coordinato degli strumenti di politica economica. D’altro canto le Banche Centrali stanno già
finanziando ampiamente i debiti pubblici e non certamente solo per impedire che i tassi di interesse
crescano troppo, in effetti lo hanno fatto per sostenere gli stimoli fiscali ed evitare un collasso
dell’economia reale. La Fed ha già ampiamente finanziato direttamente l’economia reale e Ben
Bernanke, nel suo recente discorso al convegno delle Banche Centrali a Jackson Hole, ha
rivendicato tale ruolo e promesso che la Fed continuerà ad immettere moneta per sostenere sviluppo
ed occupazione, corrispondendo al mandato previsto dal proprio statuto redatto al tempo del
keynesismo dominante. Del resto anche la Banca di Inghilterra lo ha fatto ed in ogni caso il
8
9
Adair Turner, Mansion House speech, 11 Oct 2012.
Mervyn King, Speech to South Wales Chamber of Commerce, 23 Oct. 2012.
coordinamento dei due strumenti di politica macroeconomica, politica fiscale e politica monetaria,
dovrebbe avvenire attraverso una concertazione fra potere politico e Banca Centrale10.
Il dibattito sulla politica monetaria ed il ruolo delle Banche Centrali è al centro del dibattito politico
negli Usa, perfino nelle campagna per le presidenziali, lo è in Giappone ed in Inghilterra.
Riferendosi a questo confronto The Economist nota che “L’inflazione non è più vista da tutti come
il migliore obbiettivo della politica monetaria: .. i migliori esperti sostengono che sarebbe meglio
rendere stabile il tasso di crescita nominale del prodotto lordo”. Questa proposta era stata già
formulata prima della crisi come modifica del “patto di stabilità” dell’area euro, in quanto già allora
appariva chiaro come esso stesse assicurando né sviluppo, né stabilità: “… l’obbiettivo per la
politica macroeconomica, e quindi per la politica monetaria, potrebbe essere non semplicemente un
certo tasso di inflazione, ma un tasso di crescita nominale del prodotto lordo pari al tasso di crescita
potenziale dell’area o del singolo paese più il tasso di inflazione considerato accettabile …11”.
Questa proposta è stata rilanciata circa un anno fa in un appello del Forum dell’economia della Cgil
sottoscritto da circa settanta economisti. The Economist conclude che “Fissare gli obbiettivi delle
Banche Centrali è compito dei politici … La decisione relativa a se bisogna avere per obbiettivo
l’inflazione o la crescita del Pil dovrebbe essere fatta dai politici e non solo dai banchieri12”.
Appare interessante la proposta avanzata da Samuel Brittan13, editorialista di Financial Times: la
spesa pubblica, ai livelli europeo e nazionale, potrebbe essere distinta in tre componenti: la spesa
per il funzionamento delle attività pubbliche a tutti i livelli che dovrebbe essere finanziata
rigorosamente con entrate fiscali; la spesa per investimenti, che potrebbe essere finanziata con
debito contratto a prezzi di mercato; la spesa anticiclica, necessaria per rilanciare l’economia in
situazioni di crisi, da finanziare con emissione di moneta a costo zero da parte della Banca Centrale,
che, nel caso italiano, potrebbe essere indirizzata a finanziare un grande piano di messa in sicurezza
e valorizzazione del territorio, il potenziamento di attività di formazione e di ricerca per sostenere i
processi di mobilità necessari per assecondare il riposizionamento del sistema economico all’uscita
dalla crisi. E possiamo immaginare che una parte della moneta emessa col QE venga incanalata, a
livello europeo e nazionale, verso fondi di investimento specializzati nel finanziamento di
infrastrutture, green economy, piccole e medie imprese, secondo uno schema a suo tempo proposto
da CentreForum, think tank liberaldemocratico14. Interventi di questo tipo rientrerebbe in una
visione riformista del ruolo della politica economica che considera che il suo principale obbiettivo
debba essere quello di indurre il sistema economico ad utilizzare tutte le sue risorse, a partire dal
lavoro, per soddisfare bisogni, soprattutto nuovi, insoddisfatti.
