CLUB ALPINO ITALIANO Sezione di Brescia Sottosezione di Manerbio ALPINISMO GIOVANILE ESCURSIONE DIDATTICA A SANTA MARIA DEL GIOGO Testo-guida per insegnanti A cura di Fabrizio Bonera 1 INTRODUZIONE (che è meglio leggere) Questa dispensa, che non ha velleità accademiche, si riferisce alla esperienza condotta con le classi quarte della Scuola Elementare di Leno nel mese di aprile dell’anno in corso al Santuario di Santa Maria del Giogo. Si tratta di una facile passeggiata che però contiene tutti gli elementi per un corretto e esauriente avvicinamento al mondo della montagna e della natura. Ciò risulta anche nei fini istituzionali del Club Alpino Italiano il cui scopo principale è la conoscenza della montagna nei suoi molteplici aspetti. Questi fini attualmente vengono raggiunti anche con una collaborazione con gli istituti scolastici di qualsiasi livello e grado. Il presente lavoro è indirizzato al Corpo Insegnante. In esso vengono prospettati i vari elementi costitutivi di una escursione didattica e pertanto si propone anche come modello per eventuali altre esperienze. Si inizia con l’inquadramento geografico per poi evidenziare gli aspetti ambientali: aspetto geologico, la vegetazione, l’intervento dell’Uomo, la cultura locale e il significato storico del luogo stesso. La vegetazione viene presentata sia come paesaggio sia nei suoi aspetti sistematici. Ovviamente si è ritenuto opportuno prendere in esame le specie più importanti e soprattutto quelle rilevate nel periodo in cui la escursione si è svolta (dal 5 al 14 aprile). Nella trattazione si è dato ampio spazio agli aspetti storici, di antropologia culturale, di etnobotanica e di cultura popolare. Gli aspetti di botanica sistematica sono presentati in termini molto schematici e con frequente riferimento all’uso della lente di ingrandimento in modo da poter suggerire una educazione alla osservazione ed esperienze che possono essere facilmente ripetute anche a tavolino. Numerosi sono i riferimenti letterari, tesi a sottolineare come la Natura abbia costituito nel tempo fonte di ispirazione per scrittori e poeti. Questi collegamenti con altre discipline e questa modalità interdisciplinare dello studio è ciò che determina il notevole interesse per il mondo naturale che non deve apparire come un qualcosa di distaccato ma deve essere avvertito come un qualcosa che ci appartiene, che ha determinato spesso storicamente le scelte dell’Uomo e di cui dobbiamo preoccuparci per la nostra stessa esistenza. Il tutto ovviamente nell’intento di trasmettere ai ragazzi comportamenti di rispetto e di salvaguardia della Natura. 2 ESCURSIONE DIDATTICA A SANTA MARIA DEL GIOGO PER LE CLASSI QUARTE E QUINTE DEL CICLO ELEMENTARE Aspetti di propedeutica della escursione: LAVORO IN CLASSE: utilizzando la carta geografica (meglio una tavoletta dell’Istituto Geografico Militare) progettare il viaggio da Leno a Polaveno segnando sulla cartina il percorso. Identificare poi i paesi che si incontrano specificando la tipologia della rete stradale. Ogni Gruppo deve preparare: 1. Macchina fotografica. 2. Registratore. 3. Lente di ingrandimento. 4. Blocco per appunti e matita. 5. Centimetro da sarto. 6. Sacchetti di plastica per eventuale campionatura. 7. Forbici con punta rotonda. Durante l’escursione si prevedono: • Soste per illustrare i contenuti della escursione attraverso la osservazione diretta (aspetti di flora, fauna, suolo e rocce) • Riscontro di corrispondenza fra elementi del paesaggio e cartografia con osservazione dei vari simboli incontrati. • Nozioni di orientamento mediante esercizi con bussola • Osservazioni sulla relazione fra uomo e ambiente ed in particolar modo dirette ad evidenziare gli aspetti positivi (lavoro, utilità) e negativi (squilibrio ecologico). • Racconti di eventuali leggende del luogo. Con gli insegnanti gli allievi dovranno cimentarsi nelle risposte ad eventuali domande onde trarne spunti di approfondimento: 1. Quali sensazioni provate o avete provato? 2. Quale difficoltà? 3. Che cosa vi piace di più di questa gita? 4. Provatevi a raccontare una o più leggende del posto. Al ritorno: 1) ricostruzione della gita con cartelloni e fonti; 2) testo descrittivo; 3) ricerca di gruppo su vari argomenti con approfondimento ed eventuale esplicazione della ricerca ad altri gruppi. 3 ITINERARIO L’itinerario seguito per raggiungere il Santuario di Santa Maria del Giogo prende inizio da una frazione di Polaveno, comune della Valle di Gombio, sulla destra idrografica della Val Trompia. La frazione è Zoadello e qui, in uno slargo della strada provinciale che adduce al piccolo agglomerato di case, si possono lasciare gli automezzi. Si percorre a ritroso la strada provinciale per circa cento metri sino a trovare una sinistra una piccola strada in salita – via Santa Maria del Giogo – che con alcune curve sale sopra i tetti delle ultime case per poi tagliare in modesta salita tutto il versante orientale del monte Castellino, spartiacque fra la val Trompia e il bacino del lago di Iseo. Il panorama in questo caso è tutto diretto verso oriente e verso la pianura Padana. Man mano si procede prende corpo un bosco ceduo di roverelle dove sono evidenti alcune zone di recente taglio. La strada raggiunge una stretta curva a gomito sinistrorsa. Da qui bisogna imboccare una stradetta sterrata rettilinea chiusa da una sbarra. Il cammino è sempre il leggera salita e si inoltra in un fitto bosco di roverelle dai tronchi esili con sottobosco di pungitopo. Man mano si procede compaiono anche alcuni esemplari di castagno. Si oltrepassano alcuni slarghi in cui sono presenti alcune formazioni rocciose di conglomerato e si giunge ad un bivio in cui è posta una santella. Si abbandona la mulattiera e si prende il marcato sentiero sulla sinistra, scavato nella roccia che con una breve salita, mai impegnativa, conduce ad una radura prativa in cui compaiono alcuni piccoli castagni, avamposti di un coltivo a castagneto ormai in disuso. Il sentiero è sempre molto ben evidente, raggiunge una sella, a terrazzo sul lago di Iseo, e seguito a destra, conduce nel giro di cinque minuti al Santuario. Per il ritorno si giunge nuovamente a questa sella. Invece di prendere il sentiero a sinistra fatto all’andata, si procede diritto, lungo una traccia sempre molto ben evidente, contrassegnata dai segni bianco celesti del Sentiero 3V, che percorre tutta la dorsale del monte Castellino, con ampi panorami sui due versanti. Si attraversano suggestive radure in cui sono allocati dei roccoli, ricchissime di flora, si oltrepassano gli agglomerati rurali della Cuna, con stupendi prati che dominano il Lago d’Iseo, e impegnandosi nuovamente nel bosco, raggiungono una piazzale sterrato (parcheggio di un ristorante). Da qui inizia la strada asfaltata che, seguita in discesa, ci riporta nel giro di 40 minuti al punto di partenza. 