SSM Raccolta di giurisprudenza

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SSM
SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
STRUTTURA TERRITORIALE DI FORMAZIONE DECENTRATA DEL DISTRETTO DI MILANO
Renato Amoroso, Giuseppe Buffone, Giuseppe Cernuto, Filippo D’Aquino, Fabrizio D’Arcangelo,
Francesca Fiecconi, Maria Grazia Fiori, Federico Vincenzo Amedeo Rolfi, Adriano Scudieri
Raccolta di giurisprudenza
«La Questione della natura giuridica della responsabilità del
medico ospedaliero, dopo l’art. 3 l. 189/2012 (cd. Legge
Balduzzi»
A CURA DI G. BUFFONE – F. ROLFI
INDICE
1. Le pronunce della Suprema Corte
Cass. Civ., sez. III, sentenza 10 gennaio 2013 n. 4030
Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 17 aprile 2014 n. 8940
2. Il recente contrasto nel tribunale di Milano
Trib. Milano, sez. I, 23 luglio 2014
Trib. Milano, sez. V, 18 novembre 2014
3. Alcune pronunce del merito
Trib. Brindisi, sentenza 18 luglio 2014
Trib. Arezzo, sentenza 14 febbraio 2013
Trib. Varese, 26 novembre 2012
1
LE PRONUNCE DELLA SUPREMA CORTE
Cass. Civ., sez. III, sentenza 10 gennaio 2013 n. 4030 (Pres. Trifone, rel. Petti)
ART. 3 COMMA I D.L. 13 SETTEMBRE 2012 N. 158 CONV. IN L. 8 NOVEMBRE 2012 –
RESPONSABILITÀ MEDICA – DEPENALIZZAZIONE IN CASO DI COLPA LIEVE – RESPONSABILITÀ IN
SEDE CIVILE – REGOLE CONSOLIDATE – PERSISTENZA
L’art. 3 comma I del d.l. 13 settembre 2012 n. 158, conv. in l. 8 novembre 2012, ha depenalizzato la
responsabilità medica in caso di colpa lieve, dove l’esercente l’attività sanitaria si sia attenuto a
linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L’esimente penale non elide,
però l’illecito civile e resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile che è clausola
generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili
quale è la salute. La materia della responsabilità civile segue, tuttavia, le sue regole consolidate e
non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella cd. contrattuale del medico
e della struttura sanitaria, da contatto sociale.
Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 17 aprile 2014 n. 8940 (Pres. Finocchiaro, rel. Frasca)
RESPONSABILITÀ MEDICA – ART. 3 LEGGE 189/2012 – ISTITUZIONE DI UNA RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE - ESCLUSIONE
L’articolo 3, comma 1, dell Legge n. 189 del 2012, là dove omette di precisare in che termini si
riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità
penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo
l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché’ in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo
significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in
ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla
qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La
norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da
contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792 del 2013).
L’ORIENTAMENTO TRADIZIONALE E CONSOLIDATO (SIN DAL 1999)
CASS. CIV., SEZ. UN., SENTENZA 11 GENNAIO 2008
L’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente ha natura
contrattuale ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale" (Cass. 22 dicembre 1999, n.
589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).
CASS. CIV., SEZ. III, SENTENZA 22 GENNAIO 1999
L'obbligazione del medico dipendente dal servizio sanitario per responsabilità professionale nei
confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale" ha natura
contrattuale. Consegue che relativamente a tale responsabilità i regimi della ripartizione dell'onere della
prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto
d'opera intellettuale professionale
2
IL CONTRASTO NEL TRIBUNALE DI MILANO
LA QUESTIONE: la responsabilità del medico ospedaliero è contrattuale o extracontrattuale?
Art. 2043 c.c.
Art. 1218 c.c.
Tribunale di Milano, sezione I civile
Sentenza 23 luglio 2014 n. 9693
(est. Patrizio Gattari)
Tribunale di Milano, sezione V civile
Sentenza 18 novembre 2014 n. 13574
(est. Andrea Borrelli)
Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della
legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore
conducono a ritenere che la responsabilità del
medico (e quella degli altri esercenti
professioni sanitarie) per condotte che non
costituiscono inadempimento di un contratto
d’opera (diverso dal contratto concluso con la
struttura) venga ricondotta dal legislatore del
2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art.
2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione
risarcitoria del medico possa scaturire solo in
presenza di tutti gli elementi costitutivi
dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha
l’onere
di
provare).
In ogni
caso
l’alleggerimento della responsabilità (anche)
civile del medico “ospedaliero”, che deriva
dall’applicazione del criterio di imputazione
della responsabilità risarcitoria indicato dalla
legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna
incidenza sulla distinta responsabilità della
struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa
parte del S.S.N. o una impresa privata non
convenzionata), che è comunque di tipo
“contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si
ritenga che l’obbligo di adempiere le
prestazioni per la struttura sanitaria derivi
dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si
preferisca far derivare tale obbligo dalla
conclusione del contratto atipico di “spedalità”
o “assistenza sanitaria” con la sola
accettazione del paziente presso la struttura).
Se dunque il paziente/danneggiato agisce in
giudizio nei confronti del solo medico con il
quale è venuto in “contatto” presso una
struttura sanitaria, senza allegare la
conclusione di un contratto con il convenuto,
3
La
responsabilità
del
medico
ospedaliero – anche dopo l’entrata in
vigore dell’art. 3 l. 189/12 – è da
qualificarsi come contrattuale. Il primo
comma dell'art. 3 del D.L. Balduzzi
come sostituito dalla legge di
conversione si riferisce, esplicitamente,
ai (soli) casi di colpa lieve dell'esercente
la professione sanitaria che si sia
attenuto a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica.
L'ossequio alla lettera della nuova
disposizione comporta anche adeguata
valorizzazione dell'incipit dell'inciso
immediatamente
successivo
alla
proposizione
che
esclude
la
responsabilità penale del sanitario in
detti casi , per effetto del quale deve
ritenersi che esso si riferisca soltanto appunto - a "tali casi" (di colpa lieve
del sanitario che abbia seguito linee
guida ecc.).
D'altra
parte,
la
presunzione di consapevolezza che si
vuole assista l'azione del Legislatore
impone di ritenere che esso, ove avesse
effettivamente inteso ricondurre una
volta per tutte la responsabilità del
medico ospedaliero (e figure affini)
sotto
il
(solo)
regime
della
responsabilità
extracontrattuale,
escludendo
l'applicabilità
della
disciplina di cui all'art. 1218 c.c. e così
cancellando lustri di elaborazione
giurisprudenziale, avrebbe certamente
impiegato proposizione univoca (come
per es. "la responsabilità dell'esercente
la responsabilità risarcitoria del medico va
affermata soltanto in presenza degli elementi
costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che
l’attore ha l’onere di provare; se nel caso
suddetto oltre al medico è convenuta
dall’attore anche la struttura sanitaria presso
la quale l’autore materiale del fatto illecito ha
operato, la disciplina delle responsabilità
andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il
medico e quella ex art. 1218 c.c. per la
struttura), con conseguente diverso atteggiarsi
dell’onere probatorio e diverso termine di
prescrizione del diritto al risarcimento; senza
trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto
dannoso” (seppur distinti i criteri di
imputazione della responsabilità), qualora le
domande risultino fondate nei confronti di
entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in
solido al risarcimento del danno a norma
dell’art. 2055 c.c.
Conforme
Trib. Varese, sez. I, 26 novembre 2012
Trib. Torino, 26 febbraio 2013
la professione sanitaria per l'attività
prestata
quale
dipendente
o
collaboratore di ospedali, cliniche e
ambulatori è disciplinata dall'art. 2043
del codice civile") anziché il breve
inciso in commento.
Conforme
Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013
Trib. Cremona, 1 ottobre 2013
Trib. Rovereto, 29 dicembre 2013
Trib. Brindisi, 18 luglio 2014
RICADUTE PRATICO-APPLICATIVE
La responsabilità del medico ospedaliero è
contrattuale
La responsabilità del medico ospedaliero è
extracontrattuale
Prescrizione: 10 anni
Prova: la colpa è presunta
Prescrizione: 5 anni
Prova: la colpa va provata dal paziente
4
La Legge Balduzzi ha cambiato le regole: la responsabilità del medico ospedaliero è
extracontrattuale.
Trib. Milano, sez. I civ., sentenza n. 9693 del 17 luglio 2014, depositata il 23 luglio 2014
(Est. Patrizio Gattari)
MEDICO DIPENDENTE E/O COLLABORATORE DELLA STRUTTURA SANITARIA - AUTORE
DELLA CONDOTTA ATTIVA O OMISSIVA PRODUTTIVA DEL DANNO SUBITO DAL PAZIENTE
COL QUALE TUTTAVIA NON HA CONCLUSO UN CONTRATTO DIVERSO ED ULTERIORE
RISPETTO A QUELLO CHE OBBLIGA LA STRUTTURA NELLA QUALE IL SANITARIO OPERA –
RESPONSABILITÀ – NATURA GIURIDICA – EXTRACONTRATTUALE – SUSSISTE (art. 3, L.
189/2012; art. 1218, 2043 cod. civ.)
Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore
conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti
professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto
d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del
2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione
risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi
dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare). In ogni caso
l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva
dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla
legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della
struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non
convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga
che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge
istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del
contratto atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria” con la sola accettazione del paziente
presso la struttura). Se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del
solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza
allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del
medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043
c.c. che l’attore ha l’onere di provare; se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta
dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha
operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il
medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi
dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza
trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di
imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di
entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma
dell’art. 2055 c.c.
Trib. Milano, sez. I civ., sentenza n. 9693 del 17 luglio 2014 (Est. Patrizio Gattari)
STRUTTURA SANITARIA –LESIONI CAUSATE AL PAZIENTE - RESPONSABILITÀ – NATURA
GIURIDICA – CONTRATTUALE – SUSSISTE – MEDICO CON CUI IL PAZIENTE ABBIA
STIPULATO UN CONTRATTO – RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE – SUSSISTE (art. 3, L.
189/2012; art. 1218, 2043 cod. civ.)
L’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile
della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il
paziente un contratto d’opera professionale (anche se nell’ambito della cd attività libero
professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la responsabilità della
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struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la
responsabilità del medico (contratto d’opera professionale) derivano da inadempimento e
sono disciplinate dall’art. 1218 c.c., ed è indifferente che il creditore/danneggiato agisca
per ottenere il risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di
entrambi. Il richiamo nella norma suddetta all’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. per
l’esercente la professione sanitaria che non risponde penalmente (per essersi attenuto alle
linee guida), ma la cui condotta evidenzia una colpa lieve, non ha nessun riflesso sulla
responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, che ha concluso un contratto atipico con
il paziente (o, se si preferisce, è comunque tenuta ex lege ad adempiere determinate
prestazioni perché inserita nel S.S.N.) ed è chiamata a rispondere ex art. 1218 c.c.
dell’inadempimento riferibile direttamente alla struttura anche quando derivi dall’operato
dei suoi dipendenti e/o degli ausiliari di cui si è avvalsa (art. 1228 c.c.).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Le domande oggetto di causa.
V ha convenuto in giudizio Policlinico di … s.p.a. e il dott. X esponendo: che nell’ottobre del 2008
era stato sottoposto ad intervento di tiroidectomia totale presso la struttura sanitaria convenuta; che
l’intervento chirurgico era stato eseguito dal convenuto dott. ; che nell’immediato post-operatorio
una grave dispnea da paralisi bilaterale delle corde vocali aveva reso necessario il ricovero in
terapia intensiva; che era stato dimesso il 29/10/2008; che nei giorni immediatamente successivi,
per il perdurare dei problemi respiratori, era stato ricoverato presso un altro nosocomio dove
l’8/11/2008 i sanitari avevano praticato una tracheotomia che aveva tuttavia solo in parte risolto i
danni alla salute subiti in occasione del primo intervento presso la struttura sanitaria convenuta; che
infatti i successivi controlli specialistici effettuati e i pareri medico-legali acquisiti avevano
confermato che la corda vocale destra era paralizzata e non più recuperabile, mentre la sinistra
poteva avere un leggero margine di miglioramento col tempo; che la paralisi bilaterale delle corde
vocali era in diretta correlazione con l’errato intervento eseguito dal convenuto dott. X presso il
Policlinico di ..; che i convenuti erano responsabili del danno alla salute e del danno morale subiti
dall’attore.
Su tali premesse, l’attore chiedeva la condanna solidale dei convenuti al risarcimento dei danni
derivati dall’illecito descritto e che indicava in complessivi euro 60.513,69 oltre rivalutazione
monetaria e interessi dalla data dell’illecito.
Si è costituita ritualmente la società Policlinico di .. s.p.a. esponendo: che in occasione
dell’intervento di tiroidectomia totale eseguito il 20/10/2008 erano sorte difficoltà a causa di un
grosso nodulo nella parte destra, sede di pregressi fatti flogistici, e degli esisti nella parte sinistra di
un precedente intervento di ernia cervicale; che gli operatori non erano riusciti a isolare la corda
vocale di destra, mentre quella sinistra era stata visualizzata e conservata; che dopo la fine
dell’intervento era insorta una crisi dispnoica che aveva reso necessaria l’intubazione del paziente e
il suo trasferimento in terapia intensiva, dove era rimasto fino al giorno successivo; che il paziente
era stato dimesso il 29/10/2008 e dopo due giorni i chirurghi e gli specialisti avevano consigliato il
ricovero presso altro nosocomio specializzato, dove era stato sottoposto a tracheotomia temporanea;
che l’intervento eseguito presso la struttura convenuta dal dott. X non era di routine e che le lesioni
lamentate dal paziente costituivano complicanze prevedibili di tale tipo di intervento e si erano
verificate nonostante i sanitari avessero fatto quanto era loro esigibile per prevenirle; che trattandosi
di una complicanza prevedibile indicata nel modulo di consenso sottoscritto dal paziente e non
evitabile nel caso concreto dai sanitari,non poteva essere ravvisata una responsabilità risarcitoria;
che in ogni caso la complessità e la difficoltà dell’intervento avrebbero giustificato la limitazione
della responsabilità ex art. 2236 c.c.; che le conseguenze dannose subite dall’attore non potevano
6
essere costituite da quelle dedotte e che l’entità del risarcimento preteso era ingiustificata; che in
ogni caso qualora fosse stata accertata una responsabilità solidale della struttura sanitaria convenuta,
essa aveva diritto ad essere manlevata dal medico convenuto, unico eventuale responsabile del
danno de quo; che infatti nel contratto di collaborazione stipulato con il Policlinico di . s.p.a. il
medico si era espressamente obbligato a tenere indenne la struttura sanitaria per i danni conseguenti
alla attività medico-chirurgica svolta presso di essa. Pertanto il convenuto Policlinico di … s.p.a.
chiedeva il rigetto delle domande dell’attore e, in subordine, qualora esse fossero risultate in tutto o
in parte fondate chiedeva la condanna dell’altro convenuto X a manlevare e tenere indenne la
struttura sanitaria.
Si è altresì costituito ritualmente l’altro convenuto X il quale, in via preliminare, eccepiva
l’improcedibilità dell’azione promossa nei suoi confronti per mancata indicazione dei codici fiscali
dei convenuti, la nullità della procura alle liti rilasciata dall’attore senza indicazione del consenso
alla mediazione e dichiarava l’intenzione di chiamare in causa il proprio assicuratore (senza tuttavia
chiedere il differimento dell’udienza ex artt. 167 e 269 c.p.c.); nel merito il professionista
convenuto chiedeva il rigetto delle domande avanzate nei suoi confronti e, in subordine, la
condanna del proprio assicuratore a tenerlo indenne dalla soccombenza. Nella comparsa costitutiva
il medico allegava in particolare che l’intervento chirurgico eseguito era stato di particolare
complessità,anche per le condizioni soggettive del paziente già evidenziate nella difesa della
struttura sanitaria, e che non vi erano elementi per poter ravvisare una sua responsabilità per i danni
dedotti genericamente dall’attore.
L’irrituale istanza di chiamata del terzo avanzata dal medico veniva respinta e tale parte provvedeva
autonomamente a citare in giudizio davanti al medesimo tribunale il proprio assicuratore,al quale
chiedeva di tenerlo indenne in caso di soccombenza nei confronti delle domande avanzate nei suoi
confronti da V. Si è costituita in quel giudizio la convenuta .. Assicurazioni s.p.a. senza sollevare
eccezioni alla validità e all’operatività della polizza di responsabilità professionale stipulata con il
dott. X e dicendosi pronta a tenere indenne il proprio assicurato in caso di soccombenza nella causa
introdotta da V.
Con ordinanza del 14/12/2011 le due cause pendenti davanti al sottoscritto giudice istruttore e
chiamate alla stessa udienza sono state riunite ex art. 274 c.p.c.
La domanda riconvenzionale di manleva avanzata dalla convenuta struttura sanitaria nei confronti
dell’altro convenuto è contenuta nella comparsa costitutiva tempestivamente depositata. L’irrituale
istanza ex art. 269 c.p.c. di autorizzazione alla chiamata in causa e di differimento dell’udienza
contenuta nella comparsa di risposta della struttura sanitaria è stata respinta, poiché la domanda di
manleva non era rivolta nei confronti di un terzo bensì di un soggetto già parte (convenuto) del
processo. Con la costituzione in giudizio del convenuto X si è pienamente instaurato il
contraddittorio fra le parti anche in merito alla domanda di manleva, senza bisogno di dover
disporre la notifica della comparsa (necessaria ex art. 292 c.p.c. solo qualora il destinatario della
domanda resti contumace).
L’istruttoria delle due cause riunite si è articolata nell’acquisizione dei documenti prodotti dalle
parti e nell’espletamento di CTU, all’esito della quale il dott. .. (specialista in medicina legale,
otorinolaringoiatria, audiologia e foniatria)ha depositato il 28/12/2012 una relazione scritta, con
allegate le osservazioni critiche delle parti. L’istanza di prova orale avanzata dal convenuto X è
stata respinta per le ragioni esplicitate nell’ordinanza del 22/5/2013 alla quale si rinvia.
All’udienza del 29/1/2014 le parti hanno precisato le conclusioni sopra richiamate e, scaduti i
termini ordinari concessi per il deposito degli scritti conclusivi, la causa è entrata in decisione.
1.1 Le eccezioni processuali del convenuto X
Sia l’eccezione di “improcedibilità dell’atto di citazione” sia quella di “nullità della procura” alle liti
sollevate dal convenuto X nella comparsa di costituzione e risposta (e reiterate in sede di
precisazione delle conclusioni) sono infondate.
7
Per quanto attiene all’eccezione di improcedibilità per la mancata indicazione in citazione dei codici
fiscali dei convenuti – richiesta dall’art. 163 n. 2 c.p.c. (come modificato dal D.L. n. 193 del 2009
convertito con modificazioni nella L. n. 24 del 2010) - tale lacuna dell’atto introduttivo non incide
affatto sulla procedibilità dell’azione. La mancata indicazione dei codici fiscali avrebbe semmai
potuto astrattamente comportare la nullità della citazione ex art. 164 co.1 c.p.c.(sanabile mediante la
rinnovazione dell’atto), che tuttavia risulta sanata nel caso concreto con la costituzione di entrambi i
convenuti (art. 164 co. 2 c.p.c.) i quali, nelle rispettive comparse di risposta, hanno indicato i propri
codici fiscali (come previsto dall’art. 167 co. 1 c.p.c. novellato dalla stessa L.24/2010 citata).
Per quanto riguarda l’eccezione di nullità della procura alle liti per l’asserita mancata indicazione
del consenso informato alla mediazione, contrariamente a quanto sembra ritenere la difesa
convenuta l’assenza dell’informativa al cliente prevista dal D.L.vo n.28 del 2010 non comporta
nullità della procura rilasciata al difensore, bensì eventualmente – ove l’informativa non sia stata
fornita al cliente – l’annullabilità del cd contratto di patrocinio concluso tra il difensore e il cliente e
che solo quest’ultimo può far valere (art. 1441 c.c.); ne deriva che la violazione degli obblighi
informativi previsti dal citato D.Lvo non può essere utilmente invocata dalla controparte
processuale.
2. L’articolato sistema della responsabilità civile in ambito sanitario.
Prima di esaminare il merito delle domande, è opportuno reinquadrare e rimettere a fuoco il sistema
della responsabilità civile da “malpractice medica” a seguito della cd legge Balduzzi (L. 189/2012),
che è stata oggetto di diverse opzioni interpretative e di applicazioni giurisprudenziali non sempre
convincenti.
All’esito di una non breve riflessione favorita dai vari contributi anche giurisprudenziali noti, ritiene
il Tribunale adito che la citata legge del 2012 induca a rivedere il “diritto vivente” secondo cui sia la
responsabilità civile della struttura sanitaria sia quella medico andrebbero in ogni caso ricondotte
nell’alveo della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.
2.1 La responsabilità della struttura sanitaria.
Secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite della
Cassazione (sent. 1/7/2002 n. 9556 e sent. 11/1/2008 n. 577), il rapporto che lega la struttura
sanitaria (pubblica o privata) al paziente ha fonte in un contratto obbligatorio atipico (cd contratto di
“spedalità” o di “assistenza sanitaria”) che si perfeziona anche sulla base di fatti concludenti – con
la sola accettazione del malato presso la struttura (Cass. 13/4/2007 n. 8826) - e che ha ad oggetto
l’obbligo della struttura di adempiere sia prestazioni principali di carattere strettamente sanitario sia
prestazioni secondarie ed accessorie (fra cui prestare assistenza al malato, fornire vitto e alloggio in
caso di ricovero ecc.).
Ne deriva che la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria, per l’inadempimento e/o per
l’inesatto adempimento delle prestazioni dovute in base al contratto di spedalità, va inquadrata nella
responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. e nessun rilievo a tal fine assume il fatto che la
struttura (sia essa un ente pubblico o un soggetto di diritto privato) per adempiere le sue prestazioni
si avvalga dell’opera di suoi dipendenti o di suoi collaboratori esterni – esercenti professioni
sanitarie e personale ausiliario – e che la condotta dannosa sia materialmente tenuta da uno di questi
soggetti. Infatti, a norma dell’art. 1228 c.c., il debitore che per adempiere si avvale dell’opera di
terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.
Inoltre, a fronte dell’inadempimento dedotto dall’attore - come causa del danno di cui chiede il
risarcimento – è onere del debitore convenuto (struttura sanitaria) provare di aver esattamente
adempiuto le sue prestazioni e che il danno lamentato da controparte non gli è imputabile. Al
riguardo la Suprema Corte ha precisato che “in tema di responsabilità contrattuale della struttura
sanitaria (…), ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a
provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della
patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno
8
lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato
ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante” (Cass. Sez. Un. 11/1/2008 n.
577).
La responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria come responsabilità da inadempimento ex art.
1218 c.c. non muterebbe natura qualora si volesse invece ritenere che per le strutture (pubbliche o
private convenzionate) inserite nel S.S.N. l’obbligo di adempiere le prestazioni di cura e di
assistenza derivi direttamente dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario (L. n. 833 del 1978), come
pure da taluni sostenuto. Anche secondo tale impostazione, infatti, la responsabilità andrebbe
comunque ricondotta alla disciplina dell’art. 1218 c.c., al pari di ogni responsabilità che scaturisce
dall’inadempimento di obbligazioni derivanti da “altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità
dell’ordinamento” (art. 1173 c.c.).
In ogni caso, la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è dunque responsabile ai sensi dell’art.
1218 c.c. per il risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento (o dall’inesatto adempimento) di
una delle prestazioni a cui è direttamente obbligata.
2.2 La responsabilità del medico.
In merito alla responsabilità del medico dipendente e/o collaboratore della struttura sanitaria autore della condotta attiva o omissiva produttiva del danno subito dal paziente col quale tuttavia
non ha concluso un contratto diverso ed ulteriore rispetto a quello che obbliga la struttura nella
quale il sanitario opera - a partire dal 1999 la giurisprudenza pressoché unanime ha ritenuto che
anch’essa andasse inquadrata nella responsabilità ex art. 1218 c.c. in base alla nota teoria del
“contatto sociale” (Cass. 22/1/1999 n. 589). In particolare, secondo tale consolidato indirizzo
giurisprudenziale – ribadito anche nel 2008 dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. 577/2008) “in tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, l'ente ospedaliero risponde a titolo
contrattuale per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione
medica da parte di un medico proprio dipendente ed anche l'obbligazione di quest'ultimo nei
confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura
contrattuale, atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a
garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del
contatto stesso (…)” (in tal senso, fra le altre, Cass. 19/04/2006 n. 9085).
La ricostruzione della responsabilità del medico in termini di responsabilità “contrattuale” ex art.
1218 c.c. anche in assenza di un contratto concluso dal professionista con il paziente implica, come
logico corollario, l’applicazione della relativa disciplina in tema di riparto dell’onere della prova fra
le parti, di termine di prescrizione decennale ecc.
Tale inquadramento della responsabilità medica e il conseguente regime applicabile, unito
all’evoluzione che nel corso degli anni si è avuta in tema di danni non patrimoniali risarcibili e
all’accresciuta entità dei risarcimenti liquidati - in base alle tabelle di liquidazione equitativa del
danno alla persona elaborate dalla giurisprudenza di merito, in particolare a quelle del Tribunale di
Milano ritenute applicabili dalla Cassazione a tutto il territorio nazionale in mancanza di un criterio
di liquidazione previsto dalla legge - ha indubitabilmente comportato un aumento dei casi in cui è
stato possibile ravvisare una responsabilità civile del medico ospedaliero (chiamato direttamente a
risarcire il danno sulla base del solo “contatto” con il paziente se non riesce a provare di essere
esente da responsabilità ex art. 1218 c.c.), una maggiore esposizione di tale categoria professionale
al rischio di dover risarcire danni anche ingenti (con proporzionale aumento dei premi assicurativi)
ed ha involontariamente finito per contribuire all’esplosione del fenomeno della cd “medicina
difensiva” come reazione al proliferare delle azioni di responsabilità promosse contro i medici.