Un cambiamento così netto della politica monetaria incontrerebbe certamente la forte resistenza del
Governo tedesco; d’altro canto i grandi cambiamenti, una volta proclamati, sono sempre difficili da
realizzare, se non vengono neanche proclamati sono semplicemente inesistenti. Rispetto ad una tale
svolta nella politica economica vi è un obbiettivo intermedio di grande importanza: sottrarre dal
10
Vince Cable (2011), Moving from financial crisis to sustainable growth, CentreForum paper.
Silvano Andriani (2006), L’ascesa della finanza”, Donzelli editore, Roma, pp. 229-230.
12
The Economist, “Central bank’s power – The grey man burden”, 1st Dec. 2012.
13
Samuel Brittan (2012), “The harmful myth of balanced budget”, Financial Times 11 Oct.
14
Giles Wilkes (2010), Credit where it's due: making QE work for the real economy, CentreForum, paper.
11
calcolo della spesa pubblica nel fiscal compact la spesa per investimenti. Una tale scelta è anche
condizione per cofinanziare progetti europei e per trovare nuove forme di cooperazione
pubblico/privato nel finanziamento degli investimenti.
In ogni caso, per uscire dalla crisi occorre una riforma della finanza ed in effetti è in atto un faticoso
processo di riregolazione della finanza spesso, tuttavia, focalizzato più su come evitare una futura
crisi che su come uscire da quella nella quale siamo sprofondati. Se si guarda in prospettiva occorre
sapere che la vera riforma strutturale della finanza riguarda il suo orientamento complessivo e non
può essere disgiunta dalla consapevolezza della necessità di passare ad un nuovo modello di
sviluppo. In futuro nei paesi avanzati la crescita non dovrà essere più trainata dall’aumento dei
consumi privati, ma da quella degli investimenti pubblici e privati e ciò richiederà un aumento del
tasso di risparmio ed una efficiente allocazione di esso, i sistemi finanziari andranno di conseguenza
riorientati dal finanziamento dei consumi, ai quali si sono in passato soprattutto dedicati, al
finanziamento degli investimenti anche attraverso nuovi modelli di finanziamento.
Ora il problema principale è uscire dall’attuale crisi che resta caratterizzata da un forte eccesso di
indebitamento. Certo una ricaduta nella crisi finanziaria resta un rischio, ma esso è alimentato
soprattutto dalla mancanza di un’adeguata crescita economica che sta deteriorando ulteriormente gli
asset delle istituzioni finanziarie. Rilanciare la crescita è il miglior modo di contrastare tale rischio.
Allora è di grande importanza definire regole e politiche fiscali che incentivino il rilancio di
investimenti di lungo periodo. Alcune regole di Basel III e di Solvency II vanno in direzione
contraria. Tale è la valutazione anche di Eurofi e LongTerm Investors Club. Inoltre l’applicazione
generalizzata della valutazione mark to market degli asset continua, più che mai in questa
situazione, ad aumentare la volatilità dei mercati, l’incertezza dei bilanci, lo shortermism nelle
gestione dei portafogli. Più in generale, poiché e diffusa la convinzione che le regole passate fossero
sostanzialmente pro-cicliche e che anche per questo andrebbero cambiate, è bene tenere presente
che questo è un problema che non riguarda solo il futuro, riguarda più che mai il presente.
Certo tutto ciò che aumenta la trasparenza va bene, ma ancora più importante è avviare i
cambiamenti che favoriscono il passaggio ad un nuovo modello di finanza. Per quanto riguarda le
banche ciò significa spezzare la tendenza a perpetuare le pratiche che hanno generato la crisi e
riportarle, mutatis mutandis, alle loro funzioni tradizionali: incanalare il risparmio verso gli
investimenti, gestire i rischi, seguire giorno per giorno la clientela15. Proposte piuttosto radicali di
riforma strutturale dei sistemi bancari sono state avanzate che vanno dalla proposta di consentire
solo banche di piccola e media dimensione o solo banche specializzate fino alla proposta che le
banche operino solo con il capitale di rischio e perdano la capacità di generare moneta. Ciò che
appare oggi importante è la necessità, largamente condivisa, di separare anche legalmente in tempi
brevi le attività di trading, e non solo sul capitale proprio, dalle attività tipiche della banca
commerciale. Che vengano rotti i collegamenti fra shadow banking e imprese finanziarie ufficiali e
che anche la finanza informale venga sottoposta a controlli.
