Il dibattito economico oltre i confini a cura dell'Osservatorio Economico e Finanziario Area Politiche di Sviluppo Su questo “Numero uno”: Sulla economia globale Sul FT del 18 novembre, Martin Wolf, nell'articolo “Il contributo corporate all'eccesso di risparmio” affronta l'eccesso di risparmio delle aziende, causa il ridursi degli investimenti. Per quali ragioni? Stagnazione secolare, invecchiamento, globalizzazione, nuove tecnologie ecc. Sta di fatto che buona parte del risparmio che si aggira per il mondo alla ricerca del rendimento deriva dal mancato investimento degli utili delle aziende. L'editoriale dell'Economist del 14 novembre (titolo: La storia infinita). Prima l'America, poi l'Europa. Ora la crisi del debito ha raggiunto i mercati emergenti), con ripercussioni pesanti soprattutto sull'economia europea, più esposta al raffreddamento della loro domanda. Ma il rischio più grande è la circolarità della crisi del debito. Dal Blog di Joseph Stiglitz del 10 novembre, Stiglitz e Martin Guznam nell'articolo “Un passo avanti per i debito sovrano” descrivono le recenti decisioni dell'ONU (a maggioranza col voto contrario dei grandi paesi principali creditori capeggiati da US e Germania) sui principi per la ristrutturazione dei debiti sovrani. Il loro giudizio è positivo: per la prima volta ci sono dei principi su cui la comunità internazionale si è impegnata. Ma costruire su di essi il sistema sarà più difficile. Dal Blog di Marcello Minenna del 20 novembre l'articolo “Gestire politicamente l'economia: le trappole cinesi” fa una disamina della situazione in cui versa l'economia della Cian: problemi strutturali e possibili soluzioni. Sulla Big Read del FT 25 novembre, titolo “Corporate tax” si affronta il tema delle elusioni fiscali delle multinazionali che utilizzano le giurisdizioni fiscali più convenienti mettendo in atto vere e proprie trattative coi governi o sfruttando le legislazioni più favorevoli. Con il merger Pfizer/Allergan, da $160 miliardi, si prevede un risparmio di 21 miliardi di tasse per il gruppo che dopo la fusione ha stabilito sede legale e fiscale in Irlanda. Il caso dimostra la sostanziale inefficienza delle nuove regole fiscali definite dall'OCSE su mandato dei governi del G20 per dare un giro di vite all'elusione fiscale delle multinazionali. Il presidente US Barak Obama interviene, in occasione del G20, con un articolo sul FT del 13 novembre sulla debole ripresa economica globale. Titolo: “La voce coraggiosa dell'America, da sola, non può bastare”. da New York Times dell'1 dicembre, un articolo riferisce della decisione del FMI di inserire tra le monete che fanno parte del panel dei diritti speciali di riserva, il renbimbi (Il fondo monetario internazionale aggiunge il renbimbi alla lista delle monete di riserva). Questo corrisponde a una fortissima aspirazione del governi cinese che ci lavora da tempo ma ha anche implicazioni sulla politica monetaria e finanziaria della Cina. Sulla economia della EU: Su Social Europe Journal del 10 novembre, con un articolo intitolato “Approfondire la governance economica: i prossimi passi”, Iain Begg illustra le proposta adottata dalla Commissione Europea il 21 ottobre, sulla base del Five Presidents Report dello scorso giugno per rafforzare le istruzioni e le procedure della governance economica. Il potere si concentra ulteriormente nelle mani delle tecnostrutture europee, con interventi fortemente intrusivi nella politica economica dei governi nazionali. Ma manca ogni rafforzamento della legittimità e dell'accountability democratiche. Su FT 16 novembre, Wolfgang Munchau l'articolo “La ripresa italiana non è quello che sembra” polemizza con le affermazioni di Yoram Gutgeld sulla situazione economica del paese, solleva dubbi preoccupazioni. Su SEJ del 9 novembre un interessante intervento di Thorsen Schulten “La contrattazione collettiva in Grecia dopo il terzo memorandum”: l'agghiacciante descrizione della cura della troika e sui suoi effetti sulle condizioni dei lavoratori in Grecia. Su SEJ del 30 novembre, Ronald Janssen con un articolo intitolato “Lost in competition: il fondo monetario internazionale e il dumping salariale competitivo dell'Eurozona” rende conto di una nota di discussione dello staff del FMI. Il paper, pur affermando che la stretta salariale in larga parte dell'Eurozona è pericolosa e deflattiva perché non migliorerà la posizione competitiva relativa di nessuno mentre taglierà la domanda interna dappertutto, non rinuncia a sostenere le politiche di svalutazione salariale sostitutiva di quella monetaria, fin qui portate avanti nell'EU. Janssen ricorda le proposte politiche della CES. Su SEJ del 30 novembre Nouriel Roubini scrive che “L'Europa non è condannata al collasso”, ma descrive a tinte fosche la situazione in cui versa l'EU, in particolare sostiene che la minaccia esistenziale viene dalla crisi dei migranti, con tutto quello che c'è dietro di lei. Sul Wall Street Journal del 28 novembre, Marcello Minenna “Le sbagliate riforme dell'euro approfondiranno la prossima crisi”, affronta e confuta le nuove proposte tedesche per: nuova agenzia di controllo centralizzata e indipendente sui bilanci nazionali, introduzione del meccanismo di bail in nelle prossime emissioni di titoli pubblici, nuove ponderazione del rischio sui titoli posseduti dalla banche. Evidenzia problemi e rischi. Paul De Grauwe sul suo Blog affronta il tema “L'Euro e Shengen: comuni magagne e soluzioni comuni”, sostenendo che il problema per entrambi è l'incompiutezza. O si completano, e ci vuole un forte impegno politico o sono entrambe destinate a rompersi. Sul clima: Editoriale dell'Economist del 28 novembre, “Clear thinking needed” che sostiene che il riscaldamento globale non può essere affrontato usando la mentalità e gli strumenti di oggi. Ma bisogna crearne di nuovi. Su FT del 18 novembre, Henry Paulson, sull'articolo intitolato “Abbiamo bisogno di incentivi per salvare il clima - non solo di un accordo” sostiene che per il cambiamento climatico, servono incentivi alle imprese. Su New York Times del 1° dicembre, un articolo riferisce di un report scientifico di esperti cinesi, nominati dal governo, sui cambiamenti climatici in Cina che individua grossi rischi: scioglimento dei ghiacci, siccità, innalzamento dei mari, carenze idriche che potrebbero alimentare conflitti internazionali alla frontiera dell'Himalaya. Sulle tecnologie che rivoluzionano il lavoro: su SEJ 2 novembre, Steven Hill scrive “Perchè gli 'one-percenters' beneficeranno della Gig Economy mentre il resto no”. La sua è una visione molto pessimistica di come risulterà la riorganizzazione capitalistica delle aziende aiutata dalla piattaforme tecnologiche che consentono lo spezzettamento e l'outsourcing anche delle attività più professionalizzate e di come la ricchezza e il reddito tenderanno a concentrarsi ulteriormente, a meno che non si intervenga per tempo con misure di policy. su SEJ 20 novembre, Andrea Boes scrive un articolo intitolato “Digitalizzazione: nuovi concetti del lavoro stanno rivoluzionando il mondo del lavoro” in cui descrive, sulla base anche dell'esperienza dell'IBM, come evolveranno – negativamente i rapporti di lavoro. Su SEJ 3 novembre, Simon Deakin scrive “Il Luddismo ai tempi di Uber” e Jean Pisani-Ferry affronta il problema del cambiamenti dei sistemi di sicurezza sociale a fronte delle profonde trasformazioni che stanno intervenendo nell'organizzazione sociale del lavoro. Titolo: “I social benefits nell'età di Uber”. In un breve intervento sul suo Blog il 30 novembre, Robert Reich spiega “Perchè la sharing economy sta nuocendo ai lavoratori - e cosa si deve fare”: Tra 5 anni, egli sostiene il 40% degli americani avrà un lavoro non di tipo dipendente regolare. Tra 10 anni, in queste condizioni ci starà la stragrande maggioranza. Quindi occorre operare interventi legislativi sulle tipologie contrattuali e sul welfare. “I robots ci arricchiranno e non ci sostituiranno” è la tesi sostenuta in uno dei pochi interventi ottimisti sull'evoluzione dell'organizzazione della produzione. L'articolo è comparso sul FT il 21-22 novembre. Financial Times 18 novembre 2015 Martin Wolf “Il contributo corporate all'eccesso di risparmio (saving glut)” La nozione di "saving glut" aiuta a spiegare i tassi di interesse reali super-bassi che stiamo vedendo dalla crisi globale del 2007-09. Ma l'idea di "stagnazione secolare" suggerisce che questo eccesso era emerso anche prima. Per spiegare perché, dobbiamo guardare al comportamento del settore corporate. Quale analisi si adatta allora allo spostamento dell'equilibrio di bilancio tra i programmi di risparmio e di l'investimento? La risposta comincia con il fatto che le companies generano un enorme proporzione di investimento. Nelle sei economie a alto reddito più grandi (US, Giappone, Germania, Francia, UK e Italia), le corporations hanno contato per una quota tra metà e due terzi dell'investimento lordo del 2013 (la quota più bassa è quella italiana, la più alta quella giapponese). Poiché le corporations sono responsabili di tale grande quota di investimento, sono anche, in termini aggregati, i più grossi utilizzatori del risparmio disponibile, ma gli stessi guadagni trattenuti da loro stesse sono una grande fonte di risparmio. Perciò in questi paesi, i profitti corporate hanno generato tra il 40% (Francia) e il 100% (Giappone) del risparmio lordo (compreso il risparmio estero) disponibile per l'economia. In un'economia dinamica, ci si aspetterebbe che le corporations, in termini aggregati, usino l'eccesso di risparmio di altri settori - soprattutto quello delle famiglie - per generare sia domanda allegra che offerta crescente. Se tuttavia l'investimento è debole e i profitti forti, il settore corporate diventerà, stranamente, un finanziatore netto dell'economia. Il risultato sarà una mistura di deficits fiscali, deficits finanziari delle famiglie e avanzi delle partite correnti (cioè deficits di conto capitale). In Giappone i deficits fiscali compensano gli enormi surpluses corporate. In Germania, un deficit di conto capitale compensa i surpluses corporate e delle famiglie. Dall'inizio della crisi, i settori corporate delle grandi economie ad alto reddito hanno avuto surpluses di risparmio rispetto all'investimento, con l'eccezione della Francia. Il surplus di risparmio delle corporations giapponesi è, sorprendentemente, vicino all'8% del PIL. I settori corporate hanno pertanto sostanzialmente contribuito al saving glut. Non è solo un fenomeno post-crisi. Anche nella fase di accumulo della crisi, i settori corporate hanno avuto surpluses in Giappone, UK e Germania (tranne che nel 1008) e negli US (tranne che nel 2007 e nel 2008). Un paper della FED nota che la Grande Recessione è stata in parte responsabile di tali surpluses, ma aggiunge che anche nei 5 anni prima della crisi, i tassi di investimento corporate "si sono ridotti al di sotto dei livelli che erano stati previsti dai modelli stimati negli anni precedenti". La crescita dei surpluses del risparmio corporate è guidata da una combinazione di profitti forti e investimenti deboli. L?indebolimento dell'investimento è strutturale e ciclico al tempo stesso. Per di più. l'indebolimento è diffuso. Ciononostante l'eccesso di risparmio corporate del Giappone è di dimensione unica. Qualsiasi analisi delle sfide economiche del Giappone che non partono da questo fatto sono essenzialmente senza valore. E' inoltre importante non confondere l'eccesso di risparmio corporate rispetto all'investimento con le accumulazioni, ampiamente notate, di liquidità da parte di dumping molte companies. Il business può acquisire liquidità non solo accaparrando i risparmi messi da parte ma anche prendendo prestiti o vendendo assets. L'osservazione che il surplus strutturale di risparmio sull'investimento sembra sia emerso nei settori corporate dei grandi paesi ad alto reddito è altamente significativa. E' significativa per la crescita dell'offerta potenziale perché riflette un investimento relativamente flebile, ma è significativa anche per la forma della domanda aggregata. Se il settore corporate ha surplus strutturale di risparmio rispetto all'investimento, altri dumping settori devono avere deficit strutturali compensativi. Se il governo è in equilibrio finanziario, sia le famiglie che gli stranieri devono avere questi deficitsdumping. Nell'Eurozona questa logica ha portato a enormi surpluses di partite correnti (undumping deficit finanziario per gli stranieri). Per l'UK e gli US è probabile che significhi nuovi deficits delle famiglie - una possibilità pericolosamente destabilizzante. Perchè l'investimento corporate è strutturalmente debole? Una ragione è l'invecchiamento delle società: il rallentamento della crescita potenziale determina l'abbassamento del livelli dell'investimento necessario. La globalizzazione è un'altra: motiva la riallocazione dell'investimento dai paesi ad alto reddito. Un'altra ragione ancora è l'innovazione tecnologica. Buona parte dell'investimento è oggi nell'IT, il cui prezzo sta collassando: un costante investimento nominale finanzia la crescita dell'investimento reale. Di nuovo, buona parte dell'innovazione sembra ridurre la necessità di capitale: si consideri la sostituzione dei magazzini per retail stores. Un'altra spiegazione potrebbe essere che il management non è premiato per l'investimento. Insieme, tutto ciò potrebbe spiegare perché, ad esempio negli US, il rapporto dell'investimento corporate sui profitti si è significativamente ridotto a partire dal 2000. Il comportamento del settore corporate solleva anche importanti domande di policy. La tassazione corporate, per esempio, dovrebbe sicuramente incoraggiare sia l'investimento che la distribuzione dei profitti. Il modo per ottenere questi obiettivi congiunti potrebbe essere attraverso tasse più alte sui risparmi messi da parte, insieme con la piena deducibilità sia degli investimenti che dei dividendi. Oltre ciò,è stato accettato che, fino a quando il settore corporate ha surpluses finanziari strutturali, l'equilibrio macroeconomico è probabile che richieda deficits fiscali. Inoltre, se il settore corporate non riesce a investire i suoi stessi risparmi, i risparmi nel resto dell'economia sonio destinati ad avere un basso valore marginale. In un mondo simile, tassi di interesse reali super-bassi e alti prezzi dell'equity non costituiscono affatto una sorpresa. Sono entrambi prevedibili. Allora finiamo di lamentarcene. Economist 14 novembre 2015 “La storia infinita” Prima l'America, poi l'Europa. Ora la crisi del debito ha raggiunto i mercati emergenti. Sono quasi 10 anni da quando la housing bubble americana è scoppiata. Sono sei da quando l'insolvenza greca ha acceso l'eurocrisi. A legare questi episodi è stata la rapida crescita del debito seguita da uno scoppio. Una terza puntata delle cronache del debito si sta svolgendo ora. Questa volta il setting sono i paesi emergenti. Gli investitori hanno già scaricato gli assets nel mondo in via di sviluppo, ma la piena agonia della crisi è ancora da venire. Le crisi del debito nei paesi più poveri non è nulla di nuovo. In qualche modo è meno drammatica dei defaults e delle rotture monetarie verificatesi negli anni 1980s e 1990s. Oggi i mercati emergenti, in gran parte, hanno tassi di cambio più flessibili e riserve più grandi e quote più piccole del loro debito in moneta straniera. Cionostante, la scoppio colpirà la crescita più duramente di quanto la gente si aspetti ora, indebolendo l'economia mondiale anche con la FED che comincia ad alzare i tassi di interesse. Cronaca di un debito annunciato In tutti e tre i volumi di questa trilogia del debito, il ciclo è cominciato con il fluire di capitali attraverso le frontiere, l'abbassamento conseguente dei tassi di interesse e l'incentivo alla crescita del credito. In America un eccesso di risparmio globale, in gran parte dall'Asia, ha inondato il subprime housing, con risultati disastrosi. Nell'Eurozona, i parsimoniosi tedeschi hanno aiutato a finanziare il boom dell'immobiliare irlandese e della spesa pubblica greca. Quando queste bolle del mondo ricco si sono trasformate in fallimento, spedendo i tassi di interessi a minimi storici, il flusso di capitali ha cambiato direzione. Il denaro è fluito dai paesi ricchi a quelli poveri. Ma è stata un'altra baldoria: troppi prestiti, troppo velocemente e quantità di debito assunto dalle imprese per finanziare progetti imprudenti o acquisti di asset eccessivamente cari. Complessivamente, il debito nei paesi emergenti è cresciuto dal 150% del PIL nel 2009 al 195%. Il debito corporate è cresciuto da meno del 50% del PIL a quasi il 75% del PIL. Il rapporto debito/PIL cinese è cresciuto di quai il 50% negli ultimi 4 anni dumping Ora anche questo boom sta giungendo a termine. Il rallentamento della crescita cinese e i deboli prezzi delle materie prime hanno scurito le prospettive anche con un dollaro più forte e un approccio di interessi più alti in America argina il flusso di capitale a buon mercato. Poi arriva il conto. Alcuni cicli del debito finiscono in crisi e in recessione - testimoniato sia dal la debacle dei subprime e poi dall'agonia dell'Eurozona. Altre finiscono solo in un rallentamento della crescita, con i borrowers che smettono di spendere e i lenders che auto-affondano per recuperare. La dimensione del boom del credito nei mercati emergenti assicura che le conseguenze faranno male. IN paesi in cui l'indebitamento del settore privato è cresciuto più del 20% del PIL,il passo della crescita del PIL rallenta in media di quasi tre punti percentuali nei tre anni dopo il picco del borrowing. Ma quanta pena riserva il futuro dipenderà anche da fattori locali, dalla dimensione dell'aggiustamento del tasso di cambio che ha già avuto luogo nella dimensione delle riserve dei paesi. Crudelmente, la maggior parte delle economie emergenti può essere messa in uno di questi tre gruppi. Il primo gruppo include quelli per i quali il boom del credito sarà seguito da un prolungato hangover, non un attacco di cuore. Appartengono a questa categoria quelli come Singapore e Corea del sud; così, in modo cruciale per l'economia del mondo,anche la Cina. Ha ancora difese formidabili per proteggerla dall'exodus dei dumping capitali. Ha un surplus di partite correnti enorme. Le sue riserve di moneta straniera erano ancora di 3.5 trilioni di dollari ad ottobre, approssimativamente tre volte il debito estero. I policy makers hanno la possibilità di salvare i borrowers e mostrano pochi segni di voler sopportare defaults. Nascondere i problemi sotto il tappeto non te ne libera. Le imprese che devono fallire barcollano; i crediti bidone aumentano nei bilanci delle banche; un eccesso di capacità nei settori come l'acciaio portano al dumping negli altri. Tutto ciò mina la crescita, ma fa scendere la minaccia di una crisi grave. Per quel rischio, si guardi invece ai paesi della seconda categoria - quelli che dumping mancano degli stessi mezzi per il salvataggio dei borrowers imprudenti o che si proteggono dalla fuga dei capitali. Delle economie più grandi, in questa categoria ne risaltano tre. Il corporate bond market del Brasile è cresciuto di 12 volte dal 2007. Il suo attuale deficit di conto corrente significa che poggia sul capitale straniero; la sua dumping paralisi politica e l'inflessibilità fiscale non offrono nulla per rassicurare gli investitori. Le banche della Malesia hanno perso molte obbligazioni straniere, e le sue famiglie hanno il più alto rapporto debito/reddito di tutti gli altri paesi emergenti; il suo ammortizzatore di riserve straniere sembrano sottili e il suo surplus di conto corrente è prevedibile si restringa. La Turchia combina un deficit di conto corrente, inflazione alta e debito denominato in moneta estera che è diventato più oneroso con la svalutazione della lira. Il terzo gruppo