SSM SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA STRUTTURA TERRITORIALE DI FORMAZIONE DECENTRATA DEL DISTRETTO DI MILANO Renato Amoroso, Giuseppe Buffone, Giuseppe Cernuto, Filippo D’Aquino, Fabrizio D’Arcangelo, Francesca Fiecconi, Maria Grazia Fiori, Federico Vincenzo Amedeo Rolfi, Adriano Scudieri Raccolta di giurisprudenza «La Questione della natura giuridica della responsabilità del medico ospedaliero, dopo l’art. 3 l. 189/2012 (cd. Legge Balduzzi» A CURA DI G. BUFFONE – F. ROLFI INDICE 1. Le pronunce della Suprema Corte Cass. Civ., sez. III, sentenza 10 gennaio 2013 n. 4030 Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 17 aprile 2014 n. 8940 2. Il recente contrasto nel tribunale di Milano Trib. Milano, sez. I, 23 luglio 2014 Trib. Milano, sez. V, 18 novembre 2014 3. Alcune pronunce del merito Trib. Brindisi, sentenza 18 luglio 2014 Trib. Arezzo, sentenza 14 febbraio 2013 Trib. Varese, 26 novembre 2012 1 LE PRONUNCE DELLA SUPREMA CORTE Cass. Civ., sez. III, sentenza 10 gennaio 2013 n. 4030 (Pres. Trifone, rel. Petti) ART. 3 COMMA I D.L. 13 SETTEMBRE 2012 N. 158 CONV. IN L. 8 NOVEMBRE 2012 – RESPONSABILITÀ MEDICA – DEPENALIZZAZIONE IN CASO DI COLPA LIEVE – RESPONSABILITÀ IN SEDE CIVILE – REGOLE CONSOLIDATE – PERSISTENZA L’art. 3 comma I del d.l. 13 settembre 2012 n. 158, conv. in l. 8 novembre 2012, ha depenalizzato la responsabilità medica in caso di colpa lieve, dove l’esercente l’attività sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L’esimente penale non elide, però l’illecito civile e resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute. La materia della responsabilità civile segue, tuttavia, le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella cd. contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale. Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 17 aprile 2014 n. 8940 (Pres. Finocchiaro, rel. Frasca) RESPONSABILITÀ MEDICA – ART. 3 LEGGE 189/2012 – ISTITUZIONE DI UNA RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE - ESCLUSIONE L’articolo 3, comma 1, dell Legge n. 189 del 2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché’ in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792 del 2013). L’ORIENTAMENTO TRADIZIONALE E CONSOLIDATO (SIN DAL 1999) CASS. CIV., SEZ. UN., SENTENZA 11 GENNAIO 2008 L’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente ha natura contrattuale ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale" (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006). CASS. CIV., SEZ. III, SENTENZA 22 GENNAIO 1999 L'obbligazione del medico dipendente dal servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale" ha natura contrattuale. Consegue che relativamente a tale responsabilità i regimi della ripartizione dell'onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale 2 IL CONTRASTO NEL TRIBUNALE DI MILANO LA QUESTIONE: la responsabilità del medico ospedaliero è contrattuale o extracontrattuale? Art. 2043 c.c. Art. 1218 c.c. Tribunale di Milano, sezione I civile Sentenza 23 luglio 2014 n. 9693 (est. Patrizio Gattari) Tribunale di Milano, sezione V civile Sentenza 18 novembre 2014 n. 13574 (est. Andrea Borrelli) Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare). In ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del contratto atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria” con la sola accettazione del paziente presso la struttura). Se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, 3 La responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 l. 189/12 – è da qualificarsi come contrattuale. Il primo comma dell'art. 3 del D.L. Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L'ossequio alla lettera della nuova disposizione comporta anche adeguata valorizzazione dell'incipit dell'inciso immediatamente successivo alla proposizione che esclude la responsabilità penale del sanitario in detti casi , per effetto del quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto appunto - a "tali casi" (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito linee guida ecc.). D'altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l'azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il (solo) regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1218 c.c. e così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per es. "la responsabilità dell'esercente la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che l’attore ha l’onere di provare; se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c. Conforme Trib. Varese, sez. I, 26 novembre 2012 Trib. Torino, 26 febbraio 2013 la professione sanitaria per l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall'art. 2043 del codice civile") anziché il breve inciso in commento. Conforme Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013 Trib. Cremona, 1 ottobre 2013 Trib. Rovereto, 29 dicembre 2013 Trib. Brindisi, 18 luglio 2014 RICADUTE PRATICO-APPLICATIVE La responsabilità del medico ospedaliero è contrattuale La responsabilità del medico ospedaliero è extracontrattuale Prescrizione: 10 anni Prova: la colpa è presunta Prescrizione: 5 anni Prova: la colpa va provata dal paziente 4 La Legge Balduzzi ha cambiato le regole: la responsabilità del medico ospedaliero è extracontrattuale. Trib. Milano, sez. I civ., sentenza n. 9693 del 17 luglio 2014, depositata il 23 luglio 2014 (Est. Patrizio Gattari) MEDICO DIPENDENTE E/O COLLABORATORE DELLA STRUTTURA SANITARIA - AUTORE DELLA CONDOTTA ATTIVA O OMISSIVA PRODUTTIVA DEL DANNO SUBITO DAL PAZIENTE COL QUALE TUTTAVIA NON HA CONCLUSO UN CONTRATTO DIVERSO ED ULTERIORE RISPETTO A QUELLO CHE OBBLIGA LA STRUTTURA NELLA QUALE IL SANITARIO OPERA – RESPONSABILITÀ – NATURA GIURIDICA – EXTRACONTRATTUALE – SUSSISTE (art. 3, L. 189/2012; art. 1218, 2043 cod. civ.) Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare). In ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del contratto atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria” con la sola accettazione del paziente presso la struttura). Se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che l’attore ha l’onere di provare; se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c. Trib. Milano, sez. I civ., sentenza n. 9693 del 17 luglio 2014 (Est. Patrizio Gattari) STRUTTURA SANITARIA –LESIONI CAUSATE AL PAZIENTE - RESPONSABILITÀ – NATURA GIURIDICA – CONTRATTUALE – SUSSISTE – MEDICO CON CUI IL PAZIENTE ABBIA STIPULATO UN CONTRATTO – RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE – SUSSISTE (art. 3, L. 189/2012; art. 1218, 2043 cod. civ.) L’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto d’opera professionale (anche se nell’ambito della cd attività libero professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la responsabilità della 5 struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la responsabilità del medico (contratto d’opera professionale) derivano da inadempimento e sono disciplinate dall’art. 1218 c.c., ed è indifferente che il creditore/danneggiato agisca per ottenere il risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di entrambi. Il richiamo nella norma suddetta all’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. per l’esercente la professione sanitaria che non risponde penalmente (per essersi attenuto alle linee guida), ma la cui condotta evidenzia una colpa lieve, non ha nessun riflesso sulla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, che ha concluso un contratto atipico con il paziente (o, se si preferisce, è comunque tenuta ex lege ad adempiere determinate prestazioni perché inserita nel S.S.N.) ed è chiamata a rispondere ex art. 1218 c.c. dell’inadempimento riferibile direttamente alla struttura anche quando derivi dall’operato dei suoi dipendenti e/o degli ausiliari di cui si è avvalsa (art. 1228 c.c.). RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Le domande oggetto di causa. V ha convenuto in giudizio Policlinico di … s.p.a. e il dott. X esponendo: che nell’ottobre del 2008 era stato sottoposto ad intervento di tiroidectomia totale presso la struttura sanitaria convenuta; che l’intervento chirurgico era stato eseguito dal convenuto dott. ; che nell’immediato post-operatorio una grave dispnea da paralisi bilaterale delle corde vocali aveva reso necessario il ricovero in terapia intensiva; che era stato dimesso il 29/10/2008; che nei giorni immediatamente successivi, per il perdurare dei problemi respiratori, era stato ricoverato presso un altro nosocomio dove l’8/11/2008 i sanitari avevano praticato una tracheotomia che aveva tuttavia solo in parte risolto i danni alla salute subiti in occasione del primo intervento presso la struttura sanitaria convenuta; che infatti i successivi controlli specialistici effettuati e i pareri medico-legali acquisiti avevano confermato che la corda vocale destra era paralizzata e non più recuperabile, mentre la sinistra poteva avere un leggero margine di miglioramento col tempo; che la paralisi bilaterale delle corde vocali era in diretta correlazione con l’errato intervento eseguito dal convenuto dott. X presso il Policlinico di ..; che i convenuti erano responsabili del danno alla salute e del danno morale subiti dall’attore. Su tali premesse, l’attore chiedeva la condanna solidale dei convenuti al risarcimento dei danni derivati dall’illecito descritto e che indicava in complessivi euro 60.513,69 oltre rivalutazione monetaria e interessi dalla data dell’illecito. Si è costituita ritualmente la società Policlinico di .. s.p.a. esponendo: che in occasione dell’intervento di tiroidectomia totale eseguito il 20/10/2008 erano sorte difficoltà a causa di un grosso nodulo nella parte destra, sede di pregressi fatti flogistici, e degli esisti nella parte sinistra di un precedente intervento di ernia cervicale; che gli operatori non erano riusciti a isolare la corda vocale di destra, mentre quella sinistra era stata visualizzata e conservata; che dopo la fine dell’intervento era insorta una crisi dispnoica che aveva reso necessaria l’intubazione del paziente e il suo trasferimento in terapia intensiva, dove era rimasto fino al giorno successivo; che il paziente era stato dimesso il 29/10/2008 e dopo due giorni i chirurghi e gli specialisti avevano consigliato il ricovero presso altro nosocomio specializzato, dove era stato sottoposto a tracheotomia temporanea; che l’intervento eseguito presso la struttura convenuta dal dott. X non era di routine e che le lesioni lamentate dal paziente costituivano complicanze prevedibili di tale tipo di intervento e si erano verificate nonostante i sanitari avessero fatto quanto era loro esigibile per prevenirle; che trattandosi di una complicanza prevedibile indicata nel modulo di consenso sottoscritto dal paziente e non evitabile nel caso concreto dai sanitari,non poteva essere ravvisata una responsabilità risarcitoria; che in ogni caso la complessità e la difficoltà dell’intervento avrebbero giustificato la limitazione della responsabilità ex art. 2236 c.c.; che le conseguenze dannose subite dall’attore non potevano 6 essere costituite da quelle dedotte e che l’entità del risarcimento preteso era ingiustificata; che in ogni caso qualora fosse stata accertata una responsabilità solidale della struttura sanitaria convenuta, essa aveva diritto ad essere manlevata dal medico convenuto, unico eventuale responsabile del danno de quo; che infatti nel contratto di collaborazione stipulato con il Policlinico di . s.p.a. il medico si era espressamente obbligato a tenere indenne la struttura sanitaria per i danni conseguenti alla attività medico-chirurgica svolta presso di essa. Pertanto il convenuto Policlinico di … s.p.a. chiedeva il rigetto delle domande dell’attore e, in subordine, qualora esse fossero risultate in tutto o in parte fondate chiedeva la condanna dell’altro convenuto X a manlevare e tenere indenne la struttura sanitaria. Si è altresì costituito ritualmente l’altro convenuto X il quale, in via preliminare, eccepiva l’improcedibilità dell’azione promossa nei suoi confronti per mancata indicazione dei codici fiscali dei convenuti, la nullità della procura alle liti rilasciata dall’attore senza indicazione del consenso alla mediazione e dichiarava l’intenzione di chiamare in causa il proprio assicuratore (senza tuttavia chiedere il differimento dell’udienza ex artt. 167 e 269 c.p.c.); nel merito il professionista convenuto chiedeva il rigetto delle domande avanzate nei suoi confronti e, in subordine, la condanna del proprio assicuratore a tenerlo indenne dalla soccombenza. Nella comparsa costitutiva il medico allegava in particolare che l’intervento chirurgico eseguito era stato di particolare complessità,anche per le condizioni soggettive del paziente già evidenziate nella difesa della struttura sanitaria, e che non vi erano elementi per poter ravvisare una sua responsabilità per i danni dedotti genericamente dall’attore. L’irrituale istanza di chiamata del terzo avanzata dal medico veniva respinta e tale parte provvedeva autonomamente a citare in giudizio davanti al medesimo tribunale il proprio assicuratore,al quale chiedeva di tenerlo indenne in caso di soccombenza nei confronti delle domande avanzate nei suoi confronti da V. Si è costituita in quel giudizio la convenuta .. Assicurazioni s.p.a. senza sollevare eccezioni alla validità e all’operatività della polizza di responsabilità professionale stipulata con il dott. X e dicendosi pronta a tenere indenne il proprio assicurato in caso di soccombenza nella causa introdotta da V. Con ordinanza del 14/12/2011 le due cause pendenti davanti al sottoscritto giudice istruttore e chiamate alla stessa udienza sono state riunite ex art. 274 c.p.c. La domanda riconvenzionale di manleva avanzata dalla convenuta struttura sanitaria nei confronti dell’altro convenuto è contenuta nella comparsa costitutiva tempestivamente depositata. L’irrituale istanza ex art. 269 c.p.c. di autorizzazione alla chiamata in causa e di differimento dell’udienza contenuta nella comparsa di risposta della struttura sanitaria è stata respinta, poiché la domanda di manleva non era rivolta nei confronti di un terzo bensì di un soggetto già parte (convenuto) del processo. Con la costituzione in giudizio del convenuto X si è pienamente instaurato il contraddittorio fra le parti anche in merito alla domanda di manleva, senza bisogno di dover disporre la notifica della comparsa (necessaria ex art. 292 c.p.c. solo qualora il destinatario della domanda resti contumace). L’istruttoria delle due cause riunite si è articolata nell’acquisizione dei documenti prodotti dalle parti e nell’espletamento di CTU, all’esito della quale il dott. .. (specialista in medicina legale, otorinolaringoiatria, audiologia e foniatria)ha depositato il 28/12/2012 una relazione scritta, con allegate le osservazioni critiche delle parti. L’istanza di prova orale avanzata dal convenuto X è stata respinta per le ragioni esplicitate nell’ordinanza del 22/5/2013 alla quale si rinvia. All’udienza del 29/1/2014 le parti hanno precisato le conclusioni sopra richiamate e, scaduti i termini ordinari concessi per il deposito degli scritti conclusivi, la causa è entrata in decisione. 1.1 Le eccezioni processuali del convenuto X Sia l’eccezione di “improcedibilità dell’atto di citazione” sia quella di “nullità della procura” alle liti sollevate dal convenuto X nella comparsa di costituzione e risposta (e reiterate in sede di precisazione delle conclusioni) sono infondate. 7 Per quanto attiene all’eccezione di improcedibilità per la mancata indicazione in citazione dei codici fiscali dei convenuti – richiesta dall’art. 163 n. 2 c.p.c. (come modificato dal D.L. n. 193 del 2009 convertito con modificazioni nella L. n. 24 del 2010) - tale lacuna dell’atto introduttivo non incide affatto sulla procedibilità dell’azione. La mancata indicazione dei codici fiscali avrebbe semmai potuto astrattamente comportare la nullità della citazione ex art. 164 co.1 c.p.c.(sanabile mediante la rinnovazione dell’atto), che tuttavia risulta sanata nel caso concreto con la costituzione di entrambi i convenuti (art. 164 co. 2 c.p.c.) i quali, nelle rispettive comparse di risposta, hanno indicato i propri codici fiscali (come previsto dall’art. 167 co. 1 c.p.c. novellato dalla stessa L.24/2010 citata). Per quanto riguarda l’eccezione di nullità della procura alle liti per l’asserita mancata indicazione del consenso informato alla mediazione, contrariamente a quanto sembra ritenere la difesa convenuta l’assenza dell’informativa al cliente prevista dal D.L.vo n.28 del 2010 non comporta nullità della procura rilasciata al difensore, bensì eventualmente – ove l’informativa non sia stata fornita al cliente – l’annullabilità del cd contratto di patrocinio concluso tra il difensore e il cliente e che solo quest’ultimo può far valere (art. 1441 c.c.); ne deriva che la violazione degli obblighi informativi previsti dal citato D.Lvo non può essere utilmente invocata dalla controparte processuale. 2. L’articolato sistema della responsabilità civile in ambito sanitario. Prima di esaminare il merito delle domande, è opportuno reinquadrare e rimettere a fuoco il sistema della responsabilità civile da “malpractice medica” a seguito della cd legge Balduzzi (L. 189/2012), che è stata oggetto di diverse opzioni interpretative e di applicazioni giurisprudenziali non sempre convincenti. All’esito di una non breve riflessione favorita dai vari contributi anche giurisprudenziali noti, ritiene il Tribunale adito che la citata legge del 2012 induca a rivedere il “diritto vivente” secondo cui sia la responsabilità civile della struttura sanitaria sia quella medico andrebbero in ogni caso ricondotte nell’alveo della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. 2.1 La responsabilità della struttura sanitaria. Secondo l’insegnamento consolidato della giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. 1/7/2002 n. 9556 e sent. 11/1/2008 n. 577), il rapporto che lega la struttura sanitaria (pubblica o privata) al paziente ha fonte in un contratto obbligatorio atipico (cd contratto di “spedalità” o di “assistenza sanitaria”) che si perfeziona anche sulla base di fatti concludenti – con la sola accettazione del malato presso la struttura (Cass. 13/4/2007 n. 8826) - e che ha ad oggetto l’obbligo della struttura di adempiere sia prestazioni principali di carattere strettamente sanitario sia prestazioni secondarie ed accessorie (fra cui prestare assistenza al malato, fornire vitto e alloggio in caso di ricovero ecc.). Ne deriva che la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria, per l’inadempimento e/o per l’inesatto adempimento delle prestazioni dovute in base al contratto di spedalità, va inquadrata nella responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. e nessun rilievo a tal fine assume il fatto che la struttura (sia essa un ente pubblico o un soggetto di diritto privato) per adempiere le sue prestazioni si avvalga dell’opera di suoi dipendenti o di suoi collaboratori esterni – esercenti professioni sanitarie e personale ausiliario – e che la condotta dannosa sia materialmente tenuta da uno di questi soggetti. Infatti, a norma dell’art. 1228 c.c., il debitore che per adempiere si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro. Inoltre, a fronte dell’inadempimento dedotto dall’attore - come causa del danno di cui chiede il risarcimento – è onere del debitore convenuto (struttura sanitaria) provare di aver esattamente adempiuto le sue prestazioni e che il danno lamentato da controparte non gli è imputabile. Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria (…), ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno 8 lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante” (Cass. Sez. Un. 11/1/2008 n. 577). La responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria come responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. non muterebbe natura qualora si volesse invece ritenere che per le strutture (pubbliche o private convenzionate) inserite nel S.S.N. l’obbligo di adempiere le prestazioni di cura e di assistenza derivi direttamente dalla legge istitutiva del Servizio Sanitario (L. n. 833 del 1978), come pure da taluni sostenuto. Anche secondo tale impostazione, infatti, la responsabilità andrebbe comunque ricondotta alla disciplina dell’art. 1218 c.c., al pari di ogni responsabilità che scaturisce dall’inadempimento di obbligazioni derivanti da “altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento” (art. 1173 c.c.). In ogni caso, la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è dunque responsabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. per il risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento (o dall’inesatto adempimento) di una delle prestazioni a cui è direttamente obbligata. 2.2 La responsabilità del medico. In merito alla responsabilità del medico dipendente e/o collaboratore della struttura sanitaria autore della condotta attiva o omissiva produttiva del danno subito dal paziente col quale tuttavia non ha concluso un contratto diverso ed ulteriore rispetto a quello che obbliga la struttura nella quale il sanitario opera - a partire dal 1999 la giurisprudenza pressoché unanime ha ritenuto che anch’essa andasse inquadrata nella responsabilità ex art. 1218 c.c. in base alla nota teoria del “contatto sociale” (Cass. 22/1/1999 n. 589). In particolare, secondo tale consolidato indirizzo giurisprudenziale – ribadito anche nel 2008 dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. 577/2008) “in tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, l'ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un medico proprio dipendente ed anche l'obbligazione di quest'ultimo nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale, atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (…)” (in tal senso, fra le altre, Cass. 19/04/2006 n. 9085). La ricostruzione della responsabilità del medico in termini di responsabilità “contrattuale” ex art. 1218 c.c. anche in assenza di un contratto concluso dal professionista con il paziente implica, come logico corollario, l’applicazione della relativa disciplina in tema di riparto dell’onere della prova fra le parti, di termine di prescrizione decennale ecc. Tale inquadramento della responsabilità medica e il conseguente regime applicabile, unito all’evoluzione che nel corso degli anni si è avuta in tema di danni non patrimoniali risarcibili e all’accresciuta entità dei risarcimenti liquidati - in base alle tabelle di liquidazione equitativa del danno alla persona elaborate dalla giurisprudenza di merito, in particolare a quelle del Tribunale di Milano ritenute applicabili dalla Cassazione a tutto il territorio nazionale in mancanza di un criterio di liquidazione previsto dalla legge - ha indubitabilmente comportato un aumento dei casi in cui è stato possibile ravvisare una responsabilità civile del medico ospedaliero (chiamato direttamente a risarcire il danno sulla base del solo “contatto” con il paziente se non riesce a provare di essere esente da responsabilità ex art. 1218 c.c.), una maggiore esposizione di tale categoria professionale al rischio di dover risarcire danni anche ingenti (con proporzionale aumento dei premi assicurativi) ed ha involontariamente finito per contribuire all’esplosione del fenomeno della cd “medicina difensiva” come reazione al proliferare delle azioni di responsabilità promosse contro i medici. 