Vanno inoltre rapidamente ridotte le pratiche che hanno generato i principali fenomeni speculativi.
Le operazioni di cessione dei crediti, securitization, potrebbero essere fatte solo mantenendo la
maggioranza del credito e la sua gestione da chi quel credito ha assunto. L’uso di derivati andrebbe
ridotto strettamente alla funzione di copertura dei rischi e realizzato con prodotti standardizzati in
15
High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector – Chaired by Erkki Liikanen, 2012.
mercati resi trasparenti16. Inoltre è di grande importanza che “La risposta regolatoria debba
comportare l’impiego di strumenti anticiclici macroprudenziali che possano determinare
direttamente l’offerta aggregata di credito. Questi potrebbero includere variazioni automatiche o
discrezionali dei requisiti di capitale o di liquidità nel corso del ciclo, o vincoli, quali limiti nel LTV
(loan to value ratio) che direttamente influenzano i debitori piuttosto che i creditori17”.
Se si guarda alla necessità di rilanciare gli impieghi delle banche verso l’economia reale si può
pensare di condizionare l’erogazione di liquidità alle singole banche da parte della Banca Centrale
all’impiego di una quota di essa in nuovi crediti verso le imprese e le famiglie. In questa direzione
va il Funding for Lending Scheme adottato dalla Banca d’Inghilterra. Si possono prevedere accordi
fra organizzazioni bancarie e governi in questa direzione, esempio di tale orientamento è il
“progetto Merlin” adottato in Inghilterra. Si possono parametrare i bonus al management a questo
obbiettivo.
Andrebbe inoltre favorito il ritorno delle banche d’investimento alla loro funzione di sostenere la
generazione di nuove imprese o la ristrutturazione di quelli esistenti assumendo in esse parte delle
funzioni imprenditoriali con una visione di lungo periodo, come accadde per Silicon Valley ed altre
simili esperienze.
Se si considera il problema del rilancio della funzione delle banche nell’area euro, uno dei mezzi
principali dovrebbe essere l’Unione Bancaria. È convinzione generalizzata che essa dovrebbe
poggiare su tre pilastri: un unico controllore; un meccanismo comune di risoluzione delle crisi
bancarie; l’assicurazione dei depositi a livello di area euro. Nel dibattito in corso secondo e terzo
pilastro sono scomparsi per volontà dei paesi creditori. È bene rilevare che senza la realizzazione di
tutti e tre i pilastri il progetto non avrebbe molto senso in quanto, se anche si realizzerebbe
l’adozione di metodi di valutazione comuni della solidità delle banche, resterebbero sostanzialmente
diverse le condizioni concrete nelle quali banche della medesima solidità, ma di diversi paesi,
dovrebbero operare, con evidente distorsione, tra l’altro, della concorrenza. La frantumazione in
atto del mercato finanziario europeo, rafforzata dall’orientamento dato alle banche nazionali di
acquistare titoli di stato del proprio paese, sta alterando profondamente la concorrenza fra le
imprese e distorcendo l’allocazione delle risorse finanziarie.
Quanto al controllo comune esso dovrebbe riguardare tutte le banche e non solo le più grandi, come
sostengono i governi tedesco e spagnolo. Le esperienze dei salvataggi di Northern Rock e di Dexia
hanno dimostrato che rischi sistemici possono provenire dal fallimento di banche di modesta
dimensione. E le banche minori, soprattutto le casse di risparmio, sono le più soggette ad influenze
politiche territoriali. Resta da capire perché, mentre si tratta per unificare il controllo delle banche a
livello europeo, si dà per scontato che il controllo delle compagnie di assicurazione e degli altri
soggetti finanziari debba restare a livello nazionale.
L’eventuale messa in campo di un unico meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie porrebbe il
problema dell’Autorità che dovrebbe gestirlo. Non potrebbe essere la Bce che finirebbe con
16
Marco Onado (2009), I nodi al pettine, Laterza editore, Roma.
Adair Turner (2010) “What do the banks do? Why do credit booms and busts occur and what can public policy do
about it?”, in Adair Turner and others, The future of finance, The LSE Report, LSE, London.