di paesi consiste in quei mercati emergenti che riusciranno a evitare problemi seri e hanno già superato il peggio. Dei più grandi, l'India è nelle condizioni migliori di ogni altra economia emergente e la Russia potrebbe superare le aspettative. Il rublo ha già avuto un aggiustamento maggiore di ogni altra grande moneta, e l'economia mostra segni di tentativi di risposta. Anche l'Argentina, un flop perenne ma con poco debito privato, potrebbe brillare se un riformista vincerà le elezioni presidenziali questo mese. A parte tali brillanti spots, tutto il resto punta a un altro pallido anno per l'economia del mondo. Il FMI prevede una crescita più alta nei mercati emergenti l'anno prossimo; la lezione dei passati cicli del debito suggerisce che un altro anno di rallentamento è la cosa più probabile. E la debolezza del mondo in via di sviluppo, che conta per quasi la metà dell'economia globale (in termini di parità di potere d'acquisto), conta molto di più di quanto contasse in passato. Una crescita più bassa nei paesi emergenti colpisce i profitti delle multinazionali e il cash flow per gli esportatori. I bassi prezzi delle materie prime aiutano gli importatori di petrolio ma accrescono la pressione sulle miniere indebitate, i trivellatori e i traders, che, tra di loro, sono debitori di circa tre trilioni di dollari. Quarto volume? L'economia europea aperta è la più esposta al raffreddamento della domanda dei paesi emergenti, ed è per questo che appare probabile un maggiore monetary easing. Ma il dilemma della policy americana è più acuto. La divergenza nella politica monetaria tra lei e il resto del mondo porterà pressioni verso l'alto del dollaro, colpendo esportazioni e guadagni. E ondate di capitale possono possono di nuovo cercare il consumatore americano come il borrower scelto. Se è così, la crisi del debito del mondo può tornare a dove è cominciata. Dal Blog di Joseph Stiglitz 10 novembre 2015 Joseph Stiglitz e Martin Guznam “Un passo avanti per il debito sovrano” Ogni paese avanzato ha una legge fallimentare, ma non c'è una cornice equivalente per i sovereign borrowers. Questo vuoto giuridico è importante perché, come possiamo ora vedere in Grecia e in Puerto Rico, può risucchiare la vita delle nostre economie. A settembre, l'ONU ha fatto un grosso passo avanti per riempire tale vuoto, approvando una serie di principi per la ristrutturazione dei debiti sovrani. I nove precetti - ossia il diritto sovrano di iniziare una ristrutturazione del debito, l'immunità sovrana, l'equo trattamento dei creditori, la (super) maggioranza per la ristrutturazione,la trasparenza, l'imparzialità, la legittimità, la sostenibilità e la buona fede nei negoziati - formano i rudimenti di un'efficace stato di diritto internazionale. Il travolgente sostegno per tali principi, con 136 membri dell'ONU che hanno votato a favore e solo 6 contrai (guidati dagli USA), mostra l'estensione del consenso globale sulla necessità di risolvere le crisi dei debiti in modo tempestivo. Ma il prossimo step - un trattato internazionale che stabilisce un regime globale per la bancarotta cui i paesi sono obbligati - può dimostrarsi più difficile. Gli ultimi eventi sottolineano i rischi enormi posti dalla mancanza di una quadro per la ristrutturazione del debito sovrano. La crisi del debito di Puerto Rico non può essere risolta. In particolare, i tribunali US hanno invalidato la legge fallimentare nazionale, sentenziando che poiché l'isola è, nei fatti, una colonia US, il suo governo non aveva l'autorità per mettere in atto una propria legge. Nel caso dell'Argentina, un altro tribunale US ha permesso a una piccola minoranza di cosiddetti Vulture funds di danneggiare un processo di ristrutturazione su cui aveva convenuto il 92.4% dei creditori del paese. Analogamente, in Grecia, l'assenza di un quadro giuridico internazionale, è stata una importante ragione per la quale i creditori - la troika composta dalla Commissione Europea, la BCE e il FMI - hanno potuto imporre politiche che hanno inflitto un danno enorme. Ma qualche potente attore si fermerebbe ben al di sotto della messa in atto di un framework giuridico internazionale. L'International Capital Market Association (ICMA), sostenuta dal FMI e dal tesoro US, suggerisce di cambiare il linguaggio dei contratti del debito. La pietra angolare di tali proposte è la realizzazione di migliori clausole per azioni collettive (CACs) che renderebbero vincolanti per tutti gli altri le proposte di ristrutturazione del debito approvate da una super-maggioranza. Ma mentre migliori CACs certamente complicherebbero la vita dei vulture funds, non sono tuttavia una soluzione complessiva. Infatti, il focus su ritocchi ai contratti di debito lascia irrisolti molti temi critici e in qualche modo conferma le attuali carenze del sistema - o addirittura peggiora le cose. Per esempio, una seria questione che resta non affrontata dalla proposta dell'ICMA è come risolvere conflitti che nascono quando sono emessi i bonds in giurisdizioni diverse, con diversi quadri giuridici. La legge contrattuale potrebbe funzionare bene quando c'è solo una classe di holdbonders; ma quando si arriva a bonds emessi in diverse giurisdizioni e monete, la proposta del'ICMA non riesce a risolvere il difficile problema della "aggregazione" (come pesare i voti dei diversi pretendenti?) Inoltre, la proposta dell'ICMA promuove comportamenti collusivi tra i principali centri finanzia: i solo creditori i cui voti contano per l'attivazione delle CACs sarebbero quelli che possedevano bonds emessi in un ristretto gruppo di giurisdizioni. E non fa niente per affrontare la severa disuguaglianza tra i creditori formali e quelli impliciti (cioè i pensionati e i lavoratori nei confronti dei quali anche i creditori hanno delle obbligazioni) che non avrebbero voce nella proposta della ristrutturazione. Tutti e sei i paesi che hanno votato contro la risoluzione dellONU (US, Canada, Germania, Israele, Giappone e Regno Unito) hanno una legge fallimentare nazionale e riconoscono che le CACs non sono sufficienti. Ma tutti rifiutano di accettare che il fondamento logico per una stato di diritto nazionale - comprese le previsioni per proteggere i deboli borrowers da creditori potenti e insultanti - si applicano anche a livello internazionale. Forse questo è perché sono tutti paesi creditori che non hanno alcuna voglia di sottoporre a restrizione i loro poteri. Il rispetto dei nove principi approvati dall'ONU è precisamente quello che è mancato negli ultimi decenni. La ristrutturazione del debito greco del 2012, per esempio, non ha ripristinato la sostenibilità, come è stato dimostrato dal disperato bisogno di una nuova ristrutturazione soltanto tre anni dopo. Ed è diventata quasi una norma violare i principi dell'immunità sovrana e dell'equo trattamento tra i creditori, evidenziata in modo così chiaro della sentenza del tribunale di New York sul debito argentino. Il mercato dei credit default swaps ha portato a processi non trasparenti di ristrutturazione del debito che non ha creato incentivi alle parti di negoziare in buona fede. L'ironia è che paesi come gli US obiettano a un quadro legislativo internazionale perché esso interferisce con la loro sovranità nazionale. Ma il principio più importante cui la comunità internazionale ha dato il suo assenso è il rispetto per l'immunità sovrana: ci sono limiti oltre i quali i mercati - e i governi - non possono andare. I governi possono essere tentati di scambiare la immunità sovrana per migliori condizioni di finanziamento nel breve termine a spese di costi maggiori che graveranno sui loro successori. Nessun governo dovrebbe avere il diritto di rinunciare all'immunità sovrana, proprio come nessun individuo può vendersi come schiavo. La ristrutturazione del debito non è un gioco a somma zero. Il quadro che la governa determina non solo come è divisa lo torta tra i creditori formali e tra i rivendicanti formali e informali, ma anche la dimensione della torta stessa. I quadri nazionali per la bancarotta si sono evoluti perché era controproducente punire con il carcere i debitori insolventi - un carcerato non può ripagare i suoi debiti. Allo stesso modo, prendere a calci i paesi debitori quando sono giù, peggiora soltanto i loro problemi: neppure i paesi in caduta libera possono restituire i loro debiti. Un sistema che veramente risolve le crisi de debito sovrano deve basarsi su principi che massimizzino la dimensione della torta e assicurino che sia equamente distribuita. Abbiamo ora l'impegno della comunità internazionale sui principi; dobbiamo solo costruire il sistema. Dal Blog di Marcello Minenna 20 novembre 2015 “Gestire politicamente l'economia: le trappole cinesi” Dopo 8 mesi di continua contrazione, la forza del manifatturiero cinese è ufficialmente arenata. La corsa sulle montagne russe dell'estate 2015 con il crollo del suo mercato e gli improvvisi cambiamenti di policy ha determinato negli uffici governativi il diffondersi della paura di perdere ulteriori punti di crescita del PIL. L'ultima stima (probabilmente ottimistica) di un tasso di crescita del 6.9% appare deludente se confrontato con la crescita a due cifre di qualche anno fa quando la Cima aveva superato la Germania e il Giappone, minacciando direttamente la leadership economica US. La risposta del governo alla crisi è stata di esercitare ancora più controllo sull'economia, ma nello stato presente è difficile valutare se la sua cura sta realmente aiutando a consolidare la struttura economica cinese o ne sta indebolendo le fondamenta. Subito dopo lo shock Lehman nel 2008, Pechino ha reagito con efficacia, agganciando lo yuan al dollaro US nel Forex market e in tal modo riducendo le oscillazioni monetarie in una banda molto limitata. Per di più, la People Bank of China ha iniettato liquidità aggiuntiva nell'economia reale per sostenere gli investimenti e il settore immobiliare. Purtroppo, questa abbondante liquidità ha avuto l'effetto avverso di accendere massive bolle di assets e di permettere investimenti in progetti dubbi o addirittura disastrosi (ad esempio il casino di Macao e parte del sistema ferroviario ad alta velocità). Le bolle immobiliari sono destinate a scoppiare e così è avvenuto in Cina. Per compensare la perdita di ricchezza nominale, la controversa strategia del governo è stata di gonfiare ulteriormente la bolla dello stock market; dall'ottobre 2014, una propaganda robusta ha incoraggiato più di 100 milioni di cinesi a investire i loro risparmi nella borsa valori. Ovviamente gli indici dell'equity sono aumentati (la borsapawn off di Shanghay ha guadagnato più del 110% in 7 mesi) e alla fine ha raggiunto il picco, con la conseguente vendita da panico. La mossa successiva del governo è stata abbastanza shockante: con l'intento di limitare le perdite e di frenare il panico, la vendita degli assets è diventata improvvisamente difficile e persino illegale. Di conseguenza, i nuovi 100 milioni di "smart traders" sono stati costretti a rimanere “pawn off” bloccati in un bear market, una situazione molto estranea agli standards del 21esimo secolo. Anche se si è colto l'obiettivo principale di bloccare il crollo dei mercati e i valori fluttuano oggi intorno ai livelli dell'inizio del 2015, stanno emergendo altri seri problemi. Infatti, i macro dati cinesi stanno segnalando una debolezza strutturale: l'export market (la tradizionale destinazione del manifatturiero) sta rallentando, con una forte caduta di -3.7% su basi annuali, la domanda interna non sta crescendo e il tasso di inflazione è consistentemente basso. Sul fronte finanziario dell'economia, il debito totale (pubblico e privato) ha raggiunto la barcollante cifra del 280% del PIL, con il credito incagliato o in sofferenza che in un anno ha raggiunto il 35% sui bilanci delle banche cinesi. Non c'è da stupirsi che il governo cinese abbia tentato qualcosa di radicale: a metà agosto la banca centrale ha deciso un riaggancio dello yuan al dollaro, mandando ondate di shock nei mercati finanziari del mondo. L'obiettivo di tale misura era la svalutazione della moneta in "modo controllato" al fine di stimolare l'export e simultaneamente di promuovere lo yuan come riserva monetaria primaria attraverso negoziati con il FMI per entrare nell'élite club delle monete. Mentre il FMI sta ancora valutando la richiesta della Cina, la banca centrale cinese sta combattendo per equilibrare una politica monetaria accomodante (tagli multipli dei tassi di interesse, riduzione delle riserve minime per le banche cinesi, criteri più flessibili di accettazione dei collaterali) con il controllo del tasso di cambio in un regime di più deboli controlli sui capitali. Lo yuan si sta, nei fatti, svalutando ma non a un tasso rapido, poiché la banca centrale sta vendendo enormi riserve monetarie straniere per controbilanciare le pressioni al ribasso sul tasso di cambio. Ma questa strategia ha avuto un costo: il deflusso di "valute forti" sta avendo un considerevole impatto sulle altre economie, perché il 35% delle riserve straniere della People Bank of China sono Us treasuries. In altre parole, la Cina sta vendendo quello che la FED ha comprato con il suo Quantitative Easing, riducendo in parte la liquidità globale con un "QE di direzione inversa". Questa strategia può funzionare o meno, maggiormente dipendendo dai movimenti degli altri grandi players dell'economia mondiale, ma sicuramente può avere successo per un tempo limitato. Sta ora emergendo con chiarezza che l'indebolimento dello yuan ha colpito le esportazioni dell'Eurozona (soprattutto della Germania), minacciando in tal modo la ripresa "export driven" immaginata dalla BCE; probabilmente il driver principale dell'accennato QE2.0 da parte del presidente Draghi è profondamente radicato nella crisi interna della Cina. La sfida principale per riaccendere la crescita della Cina è spingere la domanda interna incoraggiando i consumi privati; questi restano a livelli bassi se confrontati con quelli dei paesi sviluppati. Un forte segnale in tale direzione è arrivato qualche giorno fa con l'inversione della politica del figlio unico; forse questa è la direzione giusta da seguire per la seconda più grande economia del mondo e potrebbe dimostrare che in qualche caso una forte guida politica è meglio del solo "laissez faire". Di certo, non sarà facile. Dalle riforme economiche degli anni '80, la Cina ha avuto considerevole successo nel seguire un sentiero "goldilocks" (che si è dimostrato esatto) tra l'ortodossia neo-liberista e la pianificazione economica, con enormi pressioni esterne subite dai lavoratori cinesi e dall'ambiente. Ora il sentiero si è ristretto, ma realisticamente è il solo che la Cina può sperare di seguire Financial Times 25 novembre 2015 Big Read “Corporate tax” Con il merger Pfizer/Allergan da $160 miliardi si prevede un risparmio di 21 miliardi di tasse per il gruppo combinato. Con l'OCSE che sta imprimendo un giro di vite sull'elusione fiscale, cosa possono fare gli US per chiudere gli “inversion loopholes” (scappatoie delle tasse corporate) Un vecchio edificio industriale nel quartiere periferico working-class Clonshaugh di Dublino è un luogo inaspettato in cui trovare la prova della guerra globale dell'elusione fiscale corporate. Ma il sito, prova del ruolo centrale dell'Irlanda nel più grosso scossone nell'industria farmaceutica da una generazione, è un legame cruciale nel controverso fenomeno delle imposte corporate (tax inversions). Un edificio bianco, basso, di acciaio e vetro è l'ex quartier generale Di Forest Laboratories, ora una divisione di Allergan a seguito di una serie di takeovers per motivi fiscali e di cambiamenti di nome, culminati nel 2014 in un'acquisizione da $25 miliardi. Lunedì la posta in gioco è ulteriormente cresciuta dopo che Allergan ha convenuto una fusione da $160 miliardi con Pfizer degli US, un accordo che creerà il gruppo farmaceutico più grande al mondo per vendite. Allergan – una volta di base negli US – già raccoglie i frutti di essere domiciliato in un paese low-tax. L'anno scorso ha pagato in Irlanda una aliquota fiscale inferiore al 5%. Se l'accordo Pfitzer-Allergan verrà approvato, potrà usare una inversion – in cui un'azienda può ridomiciliarsi in una giurisdizione low-tax – per ottenere lo stesso tasso. Pfizer è l'ultimo gruppo US che prende questa strada, seguendo i passi, tra gli altri, di Burger King, di Liberty Global e Medtronic. Ma il premio per essere riuscito a districarsi dal sistema fiscale US per Pfizer è di gran lungo più grande: la manna di guadagni superiori a $21 miliardi; l'accesso ai $130 miliardi di guadagni offshore che ha schermato alle autorità americane; e una riduzione del tasso fiscale dal 25.5% dello scorso anno a uno tra il 17 e 18% . Ma se la fusione si dimostra essere un vantaggio per la società nata con la fusione, metterà anche in difficoltà almeno due governi. La settimana scorsa il Tesoro US ha annunciato misure deterrenti contro tali inversions, con Jack Lew, segretario del Tesoro US, che le ha liquidate come “transazioni per eludere le tasse”, mentre Washington sta ancora cercando di riformare il proprio sistema fiscale. Dopo poche ore dall'annuncio dell'accordo Pfizer, Hillary Clinton, frontranner per la nomination presidenziale democratica, ha accusato il gruppo farmaceutico di evitare la sua “giusta quota” di tasse. L'Irlanda, già nel mirino di una investigazione EU sull suo regime fiscale, è in una posizione ancora più scomoda. Nella disperata ricerca di evitare ulteriori indagini sulle politiche fiscali del suo paese, Michael Noonan, ministro delle finanze irlandese, dopo l'accordo Pfizer, ha insistito che IDA Ireland, l'agenzia di investimento interno del paese, non ha incoraggiato le inversioni. La rabbia, soprattutto in Europa, sulla elusione fiscale corporate, ha innescato richieste di un giro di vite internazionale per chiudere le scappatoie, migliorare la trasparenza e restringere l'uso dei paradisi fiscali. Le riforme, disegnate per assicurare che le tasse siano pagate dove si realizzano i profitti sono state sostenute questo mese dai leaders del G20 che ha commissionato le proposte all'OCSE. “La ricreazione è finita” dice Pascal Saint-Amans, dirigente top tax official dell'OCSE, che si è impegnato a porre fine alla “golden era” del “non paghiamo tasse da nessuna parte”. L'attrazione dell'Irlanda Il giro di vite proposto al G20 ha grosse implicazioni per l'Irlanda e oltre. Il suo successo nell'attrarre le multinazionali da Pfizer a Apple a Google e Facebook è in larga parte dovuto a una politica industriale tax driven che è in essere da 50 anni. Il risultato è stato la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro – secondo la Camera di Commercio US, le società US presenti in Irlanda occupano 140.000 persone. Pfizer è stata una delle prime multinazionali US a porre in essere un'operazione manifatturiera in Irlanda quando, nel 1969, è arrivata a Ringaskiddy, allora un tranquillo villaggio di pescatori vicino a Cork ma ora un grande hub industriale. Per decenni l'Irlanda ha offerto una esenzione fiscale sulle vendite export. Questa è stato poi sostituita da una tassa corporate del 12.5% - sebbene tale tassa sia spesso ulteriormente ridotta usando schemi complessi come il notorio “double irish” che sfrutta le scappatoie delle legislazioni US e irlandese per consentire lo spostamento dei profitti in paradisi fiscali ancora più convenienti come le Isole Cayman. La scappatoia di cui hanno beneficiato soprattutto le società tecnologiche, è stata chiusa dal governo irlandese. IDA minimizza il ruolo del sistema fiscale. Martin Shanahan, chief executive, dice: “Ogni decisione di investimento si basa su un certo numero di fattori, il più importante dei quali è il talento – è dunque qualcosa di più complesso delle sole tasse”. Me la società possono comprare tanto talento