2.3 L’impatto della legge n. 189 del 2012 (cd “legge Balduzzi”) sul sistema della responsabilità civile in ambito sanitario. Su tale contesto normativo e giurisprudenziale è intervenuta alla fine del 2012 la “legge Balduzzi” L. 8 novembre 2012 n. 189 che ha convertito con modificazioni il D.L. 13 settembre 2012 n. 158 – 9 la quale ha espressamente inteso contenere la spesa pubblica e arginare il fenomeno della “medicina difensiva”, sia attraverso una restrizione delle ipotesi di responsabilità medica (spesso alla base delle scelte diagnostiche e terapeutiche “difensive” che hanno un’evidente ricaduta negativa sulle finanze pubbliche) sia attraverso una limitazione dell’entità del danno biologico risarcibile al danneggiato in caso di responsabilità dell’esercente una professione sanitaria. L’art. 3 della legge (“Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie”) prevede al comma 1 che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. Occorre dunque valutare l’impatto dell’art. 3 della L. n. 189 del 2012 (“legge Balduzzi”) sul delineato sistema della responsabilità in ambito sanitario e sulla responsabilità del medico in particolare. Il dibattito che si è sviluppato in dottrina dopo l’entrata in vigore della legge si è incentrato principalmente sul secondo inciso della norma (“In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile”) ed è caratterizzato da opinioni contrapposte, rispecchiate nelle pronunce giurisprudenziali di merito note. Il richiamo esplicito alla disciplina della responsabilità risarcitoria da fatto illecito (art. 2043) è stato visto da alcuni come una sorta di “atecnico” rinvio alla responsabilità risarcitoria dell’esercente la professione sanitaria (in tal senso, fra gli altri, Tribunale di Arezzo 14/2/2013 e Tribunale di Cremona 19/9/2013), mentre altri (Tribunale di Varese 29/12/2012) hanno inteso da subito vedere nella previsione in esame una indicazione legislativa (di portata indirettamente/implicitamente interpretativa) volta a chiarire che, in assenza di un contratto concluso con il paziente, la responsabilità del medico non andrebbe ricondotta nell’alveo della responsabilità da inadempimento/inesatto adempimento (comunemente detta «contrattuale») bensì in quello della responsabilità da fatto illecito (comunemente detta «extracontrattuale»). Gli estremi delle contrapposte opinioni emerse nella giurisprudenza di merito paiono ben rappresentati da una pronuncia del Tribunale di Torino del 26/2/2013 e da quella del Tribunale di Rovereto del 29/12/2013. Secondo il giudice piemontese il legislatore del 2012 avrebbe dettato una norma che smentisce l’intera elaborazione giurisprudenziale precedente e l’art. 2043 sarebbe ora la norma a cui ricondurre sia la responsabilità del medico pubblico dipendente sia quella della struttura pubblica nella quale opera (non essendo ipotizzabile secondo quel giudice un diverso regime di responsabilità del medico e della struttura), per cui l’art. 3 della legge Balduzzi cambierebbe il “diritto vivente” operando una scelta di campo del tutto chiara e congruente con la finalità di contenimento degli oneri risarcitori della sanità pubblica e “getta alle ortiche” la utilizzabilità in concreto della teorica del contatto sociale. Il giudice trentino ha ritenuto invece che nessuna portata innovatrice deriverebbe dalla legge Balduzzi in merito alla responsabilità civile del medico in quanto il richiamo all’art. 2043 c.c. contenuto nell’art. 3 andrebbe riferito solo al giudice penale per il caso di esercizio dell’azione civile in sede penale, mentre la responsabilità civile del medico andrebbe comunque ricondotta al disposto dell’art. 1218 c.c. in caso di inadempimento e/o inesatto adempimento dell’obbligazione “legale” gravante anche sul singolo operatore sanitario e che troverebbe fonte nella legge istitutiva del S.S.N. (L. n. 833 del 1978). Anche la Suprema Corte si è pronunciata sulla possibile portata innovatrice della legge Balduzzi nel regime della responsabilità civile medica, sinora escludendola. In una prima decisione del febbraio 2013 la Cassazione (in un “obiter”) ha affermato che “(…) la materia della responsabilità civile segue le sue regole consolidate (…) anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale”, richiamando quale “punto fermo, ai fini della nomofilachia, gli arresti delle sentenze delle Sezioni Unite nel 10 novembre 2008 (…)” (Cass. 19/2/2013 n. 4030). In tale sentenza non sono fornite indicazioni interpretative del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 L.189/2012, che invece si rinvengono nella successiva pronuncia della Cassazione del 17/4/2014 n. 8940 così massimata: “l'art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, nel prevedere che "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve", fermo restando, in tali casi, "l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile", non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve”. Non sono condivisibili le concrete applicazioni dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi fatte in alcune delle pronunce di merito sopra richiamate, mentre l’interpretazione della norma operata dalla Cassazione nell’ordinanza n. 8940 del 2014 risulta solo in parte convincente. Come si è già avuto modo di argomentare più diffusamente, il tenore letterale del comma 1 dell'art. 3 L.189/2012 e le esplicite finalità perseguite dal legislatore del 2012 - di contenimento della spesa pubblica e di porre rimedio al cd fenomeno della medicina difensiva anche attraverso una limitazione della responsabilità dei medici - non sembrano legittimare semplicisticamente un'interpretazione della norma nel senso che il richiamo all'art. 2043 c.c. sia atecnico o frutto di una svista. Prima di prendere posizione sulle possibili ricadute che la legge del 2012 pare avere sulla responsabilità del medico, è tuttavia opportuno far chiarezza sul suo ambito applicativo e sgombrare il campo da alcune riferite letture della nuova previsione normativa che non convincono affatto. Innanzitutto, nessuna portata innovativa può avere l’art. 3 della legge 189/2012 - che si riferisce espressamente alla responsabilità dell’esercente una professione sanitaria autore della condotta illecita - sulla natura “contrattuale” della responsabilità civile (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) della struttura sanitaria (pubblica o privata) nella controversia risarcitoria promossa nei suoi confronti dal danneggiato. Sia che si ritenga ravvisabile un contratto atipico fra la struttura sanitaria ed il paziente, sia che si preferisca individuare nella legge la fonte dell’obbligo per la struttura (pubblica o convenzionata) inserita nel S.S.N. di erogare determinate prestazioni in favore del paziente, in ogni caso come detto la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è responsabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. per il risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento (o dall’inesatto adempimento) di una delle prestazioni a cui è direttamente obbligata. In secondo luogo, non può essere condivisa l’opinione – fatta propria da una minoritaria giurisprudenza di merito - che in sostanza finisce per ritenere l’intero articolo 3 comma 1 una legge penale o comunque una legge che fa eccezione a regole generali e ne fa discendere che, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, troverebbe applicazione nei soli casi ivi previsti. L’art. 3 della legge Balduzzi oltre ad introdurre indubbie restrizioni alla responsabilità penale prevedendo una parziale abolitio criminis degli artt. 589 e 590 (Cass. pen. 29/1/2013 n. 16237) disciplina infatti vari aspetti della “responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie” compresa la responsabilità risarcitoria, di cui si occupa espressamente non solo nel comma 1, con il richiamo all’obbligo di cui all’art. 2043 e con la previsione di tener conto nella determinazione del risarcimento del danno del fatto che il responsabile si è attenuto alle linee guida, ma anche nel comma 3, che introduce un criterio legale di liquidazione del danno biologico mediante il rinvio alle tabelle previste negli artt. 138 e 139 del D.Lvo n. 209/2005 (cod. ass.), e, in qualche modo, nel comma 5, ove è previsto l’aggiornamento periodico e l’inserimento di specialisti nell’albo dei CTU. Peraltro, oltre che non rispondente ai comuni criteri ermeneutici, l’interpretazione secondo cui l’art. 3 comma 1 sarebbe “legge penale” o “eccezionale” destinata in quanto tale a disciplinare ex art. 14 delle preleggi solo i casi dalla stessa espressamente previsti – esonero dalla responsabilità penale del medico in colpa lieve che si è attenuto alle linee guida e responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. dello stesso professionista solo in caso di 11 proscioglimento/assoluzione in sede penale – porrebbe forti dubbi di legittimità costituzionale, per l’ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento e diversità di disciplina che verrebbero a crearsi a seconda che una determinata condotta illecita del medico (causativa di danni risarcibili) venga preventivamente vagliata dal giudice penale oppure no. Né può condividersi l’affermazione secondo cui l’obbligazione del medico avrebbe fonte “legale”, in quanto scaturirebbe direttamente dalla legge istitutiva del S.S.N. (l. 833/1978), con conseguente applicabilità del regime giuridico della responsabilità ex art. 1218 c.c. per il risarcimento dei danni derivanti da inadempimento. L’opinione largamente maggioritaria individua, come detto, nel contratto di “spedalità” o di “assistenza sanitaria” (non nella legge) la fonte del rapporto obbligatorio fra la struttura sanitaria e il paziente e, ove pure non si ritenga di aderire a tale conclusione, al più nella legge istitutiva del S.S.N. potrebbe eventualmente individuarsi la fonte delle obbligazioni gravanti sulle strutture (pubbliche e private) inserite nel variegato servizio sanitario ma non certo di obbligazioni verso il paziente direttamente gravanti sul singolo medico, inserito a vario titolo (come dipendente o collaboratore esterno) in complesse strutture – che autonomamente organizzano le risorse ed i mezzi di cui dispongono – presso le quali viene di solito in contatto con gli utenti solo perché ciò è insito nell’espletamento delle sue mansioni lavorative (al pari di quanto avviene ad altri dipendenti o collaboratori di pubbliche amministrazioni o di soggetti privati che erogano servizi pubblici). Tant’è che per circa vent’anni dopo l’istituzione del S.S.N. la giurisprudenza (sino alla sentenza della Cassazione n. 589 del 1999) ha continuato a qualificare extracontrattuale la responsabilità del medico ospedaliero per i danni arrecati ai pazienti (vd Cass.13/3/1998 n. 2750 e Cass. 24/3/1979 n. 1716), senza mai ravvisare nella legge 833/1978 la fonte di un’obbligazione “legale” ex art. 1173 c.c. in capo al singolo medico che ha eseguito la sua prestazione in virtù del rapporto organico con la struttura sanitaria. Come pure va sgombrato il campo dall’equivoco che l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi possa disciplinare ogni ipotesi di responsabilità del medico (e di ogni altro esercente la professione sanitaria), come sembra affermare il Tribunale di Torino nella sentenza sopra richiamata. Ferma la responsabilità (distinta ed autonoma) ex art. 1218 c.c. della struttura sanitaria, qualora il danneggiato intenda agire in giudizio (anche o soltanto) contro il medico, occorre infatti necessariamente distinguere l’ipotesi in cui il paziente ha concluso un contratto con il professionista da quella in cui tali parti non hanno concluso nessun contratto. Non pare dubitabile che il danneggiato può utilmente continuare ad invocare la responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. del medico qualora provi che le parti hanno concluso un contratto d’opera professionale, senza che assuma alcun rilievo il fatto che la prestazione medico-chirurgica sia stata eventualmente resa (in regime ambulatoriale o di ricovero) presso una struttura sanitaria (pubblica o privata). In tal caso il medico è legato al paziente da un rapporto contrattuale (diverso sia dal rapporto che lega il sanitario alla struttura nella quale opera, sia dal rapporto che intercorre fra il paziente e la struttura) e pertanto la sua responsabilità risarcitoria ben può (e deve) essere ricondotta alla responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. In presenza di un contratto fra paziente e professionista, nessun riflesso quindi può avere sulla qualificazione della responsabilità risarcitoria del medico la previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 3 della legge Balduzzi, in particolare il richiamo all’art. 2043 c.c. Va in tal senso pienamente condivisa l’affermazione della Cassazione secondo cui è escluso che la legge 189/2012 abbia inteso esprimere un’opzione a favore della qualificazione della responsabilità medica “necessariamente” come responsabilità extracontrattuale (Cass. n. 8940 del 2014). Non può invece essere condivisa l’interpretazione complessiva del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi che emerge dalla motivazione (non anche dalla massima sopra richiamata) dell’ordinanza della Cassazione n.8940 del 2014 – laddove la Corte conclude che a tale norma non andrebbe attribuito alcun rilievo che possa indurre a superare l’orientamento giurisprudenziale “tradizionale” in tema di responsabilità medica – la quale pare inserirsi nel solco delle letture che sostanzialmente tendono a vanificare la portata della norma. 12 Nel motivare la sua decisione la Cassazione afferma che l’art. 3 comma 1 L.189/2012 “(…) poiché omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c., dev’essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità extracontrattuale civilistica”. La Corte smentisce la bontà della ricostruzione della disciplina della responsabilità medica fatta dal Tribunale di Torino (nella sentenza sopra citata) ed invocata dalla difesa ricorrente e precisa (in modo del tutto condivisibile) che “deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un’opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale (…)“, per poi affermare in conclusione che - sulla base della suddetta interpretazione del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 - “deve, pertanto, ribadirsi che alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità medica come responsabilità da contatto sociale e sulle sue implicazioni (…)” (vd Cass. 17/4/2014 n. 8940 in motivazione). Anche secondo la Cassazione del 2014, in sostanza la previsione normativa in questione conterrebbe un evidente errore e risulterebbe priva di qualsiasi rilievo. Se infatti la responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria per i danni arrecati a terzi nello svolgimento della sua attività costituisce comunque pur sempre una responsabilità da “contatto”/inadempimento ex art. 1218 c.c. anche in assenza di un contratto fra il sanitario ed il paziente - secondo l’orientamento consolidato in tema di responsabilità medica che la Corte si affretta a ribadire – risulterebbe errato oltre che superfluo il richiamo all’obbligo risarcitorio di cui all’art. 2043 c.c., che non verrebbe in rilievo neppure “in tali casi”. Stando alle suddette conclusioni cui perviene la Cassazione, si dovrebbe ritenere che il distratto legislatore del 2012 avrebbe inserito (inutilmente) il richiamo all’art. 2043 all’interno di una norma (art. 3 comma 1 L.189/2012) che disciplina espressamente anche la responsabilità civile del medico, “soltanto” per la preoccupazione di escludere (in ossequio al principio “in lege aquilia et levissima culpa venit”) che la colpa lieve potesse condurre - nei casi in cui vi è esonero dalla responsabilità penale - a far ritenere esclusa la responsabilità risarcitoria extracontrattuale, evidentemente dimenticando (o comunque senza tener conto) che in base al “diritto vivente” la responsabilità del medico viene comunemente ricondotta alla responsabilità da “contatto”/inadempimento ex art. 1218 c.c. e non a quella extracontrattuale ex art. 2043 c.c. Inoltre, risulterebbe irragionevole la stessa preoccupazione del legislatore - nella quale la Corte ravvisa la ragione unica del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi – di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità aquiliana/extracontrattuale (“in lege aquilia et levissima culpa venit”) all’interno di una disciplina sulla responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria che continuerebbe ad essere “contrattuale” e sulla quale (secondo la Corte) la legge Balduzzi non avrebbe nessun impatto (“alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità medica come responsabilità da contatto sociale e sulle sue implicazioni” secondo quanto afferma in motivazione Cass. 8940/2014). L'interprete non pare autorizzato a ritenere che il legislatore abbia ignorato il senso del richiamo alla norma cardine della responsabilità da fatto illecito, nel momento in cui si è premurato di precisare che, anche qualora l'esercente una professione sanitaria “non risponde penalmente per colpa lieve” (del delitto di lesioni colpose o di omicidio colposo) essendosi attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, “in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile". Nell’interpretare la norma vigente non sembra del tutto trascurabile che inizialmente il comma 1 dell’art. 3 del decreto legge n. 158 del 2012 [«fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica 13 nazionale e internazionale»] non conteneva nessuna previsione destinata ad incidere sulla responsabilità penale dell’esercente una professione sanitaria e nessun richiamo alla responsabilità da fatto illecito, ma si limitava a prevedere che, ferma la limitazione della responsabilità civile alle ipotesi di dolo o colpa grave qualora la prestazione avesse implicato la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (ex art. 2236 c.c.), nell’accertamento dell’adempimento dell’obbligo di diligenza professionale (ex art. 1176 comma 2 c.c.) il giudice doveva tener conto in particolare dell’osservanza nel caso concreto da parte del sanitario delle linee guida e delle buone pratiche accreditate. In sede di conversione del decreto il legislatore (per meglio perseguire gli obiettivi prefissati) ha radicalmente mutato il comma 1 dell’art. 3, prevedendo che “non risponde penalmente per colpa lieve” l’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate, inserendo il richiamo all’obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c. (che grava comunque sul soggetto esente da responsabilità penale) ed imponendo al giudice di tener conto “anche nella determinazione del risarcimento del danno” dell’avvenuto rispetto delle linee guida da parte del sanitario/responsabile. Le significative modifiche introdotte in sede di conversione del decreto legge (tali da indurre alcuni a dubitare del rispetto dell’art. 77 Cost.) contribuiscono a far escludere che l’art. 3 comma 1 della legge vigente sia frutto di una “svista” e che l’intenzione del legislatore del 2012 possa essere limitata alla preoccupazione indicata dalla Cassazione nella pronuncia del 2014 più volte richiamata. Qualora l’intenzione del legislatore fosse stata soltanto quella indicata dalla Corte e la previsione normativa in esame fosse da interpretare nel senso che non avrebbe inteso scalfire in nessun modo il consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità medica come responsabilità ex art. 1218 c.c. da “contatto sociale”(con tutte le sue implicazioni), non vi sarebbe stata nessuna apprezzabile ragione per inserire in sede di conversione il richiamo all’art. 2043 ed è ragionevole ritenere che nell’art. 3 comma 1 sarebbe rimasto immutato il richiamo alle diverse norme (art. 1176 e art. 2236) contenuto nel decreto legge. Sia il richiamo letterale alla norma cardine che prevede nell’ordinamento il “risarcimento per fatto illecito” (art. 2043 c.c.) e “l’obbligo” in essa previsto (in capo a colui che per dolo o colpa ha commesso il fatto generatore di un danno ingiusto), sia l’inequivoca volontà della legge Balduzzi – resa manifesta, come detto, oltre che dal comma 1 anche dal comma 3 del medesimo art. 3, laddove vengono richiamati gli artt. 138 e 139 del D.Lvo 209/2005 per la liquidazione del danno biologico – di restringere e di limitare la responsabilità (anche) risarcitoria derivante dall’esercizio delle professioni sanitarie, per contenere la spesa sanitaria e porre rimedio al cd fenomeno della medicina difensiva, inducono ad interpretare la norma in esame nel senso che il richiamo alla responsabilità da fatto illecito nell’art. 3 comma 1 impone di rivedere il criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria del medico (dipendente o collaboratore di una struttura sanitaria) per i danni provocati in assenza di un contratto concluso dal professionista con il paziente. E’ senz’altro vero che nell’art. 3 comma 1 della L.189/2012 non può rinvenirsi un’opzione a favore di una qualificazione della responsabilità medica “necessariamente come responsabilità extracontrattuale” (per richiamare le parole della Cassazione), ma compito dell’interprete non è quello di svuotare di significato la previsione normativa, bensì di attribuire alla norma il senso che può avere in base al suo tenore letterale e all’intenzione del legislatore (art. 12 delle preleggi). Nell’art.3 comma 1 della legge Balduzzi il Parlamento Italiano, in sede di conversione del decreto e per perseguire le suddette finalità, ha voluto indubbiamente limitare la responsabilità degli esercenti una professione sanitaria ed alleggerire la loro posizione processuale anche attraverso il richiamo all’art. 2043 c.c. - escludendo la responsabilità penale nei casi di colpa lieve riconducibili al primo periodo, ma facendo salva anche in tali casi la responsabilità civile (da inadempimento nei casi in cui preesiste un contratto concluso dal medico con il paziente e da fatto illecito negli altri casi, come si dirà meglio in seguito) - mentre nel comma 3 del medesimo articolo ha poi introdotto un criterio limitativo dell’entità del danno biologico risarcibile in tali casi al danneggiato (mediante il richiamo agli artt. 138 e 139 cod.ass.). 14 Sembra dunque corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire all’interprete una precisa indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell’onere della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno. Così interpretato, l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi porta dunque inevitabilmente a dover rivedere l’orientamento giurisprudenziale pressoché unanime dal 1999 che riconduce in ogni caso la responsabilità del medico all’art. 1218 c.c., anche in mancanza di un contratto concluso dal professionista con il paziente. Peraltro, si è segnalato che il superamento della teoria del “contatto sociale” (e della relativa disciplina giuridica che ne consegue in termini di responsabilità risarcitoria) in relazione al medico inserito in una struttura sanitaria e che non ha concluso nessun contratto con il paziente, non sembra comportare un’apprezzabile compressione delle possibilità per il danneggiato di ottenere il risarcimento dei danni derivati dalla lesione di un diritto fondamentale della persona (qual è quello alla salute): in considerazione sia del diverso regime giuridico (art. 1218 c.c.) applicabile alla responsabilità della struttura presso cui il medico opera, sia della prevedibile maggiore solvibilità della stessa, il danneggiato sarà infatti ragionevolmente portato a rivolgere in primo luogo la pretesa risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria. Ricondurre in tali casi la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. dovrebbe altresì favorire la cd alleanza terapeutica fra medico e paziente, senza che (più o meno inconsciamente) venga inquinata da un sottinteso e strisciante “obbligo di risultato” al quale il medico non è normativamente tenuto (ma che, di fatto, la responsabilità ex art. 1218 c.c. da “contatto sociale” finisce a volte per attribuirgli, ponendo a suo carico l’obbligazione di risarcire il danno qualora non sia in grado di provare di avere ben adempiuto e che il danno derivi da una causa a lui non imputabile) e che è spesso alla base di scelte terapeutiche “difensive”, pregiudizievoli per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato. Né, come detto, la teoria del “contatto sociale” applicabile al medico (non legato al paziente da alcun rapporto contrattuale) sembra discendere come doveroso precipitato dalla legge 833/1978, che può al più costituire la fonte di un obbligo per le strutture sanitarie (pubbliche o private convenzionate) di erogare le prestazioni terapeutiche e assistenziali ai soggetti che si trovano nelle condizioni di aver diritto di usufruire del servizio pubblico. Che tali prestazioni vengano poi necessariamente rese attraverso il personale dipendente o comunque a vario titolo inserito nella struttura del S.S.N. non sembra affatto implicare (come inevitabile corollario) di dover ravvisare in capo a ciascun operatore sanitario una distinta ed autonoma obbligazione avente fonte legale e, quindi, di dover necessariamente ritenere responsabile ex art. 1218 c.c. l’esercente la professione sanitaria per i danni che derivano dal suo inadempimento. La legge 833/1978 non consente di ravvisare un’obbligazione legale (ex art. 1173 c.c.) in capo al singolo medico “ospedaliero”, il quale si trova normalmente ad eseguire la sua prestazione in virtù del solo rapporto giuridico che lo lega alla struttura sanitaria nella quale è inserito,come sembra aver avuto ben presente il legislatore del 2012 nel momento in cui, in relazione alla responsabilità risarcitoria dell’esercente una professione sanitaria, ha ritenuto di far richiamo all’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. 2.4 Riepilogo del sistema di responsabilità civile in ambito sanitario dopo la “legge Balduzzi”. Sulla base del delineato ambito applicativo e della interpretazione dell’art. 3 comma 1 L. 189/2012 che si ritiene preferibile, l’articolato sistema della responsabilità civile in ambito sanitario sembra possa essere così sintetizzato: l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il 15 paziente un contratto d’opera professionale (anche se nell’ambito della cd attività libero professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la responsabilità della struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la responsabilità del medico (contratto d’opera professionale) derivano da inadempimento e sono disciplinate dall’art. 1218 c.c., ed è indifferente che il creditore/danneggiato agisca per ottenere il risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di entrambi; il richiamo nella norma suddetta all’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. per l’esercente la professione sanitaria che non risponde penalmente (per essersi attenuto alle linee guida), ma la cui condotta evidenzia una colpa lieve, non ha nessun riflesso sulla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, che ha concluso un contratto atipico con il paziente (o,se si preferisce,è comunque tenuta ex lege ad adempiere determinate prestazioni perché inserita nel S.S.N.) ed è chiamata a rispondere ex art. 1218 c.c. dell’inadempimento riferibile direttamente alla struttura anche quando derivi dall’operato dei suoi dipendenti e/o degli ausiliari di cui si è avvalsa (art. 1228 c.c.); il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare); in ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga che l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del contratto atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria” con la sola accettazione del paziente presso la struttura); se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che l’attore ha l’onere di provare; se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c. (cfr., fra le altre, Cass. 16/12/2005, n. 27713). 