4 Fotografie e disegni EDUCAZIONE ALLA IMMAGINE Testo descrittivo + testo narrativo LINGUA I suoni della natura SANTA MARIA DEL GIOGO EDUCAZIONE AL SUONO clima STORIA Fonti SCIENZE viaggio catena alimentare GEOGRAFIA Ambiente collinare flora fauna antropologia 5 ESCURSIONE A SANTA MARIA DEL GIOGO 1. ELEMENTI DESCRITTIVI DELLO SPAZIO 2. FATTORI DETERMINANTI LO SPAZIO GEOGRAFICO 3. APPROCCIO ECOLOGICO 1 ELEMENTI DESCRITTIVI DELLO SPAZIO COMPONENTE MORFOLOGICA Catena montuosa e valle COMPONENTE ANTROPICA modifiche indotte COMPONENTE VEGETALE Bosco di latifoglie COMPONENTE IDROGRAFICA Lago di origine glaciale torrente Prima di procedere alla lettura delle pagine successive si consiglia di munirsi di una carta topografica e di una lente di ingrandimento. A tale scopo sono consigliate le tavolette dell’Istituto Geografico Militare nelle due versioni in scala 1:25.000 e 1:50.000: Esse, per quanto non recenti, hanno il pregio della isogonia e quindi riproducono esattamente le posizioni reciproche di tutti gli elementi geografici. L’impiego di una bussola da carta completa poi lo studio al tavolino con molteplici e interessanti applicazioni anche di ordine didattico 6 L’area geografica qui considerata è dislocata lungo la sponda bresciana del lago d’Iseo. Uno sguardo alla carta geografica I.G.M. 1:50.000 – Iseo – è importante per avere una idea della composizione morfologica dello spazio preso in considerazione. Il Santuario di Santa Maria del Giogo è situato su una dorsale che dalla Punta dei Dossi immediatamente a nord di Sale Marasino, termina a sud con la Punta dell’Orto. La linea dei rilievi ha un contorno arcuato con concavità verso ovest e separa il bacino lacustre iseano dal solco vallivo della Val Trompia con le sue convalli, valle di Inzino a settentrione e Val Gombio a sud. L’osservazione delle isoipse permette di trarre giudizio sull’andamento del pendio che si configura più ripido ad oriente rispetto a quello occidentale al punto che in quest’ultimo si trovano piccoli insediamenti abitativi e coltivazioni. Nel suo insieme la morfologia generale osservata fa pensare ad una grande ansa di fiume come se il lago si fosse nel tempo ritirato ed avesse una maggiore estensione verso est proprio laddove, in corrispondenza di Montisola, esso disegna una curvatura a concavità occidentale. In effetti, ragionando in termini geologici, l’aspetto reniforme della dorsale di monti che abbiamo considerato, è quello di un antico circo glaciale. Il grande ghiacciaio dell’Oglio, durante l’ultima glaciazione, nella sua porzione terminale prima di sfociare nella pianura, si incurvava verso occidente disegnando un’ansa da cui emergevano solo le parti sommitali della dorsale testè accennata. La linea dei rilievi, come in precedenza accennato, inizia a settentrione con la Punta dei Dossi (m 974) e procede con il monte Caprello (m 1236), la Punta Almana (m 1390), la Croce di Pezzolo (m 937), il monte Rodondone (m 1143), il monte Castellino (m 1012) e la Punta dell’Orto (m 1000). Si individuano due depressioni importanti: la più settentrionale è la Forcella di Sale, tra il monte Caprello e la Punta Almana; a sud invece, tra il monte Rodondone e il Monte Castellino, si individua, più modesto, il giogo di Santa Maria. Ambedue per mettono la comunicazione con la Val Trompia. I rilievi orografici elencati, se esaminati nel loro aspetto geologico, sembrano essere ordinatamente disposti su una scala cronologica. La composizione è calcarea e copre un periodo che va dal Triassico Medio (monte Rodondone) al Giurassico inferiore e medio (Punta dell’Orto). In termine di anni un periodo che va dai 200 ai 150 milioni di anni fa. L’origine è sedimentaria, dovuta alla deposizione di fini sedimenti in un mare caldo e poco profondo. CLASSIFICAZIONE DELLE ROCCE E CENNI SUL CALCARE. Le rocce possono essere classificate in base alla composizione chimica e in base al processo che le ha generate. L’ultimo approccio è il più semplice e didatticamente il più utile. Si distinguono rocce magmatiche che derivano dalla solidificazione di un magma, intrusive se la solidificazione è avvenuta all’interno della terra, effusive se sono solidificate nell’aria libera e nei mari come le colate di lava, e rocce sedimentarie che derivano dai processi di sedimentazione di detriti che si svolgono soprattutto nei mari. Quando questi tipi di rocce, successivamente alla loro formazione, vengono sottoposte a sollecitazioni di compressione che implicano variazioni di temperatura di centinaia di gradi o di pressione di decine di biloba 7 (come per esempio nei movimenti tettonici) le caratteristiche originarie delle rocce vengono modificate e si hanno quindi le rocce metamorfiche. LE ROCCE SEDIMENTARIE Sono costituite da frammenti che sono stati deposti. I frammenti, dapprima incoerenti come sabbie o ghiaie sciolte, sono tenuti insieme da altre particelle minerali finissime. Queste ultime prendono il nome di matrice, se si sono deposte contemporaneamente ai frammenti, oppure di cemento, se si sono deposte in seguito. La maggior parte delle rocce sedimentarie è costituita da frammenti detritici detti clasti, da cui prendono il nome di clastiche le rocce stesse. In base alla grandezza dei frammenti, si possono classificare in conglomerati o brecce (maggiori di 2 mm), arenarie (compresi fra 2 e 0,064 mm), siltiti (0,064-0,004 mm), argille (< 0,004 mm). Si possono considerare come rocce clastiche anche la maggior parte dei calcari, nel senso che sono originati dalla deposizione, generalmente subacquea in laghi e mari, di fanghi calcarei finissimi. Nei calcari il minerale predominante è la calcite; spesso però vi sono frammisti altri minerali come quarzo oppure argille. Quando la percentuale di argille in un calcare raggiunge il 50% la roccia diviene molto più tenera e prende il nome di marna. La dolomia è composta per oltre il 50% dal minerale dolomite; il resto è di solito calcite. E’ difficile spiegare l’origine delle dolomie perché gli organismi marini non secernono dolomite: si pensa che gran parte delle dolomie provenga da calcari in cui gli ioni magnesio contenuti nell’acqua marina abbiano “dolomizzato” il calcare sostituendo una parte degli ioni calcio. Quasi tutti i calcari e le dolomie si sono formati in ambiente marino. Il calcare è particolarmente soggetto all’opera di corrosione delle acque meteoriche che scolpiscono forme particolari. L’acqua meteorica risulta particolarmente aggressiva per il suo contenuto in anidride carbonica; la sua azione corrosiva può inoltre essere accentuata dall’inquinamento atmosferico, dalle sostanze acide prodotte dai vegetali e dall’azione disgregatrice del gelo. Una caratteristica molto comune delle rocce sedimentarie è la loro stratificazione. Uno strato è generalmente separato da un altro da una linea più o meno marcata che viene detta giunto di stratificazione. Ogni strato rappresenta una unità nell’ambito della sedimentazione: vale a dire che in quel momento la sedimentazione dei detriti è avvenuta senza variazioni apprezzabili di velocità o delle dimensioni dei detriti. Si parla di strati quando lo spessore fra un giunto e l’altro varia da qualche centimetro a qualche metro; si parla di banchi quando lo spessore supera il metro, mentre si parla di lamine riferendosi ad intervalli millimetrici. Lungo le superfici di laminazione la roccia può suddividersi facilmente in lastrine e sfogliarsi. Non tutte le rocce sedimentarie sono stratificate. Quando non si vedono strati si dice che la roccia è massiccia. Sono massicci molti calcari e dolomie prodotti da organismi costruttori quali i coralli. Quando si osserva una successione di strati appare intuitivo il principio basilare della stratigrafia: a meno che un evento tettonico non abbia ribaltato la successione, ogni strato sottostante è più antico di quello che gli sta sopra. SPUNTI DI LAVORO DIDATTICO 1. Identificazione approssimativa del tipo di suolo mediante l’osservazione della vegetazione spontanea. 2. Prelievo di un campione di roccia: si segna con cura sulla carta il punto di raccolta mentre sul taccuino si descrive l’ambiente in cui il prelievo è stato realizzato. Ogni campione deve venire riposto in un sacchetto di plastica con un numero progressivo e la località di prelievo. 3. Confronto fra la roccia in posto e quella utilizzata per le opere dell’uomo (muretti, abitazioni etc.). 