2.3 L’impatto della legge n. 189 del 2012 (cd “legge Balduzzi”) sul sistema della responsabilità
civile in ambito sanitario.
Su tale contesto normativo e giurisprudenziale è intervenuta alla fine del 2012 la “legge Balduzzi” L. 8 novembre 2012 n. 189 che ha convertito con modificazioni il D.L. 13 settembre 2012 n. 158 –
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la quale ha espressamente inteso contenere la spesa pubblica e arginare il fenomeno della “medicina
difensiva”, sia attraverso una restrizione delle ipotesi di responsabilità medica (spesso alla base
delle scelte diagnostiche e terapeutiche “difensive” che hanno un’evidente ricaduta negativa sulle
finanze pubbliche) sia attraverso una limitazione dell’entità del danno biologico risarcibile al
danneggiato in caso di responsabilità dell’esercente una professione sanitaria.
L’art. 3 della legge (“Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie”) prevede
al comma 1 che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si
attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde
penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del
codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente
conto della condotta di cui al primo periodo”.
Occorre dunque valutare l’impatto dell’art. 3 della L. n. 189 del 2012 (“legge Balduzzi”) sul
delineato sistema della responsabilità in ambito sanitario e sulla responsabilità del medico in
particolare.
Il dibattito che si è sviluppato in dottrina dopo l’entrata in vigore della legge si è incentrato
principalmente sul secondo inciso della norma (“In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui
all’articolo 2043 del codice civile”) ed è caratterizzato da opinioni contrapposte, rispecchiate nelle
pronunce giurisprudenziali di merito note.
Il richiamo esplicito alla disciplina della responsabilità risarcitoria da fatto illecito (art. 2043) è stato
visto da alcuni come una sorta di “atecnico” rinvio alla responsabilità risarcitoria dell’esercente la
professione sanitaria (in tal senso, fra gli altri, Tribunale di Arezzo 14/2/2013 e Tribunale di
Cremona 19/9/2013), mentre altri (Tribunale di Varese 29/12/2012) hanno inteso da subito vedere
nella previsione in esame una indicazione legislativa (di portata indirettamente/implicitamente
interpretativa) volta a chiarire che, in assenza di un contratto concluso con il paziente, la
responsabilità del medico non andrebbe ricondotta nell’alveo della responsabilità da
inadempimento/inesatto adempimento (comunemente detta «contrattuale») bensì in quello della
responsabilità da fatto illecito (comunemente detta «extracontrattuale»).
Gli estremi delle contrapposte opinioni emerse nella giurisprudenza di merito paiono ben
rappresentati da una pronuncia del Tribunale di Torino del 26/2/2013 e da quella del Tribunale di
Rovereto del 29/12/2013.
Secondo il giudice piemontese il legislatore del 2012 avrebbe dettato una norma che smentisce
l’intera elaborazione giurisprudenziale precedente e l’art. 2043 sarebbe ora la norma a cui
ricondurre sia la responsabilità del medico pubblico dipendente sia quella della struttura pubblica
nella quale opera (non essendo ipotizzabile secondo quel giudice un diverso regime di
responsabilità del medico e della struttura), per cui l’art. 3 della legge Balduzzi cambierebbe il
“diritto vivente” operando una scelta di campo del tutto chiara e congruente con la finalità di
contenimento degli oneri risarcitori della sanità pubblica e “getta alle ortiche” la utilizzabilità in
concreto della teorica del contatto sociale.
Il giudice trentino ha ritenuto invece che nessuna portata innovatrice deriverebbe dalla legge
Balduzzi in merito alla responsabilità civile del medico in quanto il richiamo all’art. 2043 c.c.
contenuto nell’art. 3 andrebbe riferito solo al giudice penale per il caso di esercizio dell’azione
civile in sede penale, mentre la responsabilità civile del medico andrebbe comunque ricondotta al
disposto dell’art. 1218 c.c. in caso di inadempimento e/o inesatto adempimento dell’obbligazione
“legale” gravante anche sul singolo operatore sanitario e che troverebbe fonte nella legge istitutiva
del S.S.N. (L. n. 833 del 1978).
Anche la Suprema Corte si è pronunciata sulla possibile portata innovatrice della legge Balduzzi nel
regime della responsabilità civile medica, sinora escludendola.
In una prima decisione del febbraio 2013 la Cassazione (in un “obiter”) ha affermato che “(…) la
materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate (…) anche per la c.d.
responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale”, richiamando
quale “punto fermo, ai fini della nomofilachia, gli arresti delle sentenze delle Sezioni Unite nel
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novembre 2008 (…)” (Cass. 19/2/2013 n. 4030). In tale sentenza non sono fornite indicazioni
interpretative del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 L.189/2012, che invece si rinvengono nella
successiva pronuncia della Cassazione del 17/4/2014 n. 8940 così massimata: “l'art. 3, comma 1,
del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n.
189, nel prevedere che "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria
attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde
penalmente per colpa lieve", fermo restando, in tali casi, "l'obbligo di cui all'articolo 2043 del
codice civile", non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della
responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende
solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve”.
Non sono condivisibili le concrete applicazioni dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi fatte in
alcune delle pronunce di merito sopra richiamate, mentre l’interpretazione della norma operata dalla
Cassazione nell’ordinanza n. 8940 del 2014 risulta solo in parte convincente.
Come si è già avuto modo di argomentare più diffusamente, il tenore letterale del comma 1 dell'art.
3 L.189/2012 e le esplicite finalità perseguite dal legislatore del 2012 - di contenimento della spesa
pubblica e di porre rimedio al cd fenomeno della medicina difensiva anche attraverso una
limitazione della responsabilità dei medici - non sembrano legittimare semplicisticamente
un'interpretazione della norma nel senso che il richiamo all'art. 2043 c.c. sia atecnico o frutto di una
svista.
Prima di prendere posizione sulle possibili ricadute che la legge del 2012 pare avere sulla
responsabilità del medico, è tuttavia opportuno far chiarezza sul suo ambito applicativo e sgombrare
il campo da alcune riferite letture della nuova previsione normativa che non convincono affatto.
Innanzitutto, nessuna portata innovativa può avere l’art. 3 della legge 189/2012 - che si riferisce
espressamente alla responsabilità dell’esercente una professione sanitaria autore della condotta
illecita - sulla natura “contrattuale” della responsabilità civile (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) della
struttura sanitaria (pubblica o privata) nella controversia risarcitoria promossa nei suoi confronti dal
danneggiato.
Sia che si ritenga ravvisabile un contratto atipico fra la struttura sanitaria ed il paziente, sia che si
preferisca individuare nella legge la fonte dell’obbligo per la struttura (pubblica o convenzionata)
inserita nel S.S.N. di erogare determinate prestazioni in favore del paziente, in ogni caso come detto
la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è responsabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. per il
risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento (o dall’inesatto adempimento) di una delle
prestazioni a cui è direttamente obbligata.
In secondo luogo, non può essere condivisa l’opinione – fatta propria da una minoritaria
giurisprudenza di merito - che in sostanza finisce per ritenere l’intero articolo 3 comma 1 una legge
penale o comunque una legge che fa eccezione a regole generali e ne fa discendere che, ai sensi
dell’art. 14 delle preleggi, troverebbe applicazione nei soli casi ivi previsti.
L’art. 3 della legge Balduzzi oltre ad introdurre indubbie restrizioni alla responsabilità penale prevedendo una parziale abolitio criminis degli artt. 589 e 590 (Cass. pen. 29/1/2013 n. 16237) disciplina infatti vari aspetti della “responsabilità professionale dell’esercente le professioni
sanitarie” compresa la responsabilità risarcitoria, di cui si occupa espressamente non solo nel
comma 1, con il richiamo all’obbligo di cui all’art. 2043 e con la previsione di tener conto nella
determinazione del risarcimento del danno del fatto che il responsabile si è attenuto alle linee guida,
ma anche nel comma 3, che introduce un criterio legale di liquidazione del danno biologico
mediante il rinvio alle tabelle previste negli artt. 138 e 139 del D.Lvo n. 209/2005 (cod. ass.), e, in
qualche modo, nel comma 5, ove è previsto l’aggiornamento periodico e l’inserimento di specialisti
nell’albo dei CTU. Peraltro, oltre che non rispondente ai comuni criteri ermeneutici,
l’interpretazione secondo cui l’art. 3 comma 1 sarebbe “legge penale” o “eccezionale” destinata in
quanto tale a disciplinare ex art. 14 delle preleggi solo i casi dalla stessa espressamente previsti –
esonero dalla responsabilità penale del medico in colpa lieve che si è attenuto alle linee guida e
responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. dello stesso professionista solo in caso di
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proscioglimento/assoluzione in sede penale – porrebbe forti dubbi di legittimità costituzionale, per
l’ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento e diversità di disciplina che verrebbero a
crearsi a seconda che una determinata condotta illecita del medico (causativa di danni risarcibili)
venga preventivamente vagliata dal giudice penale oppure no.
Né può condividersi l’affermazione secondo cui l’obbligazione del medico avrebbe fonte “legale”,
in quanto scaturirebbe direttamente dalla legge istitutiva del S.S.N. (l. 833/1978), con conseguente
applicabilità del regime giuridico della responsabilità ex art. 1218 c.c. per il risarcimento dei danni
derivanti da inadempimento.
L’opinione largamente maggioritaria individua, come detto, nel contratto di “spedalità” o di
“assistenza sanitaria” (non nella legge) la fonte del rapporto obbligatorio fra la struttura sanitaria e il
paziente e, ove pure non si ritenga di aderire a tale conclusione, al più nella legge istitutiva del
S.S.N. potrebbe eventualmente individuarsi la fonte delle obbligazioni gravanti sulle strutture
(pubbliche e private) inserite nel variegato servizio sanitario ma non certo di obbligazioni verso il
paziente direttamente gravanti sul singolo medico, inserito a vario titolo (come dipendente o
collaboratore esterno) in complesse strutture – che autonomamente organizzano le risorse ed i
mezzi di cui dispongono – presso le quali viene di solito in contatto con gli utenti solo perché ciò è
insito nell’espletamento delle sue mansioni lavorative (al pari di quanto avviene ad altri dipendenti
o collaboratori di pubbliche amministrazioni o di soggetti privati che erogano servizi pubblici).
Tant’è che per circa vent’anni dopo l’istituzione del S.S.N. la giurisprudenza (sino alla sentenza
della Cassazione n. 589 del 1999) ha continuato a qualificare extracontrattuale la responsabilità del
medico ospedaliero per i danni arrecati ai pazienti (vd Cass.13/3/1998 n. 2750 e Cass. 24/3/1979 n.
1716), senza mai ravvisare nella legge 833/1978 la fonte di un’obbligazione “legale” ex art. 1173
c.c. in capo al singolo medico che ha eseguito la sua prestazione in virtù del rapporto organico con
la struttura sanitaria.
Come pure va sgombrato il campo dall’equivoco che l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi possa
disciplinare ogni ipotesi di responsabilità del medico (e di ogni altro esercente la professione
sanitaria), come sembra affermare il Tribunale di Torino nella sentenza sopra richiamata.
Ferma la responsabilità (distinta ed autonoma) ex art. 1218 c.c. della struttura sanitaria, qualora il
danneggiato intenda agire in giudizio (anche o soltanto) contro il medico, occorre infatti
necessariamente distinguere l’ipotesi in cui il paziente ha concluso un contratto con il professionista
da quella in cui tali parti non hanno concluso nessun contratto. Non pare dubitabile che il
danneggiato può utilmente continuare ad invocare la responsabilità da inadempimento ex art. 1218
c.c. del medico qualora provi che le parti hanno concluso un contratto d’opera professionale, senza
che assuma alcun rilievo il fatto che la prestazione medico-chirurgica sia stata eventualmente resa
(in regime ambulatoriale o di ricovero) presso una struttura sanitaria (pubblica o privata). In tal caso
il medico è legato al paziente da un rapporto contrattuale (diverso sia dal rapporto che lega il
sanitario alla struttura nella quale opera, sia dal rapporto che intercorre fra il paziente e la struttura)
e pertanto la sua responsabilità risarcitoria ben può (e deve) essere ricondotta alla responsabilità da
inadempimento ex art. 1218 c.c.
In presenza di un contratto fra paziente e professionista, nessun riflesso quindi può avere sulla
qualificazione della responsabilità risarcitoria del medico la previsione contenuta nel comma 1
dell’art. 3 della legge Balduzzi, in particolare il richiamo all’art. 2043 c.c. Va in tal senso
pienamente condivisa l’affermazione della Cassazione secondo cui è escluso che la legge 189/2012
abbia inteso esprimere un’opzione a favore della qualificazione della responsabilità medica
“necessariamente” come responsabilità extracontrattuale (Cass. n. 8940 del 2014).
Non può invece essere condivisa l’interpretazione complessiva del secondo inciso dell’art. 3 comma
1 della legge Balduzzi che emerge dalla motivazione (non anche dalla massima sopra richiamata)
dell’ordinanza della Cassazione n.8940 del 2014 – laddove la Corte conclude che a tale norma non
andrebbe attribuito alcun rilievo che possa indurre a superare l’orientamento giurisprudenziale
“tradizionale” in tema di responsabilità medica – la quale pare inserirsi nel solco delle letture che
sostanzialmente tendono a vanificare la portata della norma.
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Nel motivare la sua decisione la Cassazione afferma che l’art. 3 comma 1 L.189/2012 “(…) poiché
omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel
suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo,
quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c., dev’essere interpretata,
conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è
soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità
extracontrattuale civilistica”. La Corte smentisce la bontà della ricostruzione della disciplina della
responsabilità medica fatta dal Tribunale di Torino (nella sentenza sopra citata) ed invocata dalla
difesa ricorrente e precisa (in modo del tutto condivisibile) che “deve, viceversa, escludersi che con
detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un’opzione a favore di una qualificazione della
responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale (…)“, per poi
affermare in conclusione che - sulla base della suddetta interpretazione del secondo inciso dell’art. 3
comma 1 - “deve, pertanto, ribadirsi che alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca il
superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità medica come responsabilità da
contatto sociale e sulle sue implicazioni (…)” (vd Cass. 17/4/2014 n. 8940 in motivazione).
Anche secondo la Cassazione del 2014, in sostanza la previsione normativa in questione
conterrebbe un evidente errore e risulterebbe priva di qualsiasi rilievo. Se infatti la responsabilità
civile dell’esercente la professione sanitaria per i danni arrecati a terzi nello svolgimento della sua
attività costituisce comunque pur sempre una responsabilità da “contatto”/inadempimento ex art.
1218 c.c. anche in assenza di un contratto fra il sanitario ed il paziente - secondo l’orientamento
consolidato in tema di responsabilità medica che la Corte si affretta a ribadire – risulterebbe errato
oltre che superfluo il richiamo all’obbligo risarcitorio di cui all’art. 2043 c.c., che non verrebbe in
rilievo neppure “in tali casi”. Stando alle suddette conclusioni cui perviene la Cassazione, si
dovrebbe ritenere che il distratto legislatore del 2012 avrebbe inserito (inutilmente) il richiamo
all’art. 2043 all’interno di una norma (art. 3 comma 1 L.189/2012) che disciplina espressamente
anche la responsabilità civile del medico, “soltanto” per la preoccupazione di escludere (in ossequio
al principio “in lege aquilia et levissima culpa venit”) che la colpa lieve potesse condurre - nei casi
in cui vi è esonero dalla responsabilità penale - a far ritenere esclusa la responsabilità risarcitoria
extracontrattuale, evidentemente dimenticando (o comunque senza tener conto) che in base al
“diritto vivente” la responsabilità del medico viene comunemente ricondotta alla responsabilità da
“contatto”/inadempimento ex art. 1218 c.c. e non a quella extracontrattuale ex art. 2043 c.c. Inoltre,
risulterebbe irragionevole la stessa preoccupazione del legislatore - nella quale la Corte ravvisa la
ragione unica del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi – di escludere
l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità aquiliana/extracontrattuale (“in lege
aquilia et levissima culpa venit”) all’interno di una disciplina sulla responsabilità civile
dell’esercente la professione sanitaria che continuerebbe ad essere “contrattuale” e sulla quale
(secondo la Corte) la legge Balduzzi non avrebbe nessun impatto (“alla norma nessun rilievo può
attribuirsi che induca il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità medica
come responsabilità da contatto sociale e sulle sue implicazioni” secondo quanto afferma in
motivazione Cass. 8940/2014).
L'interprete non pare autorizzato a ritenere che il legislatore abbia ignorato il senso del richiamo alla
norma cardine della responsabilità da fatto illecito, nel momento in cui si è premurato di precisare
che, anche qualora l'esercente una professione sanitaria “non risponde penalmente per colpa lieve”
(del delitto di lesioni colpose o di omicidio colposo) essendosi attenuto alle linee guida e alle buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica, “in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui
all'art. 2043 del codice civile".
Nell’interpretare la norma vigente non sembra del tutto trascurabile che inizialmente il comma 1
dell’art. 3 del decreto legge n. 158 del 2012 [«fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del
codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie
il giudice, ai sensi dell’art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel
caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica
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nazionale e internazionale»] non conteneva nessuna previsione destinata ad incidere sulla
responsabilità penale dell’esercente una professione sanitaria e nessun richiamo alla responsabilità
da fatto illecito, ma si limitava a prevedere che, ferma la limitazione della responsabilità civile alle
ipotesi di dolo o colpa grave qualora la prestazione avesse implicato la soluzione di problemi tecnici
di speciale difficoltà (ex art. 2236 c.c.), nell’accertamento dell’adempimento dell’obbligo di
diligenza professionale (ex art. 1176 comma 2 c.c.) il giudice doveva tener conto in particolare
dell’osservanza nel caso concreto da parte del sanitario delle linee guida e delle buone pratiche
accreditate.
In sede di conversione del decreto il legislatore (per meglio perseguire gli obiettivi prefissati) ha
radicalmente mutato il comma 1 dell’art. 3, prevedendo che “non risponde penalmente per colpa
lieve” l’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche
accreditate, inserendo il richiamo all’obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c. (che grava comunque
sul soggetto esente da responsabilità penale) ed imponendo al giudice di tener conto “anche nella
determinazione del risarcimento del danno” dell’avvenuto rispetto delle linee guida da parte del
sanitario/responsabile. Le significative modifiche introdotte in sede di conversione del decreto legge
(tali da indurre alcuni a dubitare del rispetto dell’art. 77 Cost.) contribuiscono a far escludere che
l’art. 3 comma 1 della legge vigente sia frutto di una “svista” e che l’intenzione del legislatore del
2012 possa essere limitata alla preoccupazione indicata dalla Cassazione nella pronuncia del 2014
più volte richiamata. Qualora l’intenzione del legislatore fosse stata soltanto quella indicata dalla
Corte e la previsione normativa in esame fosse da interpretare nel senso che non avrebbe inteso
scalfire in nessun modo il consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità
medica come responsabilità ex art. 1218 c.c. da “contatto sociale”(con tutte le sue implicazioni),
non vi sarebbe stata nessuna apprezzabile ragione per inserire in sede di conversione il richiamo
all’art. 2043 ed è ragionevole ritenere che nell’art. 3 comma 1 sarebbe rimasto immutato il richiamo
alle diverse norme (art. 1176 e art. 2236) contenuto nel decreto legge.
Sia il richiamo letterale alla norma cardine che prevede nell’ordinamento il “risarcimento per fatto
illecito” (art. 2043 c.c.) e “l’obbligo” in essa previsto (in capo a colui che per dolo o colpa ha
commesso il fatto generatore di un danno ingiusto), sia l’inequivoca volontà della legge Balduzzi –
resa manifesta, come detto, oltre che dal comma 1 anche dal comma 3 del medesimo art. 3, laddove
vengono richiamati gli artt. 138 e 139 del D.Lvo 209/2005 per la liquidazione del danno biologico
– di restringere e di limitare la responsabilità (anche) risarcitoria derivante dall’esercizio delle
professioni sanitarie, per contenere la spesa sanitaria e porre rimedio al cd fenomeno della medicina
difensiva, inducono ad interpretare la norma in esame nel senso che il richiamo alla responsabilità
da fatto illecito nell’art. 3 comma 1 impone di rivedere il criterio di imputazione della responsabilità
risarcitoria del medico (dipendente o collaboratore di una struttura sanitaria) per i danni provocati in
assenza di un contratto concluso dal professionista con il paziente.
E’ senz’altro vero che nell’art. 3 comma 1 della L.189/2012 non può rinvenirsi un’opzione a favore
di una qualificazione della responsabilità medica “necessariamente come responsabilità
extracontrattuale” (per richiamare le parole della Cassazione), ma compito dell’interprete non è
quello di svuotare di significato la previsione normativa, bensì di attribuire alla norma il senso che
può avere in base al suo tenore letterale e all’intenzione del legislatore (art. 12 delle preleggi).
Nell’art.3 comma 1 della legge Balduzzi il Parlamento Italiano, in sede di conversione del decreto e
per perseguire le suddette finalità, ha voluto indubbiamente limitare la responsabilità degli esercenti
una professione sanitaria ed alleggerire la loro posizione processuale anche attraverso il richiamo
all’art. 2043 c.c. - escludendo la responsabilità penale nei casi di colpa lieve riconducibili al primo
periodo, ma facendo salva anche in tali casi la responsabilità civile (da inadempimento nei casi in
cui preesiste un contratto concluso dal medico con il paziente e da fatto illecito negli altri casi, come
si dirà meglio in seguito) - mentre nel comma 3 del medesimo articolo ha poi introdotto un criterio
limitativo dell’entità del danno biologico risarcibile in tali casi al danneggiato (mediante il richiamo
agli artt. 138 e 139 cod.ass.).
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Sembra dunque corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire
all’interprete una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al
professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico
(e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto
illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell’onere della prova,
sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno.
Così interpretato, l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi porta dunque inevitabilmente a dover
rivedere l’orientamento giurisprudenziale pressoché unanime dal 1999 che riconduce in ogni caso la
responsabilità del medico all’art. 1218 c.c., anche in mancanza di un contratto concluso dal
professionista con il paziente.
Peraltro, si è segnalato che il superamento della teoria del “contatto sociale” (e della relativa
disciplina giuridica che ne consegue in termini di responsabilità risarcitoria) in relazione al medico
inserito in una struttura sanitaria e che non ha concluso nessun contratto con il paziente, non sembra
comportare un’apprezzabile compressione delle possibilità per il danneggiato di ottenere il
risarcimento dei danni derivati dalla lesione di un diritto fondamentale della persona (qual è quello
alla salute): in considerazione sia del diverso regime giuridico (art. 1218 c.c.) applicabile alla
responsabilità della struttura presso cui il medico opera, sia della prevedibile maggiore solvibilità
della stessa, il danneggiato sarà infatti ragionevolmente portato a rivolgere in primo luogo la pretesa
risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria.
Ricondurre in tali casi la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità da fatto illecito ex
art. 2043 c.c. dovrebbe altresì favorire la cd alleanza terapeutica fra medico e paziente, senza che
(più o meno inconsciamente) venga inquinata da un sottinteso e strisciante “obbligo di risultato” al
quale il medico non è normativamente tenuto (ma che, di fatto, la responsabilità ex art. 1218 c.c. da
“contatto sociale” finisce a volte per attribuirgli, ponendo a suo carico l’obbligazione di risarcire il
danno qualora non sia in grado di provare di avere ben adempiuto e che il danno derivi da una causa
a lui non imputabile) e che è spesso alla base di scelte terapeutiche “difensive”, pregiudizievoli per
la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato.
Né, come detto, la teoria del “contatto sociale” applicabile al medico (non legato al paziente da
alcun rapporto contrattuale) sembra discendere come doveroso precipitato dalla legge 833/1978, che
può al più costituire la fonte di un obbligo per le strutture sanitarie (pubbliche o private
convenzionate) di erogare le prestazioni terapeutiche e assistenziali ai soggetti che si trovano nelle
condizioni di aver diritto di usufruire del servizio pubblico. Che tali prestazioni vengano poi
necessariamente rese attraverso il personale dipendente o comunque a vario titolo inserito nella
struttura del S.S.N. non sembra affatto implicare (come inevitabile corollario) di dover ravvisare in
capo a ciascun operatore sanitario una distinta ed autonoma obbligazione avente fonte legale e,
quindi, di dover necessariamente ritenere responsabile ex art. 1218 c.c. l’esercente la professione
sanitaria per i danni che derivano dal suo inadempimento.
La legge 833/1978 non consente di ravvisare un’obbligazione legale (ex art. 1173 c.c.) in capo al
singolo medico “ospedaliero”, il quale si trova normalmente ad eseguire la sua prestazione in virtù
del solo rapporto giuridico che lo lega alla struttura sanitaria nella quale è inserito,come sembra
aver avuto ben presente il legislatore del 2012 nel momento in cui, in relazione alla responsabilità
risarcitoria dell’esercente una professione sanitaria, ha ritenuto di far richiamo all’obbligo di cui
all’art. 2043 c.c.