16 3. La responsabilità risarcitoria dei convenuti nel caso concreto. Va premesso che pur avendo il CTU evidenziato profili di inadempimento dell’obbligo di acquisire dal paziente un consenso pieno ed informato, prima di procedere all’intervento chirurgico programmato, ciò risulta ininfluente ai fini della presente decisione. L’attore non ha mai dedotto tale profilo di responsabilità dei convenuti - in particolare la lesione del suo diritto al cd consenso informato - prima del maturare della preclusione assertiva. V, come detto senza allegare di aver concluso un contratto con il medico convenuto, deduce che nel corso dell’intervento chirurgico di tiroidectomia, al quale è stato sottoposto presso la clinica privata Policlinico di .. dall’equipe guidata dal dott. X, avrebbe subito la lesione delle corde vocali a causa dell’errata esecuzione dell’intervento e, sulla base di tale “inadempimento” (inesatto adempimento)che sostiene imputabile sia al medico che alla struttura sanitaria, chiede la condanna in solido di entrambi i convenuti a risarcire il danno alla salute e il danno morale derivati dall’errato intervento chirurgico. Nessun rilievo assume che l’attore (che ha introdotto la causa prima della legge Balduzzi) abbia qualificato la sua azione come un’azione di responsabilità da inadempimento anche rispetto al medico convenuto, sulla base del “diritto vivente”. Come noto, il giudice può infatti qualificare diversamente la domanda risarcitoria proposta dal danneggiato, purché restino inalterati i fatti dedotti dall’attore a sostegno della pretesa e che il giudice pone a fondamento della decisione (cfr. fra le altre, Cass.8/2/2007 n. 2746 e Cass.17/4/2013 n. 9240). Ora, sulla base dei documenti prodotti dalle parti, delle risultanze della C.T.U. (relazione depositata il 28/12/2012) e di quanto allegato dall’attore e non contestato specificamente dai convenuti, risulta provato che: il 20/10/2008 V fu ricoverato presso la struttura sanitaria convenuta e il giorno stesso sottoposto ad intervento di tiroidectomia totale (“reso necessario per la presenza di un voluminoso struma adenoso cistico-emorragico”), eseguito da un’equipe chirurgica guidata dal convenuto X; che nel corso dell’intervento chirurgico l’attore subì “un insulto bilaterale dei nervi laringei ricorrenti che provocò la cospicua adduzione delle corde vocali con disfonia e riduzione dello spazio respiratorio tanto che dovette essere trasferito in unità di cura intensiva e successivamente trattato in reparto ORL mediante tracheotomia”; che durante l’intervento del 20/10/2008 “venne prodotto un danno chirurgico irreversibile a carico del nervo laringeo ricorrente destro (che nella descrizione dell’intervento non venne neppure identificato nel suo decorso) ed un danno transitorio a carico di quello sinistro (per quanto in descrizione di intervento apparentemente “visualizzato e conservato”) che dopo un certo lasso di tempo (…) riprese la sua funzione”; che “tali danni hanno prodotto come esito una riduzione dello spazio respiratorio laringeo con conseguente dispnea da sforzo ed una disfonia di grado lieve per compenso della cv sinistra e delle false corde” (vd p.7 e 8 della relazione del CTU in atti). Il materiale probatorio acquisito consente di affermare che nel caso concreto è ravvisabile la responsabilità risarcitoria sia del medico sia della struttura sanitaria. In particolare, nella condotta del medico dott. X si ravvisano tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito ex art. 2043 c.c., necessari come detto per l’affermazione della responsabilità civile del medico-chirurgo non legato nel caso concreto al paziente da un rapporto contrattuale. Nella relazione depositata il CTU riferisce: che “l’intervento eseguito dal dott. X presso la struttura sanitaria convenuta è consistito in una tiroidectomia totale che in mani esperte non comporta solitamente problemi tecnici di speciale difficoltà” (p. 14 della relazione); che le linee guida raccomandavano per l’intervento in questione, fra l’altro, l’uso di “tecniche chirurgiche con dissezione accurata allo scopo di identificare precocemente il nervo”, una “attenta conduzione dell’atto chirurgico nel modo più esangue possibile ed evitando ripetute manipolazioni”, il “monitoraggio intraoperatorio dell’attività del nervo”, il “controllo pre e post-operatorio della motilità cordale con conseguente valutazione otorinolaringoiatrica” (p. 8); che “nel caso de quo, nella descrizione dell’intervento non ci sono evidenze di isolamento dei nervi laringei ma si cita solo la preventiva legatura e sezione dei peduncoli vascolari e la sola visualizzazione del nervo 17 laringeo ricorrente di sinistra e la sua conservazione peraltro non scevra da insulto (sofferenza temporanea) vista l’emergenza respiratoria post-intervento” (p. 9); che “nel caso specifico pur in presenza di campo operatorio limitrofo ad esiti di precedenti interventi non furono attuate metodiche al tempo disponibili per identificare e proteggere le strutture nervose causando un danno alle stesse che comportarono subito dopo l’intervento la gestione di una urgenza respiratoria da parte della unità di crisi intensiva e successivamente un danno irreversibile al nervo laringeo destro con conseguenze sulla funzione fonatoria e respiratoria della laringe” (p. 14). Pienamente condivisibile in siffatta situazione risulta la logica conclusione cui perviene l’ausiliare all’esito dell’attento e completo esame della documentazione disponibile e degli approfonditi accertamenti compiuti – secondo il quale, nel “mancato isolamento del nervo laringeo destro durante la procedura chirurgica con conseguente impossibilità di procedere al monitoraggio intraoperatorio dell’attività dello stesso nervo di destra e di quello contro laterale che, visualizzato, riportò una sofferenza solo temporanea”, sono ravvisabili elementi di responsabilità professionale del chirurgo. Le conclusioni del CTU non sono smentite dalle osservazioni critiche dei consulenti di parte, in ampia misura apodittiche, non suffragate da concreti elementi di prova né sorrette da convincenti argomentazioni scientifiche. Risulta evidente nel caso concreto il colpevole mancato rispetto delle linee guida da parte dei sanitari, in particolare del chirurgo convenuto che guidava l’equipe medica. Il riscontrato danno alle strutture nervose subito da V è etiologicamente riconducibile alla condotta colposa del convenuto - che si caratterizza sia per imperizia sia per negligenza – e non costituisce affatto una complicanza prevedibile ma non evitabile nel caso concreto come dedotto dalla difesa convenuta. Risulta infatti altamente probabile che il danno alla salute riscontrato dall’ausiliare sia stato causato da errate manovre poste in atto nel corso dell’intervento di tiroidectomia, eseguito in spregio alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica dell’epoca, e non vi sono elementi per poter ritenere che, con apprezzabile grado di probabilità, il danno iatrogeno subito dall’attore si sarebbe verificato anche qualora gli operatori si fossero attenuti (come avrebbero dovuto) alle linee guida indicate dal CTU. Oltre al medico convenuto, parimenti responsabile del danno subito dall’attore è la struttura sanitaria, la quale come ricordato sopra era direttamente obbligata ad adempiere tutte le prestazioni dovute in base al “contratto di spedalità” concluso con il paziente. Si è detto che la responsabilità della struttura per i danni che si verificano in ambito sanitario è una responsabilità che scaturisce dall’inadempimento e/o dall’inesatto adempimento di una delle varie prestazioni (non necessariamente di quella principale come nel caso di specie) che è direttamente obbligata ad eseguire in base al contratto atipico concluso con il paziente - o in base alla legge se si preferisce aderire alla tesi della fonte legale dell’obbligazione – e non una responsabilità per fatto altrui. Ai fini della diretta riferibilità ex artt. 1218-1228 c.c. delle conseguenze risarcitorie dell’illecito non assume particolare rilevo che il contraente/debitore (solitamente un ente collettivo, pubblico o privato) nell’adempimento delle sue obbligazioni si avvale – deve avvalersi per l’esecuzione delle prestazioni strettamente sanitarie di particolari figure professionali abilitate (le sole che possono eseguire tali prestazioni) – necessariamente di propri dipendenti o di collaboratori esterni. Ne deriva che la struttura sanitaria per essere esonerata dalla responsabilità risarcitoria verso il paziente non può utilmente invocare la condotta illecita del proprio dipendente o collaboratore – individuato come responsabile (corresponsabile) dalla stessa struttura o direttamente dal danneggiato – ma è tenuta a fornire nel processo la prova positiva che le conseguenze dannose di tale condotta non le sono imputabili a titolo di inadempimento delle obbligazioni oggetto del contratto di spedalità. Nel caso di specie non solo la struttura sanitaria non ha neppure tentato di provare di aver compiutamente adempiuto le sue obbligazioni, ma vi è la prova in atti dell’inesatto adempimento della prestazione principale ed è quindi tenuta ex artt. 1218-1228 c.c. a risarcire integralmente i 18 danni derivati dall’operato dei propri dipendenti e collaboratori (fra i quali il dott. X) di cui si è avvalsa. 4. I danni subiti dall’attore. 4.1 Il danno non patrimoniale. Dall’illecito descritto, avvenuto il 20/10/2008, l’attore V (nato il …1956) ha riportato “un danno chirurgico irreversibile a carico del nervo laringeo ricorrente destro (…) ed un danno transitorio a carico di quello sinistro (…) che hanno prodotto come esito una riduzione dello spazio respiratorio laringeo con conseguente dispnea da sforzo ed una disfonia di grado lieve per compenso della cv sinistra e delle false corde”. Secondo il condiviso responso del C.T.U., ciò ha comportato per il danneggiato una maggior durata della malattia – rispetto a quella che un paziente con analoga patologia e nelle medesime condizioni soggettive avrebbe comunque sopportato – con temporanea totale inabilità alle ordinarie occupazioni per 30 giorni e parziale per ulteriori 60 giorni (20 giorni al 75%, 20 giorni al 50% e 20 giorni al 25%); inoltre, i postumi residuati concretizzano un danno all’integrità psico-fisica dell’attore di natura esclusivamente iatrogena pari all’11% (vd p. 10 della relazione in atti). Pur ritenendosi che il criterio legale previsto dall’art. 3 co. 3 della legge Balduzzi - ove come detto si fa espresso richiamo alle tabelle degli artt. 138 e 139 del cod. ass. per la liquidazione del danno biologico conseguente alla responsabilità professionale dell’esercente una professione sanitaria trova applicazione anche in relazione ai fatti dannosi verificatisi prima dell’entrata in vigore di tale legge (come già affermato in altre pronunce di questo tribunale alle quali si rinvia), la mancata adozione della tabella prevista dall’art. 138 per le cd macropermanenti (menomazioni dell’integrità psico-fisica comprese tra 10 e 100 punti) rende impossibile procedere nel caso concreto alla liquidazione del danno secondo il criterio legale (allo stato applicabile solo alle cd micropermanenti previste nella tabella adottata ex art. 139). Occorre pertanto fare ancora applicazione nel caso di specie delle note tabelle elaborate da questo tribunale, comunemente adottate per la liquidazione equitativa ex artt. 1226-2056 c.c. del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psico/fisica e che, come detto, rappresentano un criterio di liquidazione condiviso dalla Suprema Corte, la quale l’ha ritenuto applicabile sull’intero territorio nazionale in assenza di un diverso criterio legale per la liquidazione del danno alla persona (vd Cass. 7/6/2011 n. 12408). A fronte delle riferite conclusioni del CTU, sulla base delle richiamate tabelle giurisprudenziali di liquidazione equitativa del danno alla persona il pregiudizio da temporanea può quantificarsi in moneta attuale in complessivi euro 5.900,00, mentre quello permanente - tenuto conto dell’età (52 anni) del danneggiato all’epoca dei fatti e dell’entità del gradiente invalidante riscontrato dal CTU (11%) – può essere monetizzato all’attualità in complessivi euro 23.715,00. Il danno alla salute sopra indicato non esaurisce tuttavia nel caso concreto l’intero danno non patrimoniale risarcibile al danneggiato. Si ritiene infatti che taluni apprezzabili aspetti (o voci) che vengono in rilievo e che da tempo sono solitamente ricondotti dalla giurisprudenza prevalente nella unitaria categoria generale del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), non risulterebbero adeguatamente risarciti con la sola applicazione dei predetti valori monetari della tabella. Per l’integrale risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dall’attore è infatti necessario procedere ad una adeguata“personalizzazione”, avendo riguardo a quei profili riconducibili alla sofferenza soggettiva, ai pregiudizi alla vita di relazione e ai riflessi negativi sulle abitudini di vita che possono ritenersi sussistenti in relazione alle conseguenze dell’errato intervento chirurgico. Il danneggiato è stato sottoposto a un periodo di terapia intensiva (necessitata dall’insorta insufficienza respiratoria), poi ha dovuto subire una tracheotomia (temporanea) e in seguito - a causa della disfonia e della ridotta capacità respiratoria che sono residuate dall’errata prestazione sanitaria - si è visto costretto ad una quotidiana difficoltà nella vita di relazione e a dover rinunciare 19 a svolgere pienamente anche talune comuni attività che caratterizzano la vita di un soggetto della sua età (come evidenziato dalla difesa attrice e non specificamente contestato dai convenuti). Alla luce di tali considerazioni e per addivenire ad un integrale risarcimento che tenga conto dei vari aspetti che concorrono nella individuazione del composito danno di cui si discute - senza discostarsi dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che richiama ad una liquidazione unitaria del danno alla persona onde evitare inammissibili duplicazioni di poste risarcitorie (fra le altre, Cass. Sez. Un. 11/11/2008 n. 26972; Cass.20/11/2012 n. 20292 e Cass.23/1/2014 n. 1361) - si ritiene di“personalizzare” il danno subito dall’attore aumentando la somma suddetta risultante dall’applicazione delle tabelle (euro 29.615,00) fino ad euro 38.000,00, che costituisce quindi il complessivo danno non patrimoniale risarcibile liquidato al valore attuale dalla moneta. 4.2 Il danno patrimoniale. L’attore non deduce di aver subito danni patrimoniali diversi ed ulteriori rispetto a quello che invoca per il mancato tempestivo risarcimento del danno non patrimoniale. Il danneggiato chiede che tale voce di danno (patrimoniale) gli venga risarcita attraverso la rivalutazione monetaria di quanto liquidato a titolo di danno non patrimoniale e attraverso il riconoscimento degli interessi legali su tale importo (rivalutato) con decorrenza dall’illecito. 4.3 Il lucro cessante per il ritardato risarcimento del danno. L’intero danno non patrimoniale è stato liquidato equitativamente - sulla base della richiamata tabella di liquidazione del danno alla persona - ai valori attuali della moneta e non deve quindi farsi luogo alla sua rivalutazione. Inoltre, alla luce dell’insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (risalente alla sentenza del 17/2/1995 n. 1712), vertendosi in tema di debito di valore non sono dovuti al danneggiato sul credito risarcitorio suddetto gli interessi legali con decorrenza dall’illecito. Si ritiene tuttavia, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso dall’illecito (6 anni) e delle caratteristiche del danneggiato, che vada riconosciuta all’attore un’ulteriore somma a titolo di lucro cessante provocato dal mancato tempestivo risarcimento del danno da parte dei responsabili- e conseguentemente dalla mancata disponibilità dell’equivalente pecuniario spettante al danneggiato potendo ragionevolmente presumersi che il creditore, ove avesse avuto la tempestiva disponibilità della somma, l’avrebbe impiegata in modo fruttifero. Ai fini della liquidazione necessariamente equitativa di tale ulteriore voce di danno patrimoniale, non si ritiene di far ricorso al criterio – sovente applicato dalla giurisprudenza - degli interessi legali al saggio variabile in ragione di anno (determinato ex art. 1284c.c.) da calcolarsi sull’importo già riconosciuto, dapprima “devalutato” fino all’illecito e poi “rivalutato” annualmente con l’aggiunta degli interessi, ovvero sul capitale “medio” rivalutato. Si ritiene preferibile, perché più rispondente alla finalità perseguita e scevro da possibili equivoci che possono derivare dall’applicazione ai debiti di valore di istituti previsti dall’ordinamento per i debiti di valuta, adottare per la liquidazione equitativa del lucro cessante in questione un aumento percentuale nella misura risultante dalla moltiplicazione di un valore base medio del 3% corrispondente all’incirca al rendimento medio dei Titoli di Stato negli anni compresi nel periodo che viene in rilievo – con il numero di anni in cui si è protratto il ritardo nel risarcimento per equivalente. Tale criterio equitativo sembra meglio evitare, da un lato, di far ricadere sul creditore/danneggiato le conseguenze negative del tempo occorrente per addivenire ad una liquidazione giudiziale del danno e, dall’altro, più idoneo a prevenire il rischio che il debitore/danneggiante (la cui obbligazione di risarcire per equivalente il danno diventa attuale dal momento in cui esso si verifica), anziché procedere ad una tempestiva riparazione della sfera giuridica altrui lesa, sia tentato di avvantaggiarsi ingiustamente della non liquidità del debito risarcitorio e della potenziale redditività della somma di denaro dovuta (che resta nella sua disponibilità fino alla liquidazione giudiziale del danno). 20 Nel caso di specie, considerato il tempo trascorso da quando il danno subito dall’attore si è pienamente verificato (2008) l’importo in questione viene dunque equitativamente liquidato attraverso una maggiorazione del 18% dell’intero danno suddetto (già rivalutato) e risulta pari ad euro 6.840,00. 4.4 Il complessivo danno risarcibile e la condanna solidale dei responsabili. Dalla somma delle voci di danno sopra liquidate si ottiene quindi un credito complessivo del danneggiato pari ad euro 44.840,00 (euro 38.000 + euro 6.840). Su tale somma, corrispondente all’intero danno risarcibile liquidato al creditore/danneggiato, sono altresì dovuti dai responsabili gli interessi al tasso legale sino al saldo, con decorrenza dalla data della presente pronuncia coincidente con la trasformazione del debito di valore in debito di valuta. I convenuti vanno pertanto condannati in solido ex art. 2055 c.c. a pagare all’attore a titolo di risarcimento del danno la somma complessiva di euro 44.840,00 oltre interessi legali dalla presente sentenza al saldo. 5. La domanda di manleva della struttura sanitaria contro il medico. Come detto, sin dalla comparsa costitutiva tempestivamente depositata il Policlinico di .. s.p.a. ha chiesto in via subordinata (per il caso in cui la domanda dell’attore fosse risultata fondata) la condanna del medico convenuto (dott. X) a manlevare e tenere indenne la struttura sanitaria dalle conseguenze della soccombenza. A fondamento di tale domanda la società convenuta invoca il “contratto di collaborazione libero professionale” sottoscritto dalle parti (doc. 2). Non si tratta pertanto di un’azione di regresso ex art. 2055 c.c., dal momento che il diritto azionato dalla struttura sanitaria non deriva dalla legge ma ha fonte (negoziale) nel contratto concluso dalle parti. Nella clausola 10 del contratto in questione, “il medico dichiara sin d’ora di manlevare e tenere indenne il Policlinico di .. da ogni conseguenza pregiudizievole che si riferisca ad ogni domanda promossa nei suoi confronti e nei confronti del Policlinico (…) dai pazienti suoi personali o da pazienti di Policlinico di .. che siano stati da lui assistiti (…) in conseguenza dell’attività da lui svolta presso la Casa di Cura” (punto 1 della clausola), con l’ulteriore specificazione che la suddetta “(…)manleva è formulata sia con riferimento ai casi di eventuale responsabilità per colpa grave o dolo (…) sia ai casi di responsabilità per scarsa diligenza (…) e comunque in ogni caso in cui venga accertata giudizialmente la responsabilità professionale del medico” (clausola 10.2). Non vi è dubbio che nel suddetto“patto di manleva”(che prevedeva anche l’obbligo del dott. X di avere una copertura assicurativa, fino ad un determinato massimale, a garanzia dei rischi derivanti dalla sua attività professionale e ad esibire alla struttura sanitaria la polizza, alla quale era condizionata la validità e l’efficacia del contratto di collaborazione fra le parti) il medico convenuto si è obbligato a tenere indenne la struttura sanitaria dalle pretese risarcitorie relative ai danni subiti dai pazienti in conseguenza dell’attività medico-chirurgica svolta dal professionista all’interno della casa di cura privata (sia in relazione ai pazienti personali del medico sia ai pazienti della casa di cura come l’odierno attore). Nel processo il medico convenuto non contesta l’esistenza di un interesse meritevole di tutela alla conclusione di siffatto accordo e non solleva eccezioni in merito alla validità e all’efficacia della clausola contrattuale che contiene l’atipico patto di manleva (vd al riguardo Cass. 30/5/2013 n.13613; Cass. 2/3/1998 n. 2365 e Cass. 8/3/1980 n. 1543) – che in sostanza finisce per scaricare sul professionista il rischio di impresa della clinica per i danni conseguenza delle prestazioni sanitarie eseguite dal dott. X all’interno della struttura - e non si ravvisano profili di invalidità rilevabili d’ufficio che possano indurre a ritenere inefficace il suddetto accordo frutto dell’autonomia negoziale delle parti. 21 In accoglimento della domanda di manleva, il medico convenuto va pertanto condannato a restituire alla Policlinico di … s.p.a. l’importo complessivo che tale parte in base alla presente sentenza fosse costretta a pagare all’attore in relazione alla pretesa risarcitoria oggetto di causa. 6. La domanda di garanzia del medico contro l’assicuratore. Infine, va altresì accolta la domanda di garanzia avanzata dal medico nei confronti del proprio assicuratore (convenuto) nella citazione introduttiva della causa riunita (R.G. ../2011). E’ incontroversa la validità e l’efficacia della polizza (n….) per la responsabilità professionale sottoscritta da X con la… Assicurazioni s.p.a.: tant’è che sin dalla comparsa costitutiva la compagnia assicuratrice ha concluso dichiarandosi pronta a “tenere indenne” il medico proprio assicurato da quanto fosse eventualmente tenuto a pagare all’esito del giudizio promosso nei suoi confronti da V. Va pertanto condannata la .. Assicurazioni s.p.a. a tenere indenne il proprio assicurato X dalla soccombenza e, quindi, a rimborsare al medico convenuto quanto da tale parte dovuto alle controparti sulla base della presente sentenza anche a titolo di spese di lite (cfr. Cass. 20/11/2012 n. 20322 e Cass. 31/5/2012 n. 8686). 7. Le spese di lite. In applicazione del principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.) ed in relazione alla causa R.G…/2010, i convenuti X e Policlinico di .. s.p.a. vanno condannati, in solido, a rifondere all’attore le spese di lite, liquidate come in dispositivo in base allo scaglione in cui è compreso il credito risarcitorio riconosciuto al danneggiato e comprensive degli oneri di CTU anticipati dalla parte vittoriosa. Il convenuto X, soccombente sulla domanda di manleva, va invece condannato a rifondere le spese di lite in favore di Policlinico di … s.p.a., liquidate come in dispositivo sulla base del medesimo criterio suddetto. Infine, sempre in base alla soccombenza l’assicuratore convenuto nella causa riunita (R.G…./2011) è tenuto a rifondere le spese di lite in favore di X anch’esse liquidate con lo stesso criterio come in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando … così provvede: 1. in accoglimento della domanda di risarcimento danni avanzata dall’attore, condanna X e Policlinico di … s.p.a., in solido, a pagare a V la somma complessiva di euro 44.840,00 oltre interessi al tasso legale dalla presente sentenza al saldo; 2. in accoglimento della domanda di manleva avanzata dalla struttura sanitaria convenuta, condanna X a restituire a Policlinico di … s.p.a. la somma complessiva che tale parte fosse costretta a pagare all’attore V sulla base del capo 1 della presente sentenza, oltre interessi legali dalla data del pagamento al saldo; 3. in accoglimento della domanda di garanzia avanzata da X, condanna… Assicurazioni s.p.a. a tenere indenne il predetto assicurato da ogni conseguenza patrimoniale derivante nei suoi confronti dalla presente sentenza; 4. condanna X e Policlinico di .. s.p.a., in solido, a rifondere all’attore V le spese di lite liquidate in complessivi euro 9.080,00, di cui euro 2.380,00 per esborsi (compresi oneri di CTU) ed euro 6.700,00 per compensi, oltre oneri accessori come per legge; 22 5. condanna X a rifondere a Policlinico di … s.p.a. le spese di lite liquidate in complessivi euro 6.779,75, di cui euro 79,75 per esborsi ed euro 6.700,00 per compensi, oltre oneri accessori come per legge; 6. condanna … Assicurazioni s.p.a. a rifondere a X le spese di lite liquidate in complessivi euro 7.258,00, di cui euro 558,00 per esborsi ed euro 6.700,00 per compensi, oltre oneri accessori come per legge. Così deciso in Milano il 17/7/2014. Il Giudice Patrizio Gattari 23 La Legge Balduzzi NON ha cambiato le regole: la responsabilità del medico ospedaliero è contrattuale. Trib. Milano, sez. V civ., sentenza 18 novembre 2014 n. 13574 (Est. Andrea M. Borrelli) MEDICO DIPENDENTE E/O COLLABORATORE DELLA STRUTTURA SANITARIA AUTORE DELLA CONDOTTA ATTIVA O OMISSIVA PRODUTTIVA DEL DANNO SUBITO DAL PAZIENTE COL QUALE TUTTAVIA NON HA CONCLUSO UN CONTRATTO DIVERSO ED ULTERIORE RISPETTO A QUELLO CHE OBBLIGA LA STRUTTURA NELLA QUALE IL SANITARIO OPERA – RESPONSABILITÀ – NATURA GIURIDICA – EXTRACONTRATTUALE – ESCLUSIONE - CONTRATTUALE – SUSSISTE (art. 3, L. 189/2012; art. 1218, 2043 cod. civ.) La responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 l. 189/12 – è da qualificarsi come contrattuale. Il primo comma dell'art. 3 del D.L. Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L'ossequio alla lettera della nuova disposizione comporta anche adeguata valorizzazione dell'incipit dell'inciso immediatamente successivo alla proposizione che esclude la responsabilità penale del sanitario in detti casi , per effetto del quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto - appunto - a "tali casi" (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito linee guida ecc.). D'altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l'azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il (solo) regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1218 c.c. e così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per es. "la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria per l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall'art. 2043 del codice civile") anziché il breve inciso in commento. RAGIONI DELLA DECISIONE Il Signor M. I. chiede la condanna dei tre convenuti, in solido fra loro, al pagamento di € 100.000,00 (oltre interessi e rivalutazione) per i danni patrimoniali e non patrimoniali, inclusi quelli biologici, morali ed esistenziali, inizialmente (nell'atto introduttivo del presente giudizio) quantificati nel complessivo importo di € 330.000,00, che assume di aver patito in conseguenza di ritardo diagnostico. L'attore narra di essersi presentato, il 3.10.2002, alle ore 8:43, al Pronto Soccorso dell'Ospedale di *, accusando fortissimi dolori all'occhio sinistro e disturbi visivi. Segnala di aver dichiarato di fare uso di lenti a contatto. Il medico di turno aveva riscontrato iperemia congiuntivale e chiesto che I. venisse sottoposto a visita di specialista oculista. Questi, che in un secondo momento è risultato essere il convenuto Dottor C.V., esaminato l'occhio dell'attore in modo sbrigativo, aveva dimesso il paziente alle ore 9:20 con diagnosi di "infiltrato corneale centrale" e prescritto applicazioni serali di collirio e applicazioni di pomata oftalmica …, nonché nuova visita di controllo dopo quattro giorni. L'attore tuttavia, poiché continuava "ad accusare dolori lancinanti all'occhio sinistro" e si era accorto di non vedere (anche perché l'occhio era coperto da pus), era tornato al Pronto Soccorso 24 dell'ospedale di *-nelle prime ore del 4.10.2002. La Dottoressa M. P. F., medico di turno, preso atto della visita specialistica già effettuata e nonostante il dolore lamentato dal paziente, il rossore diffuso dell'occhio, la pupilla bianca, la suppurazione in atto, aveva, dopo una visita di sei minuti, steso referto di "iperemia congiuntivale. Residui di pomata oft. Probabile infiltrato corneale", così mostrando di avere scambiato il materiale purulento per residui di pomata, e, alle ore 3:57 aveva dimesso l'attore invitandolo s "seguire i consigli dello specialista oculista". Poiché però, nonostante l'assunzione degli antidolorifici prescritti al bisogno, il dolore non era diminuito, M. I., lo stesso 4.10.2002. si era recato - anche questa volta, come le precedenti, accompagnato dal padre - presso l'Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano", dove il medico di turno, resosi conto della gravità della condizione dell'attore, ne aveva disposto il ricovero d'urgenza, con diagnosi di "ampio ascesso corneale all'occhio sinistro". Sostiene l'attore che i due sanitari dell'Ospedale di *, convenuti insieme all'Azienda Ospedaliera, avrebbero errato la diagnosi iniziale e la cura, facendo perdere al paziente "quasi 48 ore preziose per l'avvio della corretta terapia", con la conseguenza che neppure le appropriate cure praticategli presso il Fatebenefratelli avevano potuto impedire il verificarsi di "gravi e permanenti lesioni corneali". Affermato che, alla stabilizzazione del quadro clinico, il suo occhio sinistro aveva un visus residuo di soli 3/10 e un leucoma corneale con assottigliamento dello spessore corneale maggiore nella porzione apicale; asserito che l'imperizia, l'imprudenza e la negligenza dei sanitari di Desio aveva comportato l'evolvere della patologia iniziale (infiltrato corneale) in ascesso, causandogli danno biologico valutato (da perito consultato dall'I.) nella misura del 13-14%, invalidità temporanea totale per otto giorni di ricovero presso il Fatebenefratelli, e i.t. parziale successiva, oltre a danno patrimoniale, pari alle spese sostenute per visite specialistiche, farmaci e occhiali, quantificabile in € 1798,00, oltre a menomazione della capacità lavorativa futura (all'epoca l'attore, diciannovenne, era ancora studente) e "danno estetico", psichico e alla vita di relazione. I tre convenuti si sono costituiti nel presente giudizio in data 30.10.2009, con il ministero di unico difensore, ma depositando due distinti fascicoli e comparse di risposta. Contestano la responsabilità per i danni (da inadempimento contrattuale) loro attribuita dall'attore, ma anche la sussistenza dei pregiudizi allegati da I., e chiedono respingersi le domande formulate dall'attore. M.P.F. e l'Azienda Ospedaliera di * segnalano inoltre di avere, nel dicembre 2008, a mero fine transattivo, formulato offerta di pagamento della somma di € 10.000,00. * Nel corso del presente giudizio è stata disposta ed effettuata CTU affidata all'esperto in medicina legale … e all'oftalmologo Dott. … Questi hanno inteso premettere alla risposta al quesito loro assegnato che "la cheratite microbica rappresenta un urgenza-emergenza oculistica in quanto possono evolvere verso una perforazione con endoftalmite. La cicatrice corneale è spesso molto invalidante. L'uso delle lenti a contatto rappresenta il più frequente fattore di rischio di un'infezione batterica. L'uso non corretto delle lenti, la scarsa igiene sono spesso alla base della cheratite. La lente a contatto determina meccanicamente una sofferenza dell'epitelio corneale consentendo ai germi di attraversare la barriera epiteliale e penetrare nello stroma corneale. I germi più tipicamente coinvolti sono i Gram+, stafilococchi, e Gram-, lo Pseudomonas aeruginosa. Quest'ultimo rappresenta la causa più frequente di cheratite associata a lenti a contatto con quadri clinici a rapida progressione per la suppurazione marcata e necrosi tessutale." Fatta questa premessa i CTU escludono che siano ravvisabili elementi di colpa professionale nella condotta del Dr V., medico oculista che visitò I. il 3.10.2002. In quella occasione, scrivono gli Ausiliari del giudice sulla base della documentazione clinica agli atti, la patologia corneale relativa all'occhio sinistro "era ancora agli esordi: era visibile solo un infiltrato corneale centrale". Cosicché i consulenti ritengono "essere stata correttamente prescritta una terapia topica con cicloplegico e Pensulvit (Tetraciclina Sulfametiltiazolo) pomata 4 volte al dì". Osservano i CTU che, per le caratteristiche farmacologiche della pomata consigliata, e in particolare della Tetraciclina, farmaco antibatterico inibitore della sintesi proteica, efficace contro i batteri 25 Gram-positivi, Gram-negativi anaerobi e microrganismi come rickettsie, clamide, micoplasmi, brucelle, escherichia coli, la prescrizione era corretta in relazione al quadro clinico riscontrato. Nei propri scritti conclusivi parte attrice contesta la valutazione dei CTU assumendo che il convenuto V. avrebbe errato, per negligenza, nell'omettere di far effettuare un'analisi colturale, necessaria al fine di individuare con esattezza l'agente patogeno responsabile dell'infezione. Parimenti avrebbe errato nel prescrivere una pomata generica ad ampio spettro e nel prescrivere visita di controllo a distanza di ben quattro giorni. Osserva il giudice che la pomata Pensulvit è indicata nel trattamento topico delle infezioni oculari esterne generate da microrganismi sensibili alla Tetraciclina ed al Sulfametiltiazolo. Essa deve la sua efficacia biologica e il suo ampio spettro d'azione alla presenza di due principi attivi dotati di un'intensa attività antibiotica. Più precisamente la Tetraciclina è un principio attivo estratto a partire da ceppi di Streptomyces, dotato di attività batteriostatica o battericida dose-dipendente particolarmente efficace nei confronti dei batteri Gram negativi. Penetrata nell'ambiente cellulare la Tetraciclina è in grado di legare la subunità ribosomiale 30S, inibendo l'allungamento della catena peptidica e compromettendo quindi le capacità biosintetiche del battere, inducendone la morte. Il Sulfametiltiazolo invece è una molecola dotata di attività antimetaboliche che, in quanto sulfamidico, può competere con l'acido paraminobenzoico nella sintesi dell'acido folico e inibire la sintesi di un mediatore particolarmente importante nell'economia del microrganismo. Tale attività risulta efficace nei confronti dei batteri Gram positivi, Gram negativi e nei confronti della Chlamydia Trachomatis. Pensulvit è indicato anche nella profilassi pre e post-operatoria e come coadiuvante terapeutico in corso di tracoma. Questa è una malattia infettiva certamente non meno grave e preoccupante della cheratite diagnosticata all'I., che affligge quasi sempre entrambi gli occhi, causata da Chlamydia trachomatis, batterio gram-negativo che si localizza a livello della congiuntiva determinando un processo infiammatorio a evoluzione cronica e un'infezione molto contagiosa che può condurre alla cecità permanente. La provata efficacia dei due principi attivi di Pensulvit rende infondata la censura mossa dall'attore alla scelta di quel farmaco. Parimenti infondato appare il rimprovero relativo alla omessa effettuazione di analisi colturale, atteso che la patologia era solo all'esordio quando I. venne visitato dal V. e non risulta letteratura che la prescriva fin da tale fase. Inoltre non può tenersi conto del rilievo in ordine alla insufficienza della posologia prescritta dal Dr V., giacché esso è stato sollevato dall'attore per la prima volta in comparsa conclusionale: dunque tardivamente. Appare invece fondato il rilievo relativo all'eccessiva distanza temporale indicata per la successiva visita di controllo. Considerato infatti che i CTU affermano che il quadro clinico delle cheratiti microbiche associate all'uso di lenti a contatto è a rapida progressione, e perciò esse rappresentano un'urgenza-emergenza oculistica, potendo evolvere in perforazione con endoftalmite; considerato che anche nelle difese di parte convenuta si legge che trattasi di patologia soggetta a "variazioni importanti in un breve lasso di tempo", ritiene questo giudice che la prescrizione di visita di controllo a distanza di ben quattro giorni abbia costituito comportamento imprudente del sanitario. Del resto, i medesimi consulenti, comparsi per rendere chiarimenti nell'udienza 22.12.2011, hanno dichiarato che le linee-guida accreditate consiglierebbero - per la corretta gestione di una cheratite batterica - l'attesa di circa 48 ore prima di modificare gli atteggiamenti clinici e terapeutici in caso di inefficacia delle cure inizialmente prescritte, e non già di 96 ore, pari all'attesa indicata dal Dr V. nella fattispecie all'esame di questo giudice. Sotto il profilo soggettivo appare dunque sussistere l'inesatto adempimento della prestazione ascritto al convenuto V. (sulla natura contrattuale della responsabilità si dirà infra). 26 Esso, tuttavia, ad avviso di questo giudice non può dare luogo a risarcimento poiché, sul piano causale, non ha spiegato effetto alcuno. L'attore I., infatti, dopo essere stato dimesso dallo specialista oculista alle ore 9:20 del 3.10.2002, si presentò nuovamente al Pronto Soccorso dell'Azienda convenuta alle ore 3:51 del giorno successivo: vale a dire meno di diciotto ore dopo la prima visita. Dunque egli - fortunatamente - non tenne in conto l'indicazione ricevuta e, spinto dall'aggravarsi del proprio male, tempestivamente tornò a rivolgersi alle cure del P.S. dell'Ospedale di *. Per la considerazione che precede (carenza di nesso causale fra la negligenza e il danno) la domanda proposta nei confronti del Dr V. deve essere respinta. Ma l'inesatto adempimento di cui sopra appare a questo giudice giusto motivo (ex art. 92 c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis al presente giudizio) di integrale compensazione delle spese relative al rapporto processuale I.-V. * L'attore deve invece essere integralmente risarcito dai convenuti Dottoressa …. e Azienda Ospedaliera di * del danno cagionatogli dall'inesatto - per negligenza, imprudenza o forse anche imperizia - adempimento della sanitaria, del quale l'Azienda Ospedaliera deve rispondere ai sensi dell'art. 1228 c.c. [Sulla natura contrattuale della responsabilità sanitaria] Prima di approfondire l'esame delle censure che possono muoversi all'operato della Dott.ssa F., appare necessario prendere posizione in ordine a orientamento recentemente espresso da Giudice di altra Sezione (I Civile) di questo Tribunale (sent. 17.7.2014), così massimato: <<Il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare)… Se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. che l’attore ha l’onere di provare; se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c.>>. La norma in questione, l'art. 3 co. I del D.L. 158/2012 come sostituito dalla legge di conversione n. 189/2012, che, secondo l'interpretazione proposta dal Giudice della Prima Sezione Civile del Tribunale di Milano con la sentenza in data 17.7.2014, impedirebbe ora di qualificare come contrattuale la responsabilità del medico ospedaliero, e, secondo precedente pronunzia del Tribunale di Torino (in data 26.2.2013), avrebbe <<gettato alle ortiche>> la costruzione giurisprudenziale del contatto sociale come fonte di obblighi e responsabilità di natura contrattuale, così recita: <<L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo>> (enfatizzazioni di questo estensore). Il testo originario dell'art. 3 co. I del decreto-legge Balduzzi (n. 158/2012, elaborato in sede governativa), prima di essere come sopra sostituito dalla legge di conversione (n. 189/2012, 27 elaborata invece in sede parlamentare), era il seguente: <<Fermo restando il disposto dell'articolo 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell'attività dell'esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell'articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale>>. Proprio la differente formulazione delle due norme (quella originaria facente riferimento alla disciplina del contratto d'opera intellettuale e dell'adempimento delle obbligazioni, e quella della legge di conversione facente invece riferimento alla norma che afferma la responsabilità extracontrattuale di chiunque cagioni ad altri, con dolo o con colpa, un danno ingiusto), unitamente alla opinione che <<L'interprete non pare autorizzato a ritenere che il legislatore abbia ignorato il senso del richiamo alla norma cardine della responsabilità da fatto illecito, nel momento in cui si è premurato di precisare che, anche qualora l'esercente una professione sanitaria “non risponde penalmente per colpa lieve” (del delitto di lesioni colpose o di omicidio colposo) essendosi attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, “in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile">> hanno indotto il Giudice della Sezione I Civile del Tribunale di Milano (e, prima di lui, oltre al cit. Tribunale di Torino, anche il Tribunale di Varese: sent. 26.11.2012 n. 1406) a porsi in contrasto con l'indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione, consolidatosi nel tempo e ribadito, anche dopo l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto Balduzzi, secondo il quale la responsabilità professionale del medico rientra nel genus della responsabilità contrattuale (Cass. Sez. VI Civ. 17.4.2014 n. 8940; Cass. 19.2.2013 n. 4029). In particolare, con l'ordinanza 17.4.2014 n. 8940, la Corte di Cassazione aveva affermato che <<L'art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, … non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve>>. A tale orientamento del Giudice della Nomofilachia la pronuncia di Trib. Milano Sez. I Civ. obietta, in sostanza, che l'interprete deve presumere il Legislatore consapevole e dunque, con riguardo alla norma in esame, ritenere che volutamente abbia richiamato l'art. 2043 c.c., al fine di ricondurre, una volta per tutte, la disciplina della responsabilità del medico ospedaliero nel quadro di quella extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c., intenzionalmente soppiantando l'elaborazione giurisprudenziale (di merito e di legittimità) affermatasi nel precedente quindicennio circa la responsabilità da contatto sociale. La tesi sopra riassunta non è condivisa da questo giudice (della Sezione V Civile del Tribunale di Milano). L'orientamento interpretativo della Sezione I Civile del Tribunale di Milano si fonda - come rilevato - sul postulato che il Legislatore agisca sempre in modo consapevole e razionale. Conseguentemente, secondo quel Giudice, deve escludersi che l'inciso contenuto nell'art. 3 co. I del D.L. Balduzzi, come sostituito dalla legge di conversione n. 189/2012, possa essere ritenuto frutto di una mera "svista". Detto orientamento, tuttavia, non può fare a meno di attribuire al medesimo Legislatore altra, non meno grave, svista: quella consistente nell'aver del tutto dimenticato di distinguere la disciplina applicabile ai casi in cui il paziente si sia rivolto direttamente e personalmente a un medico di sua fiducia, per i quali, come correttamente afferma Trib. Milano Sez. I, 17.7.2014 cit., il regime della responsabilità per i danni causati nell'esercizio dell'attività professionale medica rimane quello dettato dall'art. 1218 c.c.1, dalla disciplina da applicarsi invece ai casi in cui il paziente si sia 1 <<In tal caso il medico è legato al paziente da un rapporto contrattuale (diverso sia dal rapporto che lega il sanitario alla struttura nella quale opera, sia dal rapporto che intercorre fra il paziente e la struttura) e pertanto la sua responsabilità risarcitoria ben può (e deve) essere ricondotta alla responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.>>: così Trib. Milano Sez. I, 17.7.2014 cit.; 28 rivolto alla struttura sanitaria (ospedale, clinica, ambulatorio) e non al medico, per i quali, in conseguenza dell'entrata in vigore della norma in questione (L. 189/2012 cit.), <<il criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.>> (Trib. Milano Sez. I cit.). L'interpretazione additiva proposta dal Giudice della Prima Sezione del Tribunale di Milano, risultando sostanzialmente manipolativa della norma in esame (che in realtà tace sulle fattispecie di responsabilità contrattuale e non menziona la degenza ospedaliera o altro rapporto con struttura sanitaria quale proprio presupposto di fatto), pare contrastare anch'essa con la presunzione di consapevolezza di cui sopra e si presta, perciò, alla medesima critica che essa rivolge all'interpretazione fatta propria da Cass. n. 8940/2014 cit., che limita la portata della norma in parola alla riaffermazione del principio che, nel giudizio risarcitorio civile, diversamente che in quello penale, et levissima culpa venit. Introducendo la distinzione di cui sopra (non presente nel dato normativo), l'interpretazione che si tenta qui di confutare finisce col tenere in vita la categoria delle fattispecie originate da contatto sociale (per differenziarne il trattamento) proprio nel momento in cui ne afferma intervenuto il tramonto definitivo. Alle considerazioni che precedono può aggiungersi che il primo comma dell'art. 3 del D.L. Balduzzi come sostituito dalla legge di conversione si riferisce, esplicitamente, ai (soli) casi di colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L'ossequio alla lettera della nuova disposizione dovrebbe comportare anche adeguata valorizzazione dell'incipit dell'inciso immediatamente successivo alla proposizione che esclude la responsabilità penale del sanitario in detti casi2, per effetto del quale deve ritenersi che esso si riferisca soltanto - appunto - a "tali casi" (di colpa lieve del sanitario che abbia seguito linee guida ecc.). In senso conforme a quanto appena osservato si è espresso il Tribunale di Brindisi con sentenza in data 18.7.2014. Che aggiunge doversi escludere l'efficacia retroattiva della norma de qua (art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale): con conseguente inidoneità dell'art. 3 co. I D.L. 158/2012 come sostituito dalla L. 189/2012 a regolamentare rapporti - quale quello oggetto del presente giudizio - venuti a esistenza nella vigenza del precedente quadro normativo-giurisprudenziale. D'altra parte, secondo questo il giudice, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l'azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il (solo3) regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1218 c.c. e così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per es. "la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria per l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall'art. 2043 del codice civile") anziché il breve inciso in commento. Insomma, pur non essendo qui d'aiuto il noto brocardo ubi lex voluit dixit, poiché il Legislatore, effettivamente, aliquid dixit, non può comunque ritenersi - ad avviso di chi scrive - che la locuzione meramente "eccettuativa" (così Trib. Brindisi cit.) di cui trattasi abbia inequivocabilmente reso manifesta la volontà del Legislatore stesso di negare la configurabilità di responsabilità contrattuale in capo al medico ospedaliero ets. Inoltre, ritenere che l'esercente la professione sanitaria, ogni qual volta svolga la propria attività all'interno di una struttura, sia tenuto, nei confronti del paziente, a rispettare soltanto il precetto generale dell'art. 2043 c.c. (sintetizzabile nel comando di non nuocere al prossimo: alterum non 2 inciso che, si rammenta, suona così: "In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile"; 3 è qui il caso di segnalare che, secondo copiosa giurisprudenza (di merito e di legittimità), la responsabilità ex contractu dell'esercente la professione sanitaria può concorrere con quella ex delictu di cui all'art. 2043 c.c.; 29 laedere), valido per la totalità dei soggetti, anche non esercenti la professione sanitaria, e non debba invece rispettare l'obbligo di diligenza professionale posto dall'art. 1176 co. II c.c., appare a questo giudice oltremodo riduttivo della funzione sociale dell'esercente la professione sanitaria. Infine, se è vero che dall'opzione interpretativa che esclude l'applicabilità della disciplina della responsabilità contrattuale all'attività dell'esercente la professione sanitaria in ambito ospedaliero discendono conseguenze sia in tema di riparto dell’onere di allegazione e prova (che diverrebbe assai più gravoso per il danneggiato), sia in ordine al termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno (che risulterebbe dimezzato), e che tali conseguenze appaiono, al Giudice della Prima Sez., coerenti con l'intento del Legislatore di contenere la spesa pubblica e di arginare il dilagante fenomeno della “medicina difensiva" (che su detta spesa incide), è altresì vero che quell'opzione comporterebbe l'inapplicabilità al sanitario del limite alla responsabilità del prestatore d'opera posto dall'art. 2236 c.c. (in materia contrattuale)4, ciò che - ad avviso di chi scrive - darebbe nuova linfa proprio a quell'atteggiamento "difensivo" che in realtà si vorrebbe debellare. Dunque, neppure l'argomento della ratio legis appare poter sostenere l'opzione interpretativa che sottrae l'attività del sanitario al regime della responsabilità contrattuale. Non resta, perciò, che adeguarsi alla già ricordata interpretazione proposta da Cass. 17.4.2014 n. 8940, secondo cui la volontà del Legislatore oggettivatasi nel dato normativo altro non è che quella di escludere la responsabilità penale del sanitario (che abbia seguito le linee guida ecc.) in caso di colpa lieve, tenendo però al contempo aperta la possibilità che - anche in caso di assoluzione penale per levità della colpa - al danneggiato possa spettare un risarcimento civilistico (secondo il brocardo: in lege aquilia et levissima culpa venit). * Per le considerazioni che precedono questo giudice ritiene di non discostarsi dal proprio precedente orientamento (conforme all'insegnamento della Cassazione e alla giurisprudenza della Sez. V civ. del Tribunale di Milano) e di inquadrare la fattispecie oggetto di causa nell'ambito della disciplina della responsabilità contrattuale. Si continua cioè a ritenere che sia l'obbligazione del nosocomio nei confronti del paziente, sia quella del medico, ancorché non fondate, talvolta l'una, talvolta l'altra, su una stipulazione negoziale di tipo ordinario, ma su un mero contatto sociale, abbiano comunque natura contrattuale, atteso che a detto contatto si ricollegano specifici obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi (nella fattispecie quello preso in considerazione dall'art. 32 Cost.) che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (Cass. Sez. 3, 19.4.2006 n. 9085). Con specifico riguardo alla responsabilità dell'ospedale può osservarsi che, secondo Cass. Sez. 3, 14.6.2007 n. 13953, essa può derivare, oltre che dall'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico (ai sensi dell'art. 1218 c.c.), anche, in virtù dell'art. 1228 c.c., dall'inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, o dall'infermiere, quali suoi ausiliari necessari, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costoro effettuata e la sua organizzazione aziendale. Nello stesso senso si sono espresse anche Cass. Sez. III, 3.2.2012 n.1620 e Cass. Sez. III, 13.4.2007 n. 8826. * Nel caso in esame, secondo la valutazione dei CTU, sussistono elementi di colpa a carico della Dottoressa M.P. F. dell'Ospedale di *, che visitò I: quando questi si presentò per la seconda volta al Pronto Soccorso (meno di diciotto ore dopo la prima visita). Gli Ausiliari del giudice ravvisano tali elementi nel "non aver consigliato una nuova valutazione oculistica a fronte di una situazione clinica sicuramente aggravata rispetto alla prima valutazione specialistica", nell'aver ignorato la pericolosità di una cheratite microbica in rapido peggioramento e che essa necessita di urgenti cure, nonché nel non avere neppure interpellato telefonicamente lo specialista oftalmologo di turno. 