8 4. Identificazione delle rocce calcaree mediante acidi. Se versando sulla roccia qualche goccia di acido cloridrico si verifica effervescenza più o meno intensa (per liberazione di anidride carbonica) siamo di fronte ad una roccia calcarea. COMPONENTE VEGETALE La componente vegetale dello spazio considerato è rappresentata soprattutto da un bosco di latifoglie. Nel determinismo della tipologia del bosco intervengono alcuni fattori che accenneremo brevemente più avanti ma che in questo contesto occorre richiamare. Essi sono il fattore astronomico inteso come latitudine e longitudine da cui dipende direttamente il clima generale e fattori locali a cui è legato il microclima: esposizione di pendio, quota, ripidezza del pendio e fattori legati alla azione dell’uomo. Quando si cerca di affrontare lo studio di un bosco e soprattutto quando si tenta di farne una descrizione è sempre bene tenere presente che è assai semplicistico considerare il bosco come l’insieme di più specie vegetali e quindi passare a trattare le caratteristiche delle singole specie. E’ opportuno introdurre subito il concetto che il bosco rappresenta una associazione vegetale che riunisce determinate specie e non altre in funzione delle caratteristiche ecologiche che in quel preciso momento e in quel luogo sono le più adatte per le specie che vi sono rappresentate. In questo modo si giunge alla comprensione che in base alle determinanti ecologiche in una associazione vegetale vi sarà prevalenza di una specie rispetto alle altre. La associazione vegetale non è un qualcosa di statico ma cambia nel tempo in funzione di cambiamenti climatici e del suolo in una evoluzione continua fino a giungere ad una associazione stabile. Se il bosco viene inteso come associazione vegetale e se questo concetto è stato sufficientemente compreso, si può introdurre un livello di complessità maggiore dicendo che il bosco è anche un ecosistema. Infatti all’interno del bosco si stabiliscono relazioni fra organismi vegetali ma ci vivono anche organismi animali che dai vegetali dipendono. CENNI PER UN INQUADRAMENTO GENERALE DEL BOSCO. Fondamentalmente i sistemi forestali della Terra sono riconducibili a tre tipi: 1. Foresta tropicale. 2. Foresta temperata 3. Taiga boreale Tale distribuzione avviene in ordine alle diverse fasce di latitudine dall’equatore al polo e risponde essenzialmente alle diversità climatiche e quindi di temperatura che si incontrano procedendo dall’equatore al polo. La temperatura infatti è più alta all’equatore e più bassa al polo e questa constatazione introduce al concetto dell’importanza del clima per lo sviluppo della vegetazione. In montagna lo sviluppo della vegetazione segue l’andamento della temperatura e quindi del clima, disponendosi in fasce che si differenziano man mano che la quota aumenta. Infatti, così come procedendo dall’equatore al polo si assiste ad una progressiva diminuzione della temperatura, nelle zone montane la stessa diminuisce progressivamente in funzione della quota. Si crea quindi quello che con terminologia appropriata viene indicato come gradiente di temperatura. Per quanto concerne le Alpi, ovviamente non avremo la foresta tropicale, tuttavia, in generale possiamo riscontrare i tipi della foresta temperata (alle quote più basse) 9 ed i tipi della taiga boreale (alle quote più alte). Tra i due sistemi si collocano tante possibili varianti. Le fasce di vegetazione vengono definite orizzonti vegetazionali ed il passaggio dall’uno all’altro è a volte netto ed evidente, a volte più sfumato e quasi impercettibile. E’ importante anche cogliere la diversa dimensione degli esemplari arborei in funzione della quota. Esiste quindi una relazione diretta fra clima, specie arborea, dimensioni e forma delle piante che è facile cogliere a prima vista. Il fattore climatico, quindi, influenzando il comportamento delle piante, determina la fenologia del bosco. Con il termine fenologia intendiamo l’aspetto immediatamente osservabile di una popolazione o di un essere vivente soggetto al cambiamento in funzione della pressione selettiva ambientale. E' un concetto assai comune della biologia delle popolazioni ed in fondo non esprime altro che il legame esistente fra morfologia e ambiente. La forma di un essere vivente è dettata dal suo patrimonio genetico ed esprime anche un adattamento al particolare tipo di ambiente in cui vive. Il termine fenologia deriva dal verbo greco φαινω che significa “appaio”. In ogni orizzonte vegetazionale prevalgono alcune specie arboree. La prevalenza di queste è dettata da regole ecologiche: ogni orizzonte infatti rappresenta un tipo di ambiente in cui vi sono condizioni favorevoli alla vita di alcune specie, che quindi vi crescono rigogliose, e meno favorevoli ad altre, che vi crescono in modo stentato o non vi crescono affatto. PIANI ALTITUDINALI DELLA VEGETAZIONE ZONA ALPINA ZONA SUBALPINA Orizzonte Nivale Orizzonte zolle pioniere discontinue Orizzonte dei pascoli Orizzonte degli arbusti contorti Orizzonte delle conifere (limite vegetazione forestale) ORIZZONTE ALPINO (Oltre i 2500 metri) ORIZZONTE SUBALPINO ORIZZONTE MONTANO SUPERIORE (circa 1900 m e loc 2100 m) Limite delle latifoglie ZONA MONTANA ZONA BASALE Orizzonte montano inferiore ORIZZONTE MONTANO INFERIORE (circa 1550 m e loc. 1700 m) Limite delle querce caducifoglie Circa 1000 metri Orizzonte submontano ORIZZONTE SUBMONTANO Colture agrarie planiziali (limite del leccio, olivo, roverella) Pianura, circa 400 metri Orizzonte submediterraneo ORIZZONTE SUBMEDITERRANEO SPUNTI DI LAVORO DIDATTICO Nell’affrontare l’illustrazione del bosco: 10 1. Procedere dapprima alla definizione di quale sistema forestale della Terra si ha di fronte. 2. Identificare l’orizzonte vegetazionale (valutare i dati altimetrici ricorrendo alla carta topografica e/o all’altimetro). 3. Sulla scorta di elementari conoscenze geologiche identificare la natura del terreno (suolo siliceo = acido oppure calcareo = basico). 4. Procedere quindi, in linea di massima, anche con semplice osservazione, alla identificazione della specie dominante (bosco di abeti, faggi, querce, betulle etc) ed in questo ambito riuscire ad identificare l’albero dominante in modo da definire se trattasi di un bosco puro o misto. 5. Identificare e definire i vari sistemi che compongono il bosco. Anche se si tratta di una suddivisione elementare, lo schema proposto riesce utile soprattutto ai fini pratici: In un bosco sono rintracciabili sempre quattro strati: lo strato arboreo, lo strato arbustivo, lo strato erbaceo e lo strato di campagna. Lo strato arboreo comprende gli alberi di alto fusto. Gli altri tre, nel loro insieme costituiscono quello che solitamente chiamiamo sottobosco. Nello strato erbaceo si comprendono anche le felci. Lo strato di campagna comprende le epatiche, muschi, macromiceti (funghi superiori), alghe e mixomiceti (che sono osservabili solo al microscopio). CRITERI DI LETTURA DEL BOSCO Criterio orizzontale Criterio verticale Stratificazione temporale Identificazione della specie dominante in un orizzonte Per un dato orizzonte identificazione delle specie che costituiscono i quattro strati Tenuto conto delle specie dominanti diversificare l’aspetto stagionale L’escursione si sviluppa nella fascia altitudinale compresa fra i 648 metri del punto di partenza e i 968 metri del punto di arrivo. Si colloca quindi nella zona basale e nell’orizzonte submontano a cui corrisponde la fascia delle querce caducifoglie. In effetti l’ambiente è quello della boscaglia prealpina caratterizzato da un clima relativamente caldo ed asciutto. Il livello climax è quello del querceto e la associazione dominante è tipica del Quercion pubescentis-petreae. La regione vegetazionale e climatica di appartenenza, della quale la nostra zona in esame è senz'altro rappresentativa, è quella insubrica: regione, questa, estesa all'insieme dei laghi lombardi più 11 occidentali, che costituisce un insieme di paesaggi vegetazionali simili a quelli mediterranei pur non avendo alcun legame con essi. E' un'area climatico vegetazionale che pur avendo vari tratti comuni a quella del vicino lago di Garda di netta impronta sub-mediterranea, se ne distingue per una maggior piovosità media stagionale, per una maggiore frequenza delle precipitazioni, per una temperatura media stagionale di un paio di gradi più bassa, con conseguenti peculiarità sul piano vegetazionale Il bosco che quindi ci accingiamo ad attraversare è un tipico querceto a foglie