2.4 Riepilogo del sistema di responsabilità civile in ambito sanitario dopo la “legge Balduzzi”.
Sulla base del delineato ambito applicativo e della interpretazione dell’art. 3 comma 1 L. 189/2012
che si ritiene preferibile, l’articolato sistema della responsabilità civile in ambito sanitario sembra
possa essere così sintetizzato:
 l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile della
struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il
15





paziente un contratto d’opera professionale (anche se nell’ambito della cd attività libero
professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la responsabilità della
struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la responsabilità
del medico (contratto d’opera professionale) derivano da inadempimento e sono disciplinate
dall’art. 1218 c.c., ed è indifferente che il creditore/danneggiato agisca per ottenere il
risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di entrambi;
il richiamo nella norma suddetta all’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. per l’esercente la
professione sanitaria che non risponde penalmente (per essersi attenuto alle linee guida), ma
la cui condotta evidenzia una colpa lieve, non ha nessun riflesso sulla responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria, che ha concluso un contratto atipico con il paziente
(o,se si preferisce,è comunque tenuta ex lege ad adempiere determinate prestazioni perché
inserita nel S.S.N.) ed è chiamata a rispondere ex art. 1218 c.c. dell’inadempimento riferibile
direttamente alla struttura anche quando derivi dall’operato dei suoi dipendenti e/o degli
ausiliari di cui si è avvalsa (art. 1228 c.c.);
il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore
conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti
professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto
d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del
2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione
risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi
dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare);
in ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”,
che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria
indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta
responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una
impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c.
(sia che si ritenga che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi
dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla
conclusione del contratto atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria” con la sola
accettazione del paziente presso la struttura);
se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il
quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di
un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto
in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che l’attore ha l’onere di
provare;
se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria
presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle
responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il medico e quella ex art. 1218 c.c.
per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine
di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il
“fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le
domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido
al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c. (cfr., fra le altre, Cass. 16/12/2005, n.
27713).
16
3. La responsabilità risarcitoria dei convenuti nel caso concreto.
Va premesso che pur avendo il CTU evidenziato profili di inadempimento dell’obbligo di acquisire
dal paziente un consenso pieno ed informato, prima di procedere all’intervento chirurgico
programmato, ciò risulta ininfluente ai fini della presente decisione.
L’attore non ha mai dedotto tale profilo di responsabilità dei convenuti - in particolare la lesione del
suo diritto al cd consenso informato - prima del maturare della preclusione assertiva.
V, come detto senza allegare di aver concluso un contratto con il medico convenuto, deduce che nel
corso dell’intervento chirurgico di tiroidectomia, al quale è stato sottoposto presso la clinica privata
Policlinico di .. dall’equipe guidata dal dott. X, avrebbe subito la lesione delle corde vocali a causa
dell’errata esecuzione dell’intervento e, sulla base di tale “inadempimento” (inesatto
adempimento)che sostiene imputabile sia al medico che alla struttura sanitaria, chiede la condanna
in solido di entrambi i convenuti a risarcire il danno alla salute e il danno morale derivati dall’errato
intervento chirurgico.
Nessun rilievo assume che l’attore (che ha introdotto la causa prima della legge Balduzzi) abbia
qualificato la sua azione come un’azione di responsabilità da inadempimento anche rispetto al
medico convenuto, sulla base del “diritto vivente”. Come noto, il giudice può infatti qualificare
diversamente la domanda risarcitoria proposta dal danneggiato, purché restino inalterati i fatti
dedotti dall’attore a sostegno della pretesa e che il giudice pone a fondamento della decisione (cfr.
fra le altre, Cass.8/2/2007 n. 2746 e Cass.17/4/2013 n. 9240).
Ora, sulla base dei documenti prodotti dalle parti, delle risultanze della C.T.U. (relazione depositata
il 28/12/2012) e di quanto allegato dall’attore e non contestato specificamente dai convenuti, risulta
provato che: il 20/10/2008 V fu ricoverato presso la struttura sanitaria convenuta e il giorno stesso
sottoposto ad intervento di tiroidectomia totale (“reso necessario per la presenza di un voluminoso
struma adenoso cistico-emorragico”), eseguito da un’equipe chirurgica guidata dal convenuto X;
che nel corso dell’intervento chirurgico l’attore subì “un insulto bilaterale dei nervi laringei
ricorrenti che provocò la cospicua adduzione delle corde vocali con disfonia e riduzione dello
spazio respiratorio tanto che dovette essere trasferito in unità di cura intensiva e successivamente
trattato in reparto ORL mediante tracheotomia”; che durante l’intervento del 20/10/2008 “venne
prodotto un danno chirurgico irreversibile a carico del nervo laringeo ricorrente destro (che nella
descrizione dell’intervento non venne neppure identificato nel suo decorso) ed un danno transitorio
a carico di quello sinistro (per quanto in descrizione di intervento apparentemente “visualizzato e
conservato”) che dopo un certo lasso di tempo (…) riprese la sua funzione”; che “tali danni hanno
prodotto come esito una riduzione dello spazio respiratorio laringeo con conseguente dispnea da
sforzo ed una disfonia di grado lieve per compenso della cv sinistra e delle false corde” (vd p.7 e 8
della relazione del CTU in atti).
Il materiale probatorio acquisito consente di affermare che nel caso concreto è ravvisabile la
responsabilità risarcitoria sia del medico sia della struttura sanitaria.
In particolare, nella condotta del medico dott. X si ravvisano tutti gli elementi costitutivi del fatto
illecito ex art. 2043 c.c., necessari come detto per l’affermazione della responsabilità civile del
medico-chirurgo non legato nel caso concreto al paziente da un rapporto contrattuale.
Nella relazione depositata il CTU riferisce: che “l’intervento eseguito dal dott. X presso la struttura
sanitaria convenuta è consistito in una tiroidectomia totale che in mani esperte non comporta
solitamente problemi tecnici di speciale difficoltà” (p. 14 della relazione); che le linee guida
raccomandavano per l’intervento in questione, fra l’altro, l’uso di “tecniche chirurgiche con
dissezione accurata allo scopo di identificare precocemente il nervo”, una “attenta conduzione
dell’atto chirurgico nel modo più esangue possibile ed evitando ripetute manipolazioni”, il
“monitoraggio intraoperatorio dell’attività del nervo”, il “controllo pre e post-operatorio della
motilità cordale con conseguente valutazione otorinolaringoiatrica” (p. 8); che “nel caso de quo,
nella descrizione dell’intervento non ci sono evidenze di isolamento dei nervi laringei ma si cita
solo la preventiva legatura e sezione dei peduncoli vascolari e la sola visualizzazione del nervo
17
laringeo ricorrente di sinistra e la sua conservazione peraltro non scevra da insulto (sofferenza
temporanea) vista l’emergenza respiratoria post-intervento” (p. 9); che “nel caso specifico pur in
presenza di campo operatorio limitrofo ad esiti di precedenti interventi non furono attuate
metodiche al tempo disponibili per identificare e proteggere le strutture nervose causando un danno
alle stesse che comportarono subito dopo l’intervento la gestione di una urgenza respiratoria da
parte della unità di crisi intensiva e successivamente un danno irreversibile al nervo laringeo destro
con conseguenze sulla funzione fonatoria e respiratoria della laringe” (p. 14).
Pienamente condivisibile in siffatta situazione risulta la logica conclusione cui perviene l’ausiliare all’esito dell’attento e completo esame della documentazione disponibile e degli approfonditi
accertamenti compiuti – secondo il quale, nel “mancato isolamento del nervo laringeo destro
durante la procedura chirurgica con conseguente impossibilità di procedere al monitoraggio
intraoperatorio dell’attività dello stesso nervo di destra e di quello contro laterale che, visualizzato,
riportò una sofferenza solo temporanea”, sono ravvisabili elementi di responsabilità professionale
del chirurgo.
Le conclusioni del CTU non sono smentite dalle osservazioni critiche dei consulenti di parte, in
ampia misura apodittiche, non suffragate da concreti elementi di prova né sorrette da convincenti
argomentazioni scientifiche.
Risulta evidente nel caso concreto il colpevole mancato rispetto delle linee guida da parte dei
sanitari, in particolare del chirurgo convenuto che guidava l’equipe medica.
Il riscontrato danno alle strutture nervose subito da V è etiologicamente riconducibile alla condotta
colposa del convenuto - che si caratterizza sia per imperizia sia per negligenza – e non costituisce
affatto una complicanza prevedibile ma non evitabile nel caso concreto come dedotto dalla difesa
convenuta. Risulta infatti altamente probabile che il danno alla salute riscontrato dall’ausiliare sia
stato causato da errate manovre poste in atto nel corso dell’intervento di tiroidectomia, eseguito in
spregio alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica dell’epoca, e non
vi sono elementi per poter ritenere che, con apprezzabile grado di probabilità, il danno iatrogeno
subito dall’attore si sarebbe verificato anche qualora gli operatori si fossero attenuti (come
avrebbero dovuto) alle linee guida indicate dal CTU.
Oltre al medico convenuto, parimenti responsabile del danno subito dall’attore è la struttura
sanitaria, la quale come ricordato sopra era direttamente obbligata ad adempiere tutte le prestazioni
dovute in base al “contratto di spedalità” concluso con il paziente.
Si è detto che la responsabilità della struttura per i danni che si verificano in ambito sanitario è una
responsabilità che scaturisce dall’inadempimento e/o dall’inesatto adempimento di una delle varie
prestazioni (non necessariamente di quella principale come nel caso di specie) che è direttamente
obbligata ad eseguire in base al contratto atipico concluso con il paziente - o in base alla legge se si
preferisce aderire alla tesi della fonte legale dell’obbligazione – e non una responsabilità per fatto
altrui. Ai fini della diretta riferibilità ex artt. 1218-1228 c.c. delle conseguenze risarcitorie
dell’illecito non assume particolare rilevo che il contraente/debitore (solitamente un ente collettivo,
pubblico o privato) nell’adempimento delle sue obbligazioni si avvale – deve avvalersi per
l’esecuzione delle prestazioni strettamente sanitarie di particolari figure professionali abilitate (le
sole che possono eseguire tali prestazioni) – necessariamente di propri dipendenti o di collaboratori
esterni. Ne deriva che la struttura sanitaria per essere esonerata dalla responsabilità risarcitoria verso
il paziente non può utilmente invocare la condotta illecita del proprio dipendente o collaboratore –
individuato come responsabile (corresponsabile) dalla stessa struttura o direttamente dal
danneggiato – ma è tenuta a fornire nel processo la prova positiva che le conseguenze dannose di
tale condotta non le sono imputabili a titolo di inadempimento delle obbligazioni oggetto del
contratto di spedalità.
Nel caso di specie non solo la struttura sanitaria non ha neppure tentato di provare di aver
compiutamente adempiuto le sue obbligazioni, ma vi è la prova in atti dell’inesatto adempimento
della prestazione principale ed è quindi tenuta ex artt. 1218-1228 c.c. a risarcire integralmente i
18
danni derivati dall’operato dei propri dipendenti e collaboratori (fra i quali il dott. X) di cui si è
avvalsa.
4. I danni subiti dall’attore.
4.1 Il danno non patrimoniale.
Dall’illecito descritto, avvenuto il 20/10/2008, l’attore V (nato il …1956) ha riportato “un danno
chirurgico irreversibile a carico del nervo laringeo ricorrente destro (…) ed un danno transitorio a
carico di quello sinistro (…) che hanno prodotto come esito una riduzione dello spazio respiratorio
laringeo con conseguente dispnea da sforzo ed una disfonia di grado lieve per compenso della cv
sinistra e delle false corde”.
Secondo il condiviso responso del C.T.U., ciò ha comportato per il danneggiato una maggior durata
della malattia – rispetto a quella che un paziente con analoga patologia e nelle medesime condizioni
soggettive avrebbe comunque sopportato – con temporanea totale inabilità alle ordinarie
occupazioni per 30 giorni e parziale per ulteriori 60 giorni (20 giorni al 75%, 20 giorni al 50% e 20
giorni al 25%); inoltre, i postumi residuati concretizzano un danno all’integrità psico-fisica
dell’attore di natura esclusivamente iatrogena pari all’11% (vd p. 10 della relazione in atti).
Pur ritenendosi che il criterio legale previsto dall’art. 3 co. 3 della legge Balduzzi - ove come detto
si fa espresso richiamo alle tabelle degli artt. 138 e 139 del cod. ass. per la liquidazione del danno
biologico conseguente alla responsabilità professionale dell’esercente una professione sanitaria trova applicazione anche in relazione ai fatti dannosi verificatisi prima dell’entrata in vigore di tale
legge (come già affermato in altre pronunce di questo tribunale alle quali si rinvia), la mancata
adozione della tabella prevista dall’art. 138 per le cd macropermanenti (menomazioni dell’integrità
psico-fisica comprese tra 10 e 100 punti) rende impossibile procedere nel caso concreto alla
liquidazione del danno secondo il criterio legale (allo stato applicabile solo alle cd micropermanenti
previste nella tabella adottata ex art. 139).
Occorre pertanto fare ancora applicazione nel caso di specie delle note tabelle elaborate da questo
tribunale, comunemente adottate per la liquidazione equitativa ex artt. 1226-2056 c.c. del danno non
patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psico/fisica e che, come detto, rappresentano un
criterio di liquidazione condiviso dalla Suprema Corte, la quale l’ha ritenuto applicabile sull’intero
territorio nazionale in assenza di un diverso criterio legale per la liquidazione del danno alla persona
(vd Cass. 7/6/2011 n. 12408).
A fronte delle riferite conclusioni del CTU, sulla base delle richiamate tabelle giurisprudenziali di
liquidazione equitativa del danno alla persona il pregiudizio da temporanea può quantificarsi in
moneta attuale in complessivi euro 5.900,00, mentre quello permanente - tenuto conto dell’età (52
anni) del danneggiato all’epoca dei fatti e dell’entità del gradiente invalidante riscontrato dal CTU
(11%) – può essere monetizzato all’attualità in complessivi euro 23.715,00.
Il danno alla salute sopra indicato non esaurisce tuttavia nel caso concreto l’intero danno non
patrimoniale risarcibile al danneggiato.
Si ritiene infatti che taluni apprezzabili aspetti (o voci) che vengono in rilievo e che da tempo sono
solitamente ricondotti dalla giurisprudenza prevalente nella unitaria categoria generale del danno
non patrimoniale (art. 2059 c.c.), non risulterebbero adeguatamente risarciti con la sola applicazione
dei predetti valori monetari della tabella.
Per l’integrale risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dall’attore è infatti necessario
procedere ad una adeguata“personalizzazione”, avendo riguardo a quei profili riconducibili alla
sofferenza soggettiva, ai pregiudizi alla vita di relazione e ai riflessi negativi sulle abitudini di vita
che possono ritenersi sussistenti in relazione alle conseguenze dell’errato intervento chirurgico. Il
danneggiato è stato sottoposto a un periodo di terapia intensiva (necessitata dall’insorta
insufficienza respiratoria), poi ha dovuto subire una tracheotomia (temporanea) e in seguito - a
causa della disfonia e della ridotta capacità respiratoria che sono residuate dall’errata prestazione
sanitaria - si è visto costretto ad una quotidiana difficoltà nella vita di relazione e a dover rinunciare
19
a svolgere pienamente anche talune comuni attività che caratterizzano la vita di un soggetto della
sua età (come evidenziato dalla difesa attrice e non specificamente contestato dai convenuti).
Alla luce di tali considerazioni e per addivenire ad un integrale risarcimento che tenga conto dei
vari aspetti che concorrono nella individuazione del composito danno di cui si discute - senza
discostarsi dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che richiama ad una liquidazione
unitaria del danno alla persona onde evitare inammissibili duplicazioni di poste risarcitorie (fra le
altre, Cass. Sez. Un. 11/11/2008 n. 26972; Cass.20/11/2012 n. 20292 e Cass.23/1/2014 n. 1361) - si
ritiene di“personalizzare” il danno subito dall’attore aumentando la somma suddetta risultante
dall’applicazione delle tabelle (euro 29.615,00) fino ad euro 38.000,00, che costituisce quindi il
complessivo danno non patrimoniale risarcibile liquidato al valore attuale dalla moneta.
4.2 Il danno patrimoniale.
L’attore non deduce di aver subito danni patrimoniali diversi ed ulteriori rispetto a quello che
invoca per il mancato tempestivo risarcimento del danno non patrimoniale.
Il danneggiato chiede che tale voce di danno (patrimoniale) gli venga risarcita attraverso la
rivalutazione monetaria di quanto liquidato a titolo di danno non patrimoniale e attraverso il
riconoscimento degli interessi legali su tale importo (rivalutato) con decorrenza dall’illecito.
4.3 Il lucro cessante per il ritardato risarcimento del danno.
L’intero danno non patrimoniale è stato liquidato equitativamente - sulla base della richiamata
tabella di liquidazione del danno alla persona - ai valori attuali della moneta e non deve quindi farsi
luogo alla sua rivalutazione.
Inoltre, alla luce dell’insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (risalente alla sentenza del
17/2/1995 n. 1712), vertendosi in tema di debito di valore non sono dovuti al danneggiato sul
credito risarcitorio suddetto gli interessi legali con decorrenza dall’illecito.
Si ritiene tuttavia, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso dall’illecito (6 anni) e delle
caratteristiche del danneggiato, che vada riconosciuta all’attore un’ulteriore somma a titolo di lucro
cessante provocato dal mancato tempestivo risarcimento del danno da parte dei responsabili- e
conseguentemente dalla mancata disponibilità dell’equivalente pecuniario spettante al danneggiato potendo ragionevolmente presumersi che il creditore, ove avesse avuto la tempestiva disponibilità
della somma, l’avrebbe impiegata in modo fruttifero.
Ai fini della liquidazione necessariamente equitativa di tale ulteriore voce di danno patrimoniale,
non si ritiene di far ricorso al criterio – sovente applicato dalla giurisprudenza - degli interessi legali
al saggio variabile in ragione di anno (determinato ex art. 1284c.c.) da calcolarsi sull’importo già
riconosciuto, dapprima “devalutato” fino all’illecito e poi “rivalutato” annualmente con l’aggiunta
degli interessi, ovvero sul capitale “medio” rivalutato.
Si ritiene preferibile, perché più rispondente alla finalità perseguita e scevro da possibili equivoci
che possono derivare dall’applicazione ai debiti di valore di istituti previsti dall’ordinamento per i
debiti di valuta, adottare per la liquidazione equitativa del lucro cessante in questione un aumento
percentuale nella misura risultante dalla moltiplicazione di un valore base medio del 3% corrispondente all’incirca al rendimento medio dei Titoli di Stato negli anni compresi nel periodo
che viene in rilievo – con il numero di anni in cui si è protratto il ritardo nel risarcimento per
equivalente. Tale criterio equitativo sembra meglio evitare, da un lato, di far ricadere sul
creditore/danneggiato le conseguenze negative del tempo occorrente per addivenire ad una
liquidazione giudiziale del danno e, dall’altro, più idoneo a prevenire il rischio che il
debitore/danneggiante (la cui obbligazione di risarcire per equivalente il danno diventa attuale dal
momento in cui esso si verifica), anziché procedere ad una tempestiva riparazione della sfera
giuridica altrui lesa, sia tentato di avvantaggiarsi ingiustamente della non liquidità del debito
risarcitorio e della potenziale redditività della somma di denaro dovuta (che resta nella sua
disponibilità fino alla liquidazione giudiziale del danno).
20
Nel caso di specie, considerato il tempo trascorso da quando il danno subito dall’attore si è
pienamente verificato (2008) l’importo in questione viene dunque equitativamente liquidato
attraverso una maggiorazione del 18% dell’intero danno suddetto (già rivalutato) e risulta pari ad
euro 6.840,00.
4.4 Il complessivo danno risarcibile e la condanna solidale dei responsabili.
Dalla somma delle voci di danno sopra liquidate si ottiene quindi un credito complessivo del
danneggiato pari ad euro 44.840,00 (euro 38.000 + euro 6.840).
Su tale somma, corrispondente all’intero danno risarcibile liquidato al creditore/danneggiato, sono
altresì dovuti dai responsabili gli interessi al tasso legale sino al saldo, con decorrenza dalla data
della presente pronuncia coincidente con la trasformazione del debito di valore in debito di valuta.
I convenuti vanno pertanto condannati in solido ex art. 2055 c.c. a pagare all’attore a titolo di
risarcimento del danno la somma complessiva di euro 44.840,00 oltre interessi legali dalla presente
sentenza al saldo.
5. La domanda di manleva della struttura sanitaria contro il medico.
Come detto, sin dalla comparsa costitutiva tempestivamente depositata il Policlinico di .. s.p.a. ha
chiesto in via subordinata (per il caso in cui la domanda dell’attore fosse risultata fondata) la
condanna del medico convenuto (dott. X) a manlevare e tenere indenne la struttura sanitaria dalle
conseguenze della soccombenza.
A fondamento di tale domanda la società convenuta invoca il “contratto di collaborazione libero
professionale” sottoscritto dalle parti (doc. 2).
Non si tratta pertanto di un’azione di regresso ex art. 2055 c.c., dal momento che il diritto azionato
dalla struttura sanitaria non deriva dalla legge ma ha fonte (negoziale) nel contratto concluso dalle
parti.
Nella clausola 10 del contratto in questione, “il medico dichiara sin d’ora di manlevare e tenere
indenne il Policlinico di .. da ogni conseguenza pregiudizievole che si riferisca ad ogni domanda
promossa nei suoi confronti e nei confronti del Policlinico (…) dai pazienti suoi personali o da
pazienti di Policlinico di .. che siano stati da lui assistiti (…) in conseguenza dell’attività da lui
svolta presso la Casa di Cura” (punto 1 della clausola), con l’ulteriore specificazione che la
suddetta “(…)manleva è formulata sia con riferimento ai casi di eventuale responsabilità per colpa
grave o dolo (…) sia ai casi di responsabilità per scarsa diligenza (…) e comunque in ogni caso in
cui venga accertata giudizialmente la responsabilità professionale del medico” (clausola 10.2).
Non vi è dubbio che nel suddetto“patto di manleva”(che prevedeva anche l’obbligo del dott. X di
avere una copertura assicurativa, fino ad un determinato massimale, a garanzia dei rischi derivanti
dalla sua attività professionale e ad esibire alla struttura sanitaria la polizza, alla quale era
condizionata la validità e l’efficacia del contratto di collaborazione fra le parti) il medico convenuto
si è obbligato a tenere indenne la struttura sanitaria dalle pretese risarcitorie relative ai danni subiti
dai pazienti in conseguenza dell’attività medico-chirurgica svolta dal professionista all’interno della
casa di cura privata (sia in relazione ai pazienti personali del medico sia ai pazienti della casa di
cura come l’odierno attore).
Nel processo il medico convenuto non contesta l’esistenza di un interesse meritevole di tutela alla
conclusione di siffatto accordo e non solleva eccezioni in merito alla validità e all’efficacia della
clausola contrattuale che contiene l’atipico patto di manleva (vd al riguardo Cass. 30/5/2013
n.13613; Cass. 2/3/1998 n. 2365 e Cass. 8/3/1980 n. 1543) – che in sostanza finisce per scaricare
sul professionista il rischio di impresa della clinica per i danni conseguenza delle prestazioni
sanitarie eseguite dal dott. X all’interno della struttura - e non si ravvisano profili di invalidità
rilevabili d’ufficio che possano indurre a ritenere inefficace il suddetto accordo frutto
dell’autonomia negoziale delle parti.
21
In accoglimento della domanda di manleva, il medico convenuto va pertanto condannato a restituire
alla Policlinico di … s.p.a. l’importo complessivo che tale parte in base alla presente sentenza fosse
costretta a pagare all’attore in relazione alla pretesa risarcitoria oggetto di causa.
6. La domanda di garanzia del medico contro l’assicuratore.
Infine, va altresì accolta la domanda di garanzia avanzata dal medico nei confronti del proprio
assicuratore (convenuto) nella citazione introduttiva della causa riunita (R.G. ../2011).
E’ incontroversa la validità e l’efficacia della polizza (n….) per la responsabilità professionale
sottoscritta da X con la… Assicurazioni s.p.a.: tant’è che sin dalla comparsa costitutiva la
compagnia assicuratrice ha concluso dichiarandosi pronta a “tenere indenne” il medico proprio
assicurato da quanto fosse eventualmente tenuto a pagare all’esito del giudizio promosso nei suoi
confronti da V.
Va pertanto condannata la .. Assicurazioni s.p.a. a tenere indenne il proprio assicurato X dalla
soccombenza e, quindi, a rimborsare al medico convenuto quanto da tale parte dovuto alle
controparti sulla base della presente sentenza anche a titolo di spese di lite (cfr. Cass. 20/11/2012 n.
20322 e Cass. 31/5/2012 n. 8686).
7. Le spese di lite.
In applicazione del principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.) ed in relazione alla causa
R.G…/2010, i convenuti X e Policlinico di .. s.p.a. vanno condannati, in solido, a rifondere
all’attore le spese di lite, liquidate come in dispositivo in base allo scaglione in cui è compreso il
credito risarcitorio riconosciuto al danneggiato e comprensive degli oneri di CTU anticipati dalla
parte vittoriosa.
Il convenuto X, soccombente sulla domanda di manleva, va invece condannato a rifondere le spese
di lite in favore di Policlinico di … s.p.a., liquidate come in dispositivo sulla base del medesimo
criterio suddetto.
Infine, sempre in base alla soccombenza l’assicuratore convenuto nella causa riunita (R.G…./2011)
è tenuto a rifondere le spese di lite in favore di X anch’esse liquidate con lo stesso criterio come in
dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando … così provvede:
1. in accoglimento della domanda di risarcimento danni avanzata dall’attore, condanna X e
Policlinico di … s.p.a., in solido, a pagare a V la somma complessiva di euro 44.840,00 oltre
interessi al tasso legale dalla presente sentenza al saldo;
2. in accoglimento della domanda di manleva avanzata dalla struttura sanitaria convenuta,
condanna X a restituire a Policlinico di … s.p.a. la somma complessiva che tale parte fosse
costretta a pagare all’attore V sulla base del capo 1 della presente sentenza, oltre interessi
legali dalla data del pagamento al saldo;
3. in accoglimento della domanda di garanzia avanzata da X, condanna… Assicurazioni s.p.a.
a tenere indenne il predetto assicurato da ogni conseguenza patrimoniale derivante nei suoi
confronti dalla presente sentenza;
4. condanna X e Policlinico di .. s.p.a., in solido, a rifondere all’attore V le spese di lite
liquidate in complessivi euro 9.080,00, di cui euro 2.380,00 per esborsi (compresi oneri di
CTU) ed euro 6.700,00 per compensi, oltre oneri accessori come per legge;
22
5. condanna X a rifondere a Policlinico di … s.p.a. le spese di lite liquidate in complessivi euro
6.779,75, di cui euro 79,75 per esborsi ed euro 6.700,00 per compensi, oltre oneri accessori
come per legge;
6. condanna … Assicurazioni s.p.a. a rifondere a X le spese di lite liquidate in complessivi
euro 7.258,00, di cui euro 558,00 per esborsi ed euro 6.700,00 per compensi, oltre oneri
accessori come per legge.