17
accentrare una enorme potere e poi la gestione delle crisi bancarie tira in ballo i bilanci pubblici, la
misura in cui debbano esserne coinvolti, le modalità di recupero dei fondi erogati, in altri termini
tira in ballo decisioni politiche. In prima battuta si potrebbe pensare al Esm18, se le sue funzioni
saranno estese anche alla ricapitalizzazione delle banche, visto che si tratta di un organismo di
diretta emanazione del potere politico. Ma dovrebbe essere chiaro che l’impiego di fondi pubblici
dovrebbe verificarsi eventualmente non solo dopo che i rischi siano stati sopportati non solo dal
capitale sociale in tutta la sua capienza, ma anche dai creditori, almeno per la parte senior, come
sostenuto anche dal Financial Stability Board, anche con trasformazione autoritativa di essi in
capitale sociale per la ricapitalizzazione della banca in crisi.
Più in prospettiva si può pensare ad un organismo, quanto meno dell’area euro, di emanazione
politica, che assuma i compiti previsti dagli accordi di Bretton Woods per il Fondo Monetario
Internazionale, per evitare la formazione di squilibri eccessivi fra i vari paesi, per superarli quando
si siano prodotti, per gestire le situazioni di crisi. In ogni caso, se la creazione dell’Unione Bancaria
dovesse procedere, aumenterebbero probabilmente gli attriti con i paesi che non fanno parte
dell’area euro, soprattutto con l’Inghilterra che teme per le sorti della City. Questo è evidentemente
un problema politico, ma tale contrasto non potrà comunque essere evitato se si ritiene che la vera
risposta alla crisi stia in un rilancio del processo di unificazione politica dell’Europa.
Il governo conservatore inglese, proseguendo un percorso già intrapreso dal precedente governo
laburista, ha creato due banche pubbliche, la Big Society Bank e la Green Bank. Il segretario del
Labour ha rilanciato proponendo la creazione di una grande banca di investimento pubblica e
qualcuno ha proposto che per questo potrebbe essere usata, opportunamente riconvertita, la Royal
Bank of Scottland, che è diventata pubblica in seguito al salvataggio. Il governo francese ha creato
una banca pubblica per il finanziamento dei settori strategici ed ha concentrato in un’unica Agenzia
tutte le partecipazioni statali in società per azioni per dare alla presenza pubblica una funzione
strategica. In Usa è in corso la formazione di una banca per le infrastrutture. Questi ed altri
interventi stanno rendendo evidente la tendenza degli Stati a tornare a volere influenzare
l’evoluzione della struttura produttiva, anche per orientare il riposizionamento del paese nel
contesto mondiale in rapida trasformazione, e ad orientare in parte i flussi finanziari attraverso una
parziale socializzazione del processo di investimento. La creazione di queste strutture pubbliche, se
devono essere davvero banche e non agenzie specializzate di spesa pubblica, pone l’interrogativo
circa l’origine dei fondi che saranno utilizzati, interrogativo che porta al tema di un nuovo rapporto
pubblico/privato nel finanziamento degli investimenti.
Nella situazione di stress dei bilanci pubblici e di difficoltà dei sistemi bancari sarebbe di grande
importanza usare la leve del risparmio gestito da investitori istituzionali: Fondi pensione,
Compagnie d’assicurazione, Fondi di investimento. Si tratta di fondi di portata rilevante19 che
vengono investiti, in genere, con criteri di diversificazione dei rischi di tipo assicurativo, data
18
Rainer Masera (2012), “Unione bancaria, il modello Usa”, La Repubblica 16 Luglio.
Andrea Goldstein e Celine Kauffmann (2011), “Il finanziamento delle infrastrutture in Europa”, in Claudio De
Vincenti (a cura di), Equa, robusta e sostenibile. Una ricetta per la crescita dell’Europa, Italianieuropei, Roma.
19
l’impossibilità per chi gestisce grandi masse di denaro di conoscere e poter valutare nel merito
singoli progetti e singole imprese. Solo una parte modesta di questi fondi è impegnata in attività
pubblico/privato, nonostante nel 2007 il Consiglio dell’Ocse abbia pubblicato i “Principles for
Private Sector Participation in Infrastructure”. Dopo anni di sottoinvestimento, i bisogni nel campo
delle infrastrutture sono enormi anche a livello europeo20. Se consideriamo il punto di vista degli
investitori, Laurence Fink, presidente della più grande società di gestione di fondi, la BlackRock, ci
spiega che “ Dovunque vado nel mondo ora io sento la stessa domanda posta da persone, società,
fondi pensione: cosa posso fare del mio denaro? Ad ogni livello la risposta è la stessa: noi abbiamo
bisogno che il denaro lavori di nuovo per finanziare le pensioni e alimentare lo sviluppo economico.