caduche in cui l’elemento più rappresentativo è la Roverella (Quercus pubescens), l’albero che meglio si adatta a colonizzare questi pendii poiché si tratta di una pianta amante del clima ancora sufficientemente caldo e non ancora prettamente alpino (pianta termofila) e le condizioni relativamente asciutte (pianta xerofila). L’impressione è quella di una boscaglia digradata, decadente, in cui gli alberi spesso hanno portamento cespuglioso grazie al fatto che questi boschi hanno sempre costituito per l’Uomo una fonte di legname e , in passato, di tannino da ricavare dalla corteccia. Il bosco quindi non è alto e neppure folto. La Roverella è facilmente distinguibile dalle altre querce per la lanugine che ne copre i teneri germogli, il picciolo e la pagina inferiore delle foglie: per questo motivo la sua chioma ha un colore di un verde più pallido rispetto alle sue consorelle (vedi scheda nella parte speciale). Certamente dobbiamo chiederci se ci troviamo di fronte ad un bosco originario o meno. L’azione antropica ha trasformato il querceto originario in un bosco ceduo soggetto a taglio periodico. Tuttavia, in tempi storici, il bosco doveva avere un aspetto completamente diverso, con querce più maestose e anche imponenti, se è vero che un cronista del 1500 afferma che nella zona del lago d’Iseo esistevano a quel tempo “densissimae silvae et inexpugnabiles saltus”, piene di selvaggina, infestate da lupi e dove trovavano sicuro rifugio gli abitanti durante le guerre. Il bosco di Roverella consente alla luce solare di penetrare con una certa intensità al proprio interno: l’impressione è quindi di una buona luminosità che consente la crescita di una folla di arbusti ed alberelli. Di seguito propongo un elenco sommario delle specie che si possono trovare Nella associazione Quercion pubescentis: il Nocciolo (Corylus avellana), i Cotognastri (Cotoneaster vulgaris e Cotoneaster tomentosa), il Carpino nero (Ostrya carpinifolia), l’Avorniello (Laburnus anagyroides), il Maggiociondolo delle Alpi (Laburnum alpinum), il Pero corvino (Amelanchier ovalis), il Biancospino (Crataegus monogyna), l’Orniello (Fraxinus ornus), il Ligustro (Ligustrum vulgare), il Viburno (Viburnum lantana), l’Emero (Coronilla emerus), il Pungitopo (Ruscus aculeatus). Intrecciano i loro fusti rampicanti il Tamaro (Tamus communis) e l’Edera (Hedera elix). Tra le specie floristiche si segnalano l’Erba Trinità (Hepatica nobilis), gli Ellebori (Helleborus niger e foetidus), la Consolida (Symphytum tuberosum), la pervinca (Vinca minor), l’Euforbia (Euphorbia amygdaloides), la polmonaria (Pulmonaria australis), il Dente di Cane (Erythronium dens-canis), il Falso Bosso (Polygala chaemeboxus), la Scilla (Scilla bifolia), le Primule e tanti altri (Vedi schede parte speciale) Verso la parte finale della escursione, gli elementi del querceto si arrichiscono di alcuni esemplari di castagno (Castanea sativa) che preludono ad un 12 esteso castagneto del pendio orientale che ovviamente è da intendersi come manipolazione antropica. In effetti il Castagno è una pianta tipicamente meridionale, non originaria di queste zone, ma in tempi storici il suo utilizzo a scopi alimentari ha fatto si che si propagasse anche nella cintura prealpina laddove le condizioni climatiche ne permettono la crescita. Nell'orizzonte submontano della zona basale quindi, il castagno può inserirsi a pieno titolo accanto alla roverella, anzi, a volte a spese dei querceti. Pianta moderatamente termofila, ha esigenze più elevate in termini di umidità in quanto sopporta con difficoltà gli eccessi xerotermici a cui ben si adattano le roverelle. Alcuni Autori parlano di un vero e proprio livello climax del Castagno, conferendo all’insieme la dignità di associazione. Si può dire che subentrando e condividendo l’ambiente del querceto, il castagneto conservi gli stessi elementi del sottobosco anche se un poco più impoveriti. ROVERELLA Divisione: Angiospermae Classe: Dicotyledones Ordine: Fagales Famiglia: Fagaceae Nome Scientifico: Quercus pubescens Nome comune : Roverella Fanerofita perenne, legnosa, a portamento arboreo; alcuni esemplari possono avere un portamento di tipo cespuglioso. Ha fusto diritto, ramificato nel mezzo ed in alto. La corteccia è di colore grigiastro più o meno intenso, rugosa con profonde incisure e costolature longitudinali. Le foglie sono caduche, semplici, di forma ovoidale-allungata, lobate con margini dei lobi arrotondati. La parte basale della lamina è spiovente e stretta. Le foglie sono picciolate, sono lunghe da 6 a 8 cm, alterne, con la pagina inferiore pubescente e tomentosa. Quest’ultima ha un colore verde più pallido rispetto alla pagina superiore. Nelle foglie più vecchie i peli si concentrano lungo le nervature. Anche i rametti sono pubescenti. I fiori maschili sono riuniti in amenti lunghi anche 5 cm, quelli femminili sono singoli, raggruppati alla ascella delle foglie, inseriti su un ramo o picciolati. La fioritura avviene ad aprile e maggio. Il frutto è una ghianda allungata di circa 2-3 cm, dapprima verde poi color nocciola tendente al bruno, sessile o appena picciolata, coperta da cupola con scaglie non molto rilevate e pubescenti. CASTAGNO Divisione: Angiospermae Classe: Dicotyledones Ordine: Fagales Famiglia: Fagaceae Nome scientifico: Castanea sativa Nome comune: Castagno 13 Fanerofita perenne legnosa a portamento arboreo, originario delle regioni europee meridionali. Il fusto è diritto, ramificato nella parte medio-alta; la chioma tende ad essere irregolare per le esigenze di spazio e di luce. La corteccia è liscia, color nocciola, negli individui giovani; è brunastra, intensamente solcata in senso longitudinale negli esemplari adulti. Le foglie sono caduche, semplici, di forma lanceolata con margine seghettato ed appuntito. La pagina superiore è di un verde più intenso rispetto alla inferiore, sono picciolate e alterne. Fiorisce a giugno e luglio con fiori maschili riuniti in spighe di 10-20 cm che si inseriscono alla ascella delle foglie mentre i fiori femminili sono raggruppati in numero di trequattro alla base delle infiorescenze maschili. Il frutto è rappresentato da una noce, detta castagna, contenuta in una capsula spinosa, il riccio, che a maturità si apre per liberare la o le castagne in esso contenute. 14 PRINCIPALI SPECIE DI FIORI RILEVATE DURANTE LA ESCURSIONE PARTE SISTEMATICA Per procedere alla lettura di questa sezione è vivamente consigliabile munirsi di un testo-atlante della flora di pianura e di montagna. Può essere scelto uno qualsiasi dei titoli elencati nella bibliografia. A mio avviso è molto adatto, per la sua semplicità e per la maneggevolezza delle chiavi di identificazione, il testo intitolato “CHE FIORE E’” di Dietmar Aichele, edito da Rizzoli nel 1987 15 GALANTHUS NIVALIS SCHEDA Spermatophita, Angiospermae Classe: monocotiledones- ordine Liliiflorae – famiglia Amarillydacaee Scapo con un solo fiore; foglie 2, lineari-piane, più o meno carenate, ottuse, larghe 4-15 mm, glauche. Fiori a tepali interni brevi, smarginati, con macchia verde apicale, gli esterni più lunghi, completamente bianchi oblungo-spatolati. Fioritura primaverile con foglie che si sviluppano assieme ai fiori. Statura di 10-25 cm, perenne, geofita. Diffusione in tutta Italia e Sicilia (prati, pascoli, luoghi erbosi, selve e boschi). Zona altitudinale: submontana e montana inferiore. Periodo di fioritura: da febbraio a maggio. Salendo ai Piani di Rest verso la cima Tombea in una giornata di fine febbraio si può godere della fioritura precoce del bucaneve. Superato il bosco di faggi secolari in lieve discesa e, lasciata sulla destra malga Alvezza, allorchè la sconnessa mulattiera comincia ad impegnarsi sul pendio delle Grune, non si può non notare, sulla destra per chi sale, un faggio bizzarro e maestoso, dalle forme contorte, estremo baluardo ai confini di un ambiente più inospitale per questa specie