Così deciso in Milano il 17/7/2014.
Il Giudice
Patrizio Gattari
23
La Legge Balduzzi NON ha cambiato le regole: la responsabilità del medico
ospedaliero è contrattuale.
Trib. Milano, sez. V civ., sentenza 18 novembre 2014 n. 13574 (Est. Andrea M.
Borrelli)
MEDICO DIPENDENTE E/O COLLABORATORE DELLA STRUTTURA SANITARIA AUTORE DELLA CONDOTTA ATTIVA O OMISSIVA PRODUTTIVA DEL DANNO SUBITO
DAL PAZIENTE COL QUALE TUTTAVIA NON HA CONCLUSO UN CONTRATTO DIVERSO
ED ULTERIORE RISPETTO A QUELLO CHE OBBLIGA LA STRUTTURA NELLA QUALE IL
SANITARIO
OPERA
–
RESPONSABILITÀ
–
NATURA
GIURIDICA
–
EXTRACONTRATTUALE – ESCLUSIONE - CONTRATTUALE – SUSSISTE (art. 3, L.
189/2012; art. 1218, 2043 cod. civ.)
La responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 l.
189/12 – è da qualificarsi come contrattuale. Il primo comma dell'art. 3 del D.L.
Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai
(soli) casi di colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a
linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L'ossequio alla
lettera della nuova disposizione comporta anche adeguata valorizzazione dell'incipit
dell'inciso immediatamente successivo alla proposizione che esclude la responsabilità
penale del sanitario in detti casi , per effetto del quale deve ritenersi che esso si
riferisca soltanto - appunto - a "tali casi" (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito
linee guida ecc.). D'altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista
l'azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso
ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini)
sotto il (solo) regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità
della disciplina di cui all'art. 1218 c.c. e così cancellando lustri di elaborazione
giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per es.
"la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria per l'attività prestata quale
dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall'art.
2043 del codice civile") anziché il breve inciso in commento.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il Signor M. I. chiede la condanna dei tre convenuti, in solido fra loro, al pagamento di € 100.000,00
(oltre interessi e rivalutazione) per i danni patrimoniali e non patrimoniali, inclusi quelli biologici,
morali ed esistenziali, inizialmente (nell'atto introduttivo del presente giudizio) quantificati nel
complessivo importo di € 330.000,00, che assume di aver patito in conseguenza di ritardo
diagnostico.
L'attore narra di essersi presentato, il 3.10.2002, alle ore 8:43, al Pronto Soccorso dell'Ospedale di *,
accusando fortissimi dolori all'occhio sinistro e disturbi visivi. Segnala di aver dichiarato di fare uso
di lenti a contatto. Il medico di turno aveva riscontrato iperemia congiuntivale e chiesto che I.
venisse sottoposto a visita di specialista oculista. Questi, che in un secondo momento è risultato
essere il convenuto Dottor C.V., esaminato l'occhio dell'attore in modo sbrigativo, aveva dimesso il
paziente alle ore 9:20 con diagnosi di "infiltrato corneale centrale" e prescritto applicazioni serali di
collirio e applicazioni di pomata oftalmica …, nonché nuova visita di controllo dopo quattro giorni.
L'attore tuttavia, poiché continuava "ad accusare dolori lancinanti all'occhio sinistro" e si era accorto
di non vedere (anche perché l'occhio era coperto da pus), era tornato al Pronto Soccorso
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dell'ospedale di *-nelle prime ore del 4.10.2002. La Dottoressa M. P. F., medico di turno, preso atto
della visita specialistica già effettuata e nonostante il dolore lamentato dal paziente, il rossore
diffuso dell'occhio, la pupilla bianca, la suppurazione in atto, aveva, dopo una visita di sei minuti,
steso referto di "iperemia congiuntivale. Residui di pomata oft. Probabile infiltrato corneale", così
mostrando di avere scambiato il materiale purulento per residui di pomata, e, alle ore 3:57 aveva
dimesso l'attore invitandolo s "seguire i consigli dello specialista oculista". Poiché però, nonostante
l'assunzione degli antidolorifici prescritti al bisogno, il dolore non era diminuito, M. I., lo stesso
4.10.2002. si era recato - anche questa volta, come le precedenti, accompagnato dal padre - presso
l'Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano", dove il medico di turno, resosi conto della
gravità della condizione dell'attore, ne aveva disposto il ricovero d'urgenza, con diagnosi di "ampio
ascesso corneale all'occhio sinistro".
Sostiene l'attore che i due sanitari dell'Ospedale di *, convenuti insieme all'Azienda Ospedaliera,
avrebbero errato la diagnosi iniziale e la cura, facendo perdere al paziente "quasi 48 ore preziose per
l'avvio della corretta terapia", con la conseguenza che neppure le appropriate cure praticategli presso
il Fatebenefratelli avevano potuto impedire il verificarsi di "gravi e permanenti lesioni corneali".
Affermato che, alla stabilizzazione del quadro clinico, il suo occhio sinistro aveva un visus residuo
di soli 3/10 e un leucoma corneale con assottigliamento dello spessore corneale maggiore nella
porzione apicale; asserito che l'imperizia, l'imprudenza e la negligenza dei sanitari di Desio aveva
comportato l'evolvere della patologia iniziale (infiltrato corneale) in ascesso, causandogli danno
biologico valutato (da perito consultato dall'I.) nella misura del 13-14%, invalidità temporanea totale
per otto giorni di ricovero presso il Fatebenefratelli, e i.t. parziale successiva, oltre a danno
patrimoniale, pari alle spese sostenute per visite specialistiche, farmaci e occhiali, quantificabile in €
1798,00, oltre a menomazione della capacità lavorativa futura (all'epoca l'attore, diciannovenne, era
ancora studente) e "danno estetico", psichico e alla vita di relazione.
I tre convenuti si sono costituiti nel presente giudizio in data 30.10.2009, con il ministero di unico
difensore, ma depositando due distinti fascicoli e comparse di risposta. Contestano la responsabilità
per i danni (da inadempimento contrattuale) loro attribuita dall'attore, ma anche la sussistenza dei
pregiudizi allegati da I., e chiedono respingersi le domande formulate dall'attore. M.P.F. e l'Azienda
Ospedaliera di * segnalano inoltre di avere, nel dicembre 2008, a mero fine transattivo, formulato
offerta di pagamento della somma di € 10.000,00.
*
Nel corso del presente giudizio è stata disposta ed effettuata CTU affidata all'esperto in medicina
legale … e all'oftalmologo Dott. …
Questi hanno inteso premettere alla risposta al quesito loro assegnato che "la cheratite microbica
rappresenta un urgenza-emergenza oculistica in quanto possono evolvere verso una perforazione con
endoftalmite. La cicatrice corneale è spesso molto invalidante. L'uso delle lenti a contatto
rappresenta il più frequente fattore di rischio di un'infezione batterica. L'uso non corretto delle lenti,
la scarsa igiene sono spesso alla base della cheratite. La lente a contatto determina meccanicamente
una sofferenza dell'epitelio corneale consentendo ai germi di attraversare la barriera epiteliale e
penetrare nello stroma corneale. I germi più tipicamente coinvolti sono i Gram+, stafilococchi, e
Gram-, lo Pseudomonas aeruginosa. Quest'ultimo rappresenta la causa più frequente di cheratite
associata a lenti a contatto con quadri clinici a rapida progressione per la suppurazione marcata e
necrosi tessutale."
Fatta questa premessa i CTU escludono che siano ravvisabili elementi di colpa professionale nella
condotta del Dr V., medico oculista che visitò I. il 3.10.2002. In quella occasione, scrivono gli
Ausiliari del giudice sulla base della documentazione clinica agli atti, la patologia corneale relativa
all'occhio sinistro "era ancora agli esordi: era visibile solo un infiltrato corneale centrale". Cosicché i
consulenti ritengono "essere stata correttamente prescritta una terapia topica con cicloplegico e
Pensulvit (Tetraciclina Sulfametiltiazolo) pomata 4 volte al dì".
Osservano i CTU che, per le caratteristiche farmacologiche della pomata consigliata, e in particolare
della Tetraciclina, farmaco antibatterico inibitore della sintesi proteica, efficace contro i batteri
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Gram-positivi, Gram-negativi anaerobi e microrganismi come rickettsie, clamide, micoplasmi,
brucelle, escherichia coli, la prescrizione era corretta in relazione al quadro clinico riscontrato.
Nei propri scritti conclusivi parte attrice contesta la valutazione dei CTU assumendo che il
convenuto V. avrebbe errato, per negligenza, nell'omettere di far effettuare un'analisi colturale,
necessaria al fine di individuare con esattezza l'agente patogeno responsabile dell'infezione.
Parimenti avrebbe errato nel prescrivere una pomata generica ad ampio spettro e nel prescrivere
visita di controllo a distanza di ben quattro giorni.
Osserva il giudice che la pomata Pensulvit è indicata nel trattamento topico delle infezioni oculari
esterne generate da microrganismi sensibili alla Tetraciclina ed al Sulfametiltiazolo. Essa deve la sua
efficacia biologica e il suo ampio spettro d'azione alla presenza di due principi attivi dotati di
un'intensa
attività
antibiotica.
Più precisamente la Tetraciclina è un principio attivo estratto a partire da ceppi di Streptomyces,
dotato di attività batteriostatica o battericida dose-dipendente particolarmente efficace nei confronti
dei
batteri
Gram
negativi.
Penetrata nell'ambiente cellulare la Tetraciclina è in grado di legare la subunità ribosomiale 30S,
inibendo l'allungamento della catena peptidica e compromettendo quindi le capacità biosintetiche
del
battere,
inducendone
la
morte.
Il Sulfametiltiazolo invece è una molecola dotata di attività antimetaboliche che, in quanto
sulfamidico, può competere con l'acido paraminobenzoico nella sintesi dell'acido folico e inibire la
sintesi di un mediatore particolarmente importante nell'economia del microrganismo. Tale attività
risulta efficace nei confronti dei batteri Gram positivi, Gram negativi e nei confronti della
Chlamydia
Trachomatis.
Pensulvit è indicato anche nella profilassi pre e post-operatoria e come coadiuvante terapeutico in
corso di tracoma. Questa è una malattia infettiva certamente non meno grave e preoccupante della
cheratite diagnosticata all'I., che affligge quasi sempre entrambi gli occhi, causata da Chlamydia
trachomatis, batterio gram-negativo che si localizza a livello della congiuntiva determinando un
processo infiammatorio a evoluzione cronica e un'infezione molto contagiosa che può condurre alla
cecità permanente.
La provata efficacia dei due principi attivi di Pensulvit rende infondata la censura mossa dall'attore
alla scelta di quel farmaco.
Parimenti infondato appare il rimprovero relativo alla omessa effettuazione di analisi colturale,
atteso che la patologia era solo all'esordio quando I. venne visitato dal V. e non risulta letteratura
che la prescriva fin da tale fase.
Inoltre non può tenersi conto del rilievo in ordine alla insufficienza della posologia prescritta dal Dr
V., giacché esso è stato sollevato dall'attore per la prima volta in comparsa conclusionale: dunque
tardivamente.
Appare invece fondato il rilievo relativo all'eccessiva distanza temporale indicata per la successiva
visita di controllo.
Considerato infatti che i CTU affermano che il quadro clinico delle cheratiti microbiche associate
all'uso di lenti a contatto è a rapida progressione, e perciò esse rappresentano un'urgenza-emergenza
oculistica, potendo evolvere in perforazione con endoftalmite; considerato che anche nelle difese di
parte convenuta si legge che trattasi di patologia soggetta a "variazioni importanti in un breve lasso
di tempo", ritiene questo giudice che la prescrizione di visita di controllo a distanza di ben quattro
giorni abbia costituito comportamento imprudente del sanitario. Del resto, i medesimi consulenti,
comparsi per rendere chiarimenti nell'udienza 22.12.2011, hanno dichiarato che le linee-guida
accreditate consiglierebbero - per la corretta gestione di una cheratite batterica - l'attesa di circa 48
ore prima di modificare gli atteggiamenti clinici e terapeutici in caso di inefficacia delle cure
inizialmente prescritte, e non già di 96 ore, pari all'attesa indicata dal Dr V. nella fattispecie
all'esame di questo giudice.
Sotto il profilo soggettivo appare dunque sussistere l'inesatto adempimento della prestazione
ascritto al convenuto V. (sulla natura contrattuale della responsabilità si dirà infra).
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Esso, tuttavia, ad avviso di questo giudice non può dare luogo a risarcimento poiché, sul piano
causale, non ha spiegato effetto alcuno. L'attore I., infatti, dopo essere stato dimesso dallo
specialista oculista alle ore 9:20 del 3.10.2002, si presentò nuovamente al Pronto Soccorso
dell'Azienda convenuta alle ore 3:51 del giorno successivo: vale a dire meno di diciotto ore dopo la
prima visita. Dunque egli - fortunatamente - non tenne in conto l'indicazione ricevuta e, spinto
dall'aggravarsi del proprio male, tempestivamente tornò a rivolgersi alle cure del P.S. dell'Ospedale
di *.
Per la considerazione che precede (carenza di nesso causale fra la negligenza e il danno) la domanda
proposta nei confronti del Dr V. deve essere respinta. Ma l'inesatto adempimento di cui sopra appare
a questo giudice giusto motivo (ex art. 92 c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis al presente
giudizio) di integrale compensazione delle spese relative al rapporto processuale I.-V.
*
L'attore deve invece essere integralmente risarcito dai convenuti Dottoressa …. e Azienda
Ospedaliera di * del danno cagionatogli dall'inesatto - per negligenza, imprudenza o forse anche
imperizia - adempimento della sanitaria, del quale l'Azienda Ospedaliera deve rispondere ai sensi
dell'art. 1228 c.c.
[Sulla natura contrattuale della responsabilità sanitaria]
Prima di approfondire l'esame delle censure che possono muoversi all'operato della Dott.ssa F.,
appare necessario prendere posizione in ordine a orientamento recentemente espresso da Giudice di
altra Sezione (I Civile) di questo Tribunale (sent. 17.7.2014), così massimato: <<Il tenore letterale
dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la
responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non
costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura)
venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che,
dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare)… Se dunque il
paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in
“contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il
convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi
costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che l’attore ha l’onere di provare; se nel caso suddetto oltre al
medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto
illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il
medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere
probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che,
essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità),
qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in
solido al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c.>>.
La norma in questione, l'art. 3 co. I del D.L. 158/2012 come sostituito dalla legge di conversione n.
189/2012, che, secondo l'interpretazione proposta dal Giudice della Prima Sezione Civile del
Tribunale di Milano con la sentenza in data 17.7.2014, impedirebbe ora di qualificare come
contrattuale la responsabilità del medico ospedaliero, e, secondo precedente pronunzia del
Tribunale di Torino (in data 26.2.2013), avrebbe <<gettato alle ortiche>> la costruzione
giurisprudenziale del contatto sociale come fonte di obblighi e responsabilità di natura contrattuale,
così recita: <<L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si
attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde
penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043
del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene
debitamente conto della condotta di cui al primo periodo>> (enfatizzazioni di questo estensore).
Il testo originario dell'art. 3 co. I del decreto-legge Balduzzi (n. 158/2012, elaborato in sede
governativa), prima di essere come sopra sostituito dalla legge di conversione (n. 189/2012,
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elaborata invece in sede parlamentare), era il seguente: <<Fermo restando il disposto dell'articolo
2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell'attività dell'esercente le professioni
sanitarie il giudice, ai sensi dell'articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare
dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla
comunità scientifica nazionale e internazionale>>.
Proprio la differente formulazione delle due norme (quella originaria facente riferimento alla
disciplina del contratto d'opera intellettuale e dell'adempimento delle obbligazioni, e quella della
legge di conversione facente invece riferimento alla norma che afferma la responsabilità
extracontrattuale di chiunque cagioni ad altri, con dolo o con colpa, un danno ingiusto), unitamente
alla opinione che <<L'interprete non pare autorizzato a ritenere che il legislatore abbia ignorato il
senso del richiamo alla norma cardine della responsabilità da fatto illecito, nel momento in cui si è
premurato di precisare che, anche qualora l'esercente una professione sanitaria “non risponde
penalmente per colpa lieve” (del delitto di lesioni colpose o di omicidio colposo) essendosi attenuto
alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, “in tali casi resta
comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile">> hanno indotto il Giudice della
Sezione I Civile del Tribunale di Milano (e, prima di lui, oltre al cit. Tribunale di Torino, anche il
Tribunale di Varese: sent. 26.11.2012 n. 1406) a porsi in contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale
della Suprema Corte di Cassazione, consolidatosi nel tempo e ribadito, anche dopo l'entrata in vigore
della legge di conversione del decreto Balduzzi, secondo il quale la responsabilità professionale del
medico rientra nel genus della responsabilità contrattuale (Cass. Sez. VI Civ. 17.4.2014 n. 8940;
Cass. 19.2.2013 n. 4029).
In particolare, con l'ordinanza 17.4.2014 n. 8940, la Corte di Cassazione aveva affermato che
<<L'art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione
8 novembre 2012, n. 189, … non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la
configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente
extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve>>.
A tale orientamento del Giudice della Nomofilachia la pronuncia di Trib. Milano Sez. I Civ. obietta,
in sostanza, che l'interprete deve presumere il Legislatore consapevole e dunque, con riguardo alla
norma in esame, ritenere che volutamente abbia richiamato l'art. 2043 c.c., al fine di ricondurre, una
volta per tutte, la disciplina della responsabilità del medico ospedaliero nel quadro di quella
extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c., intenzionalmente soppiantando l'elaborazione
giurisprudenziale (di merito e di legittimità) affermatasi nel precedente quindicennio circa la
responsabilità da contatto sociale.
La tesi sopra riassunta non è condivisa da questo giudice (della Sezione V Civile del Tribunale di
Milano).
L'orientamento interpretativo della Sezione I Civile del Tribunale di Milano si fonda - come rilevato
- sul postulato che il Legislatore agisca sempre in modo consapevole e razionale.
Conseguentemente, secondo quel Giudice, deve escludersi che l'inciso contenuto nell'art. 3 co. I del
D.L. Balduzzi, come sostituito dalla legge di conversione n. 189/2012, possa essere ritenuto frutto
di una mera "svista".
Detto orientamento, tuttavia, non può fare a meno di attribuire al medesimo Legislatore altra, non
meno grave, svista: quella consistente nell'aver del tutto dimenticato di distinguere la disciplina
applicabile ai casi in cui il paziente si sia rivolto direttamente e personalmente a un medico di sua
fiducia, per i quali, come correttamente afferma Trib. Milano Sez. I, 17.7.2014 cit., il regime della
responsabilità per i danni causati nell'esercizio dell'attività professionale medica rimane quello
dettato dall'art. 1218 c.c.1, dalla disciplina da applicarsi invece ai casi in cui il paziente si sia
1
<<In tal caso il medico è legato al paziente da un rapporto contrattuale (diverso sia dal rapporto che lega il sanitario
alla struttura nella quale opera, sia dal rapporto che intercorre fra il paziente e la struttura) e pertanto la sua
responsabilità risarcitoria ben può (e deve) essere ricondotta alla responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.>>:
così Trib. Milano Sez. I, 17.7.2014 cit.;
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rivolto alla struttura sanitaria (ospedale, clinica, ambulatorio) e non al medico, per i quali, in
conseguenza dell'entrata in vigore della norma in questione (L. 189/2012 cit.), <<il criterio
attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va
individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.>> (Trib. Milano Sez. I
cit.).
L'interpretazione additiva proposta dal Giudice della Prima Sezione del Tribunale di Milano,
risultando sostanzialmente manipolativa della norma in esame (che in realtà tace sulle fattispecie di
responsabilità contrattuale e non menziona la degenza ospedaliera o altro rapporto con struttura
sanitaria quale proprio presupposto di fatto), pare contrastare anch'essa con la presunzione di
consapevolezza di cui sopra e si presta, perciò, alla medesima critica che essa rivolge
all'interpretazione fatta propria da Cass. n. 8940/2014 cit., che limita la portata della norma in
parola alla riaffermazione del principio che, nel giudizio risarcitorio civile, diversamente che in
quello penale, et levissima culpa venit.
Introducendo la distinzione di cui sopra (non presente nel dato normativo), l'interpretazione che si
tenta qui di confutare finisce col tenere in vita la categoria delle fattispecie originate da contatto
sociale (per differenziarne il trattamento) proprio nel momento in cui ne afferma intervenuto il
tramonto definitivo.
Alle considerazioni che precedono può aggiungersi che il primo comma dell'art. 3 del D.L. Balduzzi
come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve
dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica. L'ossequio alla lettera della nuova disposizione dovrebbe
comportare anche adeguata valorizzazione dell'incipit dell'inciso immediatamente successivo alla
proposizione che esclude la responsabilità penale del sanitario in detti casi2, per effetto del quale
deve ritenersi che esso si riferisca soltanto - appunto - a "tali casi" (di colpa lieve del sanitario che
abbia seguito linee guida ecc.). In senso conforme a quanto appena osservato si è espresso il
Tribunale di Brindisi con sentenza in data 18.7.2014. Che aggiunge doversi escludere l'efficacia
retroattiva della norma de qua (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale): con
conseguente inidoneità dell'art. 3 co. I D.L. 158/2012 come sostituito dalla L. 189/2012 a
regolamentare rapporti - quale quello oggetto del presente giudizio - venuti a esistenza nella
vigenza del precedente quadro normativo-giurisprudenziale.
D'altra parte, secondo questo il giudice, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista
l'azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una
volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il (solo3) regime della
responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1218 c.c. e
così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato
proposizione univoca (come per es. "la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria per
l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata
dall'art. 2043 del codice civile") anziché il breve inciso in commento.
Insomma, pur non essendo qui d'aiuto il noto brocardo ubi lex voluit dixit, poiché il Legislatore,
effettivamente, aliquid dixit, non può comunque ritenersi - ad avviso di chi scrive - che la locuzione
meramente "eccettuativa" (così Trib. Brindisi cit.) di cui trattasi abbia inequivocabilmente reso
manifesta la volontà del Legislatore stesso di negare la configurabilità di responsabilità contrattuale
in capo al medico ospedaliero ets.
Inoltre, ritenere che l'esercente la professione sanitaria, ogni qual volta svolga la propria attività
all'interno di una struttura, sia tenuto, nei confronti del paziente, a rispettare soltanto il precetto
generale dell'art. 2043 c.c. (sintetizzabile nel comando di non nuocere al prossimo: alterum non
2
inciso che, si rammenta, suona così: "In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice
civile";
3
è qui il caso di segnalare che, secondo copiosa giurisprudenza (di merito e di legittimità), la responsabilità ex
contractu dell'esercente la professione sanitaria può concorrere con quella ex delictu di cui all'art. 2043 c.c.;
29
laedere), valido per la totalità dei soggetti, anche non esercenti la professione sanitaria, e non debba
invece rispettare l'obbligo di diligenza professionale posto dall'art. 1176 co. II c.c., appare a questo
giudice oltremodo riduttivo della funzione sociale dell'esercente la professione sanitaria.
Infine, se è vero che dall'opzione interpretativa che esclude l'applicabilità della disciplina della
responsabilità contrattuale all'attività dell'esercente la professione sanitaria in ambito ospedaliero
discendono conseguenze sia in tema di riparto dell’onere di allegazione e prova (che diverrebbe
assai più gravoso per il danneggiato), sia in ordine al termine di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno (che risulterebbe dimezzato), e che tali conseguenze appaiono, al Giudice
della Prima Sez., coerenti con l'intento del Legislatore di contenere la spesa pubblica e di arginare il
dilagante fenomeno della “medicina difensiva" (che su detta spesa incide), è altresì vero che
quell'opzione comporterebbe l'inapplicabilità al sanitario del limite alla responsabilità del prestatore
d'opera posto dall'art. 2236 c.c. (in materia contrattuale)4, ciò che - ad avviso di chi scrive - darebbe
nuova linfa proprio a quell'atteggiamento "difensivo" che in realtà si vorrebbe debellare.
Dunque, neppure l'argomento della ratio legis appare poter sostenere l'opzione interpretativa che
sottrae l'attività del sanitario al regime della responsabilità contrattuale.
Non resta, perciò, che adeguarsi alla già ricordata interpretazione proposta da Cass. 17.4.2014 n.
8940, secondo cui la volontà del Legislatore oggettivatasi nel dato normativo altro non è che quella
di escludere la responsabilità penale del sanitario (che abbia seguito le linee guida ecc.) in caso di
colpa lieve, tenendo però al contempo aperta la possibilità che - anche in caso di assoluzione penale
per levità della colpa - al danneggiato possa spettare un risarcimento civilistico (secondo il
brocardo: in lege aquilia et levissima culpa venit).
*
Per le considerazioni che precedono questo giudice ritiene di non discostarsi dal proprio precedente
orientamento (conforme all'insegnamento della Cassazione e alla giurisprudenza della Sez. V civ.
del Tribunale di Milano) e di inquadrare la fattispecie oggetto di causa nell'ambito della disciplina
della responsabilità contrattuale.