con i miliardi di dollari che risparmiano dai loro conti fiscali. Le società farmaceutiche e tecnologiche sono particolarmente capaci di trarre vantaggio dal sistema fiscale irlandese business-friendly a causa della facilità con cui possono muovere i brevetti - e i profitti a questi associati - per medicine inventate all'estero. Più della metà dei brevetti in Irlanda copre invenzioni fatte fuori dal paese, una proporzione più alta di ogni altro luogo ad eccezione del Lussemburgo. La facilità con cui le aziende possono spostare i profitti in paesi low-tax è ora sfidata dalla stretta sui più di $240 miliardi persi attraverso quella che l'OCSE descrive come “base erosion and profits shiftings” o Beps. Jim Steward, professore di finanza al Trinity College di Dublino, dice: “L'Irlanda facilita l'erosione delle basi fiscali dei paesi offrendo agevolazioni molto vantaggiose alle multinazionali che operano qui, che altrove non sarebbero permesse”. Aggiunge, tuttavia, che l'Irlanda non è la peggiore colpevole nell'EU, individuando nel Lussemburgo e nell'Olanda paradisi fiscali più ampi. Molti esperti fiscali credono che i paesi resisteranno a fare i cambiamenti più sgraditi, indulgendo in “mock compliance” (finta adesione) alle mosse dell'OCSE; altri sceglieranno di prendere le misure. Ci sono già tensioni sul fatto che la politica fiscale – come in Irlanda – possa essere una fonte di vantaggio competitivo. Krister Andersson, della Confederazione svedese delle imprese dice: “C'è la percezione che Beps concerni le imprese. Invece concerne moltissimo i paesi” Tensioni US Per gli US, il political gridlock (stallo politico) al Congresso – e l'opposizione di alcuni al progetto Beps – è una della ragioni per le quali si prevede che la riforma sostenuta dall'OCSE avrà un impatto limitato. Ma malgrado la rigida opposizione delle multinazionali, il Tesoro è intento a introdurre misure per aiutare le autorità fiscali ad accendere la luce su strutture, precedentemente opache, rivelando dove le società realizzano i loro profitti o dove pagano le tasse. Molti imprenditori europei sono preoccupati dell'eccezionalismo US – o anche solo di una parziale adesione all'azione dell'OCSE – perché ritengono che qualunque intervento non affronterà i “tax black holes” (buchi neri fiscali), i miliardi di dollari di profitti tassati light nascosti offshore dai gruppi farmaceutici americani e dalla società tech. Intanto le multinazionali US hanno un incentivo a spingere fino a limite le loro regole. Dall'altra parte dell'Atlantico, c'è disagio tra qualche policymaker americano e i chief executives che insistono che le dispute fiscali fanno semplicemente parte di un più vasto assalto alle multinazionali US all'estero. Le società US sono già arrabbiare perché avvertono di essere svantaggiate dal codice fiscale US che le tassa sui loro guadagni all'estero più di tutti i paesi industrializzati. Questo ha creato svantaggi competitivi che Ian Read, chief executive officer della Pfizer, paragona a “combattere con una mano legata dietro la schiena”. I legislatori hanno cercato di mitigare questa situazione permettendo a qualche multinazionale di ammassare grandi quantità di liquidità all'estero e basse aliquote fiscali. Quest'anno, prima di spostare la sua base fiscale in Irlanda, David Pyott, presidente di Allergan ha detto ai senatori US: “Sono convinto che saremmo dovuti rimanere una indipendente società americana se non ci fossero gli svantaggi causati la nostro sistema fiscale corporate non competitivo”. Gruppi come Pfizer che hanno parcheggiato enormi quantità di introiti offshore fuori dagli US sono considerati particolarmente esposti alla campagna guidata dall'OCSE. Paul Rayan speaker della US House of Representatives ha detto il mese scorso: “trilioni di dollari di capitale americano sono bloccati fuori dagli US e, come risultato, le società americane sono mirate dai governi desiderosi di ottenere le tasse sui loro guadagni”. Senza grandi tagli alle aliquote fiscali corporate, Washington non potrà proteggere le sue multinazionali dall'impatto della riforma Beps, secondo Ian Grinberg, professore associato di diritto al Law Center della Georgetown University. Il tesoro US sostiene le nuove misure di trasparenza che pensa scoraggeranno le aziende a portare i profitti nei paradisi fiscali. Ma ha anche attaccato le azioni unilaterali di alcuni dei suoi più stretti alleati, in particolare il Regno Unito, che ad aprile ha introdotto una “diverted profits tax”. “Gli US sono uno dei perdenti dei negoziati Beps", aggiungendo che: “L'UK attraverso una efficace diplomazia ha ottenuto risultati per se stesso”. Chiudere i paradisi L'OCSE sta anche cercando di limitare la concorrenza fiscale, costringendo paesi come l'UK a riformare le loro “patent boxes” - agevolazioni fiscali per reddito da brevetto – sebbene non ne stia fermando la diffusione. Il mese scorso, l'Irlanda è stata l'ultimo paese ad adottare l'incentivo – offrendo un tasso solo del 6.25% sui denari guadagnati. Ma la spinta principale degli sforzi dell'OCSE è di fare smettere le imprese di scrivere a bilancio i loro profitti nei paradisi fiscali dove non hanno alti dirigenti o reale sostanza economica. C'è l'impressione che qualche società stia cominciando a cambiare la propria pianificazione fiscale. Amazon e Starbucks - entrambi già accusati di elusione fiscale - hanno annunciato cambiamenti al loro modello di business e ci sono aspettative che altri seguiranno. Più di un terzo delle multinazionali esaminate dalla Deolitte in tutta Europa prevedono di rivedere o correggere la loro strategia fiscale internazionale in risposta alle riforme del G20. Ironicamente, i freni alla pianificazione fiscale possono finire per aumentare la concorrenza – con i governi che non vogliono perdere gli investimenti chiudendo le scappatoie – determinando più tagli nelle aliquote. La competizione per l'investimento resta intensa in Europa. L'UK sta tagliando la sua aliquota fiscale corporate preparandosi a stringere le regole fiscali sul debito e sui brevetti. In Lussemburgo, gli esperti di policy stanno parlando di ridurre la loro aliquota corporate al 16-20% cercando di impedire le defezioni. Paul Mousel partner dello studio legale lussemburghese Arent& Medernach dice: “Speriamo - e penso ce ne siano le ragioni - di poterci trasformare, da ovvi perdenti, in vincitori” L'Irlanda sta valutando i rischi di altre riforme come la proposta fatta da Bruxelles di un sistema pan-europeo. Brian Keega, capo dell'ufficio tasse all'istituto di ragioneria irlandese, dice che i Beps favoriranno i grandi paesi mentre i più piccoli perderanno introiti e investimenti. “I Beps sono per loro stessa natura protezionisti”. Ma ci sono segnali che l'Irlanda non stia perdendo il suo appeal con le multinazionali US. Negli ultimi mesi, Apple, Pfizer e Facebook hanno creato nuovi posti di lavoro nel paese. La sua ripresa economica dopo il crollo immobiliare e bancario,è anche largamente dovuta alle attività delle società straniere. “I proventi fiscali stanno aumentando – lo scacchiere irlandese ha raccolto 2.5 miliardi di euro in più del previsto nei primi 10 mesi del 2015 e l'80% della fonte è attribuibile a quanto è derivato dalla tassa corporate. Se questo continua, l'Irlanda sarà una grande beneficiaria del più ampio giro di vite sui paradisi fiscali. Tuttavia, il suo ruolo centrale nelle US tax inversions sta facendo calare un'ombra e c'è ansia sulla risposta americana al controverso accordo di fusione Pfizer-Allergan. Peter Vale, leader della Grant Thorton, società irlandese esperta di fisco internazionale insiste che il paese ha poco da guadagnare dalle inversions che non portano con sé nessuna garanzia di maggiore occupazione o introiti fiscali. Ma riconosce che non è questo il modo in cui sono viste. “Siamo stati contaminati dalla opinione US che l'Irlanda faciliti l'elusione fiscale” dice. Financial Times 13 novembre 2015 Barack Obama “La voce coraggiosa dell'America non può essere la sola” Di fronte a una crisi storica, sette anni fa, il G20 ha agito per invertire una depressione globale e ricostruire l'economia globale su un sentiero di maggiore resilienza. Da allora, attraverso questi ed altri sforzi, il G20 ha dimostrato a se stesso di essere il foro principale per la cooperazione economica internazionale. La voce dell'America è per un'azione coraggiosa - una posizione rafforzata dalla nostra stessa performance economica. Il nostro business ha creato 13.5 milioni di nuovi posti di lavoro, alimentando la serie più lunga di crescita occupazionale nel settore privato mai registrata, e portando il nostro tasso di disoccupazione sotto al 5%. Dal 2009, abbiamo tagliato il nostro deficit di quasi tre quarti. Le famiglie e il business americani hanno ridotto i loro debiti e la ripresa della spesa e dell'investimento ha aiutato a rafforzare l'economia del mondo. Oggi il G20 ha di fronte un'altra sfida. Se l'economia globale sta crescendo, cresce tuttavia troppo lentamente. Abbiamo individuato questa sfida già al G20 dell'anno scorso, e oggi è ancor più pronunciata. Per questo, al summit della settimana prossima, il mio messaggio sarà chiaro: dobbiamo agire per rafforzare la crescita in modo da beneficiare tutti i nostri popoli. Specificatamente, ci sono 5 aree in cui agire. Primo, i nostri paesi devono attuare una politica fiscale che sostenga la domanda di breve termine e investa nel nostro futuro. Il recente accordo bipartisan sul bilancio negli US è un buon passo. Secondo, i nostri paesi devono agire per migliorare la domanda mettendo più soldi nelle tasche dei consumatori della classe media che guidano la crescita. Negli US, la agenda economica per la nostra classe media si propone di fare esattamente questo. Abbiamo esteso la copertura dell'assistenza sanitaria ad altri 17.6 milioni di cittadini, tagliato tasse per le famiglie della classe media, e fatto passi per rendere più accessibili i prezzi dell'università. E continuerò a spingere sul Congresso per aumentare il minimum wage, investire di più nella scuola e estendere i crediti fiscali alle famiglie lavoratrici. Anche gli altri paesi devono agire. La Cina in particolare dovrebbe liberare la sua classe media accelerando la transizione a una economia guidata dai consumi. Come ha riconosciuto il presidente Xi Jinping, l''export cinese e la crescita guidata dalle costruzioni non sono più sostenibili. E dovremmo tutti riconoscere che le tasse che ricadono troppo pesantemente sul consumo o sulla classe media non farebbero che rallentare la domanda in un momento in cui il mondo ne ha bisogno. Terzo, i nostri paesi possono favorire una crescita più inclusiva abbassando le barriere all'entrata nella forza lavoro. In molti paesi, compreso il mio, i trends di invecchiamento hanno contribuito a una proporzionale contrazione della popolazione in età di lavoro. In risposta, il Giappone sta perseguendo politiche per aumentare la quota di donne nella sua forza lavoro. Alcuni paesi in Europa hanno realizzato politiche aziendali family friendly per aumentare i loro tassi di partecipazione al al lavoro e, negli ultimi mesi, hanno accolto centinaia di migliaia di rifugiati nelle loro società - una risposta umanitaria ma anche un'opportunità economica. Negli US ho enfatizzato l'importanza della riforma per l'immigrazione, per i congedi retribuiti, per le politiche di flessibilità nei luoghi di lavoro e per il credito d'imposta che aiuti le famiglie lavoratrici nella assistenza ai bambini al fine di avere famiglie con due salari all'interno della forza lavoro. Quarto, possiamo sostenere una crescita più inclusiva con accordi commerciali di alto standard che alla fine beneficino la middle class. La Trans Pacific Partnership aiuterà a generare retribuzioni più alte, luoghi di lavoro più sicuri,concorrenza più leale e ambiente più pulito - standards che metterò in evidenza durante il mio viaggio di ritorno dal G20 nelle Filippine e in Malesia. Quinto, il mondo deve concordare sulla necessità di più investimento pubblico, specialmente ci sono bassi tassi di interesse. per questo sto spingendo il Congresso perché crei posti di lavoro per l'oggi e il domani, adottando quest'anno un piano infrastrutturale di lungo termine. Inoltre, l'investimento pubblico spesso induce investimento privato. Un'area in cui l'America deve dimostrare che questo è vero è l'energia pulita. Sei anni fa abbiamo fatto il più grosso investimento della nostra storia; oggi il settore dell'energia pulita è in boom e sta attraendo investimento dal business. Un ambizioso accordo a Parigi il mese prossimo, segnalerà agli investitori che il mondo è fermamente impegnato a un futuro low-carbon. Questo è specialmente vero in paesi in via di sviluppo come il Brasile, l'India e l'Indonesia che possono accelerare la prossima fase del loro sviluppo attraverso un nuovo investimento privato nell'energia pulita. Da New York Times 1 dicembre 2015 “IL FMI aggiunge il Renbimbi alla lista delle monete di riserva!” IL Fondo Monetario Internazionale ha approvato lunedì scorso la moneta Cinese renbimbi come una delle principali monete di riserva del mondo per le banche centrali, un grande riconoscimento del peso finanziario ed economico crescente del paese. La decisione del FMI aiuterà a pavimentare la strada per un un uso più largo del renbimbi nel commercio e nella finanza, assicurando alla Cina la posizione di potenza economica globale. Ma introduce anche nuova incertezza nel sistema finanziario e nell'economia cinese poiché il paese è stato costretto ad allentare molti controlli monetari per rispettare i requisiti del FMI. I cambiamenti potrebbero iniettare incertezza nell'economia cinese, poiché larghi flussi di denaro possono riversarsi nel paese e allontanarsene in base alle sue prospettive. Questo potrebbe rendere più difficile per la Cina mantenere il suo record di crescita forte e costante, specie in un momento in cui l'economia sta già rallentando. Il FMI comincerà con l'includere la moneta nell'unità di conto del fondo, i cosiddetti diritti speciali di prelievo, alla fine di settembre. Il renbimbi prenderà il suo posto al fianco del dollaro, dell'euro, della yen e della sterlina. Molte banche centrali seguono questo benchmark nella costruzione delle loro riserve, il risultato sarà pertanto che i paesi potranno iniziare a possedere più renbimbi. La Cina inoltre acquisirà molta influenza nei salvataggi internazionali denominati in unità di conto del Fondo, come l'accordo sul debito greco. La decisione di ricomprendere il renbimbi “è una importante pietra miliare nell'integrazione dell'economia cinese nel sistema finanziario globale” ha detto in un comunicato Christine Lagarde, direttore del FMI “è anche il riconoscimento del progresso fatto dalla autorità cinesi negli anni scorsi per riformare il loro sistema monetario e finanziario. Continuare e approfondire questi sforzi porterà a un sistema monetario e finanziario internazionali più robusti che, a loro volta, sosterranno la crescita e la stabilità della Cina e dell'economia globale". La leadership cinese ha fatto del raggiungimento da parte del paese del gruppo di monete una priorità, definendolo in ottobre come una della principali priorità economiche dei prossimi anni. Il nuovo status del renbimbi “migliorerà il sistema monetario internazionale e proteggerà la stabilità finanziaria globale” ha detto il presidente Xi Jinping a metà novembre. Nei mesi precedenti alla decisione del FMI, la Cina ha agito su più fronti per assicurarsi che il renbimbi fosse abbracciato in modo più ampio. Lo ha fatto in parte per rispettare la regola del FMI che una moneta debba essere “liberamente utilizzabile” prima di potere essere inclusa nel benchmark. Cina e Gran Bretagna hanno venduto titoli sovrani denominati in renbimbi per la prima volta a Londra, che è emersa come l'hub per le monete dell'Europa. L'Ungheria ha annunciato progetti di emissione di propri bonds denominati in renbimbi e la Ceinex exchange di Francoforte ha cominciato a scambiare bonds basati su renbimbi bonds. E' cominciata a Shangahai la preparazione di commercio di contratti petroliferi denominati in renbimbi. Soprattutto, la Cina ha cominciato a cambiare il modo in cui definisce il valore del renbimbi ogni mattina. Nel farlo, ha rapidamente svalutato la moneta. L'ingresso negli speciali diritti di prelievo è principalmente simbolico. Ma i movimenti più ampi verso una maggiore trasparenza finanziaria e la più facile commerciabilità avranno effetti di più lungo termine. Randall S.Krozneer, un ex direttore del Federal Board Reserve che è ora professore di economia all'Università di Chicago ha detto che la Cina “può fare cambiamenti che renderanno il renbimbi più attraente per gli investitori internazionali” Social Europe Journal 10 novembre 2015 Iain Begg* “Approfondire la governance economica: i prossimi passi” *Iain Begg (professorial researh fellow all'European Institute Economics) of the London School of All'inizio di quest'anno, è stato pubblicato il cosiddetto “Five Presidents Report”, scritto da Jean.