mesofila. Sotto la protezione dei suoi rami, che si abbassano come braccia tese, sulla lettiera di foglie secche che lentamente si trasformano in humus, è facile incontrare il Galanthus Nivalis, ovvero il bucaneve, o, come si dice nel nostro dialetto, il fiur de nev. 16 Non che si tratti di una pianta rara: il sottobosco delle prealpi bresciane lo conosce bene; è più raro nell’acrocoro adamellino, praticamente assente nel settore settentrionale del gruppo. Quando in una domenica di febbraio mi imbattei in gruppi di candide corolle che si ergevano dal letto di foglie secche, non potei non pensare all’eco della ecloga virgiliana: Tytire, tu patulae recubans sub tegmine fagi Silvestrem tenui musam meditaris avena; Nos patriae finis et dulcia linquimus arva. Nos patria fugimus; tu, Tytire, lentus in umbra Formosam resonare doces Amaryllida silvas. Non potevo non associare l’immagine del pastore Titiro che adagiato all’ombra di un faggio intrattiene la bella Amarillide. Già nei versi virgiliani è proposto il binomio faggio-bucaneve, considerato che il Galanthus appartiene al genere Amaryllidacaee, con evidente riferimento alla ninfa delle selve. Il nome Galanthus è di chiara discendenza greca evocando il biancore del latte. Il bucaneve condivide con gli ellebori la precoce fioritura del sottobosco, ed è facile incontrarlo in gruppi. Anche se il calendario di marzo annuncia la fine dell’inverno, non vi è rispondenza fra la data equinoziale e la tendenza meteorologica. In questo periodo tutto tende, in natura, alla solarità, ma l’inverno cede lentamente. Nei 17 boschi residuano le nevi di febbraio e ci si imbatte nell’incontro con questo fiore a quote anche modeste, nelle selve di faggio e di castagno. L’occhio viene subito richiamato dallo splendore di un aggregato di fiorellini bianchi su uno sfondo di foglie secche e rami spogli: tale è l’ambiente del Galanthus nivalis. Pianta perenne, monocotiledone, bulbosa, di altezza variabile fra i 10-20 cm. Ha fiore unico, pendulo, formato da tre tepali esterni, bianchi, concavi verso l’interno e tre tepali interni, bianchi, con smarginatura inferiore. In corrispondenza di questa si nota una macchia verde o giallognola. Le foglie hanno forma lingulare e crescono alla base di ciascun fusto fiorifero alla cui sommità è presente una guaina che protegge il fiore man mano che il fusto si fa strada nella neve. Cresce nelle foreste miste di latifoglie (faggio e castagno), su terreni ricchi di humus ed umidi. Dalle Alpi agli Appennini e ai Pirenei fin verso i 1200 metri. Le macchie presenti sui tepali interni sono piccoli serbatoi di linfa e di profumo e giocano un ruolo molto importante nell’orientamento degli insetti impollinatori. Esse profumano molto più intensamente rispetto alle altre parti del fiore. Quando l’insetto impollinatore si nutre, strofina sullo stimma il polline che è rimasto adeso al suo corpo. Tra gli insetti impollinatori che si avvalgono della precoce fioritura del bucaneve un cenno fra tutti merita il Bombus, le cui regine, gravide e fecondate, sopravvissute al rigido inverno, devono preoccuparsi di nutrirsi per rifondare una nuova colonia. Il bulbo del bucaneve è interrato abbastanza profondamente per proteggersi dai geli invernali e per poter dare avvio al proprio ciclo vegetativo precocemente, allorchè i primi tepori si annunciano come avvisaglie della prossima stagione. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO. • La guaina membranacea che protegge il germoglio fiorale persiste alla base del lungo peduncolo che porta il frutto. • Il fusto non è appiattito ma cilindrico. • Distinguere i tre tepali esterni da quelli interni. • Notare sul margine di quelli interni la macchia giallo-verdognola. • I tre bianchi tepali esterni sono grandi il doppio degli interni. Osservando questi ultimi da un adatto punto di vista è possibile sovrapporli visivamente al sottostante terzo tepalo esterno. In questo modo il verde ovario che sta alla base dei tepali assume addirittura l’aspetto del capo di un insetto dalle candide ali, certamente sconosciuto a zoologi che non siano animati da fantasie botaniche. 18 HELLEBORUS (ssp. Niger e Foetidus) Durante la escursione di Santa Maria del Giogo abbiamo avuto occasione di incontrare due rappresentanti del genere Helleborus: l’Helleborus niger e l’Helleborus Foetidus di cui si riportano nella scheda seguente le caratteristiche botaniche. SCHEDA. Spermatophyta, Angiospermae – classe Dicotyledones – ordine Ranales – famiglia Ranuncolacaee – genere Helleborus. Helleborus niger: fusto con foglie cauline verde pallido, intere, quindi diverse dalle foglie basali persistenti e coriacee, divise in cinque-nove segmenti lanceolati; i fiori sono grandi, bianchi o rosei con diametro di 30-90 mm. I segmenti delle foglie sono oblungo-cuneati, verde cupi, seghettati verso l’apice. Pianta emicriptofita, perenne, diffusa in tutta Italia, dal piano basale al piano montano. Fioritura da dicembre a marzo. Helleborus foetidus: fiori di circa 20 mm di diametro verdicci, talora marginati di rossiccio, penduli; foglie divise in 7-10 segmenti strettamente lanceolati, le cauline passanti a brattee, prima digitate poi infine intere. Pianta verde scuro, fetida, persistente durante l’inverno. Pianta camefita perenne diffusa nell’Europa occidentale, centrale e meridionale, in luoghi selvosi, con fioritura da gennaio ad aprile, presente nel piano basale (collinare) e montano inferiore. Gli ellebori sono frequenti e fioriscono numerosi anche se isolati nei boschi ancori spogli. Quando lo incontro nelle selve durante la stagione non ancora propizia lo avverto come una presenza rassicurante e come una compagnia. In questi momenti la sensazione della solitudine può vincerne il desiderio e sopraggiunge un vago senso di smarrimento. Ecco allora che la presenza di questo fiore, così appariscente, reca una nota di vita e mi ricorda che il 19 bosco spoglio non è l’immagine della morte invernale ma che la vita continua. In genere queste considerazioni mi rinfrancano e continuo nel mio girovagare. Quando l’uomo è solo nella natura deve fare i conti con il proprio sentirsi piccolo e con la propria transitorietà: il senso della perdita e della morte è sempre presente più o meno consciamente ed è la forza del pensiero che lo stimola e gli fa superare lo sconforto. L’elleboro, immagine di vita, ha comunque un legame con la morte. Qualcuno afferma che il suo nome significhi “cibo mortale”; altri sostiene che il nome derivi dall’odore sgradevole che esso emana. Certo è che non è profumato: ma attrae insetti impollinatori grazie alla sua virtù maleodorante e le sue foglie schiacciate emanano un fetore intenso. E’ una pianta velenosa ed i principi farmacologici in essa contenuti (vedi nota farmacologica) possono riuscire mortali. Già Ippocrate aveva individuato nell’elleboro una pianta con proprietà medicamentose e la proponeva per la cura della pazzia. Forse per noi l’elleboro è più noto per la infiammazione delle mucose prodotta dalla polvere derivata dal rizoma essicato. Tutti i bambini conoscono durante il Carnevale la polvere che fa starnutire: pochi sanno che deriva dalla radice dell’elleboro. Ho incontrato ellebori a non finire nei boschi alle pendici del monte Guglielmo soprattutto nella zona compresa fra il Passo del Lividino e il Passo del Sabbione; lungo le Scale dell’Ario; lungo il sentiero dei Ladroni tra il Passo della Fobbiola e il Rifugio Pirlo allo Spino; nelle rade faggete miste alle pendici del Tombea. Tutte le nostre prealpi ne sono ricche: cresce bene nei boschi collinari e montani, su terreno calcareo e ricco di humus. Il fatto di appartenere alla famiglia delle Ranuncolacaee ne spiega il contenuto in sostanze velenose. Le foglie basali sono sempre verdi, oblunghe cuneate e seghettate verso l’apice. Splendido il fiore dell’Elleboro Nero che gli ha meritato l’appellativo di Rosa di