Molto semplicemente noi dobbiamo trasformare i risparmiatori a breve termine di oggi in
risparmiatori a lungo termine21”.
Il nuovo rapporto pubblico/privato viene usato soprattutto nel campo delle infrastrutture - trasporti,
energia, green economy … - e l’esperienza mostra che le modalità di rapporto devono tenere conto
delle diversità dei diversi tipi di infrastrutture. Anche il recente meccanismo, il “ Regulatory asset
base” (Rab), definito dal governo inglese, sta dando luogo ad applicazioni diversificate per i diversi
tipi di infrastrutture. Un green paper della Commissione Europea è in corso di elaborazione che
vedrà la luce a Gennaio prossimo, dedicato alla mobilitazione del risparmio gestito per il
finanziamento di infrastrutture. Ciò che conta, in ogni caso, è che, “… per qualunque tipo di
investimento la partnership deve essere solida, trasparente e coerente con le leggi vigenti al fine di
assicurare la profittabilità dell’investimento ed attenuare le comprensibili riserve dell’opinione
pubblica circa il coinvolgimento di operatori privati nei settori infrastrutturali più importanti22”.
La mobilitazione del risparmio gestito per il finanziamento di investimenti può avvenire anche nel
campo corporate ed anche attraverso l’attività di operatori privati attraverso la formazione di fondi
specializzati che delineano nuovi modelli di finanziamento degli investimenti e delle imprese,
diversi dal credito bancario. Esperienze di questo tipo sono in corso di avviamento anche in Italia.
La costituzione di fondi specializzati per progetti di investimento potrebbe essere realizzato anche a
livello territoriale.
Si può pensare questo approccio anche in dimensione europea, anzi proprio a livello europeo sono
in corso interessanti esperienze con la costituzione di fondi specializzati nel campo dell’energia e
dei trasporti, che ha visto protagoniste sopratutti le Casse Depositi e Prestiti23. Il coinvolgimento
degli investitori istituzionali appare finora limitato.
Un disegno più complessivo per un nuovo rapporto pubblico/privato a livello europeo viene
delineato da Rainer Masera24 sulla base dell’ipotesi che le spese per investimenti vengano sottratte
al computo della spesa pubblica nel fiscal compact: “ … occorre pensare ad un processo nuovo:
20
Gert Wehinger (2011), “Fostering Long-term Investment and Economic Growth Summary of a High-Level OECD
Financial Roundtable”, in OECD Journal: Financial Market Trends, vol. 2011, issue 1, pp. 9-29.
21
Financial Times “ Companies have a moral duty to help workers save”, 29/02/12.
22
Goldestein e Kauffmann, citati.
23
“New European institutional long term financial instruments for a strong, sustainable and balanced growth”, Eurofi
financial forum 29Sett - 1 Oct 2009.
24
Rainer Masera (2012), Infrastrutture e loro finanziamento in Europa: implicazioni per il fiscal compact, paper
28/05/12.
dalla selezione degli investimenti a livello paese, motivata politicamente ed accompagnata da una
convalida tecnico ingegneristica e finanziaria a livello nazionale, ad un approccio di Autorità
europea: “Infrastrutture Europa”. Accanto a questa Authority che dovrebbe assicurare rigorosi
standard comuni nella selezione degli investimenti potrebbe operare la Bei come promotrice dei
progetti e per raccogliere i fondi anche attraverso l’emissione di Europroject bond.
Poiché “ La finanza è il luogo della socializzazione del capitale; si tratta di fare in modo che tale
socialità si inveri nel suo modo di operare25”. Un nuovo patto del mondo della finanza con la società
e con la politica sarebbe auspicabile che ridia alla finanza la possibilità di produrre i suoi utili
corrispondendo ai bisogni di un nuovo tipo di sviluppo più proiettato verso il futuro e più
sostenibile.
25
Silvano Andriani, citato.