4 per l'art. 2236 c.c. "se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave"; 30 Ciò ha comportato - secondo i CTU - un ritardo di almeno sedici ore nell'inizio delle cure mirate rese necessarie dal rapido aggravamento del quadro clinico. Le corrette cure, se diligentemente e tempestivamente prestate, avrebbero determinato una riduzione dell'estensione e della perdita tessutale della cicatrice corneale (relaz. CTU, pag. 5). I Consulenti stimano il danno iatrogeno patito da I. in conseguenza di tale ritardo in termini di 3-5 punti percentuali dell'integrità psicofisica (danno biologico permanente), ma escludono che l'attore abbia patito invalidità temporanea o inabilità (lavorativa) specifica causate dall'operato della convenuta. Essi inoltre affermano che le spese mediche documentate in atti sarebbero state comunque necessarie, anche in assenza della colpa di cui si è detto, alla quale dunque non sono legate da nesso eziologico. Tale stima dei CTU è contestata dalla difesa di parte attrice, che valuta invece il danno iatrogeno permanente nella misura del 15-20%; la difesa dell'attore inoltre sostiene che alla Dottoressa F. sia da addossarsi anche la responsabilità per invalidità temporanea, per danno estetico, "morale", "esistenziale" e patrimoniale da diminuite chance di guadagno futuro. In proposito osserva il giudice che, come chiarito dai CTU nell'udienza 22.12.2011, una cheratite batterica del tipo di quella che colpì I., "anche se trattata correttamente fin dagli esordi, ha sempre esiti invalidanti": produce opacità, perdita tessutale e danno funzionale (cfr. verb. ud. cit.). Essendo pacifico che l'insorgenza della patologia non sia in alcun modo imputabile ai convenuti, ma solo l'aggravamento di essa determinato dal ritardo diagnostico, deve osservarsi che l'attore, dopo essere stato visitato, alle ore 3.51 del 4.10.2002, dalla F. (cui era colposamente sfuggita l'evoluzione ingravescente dell'infezione), si presentò ad altra visita, presso la 2^ Divisione di Oculistica dell'Ospedale …. e Oftalmico di Milano lo stesso giorno 4.10.2002, facendo ingresso in "reparto d'urgenza", dove, il successivo 5.10.2002, gli venne diagnosticato "ampio ascesso corneale con perdita di sostanza centrale" in OS (cartella clinica doc. 3 att.). Dunque il ritardo nell'inizio delle cure appropriate al caso, imputabile alla F., spiegò effetti solo per alcune ore. L'esiguità di tale ritardo, come illustrato dai CTU, non priva il medesimo di efficacia causale in relazione alla menomazione dell'integrità psico-fisica residuata a carico dell'I.. Ma certo impedisce che ai convenuti possano essere imputate per intero le conseguenze, temporanee e permanenti, della menomazione riportata dall'attore. Ritiene perciò questo giudice che, se appare eccessivamente contenuta la stima del danno biologico iatrogeno permanente compiuta dai CTU (3-5%), atteso che anche i convenuti riconoscono, nei loro scritti difensivi, che la patologia in questione è soggetta a "variazioni importanti in un breve lasso temporale", le conseguenze del ritardo de quo non possono, ad avviso del giudicante, aver avuto, sull'integrità psicofisica dell'attore, già precedentemente colpito dalla cheratite microbica, incidenza superiore al 7%. Così come non pare potersi stimare l'invalidità temporanea (conseguita al ritardo diagnostico) superiore agli otto (8) giorni di ricovero affrontati dall'I., nella residua parte essa apparendo costituire conseguenza ordinaria della patologia pregressa dell'attore. Con riguardo alla liquidazione di tali danni osserva questo giudice che, in presenza dei criteri dettati dalla legge n. 57 del 2001 (poi trasfusi nell'art. 139 del Codice delle Assicurazioni di cui al d.lgs. 7.9.2005, n. 209) per la quantificazione del ristoro delle cd. microlesioni (tali essendo quelle fino al 9% della integrità psico-fisica della persona) prodotte da incidenti stradali, appare doveroso (nonostante il contrario pronunciamento, in questo processo non giuridicamente vincolante, e neppure astrattamente convincente5, contenuto in C.Cost. 6.10.2014 n. 235) che il giudice, nell’esercizio della discrezionalità attribuitagli dall’art. 1226 c.c., si uniformi a essi anche al di fuori delle fattispecie cui la legge citata si riferisce espressamente. 5 attesa l'incomparabilità (ritenuta da questo giudice), per la loro notevolmente diversa rilevanza costituzionale, de "l'interesse risarcitorio particolare del danneggiato" derivante da lesione del diritto alla salute con "quello, generale e sociale, degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi"; 31 Ritiene il giudicante che l'interprete chiamato a procedere a liquidazione equitativa di danno all'integrità psico-fisica, avendo avuto indicazione dal Legislatore del 2001 circa il valore monetario da attribuire alla menomazione del bene salute (la cui consistenza ontologica non muta a seconda della sua eziologia, né della collocazione cronologica), non possa preferire parametri di propria concezione a quelli legali. L'esigenza di doveroso ossequio all'indicazione del Legislatore discende, a parere di chi scrive, dall'insussistenza di ragioni che possano giustificare il ricorso a diversi metri di valutazione dei danni alla persona a seconda delle circostanze in cui essi si siano verificati: il bene salute, oggetto di espressa tutela costituzionale, appare infatti meritare il medesimo risarcimento quale che sia l’eziologia che ne abbia determinato la menomazione. E, in assenza di una fondata ragione di diversificazione del trattamento risarcitorio, apparirebbe in contrasto con lo spirito di una delle norme cardine del nostro ordinamento, costituita dall’art. 3 della Costituzione, il ricorso a diversi criteri valutativi per fattispecie tra loro analoghe nella qualità delle conseguenze. Le considerazioni che precedono appaiono trovare conferma nell'intervento legislativo di cui al D.L. n. 158/2012 convertito con modificazioni nella L. 8.11.2012 n. 189, che, all'art. 3 comma III - non applicabile ratione temporis alla presente fattispecie - stabilisce che, anche in caso di responsabilità sanitaria, il danno biologico deve essere risarcito secondo i criteri di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni. Secondo dette Tabelle di legge, una menomazione di sette (7) punti percentuali di invalidità permanente arrecata a persona che, al momento della cessazione dell'invalidità temporanea, aveva come I.6 - l'età di 19 anni, deve essere risarcita con la somma di € 10.109,25. Il risarcimento del danno biologico temporaneo, come sopra ritenuto (otto gg. di i.t.a.), deve essere liquidato - giusta i predetti parametri legali - nell'importo di € 371,44. Quanto ai pregiudizi "morali" (sofferenze fisiche e turbamento psichico) ed "esistenziali" (alla vita di relazione), deve osservarsi che il loro ristoro è ricompreso nella somma liquidata a titolo di risarcimento del danno biologico (Cass. SU 11.11.2008 nn. 26972-5). Né risulta dedotta alcuna concreta lesione di (altro7) interesse preso in considerazione da norma costituzionale, ciò che esclude la configurabilità di un ulteriore danno non patrimoniale risarcibile. Quanto al danno patrimoniale infine, nulla può riconoscersi in favore di M. I. a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da diminuite chance di guadagno, atteso che è incontroverso che egli, dopo le vicende per cui è causa, si laureò in economia e attualmente (da vari anni) lavora presso studio di commercialista. Né può disporsi il rimborso di spese (mediche) passate o future, giacché - come affermato dagli Ausiliari del giudice - esse sarebbero state comunque da sostenersi da parte dell'attore in conseguenza della patologia autonomamente contratta dall'attore, e non paiono essere state determinate dal ritardo diagnostico. Sugli importi come sopra riconosciuti per il risarcimento del danno biologico iatrogeno debbono conteggiarsi in favore dell’attore anche gli interessi compensativi del ritardo con cui egli ottiene il risarcimento del danno. Tali interessi, in ossequio all’insegnamento di Cass. SU n. 1712/95, volto a evitare ingiustificati arricchimenti, sono da calcolarsi in misura legale sul valore capitale del danno “devalutato” all’epoca del suo verificarsi, e poi via via sul capitale incrementato in misura proporzionale al decremento del potere di acquisto della moneta. In concreto, con l’ausilio di strumento informatico, si è provveduto a rivalutare annualmente l’importo delle menzionate voci di danno a partire dalla data della loro verificazione (ottobre 2002), applicando l’indice ISTAT dell'epoca corrispondente, e, con identiche cadenze, sono stati calcolati, e poi sommati fra loro, gli interessi al tasso legale su tali importi annualmente crescenti. Il risultato di tale operazione, eseguita mediante strumento informatico, è pari a complessivi € 2.641,25 (€ 2547,52 + 93,73). 6 7 nato il 9.8.1983; diverso dal già considerato bene salute; 32 M.P. F. e l'Azienda Ospedaliera di * debbono pertanto essere condannati, in solido fra loro, a pagare all'attore, a titolo di risarcimento del danno, la complessiva somma di € 13.121,91, oltre successivi interessi compensativi in misura legale da calcolarsi sull'importo capitale attualizzato di € 10.480,69 dal 28.7.2014 (data del passaggio in decisione della presente controversia) fino al saldo effettivo. * Le spese processuali relative al rapporto fra I. e i convenuti F. e Osp. * del presente giudizio seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.) e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo, giusta il D.M. 10.3.2014 n. 55, tenendo conto della fascia tariffaria relativa all'importo della condanna, della qualità della difese, della quantità di questioni trattate. Analogamente gli oneri di CTU, atteso l'esito complessivo del processo, debbono essere definitivamente posti a carico dei predetti convenuti F. e Az. Osp. *. * La presente sentenza è immediatamente esecutiva per legge (art. 282 c.p.c.). P.Q.M. Il Tribunale di Milano, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda o eccezione assorbita, disattesa o respinta: assolve C. V. dalla domanda di condanna al risarcimento dei danni nei suoi confronti proposta da M. I., a spese compensate; condanna M.P. F. e Azienda Ospedaliera di *, in solido fra loro, a pagare a M. I. la somma di € 13.121,91, oltre successivi interessi compensativi in misura legale da calcolarsi sull'importo capitale attualizzato di € 10.480,69, dal 28.7.2014 fino al saldo effettivo; condanna M.P. F. e Azienda Ospedaliera di *, in solido fra loro, a rifondere a M. I. le spese processuali, liquidate in € 4700,00 per compensi (da maggiorarsi di IVA e CPA) e in € 240,00 per esborsi; pone le spese di CTU, come già liquidate in corso di causa, definitivamente a carico di M.P. F. e Azienda Ospedaliera di *, in solido fra loro. Sentenza esecutiva. Milano, (in decisione il) 28.7.2014. Il giudice Andrea Manlio Borrelli 33 - Anche dopo la legge Balduzzi, la responsabilità medica è contrattuale - - Trib. Brindisi, sentenza 18 luglio 2014 (es. Antonio Ivan Natali) Decreto Balduzzi - colpa lieve - responsabilità ex 2043 c.c. -contrasto con orientamento interpretativo consolidato Se anche il Legislatore, con il decreto Balduzzi, ha voluto suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana, nondimeno è indubbio che tale scelta si pone in contrasto con l’univoco orientamento interpretativo in materia che, muovendo le mosse da Cass. 589 del 1999, ricostruisce come contrattuale - seppur non da contratto ma da contatto - la responsabilità dei medici e della struttura ospedaliera. Decreto Balduzzi - interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di effettività ex art. 24 Cost. – necessità Il decreto Balduzzi che inerisce alle condotte di colpa lieve - per così dire penalmente “scusabili”, perché conformate dalla comune prassi medica e per le quali si introduce la non sanzionabilità sul piano penale, ma provviste di permanente rilevanza dal punto di vista civilistico – deve essere oggetto di un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost.. Opzione per la responsabilità ex art. 2043 c.c. - previsione espressa ed esplicita – necessità Con l’uso della locuzione con valenza eccettuativa, “fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile”, il legislatore – il cui intento era quello di regolamentare i soli profili penali - non ha espressamente e univocamente limitato i rimedi risarcitori esperibili, prevedendo, cioè, che, a fronte delle suddette condotte, fosse esperibile solo il rimedio aquiliano, per contro, l’eventuale adesione ad un modello di responsabilità (quello ex art. 2043 c.c.) diverso da quello consacrato, in via interpretativa, ovvero quello contrattuale, richiedendo una previsione espressa ed esplicita (del tipo.: “il medico risponde solo ex art. 2043 c.c.”). Decreto Balduzzi - lesioni colpose lievi - cumulo dell’azione extracontrattuale e di quella contrattuale da contatto sociale – ammissibilità Nonostante la novella legislativa di cui al Decreto Balduzzi, nulla impedisce all’interprete di ritenere che, a fronte di una responsabilità medica - anche per colpa lieve - siano tutt’ora esperibili l’azione extracontrattuale, da sola, o, in alternativa, a quella contrattuale da contatto sociale, secondo il generale principio della cumulabilità dei due rimedi, quando venga in rilievo la lesione di diritti della persona. 34 Decreto Balduzzi - lesioni colpose lievi – responsabilità civile - applicazione retroattiva - inammissibilità In ogni caso, al Decreto Balduzzi non può riconoscersi una valenza retroattiva con conseguente inidoneità della stessa a regolamentare fattispecie perfezionatesi nella vigenza del previgente quadro normativo. Decreto Balduzzi - responsabilità medica per colpa grave o dolo – non – applicazione - non ammissibile - responsabilità della struttura sanitaria – applicazione - non ammissibile L’ipotetica opzione legislativa per il modello aquiliano, dato il carattere circoscritto dell’intervento normativo, varrebbe con riguardo alla sola responsabilità medica per colpa lieve e non anche per colpa grave o dolo e non sarebbe, a fortiori, estendibile alla responsabilità della struttura sanitaria. SENTENZA n° REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di B., in persona del giudice Dott. Antonio Ivan Natali, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. …/06 del Ruolo Generale promossa DA O. F., con l’avv. omissis - ATTORE CONTRO AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE B./1, con gli avv.ti omissis CONVENUTA FATTO E DIRITTO Con atto di citazione, notificato in data 13 settembre 2006, parte attrice evocava in giudizio, dinanzi a questo Tribunale, la ASL di B. n. 1, per ivi sentir accogliere nei suoi confronti le seguenti conclusioni: “1. Condannare l’Azienda Unità Sanitaria Locale BR/1, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218, 1223, 2049 c.c. e comunque, in via residuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c., a risarcire l’attore tutti i danni morali e materiali, ivi compresi quello biologico, esistenziale ed alla vita di relazione subiti a causa dell’imprudenza, imperizia e negligenza del personale sanitario da essa dipendente, col pagamento in suo favore della complessiva somma di € 225.712,00 di cui € 160.000,00 per danno patrimoniale, € 19.175,00 per danno morale ed € 46.537,00 per danno biologico esistenziale ed alla vita di relazione, o di quell’altra somma anche maggiore che sarà accertata e quantificata in corso di causa, anche con ricorso al criterio equitativo e di cui all’art. 1226 cod. civ., oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla dell’infortunio al dì del completo soddisfo; 2) Condannare altresì la medesima Azienda Unità Sanitaria Locale BR/1 a versare ad O. F. la somma di € 1.710,60 per rimborso di spese mediche, trasporto, assistenza, consulenza e cure fisioterapeutiche; 3) condannala infine alla rifusione delle spese e competenze del giudizio.” 35 A sostegno delle proprie richieste l’attore esponeva: - che, in data 31 gennaio 2004, sarebbe stato colto improvvisamente da una crisi convulsiva con perdita di coscienza, sicchè si sarebbe reso necessario l’intervento del servizio sanitario d’urgenza e d’emergenza 118; - che il personale sanitario del 118 intervenuto sul posto, nel trasferire il paziente dal suo letto per stenderlo sul pavimento, onde procedere alla sua rianimazione, non sarebbe riuscito a sorreggerlo, causandone la caduta al suolo, e in conseguenza di ciò, la frattura e la lussazione della testa dell’omero destro della spalla; - che i sanitari del nosocomio convenuto avrebbero diagnosticato erroneamente solo la frattura della testa dell’omero destro, omettendo di rilevarne la lussazione ed avrebbero pertanto prescritto l’immobilizzazione con reggibraccio per 30 gg e, successivamente, un trattamento con tutore ortopedico; - che, all’esito delle dimissioni, l’attore, persistendo la forte sintomatologia algica e la limitazione funzionale dell’arto, si sarebbe sottoposto ad ulteriori accertamenti dai quali sarebbe emersa la lussazione posteriore della testa omerale della spalla destra, che avrebbe comportato la necessità di un intervento chirurgico di riduzione; - che tale intervento sarebbe stato eseguito il 6 maggio 2004 presso il Centro Ortopedico di Perugia. Da ciò la responsabilità dell’Azienda Sanitaria Locale B./1 nei propri confronti per la lesione riportata alla spalla destra a cagione dell’urto contro il pavimento, così come la responsabilità del personale sanitario del nosocomio convenuto, per avere colpevolmente omesso di diagnosticare la lussazione della spalla destra, essendosi limitati a diagnosticare la frattura dell’omero destro e quindi il suo mancato trattamento. Si costituiva, ritualmente, in giudizio e l’AUSL di B. n. 1 impugnando e contestando quanto ex adverso dedotto ed eccepito, chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni “Piaccia all’Ill.mo Tribunale adito, “contrariis reiectis”, 1 accertare e dichiarare la nullità dell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio per mancanza e/o assoluta inderminatezza dell’oggetto della domanda; 2 nel merito: rigettare le domande di parte attrice perchè infondate in fatto e in diritto e, comunque, non provate; 3 in via subordinata: nella denegata ipotesi di accoglimento, anche solo parziale, delle domande attorea, a accertare con rigore i danni effettivamente subiti dall’istante evitando ingiustificate duplicazioni delle voci di danno; b negare il riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria, stante il divieto del loro cumulo sancito dalla Giurisprudenza della Suprema Corte. La domanda è fondata in parte qua. Qualificazione della dedotta responsabilità della convenuta Preliminarmente, non può aderirsi alla qualificazione prospettata dalla convenuta. A tal riguardo, l’ente convenuto ricorda come l’art. 3, 1° comma, d.l. 158/2012, convertito dalla legge 189/2012, c.d. “Decreto Balduzzi”, stabilisca che: “L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attivita' si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunita' scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. Orbene, se non è priva di suggestioni la riflessione secondo cui “il Legislatore sembr(erebbe) (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al 36 modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana” (Trib. Varese, n. 1406 del 26.11.12), nondimeno è indubbio come tale scelta si ponga in contrasto con l’univoco orientamento interpretativo in materia che, muovendo le mosse da Cass. 589 del 1999, ricostruisce come contrattuale - seppur non da contratto ma da contatto - la responsabilità dei medici e della struttura ospedaliera. Proprio tale ordine di considerazioni, deve indurre a ritenere che tale novella legislativa che inerisce alle condotte di colpa lieve - per così dire penalmente “scusabili”, perché conformate dalla comune prassi medica e per le quali si introduce la non sanzionabilità sul piano penale, ma provviste di permanente rilevanza dal punto di vista civilistico – debba essere oggetto di un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost.. In primis, deve ritenersi che l’inciso “fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile” costituisca un implicito riconoscimento, da parte del legislatore, del fatto che, in tale materia, non é prefigurabile un vincolo inter partes dal quale far discendere le obbligazioni di protezione che si assumono violate. D’altronde, sotto altro profilo, con l’uso della suddetta locuzione con valenza “eccettuativa”, il legislatore – il cui intento era quello di regolamentare i soli profili penali - non ha espressamente e univocamente limitato i rimedi risarcitori esperibili, prevedendo, cioè, che, a fronte delle suddette condotte, fosse esperibile solo il rimedio aquiliano. L’eventuale adesione, pure paventata in dottrina, ad un modello di responsabilità (quello ex art. 2043 c.c.) diverso da quello consacrato, in via interpretativa, ovvero quello contrattuale, avrebbe, per contro, richiesto una previsione espressa ed esplicita (del tipo.: “il medico risponde solo ex art. 2043 c.c.”) che, nel caso di specie, appunto, difetta. Dunque, nonostante la suddetta novella legislativa, nulla impedisce all’interprete di ritenere che, a fronte di una responsabilità medica - anche per colpa lieve siano tutt’ora esperibili l’azione extracontrattuale, da sola, o, in alternativa, a quella contrattuale da contatto sociale, secondo il generale principio della cumulabilità dei due rimedi, quando venga in rilievo la lesione di diritti della persona. Anche a non voler accedere a tale ricostruzione “correttiva”, che questo Giudice predilige, è indubbio che non possa riconoscersi alla norma de qua una valenza retroattiva con conseguente inidoneità della stessa a regolamentare fattispecie, come quella di specie, perfezionatesi nella vigenza del previgente quadro normativo. In ogni caso, l’ipotetica opzione legislativa, dato il carattere circoscritto dell’intervento normativo, varrebbe con riguardo alla sola responsabilità medica per colpa lieve e non anche per colpa grave o dolo e non sarebbe, a fortiori, estendibile alla responsabilità della struttura sanitaria. Natura contrattuale della responsabilità medica Dunque, il medico, anche dopo il decreto Balduzzi, continua a rispondere sulla base delle regole della responsabilità contrattuale, e ciò, quand’anche, come già evidenziato, difetti un vero e proprio contratto quale momento genetico del rapporto professionistapaziente. 37 Ciò, in virtù del c.d. contatto sociale che s’instaura tra il paziente ed il medico, chiamato ad adempiere nei confronti del primo la prestazione dal medesimo convenuta con la struttura sanitaria. In tale contatto rinviene la propria fonte un rapporto il cui contenuto non consiste nella «protezione» del paziente, bensì in una prestazione che si modella su quella del contratto d’opera professionale e alla quale il medico è tenuto, in virtù dell’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente ospedaliero. Ne consegue che, data l’assenza di un contratto formale, il paziente non può invero pretendere la prestazione sanitaria dal medico. Nondimeno, qualora il medico in qualche modo intervenga (ad es., in quanto al riguardo tenuto nei confronti dell’ente ospedaliero), l’esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente-medico) non può essere differente, nei contenuti, da quella che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico (v. Cass., 22 gennaio 1999, n. 589). Peraltro, il suindicato principio può essere esteso a qualunque soggetto che eserciti una professione c.d. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato), specie, quando l’esercizio della stessa incida su beni costituzionalmente garantiti, come accade in relazione all’attività medica, che incide sul bene “salute” tutelato ex art. 32 Cost.. Nell’ipotesi del contatto sociale, deve escludersi la configurabilità di una responsabilità di tipo aquiliano, prefigurandosi, invece, una responsabilità di tipo contrattuale. Infatti, la responsabilità sia del medico che dell’ente ospedaliero derivano eziologicamente dall’inadempimento delle obbligazioni ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c. . Quanto alla diligenza cui è tenuto il professionista, dal combinato disposto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. si desume che “la diligenza richiesta è non già quella ordinaria, del buon padre di famiglia (cfr. Cass., 13 gennaio 2005, n. 583) bensì quella ordinaria del buon professionista (v. Cass., 31 maggio 2006, n. 12995), e cioè la diligenza normalmente adeguata in ragione del tipo di attività e alle relative modalità di esecuzione” (8). Viene, dunque, in rilievo un modello standard di condotta che implica (al di là della veste specifica del professionista) il ricorso ad un adeguato sforzo tecnico, con conseguente impiego di tutte quelle energie e di quei mezzi abitualmente ed obiettivamente necessari o, anche solo semplicemente utili, in relazione alla natura dell’attività esercitata; ciò, al duplice fine di soddisfare l’interesse creditorio e di evitare possibili eventi dannosi. Quanto ai limiti operativi di tale responsabilità, operano quelli tipici della responsabilità contrattuale (9), essendo sufficiente al fine del riconoscimento della stessa, anche la colpa lieve del debitore, ovvero il difetto dell’ordinaria diligenza. Infatti, la limitazione di responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c. opera limitatamente alle ipotesi che presentano problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo esclusivamente all’imperizia e non anche all’imprudenza e alla negligenza. L’inadempimento della struttura e la natura contrattuale della responsabilità. In primis, quanto alla natura giuridica della responsabilità de qua – come evidenziato, non incisa dal Decreto Balduzzi - quella dell’ente convenuto è da ascriversi al 8 9 Cass., civ., ult. cit. Si veda Cass., civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, cit. 38 paradigma contrattuale, in quanto “l’accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, essendo essa tenuta ad una prestazione complessa che non si esaurisce nella prestazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dalla L. n. 132 del 1968, art. 2, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle lato sensu alberghiere” (cfr. Cass., civ., 19 ottobre 2006, n. 22390; Cass., civ., 24 maggio 2006, n. 12362). D’altronde, la previsione di cui al Decreto Balduzzi, non ha in alcun modo disciplinato tale profilo di responsabilità, intervenendo esclusivamente in materia di responsabilità medica, con gli esiti ermeneutici già illustrati. Ciò premesso, la responsabilità dell’ente ospedaliero ricorre 1) sia, ex art. 1218 c.c., in relazione a propri fatti d’inadempimento (ad es., in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa a disposizione di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero), 2) sia, ex art. 1228 c.c., per quanto concerne il comportamento specifico dei medici dipendenti, dal momento che il debitore che, nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, per quanto non siano alle proprie dipendenze. Ovviamente, si tratta di una responsabilità per fatto dell’ausiliario o preposto dalle caratteristiche peculiari in quanto “prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato del medico con la struttura (pubblica o privata) sanitaria, essendo irrilevante la natura del rapporto tra i medesimi sussistente ai fini considerati, laddove fondamentale rilevanza assume viceversa la circostanza che dell’opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell’attuazione del rapporto obbligatorio” (Cass., civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, cit.). Da ciò la configurabilità di una responsabilità contrattuale della struttura per il fatto non solo del personale medico, dipendente, ma anche di quello meramente ausiliario. Ciò spiega l’abituale richiamo del principio generale – tipico della responsabilità delle strutture organizzative – cuius commoda eius etiam incommoda; la responsabilità dell’ente traendo origine non già da un profilo di colpa nella scelta degli ausiliari o nella vigilanza, bensì dal rischio insito nell’utilizzazione di terzi, nell’adempimento delle obbligazione, gravanti sulla propria sfera giuridica (Cass., civ., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., civ., 30 dicembre 1971, n. 3776. Si veda anche Cass., civ., 4 aprile 2003, n. 5329). Né la responsabilità dell’ente incontra il limite del fatto doloso del soggetto agente, quale fatto idoneo a interrompere il rapporto in base al quale l’ente è chiamato a rispondere, dal momento che, ai fini della responsabilità dell’ente, non si richiede un nesso di causalità in senso stretto, ma é sufficiente una mera occasionalità necessaria (Cass., civ., 17 maggio 2001, n. 6756; Cass., civ., 15 febbraio 2000, n. 1682). In origine, la responsabilità della struttura ospedaliera era modulata su quella del medico-paziente, ragione per cui si considerava indefettibile presupposto della stessa l’accertamento di un comportamento, imputabile (colposo o doloso), del medico operante presso la stessa. Più recentemente, invece, il rapporto intercorrente fra il paziente e la struttura ospedaliera è stato ricostruito, in via autonoma, da quello paziente-medico, individuandosi il fondamento giustificativo dello stesso, in un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (il già menzionato contratto di spedalità, in virtù del quale, la struttura deve fornire al paziente una prestazione “articolata”, definita 39 genericamente di “assistenza sanitaria”, ricomprensiva, oltre che della prestazione principale medica, anche di una serie di obblighi di protezione ed accessori che rinvengono, nella buona fede oggettiva, ex artt.1375-1175 c.c., la propria ragion di essere). Da ciò l’affermarsi di un modello di responsabilità che prescinde dall’accertamento di un condotta negligente dei singoli operatori e che trova, invece, la propria fonte, nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente. Questo revirement interpretativo ha trovato un autorevole avallo nella citata sentenza delle Sezioni Unite (1.7.2002 n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici: Cass. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006). Ricostruita in termini contrattuali la responsabilità della struttura sanitaria, nel rapporto con il paziente, il riparto dell’onere probatorio risponde ai criteri, enucleati al riguardo dalle Sezioni Unite, con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento (vedasi anche SS.UU. 28.07.2005, n. 15781), secondo cui, il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale e per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento. Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento. Ciò premesso, l’inadempimento rilevante ai fini dell’azione risarcitoria, almeno in relazione alle obbligazioni c.d. di mezzo, non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno; competerà poi al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno. Nel caso de quo, parte attrice ha provato il solo inadempimento della struttura che risponde per il fatto dei suoi ausiliari o dipendenti. Infatti, l’espletata istruttoria ha confermato, solo in parte, la fondatezza dell’assunto attoreo, evidenziando profili di colpa a carico degli operatori sanitari del 118, intervenuti in loco a seguito di richiesta della moglie, ma non anche dei medici onerati dell’attività terapeutica e diagnostica. Deve ritenersi accertato che l’attore verso le ore 20,30 del 31 gennaio 2004, presso la propria abitazione, veniva colto - come peraltro documentalmente attestato dal referto medico del pronto soccorso dell’ospedale di Ostuni - da “episodio convulsivo con perdita di coscienza” che ne aveva comportato “irrigidimento degli arti inferiori, serramento delle mascelle, occhi sbarrati e bava alla bocca” (cfr. testimonianze di M. A. e M. V. all’udienza del 18 gennaio 2008). Egli, pertanto, non era in grado di spostarsi autonomamente. In via preliminare, sul posto interveniva - come attestato dalla dottoressa A. V. nella dichiarazione sottoscritta il 6 marzo 2006 - non una postazione con personale medico ed infermieristico, bensì una “postazione non medicalizzata di S.”, mentre, solo successivamente, allorquando il paziente era “già barellato”, veniva preso in carico dalla postazione medicalizzata del 118 di Ostuni. Già tale profilo fattuale sarebbe idoneo a radicare una responsabilità diretta della struttura sanitaria da carente organizzazione, avendo fatto intervenire, nonostante la gravità della sintomatologia manifestata dal F., personale non accompagnato da un 40 medico, non in grado di fornire quelle prestazioni sanitarie che la denunciata patologia richiedeva. Al di là ciò, deve ritenersi che l’intervento degli operatori della postazione non medicalizzata sia stato causa della lussazione subita dall’attore. Al riguardo, la teste A. M., moglie del F., ha riferito che all’arrivo del 118 “gli operatori <hanno> ritenuto di doverlo spostare dal letto al pavimento”, ma “nell’effettuare detta operazione, l’operatore che teneva mio marito per le braccia se lo è lasciato sfuggire e mio marito è caduto rovinosamente per terra, battendo violentemente la spalla”. Tale circostanza veniva, altresì, confermata, alla medesima udienza da V. M.. Anche i testi I. C. e V., che si trovavano in casa del F. all’arrivo del 118, sentiti all’udienza del 13 luglio 2010, hanno rispettivamente riferito che “il personale del 118, nel trasferire O. F. dal letto sul pavimento, non riuscendo a sorreggerlo, ne causò la caduta a terra, facendogli urtare la spalla destra” e che “il personale del 118 tentava di posizionare sul pavimento il sig. F. per tentare di rianimarlo, all’operatore che lo aveva afferrato per le braccia, sfuggì la presa. Il sig. F. battè la spalla destra a terra”. Dunque, deve ritenersi provato che la frattura omerale conseguì esclusivamente all’impatto al suolo provocato dagli operatori sanitari. Deve, pertanto, escludersi la fondatezza dell’assunto attoreo per cui “è probabile che il F. sia caduto da solo a causa dell’attacco epilettico” . Dalla testimonianza resa dal farmacista dott. P. F. all’udienza del 27 novembre 2009, è emerso che “nel tardo pomeriggio del 31/1/04”, aveva accertato che l’attore presentava “tremore e difficoltà nell’articolare la parola”, precisando che “nella occasione, il F. da solo si (era) seduto a letto e si (era) sottoposto alla misurazione della pressione e non aveva difficoltà nell’uso delle braccia né accusava dolore alle stesse”. Il teste I. C., all’udienza del 13 luglio 2010, ha, tra l’altro, riferito che il 31 gennaio 2004 si era recato a fare visita al F. e che lo stesso “lamentava febbre e dolori alla testa e muoveva normalmente le 2 braccia”. Anche l’altro teste V. L., alla medesima udienza, ha fatto presente che, nel pomeriggio del 31 gennaio 2004, si era recato a casa del F., ricordando che lo stesso, pur avendo “febbre e pallore al viso”, non presentava “alcun problema nei movimenti del braccio destro”. Tali risultanze istruttorie devono indurre a ritenere che, fino all’arrivo della postazione non medicalizzata del 118, il F. non presentasse problemi di alcun genere agli arti e che, pertanto, solo all’esito dell’impatto al suolo, riconducibile eziologicamente al personale sanitario, si sia determinata la frattura della testa omerale. Tale assunto ha, peraltro, trovato conferma anche nella consulenza tecnica d’ufficio, che, a pagina 6, riconosce un rapporto di stretta dipendenza fra la frattura della testa omerale e la “caduta nel corso delle manovre di soccorso”. Non può revocarsi, in dubbio, dunque, il rapporto di causalità tra condotta ed evento lesivo, così come la riferibilità di tale condotta all’Azienda Sanitaria convenuta. A tal proposito, e con specifico riferimento alle attività sanitarie prestate in situazioni di emergenza, va evidenziato come in questi casi, non potendo l’utente scegliere a chi affidarsi, le stesse debbano essere di livello adeguato al bisogno rappresentato, e, dunque, l’organizzazione del servizio deve garantire prestazioni professionali qualitativamente idonee, con qualunque équipe disponibile, onde consentire una continua ed idonea attività di soccorso. Sicché grava sull’Azienda Sanitaria, a partire dal momento della segnalazione dell’evento alla centrale operativa 118, la 41 - - responsabilità di garantire un intervento di soccorso qualificato ed un trasporto protetto fino al ricovero nel presidio ospedaliero. Nel caso de quo, tale intervento di soccorso qualificato ed adeguato alla sintomatologia rappresentata e segnalata al servizio di 118 è mancato, né parte convenuta, pur gravata del relativo onere, ha provato il contrario; nè ha provato la non imputabilità dell’evento traumatico al comportamento tenuto dal personale intervenuto nel prestare soccorso all’attore. Né, a tal riguardo, può riconoscersi valenza dirimente ai fini dell’esclusione della responsabilità della convenuta, alla dichiarazione postuma sottoscritta dalla dott.ssa Adriana Villani il 6 marzo 2006, anche perché nulla dice in merito alle operazioni di primo soccorso eseguite dal personale della postazione non medicalizzata, limitandosi a riferire che “dal momento della presa in carico del paziente O. F., già barellato, non si è verificata alcuna caduta al suolo”. Quanto alla dedotta omessa diagnosi da parte dei sanitari ortopedici dell’ospedale “Perrino” di B. della lussazione posteriore della spalla destra dell’attore, è emerso che sia sotto il profilo diagnostico che terapeutico, la prestazione contestata è stata corretta ed improntata alla diligenza e perizia dovute. Nello specifico il CTU incaricato, all’esito dell’espletata consulenza ha specificato quanto segue: (a) “correttamente furono indirizzati gli atti sanitari urgenti e, sotto questo profilo nessuna censura può essere mossa ai colleghi dell’Ospedale Perrino (cfr. pag 6 CTU); (b) “già il giorno successivo al ricovero, con certezza a partire dal 2 febbraio, fu rilevata frattura della testa omerale (da rapportarsi casualmente alla caduta nel corso delle manovre di soccorso) nella sua porzione glenoidea e, in funzione di tanto, fu immobilizzato l’arto. Anche sotto questo profilo quindi, atteso quanto documentato, non emergono incongruenze assistenziali”. Per quanto attiene più specificamente, poi, alla rilevabilità, già nel corso del ricovero, della lussazione/sublussazione dorsale della testa omerale, il CTU riferisce che non ricorrerebbe “alcun elemento di tipo documentale per sostenere che essa fosse presente...in via deduttiva può peraltro ritenersi tuttavia che essa nel corso del ricovero presso l’Ospedale Perrino non fosse presente”. Il CTU, nonostante abbia ritenuto che la condizione patologica suddetta non fosse presente al momento del ricovero, afferma che “anche a voler ipotizzare che tale condizione fosse presente e che non fu diagnostica, deve segnalarsi che essa non ha prodotto pregiudizio ulteriore al Sig. F.”. Infatti, “le complicanze correlate alle lussazioni sono di tipo vascolare per lacerazione dei vasi, di tipo nervoso, per neuromesi, ovvero ancora correlate alla eventuale lacerazione delle strutture muscolo-tendinee della cuffia dei rotatori. Ebbene nessuna di queste complicanze si è realizzata”. In conclusione, il CTU ha accertato quanto segue: “non sono ravvisabili profili di negligenza o imperizia nel comportamento tenuto dai sanitari del PO Perrino”; “con alto grado di probabilità non era possibile una tempestiva diagnosi. In ogni caso il ventilato (ma nel concreto non esistente) ritardo diagnostico non avrebbe limitato o evitato i postumi attualmente presenti”; “non ricorrono postumi riconducibili ad imperizia e negligenza, per assenza delle stesse”. I danni risarcibili Peraltro, è ovvio che - dovendo il danno non patrimoniale essere sempre oggetto di accertamento, seppur in via presuntiva - ad essere risarcibile nel caso di specie non è la 42 mera violazione del diritto inviolabile all’autodeterminazione dell’attrice, ma solo il pregiudizio areddituale, riconducibile eziologicamente a tale mancata scelta. Ciò premesso, è noto come le Sezioni Unite dell’11.11.2008 abbiano degradato il danno biologico a mera componente descrittiva della più ampia categoria del danno non patrimoniale. Esso va inteso come menomazione dell'integrità psico-fisica in sè e per sè considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione. Tale voce di danno, come precisato dalla Corte Costituzionale, n. 184/’86, non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza del danneggiato, con il conseguente paradosso, al contempo, dell’irrisarcibilità del danno biologico, subito da chi sia sprovvisto di un’attività lavorativa e della commisurazione del danno all’occupazione del soggetto o, persino - secondo un’inammissibile visione della società, rigidamente ripartita per classi - dei genitori. Come espressamente affermato anche dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, per danno biologico deve, invece intendersi “la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamicorelazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”. Ciò premesso, il danno biologico consistente nella violazione dell'integrità psico-fisica della persona va considerato ai fini della determinazione del risarcimento, sia nel suo aspetto statico (diminuzione del bene primario dell'integrità psico-fisica in sè e per sè considerata) sia nel suo aspetto dinamico (manifestazione o espressione quotidiana del bene salute). Orbene, l’espletata consulenza medico-legale, ha consentito di acclarare la entità delle lesioni riportate dall’attore. Il Ctu ha accertato che, in conseguenza dell’inadempimento dei medici l’attore ha subito lesioni permanenti nella misura del 7-10 %. Le conclusioni del medico legale sul danno non patrimoniale di tipo biologico, sono condivise dal Tribunale, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta, valutata con criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici. Quanto all’ulteriore figura descrittiva di danno non patrimoniale sub specie del danno morale - dalla stessa pronuncia dalle Sezioni Unite del 2008 disancorato dal dato temporale, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il danno morale deve essere necessariamente transeunte – giovino le seguenti considerazioni. In primis, non può accedersi alla tesi, frutto di un’interpretazione riduttiva delle Sezioni Unite, secondo cui il danno morale, nell’ipotesi di una sua derivazione “biologica” non sarebbe voce autonomamente risarcibile, rispondendo le due figure descrittive alla tutela di beni giuridici distinti, come, peraltro, evincibile anche dalle scelte della legislazione speciale. Tal ultima, spesso, (si pensi, ad esempio, al Decreto del Presidente della Repubblica 30 ottobre 2009, n. 181 che introduce un Regolamento recante i criteri medico-legali per l'accertamento e la determinazione dell'individualità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell'articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206) non solo continua a distinguere le due categorie di danno ma contiene una nozione legale di danno morale. Ciò premesso, e affermata l’astratta risarcibilità del danno morale anche quando sia ravvisabile un pregiudizio all’integrità psico-fisica, nel caso concreto nulla può essere riconosciuto a titolo di danno morale. 43 Non può, infatti, obliterarsi come secondo le Sezioni Unite del 2008, una delle ipotesi in cui il danno non patrimoniale è considerato risarcibile, al di là della lesione di un diritto costituzionalmente garantito, è proprio quella del danno morale da reato (quali sono le lesioni colpose, derivanti da un sinistro stradale). In tale circostanza è risarcibile qualunque pregiudizio areddituale (e, quindi, anche la sofferenza derivante eziologicamente dal non poter più fare), anche se derivante dalla lesione di un interesse privo di rilievo costituzionale, purché suscettibile di superare il generale vaglio di meritevolezza ex art. 2043 c.c.. Infatti, la tipicità, in questo caso – affermano le Sezioni Unite - non è determinata soltanto dal rango dell'interesse protetto, ma dalla stessa scelta del legislatore di considerare risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato. Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell'interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale. Nell’ipotesi di reato assume dignità risarcitoria l’impossibilità (totale o parziale) di svolgere una qualunque delle attività realizzatrici della persona, quand’anche non ne sia possibile un ancoramento costituzionale (attività ludiche, sportive, ricreative…..). Ciò premesso, nel caso di specie, è ravvisabile, in astratto, la fattispecie del reato di lesioni, con conseguente irrilevanza dell’individuazione di un diritto costituzionalmente rilevante che possa definirsi leso. Si ritiene opportuno applicare, al caso di specie, ai fini della valutazione del danno individuato dal CTU, le tabelle di Milano, in quanto strutturate e concepite diversamente dalle attuali Tabelle di Lecce - in funzione del nuovo inquadramento concettuale del danno non patrimoniale, quale categoria unitaria, cui sono approdate le Sezioni Unite dell’11.11. 2008. Né la maggiore o minore diffusione delle stesse presso i tribunali locali - a fronte della prevalenza statistica delle tabelle milanesi sul territorio nazionale - può costituire ragione sufficiente ad impedirne l’applicazione nel caso di specie. D’altronde, come affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza del 2011, n. 12408, alle tabelle milanesi deve riconoscersi “una sorta di vocazione nazionale”, anche perché, coi valori da esse tabellati, esprimono il valore da ritenersi "equo", e cioe' quello in grado di garantire la parita' di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entita'. Ciò, al punto che l’applicazione delle suddette tabelle sarebbe oggetto di un vero e proprio uso normativo. Le nuove Tabelle - approvate il 28 aprile 2009 e aggiornate nel 2011 - presentano profili di innovatività rispetto alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno permanente da lesione all’integrità psico-fisica. Infatti, esse individuano il nuovo valore del c.d. “punto” muovendo dal valore del “punto” delle Tabelle precedenti (connesso alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d. danno biologico permanente), aumentato in riferimento all’inserimento nel valore di liquidazione “medio” anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla “sofferenza soggettiva”di una percentuale ponderata (dall’1 al 9% di invalidità l’aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34 % di invalidità l’aumento è progressivo per punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l’aumento torna ad essere fisso al 50%), e prevedendo inoltre percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d. personalizzazione. Applicando le predette tabelle, il danno da invalidità permanente subito dall’attore deve essere quantificato in euro: € 23.056,00 (che discendono dal valore del “punto”, relativo al danno non patrimoniale ovvero € 2.744,81, moltiplicato per il numero dei punti di invalidità (10), 44 applicato il demoltiplicatore correlato all’età, al momento dell’evento lesivo, pari a 33 anni). Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilità temporanea – non specificatamente quantificata dal ctu ma desumibile dall’esame della cartella clinica - in applicazione dei suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità assoluta è pari ad euro 96,00, si quantifica in: a) € 9312,00, l’ITT, giorni 97; b) € 1680,00, l’I.T.P. al 50% giorni 35, per complessivi euro 10992,00. In totale, per i danni su indicati andrebbero liquidati all’attore complessivi € 34048,00 che derivano dalla liquidazione complessiva del pregiudizio. Le somme rivalutate devono essere gravate degli interessi legali, da computarsi sugli importi devalutati al momento della commissione del fatto illecito e rivalutati d’anno in anno, sino all’effettivo soddisfo. Il danno patrimoniale Per quanto concerne il danno patrimoniale, da lucro cessante relativamente all’anno 2004, tale ultimo deve essere risarcito solo in parte qua. Al riguardo, il prof. Alessandro Dell’Erba, nelle note a chiarimento del 24 giugno 2013, ha precisato che il mancato svolgimento da parte di O. F. dell’attività lavorativa “nel periodo compreso tra aprile e settembre 2004” fu “conseguenza dell’evento”, eppertanto dovrà “porsi in rapporto con il trauma e costituirà danno patrimoniale”. Tale danno deve essere quantificato e liquidato in misura proporzionale al reddito percepito dal F. presso la medesima Società per l’anno 2003, determinato, come attestato e riportato nella dichiarazione dei redditi 2004 in atti (cfr. documento n.14 del medesimo fascicolo), in € 9.337,00. Orbene, considerato l’intervallo per cui non ha potuto lavorare, gli deve essere riconosciuto un danno, determinato, in via equitativa ed, in particolare, avuto riguardo al periodo di inabilitazione al lavoro, in euro 4000,00. A tale importo devono aggiungersi le spese mediche documentale, pari ad € 1.710,60 L’attore ha richiesto anche il risarcimento da perdita dell’attività lavorativa, atteso che l’assenza dal lavoro durante la stagione primaverile ed estiva del 2004 e la grave limitazione funzionale - residuata quale postumo permanente della frattura de qua avrebbero comportato, oltre alla perdita dei diritto di precedenza all’assunzione e, quindi, della possibilità di essere inquadrato come lavoratore a tempo indeterminato, anche l’impossibilità di continuare a svolgere una attività di lavoro di tipo stagionale, con le mansioni di “manovale comune” o di “vetturiere”. A tal riguardo, non può dirsi raggiunta la prova di una sufficiente compromissione della capacità lavorativa specifica dell’attore. In particolare, il CTU prof. A., sentito a chiarimenti sull’incidenza dell’evento traumatico sotto tale profilo (cfr. pagina due delle note di chiarimento del 24 giugno 2013), ha evidenziato come “l’esame clinico (abbia) dimostrato difficoltà fino alla abolizione nella retro posizione con adduzione della spalla di destra.. dolore.. e riduzione della forza, anch’essa clinicamente accertata”, nonché come “la guida degli automezzi richied(a) la retro posizione”. Inoltre, nella fase della “anteroproiezione degli arti…è anche richiesta una presa salda (e si è rilevata una riduzione della forza di presa)” e “il mantenimento per lungo periodo della anteroposizione può evocare sintomatologia dolorosa”. Nondimeno, il ctu ha, seppur orientativamente, quantificato la suddetta incidenza in “misura pari alla metà del danno biologico nella precedente relazione quantificato” (10% della totale), ovvero 5 per cento. 