Natale. Quest’ultimo è una emicriptofita perenne, ovvero una pianta le cui gemme persistono in inverno al suolo, protette dal terriccio, detriti, foglie morte o anche dalle foglie verdi basali sopravviventi. Ha una statura di 20-40 cm e quando il fiore sfiorisce i petali tendono ad assumere una sfumatura bruno verdastra. Le sue radici hanno un colore nero e ne hanno valso l’appellativo. L’Elleboro fetido invece è una camefita ovvero un piccolo arbusto con gemme poste sopra al suolo. I suoi fiori sono penduli, campanulati, quasi racchiusi, e la loro osservazione permette sempre di distinguere una delicata linea rossastra che contorna il margine dei sepali. Il fiore infatti è formato dai sepali mentre i petali sono trasformati in foglie nettarifere. Una denominazione inusitata per l’elleboro fetido è “cavolo di lupo”. I semi degli ellebori vengono propagati dalle lumache. Essi infatti presentano lateralmente una cresta bianca da cui stilla una sostanza oleosa che attira le lumache. Queste si nutrono della sostanza oleosa ma non del seme che, attaccato al muco del corpo, viene trasportato al suolo. Nel linguaggio poetico dei fiori l’Elleboro simboleggiava la calunnia ma sinceramente non mi sento di conferire a questo fiore solo una connotazione negativa. E’ oggetto di numerose leggende, quasi tutte dell’Europa Settentrionale. 20 NOTE E CURIOSITA’ Molte notizie sull’elleboro si trovano nella Historia Naturalis di Plinio il Vecchio. Qui la pianta viene anche nominata con il termine di “melampodio” dal nome del pastore Melampo che offrì il latte alle Pretidi risanandole dalla pazzia. Plinio cita l’esistenza della varietà bianca e della nera affermando che gli animali si cibano di quella bianca ed evitano la specie nera perché velenosa. Solamente quello nero è detto melampodio di cui ne viene suggerito l’uso per farne suffumigi allo scopo di purificare gli interni delle case. Recitando particolari e solenni preghiere il naturalista latino ne sottolinea l’uso che se ne faceva per cospargere a scopo purificatorio il bestiame. La raccolta dell’elleboro doveva avvenire secondo un rituale preciso: dapprima infatti bisognava tracciare con la spada un solco attorno alla pianta; l’incaricato della raccolta doveva volgere lo sguardo verso oriente, invocare il favore degli dei ed osservare eventualmente il volo di un’aquila: quasi sempre infatti un’aquila si trova nei paraggi e se vola vicino è segno che colui che raccoglie l’elleboro morirà entro un anno. L’elleboro bianco, prima di essere raccolto, necessita che si mangi dell’aglio, si beva del vino subito dopo e lo si dissotterri rapidamente, pena un forte appesantimento di testa. Secondo Plinio l’elleboro nero viene anche detto “encimo” o “polirrizo”: l’autore ne descrive una azione purgativa mentre assegna alla variante bianca l’azione emetica e quindi liberatoria dalle malattie. A detta di Carneade, citato da Plinio, qualcuno lo userebbe per concentrarsi meglio. Da queste poche note emerge la nozione che già gli antichi avevano delle proprietà dell’elleboro. La pianta era in grado di procurare la morte e si poneva in diretta comunicazione con il mondo degli inferi: la sua raccolta doveva avvenire con un rituale magico diretto ad ingraziarsi il favore degli dei. Il tutto veniva vissuto come un furto alla Madre Terra donde la necessità di agire rapidamente. Il mito delle Pretidi guarite dal latte delle capre che avevano brucato l’elleboro trova conferma nell’uso terapeutico proposto da Ippocrate. Ancora nel medioevo l’elleboro veniva usato per preparare infusi per purgare i bambini e spesso si avevano problemi che potevano anche culminare con la morte del soggetto se la dose somministrata era eccessiva. 21 L’elleboro viene citato anche da Catone il Censore nel suo trattato De Agricoltura e Virgilio, in Geogiche III, 440-451 lo cita tra i rimedi della scabbia delle pecore unitamente alla scilla: “idaeque pices et pingui unguine ceras scillamque elleborosque gravis nigrum bitumen” NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA L’elleboro contiene specialmente nella radice sostanze di natura glucosidica: elleboreina ed ellebrina. L’ellebrina ha una azione simile alla K-strofantina. L’elleboreina invece possiede l’azione tipica della digitale. E’ contenuta inoltre anche l’elleborina, che ha azione drastica, emetica e caustica e, a forti dosi, anche anestetica. Queste sostanze si trovano tutte anche nell’Helleborus viridis e nel foetidus. La pianta ha grande velenosità e non è attualmente indicata a scopo medicinale in quanto i principi attivi vengono assorbiti in modo estremamente irregolare e non sono indicati per l’uso parenterale. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO • Il fiore, globoso e verdognolo, ha spesso un bordo rossastro. • Il nettario è lungo circa la metà degli stami: ciascun fiore ne ha da 5 a 10. • I frutti (follicoli) a maturità si fendono per liberare i semi. 22 ERYTHRONIUM DENS CANIS Particolarmente abbondante soprattutto nei prati adiacenti il santuario e lungo tutto il percorso di ritorno. SCHEDA Spermatophyta, Angiospermae – classe Monocotyledones – ordine Liliiflorae – famiglia Liliacee – genere Erythronium. Erythronium dens canis (dente di Cane) Fiore pendente con perigonio lungo all’incirca 30 mm roseo o rosso violaceo, con tepali ricurvi verso l’alto. Le foglie, in numero di due, sono lanceolato ellittiche, fortemente macchiettate di bruno rossastro. Geofita perenne con statura di 10-30 cm tipica del piano submontano, collinare con querceti, castagneti e aree disalberate. Fiorisce da marzo ad aprile. “Sbucammo in una radura del bosco, dove il suolo era ricoperto di bianchi fiori di eritronio. Un momento magico, una suggestione indescrivibile. Ma forse era soltanto un incantesimo d’amore” Paolo Mantegazza Il fiore del l’Erythronium dens-canis è bellissimo. Colpiscono i petali bianchissimi, a volte quasi color d’avorio, a volte invece tenuamente rosati, lunghi e con estremità aguzza tanto da ricordare i canini del fedele amico dell’uomo. Il primo incontro con questo fiore mi colpì, soprattutto per la stranezza della forma, una volta che mi aggiravo lungo le pendici del famigliare monte Guglielmo, in prossimità del passo del Lividino, appena prima che la mulattiera proveniente da Cimmo (la famosa “Nistola”) tagli il 23 sentiero per dirigersi verso la Casa delle Due Signore. Era marzo e il periodo tradiva la precoce fioritura di questa specie, pronta, accanto ai crochi, alle scille e alle primule a sfidare le nevi primaverili. Stranezza per stranezza non fui l’unico ad esserne colpito. Qualche anno fa, mentre ero intento nel mio lavoro, si presentò un ragazzo con un piccolo sacchetto che custodiva con particolare riguardo, quasi contenesse un segreto mistero. Voleva sapere in che strano fiore si fosse imbattuto il giorno prima mentre gironzolava per le campagne ondulate di quell’avamposto morenico che è il monte di Capriano. Lo aveva raccolto intero, pazientemente scalzato con la lama di un coltellino, con foglie ed apparato radicale: non era altro che l’Erythronium dens canis, nella sua posizione più avanzata, testimone di un relitto glaciale confinato nella bassa pianura bresciana. Lo spiegai con cura, facendo notare le belle foglie lanceolate, macchiettate, che talvolta i neofiti scambiano, quando la fioritura non è in corso, per l’apparato fogliare dell’orchidea maculata. Trovare questo fiore in pianura ci suggerisce anche che trattasi del relitto dell’antica foresta di querce che doveva coprire la nostra terra. Esso infatti cresce bene nelle radure tra i querceti e i castagneti, trovando in esse l’optimum ambientale per la sua crescita. I francesi lo hanno soprannominato Violette dent du chen, gli inglesi Dog’s tooth Violet, i tedeschi Hundzahn veilchen; nel vernacolo bresciano è note con il nome di erba serpentaria. Il suo nome latino deriva dal greco erythros che significa