-Claude Juncker, Donald Tusk, Jeroene Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Shultz, che ha tratteggiato i piani per il rafforzamento dell'unione economica e monetaria. Questo articolo descrive le proposte adottate il 21 ottobre dalla Commissione Europea per attuare le raccomandazioni del report. I nuovi piani mostrano che le riforme dell'Eurozona con un impatto volto decisamente all'integrazione stanno andando avanti e potrebbe esserci qualche conseguenza per i tentativi dell'UK di rinegoziare la sua membership nell'EU. L'UK ha ripetutamente incoraggiato l'Eurozona a integrarsi di più perché la moneta unica funzioni meglio, mentre, contemporaneamente continua ad agitarsi sui rischi che l'Eurozona caucus decida su politiche di riforme contrarie agli interessi britannici. Questa sta ora diventando una delle principali preoccupazioni nei tentativi per rinegoziare la posizione dell'UK nell'EU. Sebbene molti critici dell'EU disdegnano la sua apparente incapacità di risolvere la crisi dell'euro e si lamentano delle lentezze del decision making, la riforma della governance economica negli ultimi anni è andata ben al di là di quanto questi critici riescano a vedere. Una roadmap per ulteriori riforme è stata predisposta in quella che è conosciuta come il “Five presidents report”, pubblicato alla fine di giugno 2015 per una complessiva revisione. Alcuni, compreso l'ex ministro delle finanze italiano Fabrizio Saccomanni, hanno lamentato che si sia trattato di un'occasione persa perché troppi dei temi più complicati, come, ad esempio, il possibile contributo della politica fiscale possa alla stabilizzazione macroeconomica, avrebbero dovuto essere affrontati con forza maggiore. Tuttavia la attuazione del report è ora in progress dopo che le proposte sono state adottate dalla Commissione il 21 ottobre. Il background è spiegato in una comunicazione della Commissione che pone cinque aree d'azione, già anticipate dal presidente Juncker nel discorso sullo stato dell'Unione nel settembre scorso. La prima iniziativa sarà ridefinire quello che viene chiamato il semestre europeo, il ciclo economico annuale attraverso cui sono coordinate le politiche economiche. Tale coordinamento avviene attraverso la valutazione dei piani economici nazionali e l'emissione di quelle che sono conosciute come raccomandazioni specifiche per i paesi (CSRs) volte a influenzare il policy making nazionale. I principali cambiamenti che propone la Commissione al semestre sono il miglioramento dei collegamenti tra livello nazionale e livello dell'Eurozona, riconoscendo l'importanza di come evolve l'economia dell'Eurozona nel suo insieme, e ponendo maggiore attenzione agli effetti sul lavoro e le condizioni sociali. In più, il documento sostiene il rafforzamento della diffusione delle best practices la possibilità di più finanziamenti per la “assistenza tecnica” a loro sostegno. Il secondo, interessante sviluppo, è la formale decisione di creare un European Fiscal Board. Un elemento delle precedenti riforme della governance era l'insistenza perché i paesi dell'eurozona creassero un consiglio fiscale indipendente, con l'obiettivo di agire come cane da guardia sul modo in cui i governi conducono le loro finanze pubbliche. Nell'UK, l'Office for Budget Responsability adempie a questa funzione. Il nuovo Board proposto, che è composto da 5 membri, avrà il compito di valutare gli sviluppi fiscali nell'Eurozona nel suo insieme e - in quello che potrebbe essere uno sviluppo significativo – facendo da consulenza sulla materia fiscale dell'Eurozona nel suo insieme. Collaborerà inoltre con i consigli fiscali nazionali e fornirà suggerimenti ad hoc alla Commissione. Tre ulteriori misure sono proposte piuttosto che accordi definiti, alcune delle quali è probabile incontrino resistenza da diversi paesi membri: Primo, la Commissione vuole vedere la nascita di competitiveness boards in tutti gli stati membri, sebbene la sua proposta attuale sia la volontarietà per gli stati esterni all'Eurozona. Questi boards devono sovraintendere alle riforme volte alla crescita della competitività delle economie e devono essere operativi a metà de 2016. Devono essere indipendenti dai governi e avere funzione di consulenza piuttosto che operativa, sebbene il documento accenni a un ruolo più formale in futuro. La rappresentanza collettiva dell'Eurozona all'interno dei corpi internazionali come il FMI è la seconda proposta. C'è buon senso in tale proposta nella misura in cui è abbastanza curioso avere l'euro rappresentato da singoli paesi in alcuni ambienti, ma dalla BCE in altri. Tuttavia paesi come il Belgio che, per ragioni storiche, hanno uno stato speciale nel FMI, possono non essere d'accordo a perdere il loro ruolo. Una terza ambizione è il consolidamento dell'unione bancaria, da costruire sul lancio dello scorso anno del meccanismo di supervisione unica, guidato dalla BCE e l'accordo su un approccio comune per le risoluzioni delle banche fallite. Questo comporterà una pressione per completare l'attuazione delle previsioni per le risoluzioni bancarie già passate alla legislazione secondaria. La Commissione vuole anche una soluzione ponte per istituire un fondo creato per sostenere le risoluzioni bancarie, perché quello esistente, finanziato dai tributi delle banche, avrà bisogno di tempo fino al 2025 per raggiungere la dimensione voluta. Una proposta molto più controversa è l'introduzione di una forma di assicurazione dei depositi pan-europea, ma i dettagli saranno pubblicati solo più in là nel corso dell'anno. Queste cinque misure sono un inizio perché, a partire dal 2017, i piani per iniziative di nuova governance si estenderanno a “misure di più ampia portata....per completare l'architettura economica e istituzionale dell'EMU. Ciò coinvolgerà la condivisione di più sovranità e solidarietà e sarà accompagnato dal rafforzamento della sorveglianza democratica”. In particolare, si prevedono nuove proposte sulle politiche di bilancio comuni e il miglioramento dell'accountability. Per l'UK questi sviluppi è probabile portino a nuove tensioni sul passo e la direzione dell'integrazione economica. Solamente l'espressione “condividere più sovranità” farà drizzare molte penne, ma la preoccupazione più sottile è che l'UK sarà di nuovo ai margini dei significativi sviluppi che sono accettati non solo dai paesi dell'Eurozona ma anche da molti, forse i più, dei paesi che non sono nell'euro. Nel 2011, l'UK era in una minoranza di soli due paesi che si opponevano al fiscal compact ed ha irritato alcuni dei suoi potenziali alleati rifiutando di prendere parte al sistema delle quote per la risistemazione dei migranti che attraversano il Mediterraneo. Anche la Danimarca, che è il solo altro paese con un formale out-put dall'euro, sembra disposta ad andare avanti con l'unione bancaria e resta da vedere se altri vorranno partecipare alle nuove misure di integrazione descritte sopra. In via di principio, il semestre si applica all'UK, sebbene l'unico momento in cui diventa evidente è quando “Bruxelles” emette le sue CSRs (raccomandazioni per i singoli paesi): normalmente si alza un coro di lamentele sul fatto che mette il naso in materie che non devono riguardarlo. All'inizio dell'anno, per esempio, il giudizio perfettamente ragionevole che il mercato immobiliare dell'UK potrebbe essere riformato, è stato condannato da diversi politici. I nuovi piani mostrano che le riforme dell'Eurozona con un impatto decisamente integrante sta andando avanti e che le decisioni di politica economica saranno sempre più sull'Eurozona nel suo insieme. Il dilemma per l'UK è se è confortevole rimanere in un minoranza di non partecipanti , che va restringendosi, in significativi domini della governance economica. Ci sono inoltre le domande sulle possibili conseguenze per la rinegoziazione dei termini della partecipazione dell'UK all'EU. All'esterno si può essere soli. Financial Times 16 novembre 2015 Wolfgang Munchau “La ripresa italiana non è quello che sembra” La settimana scorsa, Yoram Gutgeld ha fatto una delle dichiarazioni economiche più stupefacenti che io abbi ascoltato da lungo tempo. L'adiviser del primo ministro Matteo Renzi ha detto in un'intervista che nei prossimi 12-24 mesi, l'economia italiana sarà immune rispetto agli sviluppi globali in conseguenza dei tagli delle tasse e delle riforme dell'attuale governo. L'idea che un membro del club G7 sia immune all'economia globale è ridicola. Siamo nel 21esimo secolo. Gutgeld può avere parlato come spin doctor del primo ministro. Fa parte del suo lavoro. Ma quello che mi preoccupa è che il governo italiano non è pronto per il momento in cui l'impatto del rallentamento cinese e dei mercati emergenti colpirà l'Europa. Le cifre preliminari di venerdì relative al PIL dell'Eurozona mostrano che il rallentamento è cominciato. I tassi di crescita italiani trimestre su trimestre si sono ridotti dallo 0.4% del primo trimestre allo 0.3% del secondo, allo 0.2% del terzo. La capacità italiana di sostenere un salutare tasso di crescita è critica - a causa della stabilità politica del paese, dei giovani che non hanno speranza di trovare lavoro, della sostenibilità del debito e in particolare del suo futuro nell'Eurozona. L'euro non ha portato all'Italia altro che stagnazione. Il PIL reale è oggi allo stesso livello del momento dell'inizio del 2000, un anno dopo la partenza dell'euro. Il PIL oggi è del 9% sotto il livello pre-crisi all'inizio del 2008. Se l'Italia non riesce a emergere da questa recessione, è difficile vedere come possa rimanere nell'Eurozona. A un certo punto può anche accadere che l'interesse inequivocabile della sua economia sia quello di lasciare e di svalutare. Così quando chiediamo se la ripresa dell'economia è sostenibile, non stiamo facendo un dialogo tecnico sull'economia. Stiamo parlando del futuro dell'Italia in Europa. Tre sono le ragioni del mio scetticismo. La prima è evidente negli ultimi dati di venerdì sul PIL. Quelli italiani non sono eccezionali. La seconda ragione è la mancata ristrutturazione delle banche italiane. Lo stock delle sofferenze e degli incagli in percentuale sul totale è del 10%, vicino al livello di picco dell'attuale ciclo. Molte delle banche medie e piccole sono in effetti insolventi. La ripulitura del sistema bancario - dopo la crisi del 2008 e le due successive recessioni - deve ancora avvenire. Se ci sarà, ora avverrà in un ambiente regolatorio molto più duro. Dall'anno prossimo le regole EU "bail in" entreranno in vigore. Allora i salvataggi bancari non saranno operati solo dal governo, ma saranno bondholders e depositanti che pagheranno per primi (bail in). In questo ambiente, possiamo avere la sicurezza che banche in condizioni pessime possano continuare a sostenere la ripresa? La mia terza preoccupazione sono le scelte fiscali di Renzi. La sua priorità è stata di assicurare che esse determinino più vincitori che perdenti. Esattamente ciò che fece Silvio Berlusconi quando era primo ministro. E non è sorprendente che Renzi alla fine faccia politiche simili. Invece di riformare la pubblica amministrazione o l'ordinamento giudiziario, ha optato per tagliare le tasse sulla casa. Questo gli procurerà voti ma non determinerà il cambiamento dell'economia. Lo abbiamo già visto. Il pericolo di tale strategia è che potrebbe andare orribilmente male se lo shock economico sarà grande e il settore bancario debole. Con le attuali proiezioni, il deficit di bilancio annuale 2016 dell'Italia sarà del 2.2-2.4%, a seconda di quanto si consideri il costo della crisi dei rifugiati. Non ho obiezioni su alcuna misura tesa a ridurre la presa dell'austerità. Ma se la recessione avviene in contemporanea con una crisi bancaria, il 2.4% potrebbe facilmente diventare 3.4% mo 4.4%. A quel punto, la flessibilità si fermerà in modo molto brusco. L'Italia dovrà di nuovo serrare la politica economica mentre l'economia rallenta. Un altro governo "tecnico" non eletto potrebbe entrare in campo. L'Italia non potrebbe mai scegliere di lasciare l'Eurozona per ragioni politiche. Ma se i calcoli di Renzi si dimostreranno sbagliati, l'Italia sarà arrivata a un punto in cui diventa razionale abbandonare l'euro. Social Europe Journal 9 novembre 2015 Thorsen Schulten “La contrattazione collettiva in Grecia dopo il terzo memorandum” (sintesi di una relazione a una iniziativa della Fondazione Ebert tenutasi a Berlino nel settembre scorso) La radicale ristrutturazione della contrattazione collettiva greca è stata, fin dall'inizio, una delle richieste fondamentali della troika. Con i primi due memoranda, la Grecia è stata costretta a convenire su cambiamenti di ampia portata nel quadro giuridico della contrattazione collettiva che ha portato a un radicale decentramento e all'eliminazione su vasta scala degli accordi collettivi (multi-employer agreements). In base al terzo memorandum dell'agosto 2015, lo sviluppo della contrattazione collettiva greca doverebbe ora essere valutata da una commissione internazionale composta da esperti indipendenti così come da rappresentanti di organizzazioni internazionali - comprese le istituzioni della troika, ma anche dall'OIL. Su tale base. dovrebbero essere decise, alla luce delle "best practices" europee, ulteriori riforme del sistema contrattuale greco. Dall'inizio degli anni 1990s, la Grecia ha un complessivo sistema di contrattazione collettiva con forte contrattazione (multi-empleyer bargaing) a livello nazionale, settoriale e occupazionale e una copertura contrattuale comparativamente alta (80%9. A livello nazionale le massime organizzazioni sindacali e imprenditoriali hanno contrattato un accordo quadro collettivo in cui sono comprese determinate condizioni minime - compreso il livello di minimum wage nazionale. Su questa base possono essere contrattati accordi collettivi a livello nazionale o regionale per particolari branche di gruppi occupazionali. Infine, le aziende potevano concludere specifici accordi aziendali con i sindacati responsabili. La struttura del sistema contrattuale greco era strettamente gerarchica secondo il principio della norma più favorevole,m in modo che gli accordi collettivi a livello più basso potevano contenere solo previsioni di miglior favore per i lavoratori. L'estensione degli accordi collettivi era molto ampia, tenendo conto del fatto che l'economia greca è largamente fatta di aziende piccole e micro. C'era pertanto una regola erga omnes per il contratto collettivo nazionale generale, in base alla quale tutte le imprese erano tenute al rispetto di tale accordo. Accordi settoriali e occupazionali erano, di norma, dichiarati generalmente vincolanti dal Ministero del lavoro greco, finché coprivano una maggioranza di imprenditori in una rilevante branca o gruppo occupazionale. A parte ciò, accordi collettivi meno vincolanti potevano essere dichiarati generalmente vincolanti se ciò era proposta da una delle due parti contraenti. La politica della troika, tuttavia, ha seguito l'assunto che la causa principale della crisi greca era la mancanza di competitività che doveva essere migliorata da una politica di "svalutazione interna", in particolare attraverso tagli ai salari e ad altri costi del lavoro. Perciò i cambiamenti nella legge sulla contrattazione collettiva greca introdotti nell'autunno 2011 comprendono tre punti principali: - L'abolizione del principio di miglior favore nella gerarchia dei contratti collettivi in modo che accordi aziendali sono diventati liberi di determinare accordi in pejus rispetto ai contratti di più alto livello. - L'abolizione delle regole sull'erga omnes e le estensioni degli accordi collettivi - La sospensione del monopolio sindacale sulla contrattazione collettiva attraverso il permesso a rappresentanze non sindacali di concludere accordi aziendali se sostenuti da almeno tre quinti della forza lavoro· In più, ulteriori cambiamenti sono stati fatti nel 2012, come la riduzione degli effetti collaterali degli accordi da sei a tre mesi, così come il taglio legale del 22% del minimum wage contrattato collettivamente (del 32% per i giovani sotto i 25 anni) e la decisione che in futuro il minimum wage non deve più essere determinato per accordo collettivo nazionale ma per legge. I radicali cambiamenti della legge greca sulla contrattazione collettiva hanno portato in pratica a una trasformazione altrettanto radicale della contrattazione collettiva. Il segno più evidente è il declino degli accordi multi-employer. Anche se non sono disponibili dati ufficiali sull'attuale copertura della contrattazione collettiva, è probabile che solo una piccola minoranza di datori di lavoro rientra ancora nel campo di un multi-employer agreement. Immediatamente dopo l'adozione della riforma della contrattazione collettiva nell'autunno 2011, per un breve periodo c'è stata una crescita estremamente alta di accordi aziendali di nuova realizzazione. L'anno successivo tuttavia c'è stata una forte riduzione del numero di tali accordi e ora le loro dinamiche sono di nuovo a loro livello pre-crisi. L'aumento degli accordi aziendali appare perciò essere piuttosto un fenomeno temporaneo che una compensazione permanente del declino degli accorsi multi-employer. Il carattere temporaneo dei nuovi accordi aziendali è confermato dalla forma particolare e dal contenuto di tali accordi. La grande maggioranza dei nuovi accordi aziendali non è stata conclusa dai sindacati ma da rappresentanze non sindacali di lavoratori. Secondo una ricerca dell'Università di Patras su un totale di 1.336 accordi conclusi tra novembre 2011 e dicembre 2013, solo il 30% è stato sottoscritto da sindacati, mentre il rimanente 70% da rappresentanze non sindacali. In quasi tutti i nuovi accordi aziendali sono state esercitate le opzioni previste dalla nuova legge sulla contrattazione collettiva, a partire dalla scomparsa del principio di miglior favore: in conseguenza, tre quarti degli accordi contengono tagli salariali mentre i resto contiene il congelamento salariale al livello in essere. Gli aumenti salariali, al contrario, spiccano per la loro assenza, essendo presenti in un mero 1.5% di tutti gli accordi. la ristrutturazione del sistema della contrattazione collettiva greco ha portato a una radicale decentramento e all'erosione a vasto raggio della contrattazione collettiva. Dal punto di vista della troika, è stato un successo in quanto ha contribuito ai tagli salariali in Grecia che, con una contrazione media del 20%, è stata la più severa di ogni altro paese europeo. Tuttavia, la speranza che ha accompagnato la strategia che avrebbe portato a una nuova ripresa economica migliorando la competitività da prezzi non è stata realizzata. I tagli salariali, per contrasto, hanno portato a una drastica caduta della domanda aggregata e sono serviti solo ad esacerbare la crisi. In questo background, nell'aprile 2015 il governo di Syriza ha presentato un disegno di legge sul ripristino della contrattazione collettiva. In essenza, il disegno di legge reintroduceva il principio del miglior favore nella gerarchia degli accordi collettivi, le possibilità di estensione degli accordi collettivi e la reintegrazione dei sindacati come unici attori negoziali a livello aziendale. Nelle aziende senza una rappresentanza sindacale aziendale di impianto, gli accordi aziendali potevano essere conclusi da rappresentanti dei sindacati, locali o settoriali. Per di più, il disegno di legge affermava che, entro la metà del 2016, i tagli al minimum wage sarebbero stati revocati in due fasi e sarebbe stato ripristinato il minimum wage del 2011. La legge tuttavia non è stata adottata per la resistenza della troika. Nel quadro del terzo memorandum, adottato nell'agosto 2015, è stato convenuto che il governo greco "lancerà ad ottobre 2015 un processo di consultazione guidato da un gruppo di esperti indipendenti per rivedere alcuni aspetti dell'esistente impianto del mercato del lavoro, compresi i licenziamenti collettivi, l'azione industriale e la contrattazione collettiva". Per volere della parte greca, nel processo di consultazione è stato incluso anche l'OIL. Il governo greco, tuttavia, deve raggiungere un accordo con la troika sull'insieme della "organizzazione, termini di riferimento e tempi di conclusione" di tale processo di consultazione così come sul futuri cambiamenti della legge sulla contrattazione collettiva. Sostanzialmente, il terzo memorandum sancisce che lo sviluppo futuro del sistema greco della contrattazione collettiva dovrà "tenere conto delle best practices internazionali ed europee". Tuttavia, cosa possano essere queste "best practices" con riferimento alla contrattazione collettiva è estremamente controverso. In passato non solo in Grecia ma in molti paesi europei - la troika non ha fatto mistero che la sua visione di "best practice" consiste in un sistema contrattuale completamente decentrato con bassa copertura contrattuale. Al contrario, il Direttorato generale per l'occupazione della Commissione Europea ad esempio, nel suo recente Report sulle relazioni industriali, ha di nuovo espressamente asserito che sono stati i paesi europei con le relazioni industriali e la contrattazione collettiva più sviluppate e comprensive che hanno attraversato la crisi nel modo migliore. Nell'impianto del previsto processo di consultazione è pertanto di non poca importanza se la Commissione Europea è rappresentata dalla DG Affari economici e finanziari, dall'orientamento più neo-liberista o dalla DG per l'occupazione, che su questo tema dovrebbe in realtà assumere la guida. Un ruolo importante apparterrà anche all'OIL che è favorevole a un sistema contrattuale collettivo comprensivo e ad alta copertura. L'OIL già ha lamentato il fatto che i cambiamenti legislativi imposti dalla troika hanno portato a un significativo indebolimento della contrattazione collettiva greca. La prossima discussione sul futuro del sistema contrattuale greco promette perciò di essere controversa. Con la partecipazione della troika da un lato e l'OIL dall'altro, la discussione non sarà confinata alla sola Grecia ma sarà internazionale, con un impatto anche su altri paesi europei. In questo background, il sindacato europeo dovrà essere coinvolto nella discussione e dovrà dare sostegno alla parte greca nel suo tentativo di ripristinare il sistema contrattuale collettivo. Social Europe Journal 30 novembre 2015 Ronald Janssen “Lost in contraddiction: il fondo monetario internazionale e il dumping salariale competitivo nell'Eurozona” Una nota di discussione dello staff recentemente pubblicata dal FMI affronta l'argomento che la stretta salariale in larga parte dell'Eurozona è pericolosa e deflattiva