Si continua cioè a ritenere che sia l'obbligazione del nosocomio nei confronti del paziente, sia quella
del medico, ancorché non fondate, talvolta l'una, talvolta l'altra, su una stipulazione negoziale di tipo
ordinario, ma su un mero contatto sociale, abbiano comunque natura contrattuale, atteso che a detto
contatto si ricollegano specifici obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che
siano tutelati gli interessi (nella fattispecie quello preso in considerazione dall'art. 32 Cost.) che sono
emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (Cass. Sez. 3, 19.4.2006 n. 9085).
Con specifico riguardo alla responsabilità dell'ospedale può osservarsi che, secondo Cass. Sez. 3,
14.6.2007 n. 13953, essa può derivare, oltre che dall'inadempimento delle obbligazioni direttamente
a suo carico (ai sensi dell'art. 1218 c.c.), anche, in virtù dell'art. 1228 c.c., dall'inadempimento della
prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, o dall'infermiere, quali suoi
ausiliari necessari, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un
collegamento tra la prestazione da costoro effettuata e la sua organizzazione aziendale. Nello stesso
senso si sono espresse anche Cass. Sez. III, 3.2.2012 n.1620 e Cass. Sez. III, 13.4.2007 n. 8826.
*
Nel caso in esame, secondo la valutazione dei CTU, sussistono elementi di colpa a carico della
Dottoressa M.P. F. dell'Ospedale di *, che visitò I: quando questi si presentò per la seconda volta al
Pronto Soccorso (meno di diciotto ore dopo la prima visita).
Gli Ausiliari del giudice ravvisano tali elementi nel "non aver consigliato una nuova valutazione
oculistica a fronte di una situazione clinica sicuramente aggravata rispetto alla prima valutazione
specialistica", nell'aver ignorato la pericolosità di una cheratite microbica in rapido peggioramento e
che essa necessita di urgenti cure, nonché nel non avere neppure interpellato telefonicamente lo
specialista oftalmologo di turno.
4
per l'art. 2236 c.c. "se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera
non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave";
30
Ciò ha comportato - secondo i CTU - un ritardo di almeno sedici ore nell'inizio delle cure mirate
rese necessarie dal rapido aggravamento del quadro clinico.
Le corrette cure, se diligentemente e tempestivamente prestate, avrebbero determinato una riduzione
dell'estensione e della perdita tessutale della cicatrice corneale (relaz. CTU, pag. 5).
I Consulenti stimano il danno iatrogeno patito da I. in conseguenza di tale ritardo in termini di 3-5
punti percentuali dell'integrità psicofisica (danno biologico permanente), ma escludono che l'attore
abbia patito invalidità temporanea o inabilità (lavorativa) specifica causate dall'operato della
convenuta. Essi inoltre affermano che le spese mediche documentate in atti sarebbero state
comunque necessarie, anche in assenza della colpa di cui si è detto, alla quale dunque non sono
legate da nesso eziologico.
Tale stima dei CTU è contestata dalla difesa di parte attrice, che valuta invece il danno iatrogeno
permanente nella misura del 15-20%; la difesa dell'attore inoltre sostiene che alla Dottoressa F. sia
da addossarsi anche la responsabilità per invalidità temporanea, per danno estetico, "morale",
"esistenziale" e patrimoniale da diminuite chance di guadagno futuro.
In proposito osserva il giudice che, come chiarito dai CTU nell'udienza 22.12.2011, una cheratite
batterica del tipo di quella che colpì I., "anche se trattata correttamente fin dagli esordi, ha sempre
esiti invalidanti": produce opacità, perdita tessutale e danno funzionale (cfr. verb. ud. cit.).
Essendo pacifico che l'insorgenza della patologia non sia in alcun modo imputabile ai convenuti, ma
solo l'aggravamento di essa determinato dal ritardo diagnostico, deve osservarsi che l'attore, dopo
essere stato visitato, alle ore 3.51 del 4.10.2002, dalla F. (cui era colposamente sfuggita l'evoluzione
ingravescente dell'infezione), si presentò ad altra visita, presso la 2^ Divisione di Oculistica
dell'Ospedale …. e Oftalmico di Milano lo stesso giorno 4.10.2002, facendo ingresso in "reparto
d'urgenza", dove, il successivo 5.10.2002, gli venne diagnosticato "ampio ascesso corneale con
perdita di sostanza centrale" in OS (cartella clinica doc. 3 att.).
Dunque il ritardo nell'inizio delle cure appropriate al caso, imputabile alla F., spiegò effetti solo per
alcune ore. L'esiguità di tale ritardo, come illustrato dai CTU, non priva il medesimo di efficacia
causale in relazione alla menomazione dell'integrità psico-fisica residuata a carico dell'I.. Ma certo
impedisce che ai convenuti possano essere imputate per intero le conseguenze, temporanee e
permanenti, della menomazione riportata dall'attore.
Ritiene perciò questo giudice che, se appare eccessivamente contenuta la stima del danno biologico
iatrogeno permanente compiuta dai CTU (3-5%), atteso che anche i convenuti riconoscono, nei loro
scritti difensivi, che la patologia in questione è soggetta a "variazioni importanti in un breve lasso
temporale", le conseguenze del ritardo de quo non possono, ad avviso del giudicante, aver avuto,
sull'integrità psicofisica dell'attore, già precedentemente colpito dalla cheratite microbica, incidenza
superiore al 7%.
Così come non pare potersi stimare l'invalidità temporanea (conseguita al ritardo diagnostico)
superiore agli otto (8) giorni di ricovero affrontati dall'I., nella residua parte essa apparendo
costituire conseguenza ordinaria della patologia pregressa dell'attore.
Con riguardo alla liquidazione di tali danni osserva questo giudice che, in presenza dei criteri dettati
dalla legge n. 57 del 2001 (poi trasfusi nell'art. 139 del Codice delle Assicurazioni di cui al d.lgs.
7.9.2005, n. 209) per la quantificazione del ristoro delle cd. microlesioni (tali essendo quelle fino al
9% della integrità psico-fisica della persona) prodotte da incidenti stradali, appare doveroso
(nonostante il contrario pronunciamento, in questo processo non giuridicamente vincolante, e
neppure astrattamente convincente5, contenuto in C.Cost. 6.10.2014 n. 235) che il giudice,
nell’esercizio della discrezionalità attribuitagli dall’art. 1226 c.c., si uniformi a essi anche al di fuori
delle fattispecie cui la legge citata si riferisce espressamente.
5
attesa l'incomparabilità (ritenuta da questo giudice), per la loro notevolmente diversa rilevanza costituzionale, de
"l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato" derivante da lesione del diritto alla salute con "quello, generale e
sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi";
31
Ritiene il giudicante che l'interprete chiamato a procedere a liquidazione equitativa di danno
all'integrità psico-fisica, avendo avuto indicazione dal Legislatore del 2001 circa il valore monetario
da attribuire alla menomazione del bene salute (la cui consistenza ontologica non muta a seconda
della sua eziologia, né della collocazione cronologica), non possa preferire parametri di propria
concezione a quelli legali.
L'esigenza di doveroso ossequio all'indicazione del Legislatore discende, a parere di chi scrive,
dall'insussistenza di ragioni che possano giustificare il ricorso a diversi metri di valutazione dei
danni alla persona a seconda delle circostanze in cui essi si siano verificati: il bene salute, oggetto di
espressa tutela costituzionale, appare infatti meritare il medesimo risarcimento quale che sia
l’eziologia che ne abbia determinato la menomazione. E, in assenza di una fondata ragione di
diversificazione del trattamento risarcitorio, apparirebbe in contrasto con lo spirito di una delle
norme cardine del nostro ordinamento, costituita dall’art. 3 della Costituzione, il ricorso a diversi
criteri valutativi per fattispecie tra loro analoghe nella qualità delle conseguenze.
Le considerazioni che precedono appaiono trovare conferma nell'intervento legislativo di cui al D.L.
n. 158/2012 convertito con modificazioni nella L. 8.11.2012 n. 189, che, all'art. 3 comma III - non
applicabile ratione temporis alla presente fattispecie - stabilisce che, anche in caso di responsabilità
sanitaria, il danno biologico deve essere risarcito secondo i criteri di cui agli artt. 138 e 139 del
Codice delle Assicurazioni.
Secondo dette Tabelle di legge, una menomazione di sette (7) punti percentuali di invalidità
permanente arrecata a persona che, al momento della cessazione dell'invalidità temporanea, aveva come I.6 - l'età di 19 anni, deve essere risarcita con la somma di € 10.109,25.
Il risarcimento del danno biologico temporaneo, come sopra ritenuto (otto gg. di i.t.a.), deve essere
liquidato - giusta i predetti parametri legali - nell'importo di € 371,44.
Quanto ai pregiudizi "morali" (sofferenze fisiche e turbamento psichico) ed "esistenziali" (alla vita
di relazione), deve osservarsi che il loro ristoro è ricompreso nella somma liquidata a titolo di
risarcimento del danno biologico (Cass. SU 11.11.2008 nn. 26972-5).
Né risulta dedotta alcuna concreta lesione di (altro7) interesse preso in considerazione da norma
costituzionale, ciò che esclude la configurabilità di un ulteriore danno non patrimoniale risarcibile.
Quanto al danno patrimoniale infine, nulla può riconoscersi in favore di M. I. a titolo di risarcimento
del danno patrimoniale da diminuite chance di guadagno, atteso che è incontroverso che egli, dopo
le vicende per cui è causa, si laureò in economia e attualmente (da vari anni) lavora presso studio di
commercialista. Né può disporsi il rimborso di spese (mediche) passate o future, giacché - come
affermato dagli Ausiliari del giudice - esse sarebbero state comunque da sostenersi da parte
dell'attore in conseguenza della patologia autonomamente contratta dall'attore, e non paiono essere
state determinate dal ritardo diagnostico.
Sugli importi come sopra riconosciuti per il risarcimento del danno biologico iatrogeno debbono
conteggiarsi in favore dell’attore anche gli interessi compensativi del ritardo con cui egli ottiene il
risarcimento del danno.
Tali interessi, in ossequio all’insegnamento di Cass. SU n. 1712/95, volto a evitare ingiustificati
arricchimenti, sono da calcolarsi in misura legale sul valore capitale del danno “devalutato”
all’epoca del suo verificarsi, e poi via via sul capitale incrementato in misura proporzionale al
decremento del potere di acquisto della moneta. In concreto, con l’ausilio di strumento informatico,
si è provveduto a rivalutare annualmente l’importo delle menzionate voci di danno a partire dalla
data della loro verificazione (ottobre 2002), applicando l’indice ISTAT dell'epoca corrispondente, e,
con identiche cadenze, sono stati calcolati, e poi sommati fra loro, gli interessi al tasso legale su tali
importi annualmente crescenti.
Il risultato di tale operazione, eseguita mediante strumento informatico, è pari a complessivi €
2.641,25 (€ 2547,52 + 93,73).
6
7
nato il 9.8.1983;
diverso dal già considerato bene salute;
32
M.P. F. e l'Azienda Ospedaliera di * debbono pertanto essere condannati, in solido fra loro, a pagare
all'attore, a titolo di risarcimento del danno, la complessiva somma di € 13.121,91, oltre successivi
interessi compensativi in misura legale da calcolarsi sull'importo capitale attualizzato di € 10.480,69
dal 28.7.2014 (data del passaggio in decisione della presente controversia) fino al saldo effettivo.
*
Le spese processuali relative al rapporto fra I. e i convenuti F. e Osp. * del presente giudizio
seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.) e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo,
giusta il D.M. 10.3.2014 n. 55, tenendo conto della fascia tariffaria relativa all'importo della
condanna, della qualità della difese, della quantità di questioni trattate.
Analogamente gli oneri di CTU, atteso l'esito complessivo del processo, debbono essere
definitivamente posti a carico dei predetti convenuti F. e Az. Osp. *.
*
La presente sentenza è immediatamente esecutiva per legge (art. 282 c.p.c.).
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni altra
domanda o eccezione assorbita, disattesa o respinta:
assolve C. V. dalla domanda di condanna al risarcimento dei danni nei suoi confronti proposta da M.
I., a spese compensate;
condanna M.P. F. e Azienda Ospedaliera di *, in solido fra loro, a pagare a M. I. la somma di €
13.121,91, oltre successivi interessi compensativi in misura legale da calcolarsi sull'importo capitale
attualizzato di € 10.480,69, dal 28.7.2014 fino al saldo effettivo;
condanna M.P. F. e Azienda Ospedaliera di *, in solido fra loro, a rifondere a M. I. le spese
processuali, liquidate in € 4700,00 per compensi (da maggiorarsi di IVA e CPA) e in € 240,00 per
esborsi;
pone le spese di CTU, come già liquidate in corso di causa, definitivamente a carico di M.P. F. e
Azienda Ospedaliera di *, in solido fra loro.
Sentenza esecutiva.
Milano, (in decisione il) 28.7.2014.
Il giudice
Andrea Manlio Borrelli
33
-
Anche dopo la legge Balduzzi, la responsabilità medica è contrattuale
-
-
Trib. Brindisi, sentenza 18 luglio 2014 (es. Antonio Ivan Natali)
Decreto Balduzzi - colpa lieve - responsabilità ex 2043 c.c. -contrasto con
orientamento interpretativo consolidato
Se anche il Legislatore, con il decreto Balduzzi, ha voluto suggerire l’adesione al
modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in
cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno
iatrogeno esercitando l’azione aquiliana, nondimeno è indubbio che tale scelta si
pone in contrasto con l’univoco orientamento interpretativo in materia che,
muovendo le mosse da Cass. 589 del 1999, ricostruisce come contrattuale - seppur
non da contratto ma da contatto - la responsabilità dei medici e della struttura
ospedaliera.
Decreto Balduzzi - interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del
principio di effettività ex art. 24 Cost. – necessità
Il decreto Balduzzi che inerisce alle condotte di colpa lieve - per così dire
penalmente “scusabili”, perché conformate dalla comune prassi medica e per le
quali si introduce la non sanzionabilità sul piano penale, ma provviste di
permanente rilevanza dal punto di vista civilistico – deve essere oggetto di
un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di
effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost..
Opzione per la responsabilità ex art. 2043 c.c. - previsione espressa ed
esplicita – necessità
Con l’uso della locuzione con valenza eccettuativa, “fermo l'obbligo di cui
all'articolo 2043 del codice civile”, il legislatore – il cui intento era quello di
regolamentare i soli profili penali - non ha espressamente e univocamente limitato
i rimedi risarcitori esperibili, prevedendo, cioè, che, a fronte delle suddette
condotte, fosse esperibile solo il rimedio aquiliano, per contro, l’eventuale
adesione ad un modello di responsabilità (quello ex art. 2043 c.c.) diverso da
quello consacrato, in via interpretativa, ovvero quello contrattuale, richiedendo
una previsione espressa ed esplicita (del tipo.: “il medico risponde solo ex art.
2043 c.c.”).
Decreto Balduzzi - lesioni colpose lievi - cumulo dell’azione extracontrattuale
e di quella contrattuale da contatto sociale – ammissibilità
Nonostante la novella legislativa di cui al Decreto Balduzzi, nulla impedisce
all’interprete di ritenere che, a fronte di una responsabilità medica - anche per
colpa lieve - siano tutt’ora esperibili l’azione extracontrattuale, da sola, o, in
alternativa, a quella contrattuale da contatto sociale, secondo il generale principio
della cumulabilità dei due rimedi, quando venga in rilievo la lesione di diritti della
persona.
34
Decreto Balduzzi - lesioni colpose lievi – responsabilità civile - applicazione
retroattiva - inammissibilità
In ogni caso, al Decreto Balduzzi non può riconoscersi una valenza retroattiva con
conseguente inidoneità della stessa a regolamentare fattispecie perfezionatesi nella
vigenza del previgente quadro normativo.
Decreto Balduzzi - responsabilità medica per colpa grave o dolo – non –
applicazione - non ammissibile - responsabilità della struttura sanitaria –
applicazione - non ammissibile
L’ipotetica opzione legislativa per il modello aquiliano, dato il carattere circoscritto
dell’intervento normativo, varrebbe con riguardo alla sola responsabilità medica per
colpa lieve e non anche per colpa grave o dolo e non sarebbe, a fortiori, estendibile
alla responsabilità della struttura sanitaria.
SENTENZA n°
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di B., in persona del giudice Dott. Antonio Ivan Natali, ha emesso la
seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. …/06 del Ruolo Generale promossa
DA
O. F., con l’avv. omissis
- ATTORE CONTRO
AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE B./1, con gli avv.ti omissis CONVENUTA FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione, notificato in data 13 settembre 2006, parte attrice evocava in
giudizio, dinanzi a questo Tribunale, la ASL di B. n. 1, per ivi sentir accogliere nei
suoi confronti le seguenti conclusioni: “1. Condannare l’Azienda Unità Sanitaria
Locale BR/1, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218, 1223, 2049 c.c. e comunque, in
via residuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c., a risarcire l’attore tutti i danni morali e
materiali, ivi compresi quello biologico, esistenziale ed alla vita di relazione subiti a
causa dell’imprudenza, imperizia e negligenza del personale sanitario da essa
dipendente, col pagamento in suo favore della complessiva somma di € 225.712,00 di
cui € 160.000,00 per danno patrimoniale, € 19.175,00 per danno morale ed €
46.537,00 per danno biologico esistenziale ed alla vita di relazione, o di quell’altra
somma anche maggiore che sarà accertata e quantificata in corso di causa, anche con
ricorso al criterio equitativo e di cui all’art. 1226 cod. civ., oltre interessi e
rivalutazione monetaria dalla dell’infortunio al dì del completo soddisfo; 2)
Condannare altresì la medesima Azienda Unità Sanitaria Locale BR/1 a versare ad O.
F. la somma di € 1.710,60 per rimborso di spese mediche, trasporto, assistenza,
consulenza e cure fisioterapeutiche; 3) condannala infine alla rifusione delle spese e
competenze del giudizio.”
35
A sostegno delle proprie richieste l’attore esponeva:
- che, in data 31 gennaio 2004, sarebbe stato colto improvvisamente da una crisi
convulsiva con perdita di coscienza, sicchè si sarebbe reso necessario l’intervento del
servizio sanitario d’urgenza e d’emergenza 118;
- che il personale sanitario del 118 intervenuto sul posto, nel trasferire il paziente dal
suo letto per stenderlo sul pavimento, onde procedere alla sua rianimazione, non
sarebbe riuscito a sorreggerlo, causandone la caduta al suolo, e in conseguenza di ciò,
la frattura e la lussazione della testa dell’omero destro della spalla;
- che i sanitari del nosocomio convenuto avrebbero diagnosticato erroneamente solo la
frattura della testa dell’omero destro, omettendo di rilevarne la lussazione ed avrebbero
pertanto prescritto l’immobilizzazione con reggibraccio per 30 gg e, successivamente,
un trattamento con tutore ortopedico;
- che, all’esito delle dimissioni, l’attore, persistendo la forte sintomatologia algica e la
limitazione funzionale dell’arto, si sarebbe sottoposto ad ulteriori accertamenti dai
quali sarebbe emersa la lussazione posteriore della testa omerale della spalla destra,
che avrebbe comportato la necessità di un intervento chirurgico di riduzione;
- che tale intervento sarebbe stato eseguito il 6 maggio 2004 presso il Centro
Ortopedico di Perugia.
Da ciò la responsabilità dell’Azienda Sanitaria Locale B./1 nei propri confronti per la
lesione riportata alla spalla destra a cagione dell’urto contro il pavimento, così come la
responsabilità del personale sanitario del nosocomio convenuto, per avere
colpevolmente omesso di diagnosticare la lussazione della spalla destra, essendosi
limitati a diagnosticare la frattura dell’omero destro e quindi il suo mancato
trattamento.
Si costituiva, ritualmente, in giudizio e l’AUSL di B. n. 1 impugnando e contestando
quanto ex adverso dedotto ed eccepito, chiedendo l’accoglimento delle seguenti
conclusioni “Piaccia all’Ill.mo Tribunale adito, “contrariis reiectis”, 1 accertare e
dichiarare la nullità dell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio per
mancanza e/o assoluta inderminatezza dell’oggetto della domanda; 2 nel merito:
rigettare le domande di parte attrice perchè infondate in fatto e in diritto e, comunque,
non provate; 3 in via subordinata: nella denegata ipotesi di accoglimento, anche solo
parziale, delle domande attorea, a accertare con rigore i danni effettivamente subiti
dall’istante evitando ingiustificate duplicazioni delle voci di danno; b negare il
riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria, stante il divieto del loro cumulo
sancito dalla Giurisprudenza della Suprema Corte.
La domanda è fondata in parte qua.
Qualificazione della dedotta responsabilità della convenuta
Preliminarmente, non può aderirsi alla qualificazione prospettata dalla convenuta.
A tal riguardo, l’ente convenuto ricorda come l’art. 3, 1° comma, d.l. 158/2012,
convertito dalla legge 189/2012, c.d. “Decreto Balduzzi”, stabilisca che: “L'esercente
la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attivita' si attiene a linee
guida e buone pratiche accreditate dalla comunita' scientifica non risponde
penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui
all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del
risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo
periodo”.
Orbene, se non è priva di suggestioni la riflessione secondo cui “il Legislatore
sembr(erebbe) (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al
36
modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in
cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno
iatrogeno esercitando l’azione aquiliana” (Trib. Varese, n. 1406 del 26.11.12),
nondimeno è indubbio come tale scelta si ponga in contrasto con l’univoco
orientamento interpretativo in materia che, muovendo le mosse da Cass. 589 del
1999, ricostruisce come contrattuale - seppur non da contratto ma da contatto - la
responsabilità dei medici e della struttura ospedaliera.
Proprio tale ordine di considerazioni, deve indurre a ritenere che tale novella
legislativa che inerisce alle condotte di colpa lieve - per così dire penalmente
“scusabili”, perché conformate dalla comune prassi medica e per le quali si
introduce la non sanzionabilità sul piano penale, ma provviste di permanente
rilevanza dal punto di vista civilistico – debba essere oggetto di
un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di
effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost..
In primis, deve ritenersi che l’inciso “fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del
codice civile” costituisca un implicito riconoscimento, da parte del legislatore, del fatto
che, in tale materia, non é prefigurabile un vincolo inter partes dal quale far discendere
le obbligazioni di protezione che si assumono violate.
D’altronde, sotto altro profilo, con l’uso della suddetta locuzione con valenza
“eccettuativa”, il legislatore – il cui intento era quello di regolamentare i soli
profili penali - non ha espressamente e univocamente limitato i rimedi risarcitori
esperibili, prevedendo, cioè, che, a fronte delle suddette condotte, fosse esperibile
solo il rimedio aquiliano.
L’eventuale adesione, pure paventata in dottrina, ad un modello di responsabilità
(quello ex art. 2043 c.c.) diverso da quello consacrato, in via interpretativa, ovvero
quello contrattuale, avrebbe, per contro, richiesto una previsione espressa ed
esplicita (del tipo.: “il medico risponde solo ex art. 2043 c.c.”) che, nel caso di
specie, appunto, difetta.
Dunque, nonostante la suddetta novella legislativa, nulla impedisce all’interprete
di ritenere che, a fronte di una responsabilità medica - anche per colpa lieve siano tutt’ora esperibili l’azione extracontrattuale, da sola, o, in alternativa, a
quella contrattuale da contatto sociale, secondo il generale principio della
cumulabilità dei due rimedi, quando venga in rilievo la lesione di diritti della
persona.
Anche a non voler accedere a tale ricostruzione “correttiva”, che questo Giudice
predilige, è indubbio che non possa riconoscersi alla norma de qua una valenza
retroattiva con conseguente inidoneità della stessa a regolamentare fattispecie,
come quella di specie, perfezionatesi nella vigenza del previgente quadro
normativo.
In ogni caso, l’ipotetica opzione legislativa, dato il carattere circoscritto dell’intervento
normativo, varrebbe con riguardo alla sola responsabilità medica per colpa lieve e non
anche per colpa grave o dolo e non sarebbe, a fortiori, estendibile alla responsabilità
della struttura sanitaria.
Natura contrattuale della responsabilità medica
Dunque, il medico, anche dopo il decreto Balduzzi, continua a rispondere sulla base
delle regole della responsabilità contrattuale, e ciò, quand’anche, come già evidenziato,
difetti un vero e proprio contratto quale momento genetico del rapporto professionistapaziente.
37
Ciò, in virtù del c.d. contatto sociale che s’instaura tra il paziente ed il medico,
chiamato ad adempiere nei confronti del primo la prestazione dal medesimo convenuta
con la struttura sanitaria.
In tale contatto rinviene la propria fonte un rapporto il cui contenuto non consiste nella
«protezione» del paziente, bensì in una prestazione che si modella su quella del
contratto d’opera professionale e alla quale il medico è tenuto, in virtù dell’esercizio
della propria attività nell’ambito dell’ente ospedaliero.
Ne consegue che, data l’assenza di un contratto formale, il paziente non può invero
pretendere la prestazione sanitaria dal medico.
Nondimeno, qualora il medico in qualche modo intervenga (ad es., in quanto al
riguardo tenuto nei confronti dell’ente ospedaliero), l’esercizio della sua attività
sanitaria (e quindi il rapporto paziente-medico) non può essere differente, nei
contenuti, da quella che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico
(v. Cass., 22 gennaio 1999, n. 589).
Peraltro, il suindicato principio può essere esteso a qualunque soggetto che eserciti una
professione c.d. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale
abilitazione da parte dello Stato), specie, quando l’esercizio della stessa incida su beni
costituzionalmente garantiti, come accade in relazione all’attività medica, che incide
sul bene “salute” tutelato ex art. 32 Cost..
Nell’ipotesi del contatto sociale, deve escludersi la configurabilità di una
responsabilità di tipo aquiliano, prefigurandosi, invece, una responsabilità di tipo
contrattuale. Infatti, la responsabilità sia del medico che dell’ente ospedaliero derivano
eziologicamente dall’inadempimento delle obbligazioni ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c.
.