45 1) 2) 3) 4) Orbene, si deve ritenere che l’accertata incidenza sulla capacità lavorativa specifica non sia tale, per la sua modesta entità, da porsi in correlazione causale con l’eventuale perdita della propria posizione lavorativa da parte dell’attore. Le spese, comprese quelle di Ctu, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da O. F. nei confronti dell’Ausl B./, così provvede: dichiara la responsabilità dei sanitari della convenuta Azienda Unità Sanitaria Locale B./1 in persona del Direttore Generale e legale rappresentate pro-tempore nei termini suesposti; per l’effetto, condanna la convenuta al risarcimento dei danni patiti dall’attore quantificati nella misura di € 5.710,60, a titolo di danno patrimoniale, oltre interessi legali e rivalutazione dal fatto illecito; nonché di 34048,00, a titolo di danno non patrimoniale, oltre interessi legali, da computarsi sugli importi devalutati al momento della commissione del fatto illecito, ovvero al 31 gennaio 2004 e rivalutati d’anno in anno, sino all’effettivo soddisfo; condanna, altresì, la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice, delle spese di giudizio che liquida in complessivi € 3900,00, oltre iva e cap ed esborsi forfettizzati come per legge; pone, definitivamente, le spese di CTU a carico della convenuta; condannandola alla rifusione, in favore dell’attore, delle spese di CTU. Brindisi, 18.7.2014 IL GIUDICE (Antonio Ivan Natali) 46 Trib. Arezzo, sentenza 14 febbraio 2013 (est. D. Sestini) RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DELL’ESERCENTE UNA PROFESSIONE SANITARIA – ART. 3 L. 8 NOVEMBRE 2012, N. 189 - RESPONSABILITÀ DEL MEDICO – RIFERIMENTO ALL’ART. 2043 C.C. – ADESIONE DEL LEGISLATORE AL MODELLO DI RESPONSABILITÀ AQUILIANA – ESCLUSIONE L’art. 3 comma I della Legge n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell’attuale inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure funzionale ad una politica di abbattimento dei risarcimenti giacché la responsabilità solidale della struttura nel cui ambito operano i sanitari che verrebbero riassoggettati al regime aquiliano conserverebbe comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di ‘spedalità’ o ‘assistenza sanitaria’ che viene tacitamente concluso con l’accettazione del paziente), ma si limita (nel primo periodo) a determinare un’esimente in ambito penale (i cui contorni risultano ancora tutti da definire), a fare salvo (nel secondo periodo) l’obbligo risarcitorio e a sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della responsabilità (con portata sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali). CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Premesso che: -gli attori, in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul figlio XXX, convenivano in giudizio l’Azienda USL 8 di Arezzo per sentirla condannare al risarcimento dei danni subìti dal minore a seguito alla perdita del testicolo sinistro (conseguita a tardiva diagnosi di torsione del funicolo) e di quelli sofferti dai genitori per il comprensibile “ingiusto patimento”; -deducevano, in particolare, che: --alle ore 4,42 del 18.2.2007, la YYY, ricoverata presso la U.O. di Ostetricia-Ginecologia dell’Ospedale di Arezzo, aveva dato alla luce il figlio XXX; --alle ore 19,40 dello stesso giorno era stato eseguito un esame obiettivo del bambino dal quale era emerso: “genitali: emiscroto sx duro di colorito bluastro, aumentato di dimensioni”; --era stata richiesta una consulenza urologica che aveva diagnosticato un “quadro di scroto acuto” ed aveva consigliato il ricovero in centro specializzato per eventuale asportazione chirurgica; --il bambino era stato trasferito all’Ospedale Meyer di Firenze (con partenza da Arezzo alle ore 20,30 e arrivo a destinazione alle ore 22,10) ove, alle ore 23,59, era iniziato l’intervento chirurgico di asportazione del testicolo sx; --successivamente, in data 4.7.2007, “il bambino era stato sottoposto ad ulteriore intervento chirurgico di fissazione del testicolo dx”; -assumevano che era “del tutto evidente … un forte ritardo di diagnosi della torsione del testicolo” che aveva “comportato la irreversibile necrosi dello stesso con conseguente necessità di asporto”, quantificavano nella misura del 10% i postumi permanenti riportati dal bambino e quantificavano in complessivi € 69.700,00 il risarcimento dovuto al minore e in € 10.000,00 quello dovuto a ciascun genitore a fronte del patimento sofferto; 47 -costituendosi in giudizio, la USL 8 contestava la pretesa assumendo che “anche una maggiore tempestività nell’effettuazione dell’intervento non avrebbe conseguito il risultato di recuperare l’integrità anatomo-funzionale del testicolo”, in quanto “qualsiasi intervento diretto ad evitare la necrosi è ritenuto inutile dalla maggior parte degli autori”; -compiuta l’istruttoria con produzione documentale ed espletamento di C.T.U. medico-legale, la causa passava in decisione all’udienza del 19.10.2012, sulle conclusioni delle parti trascritte in epigrafe. Rilevato che dalla relazione di c.t.u. è emerso che: -la torsione del testicolo o torsione del funicolo spermatico è generalmente considerata un’emergenza chirurgica, le cui conseguenze variano in relazione alla gravità della torsione, che può essere parziale (180° o 270°) o totale o “con più giri del testicolo”; -“le conseguenze della torsione sono, inizialmente, un’ostruzione vascolare venosa che porta all’edema del testicolo, seguita poi a distanza dalla compressione dell’arteria e, quindi, dalla necrosi ischemica del testicolo”; -nel neonato, “in circa il 70% dei casi la torsione avviene prima della nascita o durante il passaggio nel canale del parto, il restante 30% poco tempo dopo la nascita”; -“la sintomatologia è spesso elusiva e la presentazione è spesso insidiosa, a differenza di quanto avviene nel bambino più grande e nell’adolescente. I segni fisici variano moltissimo in funzione di quando è avvenuta la torsione, che se avvenuta molto tempo prima della nascita può avere come unico segno fisico un aumento della consistenza del testicolo senza altri segni infiammatori, che sono viceversa presenti qualora l’evento sia molto recente”; -“non esiste un accordo sulla terapia della torsione prenatale …Se la torsione è chiaramente avvenuta in epoca prenatale, in cui la speranza di salvare il testicolo è inesistente, la maggioranza degli urologi propende per un intervento differito, con contemporanea fissazione del testicolo controlaterale, viceversa se la torsione sembra essere occorsa in epoca postnatale l’immediata esplorazione dello scroto è da considerarsi obbligatoria”; -nel caso in esame, “il dato istopatologico (che evidenzia un infarcimento emorragico del testicolo) e le modalità di presentazione clinica (emiscroto sinistro duro, di colorito bluastro, aumentato di dimensioni) consentono di escludere l’ipotesi di una torsione prenatale inveterata e depongono per una torsione verificatasi durante il parto o nelle prime ore di vita del neonato”; -“all’atto della nascita il neonato, come è prassi, veniva sottoposto ad una prima visita da parte del pediatra neonatologo: nella scheda relativa alle ‘condizioni del bambino alla nascita’ non vengono segnalate anomalie a carico della regione genitale; questo dato, tuttavia, non consente di affermare con certezza né in termini di ragionevole probabilità che alla nascita non fosse presente, in fase iniziale, una torsione del testicolo, in quanto … il quadro clinico è spesso subdolo e/o mascherato dalla tumefazione da parto”; -“quando viene riscontrato, alle ore 19,40 del 18.2.07, un quadro di scroto acuto, la condotta dei sanitari della AUSL 8 di Arezzo risulta pienamente corretta”; in particolare, eseguita immediatamente la visita specialistica urologica, “la scelta di trasferire il neonato presso una struttura attrezzata per la chirurgia pediatrica risulta del tutto corretta, in quanto le procedure chirurgiche e soprattutto quelle anestesiologiche richiedono, nel caso del neonato, specifiche competenze”; egualmente corretta è risultata “la scelta di optare per una esplorazione chirurgica dello scroto”; -“nel mancato controllo per circa15 ore delle condizioni del neonato può ravvisarsi l’unico elemento di censura a carico dei sanitari dell’AUSL 8 di Arezzo”; -tuttavia, “è ragionevolmente certo che una più pronta diagnosi non avrebbe modificato in termini decisivi la prognosi, comportando solo ipotetiche maggiori chances di salvataggio dell’organo”, atteso che “i dati di letteratura depongono, anche nel caso di pronta diagnosi, per percentuali di salvataggio del testicolo molto basse (che vanno, a seconda dei casi, dal 5 al 33%); 48 -“tenuto conto dei dati statistici … relativamente alla percentuale di salvataggio del testicolo anche in caso di pronta diagnosi e del tempo necessario al trasferimento del neonato presso una struttura specializzata, non si ritiene che la perdita del testicolo sinistro possa essere ricondotta in termini di certezza o di ragionevole probabilità alla condotta dei sanitari dell’Azienda convenuta”; -a seguito delle osservazioni svolte dal c.t.p. di parte attrice, il C.T.U. ha precisato che il dato statistico del 33% di possibilità di salvataggio del testicolo è ricavato da uno studio (di Kaye JD e coll.) che prende in rassegna solo 3 casi (di cui uno con salvataggio) che “risulta statisticamente così poco significativa da non poter essere presa a fondamento nell’attribuzione di responsabilità”; ha aggiunto che “la casistica descritta da Yerkes EB e coll. riporta una percentuale di salvataggio pari allo 0%, mentre il contributo di Callewaert e Kerrebroeck, … citando alcuni dati di letteratura in materia, relativi nel complesso a circa 150 casi di torsione perinatale, suggerisce una percentuale di salvataggio intorno al 5%”. Deve valutarsi, a questo punto, se il recente intervento normativo compiuto col c.d. decreto Balduzzi e con la legge di conversione n. 189/2912 comporti una modifica dei criteri di accertamento della responsabilità medica, finora consolidati nel senso dell’applicazione delle regole concernenti la responsabilità contrattuale. E’ noto, infatti, che il riferimento all’art. 2043 c.c. contenuto nell’art. 3, co. 1° della citata l. n. 189/12 ha indotto a dubitare della possibilità di continuare ad applicare in modo generalizzato i criteri di accertamento della responsabilità contrattuale, fino a far ritenere che “il Legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana” (Trib. Varese, n. 1406 del 26.11.12). La disposizione in questione recita: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo comma”. La norma che qui interessa è quella del secondo periodo, che dev’essere però interpretata in stretta correlazione con quella del periodo precedente, alla quale espressamente si collega in virtù dell’incipit “in tali casi”. Tenuto conto che il primo periodo prevede l’esclusione della responsabilità penale (per colpa lieve) in favore dei sanitari che si attengano alle linee guida e alle buone pratiche accreditate (introducendo quella che -secondo i primi commenti- parrebbe integrare un’esimente speciale), la norma del secondo periodo ha la funzione di chiarire che l’esclusione della responsabilità penale non fa venir meno l’obbligo di risarcire il danno (in ciò sostanziandosi “l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.”); il terzo periodo precisa, poi, che nella “determinazione del risarcimento” deve tenersi debitamente conto della condotta conforme alle linee guida e alle buone pratiche (condotta rilevante, più propriamente, nell’accertamento dell’obbligo di risarcimento, mentre l’espressione “determinazione del risarcimento” rimanda piuttosto alla quantificazione dello stesso, ossia ad un momento che presuppone la già avvenuta affermazione della responsabilità, al quale è dunque estranea ogni ulteriore valutazione della condotta del sanitario). Atteso che richiamo all’art. 2043 c.c. è limitato all’individuazione di un obbligo (“obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile”, che equivale a dire “obbligo di risarcimento del danno”), senza alcuna indicazione in merito ai criteri da applicare nell’accertamento della responsabilità risarcitoria (se non che deve tenersi “debitamente conto” del rispetto delle linee guida e delle buone pratiche), non sussistono ragioni per ritenere che la novella legislativa incida direttamente sull’attuale costruzione della responsabilità medica (“diritto vivente”) e che imponga un revirement giurisprudenziale nel senso del ritorno ad un’impostazione aquiliana, con le consequenziali ricadute in punto di riparto degli oneri probatori e di durata del termine di prescrizione. 49 Va considerato, al riguardo, che, per quanto l’art. 2043 c.c. costituisca la norma cardine della responsabilità risarcitoria da fatto illecito, la concreta disciplina della responsabilità aquiliana è contenuta altrove (segnatamente negli artt. 2697 e 2947 c.c., in ordine alla distribuzione degli oneri probatori e al termine di prescrizione, e negli artt. 2055 e segg. c.c., in ordine alla solidarietà passiva e alle modalità risarcitorie), così come la responsabilità contrattuale trova la sua disciplina non solo nell’art. 1218 c.c., ma anche negli artt. 2946 (prescrizione decennale) e 1223 e segg. c.c. (quanto alla selezione e quantificazione dei danni risarcibili); non può dunque affermarsi che richiamare un obbligo equivalga a richiamare un’intera disciplina e deve quindi concludersi che il riferimento all’art. 2043 c.c. (si badi: non alla disciplina dell’illecito extracontrattuale, ma esclusivamente all’obbligo “di cui all’art. 2043 del codice civile”) sia del tutto neutro rispetto alle regole applicabili e consenta di continuare ad utilizzare i criteri propri della responsabilità contrattuale. Va ulteriormente considerato che, se fosse vero che il richiamo all’art. 2043 impone l’adozione di un modello extracontrattuale, si dovrebbe pervenire, a rigore, alla conseguenza -inaccettabile- di doverlo applicare anche alle ipotesi pacificamente contrattuali (quali sono quelle ex art. 2330 e segg.), dal momento che il primo periodo dell’art. 3, 1° co. considera tutte le possibili ipotesi di condotte sanitarie idonee ad integrare reato (che possono verificarsi indifferentemente sia nell’ambito di un rapporto propriamente contrattuale, quale quello fra il paziente e il medico libero professionista, che in un rapporto da contatto sociale) e il secondo periodo richiama tutte le ipotesi di cui al primo periodo (“in tali casi”), senza operare alcuna distinzione fra ambito contrattuale proprio ed assimilato; non sarebbe dunque consentita la limitazione (affermata per certa da Trib. Varese cit.) del ripristino del modello aquiliano per le sole ipotesi di responsabilità da contatto. Deve, allora, pervenirsi alla ragionevole conclusione che, conformemente al suo tenore letterale, alla collocazione sistematica e alla ratio certa dell’intervento normativo (da individuarsi nella parziale depenalizzazione dell’illecito sanitario), la norma del secondo periodo non ha inteso operare alcuna scelta circa il regime di accertamento della responsabilità civile, ma ha voluto soltanto far salvo (“resta comunque fermo”) il risarcimento del danno anche in caso di applicazione dell’esimente penale, lasciando l’interprete libero di individuare il modello da seguire in ambito risarcitorio civile. In conclusione: l’art. 3, 1° co. l. n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell’attuale inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure funzionale ad una politica di abbattimento dei risarcimenti giacché la responsabilità solidale della struttura nel cui ambito operano i sanitari che verrebbero riassoggettati al regime aquiliano conserverebbe comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di ‘spedalità’ o ‘assistenza sanitaria’ che viene tacitamente concluso con l’accettazione del paziente), ma si limita (nel primo periodo) a determinare un’esimente in ambito penale (i cui contorni risultano ancora tutti da definire), a fare salvo (nel secondo periodo) l’obbligo risarcitorio e a sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della responsabilità (con portata sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali). Ritenuto, pertanto, che anche nel caso in esame (concernente un’ipotesi responsabilità della USL 8 per il pregiudizio che si assume conseguito a condotta colposa dei sanitari dell’ospedale) debbano applicarsi i criteri propri della responsabilità contrattuale (cfr. Cass. Sez. Un. n. 577/2008 secondo cui l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto -o il contatto sociale- e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore l’onere di dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante), si osserva: -non sono emerse ragioni per disattendere le conclusioni del C.T.U., il cui elaborato risulta fondato su una disamina completa degli elementi disponibili ed esente da vizi logici o metodologici; -risulta, dunque, condivisibile -in primo luogo- la conclusione di collocare la torsione del testicolo in periodo perinatale, ossia al momento del parto o nelle prime ore di vita del neonato; 50 -parimenti condivisibile appare l’addebito (l’unico) del mancato controllo delle condizioni del neonato per circa 15 ore: la convenuta -che ne era onerata- non ha provato che nell’intervallo registrato in cartella clinica siano stati effettuati altri controlli né ha offerto giustificazioni plausibili circa l’insussistenza di ragioni che giustificassero un controllo più ravvicinato; -risulta corretto anche il giudizio di adeguatezza dell’operato dei sanitari a partire dal momento in cui venne riscontrata la tumefazione bluastra dello scroto, e cioè la scelta di far effettuare con immediatezza una visita specialistica urologica e, subito dopo, di indirizzare con urgenza il neonato verso un centro di alta specializzazione (sicuramente più adeguato ad affrontare il caso, tenuto conto della delicatezza della patologia insorta in un neonato nel primo giorno di vita), raggiungibile in poco più di un’ora dall’ospedale di Arezzo; -accertata pertanto l’esistenza di un ritardo colposo nella diagnosi (che, verosimilmente, avrebbe potuto essere anticipata di alcune ore se il bambino fosse stato sottoposto prima al controllo), deve escludersi tuttavia che tale ritardo abbia impedito di salvare il testicolo, causandone la necrosi e la necessità di asportazione; -sulla base dei dati statistici illustrati dal C.T.U., è emerso, infatti, che le possibilità di salvare il testicolo in caso di torsione che interessi un neonato sono minime (ossia intorno al 5%, atteso che la percentuale del 33% riferita da uno studio condotto su tre soli casi non ha significato statistico) anche in caso di diagnosi tempestiva; -apparendo, dunque, di gran lunga “più probabile che non” l’ininfluenza del ritardo diagnostico, non appare possibile stabilire un nesso causale apprezzabile fra tale ritardo e la necrosi del testicolo (tanto più che anche in caso di diagnosi più precoce l’esplorazione chirurgica avrebbe dovuto comunque essere differita per l’evidenziata necessità di trasferire il neonato in un centro di alta specializzazione); -esclusa pertanto la sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva dei sanitari e il pregiudizio sofferto dal neonato, devono rigettarsi entrambe le domande; -le ragioni della decisione (segnatamente, l’accertata sussistenza di un profilo di colpa e la non palese infondatezza originaria della domanda) giustificano l’integrale compensazione delle spese di lite, ferme restando le spese di C.T.U. a carico degli attori. P.Q.M. - definitivamente pronunciando nella controversia promossa da YYY e ZZZ, in proprio e in nome e per conto del figlio minore XXX, nei confronti della USL n. 8 di Arezzo, così provvede: - rigetta le domande degli attori e compensa le spese di lite, ferme restando le spese di C.T.U. a carico della parte attrice. Arezzo, 14.2.2013 Il Giudice dott. D. Sestini 51 Trib. Varese, sez. I civ., sentenza 26 novembre 2012 n. 1406 (est. G. Buffone) R con Avv.ti C, P c/ B, con Avv. A e c/ I. s.a.s. con Avv. M. RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DELL’ESERCENTE UNA PROFESSIONE SANITARIA – ART. 3 L. 8 NOVEMBRE 2012, N. 189 - RESPONSABILITÀ DEL MEDICO – RIFERIMENTO ALL’ART. 2043 C.C. – ADESIONE DEL LEGISLATORE AL MODELLO DI RESPONSABILITÀ AQUILIANA – SUSSISTE L’art. 3 della 189/2012 - prevedendo che nei casi in cui il medico non risponda penalmente, comunque sia tenuto all’obbligazione civile del risarcimento, ai sensi dell’art. 2043 del codice civile - suggerisce l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana. - FATTO - All’odierno giudizio è applicabile l’art. 58, comma II, legge 18 giugno 2009 n. 69 e, per l’effetto, la stesura della sentenza segue l’art. 132 c.p.c. come modificato dall’art. 45, comma 17, della legge 69/09, con omissione dello “svolgimento del processo” (salvo richiamarlo dove necessario o opportuno per una migliore comprensione della ratio decidendi). - In data 11 giugno 2007, la R veniva sottoposta ad intervento chirurgico presso l’ISTITUTO …. (d’ora in avanti: FONDAZIONE); intervento che veniva eseguito dal dr. G per porre rimedio ad un dismorfismo nasale diagnosticato sulla sua persona della paziente (patologia bisognosa di correzione chirurgica). Successivamente all’operazione, l’attrice accusava sintomi che la costringevano a rivolgersi nuovamente a struttura sanitaria (il … di …) dove veniva diagnosticata una tubarite con deviazione del setto nasale, giusta la quale veniva eseguita una tac massiccio facciale che evidenziava effettivamente una “marcata deviazione”, in uno con altri rilievi negativi per la salute, bisognosi di trattamento terapeutico. In conseguenza degli esiti riscontrati sulla sua persona, la paziente prospettava l’inadempimento dei sanitari intervenuti, avendo riportato postumi permanenti pari al 5%, in conseguenza dell’operazione eseguita (che lo specialista dr. … – incaricato dalla stessa attrice - qualificava in termini di “rinoplastica”: v. doc. 6). Presentava la citazione introduttiva del giudizio richiedendo l’accertamento della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale dei convenuti, con conseguente condanna degli stessi alla somma risarcitoria di Euro 12.344,81 (danno biologico, danno morale, danno patrimoniale pari ad Euro 3.851,81 per spese sostenute). - L’udienza di prima comparizione veniva tenuta in data 24 aprile 2009 e, rilevata la nullità della citazione, ne veniva disposta la rinnovazione (attesa la intervenuta violazione dell’art. 163-bis c.p.c.). All’udienza del 9 dicembre 2009, instaurato il contraddittorio, le parti richiedevano i termini ex art. 183 comma VI c.p.c. che venivano concessi dal giudice con ordinanza emessa in pari data. Il dott. G si costituiva, nelle more, in Cancelleria, in data 19 novembre 2009 confermando che, in data 11 giugno 2007, l’attrice era stata sottoposta ad intervento correttivo di dismorfismo nasale, presso la Fondazione …, per mano dello stesso G in sala operatoria. Contestava l’addebito di responsabilità valorizzando, in particolar 52 modo, la natura dell’intervento, di tipo estetico e non funzionale. La Fondazione … si costituiva in data 12 novembre 2009 ed eccepiva che l’intervento era stato concordato dalla paziente direttamente con il dr. G in piena autonomia ed al di fuori della clinica la quale, infatti, era stata scelta dal professionista medico e non dall’attrice. Riferiva pure che non sussisteva alcun rapporto tra la clinica e il medico che, infatti, aveva anche scelto i collaboratori che lo avevano assistito nell’intervento. Valorizzava, a sostegno della propria estraneità ai fatti, il fatto che la paziente aveva pagato direttamente al medico il suo onorario. Con ordinanza del 16 aprile 2010, veniva disposta indagine peritale, per l’esecuzione della quale, veniva nominata (dopo alcune nomina non andate a buon fine), in data 28 gennaio 2011, la dr.ssa … B, specialista in otorinolaringoiatria e fonoiatria, con studio in Milano. Il CTU prestava il giuramento ex art. 193 c.p.c. in data 25 marzo 2011. All’udienza del 6 luglio 2012, le parti venivano invitate a precisare le conclusioni. - - DIRITTO - Preliminarmente vanno disattese le richieste istruttorie riproposte dalle parti in sede di precisazione delle conclusioni: la consulenza tecnica, i documenti versati in atti ed il principio di non contestazione, escludono la rilevanza delle prove orali articolate dai litiganti. Quanto all’ultimo elemento valutativo considerato, giova ricordare che la non contestazione costituisce un comportamento univocamente rilevante, con effetti vincolanti per il giudice, il quale deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e deve, perciò, ritenere la circostanza in questione sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo in concreto spiegato espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti (Cass. civ., sez. VI, ordinanza 21 agosto 2012 n. 14594, Pres. Goldoni, est. Giusti). Trattasi di principio oggi scolpito nell’art. 115 c.p.c. ma già vigente nell’Ordinamento prima ancora delle modifiche introdotte dalla Legge 18 giugno 2009 n. 69: ecco perché, d’altronde, la giurisprudenza prevalente reputa che la recente modifica dell’art 115 c.p.c. abbia portata interpretativa e non già innovativa (Corte Appello Milano, sez. IV civ., sentenza 29 giugno 2011, Pres. Fabrizi, est. Marini; Trib. Piacenza, sentenza 23 febbraio 2012, n. 114, est. G. Morlini). E’, dunque, provato che R si rivolse direttamente al dr. G per eseguire un intervento di correzione chirurgica di dismorfismo nasale; il dr. G eseguì l’operazione chirurgica presso la clinica Fondazione .. da egli scelta, come luogo deputato ad ospitare l’intervento, mediante scelta dei collaboratori e con compenso corrisposto direttamente allo stesso