rosso anche se in realtà il richiamo a questo colore è soprattutto nelle sfumature rosate a cui ho accennato. Plinio il Vecchio attribuisce a Mitridate la scoperta di un erba che pare possa identificarsi con l’Eritronio. E’ una pianta spontanea in tutta Europa, in qualche zona dell’Asia settentrionale e in Giappone. Ne esiste una varietà sibiricum che vive solo in Siberia, sui monti dell’Altai. Questo fa supporre una identità di clima e di ambiente fra quella lontana terra e le nostre valli e conferma il prodigioso meccanismo ecologico che determina la formazione delle “nicchie” in cui ogni specie trova la situazione ideale per vivere e riprodursi secondo leggi immutabili. A parte queste considerazioni, importantissime quando si voglia intendere il vero linguaggio della natura e non limitarsi ad un semplice atteggiamento ammirativo delle sue bellezze, vediamo che i pregi dell’Eritronio investono anche il fogliame. Le foglie hanno strane maculature bruno-rossastre , irregolari, che risultano piacevolmente sulla superficie grigio-verde. Anticamente vi erano “esperti” che credevano di potervi leggere auspici per il futuro. Le foglie sono due, hanno forma ovoidale e sono di tipo basale, ossia il loro picciolo nasce dal terreno, anzi dal bulbo che ha forma conica cilindrica. In Giappone si estrae dal bulbo un amido assai pregiato che trova impiego nella fabbricazione di paste alimentari. In Mongolia e in qualche altra regione asiatica le foglie di questa pianta sono considerate una risorsa preziosa e vengono utilizzate come ortaggi, a guisa di spinaci. 24 SCILLA BIFOLIA SCHEDA Spermatophytae, Angiospermae – classe Monocotyledones – Ordine Liliiflorae – Famiglia Liliaceae - Genere Scilla Scilla bifolia In genere possiede due sole foglie ottuse e concave all’apice, larghe 5-12 mm abbraccianti lo scapo fino a metà e più o meno lunghe come lo scapo che è solitario e cilindrico. Fiori azzurri o rosei. Statuta di 10-25 cm, geofita perenne, fiorisce nel piano submontano, nel piano montano inferiore e montano superiore, spesso in associazione a faggete. Fioritura da marzo a maggio. 25 CROCUS SCHEDA Spermatophyta, Angiospermae – claase Monocotyledones – Ordine Liliiflorae – famiglia Iridaceae – Genere Crocus Crocus biflorus Pianta a fioritura primaverile con bulbo con tuniche cartacee staccantesi circolarmente; foglia larga 1-3 mm che si sviluppa successivamente ai fiori con linea longitudinale bianca nel solco mediano. Fiori in genera 1-3 a fauce giallo dorata e con tepali bislunghi, ottusi, violetto pallidi o bianchicci e con linee violette scure esternamente. Statura di 5-15 cm, geofita perenne e con predilezione per luoghi erbosi; fioritura precoce da marzo ad aprile dal piano submontano alla fascia montana superiore. Crocus albiflorus (più frequente nei riscontri della escursione in oggetto): ha fiori violetti o bianchi, stami in genere più lunghi del pistillo. Predilige i piani montano inferiore e submontano: raramente si riscontra nelle fasce cacuminali Allo scioglimento delle nevi, quando alcune chiazze residuano sulle praterie e sui prati alpini che ancora non hanno acquistato la verde tonalità della primavera avanzata, la fioritura dei crochi è esplosiva tanto da simulare un bianco tappeto di fiori. A un occhio attento tuttavia non sfugge la presenza di una minuta popolazione di crochi violetti che si confondono nel biancore dei confratelli. A volte, come nel nostro caso sul prato che precede l’accesso a Santa Maria del Giogo, i crochi compaiono misti a scille, denti di cane e primule in una fantasmagoria di colori difficilmente riproducibile. Fin dai tempi più antichi il crocus è stato simbolo di vita, di giovinezza e bellezza. I Romani lo coltivavano sulle tombe intendendolo non come emblema di morte ma come buon auspicio per vita ultraterrena. Il crocus era soprattutto il fiore degli sposi: dei suoi stami profumati si usava spargere i letti matrimoniali. Teofrasto da Efeso gli diede il nome croche che significa “filo” alludendo ai lunghi stimmi filamentosi che caratterizzano la pianta. Questa iridacea ha petali la cui lunghezza è quintupla della larghezza e i fiori spuntano prima delle foglie. Le piante a fiori violetti sono molto più rare di quelle a fiori bianchi che rappresentano circa il 97% del totale. Questa percentuale però può variare nello stesso luogo di anno in anno. Trattasi di una monocotiledone perenne e protetta. Nel dialetto bresciano è nota con vari appellativi: safrà salvadegh, maigole, camporécc. La prima dizione ci richiama un suo parente, il crocus sativum, volgarmente detto zafferano, di cui è noto l’impiego culinario TRADIZIONI E CURIOSITA’ Una leggenda del medioevo tedesco che ricordo di aver ascoltato da bambino, narra di una madre a cui una malattia ha rapito il piccolo e unico figliolo. La madre non si rassegna alla perdita e si mette alla ricerca del bimbo poiché sa che la Morte ha dimora in una landa perduta e irraggiungibile dove tiene una grande serra. Qui le persone defunte vivono sottoforma di piante che Ella coltiva. Dopo lunghissimo peregrinare e dopo aver superato enormi difficoltà, la madre giunge nella serra. La Morte è assente poiché impegnata a girovagare in cerca di nuove anime da rapire e trapiantare. La Madre comincia la sua ricerca ma quale pianta sarà il suo bimbo? Ella si avvicina ad una ad una e l’amore di mamma le permette di riconoscere in un umilissimo fiorellino di croco il battito del cuore del suo bambino. Lo vorrebbe portare via, ma la Morte, nel frattempo sopraggiunta le sbarra il passo: 26 La Madre implora di ritornare la vita al piccolo, ma la Morte è inflessibile perché il tutto risponde al disegno di Dio del quale ella esegue gli ordini. Le lacrime della mamma e la consapevolezza delle peripezie trascorse per giungere in quel luogo la inducono a concedere che porti con sé il vasetto di crocus affinché ne possa aver cura fino alla fine dei suoi giorni. 27 VIOLA ODORATA SCHEDA Spermatophyta, Angiospermae – classe Dycotiledones – ordine Violales – famiglia Violaceae - genere Viola. Viola odorata (viola mammola). Fiore con 5 petali di cui due rivolti in alto, altri due lateralmente verso il basso e un petalo decisamente rivolto verso il basso. Provvista di stipole ovate o largamente lanceolate, acute, intere o quasi o con brevi frange glabre assai più brevi della larghezza delle stipole; foglie cuoriformi rotondeggianti, ottuse, a picciolo lungo, con la maggior larghezza verso la metà; stoloni presenti tutti epigei, radicanti e lunghi. Statura di 5-15 cm, emicriptofita perenne con fioritura da febbraio a maggio e diffusa dal piano litoraneo alla fascia montana inferiore. Anche nella nostra pianura la fioritura delle prime violette, per quanto precoce, ci annuncia che la stagione invernale sta per trascorrere e ci prepara ai miti tepori primaverili. La sua ampia distribuzione ci consente di reperire questo fiore anche nella zona collinare. Il fiore della Viola odorata è di colore viola scuro e con simmetria bilaterale dal momento che i petali si distribuiscono rispettivamente due verso l'alto e tre verso il basso. Le sue foglie sono tutte basali, pelose, cordate e lievemente sfrangiate. E’ una pianta stolonifera, ovvero possiede ramificazioni striscianti al suolo, partenti dalla base del fusto, da cui originano radici e germogli. L’allungamento annuo indotto dai rizomi stoloniferi raggiunge anche i dieci centimetri; da essi originano cespi che diverranno fioriferi l'anno successivo. Un cenno particolare merita la riproduzione di questa pianta: certamente è importante la impollinazione promossa dagli insetti che sono attratti dal nettare posto al fondo dello sperone. Se per qualche ragione, anche meteorologica, gli insetti pronubi dovessero scarseggiare, la viola odorata spesso forma più tardi dei fiori di forma diversa, decisamente rudimentali (provvisti di stami, antere, polline, stigma ed ovario). La autofecondazione è il solo modo con cui essi producono semi. Si tratta di fiori che non si aprono mai, cosiddetti “cleistogami” (in greco = nozze al chiuso): il polline germina già all’interno delle antere e raggiunge facilmente lo stigma vicino per fecondare l’ovario. I semi, contenuti nella capsula, sono tondeggianti e provvisti di una appendice carnosa ricca di un olio, lo strofiolo, particolarmente ricercato dalle formiche. Queste ultime contribuiscono alla disseminazione. Cresce su terreni ricchi di elementi nutritivi leggermente azotati. Presso i Greci la viola godeva di una simbologia ambivalente: era considerata fiore dei morti e anche simbolo di Afrodite tanto che venne eletta a simbolo della città di Atene. La viola odorata è molto citata da Shakespeare che la definisce precoce perché fiorisce presto ed annuncia l’approssimarsi dell’estate: “Quanto ad Amleto, e a questo scherzo del suo favor, Tenetelo per una galanteria e un capriccio del sangue. Una violetta nella giovinezza della natura primaverile, Precoce, non permanente, dolce, non duratura, Il profumo e il sollazzo di un istante; Non più”. 