Quanto alla diligenza cui è tenuto il professionista, dal combinato disposto di cui
all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. si desume che “la diligenza richiesta è non
già quella ordinaria, del buon padre di famiglia (cfr. Cass., 13 gennaio 2005, n. 583)
bensì quella ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31 maggio 2006, n. 12995), e
cioè la diligenza normalmente adeguata in ragione del tipo di attività e alle relative
modalità di esecuzione” (8).
Viene, dunque, in rilievo un modello standard di condotta che implica (al di là della
veste specifica del professionista) il ricorso ad un adeguato sforzo tecnico, con
conseguente impiego di tutte quelle energie e di quei mezzi abitualmente ed
obiettivamente necessari o, anche solo semplicemente utili, in relazione alla natura
dell’attività esercitata; ciò, al duplice fine di soddisfare l’interesse creditorio e di
evitare possibili eventi dannosi.
Quanto ai limiti operativi di tale responsabilità, operano quelli tipici della
responsabilità contrattuale (9), essendo sufficiente al fine del riconoscimento della
stessa, anche la colpa lieve del debitore, ovvero il difetto dell’ordinaria diligenza.
Infatti, la limitazione di responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o
colpa grave ex art. 2236 c.c. opera limitatamente alle ipotesi che presentano problemi
tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo esclusivamente all’imperizia e
non anche all’imprudenza e alla negligenza.
L’inadempimento della struttura e la natura contrattuale della responsabilità.
In primis, quanto alla natura giuridica della responsabilità de qua – come evidenziato,
non incisa dal Decreto Balduzzi - quella dell’ente convenuto è da ascriversi al
8
9
Cass., civ., ult. cit.
Si veda Cass., civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, cit.
38
paradigma contrattuale, in quanto “l’accettazione del paziente in una struttura
(pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria-ospedaliera, ai fini del
ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di
prestazione d’opera atipico di spedalità, essendo essa tenuta ad una prestazione
complessa che non si esaurisce nella prestazione delle cure mediche e di quelle
chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dalla L. n. 132 del 1968, art. 2,
ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di
personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le
attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere” (cfr. Cass.,
civ., 19 ottobre 2006, n. 22390; Cass., civ., 24 maggio 2006, n. 12362).
D’altronde, la previsione di cui al Decreto Balduzzi, non ha in alcun modo disciplinato
tale profilo di responsabilità, intervenendo esclusivamente in materia di responsabilità
medica, con gli esiti ermeneutici già illustrati.
Ciò premesso, la responsabilità dell’ente ospedaliero ricorre 1) sia, ex art. 1218 c.c., in
relazione a propri fatti d’inadempimento (ad es., in ragione della carente o inefficiente
organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione di medicinali o del
personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero),
2) sia, ex art. 1228 c.c., per quanto concerne il comportamento specifico dei medici
dipendenti, dal momento che il debitore che, nell’adempimento dell’obbligazione si
avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, per
quanto non siano alle proprie dipendenze.
Ovviamente, si tratta di una responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto dalle
caratteristiche peculiari in quanto “prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio
rapporto di lavoro subordinato del medico con la struttura (pubblica o privata)
sanitaria, essendo irrilevante la natura del rapporto tra i medesimi sussistente ai fini
considerati, laddove fondamentale rilevanza assume viceversa la circostanza che
dell’opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell’attuazione del
rapporto obbligatorio” (Cass., civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, cit.).
Da ciò la configurabilità di una responsabilità contrattuale della struttura per il fatto
non solo del personale medico, dipendente, ma anche di quello meramente ausiliario.
Ciò spiega l’abituale richiamo del principio generale – tipico della responsabilità delle
strutture organizzative – cuius commoda eius etiam incommoda; la responsabilità
dell’ente traendo origine non già da un profilo di colpa nella scelta degli ausiliari o
nella vigilanza, bensì dal rischio insito nell’utilizzazione di terzi, nell’adempimento
delle obbligazione, gravanti sulla propria sfera giuridica (Cass., civ., 17 maggio 2001,
n. 6756; Cass., civ., 30 dicembre 1971, n. 3776. Si veda anche Cass., civ., 4 aprile
2003,
n.
5329).
Né la responsabilità dell’ente incontra il limite del fatto doloso del soggetto agente,
quale fatto idoneo a interrompere il rapporto in base al quale l’ente è chiamato a
rispondere, dal momento che, ai fini della responsabilità dell’ente, non si richiede un
nesso di causalità in senso stretto, ma é sufficiente una mera occasionalità necessaria
(Cass., civ., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., civ., 15 febbraio 2000, n. 1682).
In origine, la responsabilità della struttura ospedaliera era modulata su quella del
medico-paziente, ragione per cui si considerava indefettibile presupposto della stessa
l’accertamento di un comportamento, imputabile (colposo o doloso), del medico
operante presso la stessa.
Più recentemente, invece, il rapporto intercorrente fra il paziente e la struttura
ospedaliera è stato ricostruito, in via autonoma, da quello paziente-medico,
individuandosi il fondamento giustificativo dello stesso, in un autonomo ed atipico
contratto a prestazioni corrispettive (il già menzionato contratto di spedalità, in virtù
del quale, la struttura deve fornire al paziente una prestazione “articolata”, definita
39
genericamente di “assistenza sanitaria”, ricomprensiva, oltre che della prestazione
principale medica, anche di una serie di obblighi di protezione ed accessori che
rinvengono, nella buona fede oggettiva, ex artt.1375-1175 c.c., la propria ragion di
essere).
Da ciò l’affermarsi di un modello di responsabilità che prescinde dall’accertamento di
un condotta negligente dei singoli operatori e che trova, invece, la propria fonte,
nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente.
Questo revirement interpretativo ha trovato un autorevole avallo nella citata sentenza
delle Sezioni Unite (1.7.2002 n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici: Cass.
571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006).
Ricostruita in termini contrattuali la responsabilità della struttura sanitaria, nel rapporto
con il paziente, il riparto dell’onere probatorio risponde ai criteri, enucleati al riguardo
dalle Sezioni Unite, con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della
prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento (vedasi anche SS.UU.
28.07.2005, n. 15781), secondo cui, il creditore che agisce per la risoluzione
contrattuale e per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o
legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza
dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato
dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando
che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza
dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione,
ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative
o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare
l’avvenuto, esatto adempimento.
Ciò premesso, l’inadempimento rilevante ai fini dell’azione risarcitoria, almeno in
relazione alle obbligazioni c.d. di mezzo, non è qualunque inadempimento, ma solo
quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno; competerà poi al
debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo,
non è stato nella fattispecie causa del danno.
Nel caso de quo, parte attrice ha provato il solo inadempimento della struttura che
risponde per il fatto dei suoi ausiliari o dipendenti.
Infatti, l’espletata istruttoria ha confermato, solo in parte, la fondatezza dell’assunto
attoreo, evidenziando profili di colpa a carico degli operatori sanitari del 118,
intervenuti in loco a seguito di richiesta della moglie, ma non anche dei medici onerati
dell’attività terapeutica e diagnostica.
Deve ritenersi accertato che l’attore verso le ore 20,30 del 31 gennaio 2004, presso la
propria abitazione, veniva colto - come peraltro documentalmente attestato dal referto
medico del pronto soccorso dell’ospedale di Ostuni - da “episodio convulsivo con
perdita di coscienza” che ne aveva comportato “irrigidimento degli arti inferiori,
serramento delle mascelle, occhi sbarrati e bava alla bocca” (cfr. testimonianze di M.
A. e M. V. all’udienza del 18 gennaio 2008).
Egli, pertanto, non era in grado di spostarsi autonomamente.
In via preliminare, sul posto interveniva - come attestato dalla dottoressa A. V. nella
dichiarazione sottoscritta il 6 marzo 2006 - non una postazione con personale medico
ed infermieristico, bensì una “postazione non medicalizzata di S.”, mentre, solo
successivamente, allorquando il paziente era “già barellato”, veniva preso in carico
dalla postazione medicalizzata del 118 di Ostuni.
Già tale profilo fattuale sarebbe idoneo a radicare una responsabilità diretta della
struttura sanitaria da carente organizzazione, avendo fatto intervenire, nonostante la
gravità della sintomatologia manifestata dal F., personale non accompagnato da un
40
medico, non in grado di fornire quelle prestazioni sanitarie che la denunciata patologia
richiedeva.
Al di là ciò, deve ritenersi che l’intervento degli operatori della postazione non
medicalizzata sia stato causa della lussazione subita dall’attore.
Al riguardo, la teste A. M., moglie del F., ha riferito che all’arrivo del 118 “gli
operatori <hanno> ritenuto di doverlo spostare dal letto al pavimento”, ma
“nell’effettuare detta operazione, l’operatore che teneva mio marito per le braccia se
lo è lasciato sfuggire e mio marito è caduto rovinosamente per terra, battendo
violentemente la spalla”.
Tale circostanza veniva, altresì, confermata, alla medesima udienza da V. M..
Anche i testi I. C. e V., che si trovavano in casa del F. all’arrivo del 118, sentiti
all’udienza del 13 luglio 2010, hanno rispettivamente riferito che “il personale del
118, nel trasferire O. F. dal letto sul pavimento, non riuscendo a sorreggerlo, ne
causò la caduta a terra, facendogli urtare la spalla destra” e che “il personale del 118
tentava di posizionare sul pavimento il sig. F. per tentare di rianimarlo, all’operatore
che lo aveva afferrato per le braccia, sfuggì la presa. Il sig. F. battè la spalla destra a
terra”.
Dunque, deve ritenersi provato che la frattura omerale conseguì esclusivamente
all’impatto al suolo provocato dagli operatori sanitari.
Deve, pertanto, escludersi la fondatezza dell’assunto attoreo per cui “è probabile che il
F. sia caduto da solo a causa dell’attacco epilettico” .
Dalla testimonianza resa dal farmacista dott. P. F. all’udienza del 27 novembre 2009, è
emerso che “nel tardo pomeriggio del 31/1/04”, aveva accertato che l’attore
presentava “tremore e difficoltà nell’articolare la parola”, precisando che “nella
occasione, il F. da solo si (era) seduto a letto e si (era) sottoposto alla misurazione
della pressione e non aveva difficoltà nell’uso delle braccia né accusava dolore alle
stesse”.
Il teste I. C., all’udienza del 13 luglio 2010, ha, tra l’altro, riferito che il 31 gennaio
2004 si era recato a fare visita al F. e che lo stesso “lamentava febbre e dolori alla
testa e muoveva normalmente le 2 braccia”.
Anche l’altro teste V. L., alla medesima udienza, ha fatto presente che, nel pomeriggio
del 31 gennaio 2004, si era recato a casa del F., ricordando che lo stesso, pur avendo
“febbre e pallore al viso”, non presentava “alcun problema nei movimenti del braccio
destro”.
Tali risultanze istruttorie devono indurre a ritenere che, fino all’arrivo della postazione
non medicalizzata del 118, il F. non presentasse problemi di alcun genere agli arti e
che, pertanto, solo all’esito dell’impatto al suolo, riconducibile eziologicamente al
personale sanitario, si sia determinata la frattura della testa omerale. Tale assunto ha,
peraltro, trovato conferma anche nella consulenza tecnica d’ufficio, che, a pagina 6,
riconosce un rapporto di stretta dipendenza fra la frattura della testa omerale e la
“caduta nel corso delle manovre di soccorso”.
Non può revocarsi, in dubbio, dunque, il rapporto di causalità tra condotta ed evento
lesivo, così come la riferibilità di tale condotta all’Azienda Sanitaria convenuta.
A tal proposito, e con specifico riferimento alle attività sanitarie prestate in situazioni
di emergenza, va evidenziato come in questi casi, non potendo l’utente scegliere a chi
affidarsi, le stesse debbano essere di livello adeguato al bisogno rappresentato, e,
dunque, l’organizzazione del servizio deve garantire prestazioni professionali
qualitativamente idonee, con qualunque équipe disponibile, onde consentire una
continua ed idonea attività di soccorso. Sicché grava sull’Azienda Sanitaria, a partire
dal momento della segnalazione dell’evento alla centrale operativa 118, la
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-
-
responsabilità di garantire un intervento di soccorso qualificato ed un trasporto protetto
fino al ricovero nel presidio ospedaliero.
Nel caso de quo, tale intervento di soccorso qualificato ed adeguato alla sintomatologia
rappresentata e segnalata al servizio di 118 è mancato, né parte convenuta, pur gravata
del relativo onere, ha provato il contrario; nè ha provato la non imputabilità
dell’evento traumatico al comportamento tenuto dal personale intervenuto nel prestare
soccorso all’attore.
Né, a tal riguardo, può riconoscersi valenza dirimente ai fini dell’esclusione della
responsabilità della convenuta, alla dichiarazione postuma sottoscritta dalla dott.ssa
Adriana Villani il 6 marzo 2006, anche perché nulla dice in merito alle operazioni di
primo soccorso eseguite dal personale della postazione non medicalizzata, limitandosi
a riferire che “dal momento della presa in carico del paziente O. F., già barellato,
non si è verificata alcuna caduta al suolo”.
Quanto alla dedotta omessa diagnosi da parte dei sanitari ortopedici dell’ospedale
“Perrino” di B. della lussazione posteriore della spalla destra dell’attore, è emerso che
sia sotto il profilo diagnostico che terapeutico, la prestazione contestata è stata corretta
ed improntata alla diligenza e perizia dovute.
Nello specifico il CTU incaricato, all’esito dell’espletata consulenza ha specificato
quanto segue:
(a) “correttamente furono indirizzati gli atti sanitari urgenti e, sotto questo profilo
nessuna censura può essere mossa ai colleghi dell’Ospedale Perrino (cfr. pag 6 CTU);
(b) “già il giorno successivo al ricovero, con certezza a partire dal 2 febbraio, fu
rilevata frattura della testa omerale (da rapportarsi casualmente alla caduta nel corso
delle manovre di soccorso) nella sua porzione glenoidea e, in funzione di tanto, fu
immobilizzato l’arto. Anche sotto questo profilo quindi, atteso quanto documentato,
non emergono incongruenze assistenziali”.
Per quanto attiene più specificamente, poi, alla rilevabilità, già nel corso del ricovero,
della lussazione/sublussazione dorsale della testa omerale, il CTU riferisce che non
ricorrerebbe “alcun elemento di tipo documentale per sostenere che essa fosse
presente...in via deduttiva può peraltro ritenersi tuttavia che essa nel corso del
ricovero presso l’Ospedale Perrino non fosse presente”.
Il CTU, nonostante abbia ritenuto che la condizione patologica suddetta non fosse
presente al momento del ricovero, afferma che “anche a voler ipotizzare che tale
condizione fosse presente e che non fu diagnostica, deve segnalarsi che essa non ha
prodotto pregiudizio ulteriore al Sig. F.”.
Infatti, “le complicanze correlate alle lussazioni sono di tipo vascolare per
lacerazione dei vasi, di tipo nervoso, per neuromesi, ovvero ancora correlate alla
eventuale lacerazione delle strutture muscolo-tendinee della cuffia dei rotatori.
Ebbene nessuna di queste complicanze si è realizzata”.
In conclusione, il CTU ha accertato quanto segue:
“non sono ravvisabili profili di negligenza o imperizia nel comportamento tenuto dai
sanitari del PO Perrino”;
“con alto grado di probabilità non era possibile una tempestiva diagnosi. In ogni caso il
ventilato (ma nel concreto non esistente) ritardo diagnostico non avrebbe limitato o
evitato i postumi attualmente presenti”;
“non ricorrono postumi riconducibili ad imperizia e negligenza, per assenza delle
stesse”.
I danni risarcibili
Peraltro, è ovvio che - dovendo il danno non patrimoniale essere sempre oggetto di
accertamento, seppur in via presuntiva - ad essere risarcibile nel caso di specie non è la
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mera violazione del diritto inviolabile all’autodeterminazione dell’attrice, ma solo il
pregiudizio areddituale, riconducibile eziologicamente a tale mancata scelta.
Ciò premesso, è noto come le Sezioni Unite dell’11.11.2008 abbiano degradato il
danno biologico a mera componente descrittiva della più ampia categoria del danno
non patrimoniale.
Esso va inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica in sè e per sè considerata,
in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione.
Tale voce di danno, come precisato dalla Corte Costituzionale, n. 184/’86, non si
esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza del danneggiato, con il conseguente
paradosso, al contempo, dell’irrisarcibilità del danno biologico, subito da chi sia
sprovvisto di un’attività lavorativa e della commisurazione del danno all’occupazione
del soggetto o, persino - secondo un’inammissibile visione della società, rigidamente
ripartita per classi - dei genitori.
Come espressamente affermato anche dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, per
danno biologico deve, invece intendersi “la lesione temporanea o permanente
all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che
esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamicorelazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni
sulla sua capacità di produrre reddito”.
Ciò premesso, il danno biologico consistente nella violazione dell'integrità psico-fisica
della persona va considerato ai fini della determinazione del risarcimento, sia nel suo
aspetto statico (diminuzione del bene primario dell'integrità psico-fisica in sè e per sè
considerata) sia nel suo aspetto dinamico (manifestazione o espressione quotidiana del
bene salute).
Orbene, l’espletata consulenza medico-legale, ha consentito di acclarare la entità delle
lesioni riportate dall’attore.
Il Ctu ha accertato che, in conseguenza dell’inadempimento dei medici
l’attore ha subito lesioni permanenti nella misura del 7-10 %.
Le conclusioni del medico legale sul danno non patrimoniale di tipo biologico,
sono condivise dal Tribunale, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su
un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta,
valutata con criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici.
Quanto all’ulteriore figura descrittiva di danno non patrimoniale sub specie del
danno morale - dalla stessa pronuncia dalle Sezioni Unite del 2008 disancorato dal
dato temporale, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il
danno morale deve essere necessariamente transeunte – giovino le seguenti
considerazioni.
In primis, non può accedersi alla tesi, frutto di un’interpretazione riduttiva
delle Sezioni Unite, secondo cui il danno morale, nell’ipotesi di una sua derivazione
“biologica” non sarebbe voce autonomamente risarcibile, rispondendo le due figure
descrittive alla tutela di beni giuridici distinti, come, peraltro, evincibile anche dalle
scelte della legislazione speciale. Tal ultima, spesso, (si pensi, ad esempio, al Decreto
del Presidente della Repubblica 30 ottobre 2009, n. 181 che introduce un Regolamento
recante i criteri medico-legali per l'accertamento e la determinazione dell'individualità
e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di
tale matrice, a norma dell'articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206) non solo
continua a distinguere le due categorie di danno ma contiene una nozione legale di
danno morale. Ciò premesso, e affermata l’astratta risarcibilità del danno morale anche
quando sia ravvisabile un pregiudizio all’integrità psico-fisica, nel caso concreto nulla
può essere riconosciuto a titolo di danno morale.
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Non può, infatti, obliterarsi come secondo le Sezioni Unite del 2008, una delle ipotesi
in cui il danno non patrimoniale è considerato risarcibile, al di là della lesione di un
diritto costituzionalmente garantito, è proprio quella del danno morale da reato (quali
sono le lesioni colpose, derivanti da un sinistro stradale). In tale circostanza è
risarcibile qualunque pregiudizio areddituale (e, quindi, anche la sofferenza derivante
eziologicamente dal non poter più fare), anche se derivante dalla lesione di un interesse
privo di rilievo costituzionale, purché suscettibile di superare il generale vaglio di
meritevolezza ex art. 2043 c.c.. Infatti, la tipicità, in questo caso – affermano le Sezioni
Unite - non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma dalla stessa
scelta del legislatore di considerare risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da
reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse
leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale. Nell’ipotesi di reato assume
dignità risarcitoria l’impossibilità (totale o parziale) di svolgere una qualunque delle
attività realizzatrici della persona, quand’anche non ne sia possibile un ancoramento
costituzionale (attività ludiche, sportive, ricreative…..).
Ciò premesso, nel caso di specie, è ravvisabile, in astratto, la fattispecie del reato di
lesioni, con conseguente irrilevanza dell’individuazione di un diritto
costituzionalmente rilevante che possa definirsi leso.
Si ritiene opportuno applicare, al caso di specie, ai fini della valutazione del danno
individuato dal CTU, le tabelle di Milano, in quanto strutturate e concepite diversamente dalle attuali Tabelle di Lecce - in funzione del nuovo inquadramento
concettuale del danno non patrimoniale, quale categoria unitaria, cui sono approdate le
Sezioni Unite dell’11.11. 2008. Né la maggiore o minore diffusione delle stesse presso
i tribunali locali - a fronte della prevalenza statistica delle tabelle milanesi sul territorio
nazionale - può costituire ragione sufficiente ad impedirne l’applicazione nel caso di
specie.
D’altronde, come affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza del 2011, n. 12408,
alle tabelle milanesi deve riconoscersi “una sorta di vocazione nazionale”, anche
perché, coi valori da esse tabellati, esprimono il valore da ritenersi "equo", e cioe'
quello in grado di garantire la parita' di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la
fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entita'.
Ciò, al punto che l’applicazione delle suddette tabelle sarebbe oggetto di un vero e
proprio uso normativo.
Le nuove Tabelle - approvate il 28 aprile 2009 e aggiornate nel 2011 - presentano
profili di innovatività rispetto alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno
permanente da lesione all’integrità psico-fisica. Infatti, esse individuano il nuovo
valore del c.d. “punto” muovendo dal valore del “punto” delle Tabelle precedenti
(connesso alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d.
danno biologico permanente), aumentato in riferimento all’inserimento nel valore di
liquidazione “medio” anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla
“sofferenza soggettiva”di una percentuale ponderata (dall’1 al 9% di invalidità
l’aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34 % di invalidità l’aumento è progressivo per
punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l’aumento torna ad essere fisso al
50%), e prevedendo inoltre percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d.
personalizzazione.
Applicando le predette tabelle, il danno da invalidità permanente subito dall’attore
deve essere quantificato in euro:
€ 23.056,00 (che discendono dal valore del “punto”, relativo al danno non
patrimoniale ovvero € 2.744,81, moltiplicato per il numero dei punti di invalidità (10),
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applicato il demoltiplicatore correlato all’età, al momento dell’evento lesivo, pari a 33
anni).
Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilità temporanea – non specificatamente
quantificata dal ctu ma desumibile dall’esame della cartella clinica - in applicazione dei
suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità
assoluta è pari ad euro 96,00, si quantifica in:
a)
€ 9312,00, l’ITT, giorni 97;
b)
€ 1680,00, l’I.T.P. al 50% giorni 35, per complessivi euro 10992,00.
In totale, per i danni su indicati andrebbero liquidati all’attore complessivi € 34048,00
che derivano dalla liquidazione complessiva del pregiudizio.
Le somme rivalutate devono essere gravate degli interessi legali, da computarsi sugli
importi devalutati al momento della commissione del fatto illecito e rivalutati d’anno
in anno, sino all’effettivo soddisfo.
Il danno patrimoniale
Per quanto concerne il danno patrimoniale, da lucro cessante relativamente all’anno
2004, tale ultimo deve essere risarcito solo in parte qua.
Al riguardo, il prof. Alessandro Dell’Erba, nelle note a chiarimento del 24 giugno
2013, ha precisato che il mancato svolgimento da parte di O. F. dell’attività lavorativa
“nel periodo compreso tra aprile e settembre 2004” fu “conseguenza dell’evento”,
eppertanto dovrà “porsi in rapporto con il trauma e costituirà danno patrimoniale”.
Tale danno deve essere quantificato e liquidato in misura proporzionale al reddito
percepito dal F. presso la medesima Società per l’anno 2003, determinato, come
attestato e riportato nella dichiarazione dei redditi 2004 in atti (cfr. documento n.14
del medesimo fascicolo), in € 9.337,00.
Orbene, considerato l’intervallo per cui non ha potuto lavorare, gli deve essere
riconosciuto un danno, determinato, in via equitativa ed, in particolare, avuto riguardo
al periodo di inabilitazione al lavoro, in euro 4000,00.
A tale importo devono aggiungersi le spese mediche documentale, pari ad € 1.710,60
L’attore ha richiesto anche il risarcimento da perdita dell’attività lavorativa, atteso
che l’assenza dal lavoro durante la stagione primaverile ed estiva del 2004 e la grave
limitazione funzionale - residuata quale postumo permanente della frattura de qua avrebbero comportato, oltre alla perdita dei diritto di precedenza all’assunzione e,
quindi, della possibilità di essere inquadrato come lavoratore a tempo indeterminato,
anche l’impossibilità di continuare a svolgere una attività di lavoro di tipo stagionale,
con le mansioni di “manovale comune” o di “vetturiere”.
A tal riguardo, non può dirsi raggiunta la prova di una sufficiente compromissione
della capacità lavorativa specifica dell’attore.
In particolare, il CTU prof. A., sentito a chiarimenti sull’incidenza dell’evento
traumatico sotto tale profilo (cfr. pagina due delle note di chiarimento del 24 giugno
2013), ha evidenziato come “l’esame clinico (abbia) dimostrato difficoltà fino alla
abolizione nella retro posizione con adduzione della spalla di destra.. dolore.. e
riduzione della forza, anch’essa clinicamente accertata”, nonché come “la guida degli
automezzi richied(a) la retro posizione”.
Inoltre, nella fase della “anteroproiezione degli arti…è anche richiesta una presa
salda (e si è rilevata una riduzione della forza di presa)” e “il mantenimento per
lungo periodo della anteroposizione può evocare sintomatologia dolorosa”.
Nondimeno, il ctu ha, seppur orientativamente, quantificato la suddetta incidenza in
“misura pari alla metà del danno biologico nella precedente relazione quantificato”
(10% della totale), ovvero 5 per cento.
45
1)
2)
3)
4)
Orbene, si deve ritenere che l’accertata incidenza sulla capacità lavorativa specifica
non sia tale, per la sua modesta entità, da porsi in correlazione causale con l’eventuale
perdita della propria posizione lavorativa da parte dell’attore.