da parte della paziente. - Sullo sfondo fattuale così ricostruito, occorre fare chiarezza attorno al concreto intervento eseguito al fine di verificare la sussistenza o meno di un danno iatrogeno che possa essere attribuito, a titolo di responsabilità, al dr. G. In questa indagine, è sicuramente utile e necessario attingere al bacino della perizia in atti, la quale si lascia apprezzare per la oggettività delle operazioni eseguite, la cura nella disamina dei documenti di lite e la coerenza degli snodi seguiti dall’ausiliario: ogni critica all’elaborato va dunque decisamente disattesa, traducendosi le doglianze in un tentativo di sostituire alla valutazione oggettiva del perito quella soggettiva della parte, secundum eventum litis. - In primo luogo, come lo stesso specialista incaricato dalla parte attrice riferisce (v. doc. 6), il CTU accerta che si trattò di un intervento di tipo estetico e non funzionale. Secondo il perito «l’intervento chirurgico di rinoplastica, 53 giustamente indicato per la situazione della paziente, fu eseguito (…) con scopi solo ed esclusivamente legati all’aspetto estetico del volto e non al ripristino della funzionalità nasale, da quanto risulta nella cartella clinica». - In secondo luogo, il Ctu conduce una indagine diretta a verificare la presenza di disturbi negativi sulla persona della paziente riconducibili causalmente all’intervento eseguito sulla stessa. Ebbene, in questa verifica, il consulente afferma che «non è la deviazione del setto nasale diagnosticata (…) da considerarsi causalmente riferibile all’intervento dell’11/6/07, bensì la sinechia turbino settale dx in esiti di incisione trans cartilaginea, frenulotomia e asportazione di piccola porzione di sottosettocartilagineo a determinare la stenosi della regione valvolare anteriore destra. La deviazione del setto nasale, come risulta dalla Tac del massiccio facciale, attraverso una corretta valutazione dei rapporti cefalometrici, risulta essere preesistente all’intervento chirurgico. La formazione della sinechia turbino settale ha peggiorato una situazione di difficoltà respiratoria nasale già presente, anche se in piccola parte, prima dell’intervento chirurgico». La conclusione dell’ausiliario è dunque che “è da considerarsi effetto collaterale di correzione chirurgica del dismorfismo nasale la sinechia turbino-settale dx. condizionante una stenosi nasale monolaterale”. - In terza disamina, la consulente verifica la presenza di profili di responsabilità in capo al medico. Secondo il perito «è vero che il Dr. G, nel consenso informato, cita la sinechie (formazioni di adesioni mucose fra le varie strutture nasali) quali complicanze nasali, ma quando c’è stato il sanguinamento nasale post-intervento chirurgico che ha comportato il posizionamento della fionda e la sua successiva sostituzione nelle ore serali, il Dr. G ha agito con imprudenza nel rimuovere il tampone nasale anteriore bilaterale dopo 24 ore dall’intervento chirurgico. In letteratura si riporta che in caso di sanguinamento nasale, si consiglia di mantenere il tampone nasale almeno 48 ore e di effettuare una visita specialistica otorino per individuare il punto emorragico nasale e l’eventuale presenza di fibrina (tessuto precicatriziale) nelle fosse nasali determinanti la formazione delle sinechie turbino-settali». - I rilievi sopra esposti consentono di potere arricchire il dato tecnico-fattuale, dei principi di diritto applicabili così da ottenere un supporto motivazionale che conduca alla conclusione da assumere. - 1) L’intervento eseguito ha natura estetica. - La finalità dell’intervento chirurgico non modifica le garanzie che competono al paziente posto che anche l’intervento sanitario finalizzato al miglioramento della condizione estetica della persona si colloca nell’ambito dell’ars medica (v. Cass. civ., 25 novembre 1994 n. 10014). Vi è, anzi, al contrario, un inspessimento della corteccia della tutela posto che, invero, nel caso di chirurgia estetica, l’informazione da fornire deve essere assai più penetrante ed assai più completa (specie con riferimento ai rischi dell’operazione) di quella fornita in occasione di interventi terapeutici (Cass. civ., 8 agosto 1985 n. 4394, in Foro it., 1986, I, 121). Ad ogni modo, nel caso di specie, oggetto del giudizio non è il diritto al conseguimento del risultato utile oggetto del contratto (in positivo, il miglioramento della condizione estetica), bensì il diritto alla salute, quale bene che, in occasione dell’intervento, non deve essere compromesso (in negativo, l’assenza di effetti negativi sullo stato di benessere psico-fisico). In altri termini, in 54 esecuzione dell’operazione medica finalizzata al miglioramento dell’aspetto, il medico non deve arrecare danni all’apparato funzionale del paziente. Ebbene, sotto il primo aspetto (omesso raggiungimento del risultato estetico) non si ravvisa effettivamente responsabilità del medico posto che la deviazione del setto nasale costituiva elemento preesistente all’atto sanitario e dallo stesso non causato. E, però, invece, sotto il secondo aspetto, è ben possibile rintracciare un comportamento del medico meritevole di rimprovero: raggiungendo il risultato estetico negoziato, il sanitario non doveva arrecare danno alla persona del paziente (quanto, invece, avvenuto). Il punto è, allora, se possa sussistere comunque responsabilità del chirurgo estetico che, pur eseguendo a regola d’arte l’intervento, provochi sulla persona del paziente un effetto collaterale fonte di pregiudizio. In coerenza con gli studi della Dottrina, è ormai pacifico che anche da un intervento eseguito a regola d’arte possano discendere risultati insoddisfacenti, in particolare, in ragione dell’omessa adozione, da parte del medico, di specifiche cautele che le condiciones rebus sic stantibus imponevano. Da qui, il secondo profilo di rilevanza. - 2) L’intervento medico - pur correttamente eseguito quanto al risultato da raggiungere in ordine al miglioramento estetico - ha causato sulla persona della paziente un effetto indesiderato, di tipo collaterale: una sinechia turbino settale. E’ opportuno ricordare che la presenza di particolari inadempienze tecniche può anche emergere in sede di Ctu e ben costituire oggetto del processo, se filtrata dal contraddittorio (v., ad es., in materia di vizi scoperti dal CTU: Cass. Civ., sez. II, sentenza 10 maggio 2012 n. 7179, Pres. Oddo, rel. Proto). Va, comunque rilevato come, nel suo libello introduttivo, la paziente non abbia denunciato solo la specifica inadempienza relativa al setto nasale (non fondata) bensì anche, sotto un profilo più generale, l’imperizia dell’intervento quanto all’adozione di procedure chirurgiche corrette, efficaci e risolutive (v. pag. 8, citazione). Orbene, nel caso di specie, il consulente ha accertato che, in conseguenza dell’intervento, la paziente ha accusato una sinechia settale quale effetto causalmente ricollegabile all’intervento: effetto sgradevole, indesiderato e di indubbia valenza negativa per la salute dell’attrice. Effetto riconducibile all’intervento non solo sul versante oggettivo (rapporto eziologico) ma anche soggettivo (colpa). Da qui, il terzo profilo di rilevanza. - 3) Il dr. G ha agito con imprudenza avendo rimosso il tampone nasale dopo 24 ore, invece che dopo 48 ore, come consigliato in letteratura. Giova rilevare che, nel caso di specie, non può essere applicata, in favore del medico, la disposizione di cui all’art. 2236 c.c.: si tratta, infatti, di disposizione applicabile ai soli casi di colpa per imperizia e non a quelli di colpa per imprudenza o negligenza (v. Cass., sez. III, 18 novembre 1997, n. 11440; Cass. civ., sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, in Danno e resp., 2005, 26). Se, come nel caso di specie, la colpa è consistita in una mancanza di prudenza, l’esame deve essere particolarmente rigoroso, perché la tutela della salute, che viene affidata al medico, impone a questi l’esercizio della massima attenzione (v. Cass. civ., 11 luglio 1980, in Riv. pen., 1981, 283). Il medico risponde, dunque, anche in caso di colpa lieve. Ebbene, nell’ipotesi qui sub iudice, il medico è risultato essere in colpa (indifferente se lieve o grave) per l’avere omesso, per imprudenza, di mantenere il tampone per 48 ore, in luogo di 24, essendosi dunque discostato dal parametro standard secondo la letteratura di riferimento. In altri termini, può sostenersi che se il medico avesse rispettato la regola di prudenza applicabile, è probabile che la sinechia non si sarebbe verificata, peraltro con un elevato grado di certezza. Ad ogni modo, giova ricordare che la Corte regolatrice ha, di recente, avuto modo di rimeditare funditus il problema della 55 causalità civile, per affermare, prima con la sentenza 21619/2007 della terza sezione, poi con la pronuncia 581/2008 delle sezioni unite, che la regola probatoria in subiecta materia non può essere considerata quella dell'alto grado di probabilità logica e di credenza razionale, bensì quella del “più probabile che non” (v. Cass. civ., sez. III, sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008). Il nesso di causalità, dunque, in ambito civilistico, consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del «più probabile che non» (Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975). Criterio soddisfatto nel caso di specie posto che è il CTU ad affermare (invero senza dubbi) la sussistenza del rapporto eziologico tra la imprudenza del medico e la sinechia turbino settale (v. perizia, pag. 7). - I punti di conclusione sin qui rassegnati, consentono di ritenere affermata la responsabilità del dr. G, avendo questi omesso di adottare specifici comportamenti – espressione di prudenza esigibile – così causando alla paziente una sinechia settale, ovvero un effetto collaterale indesiderato che poteva essere evitato. - A questo punto, occorre chiarire il titolo della responsabilità del medico posto che, peraltro, tale titolo è anche oggetto di discussione negli atti difensivi delle parti. Giova ricordare che secondo il “diritto vivente” in materia di responsabilità sanitaria, la responsabilità del medico ha natura negoziale, sussistendo un rapporto contrattuale, quand'anche fondato sul solo contatto sociale (Cass. civ., Sez. III, 24 maggio 2006, n. 12362). La contrattualizzazione della responsabilità medica ha delle ricadute dirette sul riparto degli oneri probatori: essa, infatti, rende operativa la clausola generale di cui all’art. 1218 c.c., come interpretata dalle Sezioni Unite n. 13533 del 2001 e dunque “il paziente che agisce in giudizio deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento” (v. SS.UU. 577/2008). Tuttavia, si deve rilevare come, sullo sfondo dei principi così illustrati, si collochi in tempi recentissimi l’art. 3 comma I del Decreto Legge 13 settembre 2012 n. 158. Nella versione originaria, la norma prevedeva che “fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale”. Il decreto-legge codificava dunque i principi affermati dalla giurisprudenza (v. relazione illustrativa) e non incideva, sulla questione qui in esame, se non sotto il versante della valutazione del rispetto o meno delle buone prassi/linee guida. La legge 189/2012, di conversione in legge del d.l. 158/2012, ha modificato in modo integrale la disposizione sopra illustrata. Il nuovo art. 3, comma I, (Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie) prevede che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. La norma, con la dichiarata finalità di intervenire contro il dilagante fenomeno della cd. medicina difensiva, introduce una sorta di “esimente” speciale nella responsabilità penale medica, circoscrivendola alle sole ipotesi di colpa grave e dolo. Per il caso della colpa lieve, tuttavia, dichiara la persistenza della responsabilità civile del medico; e, però, così facendo, individua 56 quale grimaldello normativo non già l’art. 1218 c.c., bensì l’art. 2043 c.c. Sussiste un vivace dibattito circa la corretta interpretazione della previsione di nuovo conio. Secondo una certa lettura, la previsione si concilierebbe con l’intento di scongiurare i rischi legati alla cd. medicina difensiva e, pertanto, restaurerebbe il regime di responsabilità civile anteriore al revirement del 1999: in altri termini, il Legislatore consapevole10 avrebbe indicato agli interpreti la preferenza del Parlamento per l’orientamento giurisprudenziale che predica(va) l’applicazione dell’art. 2043 c.c.11 e non anche lo schema del cd. contratto sociale qualificato. Secondo altra lettura, il riferimento all’art. 2043 c.c. costituirebbe semplicemente una svista del Legislatore, inidonea a mutare il senso della giurisprudenza costante in tema di applicabilità dello statuto della responsabilità contrattuale. - La Suprema Corte di Cassazione, in diverse occasioni, ha ammesso che il Legislatore può, di fatto anche in via implicita, intervenire con sue norme di nuova introduzione per avallare una determinata interpretazione di uno specifico grimaldello normativo. Ad esempio, è quanto avvenuto in tempi recenti, allorché la Suprema Corte ha intravisto nell’adozione del d.P.R. n. 37 del 2009 e del d.P.R. n. 191 del 2009 “la volontà del Legislatore di prendere posizione sulla questione interpretativa dell’art. 2059 c.c.” in tema di danno cd. morale (v. Cass. civ., sez. III, sentenza 20 novembre n. 20292, Pres. Petti, est. Travaglino in cui la Corte di Cassazione reputa che i d.P.R. sopra citati abbiano “inequivocamente resa manifesta la volontà del legislatore” di discostarsi dai principi enunciati dalle SS.UU. del 2008, in tema di “presunta” somatizzazione del danno morale in seno al danno biologico). Deve, allora, ammettersi che il Legislatore può prendere posizione su questioni interpretative non solo mediante leggi di interpretazione autentica ma anche con norme che, seppur in modo indiretto o implicito, siano espressione dell’aderire (o non) ad un determinato approccio ermeneutico. - Giunti a questa conclusione, nel caso di specie, la struttura della disposizione legislativa, a ben vedere, sembra abbastanza logica, almeno nel suo sviluppo discorsivo: in sede penale, la responsabilità sanitaria è esclusa per colpa lieve (se rispettate le linee guida/buone prassi); in sede civile, invece, anche in caso di colpa lieve, è ammessa l’azione ex art. 2043 c.c. Così facendo, il Legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l’adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l’azione aquiliana. E’ evidente che l’adesione ad un modulo siffatto contribuisce a realizzare la finalità perseguita dal legislatore (contrasto alla medicina difensiva) in quanto viene alleggerito l’onere probatorio del medico e viene fatto gravare sul paziente anche l’onere (non richiesto dall’art. 1218 c.c.) di offrire dimostrazione giudiziale dell’elemento soggettivo di imputazione della responsabilità. L’adesione al modello di responsabilità ex art. 2043 c.c. ha, anche, come effetto, quello di ridurre i tempi di prescrizione: non più 10 anni, bensì 5. Potendosi, in astratto, ritenere, dunque, che l’art. 3 in esame rappresenti la scelta verso un modello di responsabilità diverso da quello sposato dalla giurisprudenza prevalente, occorre allora interrogarsi circa la proponibilità di una scelta 10 Cass. civ., sez. III, 24 agosto 2007, n. 17958: Il canone interpretativo del “Legislatore consapevole” presuppone un Parlamento attento al diritto giurisprudenziale e composto, almeno in parte, da tecnici. Ciò detto, si tratta di un criterio che deve orientare l’interprete verso la scelta ermeneutica più vicina alla volontà sovrana del popolo come rappresentato nelle Camere. 11 V., ad es., Cass. civ., sez. III, sentenza 20 novembre 1998 n. 11743 57 interpretativa del genere, soprattutto in punto di compatibilità costituzionale: la risposta, collocando l’interprete negli anni anteriori al 1999, sembrerebbe scontata, in quanto, nel vigore dell’orientamento pretorio che proponeva come modello di azione l’art. 2043 c.c., non si era dubitato della costituzionalità di una impostazione del genere. - Così rintracciate le conseguenze che la Legge 189/2012 ha sul sistema della responsabilità sanitaria, nel caso di specie, però, non trova applicazione l’art. 2043 c.c. E’ opportuno chiarire, infatti, che, anche seguendo questo percorso di ragionamento, ovviamente la previsione di nuovo conio riguarda solo le ipotesi di responsabilità per cd. “contatto” e cioè le ipotesi (al confine tra contratto e torto) in cui manchi un rapporto contrattuale diretto tra paziente danneggiato e sanitario oppure un rapporto contrattuale atipico di spedalità. Nel caso in esame, il dr. G e la parte attrice si erano, invece, accordati per l’intervento ed avevano, cioè stipulato uno specifico rapporto negoziale: scatta allora, in via esclusiva, la previsione di cui all’art. 1218 c.c. e, nel caso di specie, conduce a dover ritenere acquisita al giudizio la prova della responsabilità del convenuto dr. G, sulla base dei rilievi già ampiamente svolti. - Deve, invece, essere esclusa la responsabilità della Fondazione ... Nel caso in esame, la struttura medica non ha stipulato alcun rapporto con la parte attrice (nemmeno per comportamento concludente) posto che, diversamente dallo schema contrattuale classico, il paziente non si è rivolto al nosocomio che ha indicato il medico, ma si è rivolto al medico che ha scelto una struttura in cui eseguire l’intervento. La Fondazione …., dunque, ha rappresentato solo il luogo in cui l’inadempimento del sanitario si è consumato, senza nemmeno partecipare al suddetto illecito contrattuale, non avendo nemmeno fornito i collaboratori del professionista. Inoltre l’equipaggiamento della clinica non ha concorso in alcun modo al danno e nemmeno lo ha aggravato o accelerato. In genere, la responsabilità della struttura sanitaria è rintracciata, ex art. 1228 c.c., per il fatto dei suoi medici; ma nel caso di specie, difetta il rapporto tra medico e struttura che abilita l’applicazione della norma de qua, e nemmeno è applicabile l’art. 2049 c.c., proprio perché la relazione trai soggetti è invertita: è il dr. G ad essersi avvalso della struttura e non il contrario. - Il solo dr. G va condannato al danno iatrogeno causato alla paziente, oltre al danno patrimoniale. - Sulla scorta della CTU, i postumi accertati, da mettere in relazione alla complicanza (sinechia turbino-settale dx) che poteva essere evitata da un’attenta valutazione post-chirurgica, mediante visita specialistica otorino per valutazione del sanguinamento nasale occorso dopo l’intervento di rinoplastica, configurano una riduzione dell’integrità psico-fisica (danno biologico) nella misura del 3%. Per la valutazione dell’inabilità temporanea, in assenza di sufficiente credibile riscontro probatorio, si conviene con il consulente nel non riconoscere alcun giorno a tale titolo. La legge 8 novembre 2012 n. 189 stabilisce all’art. 3 che il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209. Trattasi però di norma entrata in vigore (11 novembre 2012 ex art. 16 l. 189/12) dopo che l’odierna causa è stata trattenuta in decisione (6 luglio 2012). Si reputa dunque di dovere dare continuità all’indirizzo di giurisprudenza vigente 58 prima della modifica normativa il quale predica l’applicazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico, elaborate dal tribunale di Milano, anche per le cd. micropermanenti, per tutti i casi di danno ex art. 2059 c.c. che consegua da un fatto illecito diverso dal sinistro stradale (Cass. civ., sez. III, sentenza 19 luglio 2012 n. 12464, Pres. Segreto, rel. Lanzillo). Le tabelle del Tribunale di Milano risultano essere, in ragione della loro “vocazione nazionale” - in quanto le statisticamente maggiormente testate - le più idonee ad essere assunte quale criterio generale di valutazione che, con l’apporto dei necessari ed opportuni correttivi ai fini della c.d. personalizzazione del ristoro, consenta di pervenire alla relativa determinazione in termini maggiormente congrui, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione - nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti - sul territorio nazionale (Cass. Civ., sez. III, 30 giugno 2011 n. 14402 - Pres. Preden, rel. Scarano; Cass. Civ., sez. III, 7 giugno 2011 n. 12408 - Pres. Preden, rel. Amatucci; Cass. civ., sez. III, 16 febbraio 2012 n. 2228 - Pres. Trifone, rel. Scarano). Trattasi di indirizzo giurisprudenziale seguito da questo Ufficio giudiziario (v., già, Trib. Varese, Sez. I Civ., sentenza 26 agosto 2011). - La paziente, al momento dell’illecito, aveva 28 anni e, dunque, a titolo di danno biologico, deve essere riconosciuto un danno pari ad Euro 4.013,00 che si considera adeguato e congruo rispetto al caso di specie, tenuto conto, cioè, dell’esigenza di personalizzazione. Costituendo l'obbligazione di risarcimento del danno un'obbligazione di valore sottratta al principio nominalistico, la rivalutazione monetaria è dovuta a prescindere dalla prova della svalutazione monetaria da parte dell'investitore danneggiato ed è quantificabile dal giudice, anche d'ufficio, tenendo conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della liquidazione. È altresì risarcibile il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato conseguimento della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la tecnica degli interessi computati non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio. La somma, devalutata alla data del sinistro e rivalutata con interessi all’attualità, è di Euro 4.471,83. - Per quanto riguarda gli esborsi in rapporto di causalità con l’intervento per cui è causa, gli stessi ammontano – secondo il CTU – a 150,00 euro (visita del Prof. ). La somma all’attualità è di Euro 188,00. - Il danno totale è di Euro 4.659,83. - Quanto alle spese di CTU, pur consapevole di un indirizzo pretorile di contrario avviso (invero, risalente: Cass. civ., sez. 2, sentenza n. 1247 del 18 febbraio 1983), questo giudice, aderendo all’orientamento di Cassazione più recente, reputa che il compenso dovuto al C.T.U. abbia il suo fondamento nella peculiare natura della prestazione, effettuata a favore di tutti i partecipanti al giudizio in funzione del superiore interesse di giustizia (art. 61 c.p.c.), ponendosi così su un piano diverso da quello della soccombenza che presiede la regolazione delle spese fra le parti (Cass. civ., sez. II, sentenza n. 28094 del 30 dicembre 2009). E’, dunque, ben possibile che, a prescindere dalla soccombenza, le spese di consulenza vengano poste a carico solidale delle parti. Ebbene, nel caso di specie, le spese di Consulenza vengono poste, in solido, a carico della parte attrice e del dr. G con diritto della Fondazione .. alla ripetizione di quanto versato a tale titolo in 59 corso di causa. - Nei rapporti tra parte attrice e Fondazione .., si giudica equa e necessaria la compensazione delle spese di lite, posto che solo l’esito dell’istruttoria ha consentito di appurare gli effettivi rapporti tra medico e clinica e, quindi, era sussistente, al momento della introduzione della lite, la presenza di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti (v. Cass. civ., Sez. Un., 3 settembre 2008, n. 20598). - Nei rapporti tra parte attrice e convenuto soccombente, le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate giusta la natura ed il valore della controversia, l’importanza ed il numero delle questioni trattate, nonché la fase di chiusura del processo. Come hanno insegnato le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, il principio di adeguatezza e proporzionalità impone “una costante ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l'entità degli onorari per l'attività professionale svolta” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 11 settembre 2007, n. 19014). Va applicato il dm 20 luglio 2012 n. 140 in quanto l’attività difensiva delle parti si è consumata nel vigore del detto regolamento (v. Cass. Civ., Sez. Un., sentenza 12 ottobre 2012 n. 17406, Pres. Preden, est. Rordorf). La nota spese del difensore di parte vittoriosa, alla luce dei criteri sopra esposti, va ridotta per non essere allineata al decisum e va ricalcolata, secondo il DM citato; per l’effetto, le spese si liquidano in Euro 550,00 per spese/costi ed Euro 2.600,00 per compenso. - P.Q.M. IL TRIBUNALE DI VARESE, SEZIONE PRIMA CIVILE, in composizione monocratica, in persona del giudice dott. Giuseppe Buffone, definitivamente pronunciando nel giudizio civile iscritto al n. … dell’anno 2009, disattesa ogni ulteriore istanza, eccezione e difesa, così provvede: ■□■ RIGETTA, per le ragioni di cui in parte motiva, la domanda proposta dall’attrice contro l’ISTITUTO …., in persona del legale rappresentante pro-tempore, compensando integralmente tra le parti le spese di lite. ACCERTA E DICHIARA, per le ragioni di cui in parte motiva, la responsabilità del dr. G per il danno arrecato a R, in conseguenza dei postumi permanenti causati all’esito dell’intervento chirurgico estetico dell’11 giugno 2007. CONDANNA, per l’effetto, G al risarcimento del danno in favore di R, quantificato all’attualità in Euro 4.659,83 oltre interessi legali dalla sentenza e sino al soddisfo CONDANNA G al rimborso delle spese del giudizio in favore di R che LIQUIDA come segue, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. Spese Compenso €. 550,00 €. 2.600,00 60 Vanno aggiunti il rimborso dell’Iva e del Cpa giusta l’art. 11 legge 20 settembre 1980, n. 576. PONE, in via definitiva, le spese di CTU, come liquidate in corso di causa, a carico di R e G, in misura solidale, con diritto per l’ISTITUTO … in persona del legale rappresentante pro-tempore, a ripetere quanto eventualmente versato a tale titolo in corso di giudizio. MANDA alla cancelleria per i provvedimenti di competenza SENTENZA IMMEDIATAMENTE ESECUTIVA COME PER LEGGE Varese, lì 26 novembre 2012 61