poiché non migliorerà la posizione competitiva relativa di nessuno mentre taglierà la domanda interna ovunque. Poiché il FMI è stato sempre un convinto sostenitore dell'esperimento in corso nell'Eurozona, di sostituzione della svalutazione monetaria con quella salariale, vale la pena dare un'occhiata più da vicino al suo lavoro. Il FMI basa la sua scoperta su una simulazione per la quale la crescita salariale nominale di un gruppo di 5 paesi che rappresentano un peso economico pari al 30% dell'Eurozona (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda) si è ridotta del 2% negli ultimi 2 anni. Cosa importante, tale simulazione è portata avanti in base all'assunto che la BCE ha le mani legate per quanto riguarda il taglio degli interessi perché questi sono già vicini a zero. E anche in base all'assunto che la crescita retributiva più bassa è stata pienamente trasmessa ai prezzi nazionali, il che implica assenza di tagli alle retribuzioni reali. Il FMI non sottolinea gli effetti negativi e i pericoli di una svalutazione retributiva operata su base comune. L'impatto della moderazione salariale (2%) in tutti e 5 i paesi colpiti dalla crisi sul livello complessivo dell'attività economica dell'Eurozona è negativo. Il PIL dell'area è dello 0.5% inferiore al livello che altrimenti ci sarebbe stato. Intanto l'inflazione è spinta verso il basso di un ulteriore punto percentuale. L'ultimo numero rappresenta la differenza tra la bassa inflazione e la completa deflazione, ma il quantitative easing può sistemare le cose. Il FMI tuttavia non si arrende facilmente e tenta di salvare il suo tradizionale messaggio politico per il quale, anche se è intrapreso da più stati membri nello stesso momento, il dumping salariale resta ancora una cosa buona. Per farlo, il FMI invoca la politica alternativa di QE . Se non è possibile per la politica monetaria tagliare i tassi di interesse a breve, allora la BCE dovrebbe riconcentrare la sua macchina stampa-denaro nell'acquisto di bonds a più lungo termine, in modo che i tassi di interesse di lungo termine possano essere ulteriormente abbassati. Il paper del FMI procede poi a fare una ulteriore simulazione per la quale la politica di QE della BCE abbassa i tassi di interesse a lungo termine di 50 punti base. Il FMI dimostra come cambiano i risultati. Nello scenario che combina la moderazione salariale del 2% delle quattro economie in crisi con il QE della BCE, il risultato economico complessivo dell'Eurozona aumenterebbe lievemente (circa dello 0.5% del PIL), mentre l'inflazione nel medio periodo non calerebbe. In termini di composizione regionale il resto dell'Eurozona (al di fuori dei 5 paesi) starebbe ancora perdendo attività economica (-0.4% del PIL) mentre i 5 paesi colpiti dalla crisi guadagnerebbero significativamente aumentando il PIL del 2%. Quest'ultima cifra permette al FMI di rimanere fermo sulla visione che, dato che la BCE continuerà con il QE, strizzare le paghe resta ancora il modo giusto per uscire dalla crisi per le economie oppresse dal debito dell'Eurozona. Se questo poi determina un lieve arretramento nelle altre economie dell'Eurozona (che tuttavia stanno andando abbastanza bene!), pazienza. Il Quantitative Easing non è la pallottola magica che il FMI pretende sia. Il QE è fondamentalmente una politica in cui la BCE pompa il denaro che sta stampando nella economia attraverso massicci acquisti di assets finanziari come i bonds sovrani e anche i bonds privati e, in qualche caso, anche capitale. La speranza, fondamentalmente, è che questo extra (e spesso enorme!) volume di denaro sarà usato, in un modo o nell'altro, da famiglie e aziende per consumare o investire. Tuttavia, che l'operazione stampa denaro riesca a riaccendere la domanda aggregata dipende da quello che in realtà fanno coloro che possiedono gli assets finanziari con il nuovo denaro che ricevano in cambio. Le banche, per esempio, possono trovare piuttosto difficile prestare questo denaro extra se le famiglie e le aziende sono già altamente indebitate e perciò riluttanti a prendere nuovi prestiti. E mentre le famiglie ricche (che possiedono il grosso degli assets finanziari) guadagneranno molto più valore vendendo il loro portafoglio di bonds e assets a un prezzo più alto di quello che lo avevano originariamente pagato, ci sono scarse possibilità che questa liquidità sia realmente spesa in beni e servizi poiché la propensione al consumo del 1% fino al 10% delle famiglie più ricche è molto più bassa di quella media. Il FMI è certo consapevole delle difficoltà che ci sono nel trasmettere il denaro aggiuntivo iniettato nella nuova domanda usando i mercati degli assets. Tuttavia nasconde questa consapevolezza in una nota a margine (numero 28). Vale la pena riconoscere anche che non è neppure chiara la prova dell'effetto delle politiche non convenzionali sul risultato economico. Chung e altri (2012) concludono che gli acquisti di assets da parte della Federal Reserve....non hanno evitato che il vincolo dei zero lower bonds non abbia avuto effetti avversi di prim'ordine sulla attività reale e sull'inflazione. C'è tuttavia un modo per assicurare che il denaro stampato dalla banca centrale finisca effettivamente in più domanda aggregata. Se il nuovo denaro che la BCE stampa è usato per finanziare direttamente un aumento dei deficits pubblici e della spesa pubblica, preferibilmente in investimenti pubblici, allora l'impatto sulla domanda aggregata è pienamente assicurato. Purtroppo questa strada è fermamente preclusa nell'Eurozona. Il primo problema è che alla BCE è esplicitamente proibito dal trattato europeo di finanziare direttamente i deficits pubblici. Questo obbligo giuridico potrebbe forse essere aggirato dalla BCE se acquistasse immediatamente da un intermediario finanziario sul mercato secondario bonds sovrani di nuova emissione. In questo caso, tuttavia, tutte le regole fiscali messe in atto dall'Europa, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact entrerebbero in funzione e trasformerebbero l'azione della BCE in un progetto destinato al fallimento. La struttura fiscale europea si è sempre basata sul taglio del deficit e mai sulla iniezione di domanda aggregata determinata da un aumento della spesa in deficit. La simulazione del FMI resta silente su: un rilancio congiunto delle retribuzioni migliorerebbe la crescita e ripristinerebbe la stabilità dei prezzi. Infine, il paper del FMI continua a promuovere una politica salariale deflattiva in larga parte dell'Eurozona. Dato che l'economia dell'Eurozona stessa è già molto vicina all'orlo della deflazione e dati i problemi relativi all'attuazione di politiche non convenzionali come il QE, il FMI prescrive dunque una politica che sa non avrà alcuna possibilità di successo. Qual'è l'alternativa? Qui, il FMI stesso (probabilmente inconsapevolmente) offre indirettamente la prova che contraddice il suo consiglio politico sulla moderazione salariale deflattiva. Infatti un altro scenario esplorato nel paper del FMI è quello che accade nei 5 paesi in crisi quando la moderazione salariale del 2% non è limitata ad essi ma è applicata all'intera Eurozona e questo, di nuovo, nel quadro attuale di tassi di interesse che già sono a zero. Emerge che il risultato è devastante. I cinque paesi in crisi vedrebbero una riduzione dell'1% del PIL e, con l'inflazione in riduzione del 2%, sarebbero intrappolati nella deflazione. La ragione è ancora il bound zero lower. Se il passo dell'inflazione scende mentre i tassi di interesse nominali restano allo stesso livello, allora i tassi di interesse reali aumentano e scendono (in modo durevole) le domanda e l'investimento. Questo scenario dà un chiaro accenno su cosa avverrebbe se, come sta chiedendo la CES, le retribuzioni fossero aumentate in modo concertato tra tutti i paesi dell'Eurozona. In questo caso, nessuno stato membro perderebbe competitività relativamente a un altro perché tutti aumenterebbero le retribuzioni. Inoltre, con l'inflazione ben al di sotto dell'obiettivo di stabilità dei prezzi della BCE, questa non ha alcuna ragione di premere il grilletto sui tassi di interesse per ripristinare l'inflazione, soffocando di nuovo la crescita e disciplinando le retribuzioni. Tuttavia, se l'inflazione sale e la BCE non aumenta i tassi di interesse nominali, allora i tassi reali scendono e la domanda aggregata cresce. In altre parole, le forze in funzione sono esattamente l'inverso dello scenario del FMI sotto il quale tutti i membri dell'Eurozona moderano le loro politiche salariale. Si possono pertanto prevedere risultati inversi ai risultati descritti nel paper. Il risultato economico nei paesi in crisi non diminuirebbe ma crescerebbe dell'1%. E l'inflazione sarebbe sollevata da (sotto) zero a un tasso vicino all'obiettivo di stabilità dei prezzi della BCE. La domanda pertanto è perché il FMI, invece di inventare tutti gli argomenti, possibili e impossibili al fine di continuare con il pericoloso esperimento della svalutazione salariale, non esplora ulteriormente l'ipotesi positiva di ricostruire istituzioni e dinamiche salariali in tutta l'Eurozona? Che sia una questione di cecità ideologica? Social Europe Journal 30 novembre 2015 Nouriel Roubini “L'Europa è condannata al collasso?” Sono in un tour europeo di due settimane in un momento in cui si potrebbe essere o molto pessimisti o costruttivamente ottimisti sulle prospettive europee. Prima le cattive notizie: Parigi è trista se non depressa dopo gli attacchi terroristi dell'inizio del mese. La crescita economica in Francia resta anemica, i disoccupati e i molti musulmani sono maldisposti e l'estrema destra di Marine Le Pen è probabile vada bene alle prossime elezioni regionali. A Bruxelles, semi-deserta e segregata a causa del rischio di attacchi terroristi, le istituzione EU devono ancora escogitare una strategia unificata per gestire il flusso dei migranti e dei rifugiati, per affrontare l'instabilità e la violenza nell'immediato vicinato europeo. Fuori dall'Eurozona, a Londra c'è preoccupazione sugli effetti di ricaduta finanziari ed economici dell'unione monetaria. E la crisi dei migranti e i recenti attacchi terroristici significano che il referendum sulla permanenza nell'EU - che si terrà probabilmente l'anno prossimo - potrebbe portare l'UK a uscire. Seguirebbe la rottura dello stesso UK perché la brexit porterebbe gli scozzesi a dichiarare l'indipendenza. Intanto a Berlino, la leadership della cancelliera Merkel è sottoposta a pressione crescente. La sua decisione di tenere la Grecia nell'Eurozona, la sua scelta, coraggiosa ma impopolare, di fare entrare quest'anno un milione di rifugiati, lo scandalo Volkswagen e l'affievolirsi della crescita economica (dovuto alla recessione cinese e dei mercati emergenti) la hanno esposta alla critica del suo stesso partito. Francoforte è una città divisa sulla policy: la Bundesbank continua a opporsi al Quantitative Easing e alla politica dei tassi negativi, mentre la BCE è pronta a fare anche di più. Ma i parsimoniosi risparmiatori tedeschi - famiglie, banche e compagnie di assicurazione - sono furiosi contro le politiche della banca centrale europea che tassa loro (e gli dei paesi core dell'Eurozona) per sussidiare i debitori della periferia dell'Eurozona, accusati di essere sconsiderati spendaccioni. In questo ambiente, non è a portata di mano quella unione economica, bancaria, fiscale e politica piena, che sarebbe necessaria a una unione monetaria stabile: “l'Eurozona core” si oppone a maggiore solidarietà e condivisione del rischio nonché a una integrazione più rapida. E i partiti populisti, di destra e di sinistra - anti-EU, anti-euro, anti-migranti, anti-mercato - stanno rafforzandosi in tutta Europa. Ma di tutti i problemi che l'Europa ha di fronte, è la crisi dei migranti quella che potrebbe diventare esistenziale. Nel Medio oriente, in Africa del Nord, nella regione che si estende dal Sahel al Corno d'Africa ci sono 20 milioni di sfollati; guerre civili, violenza e fallimenti di stati stanno diventando la norma. Se l'Europa ha difficoltà ad assorbire un milione di rifugiati, come potrà gestirne 20 milioni? A meno che non difenda le sue frontiere esterne, Shengen collasserà e torneranno le frontiere interne, mettendo fine alla libertà di movimento - un principio chiave dell'integrazione europea - all'interno della maggior parte dell'EU. Ma la soluzione proposta da qualcuno -chiudere le porte ai rifugiati - peggiorerebbe soltanto il problema destabilizzando paesi come la Turchia, il Libano e la Giordania che ne hanno già assorbiti milioni. E pagare la Turchia e gli altri per tenersi i rifugiati sarebbe costoso e insostenibile. Il problemi del medio oriente più largo (inclusi Afghanistan e Pakistan) e dell'Africa non possono essere risolti solo con mezzi militari e diplomatici. I fattori che guidano questi ed altri conflitti peggioreranno: il cambiamento climatico sta accelerando la desertificazione ed esaurendo le risorse idriche con effetti disastrosi sull'agricoltura e le altre attività economiche e questo innescherà la violenza attraverso gli sfaldamenti religiosi, etnici, sociali ecc. Niente meno che l'esborso di risorse finanziarie, tipo un massivo Piano Marshall, soprattutto per ricostruire il Medio oriente, assicurerà una stabilità di lungo termine. L'Europa saprà e vorrò accollarsi la sua quota? Se non si troveranno le soluzioni economiche, alla fine i conflitti di queste regioni destabilizzeranno l'Europa con milioni di disperati senza speranza che tenderanno a radicalizzarsi e ad accusare l'occidente della loro miseria. Anche con un improbabile muro intorno all'Europa, molti troverebbero una strada per entrare - e alcuni continueranno per i decenni a venire a terrorizzare l'Europa. Per questo alcuni commentatori, infiammando le tensioni, parlano di barbari alle porte e paragonano la situazione europea alla fine dell'Impero Romano. Ma l'Europa non è condannata al collasso. Le crisi attuali potrebbero portare a una maggiore solidarietà, una maggiore condivisione del rischio, una ulteriore integrazione istituzionale. La Germania potrebbe assorbire i rifugiati (sebbene non a un ritmo di un milione all'anno). La Francia e la Germania potrebbero provvedere a pagare per gli interventi militari contro lo stato islamico. Tutta l'Europa e il resto del mondo - gli US e i paesi ricchi del Golfo - potrebbero fornire molto denaro per il supporto ai rifugiati e al fine di finanziare gli stati falliti e di provvedere opportunità economiche a centinaia di milioni di musulmani e africani. Queste scelte sarebbero fiscalmente onerose per l'Europa e il mondo - e gli attuali targets fiscali dovrebbero essere adeguati nell'Eurozona e nel resto del mondo. L'alternativa però sarebbe il caos globale o, come ha avvertito papa Francesco l'inizio della III guerra mondiale. E c'è la luce in fondo al tunnel per l'Eurozona. E' in corso una ripresa ciclica, sostenuta per i prossimi anni da un monetary easing e da regole fiscali sempre più flessibili. Una maggiore condivisione del rischio comincerà nel settore bancario (con la prossima assicurazione sui depositi di dimensione europea) e alla fine saranno adottate proposte più ambiziose per l'unione fiscale. Le riforme strutturali -sebbene lentamente - continueranno e aumenteranno gradualmente le crescita potenziale e reale. In Europa le crisi - anche se lentamente - hanno portato a maggiore integrazione e risk sharing. Oggi, il rischio di sopravvivenza sia per l'Eurozona (a partire dalla Grecia) che per la stessa EU (a partire dalla brexit), porterà leaders illuminati a sostenere il percorso verso una unificazione più profonda. In un mondo in cui esistono e sono in crescita grandi potenze (US, Cina, India) e potenze revisioniste più deboli (Russia e Iran), un'Europa divisa è un nano geopolitico. Per fortuna, leaders illuminati a Berlino - ce ne sono diversi, malgrado la percezione del contrario - sanno che il futuro della Germania dipende da un'Europa forte e integrata. Essi, insieme agli altri leaders europei, comprendono che questo richiederà forme appropriate di solidarietà, compresa una politica estera unificata, che possa affrontare i problemi del vicinato europeo. Ma la solidarietà comincia in casa. E significa respingere i barbari populisti e nazionalisti all'interno, sostenendo la domanda aggregata e le riforme pro-crescita che assicurino una ripresa più resiliente dei posti di lavoro e dei redditi. Wall Street Journal 28 novembre 2015 Marcello Minenna “Le sbagliate riforme dell'euro approfondiranno la prossima crisi” Sono passati alcuni mesi dall'ultima crisi acuta dell'eurozona e i recenti sviluppi ad Atene e Lisbona dimostrano che la moneta non è mai stata torppo lontana dalla zona pericolo. Sono soprattutto i policy makers tedeschi che stanno sviluppando proposte intese a stabilizzare il blocco nel più lungo termine. Il rischio tuttavia è che le misure ora introdotte per favorire la stabilità potrebbero innescare una nuova e diversa crisi in futuro. I piani tedeschi, lanciati prima sui giornali e sottoposti “in modo non ufficiale” ai ministri delle finanze dell'eurozona a settembre, si concentrano su tre punti. L'eurozona creerebbe un nuovo, indipendente cane da guardia fiscale con maggiori poteri e meno discrezionalità della Commissione Europea nel fare rispettare deficit fiscali non superiori al 3% del PIL. Berlino poi introdurrebbe un meccanismo di “bail in” per i creditori dei titoli pubblici di nuova emissione. E infine le banche sarebbero assoggettate a nuove ponderazioni del rischio sui titoli pubblici posseduti. Questi piani possono suonare affascinanti a qualcuno, ma i problemi abbondano. Si consideri la proposta di un'agenzia fiscale indipendente, un'idea lanciata già da qualche mese. La preoccupazione è che la Commissione Europea, che ha attualmente il compito di monitorare i bilanci dell'eurozona è troppo prona alla pressione politica e troppo disponilbile alla longanimità quando un governo supera il limite. Ma l'idea di un'agenzia indipendente creerebbe un nuovo centro di potere, al di fuori della sfera dell'influenza politica e protetta da ogni processo negoziale. Questo eliminerebbe ogni spazio di manovra durante una crisi e denota una sfiducia nel normale funzionamento delle istituzioni europee. Il risultato sarebbe una nuova governance centralizzata ma meno rappresentativa. Sarebbe tuttavia di gran lunga più significativa la proposta di un meccanismo di bail in per i titoli sovrani dell'eurozona. Questo introdurrebbe nelle emissioni di bonds una automatica estensione delle scadenze di almeno tre anni ogni volta che il governo emittente richieda formalmente aiuto finanziario dal fondo di salvataggio dell'eurozona – introducendo il rischio di una interruzione delle restituzioni durante la durata tipica – tre anni – di un tale programma di salvataggio. Per di più, se dopo i tre anni del programma i problemi permangono, tali bonds potrbbero essere ristrutturati con poco spazio per le obiezioni da parte del creditore. L'obiettivo è evitare che l'ESM (European Stability Mechanism), il fondo di salvataggio, debba sovvenzionare la restituzione dei debiti pre-crisi durante un programma di salvataggio. Si suppone inoltre che questa previsione crei migliori incentivi a riconoscere ed evitare prestiti insostenibili. I rischi più alti associati ai bonds emessi dai governi big-spending, sotto questi termini, aumenterebbero i rendimenti, un segnale chiaro sia per i prestatori che per i creditori. Il problema più grosso qui è che si cementerebbe la differenza tra i tassi di interesse per i titoli sovrani all'interno dell'eurozona. Tale divergenza, o spread, è visto da molto tempo come un problema da superare. Tende a erodere la competitività dei paesi colpiti perchè i costi di rifinanziamento più alti per i governi si trasferiscono rapidamente, via sistemi