Le spese, comprese quelle di Ctu, liquidate come da dispositivo, seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da O. F.
nei confronti dell’Ausl B./, così provvede:
dichiara la responsabilità dei sanitari della convenuta Azienda Unità Sanitaria
Locale B./1 in persona del Direttore Generale e legale rappresentate pro-tempore
nei termini suesposti;
per l’effetto, condanna la convenuta al risarcimento dei danni patiti dall’attore
quantificati nella misura di € 5.710,60, a titolo di danno patrimoniale, oltre
interessi legali e rivalutazione dal fatto illecito; nonché di 34048,00, a titolo di
danno non patrimoniale, oltre interessi legali, da computarsi sugli importi
devalutati al momento della commissione del fatto illecito, ovvero al 31 gennaio
2004 e rivalutati d’anno in anno, sino all’effettivo soddisfo;
condanna, altresì, la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice, delle spese di
giudizio che liquida in complessivi € 3900,00, oltre iva e cap ed esborsi
forfettizzati come per legge;
pone, definitivamente, le spese di CTU a carico della convenuta; condannandola
alla rifusione, in favore dell’attore, delle spese di CTU.
Brindisi, 18.7.2014
IL GIUDICE
(Antonio Ivan Natali)
46
Trib. Arezzo, sentenza 14 febbraio 2013 (est. D. Sestini)
RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DELL’ESERCENTE UNA PROFESSIONE SANITARIA –
ART. 3 L. 8 NOVEMBRE 2012, N. 189 - RESPONSABILITÀ DEL MEDICO – RIFERIMENTO
ALL’ART. 2043 C.C. – ADESIONE DEL LEGISLATORE AL MODELLO DI RESPONSABILITÀ
AQUILIANA – ESCLUSIONE
L’art. 3 comma I della Legge n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell’attuale
inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure
funzionale ad una politica di abbattimento dei risarcimenti giacché la responsabilità
solidale della struttura nel cui ambito operano i sanitari che verrebbero riassoggettati al
regime aquiliano conserverebbe comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di
‘spedalità’ o ‘assistenza sanitaria’ che viene tacitamente concluso con l’accettazione del
paziente), ma si limita (nel primo periodo) a determinare un’esimente in ambito penale (i
cui contorni risultano ancora tutti da definire), a fare salvo (nel secondo periodo) l’obbligo
risarcitorio e a sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee guida e delle buone
pratiche nel concreto accertamento della responsabilità (con portata sostanzialmente
ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali).
CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI
DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Premesso che:
-gli attori, in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul figlio XXX, convenivano in giudizio
l’Azienda USL 8 di Arezzo per sentirla condannare al risarcimento dei danni subìti dal minore a
seguito alla perdita del testicolo sinistro (conseguita a tardiva diagnosi di torsione del funicolo) e di
quelli sofferti dai genitori per il comprensibile “ingiusto patimento”;
-deducevano, in particolare, che:
--alle ore 4,42 del 18.2.2007, la YYY, ricoverata presso la U.O. di Ostetricia-Ginecologia
dell’Ospedale di Arezzo, aveva dato alla luce il figlio XXX;
--alle ore 19,40 dello stesso giorno era stato eseguito un esame obiettivo del bambino dal quale era
emerso: “genitali: emiscroto sx duro di colorito bluastro, aumentato di dimensioni”;
--era stata richiesta una consulenza urologica che aveva diagnosticato un “quadro di scroto acuto”
ed aveva consigliato il ricovero in centro specializzato per eventuale asportazione chirurgica;
--il bambino era stato trasferito all’Ospedale Meyer di Firenze (con partenza da Arezzo alle ore
20,30 e arrivo a destinazione alle ore 22,10) ove, alle ore 23,59, era iniziato l’intervento chirurgico
di asportazione del testicolo sx;
--successivamente, in data 4.7.2007, “il bambino era stato sottoposto ad ulteriore intervento
chirurgico di fissazione del testicolo dx”;
-assumevano che era “del tutto evidente … un forte ritardo di diagnosi della torsione del testicolo”
che aveva “comportato la irreversibile necrosi dello stesso con conseguente necessità di asporto”,
quantificavano nella misura del 10% i postumi permanenti riportati dal bambino e quantificavano in
complessivi € 69.700,00 il risarcimento dovuto al minore e in € 10.000,00 quello dovuto a ciascun
genitore a fronte del patimento sofferto;
47
-costituendosi in giudizio, la USL 8 contestava la pretesa assumendo che “anche una maggiore
tempestività nell’effettuazione dell’intervento non avrebbe conseguito il risultato di recuperare
l’integrità anatomo-funzionale del testicolo”, in quanto “qualsiasi intervento diretto ad evitare la
necrosi è ritenuto inutile dalla maggior parte degli autori”;
-compiuta l’istruttoria con produzione documentale ed espletamento di C.T.U. medico-legale, la
causa passava in decisione all’udienza del 19.10.2012, sulle conclusioni delle parti trascritte in
epigrafe.
Rilevato che dalla relazione di c.t.u. è emerso che:
-la torsione del testicolo o torsione del funicolo spermatico è generalmente considerata
un’emergenza chirurgica, le cui conseguenze variano in relazione alla gravità della torsione, che
può essere parziale (180° o 270°) o totale o “con più giri del testicolo”;
-“le conseguenze della torsione sono, inizialmente, un’ostruzione vascolare venosa che porta
all’edema del testicolo, seguita poi a distanza dalla compressione dell’arteria e, quindi, dalla necrosi
ischemica del testicolo”;
-nel neonato, “in circa il 70% dei casi la torsione avviene prima della nascita o durante il passaggio
nel canale del parto, il restante 30% poco tempo dopo la nascita”;
-“la sintomatologia è spesso elusiva e la presentazione è spesso insidiosa, a differenza di quanto
avviene nel bambino più grande e nell’adolescente. I segni fisici variano moltissimo in funzione di
quando è avvenuta la torsione, che se avvenuta molto tempo prima della nascita può avere come
unico segno fisico un aumento della consistenza del testicolo senza altri segni infiammatori, che
sono viceversa presenti qualora l’evento sia molto recente”;
-“non esiste un accordo sulla terapia della torsione prenatale …Se la torsione è chiaramente
avvenuta in epoca prenatale, in cui la speranza di salvare il testicolo è inesistente, la maggioranza
degli urologi propende per un intervento differito, con contemporanea fissazione del testicolo
controlaterale, viceversa se la torsione sembra essere occorsa in epoca postnatale l’immediata
esplorazione dello scroto è da considerarsi obbligatoria”;
-nel caso in esame, “il dato istopatologico (che evidenzia un infarcimento emorragico del testicolo)
e le modalità di presentazione clinica (emiscroto sinistro duro, di colorito bluastro, aumentato di
dimensioni) consentono di escludere l’ipotesi di una torsione prenatale inveterata e depongono per
una torsione verificatasi durante il parto o nelle prime ore di vita del neonato”;
-“all’atto della nascita il neonato, come è prassi, veniva sottoposto ad una prima visita da parte del
pediatra neonatologo: nella scheda relativa alle ‘condizioni del bambino alla nascita’ non vengono
segnalate anomalie a carico della regione genitale; questo dato, tuttavia, non consente di affermare
con certezza né in termini di ragionevole probabilità che alla nascita non fosse presente, in fase
iniziale, una torsione del testicolo, in quanto … il quadro clinico è spesso subdolo e/o mascherato
dalla tumefazione da parto”;
-“quando viene riscontrato, alle ore 19,40 del 18.2.07, un quadro di scroto acuto, la condotta dei
sanitari della AUSL 8 di Arezzo risulta pienamente corretta”; in particolare, eseguita
immediatamente la visita specialistica urologica, “la scelta di trasferire il neonato presso una
struttura attrezzata per la chirurgia pediatrica risulta del tutto corretta, in quanto le procedure
chirurgiche e soprattutto quelle anestesiologiche richiedono, nel caso del neonato, specifiche
competenze”; egualmente corretta è risultata “la scelta di optare per una esplorazione chirurgica
dello scroto”;
-“nel mancato controllo per circa15 ore delle condizioni del neonato può ravvisarsi l’unico
elemento di censura a carico dei sanitari dell’AUSL 8 di Arezzo”;
-tuttavia, “è ragionevolmente certo che una più pronta diagnosi non avrebbe modificato in termini
decisivi la prognosi, comportando solo ipotetiche maggiori chances di salvataggio dell’organo”,
atteso che “i dati di letteratura depongono, anche nel caso di pronta diagnosi, per percentuali di
salvataggio del testicolo molto basse (che vanno, a seconda dei casi, dal 5 al 33%);
48
-“tenuto conto dei dati statistici … relativamente alla percentuale di salvataggio del testicolo anche
in caso di pronta diagnosi e del tempo necessario al trasferimento del neonato presso una struttura
specializzata, non si ritiene che la perdita del testicolo sinistro possa essere ricondotta in termini di
certezza o di ragionevole probabilità alla condotta dei sanitari dell’Azienda convenuta”;
-a seguito delle osservazioni svolte dal c.t.p. di parte attrice, il C.T.U. ha precisato che il dato
statistico del 33% di possibilità di salvataggio del testicolo è ricavato da uno studio (di Kaye JD e
coll.) che prende in rassegna solo 3 casi (di cui uno con salvataggio) che “risulta statisticamente
così poco significativa da non poter essere presa a fondamento nell’attribuzione di responsabilità”;
ha aggiunto che “la casistica descritta da Yerkes EB e coll. riporta una percentuale di salvataggio
pari allo 0%, mentre il contributo di Callewaert e Kerrebroeck, … citando alcuni dati di letteratura
in materia, relativi nel complesso a circa 150 casi di torsione perinatale, suggerisce una percentuale
di salvataggio intorno al 5%”.
Deve valutarsi, a questo punto, se il recente intervento normativo compiuto col c.d. decreto
Balduzzi e con la legge di conversione n. 189/2912 comporti una modifica dei criteri di
accertamento della responsabilità medica, finora consolidati nel senso dell’applicazione delle regole
concernenti la responsabilità contrattuale.
E’ noto, infatti, che il riferimento all’art. 2043 c.c. contenuto nell’art. 3, co. 1° della citata l. n.
189/12 ha indotto a dubitare della possibilità di continuare ad applicare in modo generalizzato i
criteri di accertamento della responsabilità contrattuale, fino a far ritenere che “il Legislatore
sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello di
responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di
contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana” (Trib.
Varese, n. 1406 del 26.11.12).
La disposizione in questione recita: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento
della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica
non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art.
2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del danno, tiene debitamente conto
della condotta di cui al primo comma”.
La norma che qui interessa è quella del secondo periodo, che dev’essere però interpretata in stretta
correlazione con quella del periodo precedente, alla quale espressamente si collega in virtù
dell’incipit “in tali casi”.
Tenuto conto che il primo periodo prevede l’esclusione della responsabilità penale (per colpa lieve)
in favore dei sanitari che si attengano alle linee guida e alle buone pratiche accreditate
(introducendo quella che -secondo i primi commenti- parrebbe integrare un’esimente speciale), la
norma del secondo periodo ha la funzione di chiarire che l’esclusione della responsabilità penale
non fa venir meno l’obbligo di risarcire il danno (in ciò sostanziandosi “l’obbligo di cui all’art.
2043 c.c.”); il terzo periodo precisa, poi, che nella “determinazione del risarcimento” deve tenersi
debitamente conto della condotta conforme alle linee guida e alle buone pratiche (condotta
rilevante, più propriamente, nell’accertamento dell’obbligo di risarcimento, mentre l’espressione
“determinazione del risarcimento” rimanda piuttosto alla quantificazione dello stesso, ossia ad un
momento che presuppone la già avvenuta affermazione della responsabilità, al quale è dunque
estranea ogni ulteriore valutazione della condotta del sanitario).
Atteso che richiamo all’art. 2043 c.c. è limitato all’individuazione di un obbligo (“obbligo di cui
all’art. 2043 del codice civile”, che equivale a dire “obbligo di risarcimento del danno”), senza
alcuna indicazione in merito ai criteri da applicare nell’accertamento della responsabilità risarcitoria
(se non che deve tenersi “debitamente conto” del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche),
non sussistono ragioni per ritenere che la novella legislativa incida direttamente sull’attuale
costruzione della responsabilità medica (“diritto vivente”) e che imponga un revirement
giurisprudenziale nel senso del ritorno ad un’impostazione aquiliana, con le consequenziali ricadute
in punto di riparto degli oneri probatori e di durata del termine di prescrizione.
49
Va considerato, al riguardo, che, per quanto l’art. 2043 c.c. costituisca la norma cardine della
responsabilità risarcitoria da fatto illecito, la concreta disciplina della responsabilità aquiliana è
contenuta altrove (segnatamente negli artt. 2697 e 2947 c.c., in ordine alla distribuzione degli oneri
probatori e al termine di prescrizione, e negli artt. 2055 e segg. c.c., in ordine alla solidarietà passiva
e alle modalità risarcitorie), così come la responsabilità contrattuale trova la sua disciplina non solo
nell’art. 1218 c.c., ma anche negli artt. 2946 (prescrizione decennale) e 1223 e segg. c.c. (quanto
alla selezione e quantificazione dei danni risarcibili); non può dunque affermarsi che richiamare un
obbligo equivalga a richiamare un’intera disciplina e deve quindi concludersi che il riferimento
all’art. 2043 c.c. (si badi: non alla disciplina dell’illecito extracontrattuale, ma esclusivamente
all’obbligo “di cui all’art. 2043 del codice civile”) sia del tutto neutro rispetto alle regole applicabili
e consenta di continuare ad utilizzare i criteri propri della responsabilità contrattuale.
Va ulteriormente considerato che, se fosse vero che il richiamo all’art. 2043 impone l’adozione di
un modello extracontrattuale, si dovrebbe pervenire, a rigore, alla conseguenza -inaccettabile- di
doverlo applicare anche alle ipotesi pacificamente contrattuali (quali sono quelle ex art. 2330 e
segg.), dal momento che il primo periodo dell’art. 3, 1° co. considera tutte le possibili ipotesi di
condotte sanitarie idonee ad integrare reato (che possono verificarsi indifferentemente sia
nell’ambito di un rapporto propriamente contrattuale, quale quello fra il paziente e il medico libero
professionista, che in un rapporto da contatto sociale) e il secondo periodo richiama tutte le ipotesi
di cui al primo periodo (“in tali casi”), senza operare alcuna distinzione fra ambito contrattuale
proprio ed assimilato; non sarebbe dunque consentita la limitazione (affermata per certa da Trib.
Varese cit.) del ripristino del modello aquiliano per le sole ipotesi di responsabilità da contatto.
Deve, allora, pervenirsi alla ragionevole conclusione che, conformemente al suo tenore letterale,
alla collocazione sistematica e alla ratio certa dell’intervento normativo (da individuarsi nella
parziale depenalizzazione dell’illecito sanitario), la norma del secondo periodo non ha inteso
operare alcuna scelta circa il regime di accertamento della responsabilità civile, ma ha voluto
soltanto far salvo (“resta comunque fermo”) il risarcimento del danno anche in caso di applicazione
dell’esimente penale, lasciando l’interprete libero di individuare il modello da seguire in ambito
risarcitorio civile.
In conclusione: l’art. 3, 1° co. l. n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell’attuale
inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure funzionale ad
una politica di abbattimento dei risarcimenti giacché la responsabilità solidale della struttura nel cui
ambito operano i sanitari che verrebbero riassoggettati al regime aquiliano conserverebbe
comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di ‘spedalità’ o ‘assistenza sanitaria’ che viene
tacitamente concluso con l’accettazione del paziente), ma si limita (nel primo periodo) a
determinare un’esimente in ambito penale (i cui contorni risultano ancora tutti da definire), a fare
salvo (nel secondo periodo) l’obbligo risarcitorio e a sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza
delle linee guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della responsabilità (con portata
sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali).
Ritenuto, pertanto, che anche nel caso in esame (concernente un’ipotesi responsabilità della USL 8
per il pregiudizio che si assume conseguito a condotta colposa dei sanitari dell’ospedale) debbano
applicarsi i criteri propri della responsabilità contrattuale (cfr. Cass. Sez. Un. n. 577/2008 secondo
cui l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto -o il contatto
sociale- e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore,
astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore l’onere di
dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato
eziologicamente rilevante), si osserva:
-non sono emerse ragioni per disattendere le conclusioni del C.T.U., il cui elaborato risulta fondato
su una disamina completa degli elementi disponibili ed esente da vizi logici o metodologici;
-risulta, dunque, condivisibile -in primo luogo- la conclusione di collocare la torsione del testicolo
in periodo perinatale, ossia al momento del parto o nelle prime ore di vita del neonato;
50
-parimenti condivisibile appare l’addebito (l’unico) del mancato controllo delle condizioni del
neonato per circa 15 ore: la convenuta -che ne era onerata- non ha provato che nell’intervallo
registrato in cartella clinica siano stati effettuati altri controlli né ha offerto giustificazioni plausibili
circa l’insussistenza di ragioni che giustificassero un controllo più ravvicinato;
-risulta corretto anche il giudizio di adeguatezza dell’operato dei sanitari a partire dal momento in
cui venne riscontrata la tumefazione bluastra dello scroto, e cioè la scelta di far effettuare con
immediatezza una visita specialistica urologica e, subito dopo, di indirizzare con urgenza il neonato
verso un centro di alta specializzazione (sicuramente più adeguato ad affrontare il caso, tenuto
conto della delicatezza della patologia insorta in un neonato nel primo giorno di vita), raggiungibile
in poco più di un’ora dall’ospedale di Arezzo;
-accertata pertanto l’esistenza di un ritardo colposo nella diagnosi (che, verosimilmente, avrebbe
potuto essere anticipata di alcune ore se il bambino fosse stato sottoposto prima al controllo), deve
escludersi tuttavia che tale ritardo abbia impedito di salvare il testicolo, causandone la necrosi e la
necessità di asportazione;
-sulla base dei dati statistici illustrati dal C.T.U., è emerso, infatti, che le possibilità di salvare il
testicolo in caso di torsione che interessi un neonato sono minime (ossia intorno al 5%, atteso che la
percentuale del 33% riferita da uno studio condotto su tre soli casi non ha significato statistico)
anche in caso di diagnosi tempestiva;
-apparendo, dunque, di gran lunga “più probabile che non” l’ininfluenza del ritardo diagnostico, non
appare possibile stabilire un nesso causale apprezzabile fra tale ritardo e la necrosi del testicolo
(tanto più che anche in caso di diagnosi più precoce l’esplorazione chirurgica avrebbe dovuto
comunque essere differita per l’evidenziata necessità di trasferire il neonato in un centro di alta
specializzazione);
-esclusa pertanto la sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva dei sanitari e il
pregiudizio sofferto dal neonato, devono rigettarsi entrambe le domande;
-le ragioni della decisione (segnatamente, l’accertata sussistenza di un profilo di colpa e la non
palese infondatezza originaria della domanda) giustificano l’integrale compensazione delle spese di
lite, ferme restando le spese di C.T.U. a carico degli attori.
P.Q.M.
- definitivamente pronunciando nella controversia promossa da YYY e ZZZ, in proprio e in nome
e per conto del figlio minore XXX, nei confronti della USL n. 8 di Arezzo, così provvede:
- rigetta le domande degli attori e compensa le spese di lite, ferme restando le spese di C.T.U. a
carico della parte attrice.
Arezzo, 14.2.2013
Il Giudice
dott. D. Sestini
51
Trib. Varese, sez. I civ., sentenza 26 novembre 2012 n. 1406 (est. G. Buffone)
R con Avv.ti C, P c/ B, con Avv. A e c/ I. s.a.s. con Avv. M.
RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DELL’ESERCENTE UNA PROFESSIONE SANITARIA –
ART. 3 L. 8 NOVEMBRE 2012, N. 189 - RESPONSABILITÀ DEL MEDICO – RIFERIMENTO
ALL’ART. 2043 C.C. – ADESIONE DEL LEGISLATORE AL MODELLO DI RESPONSABILITÀ
AQUILIANA – SUSSISTE
L’art. 3 della 189/2012 - prevedendo che nei casi in cui il medico non risponda
penalmente, comunque sia tenuto all’obbligazione civile del risarcimento, ai sensi dell’art.
2043 del codice civile - suggerisce l’adesione al modello di responsabilità civile medica
come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il
paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana.
-
FATTO
- All’odierno giudizio è applicabile l’art. 58, comma II, legge 18 giugno 2009
n. 69 e, per l’effetto, la stesura della sentenza segue l’art. 132 c.p.c. come
modificato dall’art. 45, comma 17, della legge 69/09, con omissione dello
“svolgimento del processo” (salvo richiamarlo dove necessario o opportuno per una
migliore comprensione della ratio decidendi).
- In data 11 giugno 2007, la R veniva sottoposta ad intervento chirurgico
presso l’ISTITUTO …. (d’ora in avanti: FONDAZIONE); intervento che veniva
eseguito dal dr. G per porre rimedio ad un dismorfismo nasale diagnosticato sulla
sua persona della paziente (patologia bisognosa di correzione chirurgica).
Successivamente all’operazione, l’attrice accusava sintomi che la costringevano a
rivolgersi nuovamente a struttura sanitaria (il … di …) dove veniva diagnosticata
una tubarite con deviazione del setto nasale, giusta la quale veniva eseguita una tac
massiccio facciale che evidenziava effettivamente una “marcata deviazione”, in
uno con altri rilievi negativi per la salute, bisognosi di trattamento terapeutico. In
conseguenza degli esiti riscontrati sulla sua persona, la paziente prospettava
l’inadempimento dei sanitari intervenuti, avendo riportato postumi permanenti pari
al 5%, in conseguenza dell’operazione eseguita (che lo specialista dr. … –
incaricato dalla stessa attrice - qualificava in termini di “rinoplastica”: v. doc. 6).
Presentava la citazione introduttiva del giudizio richiedendo l’accertamento della
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale dei convenuti, con conseguente
condanna degli stessi alla somma risarcitoria di Euro 12.344,81 (danno biologico,
danno morale, danno patrimoniale pari ad Euro 3.851,81 per spese sostenute).
- L’udienza di prima comparizione veniva tenuta in data 24 aprile 2009 e,
rilevata la nullità della citazione, ne veniva disposta la rinnovazione (attesa la
intervenuta violazione dell’art. 163-bis c.p.c.). All’udienza del 9 dicembre 2009,
instaurato il contraddittorio, le parti richiedevano i termini ex art. 183 comma VI
c.p.c. che venivano concessi dal giudice con ordinanza emessa in pari data. Il dott.
G si costituiva, nelle more, in Cancelleria, in data 19 novembre 2009 confermando
che, in data 11 giugno 2007, l’attrice era stata sottoposta ad intervento correttivo di
dismorfismo nasale, presso la Fondazione …, per mano dello stesso G in sala
operatoria. Contestava l’addebito di responsabilità valorizzando, in particolar
52
modo, la natura dell’intervento, di tipo estetico e non funzionale. La Fondazione …
si costituiva in data 12 novembre 2009 ed eccepiva che l’intervento era stato
concordato dalla paziente direttamente con il dr. G in piena autonomia ed al di fuori
della clinica la quale, infatti, era stata scelta dal professionista medico e non
dall’attrice. Riferiva pure che non sussisteva alcun rapporto tra la clinica e il
medico che, infatti, aveva anche scelto i collaboratori che lo avevano assistito
nell’intervento. Valorizzava, a sostegno della propria estraneità ai fatti, il fatto che
la paziente aveva pagato direttamente al medico il suo onorario. Con ordinanza del
16 aprile 2010, veniva disposta indagine peritale, per l’esecuzione della quale,
veniva nominata (dopo alcune nomina non andate a buon fine), in data 28 gennaio
2011, la dr.ssa … B, specialista in otorinolaringoiatria e fonoiatria, con studio in
Milano. Il CTU prestava il giuramento ex art. 193 c.p.c. in data 25 marzo 2011.
All’udienza del 6 luglio 2012, le parti venivano invitate a precisare le conclusioni.
-
- DIRITTO
- Preliminarmente vanno disattese le richieste istruttorie riproposte dalle parti
in sede di precisazione delle conclusioni: la consulenza tecnica, i documenti versati
in atti ed il principio di non contestazione, escludono la rilevanza delle prove orali
articolate dai litiganti. Quanto all’ultimo elemento valutativo considerato, giova
ricordare che la non contestazione costituisce un comportamento univocamente
rilevante, con effetti vincolanti per il giudice, il quale deve astenersi da qualsivoglia
controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e
deve, perciò, ritenere la circostanza in questione sussistente, in quanto
l'atteggiamento difensivo in concreto spiegato espunge il fatto stesso dall'ambito
degli accertamenti richiesti (Cass. civ., sez. VI, ordinanza 21 agosto 2012 n. 14594,
Pres. Goldoni, est. Giusti). Trattasi di principio oggi scolpito nell’art. 115 c.p.c. ma
già vigente nell’Ordinamento prima ancora delle modifiche introdotte dalla Legge
18 giugno 2009 n. 69: ecco perché, d’altronde, la giurisprudenza prevalente reputa
che la recente modifica dell’art 115 c.p.c. abbia portata interpretativa e non già
innovativa (Corte Appello Milano, sez. IV civ., sentenza 29 giugno 2011, Pres.
Fabrizi, est. Marini; Trib. Piacenza, sentenza 23 febbraio 2012, n. 114, est. G.
Morlini). E’, dunque, provato che R si rivolse direttamente al dr. G per eseguire un
intervento di correzione chirurgica di dismorfismo nasale; il dr. G eseguì
l’operazione chirurgica presso la clinica Fondazione .. da egli scelta, come luogo
deputato ad ospitare l’intervento, mediante scelta dei collaboratori e con compenso
corrisposto direttamente allo stesso da parte della paziente.