bancari nazionali, alle imprese e ai consumatori. Più alti costi di finanziamento si traducono in tassi di inflazione più alti e in tassi di esportazione più deboli, peggiorando in tal modo gli squilibri dei paesi in difficoltà all'interno dell'eurozona. Nel tempo, i policy makers tedeschi sono arrivati a tollerare come inevitabili tali differenze nei tassi all'interno dell'eurozona. Ora li stanno addirittura sposando come risultato desiderabile. Un obiettivo del meccanismo bail in sarebbe l'aumento della spread tra tasso di interesse tedesco e quelli delle economie più piccole e rischiose. Ma aumentando i costi di rifinanziamento dei membri dell'eurozona più piccoli e rischiosi, le nuove regole renderebbero più probabili le crisi, a prescindere dal livello di rettitudine fiscale che questi paesi cercano di realizzare. Paesi meno rischiosi soffrirebbero meno, poichè i rendimenti crescerebbero di più nei paesi che hanno maggiore probabilità di richiedere il supporto dell'ESM. Ma i tassi aumenterebbero anche per i paesi fiscalmente responsabili, poichè tale meccanismo trasferirebbe i rischi dall'ESM ai detentori di bonds. In pratica, questo ridurrebbe i benefici della moderazione fiscale. La terza proposta tedesca, quella di aggiustare la ponderazione del rischio dei titoli sovrani nei bilanci delle banche esacerberebbe il problema. La speranza è di sostenere la stabilità finanziaria costringendo le banche a riconoscere, nella valutazione del loro capitale di riserva, che alcuni bonds sovrani sono più rischiosi di altri. In pratica questo amplificherebbe gli spreads che stanno già allargandosi poichè le banche, per evitare di dovere avere più capitale contro bonds più rischiosi, svendono i titoli pubblici più rischiosi deprimendo ulteriormente i loro prezzi e aumentando i rendimenti. Berlino sta rispondendo alla richiesta politica dei contribuenti tedeschi di essere sganciati da futuri salvataggi. Ma i policy makers devono evitare sia di creare le condizioni per la prossima crisi che di creare tensioni politiche quando inevitabilmente la Germania beneficerà dell'allargamento degli spreads tra i bonds mentre gli altri membri dell'eurozona subiranno. Tale “riforma” si dimostrerebbe destabilizzante tanto quanto lo status quo per la moneta unica. Dal BLOG di Paul De Grauwe* (*dello LSE's European Institute) “L'Euro e Shengen: comuni magagne e soluzioni comuni” Cosa hanno in comune l'Euro e Shengen? Entrambi sono progetti che hanno lo stesso difetto: sono un business incompleto. E pertanto corrono il rischio di rompersi. L'Eurozona è una unione monetaria con una moneta, l'Euro che circola nell'unione ed è gestito da una banca centrale, la BCE. Che c'è di sbagliato in questo, si potrebbe chiedere? Il problema fondamentale dell'eurozona è che i governi nazionali hanno bilanci propri e emettonono obbligazioni proprie. Quando scoppia una recessione, il sistema entra nei guai. Durante una recessioe i deficit di bilancio pubblico aumentano automaticamente. I paesi che sono colpiti più duramente dalla recessione mostrano deficits più ampi e il debito aumenta. I mercati finanziari che sono pienamente integrati in una unione monetaria sono in agguato, pronti a colpire quando vedono segnali di debolezza. I paesi colpiti più duramente dalla recessione sperientano “stop improvvisi”: gli investitori vendono massicciamente i titoli pubblici, aumentando i tassi di interesse e spingendo nell'illiquidità questi paesi. Gli altri paesi nel sistema ne profittano, poichè gli investitori in cerca di un rifugio comprano i titoli di questi paesi. Perciò, durante una recessione, i liberi movimenti di capitale destabilizzano l'eurozona e spingono i paesi più deboli nel “cattivo equilibrio” di una recessione anche più profonda e di un aumento della disoccupazione. Che dire di Shengen? Come l'Eurozona è un progetto incompiuto. I residenti dell'area Shengen si muovono liberamente al suo interno. Il problema è che gli architetti di tale area hanno dimeticato di integrare i servizi di polizia e di intelligence. Inoltre, hanno dimenticato di trasferire l'autorità di controllare le frontiere esterne a un corpo europeo. Ne è conseguito che è sorto un problema nell'area Shengen simile a quanto avviene nell'eurozona. Le gangs criminali si muovono liberamente all'interno dell'area. Commettono furti in paese e scappano in un altro. Al contrario, le forze di polizia devono fermarsi alle frontiere. I terroristi hanno pianificato da Bruxelles come attaccare a Parigi e sfuggire ai radar delle forze di polizia e di intelligence nazionali. Queste ultime non sono integrate e non possono più garantire la sicurezza dei loro cittadini. Il pericolo delle unioni non completate è che esse si disintegreranno. Senza una unione fiscale i liberi movimenti di capitale creeranno grande instabilità quando la prossima recessione colpirà l'eurozona. Nel lungo periodo, i governi che non possono più garantire un minimo di stabilità economica ai loro cittadini saranno tentati di abbandonare l'eurozona. In assenza di integrazione dei servizi di polizia e di intelligence, gli stati nazione nella zona Shengen non potranno più prendersi cura della sicurezza dei loro cittadini e, anche per questo motivo, saranno tentati di uscire dalla zona. Infatti questo sta già accadendo oggi. La scelta che abbiamo di fronte è semplice. Se vogliamo tenere l'euro, dovremo creare l'unione fiscale. Questo implica che una significativa porzione dei bilanci nazionali e dei debiti pubblici nazionali dovrà essere centralizzata. Un formidabile trasferimento di sovranità dagli stati nazione alle istituzioni europee. Se vogliamo preservare l'area Shengen dovremo integrare le forze di polizia e l'intelligence creando nel contempo un controllo congiunto alle frontiere esterne. L'incapacità di integrarli condannerà entrambi i progetti, sia l'eurozona che Shengen. L'Eurozona e l'area Shengen hanno fondamentalmente indebolito i governi nazionali mentre non è stato messo in atto nulla a livello europeo per riequilibrare questa perdita di potere degli stati nazione. L'Euro e Shengen possono essere salvati solo se creiamo istituzioni europee che possono fare quello che i governi nazionali non possono più fare, cioè assicurare la stabilità economica e la sicurezza dei cittadini d'Europa. Economist 28 novembre 2015 “E' necessario un pensiero chiaro. Il riscaldamento globale non può affrontato usando le mentalità e gli strumenti di oggi. Bisogna perciò crearne di nuovi” In qualche modo, i colloqui di Parigi sul clima mostreranno i leaders del mondo al loro meglio. Facendo un break dai temi pressanti come le minacce terroriste e le economie in difficoltà, cercheranno di scongiurare una crisi che porrà i suoi rischi più gravi molto tempo dopo che loro avranno lasciato la loro carica. E' l'opposto del pensiero miope che, si dice spesso, affligga i politici. Un peccato, allora, che i politici si siano posti un compito impossibile e che, per lo più, lo affrontino nel modo sbagliato. Che il cambiamento climatico sia in corso, che sia largamente ad opera dell'uomo e che sia enormemente dannoso sono tutte cose difficilmente negabili (sebbene i candidati presidenziali repubblicani cercano di farlo normalmente). Quest'anno sarà certamente il più caldo dal 1880, quando sono cominciati i rilievi della NASA. Se è così, il 2015 romperà un record raggiunto soltanto nel 2014. Fino ad ora, ogni singolo anno di questo decennio è stato più caldo di ogni singolo anno prima del 1998. Le turbine a vento e i pannelli solari che si stanno diffondendo in tutta Europa, America e Cina non riescono a contenere le emissioni di anidride carbonica. Dal cambiamento di secolo, l'energia globale è diventata più e non meno carbonintensive. Il carbone fornisce oggi il 41% dell'elettricità del mondo e il 29% dell'energia del mondo - una quota maggiore di ogni altro momento almeno da 40 anni. La concentrazione atmosferica di anidrite carbonica è del 40% più alta di quanto fosse all'inizio della rivoluzione industriale. Un terribile due I presidenti e i primi ministri che si riuniscono a Parigi insisteranno che il riscaldamento globale deve essere fermato prima che la temperatura del mondo cresca di 2° rispetto ai giorni pre-industriali. Questo dicono da anni ma, considerando la velocità del cambiamento climatico, questo obiettivo è irrealistico quanto arbitrario. Se le emissioni annuali di gas serra restano al livello attuale, entrerà in atmosfera inquinamento a sufficienza per riscaldare il mondo di due gradi centigradi in soli 30 anni. I verdi dicono che il target è un punto di riferimento – che è utile perché ispira azione, e l'azione, una volta avviata, ispirerà ancora più azione in un circolo virtuoso. Se solo i leaders del mondo irrigidiranno le loro schiene e prometteranno ancora più energia verde, essi sostengono, il disastro potrebbe essere evitato. Ma questo sottovaluta in modo drastico la sfida. Le parti del pianeta che sono diventate ricche lo hanno fatto spillando una grande provvista di energia fossile con slancio incosciente anche se comprensibile. Per il resto del mondo che si unirà a loro nel corso del prossimo secolo – così come per tutti gli abitanti non umani del pianeta – fiorire nei secoli a venire richiederà molto di più che una sola sia pur grande espansione delle esistenti tecnologie rinnovabili. Il mondo e i suoi leaders hanno bisogno di più ambizione e più realismo. L'ambizione richiede che aumentino le opzioni disponibili. I generosi sussidi perpetuano le tecnologie low-carbon oggi disponibili; l'obiettivo dovrebbe essere inaugurare quelle di domani. Purtroppo, le compagnie energetiche (a differenza per esempio delle aziende farmaceutiche o automobilistiche) vedono l'investimento nelle tecnologie radicalmente nuove come una prospettiva povera e i governi sono stati deboli nel recuperare il gioco. Sun vasto impegno ad aumentare e diversificare la spesa per R&D sulle tecnologie energetiche sarebbe più positivo di più o meno tutto quello che Parigi potrebbe offrire. Sarebbe costoso. Ma si ricordino tre cose. Una è che spendere denaro per ridurre rischi gravi è ragionevole. La seconda è che alcune delle attuali politiche sul clima costano molto di più di una grossa espansione del portafoglio per la ricerca e rendono piuttosto di meno. I sussidi che hanno creato migliaia di impianti eolici e solari hanno ottenuto solo poco a costo elevato. Altri sussidi verdi, come alcuni di quelli per il bio-carburante hanno in realtà fatto danno. C'è un sacco di soldi da risparmiare. Una terza cosa è che una delle misure migliori contro il cambiamento climatico produce denaro. Prezzi del carbone ben costruiti possono favorire l'energia verde, incoraggiare il risparmio energetico e sopprimere l'energia fossile molto più efficientemente dei sussidi per le rinnovabili. Pochi luoghi coraggiosi hanno sostenuto la definizione di tali prezzi attraverso le tasse sul carbone:l'ultima è l'Alberta in Canada. La maggior parte dei paesi che hanno cercato di fissare il prezzo del carbone hanno invece emesso permessi di inquinamento scambiabili invariabilmente troppi, con il risultato che il prezzo è troppo basso per cambiare i comportamenti. Idealmente tali paesi dovrebbero ammettere il loro errore e cominciare a tassare. Se non ci riuscissero, dovrebbero mantenere i loro schemi di emission-trading ma aggiungendo un prezzo base, aumentandolo fortemente. La nuova agenda per la ricerca deve contrastare le deficienze delle rinnovabili. Sebbene in particolare il solare è diventato molto più economico,nuovi materiali, manifatture e tecnologie di assemblaggio potrebbero renderlo ancora meno caro. Servono modi migliori di immagazzinaggio dell'energia – in modo che il solare e l'eolico possano essere usati, per esempio, nelle ancora fredde sere invernali quando la richiesta europea di elettricità raggiunge il picco. Così ci sono modi migliori di portarla da A a B, sia attraverso reti più grandi o nella forma dei nuovi combustibili sintetizzati, La biotecnologia potrebbe produrre insetti fotosintentici che pompino fuori molto carburante utilizzabile? Nessuno lo sa. Varrebbe la pena spenderci un po' di miliardi per scoprirlo. Né le ambizioni per la ricerca dovrebbero essere limitata alle sole rinnovabili. Ci sono altre forme di energia fossil-fuel-free, come il nucleare. L'innovazione nell'energia nucleare non è facile; tali impianti energetici sono pericolosi e hanno bisogno di regole vigili e indipendenti; sono impopolari e attualmente molto costosi. Ma una civilizzazione che guarda ai prossimi decenni o più non può escludere nuove forme di nucleare dall'agenda della ricerca. Viverci insieme Una innovazione radicale è la chiave per ridurre le emissioni nel medio e lungo termine, ma non fermerà, nel frattempo, il peggioramento del cambiamento climatico. E qui entra in campo il realismo: molte persone dovranno adattarsi a una terra più calda e alcuni avranno bisogno di aiuto. I paesi più ricchi (compresa la Cina) hanno promesso $100 miliardi all'anno per aiutare i più poveri. La difficoltà è che non è chiaro cosa conta ai fini del totale e a cosa serve il denaro. Se la conferenza sul clima di Parigi finirà nel rancore, questa sarà probabilmente la causa. La priorità dovrebbe essere la ricerca sulle colture che possono sopravvivere in climi estremi, una migliore situazione sanitaria e assistenza alla salute per rendere i poveri più resilienti agli shocks climatici; ed energia più a buon mercato, sia essa verde o no. I poveri hanno bisogno di tutte queste cose più di regali di tecnologie green-power che persino l'occidente considera troppo costose. Il filo conclusivo del novo pensiero dovrebbe essere la ricerca per raffreddare artificialmente la terra. I modelli climatici suggeriscono che il riscaldamento globale potrebbe essere rallentato spruzzando particelle nella stratosfera o usando cristalli di sale che renderebbero le nubi più bianche e meglio riflettenti la luce solare. Nessuno sa se tali progetti di “geo-ingegneria” possono essere costruiti in modo gli esistenti rischi climatici non vengano sostituiti da rischi peggiori. Ma questa è una ragione per la ricerca e la discussione, non per cercare un'altra strada. La geo-ingegneria non sostituisce il taglio delle emissioni di gas serra (ad esempio non impedisce alla anidride carbonica di cambiare la chimica degli oceani). Ma metterle al band come chiedono molti verdi è stupido. In breve: pensare i cappelli dovrebbe sostituire i cilici e il pragmatismo dovrebbe sostituire la teologia verde. Il clima sta cambiando a causa di invenzioni straordinarie come le turbine a vapore e il motore a combustione interna. Il modo migliore di farvi fronte è continuare a inventare. Financial Times 18 novembre 2015 Henry Paulson* “Abbiamo bisogno di incentivi per salvare il clima - non solo di un accordo” *Henry Paulson (ex segretario del tesoro US) Se, come ora sembra probabile, i leaders del mondo raggiungeranno un accordo sul cambiamento climatico quando si incontreranno a Parigi alla fine del mese, avranno fatto un passo importante verso la protezione del nostro pianeta. Ma questa sarà solo una partenza. Per fare un progresso vero nel cambiamento climatico abbiamo bisogno di nuove strutture economiche e di nuova tecnologia. Questo ha un prezzo;i paesi in via di sviluppo in particolare dovranno equilibrare il costo della pulizia ambientale con la necessità di una crescita continua. Ma porterà anche benefici, creando nuove e più sostenibili fonti di prosperità. E, come spesso nei casi in cui il progresso dipende da investimento anticipato, la chiave è in mano alla finanza. La green finance non dovrebbe essere un'altra forma di aiuto che le nazioni ricchi daranno ai paesi più poveri. Né può essere un project financing statale mascherato. Invece, il focus dovrebbe essere sullo sfruttamento dei principi di mercato per attrarre capitale privato in modo che le tecnologie possano essere commercializzate e il financing spostato dalle industrie inquinanti che poggiano sulla distruzione ambientale senza pagare per essa. La richiesta trasformazione nel sistema finanziario non sarà facile. Sarà particolarmente difficile per i paesi in via di sviluppo che mancano di maturi e profondi mercati di capitale come quelli dei paesi avanzati, tipo US. Ci sono precedenti incoraggianti. Il governo cinese, con l'ONU, ha avanzato proposte per allineare il suo sistema finanziario con la crescita low-carbon. Ha chiesto la creazione di nuove istituzioni per fare credito con specifici obiettivi ambientali, che abbasserebbero il costo del finanziamento per i progetti verdi. Se questo è un passo positivo, quello che resta da fare è molto di più. Il tema non la scarsità di capitale. E' piuttosto che capitale abbondante ha bisogno di essere allocato nei settori low-carbon che possono generare anche nuove fonti di crescita economica e creare nuova occupazione. L'opportunità di dispiegare capitale privato in Cina per questi obiettivi è enorme. Solo per fare un esempio, nel 2011, i fabbricati hanno costituito circa il 30% dei consumi energetici cinesi. Il problema va oltre la Cina. L'umanità nei prossimi decenni crescerà di altri 2-3 miliardi di persone - e la maggior parte di questa crescita sarà assorbita dalle città. Molti dei paesi che vedranno una crescita della popolazione urbana sono in via di sviluppo e mancano di appropriasti sistemi di finanza municipale per finanziare lo sviluppo urbano. Per questo anche il settore pubblico ha da svolgere un ruolo. La spesa pubblica dovrebbe puntare a colpire oltre al suo peso sfruttando il capitale privato ad ogni dollaro speso. Le politiche di governo possono anche accelerare il processo di cambiamento nelle pratiche di finanziamento e di investimento. La finanza verde e le scelte di policy differiranno tra le nazioni. Alcune opteranno per mettere un prezzo sul carbone. Altre per diverse combinazioni e sussidi - e regolamentazioni. Qualunque sia il mix di policy, dovrebbe essere ancorato a incentivi al mercato per incoraggiare le istituzioni finanziarie, gli investitori, i lenders a tenere conto delle esternalità, come le emissioni, quando valutano i progetti e il business. Queste idee hanno già fatto qualche incursione, come l'emersione di networks di investitori e gli impegni assunti da diverse istituzioni finanziarie europee agli Equator principles, un impianto per la gestione del rischio ambientale. Ma per avere un impatto sulle emissioni di carbone, tali concetti di green financing devono essere adottati in modo ampio. Per questo, con la Cina che assume quest'anno la leadership del G20, c'è l'opportunità per il gruppo di adottare come nuova agenda il green financing e di creare modelli pratici per il mondo in via di sviluppo. I mercati globali dei capitali sono forze potenti. Diretti con proprietà possono alleviare il peso dei governi e aprire un futuro economico sostenibile. New York Times 1 dicembre 2015 Un report cinese sul riscaldamento scopre molti grossi rischi “Lo scioglimento dei ghiacciai, la siccità e l'innalzamento dei mari potrebbero alimentare il conflitto internazionale” L'innalzamento del mare che assedia le zone costiere vitali per l'economia cinese. Possenti infrastrutture, come la diga della tre gole e la ferrovia del Tibet, indebolite dalla piogge violente e dallo scioglimento della terra gelata. E alle frontiere dell'Himalaya il rischio nei prossimi decenni di un conflitto internazionale sull'inaridimento delle forniture di acqua dovuta al ritiro dei ghiacciai. Questi e altri scenari sono stati fatti dall'ultima valutazione scientifica del governo cinese sul riscaldamento globale, resa pubblica prima dei negoziati di Parigi per un nuovo accordo sul cambiamento climatico. “C'è una crescente consapevolezza della gravità dei problemi” ha detto in un'intervista Zhang Haibin, professore dell'Università di Pechino che era tra i 550 esperti che hanno preparato questo report. Ha notato un cambiamento dalla prima valutazione di questo tipo fatta 9 anni fa. “Dal primo, al secondo, al terzo di questi rapporti, l'impatto negativo del cambiamento climatico sulla Cina è evidente in misura crescente”. Il nuovo report è stato recentemente messo in vendita al pubblico dopo il suo rilascio dal Ministero della scienza e della tecnologia ed è disponibile solo in cinese. Presenta il riscaldamento globale come problematico per la Cina da due fronti: gli azzardi ambientali e la risposta internazionale. La Cina è sempre più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico, specie dall'innalzamento dei mari e dal cambiamento del modello delle piogge e delle nevi. E rischia crescenti pressioni internazionali per tagliare il suo inquinamento da gas serra che è di gran lunga la più forte di ogni altro paese, almeno il doppio del secondo paese più inquinante, gli US. Per parare queste richieste internazionali, uno sezione del report spinge Pechino a maggiore flessibilità nei negoziati, nei quali il duplice status della Cina come enorme economia in sviluppo e più grande inquinatore ha generato frizioni con l'EU, gli US e altri paesi che vogliono impegni più fermi su quando cominceranno a ridursi le emissioni di gas serra. “Nuovi arrangiamenti nella governance globale sul clima sono inevitabili” dice il report. “La Cina dovrebbe confrontare la vaghezza del suo ruolo e cambiare”. Gli ultimi colloqui sono cominciati lunedì a Parigi e il presidente della Cina Xi Jinping era tra i leaders all'apertura. Xi ribadirà la vecchia posizione della Cina che è ancora un paese povero in crescita, significando che non dovrebbe avere responsabilità per i tetti quantitativi ai gas serra che si applicano alle economie ricche, ha detto venerdì il ministro degli esteri cinsi. Ma una sezione del nuovo report suggerisce che la Cina dovrà adattarsi alle nuove richieste. "C'è una tendenza inevitabile per tutti i paesi a partecipare ai tagli delle emissioni e per i principali paesi in sviluppo di sostenere maggiori responsabilità sulla riduzione di emissioni" ha detto il report. "La Cina deve prepararsi". Lo studio di 900 pagine "Il terzo Report di valutazione nazionale sul cambiamento climatico" non è la somma delle politiche governative; piuttosto è il distillato delle ultime opzioni scientifiche e di policy fatte da esperti nominati dallo stato. Alcuni di loro lo hanno paragonato al Panel intergovernativo dell'ONU sul cambiamento climatico che riassume gli avanzamenti nella ricerca scientifica e le loro implicazioni con autori che talvolta si contraddicono tra di loro. "E' un importante contributo al dibattito e al processo di costruzione del consenso" ha detto Qi Ye, professore di politica e management ambientale alla Tsinghua University di Pechino che ha contribuito al report. "A tale proposito, contribuisce, anche se indirettamente, al processo di policy making. Il report riconosce che ci sono opinioni diverse tra i policy advisers a proposito del numero di anni in cui le missioni in Cina continueranno a crescere prima di stabilizzarsi. He Jiankun, un professore della Tsinghua University che è stato un senior author del report, ha detto che spera che il governo assumerà le proposte che vi sono contenute per limiti fermi al consumo di carbone e all'inquinamento da diossido di carbonio a partire dall'anno prossimo, al fine di aprire la strada a un pico delle emissioni prima del 2030, data proposta dal governo. Gli attuali obiettivi cinesi cercano di ridurre l'inquinamento da diossido di carbonio rilasciato per ogni unità di crescita economica. Questo significa che le emissioni cresceranno ancora ma più lentamente dell'economia e non c'è alcun limite massimo a tali emissioni. "E' precisamente a causa delle incertezze che abbiamo bisogno di controlli" ha detto He. "Senza un obiettivo,le nostre future emissioni potrebbero addirittura crescere". Ma anche se la Cina e le altre grandi potenze concordano tagli vincolanti ai gas serra, gli effetti sul cambiamento climatico già ci sono nell'ambiente. Il report urge più spesa per prepararsi a fronteggiare le sempre più frequenti ed estreme siccità, alluvioni e ondate di calore. L'aumento del livello dei mari è tra le minacce che ricevono maggiore attenzione nel report. Con lo scioglimento dei ghiacci polari e l'aumento delle temperature degli oceani, i mari in tutto il mondo stanno crescendo, ma i cambiamenti sono irregolari e le acque delle coste cinesi sono cresciute più rapidamente della media globale, dice il report. "Il cambiamento climatico esporrà gli insediamenti urbani lungo le coste più di ogni altra area in tutta la nazione ai colpi del cambiamento climatico" dice "alcune città possono persino correre il rischio di enormi disastri difficili da prevedere". Mentre c'è molto dibattito sulla dimensione delle crescite future, il report cita proiezioni che, prevedono la possibilità che, per la fine del secolo, il mare della Cina orientale potrebbe aumentare tra i 40 e i 60 centimetri a confronto delle medie del 20esimo secolo, esponendo città come Shanghai e aree circostanti a maree di inondazioni e a grandi danni da tempeste e tifoni. Alcune proiezioni sono persino più alte. "Tutte le infrastrutture costruite sulla costa sono potenzialmente vulnerabili" ha detto in una intervista telefonica Isabel Hilton, editore di Chinadialogue, un website per notizie e discussioni sulle sfide ambientali del paese. "Qui c'è una enorme quantità di PIL" La Cina interna sperimenterà cambiamenti maggiori nelle precipitazioni di pioggia e di neve che riformerà l'agricoltura. Sebbene il riscaldamento globale può evocare immagini di desertificazioni, l'aumento delle temperature può anche significare che l'aria assorbe più umidità, che è poi probabile venga scaricata in piogge sempre più irregolari, specie nel nord della Cina. Soprattutto, il report dice che le risorse idriche cinesi, già indebolite, potrebbero ridursi del 5% entro la metà del secolo a causa del cambiamento climatico. Questo richiederà grandi cambiamenti nell'agricoltura, e potrebbe danneggiare la Diga delle tre gole, una delle più grandi al mondo, dice il report. Il cambiamento delle precipitazioni di pioggia, alla fine significherà che la diga sopporterà carenze più frequenti nelle stagioni secche e inondazioni più intense nelle stagioni umide. Questo sarà "estremamente dannoso per la gestione del serbatoio, la sicurezza della diga e le prevenzione delle alluvioni" dice il report. In tutto il Tibet e nelle altre regioni di altitudine della Cina occidentale, i ghiacciai si sono ritirati,così il permafrost, lo strato di terra, sotto la superficie, che resta gelata tutto l'anno. Le 710 mila miglia di linea ferroviaria cinese sul Plateau tibetano è già sconvolta dal terreno ammorbidito e instabile che causa deformazioni della linea. Il passo del riscaldamento minaccia di sorpassare i rimedi tecnologici, dice il report. I rischi che questi cambiamenti determinano per la Cina non sono solo ambientali o economici. Una sezione del report è dedicata alle implicazioni sulla sicurezza nazionale. L'aumento delle temperature accelererà prima lo scioglimento dei ghiacciai, aumentando la portata dei fiumi, ma a partire da circa metà secolo, queste portate potrebbero sfumare, ha detto Zhang della Peking University, che ha contribuito alla stesura di questa sezione del report, portando a scontri di frontiera sulle risorse idriche. Social Europe Journal 2 novembre 2015 Steven Hill* “Perchè gli 'one-percenters' beneficeranno della Gig Economy mentre il resto no” *Steven Hill (senior fellow alla New America Foundation; autore del libro "perchè la Uber economy e il capitalismo senza controllo stanno fottendo i lavoratori americani) E' difficile sapere cosa porterà il futuro, ma al momento penso che lo scenario in assoluto più realistico sia che il lavoro sarà spezzettato in compiti sempre più piccoli e in gigs/microgigs/nanogigs ( quello che viene definito task T segmentato in T1, T2, T3...Tn) e allora molti di questi compiti saranno affidati all'automazione/robot/algoritmi - non umani. Il ruolo umano può essere ridotto solo a premere il bottone per fare partire il robot. Sarà un lavoro servile, dequalificato e pagato poco. Sempre più lavoratori saranno ridotti a ruolo servile. In un certo senso, le aziende della gig economy come TaskRabbit, CrowdFlower, Elance-Upwork, Freelancer.com, Guru, Zaarley, Fiverr ed altri stanno facendo i pionieri nel brokeraggio di app-driven labor jobs che impegnano a contratto lavoratori che si mettono all'asta al massimo ribasso e che ottengono lavori e remunerazioni sempre più ridotti. Molti freelancers saranno braccianti mal pagati che offrono i loro servizi in una nuda competizione che nette gli uni contro gli altri. Questo determinerà un'enorme, inimmaginabile crescita della produttività, e, in passato, tale crescita ha portato a una maggiore prosperità per tutti. Che avverrà questa volta? Chi prenderà i benefici di questa enorme, inimmaginabile crescita della produttività? Sarà una manciata di "Masters of Universe", cioè capi imprenditori e investitori? I guadagni saranno largamente distribuiti al pubblico in genere? Nessuna palla di vetro ci può dare la risposta, ma sappiamo che negli ultimi decenni, l'economia si è ristrutturata in modo che i ricchi guadagni della crescita della produttività e delle nuove tecnologie sono finiti nelle tasche di una minoranza sempre più piccola: gli "one-percenters". Sappiamo anche che c'è stata una stagnazione salariale malgrado considerevoli aumenti dei profitti corporate. Così la storia recente della nostra nazione dimostra, anche troppo vividamente, che al pubblico in generale non è garantito in alcun modo di trarre beneficio dall'innovazione tecnologica e dai guadagni di produttività. Semmai il contrario. La risposta al quesito è dunque politica. Dipende grandemente dalla politica e dalle politiche perseguite durante l'interregno, prima che la nostra società cominci ad avvicinarsi all'orlo di questo futuro molto incerto. L'inizio si sta per avvicinare, come una cometa gigante di un'altra galassia, più rapidamente di quanto si rendano conto l'opinione pubblica e i politici. Stiamo andando a scontrarcisi frontalmente. Social Europe Journal 20 novembre 2015 Andrea Boes* “Digitalizzazione: nuovi concetti del lavoro stanno rivoluzionando il mondo del lavoro” *Andrea Boes (membro del board dell'Institute for Social Science Research (ISF) e insegnante alla Techinical University Darmstadt) Nuovi fenomeni come il cloud working (lavoro remoto; attraverso piattaforme tecnologiche che mettono in relazione i free lancers con le richieste delle aziende) e il crowd sourcing (affidamento ad esterni tramite piattaforme web di realizzazione di progetti, di analisi e raccolta dati, di informazione ecc) stanno guadagnando terreno, segnalando che la digitalizzazione sta rivoluzionando la società e l'economia. Da un lato sembra che promettano nuove flessibilità e nuove libertà, maggiore efficienza e riduzione dei costi. Dall'altro lato, sembra incombere una "Amazonization" del lavoro e l'emergere di un nuovo precariato di peones digitali mediati da piattaforme come Maechanical Turk o Clickworker. Tale processo crea nuove sfide per le politiche del lavoro ( vedi per esempio Schroder e Schwemmle 2014, Benner 2015). Al fine di comprendere i radicali cambiamenti indotti dalla digitalizzazione nel mondo del lavoro, è necessario guardare all'emergere di un nuovo spazio di informazione globale, come un'arena per l'azione societaria fruibile da un numero crescente di attori - e guardare a come aziende come l'IBM la usino strategicamente per ridisegnare radicalmente i loro processi produttivi. La forme più diverse dell'utilizzo privato avvengono all'interno di questo spazio: il consumo, la condivisione di informazioni, gli scambi di comunicazioni, la coltivazione di contatti e anche varie forme di lavoro societario. I contributi individuali di questi numerosi e vari attori all'interno in funzione dello spazio dell'informazione, i loro profili e i dati, i loro pacchetti di lavoro, il know how e le forze produttive - tutto ciò è riconosciuto sempre di più dalle imprese come potenziale fonte di valore e quindi da sviluppare e sfruttare. Perciò lo spazio dell'informazione diventa il punto di partenza per un enorme balzo nelle forze produttive. Intanto le aziende hanno compreso il suo significato strategico: attraverso lo spazio dell'informazione possono superare i loro limiti fisici, calibrare con flessibilità i loro processi produttivi e, last but not least, sfruttare e integrare i contributi dallo "outside" come richiesto senza obbligazioni vincolanti per la stessa azienda. In questo modo le società stanno cominciando a prendere lavoro societario e attività private dai loro contesti non-capitalisti per sfruttarli per i propri processi di valore aggiunto e anche per creare una relazione concorrenziale tra di loro e il lavoro dei dipendenti regolari. Questo sviluppo marca la partenza di una nuova fase storica dell'esproprio capitalista. (per questo concetto vedi Dorre 2012). Le imprese stanno reinventando se stesse: L'esempio dell'IBM Cosa significa tutto ciò in pratica? Un buon esempio è l'IBM e la sua strategia imprenditoriale "Generation Open (GenO) (uno studio dettagliato con esempi di tale strategia su Boes e altri 2015. La strategia Generation Open sta per un tentativo molto sofisticato di inserire il crowd sourcing in un concetto olistico di produzione che combina i principi dello "esproprio esterno", cioè dell'appropriazione del lavoro dall'esterno dell'impresa e di "esproprio interno" attuato con i mezzi di una radicale riorganizzazione del lavoro all'interno dell'impresa che segue il modello delle comunità. Perciò IBM combina "inside" e "outside" come elementi complementari di un sistema olistico, tenuto insieme nel "cloud". Così il crowd sourcing come praticato dall'IBM è parte di una strategia generale di cloud working. Questo a sua volta è originato da una reinvenzione della società dopo il declino del computer centrale, in termini sia di modello di business che di organizzazione del lavoro. Dopo l'introduzione di nuovi concetti di menagement e di agili metodi nello sviluppo del software e dopo che la società si era aperta alla comunità circostante - i cambiamenti sono stati sintetizzati sotto l'etichetta di una "impresa globalmente integrata" - GenO e il cloud working sono l'importante sviluppo ulteriore del modello disegnato per portare l'IBM nel futuro digitale. Lo "esproprio esterno" - che consente l'accesso dell'IBM a risorse esterne alla sfera del lavoro capitalistico retribuito e di raggiungere innovazioni potenziali oltre le proprie frontiere - è realizzato attraverso il portale dell'IBM "Liquid"; è effettuato in cooperazione strategica con la piattaforma crowd sourcing "TopCoder". Liquid non affronta il crowd (la moltitudine) nel suo insieme ma solo un gruppo di freelancers identificabili. Questi sono a disposizione dell'IBM per portare avanti pacchetti di lavoro compartimezzato e sono pagati se il risultato del lavoro è presentato e accettato all'interno di uno spazio temporale definito. In teoria tuttavia sarebbe possibile assumere ogni singolo sviluppatore di software nel mondo, senza dovere ricorrere a un contratto di lavoro e integrare tali sviluppatori nei processi di produzione interni attraverso la spazio dell'informazione. Inoltre l'IBM sta attualmente ristrutturando i propri processi di produzione interni in modo considerevolmente consistente. Il blueprint per questo processo di ristrutturazione va cercato nelle comunità Open Sources con il loro nuovi metodi di sviluppo del software all'interno di teams distribuiti in modo globale, applicando una trasparente organizzazione del lavoro e vivendo una cultura speciale di collaborazione e comunicazione. Attraverso una "Blue Community" in house, viene ottimizzata la connessione/interazione tra una grande "people cloud" all'esterno e quelli all'interno. Dentro la "Blue Community", sono usati strumenti e processi per regolare e controllare il suo lavoro. Così il "Concetto di Team Razionale" fornisce la base IT per la divisione del lavoro nello sviluppo del software mentre l'ambiente per la comunicazione e la collaborazione"IBM Connections" cura il regolare scambio di conoscenze. La direzione standardizzata del lavoro offre anche nuove possibilità di controllo. Una "Blue Card" dove sono registrati "Blue Points" documenta la reputazione digitale di ogni singolo sviluppatore. Questo status è permanentemente tenuto aggiornato da strumenti analitici. Così i dipendenti si trovano in un radicalizzato "sistema di esame permanente". Una nuova industrializzazione del lavoro della conoscenza Per riassumere: in pratica, lo spazio dell'informazione come nuovo "spazio della produzione" permette un lavoro distribuito, standardizzato e globalmente sincronizzato che viene perennemente monitorato. Questo è il precursore di una nuova industrializzazione del lavoro della conoscenza - e un sistema che trasforma sempre di più le attività altamente professionalizzate in lavoro salariato fungibile. La loro fungibilità e trasparenza e quindi un nuovo tipo di industrializzazione sono la precondizione per massimizzare l'interazione tra "outside" e "inside" e per la permeabilità tra le due sfere. Questo è il centro del processo dello "esproprio interno". Gli espropri, esterno e interno, sono messi insieme nello spazio dell'informazione, formando un sistema olistico - e, come conseguenza inevitabile, è ricostituito il lavoro societario. La grande sfida per la società Questo sviluppo implica grandi sfide per le politiche sociali. Integrando le nuove forme di lavoro societario nei processi produttivi, le aziende le stanno convertendo in lavoro salariato de facto ma senza confermare la legislazione sul lavoro. Piuttosto esse gestiscono queste relazioni di lavoro secondo il codice civile, incitando in tal modo la concorrenza tra di loro e l'occupazione protetta da un regolare sistema di lavoro salariatoPer converso, la situazione competitiva tra dipendenti regolari e lavoratori nello spazio dell'informazione esercita pressione sui dipendenti e le loro condizioni di lavoro regolate. C'è il pericolo che la pressione impatterà non solo sui singoli lavoratori ma sull'intero sistema del lavoro regolato e anche oltre, più a valle, sulle istituzioni come i sistemi di sicurezza sociale. Questo potrebbe non costituire un problema per le singole aziende ma è certo un problema per la società nel suo insieme. Social Europe Journal 3 novembre 2015 Simon Deakin* “Il luddismo al tempo di Uber” *Simon Deakin (prof. di diritto all'Università di Cambridge. Fa parte del gruppo di esperti dell'istituto di ricerca del sindacato europeo) Una risposta comune all'ondata di proteste su Uber è che gli oppositori sono "luddisti". L'implicazione è che la resistenza alle nuove tecnologie oggi si dimostrerà futile, proprio come lo è stata nel 19esimo secolo, quando i luddisti originali non furono in grado di evitare la crescita delle industrie. Questa visione equivoca su quello che ha rappresentato il luddismo e non riesce a vedere come e perché il suo esempio sia ancora rilevante. I luddisti sono spesso caratterizzati come "distruttori di macchine" ma erano qualcosa di più di questo. Il movimento luddista che ha raggiunto il suo apice nel 1811-12 è stato quasi l'ultimo atto di resistenza a un processo di cambiamento economico e istituzionale che era cominciato circa 150 anni prima. Questo processo ha visto il declino progressivo della "moral economy", centrata sul modello di produzione della gilda e la sua sostituzione con una forma di capitalismo industriale in cui la linea di divisione tra capitale e lavoro - "masters