- Sullo sfondo fattuale così ricostruito, occorre fare chiarezza attorno al
concreto intervento eseguito al fine di verificare la sussistenza o meno di un danno
iatrogeno che possa essere attribuito, a titolo di responsabilità, al dr. G. In questa
indagine, è sicuramente utile e necessario attingere al bacino della perizia in atti, la
quale si lascia apprezzare per la oggettività delle operazioni eseguite, la cura nella
disamina dei documenti di lite e la coerenza degli snodi seguiti dall’ausiliario: ogni
critica all’elaborato va dunque decisamente disattesa, traducendosi le doglianze in
un tentativo di sostituire alla valutazione oggettiva del perito quella soggettiva della
parte, secundum eventum litis.
- In primo luogo, come lo stesso specialista incaricato dalla parte attrice
riferisce (v. doc. 6), il CTU accerta che si trattò di un intervento di tipo estetico e
non funzionale. Secondo il perito «l’intervento chirurgico di rinoplastica,
53
giustamente indicato per la situazione della paziente, fu eseguito (…) con scopi
solo ed esclusivamente legati all’aspetto estetico del volto e non al ripristino della
funzionalità nasale, da quanto risulta nella cartella clinica».
- In secondo luogo, il Ctu conduce una indagine diretta a verificare la
presenza di disturbi negativi sulla persona della paziente riconducibili causalmente
all’intervento eseguito sulla stessa. Ebbene, in questa verifica, il consulente afferma
che «non è la deviazione del setto nasale diagnosticata (…) da considerarsi
causalmente riferibile all’intervento dell’11/6/07, bensì la sinechia turbino settale
dx in esiti di incisione trans cartilaginea, frenulotomia e asportazione di piccola
porzione di sottosettocartilagineo a determinare la stenosi della regione valvolare
anteriore destra. La deviazione del setto nasale, come risulta dalla Tac del
massiccio facciale, attraverso una corretta valutazione dei rapporti cefalometrici,
risulta essere preesistente all’intervento chirurgico. La formazione della sinechia
turbino settale ha peggiorato una situazione di difficoltà respiratoria nasale già
presente, anche se in piccola parte, prima dell’intervento chirurgico». La
conclusione dell’ausiliario è dunque che “è da considerarsi effetto collaterale di
correzione chirurgica del dismorfismo nasale la sinechia turbino-settale dx.
condizionante una stenosi nasale monolaterale”.
- In terza disamina, la consulente verifica la presenza di profili di
responsabilità in capo al medico. Secondo il perito «è vero che il Dr. G, nel
consenso informato, cita la sinechie (formazioni di adesioni mucose fra le varie
strutture nasali) quali complicanze nasali, ma quando c’è stato il sanguinamento
nasale post-intervento chirurgico che ha comportato il posizionamento della fionda
e la sua successiva sostituzione nelle ore serali, il Dr. G ha agito con imprudenza
nel rimuovere il tampone nasale anteriore bilaterale dopo 24 ore dall’intervento
chirurgico. In letteratura si riporta che in caso di sanguinamento nasale, si
consiglia di mantenere il tampone nasale almeno 48 ore e di effettuare una visita
specialistica otorino per individuare il punto emorragico nasale e l’eventuale
presenza di fibrina (tessuto precicatriziale) nelle fosse nasali determinanti la
formazione delle sinechie turbino-settali».
- I rilievi sopra esposti consentono di potere arricchire il dato tecnico-fattuale,
dei principi di diritto applicabili così da ottenere un supporto motivazionale che
conduca alla conclusione da assumere.
- 1) L’intervento eseguito ha natura estetica.
- La finalità dell’intervento chirurgico non modifica le garanzie che
competono al paziente posto che anche l’intervento sanitario finalizzato al
miglioramento della condizione estetica della persona si colloca nell’ambito
dell’ars medica (v. Cass. civ., 25 novembre 1994 n. 10014). Vi è, anzi, al contrario,
un inspessimento della corteccia della tutela posto che, invero, nel caso di chirurgia
estetica, l’informazione da fornire deve essere assai più penetrante ed assai più
completa (specie con riferimento ai rischi dell’operazione) di quella fornita in
occasione di interventi terapeutici (Cass. civ., 8 agosto 1985 n. 4394, in Foro it.,
1986, I, 121). Ad ogni modo, nel caso di specie, oggetto del giudizio non è il diritto
al conseguimento del risultato utile oggetto del contratto (in positivo, il
miglioramento della condizione estetica), bensì il diritto alla salute, quale bene che,
in occasione dell’intervento, non deve essere compromesso (in negativo, l’assenza
di effetti negativi sullo stato di benessere psico-fisico). In altri termini, in
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esecuzione dell’operazione medica finalizzata al miglioramento dell’aspetto, il
medico non deve arrecare danni all’apparato funzionale del paziente. Ebbene, sotto
il primo aspetto (omesso raggiungimento del risultato estetico) non si ravvisa
effettivamente responsabilità del medico posto che la deviazione del setto nasale
costituiva elemento preesistente all’atto sanitario e dallo stesso non causato. E,
però, invece, sotto il secondo aspetto, è ben possibile rintracciare un
comportamento del medico meritevole di rimprovero: raggiungendo il risultato
estetico negoziato, il sanitario non doveva arrecare danno alla persona del paziente
(quanto, invece, avvenuto). Il punto è, allora, se possa sussistere comunque
responsabilità del chirurgo estetico che, pur eseguendo a regola d’arte l’intervento,
provochi sulla persona del paziente un effetto collaterale fonte di pregiudizio. In
coerenza con gli studi della Dottrina, è ormai pacifico che anche da un intervento
eseguito a regola d’arte possano discendere risultati insoddisfacenti, in particolare,
in ragione dell’omessa adozione, da parte del medico, di specifiche cautele che le
condiciones rebus sic stantibus imponevano. Da qui, il secondo profilo di rilevanza.
- 2) L’intervento medico - pur correttamente eseguito quanto al risultato da
raggiungere in ordine al miglioramento estetico - ha causato sulla persona della
paziente un effetto indesiderato, di tipo collaterale: una sinechia turbino settale. E’
opportuno ricordare che la presenza di particolari inadempienze tecniche può anche
emergere in sede di Ctu e ben costituire oggetto del processo, se filtrata dal
contraddittorio (v., ad es., in materia di vizi scoperti dal CTU: Cass. Civ., sez. II,
sentenza 10 maggio 2012 n. 7179, Pres. Oddo, rel. Proto). Va, comunque rilevato
come, nel suo libello introduttivo, la paziente non abbia denunciato solo la specifica
inadempienza relativa al setto nasale (non fondata) bensì anche, sotto un profilo più
generale, l’imperizia dell’intervento quanto all’adozione di procedure chirurgiche
corrette, efficaci e risolutive (v. pag. 8, citazione). Orbene, nel caso di specie, il
consulente ha accertato che, in conseguenza dell’intervento, la paziente ha accusato
una sinechia settale quale effetto causalmente ricollegabile all’intervento: effetto
sgradevole, indesiderato e di indubbia valenza negativa per la salute dell’attrice.
Effetto riconducibile all’intervento non solo sul versante oggettivo (rapporto
eziologico) ma anche soggettivo (colpa). Da qui, il terzo profilo di rilevanza.
- 3) Il dr. G ha agito con imprudenza avendo rimosso il tampone nasale dopo
24 ore, invece che dopo 48 ore, come consigliato in letteratura. Giova rilevare che,
nel caso di specie, non può essere applicata, in favore del medico, la disposizione di
cui all’art. 2236 c.c.: si tratta, infatti, di disposizione applicabile ai soli casi di colpa
per imperizia e non a quelli di colpa per imprudenza o negligenza (v. Cass., sez. III,
18 novembre 1997, n. 11440; Cass. civ., sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, in
Danno e resp., 2005, 26). Se, come nel caso di specie, la colpa è consistita in una
mancanza di prudenza, l’esame deve essere particolarmente rigoroso, perché la
tutela della salute, che viene affidata al medico, impone a questi l’esercizio della
massima attenzione (v. Cass. civ., 11 luglio 1980, in Riv. pen., 1981, 283). Il
medico risponde, dunque, anche in caso di colpa lieve. Ebbene, nell’ipotesi qui sub
iudice, il medico è risultato essere in colpa (indifferente se lieve o grave) per
l’avere omesso, per imprudenza, di mantenere il tampone per 48 ore, in luogo di 24,
essendosi dunque discostato dal parametro standard secondo la letteratura di
riferimento. In altri termini, può sostenersi che se il medico avesse rispettato la
regola di prudenza applicabile, è probabile che la sinechia non si sarebbe verificata,
peraltro con un elevato grado di certezza. Ad ogni modo, giova ricordare che la
Corte regolatrice ha, di recente, avuto modo di rimeditare funditus il problema della
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causalità civile, per affermare, prima con la sentenza 21619/2007 della terza
sezione, poi con la pronuncia 581/2008 delle sezioni unite, che la regola probatoria
in subiecta materia non può essere considerata quella dell'alto grado di probabilità
logica e di credenza razionale, bensì quella del “più probabile che non” (v. Cass.
civ., sez. III, sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008). Il nesso di causalità,
dunque, in ambito civilistico, consiste nella relazione probabilistica concreta tra
comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della
normalità causale, del «più probabile che non» (Cass. civ., sez. III, 16 gennaio
2009, n. 975). Criterio soddisfatto nel caso di specie posto che è il CTU ad
affermare (invero senza dubbi) la sussistenza del rapporto eziologico tra la
imprudenza del medico e la sinechia turbino settale (v. perizia, pag. 7).
- I punti di conclusione sin qui rassegnati, consentono di ritenere affermata la
responsabilità del dr. G, avendo questi omesso di adottare specifici comportamenti
– espressione di prudenza esigibile – così causando alla paziente una sinechia
settale, ovvero un effetto collaterale indesiderato che poteva essere evitato.
- A questo punto, occorre chiarire il titolo della responsabilità del medico
posto che, peraltro, tale titolo è anche oggetto di discussione negli atti difensivi
delle parti. Giova ricordare che secondo il “diritto vivente” in materia di
responsabilità sanitaria, la responsabilità del medico ha natura negoziale,
sussistendo un rapporto contrattuale, quand'anche fondato sul solo contatto sociale
(Cass. civ., Sez. III, 24 maggio 2006, n. 12362). La contrattualizzazione della
responsabilità medica ha delle ricadute dirette sul riparto degli oneri probatori: essa,
infatti, rende operativa la clausola generale di cui all’art. 1218 c.c., come
interpretata dalle Sezioni Unite n. 13533 del 2001 e dunque “il paziente che agisce
in giudizio deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario
restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento” (v. SS.UU.
577/2008). Tuttavia, si deve rilevare come, sullo sfondo dei principi così illustrati,
si collochi in tempi recentissimi l’art. 3 comma I del Decreto Legge 13 settembre
2012 n. 158. Nella versione originaria, la norma prevedeva che “fermo restando il
disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve
nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo
1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso
concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica nazionale e internazionale”. Il decreto-legge codificava dunque i
principi affermati dalla giurisprudenza (v. relazione illustrativa) e non incideva,
sulla questione qui in esame, se non sotto il versante della valutazione del rispetto o
meno delle buone prassi/linee guida. La legge 189/2012, di conversione in legge del
d.l. 158/2012, ha modificato in modo integrale la disposizione sopra illustrata. Il
nuovo art. 3, comma I, (Responsabilità professionale dell’esercente le professioni
sanitarie) prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento
della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla
comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta
comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice,
anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto
della condotta di cui al primo periodo”. La norma, con la dichiarata finalità di
intervenire contro il dilagante fenomeno della cd. medicina difensiva, introduce una
sorta di “esimente” speciale nella responsabilità penale medica, circoscrivendola
alle sole ipotesi di colpa grave e dolo. Per il caso della colpa lieve, tuttavia, dichiara
la persistenza della responsabilità civile del medico; e, però, così facendo, individua
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quale grimaldello normativo non già l’art. 1218 c.c., bensì l’art. 2043 c.c. Sussiste
un vivace dibattito circa la corretta interpretazione della previsione di nuovo conio.
Secondo una certa lettura, la previsione si concilierebbe con l’intento di scongiurare
i rischi legati alla cd. medicina difensiva e, pertanto, restaurerebbe il regime di
responsabilità civile anteriore al revirement del 1999: in altri termini, il Legislatore
consapevole10 avrebbe indicato agli interpreti la preferenza del Parlamento per
l’orientamento giurisprudenziale che predica(va) l’applicazione dell’art. 2043 c.c.11
e non anche lo schema del cd. contratto sociale qualificato. Secondo altra lettura, il
riferimento all’art. 2043 c.c. costituirebbe semplicemente una svista del Legislatore,
inidonea a mutare il senso della giurisprudenza costante in tema di applicabilità
dello statuto della responsabilità contrattuale.
- La Suprema Corte di Cassazione, in diverse occasioni, ha ammesso che il
Legislatore può, di fatto anche in via implicita, intervenire con sue norme di nuova
introduzione per avallare una determinata interpretazione di uno specifico
grimaldello normativo. Ad esempio, è quanto avvenuto in tempi recenti, allorché la
Suprema Corte ha intravisto nell’adozione del d.P.R. n. 37 del 2009 e del d.P.R. n.
191 del 2009 “la volontà del Legislatore di prendere posizione sulla questione
interpretativa dell’art. 2059 c.c.” in tema di danno cd. morale (v. Cass. civ., sez.
III, sentenza 20 novembre n. 20292, Pres. Petti, est. Travaglino in cui la Corte di
Cassazione reputa che i d.P.R. sopra citati abbiano “inequivocamente resa
manifesta la volontà del legislatore” di discostarsi dai principi enunciati dalle
SS.UU. del 2008, in tema di “presunta” somatizzazione del danno morale in seno al
danno biologico). Deve, allora, ammettersi che il Legislatore può prendere
posizione su questioni interpretative non solo mediante leggi di interpretazione
autentica ma anche con norme che, seppur in modo indiretto o implicito, siano
espressione dell’aderire (o non) ad un determinato approccio ermeneutico.
- Giunti a questa conclusione, nel caso di specie, la struttura della
disposizione legislativa, a ben vedere, sembra abbastanza logica, almeno nel suo
sviluppo discorsivo: in sede penale, la responsabilità sanitaria è esclusa per colpa
lieve (se rispettate le linee guida/buone prassi); in sede civile, invece, anche in caso
di colpa lieve, è ammessa l’azione ex art. 2043 c.c. Così facendo, il Legislatore
sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello
di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come
noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno
esercitando l’azione aquiliana. E’ evidente che l’adesione ad un modulo siffatto
contribuisce a realizzare la finalità perseguita dal legislatore (contrasto alla
medicina difensiva) in quanto viene alleggerito l’onere probatorio del medico e
viene fatto gravare sul paziente anche l’onere (non richiesto dall’art. 1218 c.c.) di
offrire dimostrazione giudiziale dell’elemento soggettivo di imputazione della
responsabilità. L’adesione al modello di responsabilità ex art. 2043 c.c. ha, anche,
come effetto, quello di ridurre i tempi di prescrizione: non più 10 anni, bensì 5.
Potendosi, in astratto, ritenere, dunque, che l’art. 3 in esame rappresenti la scelta
verso un modello di responsabilità diverso da quello sposato dalla giurisprudenza
prevalente, occorre allora interrogarsi circa la proponibilità di una scelta
10
Cass. civ., sez. III, 24 agosto 2007, n. 17958: Il canone interpretativo del “Legislatore consapevole” presuppone un
Parlamento attento al diritto giurisprudenziale e composto, almeno in parte, da tecnici. Ciò detto, si tratta di un criterio
che deve orientare l’interprete verso la scelta ermeneutica più vicina alla volontà sovrana del popolo come
rappresentato nelle Camere.
11
V., ad es., Cass. civ., sez. III, sentenza 20 novembre 1998 n. 11743
57
interpretativa del genere, soprattutto in punto di compatibilità costituzionale: la
risposta, collocando l’interprete negli anni anteriori al 1999, sembrerebbe scontata,
in quanto, nel vigore dell’orientamento pretorio che proponeva come modello di
azione l’art. 2043 c.c., non si era dubitato della costituzionalità di una impostazione
del genere.
- Così rintracciate le conseguenze che la Legge 189/2012 ha sul sistema della
responsabilità sanitaria, nel caso di specie, però, non trova applicazione l’art. 2043
c.c. E’ opportuno chiarire, infatti, che, anche seguendo questo percorso di
ragionamento, ovviamente la previsione di nuovo conio riguarda solo le ipotesi di
responsabilità per cd. “contatto” e cioè le ipotesi (al confine tra contratto e torto) in
cui manchi un rapporto contrattuale diretto tra paziente danneggiato e sanitario
oppure un rapporto contrattuale atipico di spedalità. Nel caso in esame, il dr. G e la
parte attrice si erano, invece, accordati per l’intervento ed avevano, cioè stipulato
uno specifico rapporto negoziale: scatta allora, in via esclusiva, la previsione di cui
all’art. 1218 c.c. e, nel caso di specie, conduce a dover ritenere acquisita al giudizio
la prova della responsabilità del convenuto dr. G, sulla base dei rilievi già
ampiamente svolti.
- Deve, invece, essere esclusa la responsabilità della Fondazione ... Nel caso
in esame, la struttura medica non ha stipulato alcun rapporto con la parte attrice
(nemmeno per comportamento concludente) posto che, diversamente dallo schema
contrattuale classico, il paziente non si è rivolto al nosocomio che ha indicato il
medico, ma si è rivolto al medico che ha scelto una struttura in cui eseguire
l’intervento. La Fondazione …., dunque, ha rappresentato solo il luogo in cui
l’inadempimento del sanitario si è consumato, senza nemmeno partecipare al
suddetto illecito contrattuale, non avendo nemmeno fornito i collaboratori del
professionista. Inoltre l’equipaggiamento della clinica non ha concorso in alcun
modo al danno e nemmeno lo ha aggravato o accelerato. In genere, la responsabilità
della struttura sanitaria è rintracciata, ex art. 1228 c.c., per il fatto dei suoi medici;
ma nel caso di specie, difetta il rapporto tra medico e struttura che abilita
l’applicazione della norma de qua, e nemmeno è applicabile l’art. 2049 c.c., proprio
perché la relazione trai soggetti è invertita: è il dr. G ad essersi avvalso della
struttura e non il contrario.
- Il solo dr. G va condannato al danno iatrogeno causato alla paziente, oltre al
danno patrimoniale.
- Sulla scorta della CTU, i postumi accertati, da mettere in relazione alla
complicanza (sinechia turbino-settale dx) che poteva essere evitata da un’attenta
valutazione post-chirurgica, mediante visita specialistica otorino per valutazione del
sanguinamento nasale occorso dopo l’intervento di rinoplastica, configurano una
riduzione dell’integrità psico-fisica (danno biologico) nella misura del 3%. Per la
valutazione dell’inabilità temporanea, in assenza di sufficiente credibile riscontro
probatorio, si conviene con il consulente nel non riconoscere alcun giorno a tale
titolo. La legge 8 novembre 2012 n. 189 stabilisce all’art. 3 che il danno biologico
conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla
base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre
2005, n. 209. Trattasi però di norma entrata in vigore (11 novembre 2012 ex art. 16
l. 189/12) dopo che l’odierna causa è stata trattenuta in decisione (6 luglio 2012). Si
reputa dunque di dovere dare continuità all’indirizzo di giurisprudenza vigente
58
prima della modifica normativa il quale predica l’applicazione delle tabelle di
liquidazione del danno biologico, elaborate dal tribunale di Milano, anche per le cd.
micropermanenti, per tutti i casi di danno ex art. 2059 c.c. che consegua da un fatto
illecito diverso dal sinistro stradale (Cass. civ., sez. III, sentenza 19 luglio 2012 n.
12464, Pres. Segreto, rel. Lanzillo). Le tabelle del Tribunale di Milano risultano
essere, in ragione della loro “vocazione nazionale” - in quanto le statisticamente
maggiormente testate - le più idonee ad essere assunte quale criterio generale di
valutazione che, con l’apporto dei necessari ed opportuni correttivi ai fini della c.d.
personalizzazione del ristoro, consenta di pervenire alla relativa determinazione in
termini maggiormente congrui, sia sul piano dell’effettività del ristoro del
pregiudizio che di quello della relativa perequazione - nel rispetto delle diversità
proprie dei singoli casi concreti - sul territorio nazionale (Cass. Civ., sez. III, 30
giugno 2011 n. 14402 - Pres. Preden, rel. Scarano; Cass. Civ., sez. III, 7 giugno
2011 n. 12408 - Pres. Preden, rel. Amatucci; Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2012
n. 2228 - Pres. Trifone, rel. Scarano). Trattasi di indirizzo giurisprudenziale seguito
da questo Ufficio giudiziario (v., già, Trib. Varese, Sez. I Civ., sentenza 26 agosto
2011).
- La paziente, al momento dell’illecito, aveva 28 anni e, dunque, a titolo di
danno biologico, deve essere riconosciuto un danno pari ad Euro 4.013,00 che si
considera adeguato e congruo rispetto al caso di specie, tenuto conto, cioè,
dell’esigenza di personalizzazione. Costituendo l'obbligazione di risarcimento del
danno un'obbligazione di valore sottratta al principio nominalistico, la rivalutazione
monetaria è dovuta a prescindere dalla prova della svalutazione monetaria da parte
dell'investitore danneggiato ed è quantificabile dal giudice, anche d'ufficio, tenendo
conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della liquidazione. È altresì
risarcibile il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato
conseguimento della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la
tecnica degli interessi computati non sulla somma originaria né su quella rivalutata
al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno
ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio. La somma, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata con interessi all’attualità, è di Euro 4.471,83.
- Per quanto riguarda gli esborsi in rapporto di causalità con l’intervento per
cui è causa, gli stessi ammontano – secondo il CTU – a 150,00 euro (visita del
Prof. ). La somma all’attualità è di Euro 188,00.
- Il danno totale è di Euro 4.659,83.
- Quanto alle spese di CTU, pur consapevole di un indirizzo pretorile di
contrario avviso (invero, risalente: Cass. civ., sez. 2, sentenza n. 1247 del 18
febbraio 1983), questo giudice, aderendo all’orientamento di Cassazione più
recente, reputa che il compenso dovuto al C.T.U. abbia il suo fondamento nella
peculiare natura della prestazione, effettuata a favore di tutti i partecipanti al
giudizio in funzione del superiore interesse di giustizia (art. 61 c.p.c.), ponendosi
così su un piano diverso da quello della soccombenza che presiede la regolazione
delle spese fra le parti (Cass. civ., sez. II, sentenza n. 28094 del 30 dicembre 2009).
E’, dunque, ben possibile che, a prescindere dalla soccombenza, le spese di
consulenza vengano poste a carico solidale delle parti. Ebbene, nel caso di specie,
le spese di Consulenza vengono poste, in solido, a carico della parte attrice e del dr.
G con diritto della Fondazione .. alla ripetizione di quanto versato a tale titolo in
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corso di causa.
- Nei rapporti tra parte attrice e Fondazione .., si giudica equa e necessaria la
compensazione delle spese di lite, posto che solo l’esito dell’istruttoria ha
consentito di appurare gli effettivi rapporti tra medico e clinica e, quindi, era
sussistente, al momento della introduzione della lite, la presenza di oggettive
difficoltà di accertamenti in fatto sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive
ragioni delle parti (v. Cass. civ., Sez. Un., 3 settembre 2008, n. 20598).
- Nei rapporti tra parte attrice e convenuto soccombente, le spese di lite
seguono la soccombenza e vanno liquidate giusta la natura ed il valore della
controversia, l’importanza ed il numero delle questioni trattate, nonché la fase di
chiusura del processo. Come hanno insegnato le Sezioni Unite della Suprema Corte
di Cassazione, il principio di adeguatezza e proporzionalità impone “una costante
ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l'entità degli onorari
per l'attività professionale svolta” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili,
sentenza 11 settembre 2007, n. 19014). Va applicato il dm 20 luglio 2012 n. 140 in
quanto l’attività difensiva delle parti si è consumata nel vigore del detto
regolamento (v. Cass. Civ., Sez. Un., sentenza 12 ottobre 2012 n. 17406, Pres.
Preden, est. Rordorf). La nota spese del difensore di parte vittoriosa, alla luce dei
criteri sopra esposti, va ridotta per non essere allineata al decisum e va ricalcolata,
secondo il DM citato; per l’effetto, le spese si liquidano in Euro 550,00 per
spese/costi ed Euro 2.600,00 per compenso.
-
P.Q.M.
IL TRIBUNALE DI VARESE,
SEZIONE PRIMA CIVILE,
in composizione monocratica, in persona del giudice dott. Giuseppe Buffone,
definitivamente pronunciando nel giudizio civile iscritto al n. … dell’anno 2009,
disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa, così provvede:
■□■
RIGETTA, per le ragioni di cui in parte motiva, la domanda proposta dall’attrice contro
l’ISTITUTO …., in persona del legale rappresentante pro-tempore, compensando
integralmente tra le parti le spese di lite.
ACCERTA E DICHIARA, per le ragioni di cui in parte motiva, la responsabilità del dr. G
per il danno arrecato a R, in conseguenza dei postumi permanenti causati all’esito
dell’intervento chirurgico estetico dell’11 giugno 2007.
CONDANNA, per l’effetto, G al risarcimento del danno in favore di R, quantificato
all’attualità in Euro 4.659,83 oltre interessi legali dalla sentenza e sino al soddisfo
CONDANNA G al rimborso delle spese del giudizio in favore di R che
LIQUIDA
come segue, ai sensi dell’art. 91 c.p.c.
Spese
Compenso
€. 550,00
€. 2.600,00
60
Vanno aggiunti il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980,
n. 576.
PONE, in via definitiva, le spese di CTU, come liquidate in corso di causa, a carico di R
e G, in misura solidale, con diritto per l’ISTITUTO … in persona del legale
rappresentante pro-tempore, a ripetere quanto eventualmente versato a tale titolo in
corso di giudizio.
MANDA alla cancelleria per i provvedimenti di competenza
SENTENZA IMMEDIATAMENTE ESECUTIVA COME PER LEGGE
Varese, lì 26 novembre 2012
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