e i servants" - era chiaro a tutti. Questa trasformazione è stata distruttiva delle relazioni sociali che prima di allora erano sembrate stabili e sicure. Le gilde erano associazioni di produttori che svolgevano funzioni che oggi definiremmo formazione e licenze. Tipicamente, una gilda regolava l'ingresso in un commercio e definiva gli standards minimi di qualità. Inoltre controllava la concorrenza scorretta. Le gilde erano gerarchiche nel senso che il potere era investito da una classe di insiders il cui status derivava dalla loro esperienza e dello stare nel commercio. Le gilde erano esclusive, ponendo barriere all'ingresso che escludevano gli outsiders. Al tempo stesso, erano un'importante fonte di capitale sociale. Preservavano il valore della conoscenza e delle professionalità. Radicavano le imprese industriali nelle loro comunità locali e aiutavano a creare beni pubblici in un periodo di urbanizzazione crescente. Le gilde non erano capitaliste. Per occupare altri e commerciare all'interno di una occupazione o di una professione regolata, un produttore doveva avere prima servito come apprendista e in tal modo acquisito il diritto a entrare nella gilda. I mercanti e i finanzieri erano tenuti a distanza. Sottostante tali pratiche, c'era l'idea che il "mistero" del commercio - le competenze e la conoscenza necessarie a praticarlo erano un tipo di diritto di proprietà che investiva nei membri della gilda, sotto la protezione della legge. Negli ultimi decenni del 17esimo secolo, i casi di sfida ai privilegi delle gilde cominciarono ad andare di fronte ai tribunali inglesi. Spesso erano portati da mercanti che operavano come intermediari, tra i produttori basati sulla gilda e i crescenti mercati dei consumatori a casa e all'estero e fornivano la finanza ai networks di piccole imprese. Questi mercanti-capitalisti agivano in via di principio illegalmente se non facevano parte di una gilda. Come sostenne un avvocato, in un caso guida del 1689, "a chi non usa egli stesso un mistero è proibito occupare altri in quello specifico commercio". La corte fu d'accordo e confermò la multa contro il mercante. Tuttavia, nel caso ci fu un giudice dissenziente il quale pensò che la legge, risalente al secolo precedente, fosse arcaica e neppure necessaria, poiché la soluzione alla produzione al di sotto dello standard è nel mercato: "non c'è punizione maggiore per il venditore dell'esposizione alla vendita di merci mal fatte, perché significa che non ne venderà mai altre". Cominciò così una lenta reinterpretazione degli statuti cui le gilde facevano riferimento per protezione. All'inizio del 19esimo secolo, queste leggi erano ormai lettera morta. Non furono abrogate prima del 1815, ma già prima di allora i tribunali si rifiutavano di applicarle. E ciò perché, come disse un giudice anziano, era impensabile che i proprietari di mulini che erano tra "le prime famiglie di questo regno" fossero obbligati a svolgere regolare apprendistato" come condizione per fare affari. Questo giudizio fu emesso nel 1811, lo stesso anno dell'inizio delle proteste luddiste che cominciarono in risposta al rifiuto dei magistrati di incriminare gli imprenditori della maglieria nel Nottingamshire perché non avevano applicato il consueto minimum wage. Potremmo concludere dalla storia del luddismo che c'è molto poco di nuovo nel conflitto in corso tra Uber e i suoi oppositori. Ora, come allora, la tecnologia fornisce l'occasione di distruzione di una relazione economica consolidata. In più, negli anni 1820s, c'era in gioco ben più della protezione di interessi costituiti. Le gilde aiutavano a preservare la conoscenza da cui dipendevano le prime forme di produzione industriale. Radicavano le relazioni economiche in una serie più ampia di diritti e obbligazioni comuni. Il luddismo è stato il tentativo di mantenere questa rete di relazioni reciproche. La resistenza a Uber solleva questioni simili sulla responsabilità di impresa e la capacità della legge di tassarla e regolarla. La lezione del luddismo della resistenza alle nuove tecnologie è destinata a fallire? I luddisti non potevano impedire la nascita di forme di produzione capitaliste. I lavoratori persero il controllo sui processi della conoscenza della produzione e furono assoggettati alla disciplina della fabbrica. Il modello della gilda non poteva competere con la produzione di massa, che faceva manufatti disponibili a basso costo per un range molto più ampio di consumatori rispetto a prima. La gilda è sopravvissuta solo come cimelio cerimoniale. Ma il luddismo ha avuto una eredità più positiva e duratura. Le relazioni di lavoro che sono emerse dopo il collasso delle gilde sono diventate il fondamento per un nuovo contratto sociale. Una generazione dopo la sconfitta del luddismo, il commercio della maglieria dell'est Midlands è diventato il primo a definire un contratto collettivo tra datori di lavoro e sindacati. Nel corso del secolo successivo, sono state realizzate le istituzioni del welfare per reinventare la sicurezza economica nell'età industriale. Queste istituzioni sono oggi minacciate. La tecnologia ha permesso ai datori di lavoro di realizzare nuove forme di controllo sul processo lavorativo e questo sta portando alla precarizzazione (casualization) delle precedenti forme di lavoro stabili. Questo processo tuttavia, non è inevitabile come sembra. Nel caso del luddismo, la protesta sociale ha aiutato a innescare una risposta alle tecnologie distruttive che, alla fine, ha portato a un compromesso difficile tra capitale e lavoro, ma tuttavia un compromesso. Non c'è una legge di ferro del capitalismo che detta che il cambiamento tecnologico porti all'impoverimento. Uber è un'impresa capitalistica che beneficia del sostegno fornito dal sistema legale all'imprenditorialità. Il valore economico della tecnologia Uber sarebbe vicino a zero senza la protezione fornita da una legge sulla proprietà intellettuale. Gli azionisti di Uber possono permettersi di assumere rischi economici perché sono protetti dalla istituzione legale della responsabilità limitata. Gli stati democratici che osservano il principio di legalità sono la migliore protezione che hanno le imprese contro la corruzione e la predazione. Per questo i tribunali e i parlamenti di questi stati sono ben lungi dall'essere senza potere di fronte agli interessi corporate. Non è affatto ovvio che imprese come Uber che entrano in un mercato esistente debbano essere esentate dalle regole e i regolamenti che si applicano ai vecchi. Queste regole, generalmente, riguardano scambi che sono il risultato della contrattazione politica e riflettono compromessi complessi. I tassisti di Londra godono certamente di un diritto di monopolio in cambio dell'accettazione di regole intese a proteggere il pubblico. L'arrivo di Uber può essere il catalizzatore della rivalutazione di tali regolazioni ma non c'è alcun motivo di esentare Uber dal controllo democratico solo perché una drive app non è esattamente la stessa cosa di un tassametro. Se la tecnologia evolve, può farlo anche la legge. Il luddismo è stato la risposta all'incapacità dei tribunali di difendere interessi economici che la legge sembrava volere proteggere. Perciò la lezione finale della storia è che quando i tribunali si limitano a proteggere i diritti dei ricchi e potenti, spesso si determinano violenza e disordine. Social Europe Journal 3 novembre 2015 Jean Pisani-Ferry* “I benefici sociali nell'età di Uber “ *Jean Pisani-Ferry (prof. Hertie School of Governance Berlino. Attualmente commissario generale del governo francese per il policy planning) Quando si arriva al compenso, l'azienda per cui lavori conta di più di quanto tu sia bravo o di cosa tu faccia. Nel 2013, il lavoratore medio della Goldman Sachs guadagnava $383.000 - molto di più di quanto un dipendente con le migliori performances nella maggior parte delle aziende può permettersi di portare a casa. Le differenze salariali tra le aziende sono considerevoli. Una ricerca di Jason Furman, top economi adviser del presidente Obama, e di Peter Orszag, ex direttore del budget di Obama, ha trovato che la crescita dei differenziali retributivi sono la prima causa dell'allargamento delle disuguaglianze negli anni recenti negli US. Nell'aumento della disuguaglianza complessiva, contano di più delle differenze all'interno delle aziende o del reddito da capitale. All'altro limite dello spettro, molti partecipanti alla forza lavoro hanno contratti temporanei, lavorano in piccole imprese o sono lavoratori autonomi. Alcuni combinano diversi lavori nello stesso tempo. Se, come molti si aspettano,si sviluppa la cosiddetta sharing economy, il loro numero è destinato a crescere. Questi lavoratori non beneficiano della sicurezza sul lavoro e generalmente guadagnano molto di meno. I paesi emergenti offrono un esempio di sfacciata disuguaglianza tra i lavoratori nel settore formale - companies come Petrobas in Brasile o Infosys in India -e i lavoratori dell'economia informale. Ma anche nelle economie avanzate, dove la protezione sociale è di ampio respiro, l'accesso ai benefici è ben lungi dall'essere uguale. I dipendenti di aziende grandi e profittevoli tendono a godere di migliore copertura sanitaria, pensioni più generose e più facile accesso alla formazione. Inoltre, alcuni benefici - ad esempio il congedo parentale - sono condizionati all'anzianità all'interno dell'impresa. Questi sono fatti inquietanti. Talento e sforzo dovrebbero essere premiati, ma due persone con pari capacità e dedizione non dovrebbero essere trattate in modo diverso solo perché a una capita di essere un insider, con un lavoro sicuro in una grande company di successo. Tali differenze sono discutibili non solo in termini di giustizia; sono anche economicamente inefficienti, perché tendono a limitare la mobilità del lavoro fra imprese e settori. I dipendenti ci pensano due volte prima di lasciare un'azienda se la conseguenza è che perderebbero significativi vantaggi. Questo impedisce incontri potenzialmente positivi tra skills necessari agli imprenditori e le disponibilità dell'offerta. Inoltre rende eccessivamente difficile alle piccole imprese assumere talenti di prima classe. La politica pubblica non dovrebbe impedire che le imprese di successo paghino di più e offrano migliori condizioni di lavoro. Ma dovrebbe assicurare che tutti i partecipanti alla forza lavoro, qualunque sia il loro status, godano di uguale accesso ai benefici essenziali; e questo dovrebbe essere finalizzato a minimizzare le perdite che impediscono la mobilità tra le diverse imprese, settori e tipi di occupazione. La Healt Care Reform di Obama (riforma sanitaria) è stato un passo importante a riguardo. Ma le riforme del welfare sociale dovrebbero andare molto più avanti. Per ragioni di giustizia e di efficienza, i diritti e i benefici dovrebbero essere legati all'individuo e non alle imprese o allo status di occupazione e dovrebbero essere pienamente portabili attraverso i diversi lavori. Per armonizzare il suo sistema di welfare sociale al cambiamento intervenuto in economia e ridurre la disuguaglianza tra gli individui, la Francia sta attualmente considerando un sistema di cosiddetti Individual Activity Accounts (IAAs). La mia collega Selma Mahfouz ha presieduto il comitato che ha preparato il libro bianco per questo sistema. Social Europe Journal 30 novembre 2015 Robert Reich “Perchè la sharing economy sta nuocendo ai lavoratori - e cosa si deve fare” In questa stagione è particolarmente appropriato riconoscere quanti americani non hanno un lavoro stabile. La cosiddetta "share economy" include contractors indipendenti, i lavoratori temporanei e i lavoratori autonomi, i part-timers e i free lancers e free agents. Si stima che tra 5 anni più del 40% della forza lavoro americana starà in tali forme di lavoro incerte; in un decennio la maggior parte di noi. Già due terzi dei lavoratori americani vivono di busta paga in busta paga. Questo trend sta spostando tutti i rischi economici sui lavoratori. Una contrazione della domanda o un improvviso cambiamento dei bisogni dei consumatori o un infortunio o una malattia personale, possono rendere impossibile pagare i conti. Elimina le protezioni del lavoro come il minimum wage, la sicurezza dei lavoratori, il congedo familiare o medico e il lavoro straordinario. E mette fine alla assicurazione finanziata dal datore di lavoro - la social security, il risarcimento dei lavoratori, i trattamenti di disoccupazione e l'assicurazione sanitaria garantita dal datore di lavoro in base all'Affordable Care Act. Nessuno stupore, se in base ai sondaggi quasi un quarto dei lavoratori americani è preoccupato che in futuro non guadagnerà a sufficienza. Una percentuale molto più alta del 15% di dieci anni fa. Tale incertezza può creare grandi difficoltà anche alle famiglie. Secondo una nuova ricerca, i figli di genitori che lavorano in orari imprevedibili e fuori delle ore lavorative quotidiane standard è probabile avranno minori skills di conoscenza e più problemi comportamentali. Che fare? I tribunali sono sommersi di cause di lavoro sulla sbagliata classificazione dei dipendenti come "indipendent contractors", determinando una profusione di criteri e di definizioni. Dovremmo invece puntare alla semplicità: chiunque paghi più della metà di un reddito di qualcuno o gli fornisca più della metà delle ore lavorative dovrebbe essere responsabile di tutte le protezioni e della assicurazioni cui un lavoratore abbia titolo. In più, per ripristinare qualche certezza nelle vite delle persone, dobbiamo spostarci dalla assicurazione sulla disoccupazione verso l'assicurazione di un reddito. Diciamo, per esempio, che se il tuo reddito mensile è del 50% inferiore al reddito medio mensile che hai ricevuto da tutti i tuoi lavori nei precedenti 5 anni,con l'assicurazione sul reddito, riceverai automaticamente metà della differenza per il periodo di un anno. E' possibile avere un'economia flessibile e provvedere anche ai lavoratori qualche livello minimo di sicurezza. Una società decente non richiede niente di meno. Financial Times 21-22 novembre 2015 David Willetts* “I robots ci arricchiranno e non ci sostituiranno” *David Willetts (presidente esecutivo della Resolution Foundation) Martin Ford, nel libro "The rise of the Robots" (vincitore del premio FT/McKinsey business book of the year) dice che i robots stanno venendo a prendersi i nostri lavori. Andy Haldane, economista capo della Bank of England ha avvertito, la settimana scorsa, che, a causa dell'automazione, sono a rischio 15 milioni di posti di lavoro in Gran Bretagna. L'intelligenza artificiale sta per prendere il sopravvento? Non ne sono certo. L'innovazione è sempre una minaccia per gli incumbents; si guardi alla gara tra costruttori di auto per produrre auto senza autista prima che Google scriva il software per il computer a quattro ruote. L'elettricità ha fatto esplodere la seconda rivoluzione industriale, distruggendo posti di lavoro divenuti superflui nelle industrie e lasciando i lavoratori con skills superati. Era duro essere un fabbro ferraio nel 1920, dopo il perfezionamento della scienza dell'arco elettrico e delle tecniche della produzione di massa. Gli skills che erano stati costruiti nel corso di lunghi anni di duro lavoro erano diventati cose senza valore. Questa è una delle ragioni per cui i laureati godono di una crescita di lungo termine nei guadagni superiore a quella degli apprendisti - sono più capaci di cavalcare le onde del cambiamento tecnologico. Si diceva che le città industriali erano cresciute intorno a campi di carbone o a forniture d'acqua che sostenessero le macchine - solo per declinare quando le macchine stesse venivano superate. Ora invece i gruppi si raccolgono intorno alle Università e ai centri di ricerca. Ma, mentre i robots e l'automazione creeranno problemi per particolari industrie e per le persone che ci lavorano, l'economia nel suo insieme potrà adattarsi. Non mi attendo che ci allontaniamo dal sentiero dell'industrializzazione in cui i lavori cambiano radicalmente e i vecchi scompaiono, ma il numero delle persone che lavorano crescerà. Gli avanzamenti tecnologici portano straordinari benefici ai consumatori, con le merci che diventano meno costose e la creazione di nuovi prodotti che non si potevano presagire. I desideri umani sono infiniti; la mancanza di cose che solo qualche decennio fa non erano ancora state inventate, basta a farci sentire poveri. Se non altro, la gente pagherà sempre per interagire con altri esseri umani. Il cinema non ha ucciso il teatro; l'accesso facile alla musica registrata ha solo aumentato il prezzo che le persone pagano per assistere a un concerto live. La IT revolution ha distrutto industrie ma non è stata distruttrice di posti di lavoro. Una delle ragioni della paranoia dei robots negli US è che le imprese stanno prendendo una fetta più grande della torta economica,a spese dei lavoratori, in un momento in cui si sta riducendo la partecipazione al mercato del lavoro. Ma molto di tutto ciò dipende dai fallimenti della politica americana che non devono essere replicati altrove. L'America è stata una leader del mondo nella formazione della sua forza lavoro ma ora in Gran Bretagna c'è una tasso superiore di laureati. Dal 1999 la proporzione dei partecipanti al mercato del lavoro tra i 25 e i 54 anni è aumentata del 3% nell'UK mentre negli US si è ridotta di una misura uguale. Nell'UK , negli anni 2000, la disuguaglianza salariale non si è ampliata, anzi, dopo il crollo, si è addirittura ridotta; negli US sta aumentando. Il problema britannico non è che la tecnologia si sta muovendo troppo svelta: è semmai che le nostre invenzioni non raggiungono il mercato abbastanza rapidamente. Abbiamo bisogno di un sostenuto investimento pubblico per spingere tecnologie dirompenti, come l'automazione e i robots. Non è la stessa cosa che il sostegno old fashioned degli incumbents; davvero, le tecnologie in questione sono una sfida alle aziende esistenti. E negli US c'è molto più sostegno statale e federale per la commercializzazione delle nuove tecnologie multiuso. La Gran Bretagna deve tenersi al passo. Il problema che fronteggiano le principali economie non è che i robots faranno tutti i lavori; è che non potranno assumerli abbastanza velocemente mentre i lavoratori vanno in pensione. Il Giappone, con la sua combinazione di bassa natalità e opposizione all'immigrazione, è da molto tempo un inventore leader dei robots. Sono pionieri nelle tecnologie assistenziali per gli anziani - dagli esoscheletri per aiutare le persone fragili ad alzarsi e muoversi ai robots di servizio che tengono loro compagnia. Il settore dell'assistenza in Gran Bretagna sta lottando con un programmato aumento del minimum wage per i lavoratori over 25. Potrebbe invece rivolgersi a avanzamenti tecnologici innovativi per aiutare ad abbattere i costi. Ci sono ancora molte discussioni politiche che assumono la tecnologia come fissa. Anche l'industria è stata troppo lenta ad adattarsi. Poiché pensiamo ai robots come macchine, il nostro convenzionale modello di sicurezza in fabbrica è di tenere gli umani ben lontani da loro. Ma il loro potenziale sarà veramente liberato solo quando saranno usati in modo molto più flessibile - in modo che le persone li pensino quasi come colleghi. Posso solo immaginare un futuro in cui il dibattito di politica pubblica principale è come distribuire i proventi dai robots ai cittadini in modo che possano godere di una vita di tempo libero. Sarebbe piuttosto come Time Machine di HG Wells - eccetto che il proletariato consisterebbe interamente di robots cosicché gli umani godrebbero della vita stravagante e spensierata della élite. Il problema che abbiamo oggi davanti è l'opposto. Abbiamo più lavoro da fare di quanto le persone facciano. I robots sono la risposta - non la minaccia.