28 NOTE E CURIOSITA’ In greco antico il termine per indicare la viola è υον (pron. “ion”). Questo fiore è molto citato nella letteratura greca antica, sia scientifica che propriamente letteraria. Teofrasto la chiamava viola oscura, Dioscoride invece la indicava come viola purpurea. Omero nel canto V dell’Odissea ne adorna i luoghi abitati dalla bella Calipso (Odissea V, 72-73). “αµϕι αµϕι δε λειµωνε∫ λειµωνε∫ µαλακοι ιον ηδε σελινου θηλεον” θηλεον “Intorno molli prati di viole e di sedano erano in fiore” E’ uno dei fiori che Persefone raccoglieva quando fu rapita da Ades. Gli ateniesi amavano moltissimo questo fiore e non vi era simulacro di Zeus che non ne fosse adorno. Secondo Aristofane essi inorgoglivano nel sentirsi chiamare “inghirlandati di viole”. Se ne usavano quantità enormi per adornare le mense poiché si riteneva che avessero il potere di allontanare la ubriachezza. Si spargevano sulle tombe dei bambini quale simbolo di purezza e di modestia. Alla viola, pronunciata alla maniera greca, υον, υον è legato il mito della ninfa Io. Io era la figlia del fiume Inaco. Zeus si innamorò di lei suscitando la gelosia di Era. Zeus allora trasformò Io in una vacca bianca per ingannare Era che tuttavia si impadronì di Io affidandone la custodia ad Argo, mitico mostro dalle cento teste. Ermes, per incarico di Zeus, rubò la vacca Io ad Argo, inviandole un tafano che, pungendola la fece fuggire. Poi ne cambiò ripetutamente il colore affinché non venisse riconosciuta. Zeus allora creò le viole perché Io gustasse questo delicato foraggio. Ovviamente il mito, come tutti i miti, va interpretato metaforicamente. Gli Argivi veneravano la Luna come vacca perché dal cornuto primo quarto di Luna dipendevano le piogge e quindi l’abbondanza dell’erba da pascolo. I suoi tre colori, bianco per il primo quarto, rosso per la luna piena, nero per la luna calante, rappresentavano le tre età della dea Luna: fanciulla, ninfa, vegliarda. Nel mito “Io” mutò il suo colore dal bianco, al violetto e al nero: ella rappresentava la luna propiziatrice della pioggia sospirata soprattutto alla fine dell’estate. Si supponeva anche che i picchi attirassero la pioggia battendo con i becchi contro il tronco delle querce. Le sacerdotesse argive della ninfa praticavano una danza della giovenca annualmente durante la quale simulavano di essere tormentate da tafani mentre uomini travestiti da picchi bussavano agli usci di quercia e chiamavano “υον!!, υον!!, υον!!” υον!! impetrando la pioggia. Nella Francia pre-rivoluzionaria le viole erano divenute una mania. Nel XVIII secolo l’ammiratore di una attrice non si occupò di null’altro per tutta la vita che della coltivazione di questo fiore di cui, per trenta anni, portò quotidianamente un mazzolino fresco e profumato all’amata. Lei ne fece buon uso e ogni sera con le corolle ne faceva un infuso. La viola divenne simbolo di Napoleone (in realtà era il fiore preferito di Maria Luigia d’Austria che ne divenne moglie) e la città di Parma ne fece la sua insegna. NOTE DI ETNOBOTANICA E BOTANICA FARMACEUTICA Secondo Plinio il Vecchio le viole color porpora sono rinfrescanti; si applicano sullo stomaco in caso di bruciori e sulla fronte quando si ha la testa che scotta. Sono indicate quando si hanno lacrimazioni, prolasso dell’ano, dell’utero o nelle suppurazioni. Portare in capo ghirlande di viole o aspirarne il profumo è rimedio contro la ubriachezza e la pesantezza di testa. La parte purpurea del fiore, bevuta in acqua, è rimedio contro l'epilessia dei bambini. I semi invece combattono le punture degli scorpioni. Sia la viola bianca che quella gialla riducono il flusso mestruale e hanno effetto diuretico. Ovviamente questi sono principi dettati dalle conoscenze del tempo fondate su nozioni di omeopatia e medicina simpatica che attualmente non hanno alcun fondamento. Il fiore della viola contiene acido salicilico, olio essenziale, mucilllagini, tannini, violina, violaquercitina, irone, pigmenti antocianici e zuccheri. Nelle foglie sono presenti tannini e saponine; nei rizomi alcaloidi e saponosidi. La tintura ottenuta dai petali può venire impiegata empiricamente come reattivo chimico per la stima della acidità di una soluzione: diviene 29 rossa per pH acido e verde per pH basico). La mammola era ricercata nelle profumerie per l’estratto “violetta di Parma” preparato con il metodo vetusto dell’enflourage: da un quintale di fiori freschi si ottenevano 50 grammi di essenza. La viola contiene anche ionina, una sostanza che agisce transitoriamente sul sistema olfattivo paralizzandone i recettori e determinando una minore sensibilità olfattiva per qualche momento. L’antico uso di arricchire le cucine delle mense con viole per neutralizzare gli odori in realtà era basato sulla funzione della ionina che neutralizzava la capacità di avvertire odori. ♦ CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO. La Viola odorata ha fiori di colore bluastro o bianco; lo sperone è lilla o viola pallido. Il frutto è una capsula pelosa arrotondata che cade ancora chiusa sul terreno Le foglie cuoriformi formano una rosetta basale dalla quale nascono i fiori lungamente peduncolati. Alla base di ciascun picciolo fogliare ci sono due stipole somiglianti a foglie, frangiate con peli, che hanno una ghiandola sulla cima. 30 ANEMONE NEMOROSA SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Ranuncolaceae – genere Anemone. ANEMONE NEMOROSA Pianta con fiori bianchi o rosei e di rado violacei. Sepali petaloidei in genere in numero di sei, glabri sopra e sotto; foglie a 3-5 segmenti inciso dentati e quelle dell’involucro sotto i fiori a lungo picciolo. Rizoma strisciante, fiori non lanosi. Statura di 10-25 cm, geofita perenne, diffusa nel’Italia settentrionale e centrale; cresce in boschi e luoghi erbosi con fioritura da marzo a giugno soprattutto nella fascia submontana e montana inferiore, raramente in quella planiziale (pianura padana in zone un tempo habitat di querceti). Nel mese di aprile succede spesso di imbattersi nella fioritura di questa ranuncolacea, nota anche con il nome di anemone silvia. Lungo il percorso effettuato è stato rilevato in abbondanza soprattutto nel sentiero di ritorno, nelle zone ombreggiate e più fresche. Cresce anche nella nostra pianura, lungo le rive dei fossi e se bisogna dare credito a quanto accennato nella scheda, è l’ultima traccia del vecchio querceto padano che doveva ricoprire le nostre terre ancora in epoca storica. Nella campagna manerbiese lo incontrai per le prima volta lungo una scarpata che doveva essere un antica sponda del Mella in prossimità della zona della Selva (anche questo toponimo indica la presenza di querceti storici) in una primavera precoce di qualche anno fa con i rami degli alberi ancora spogli. Fiorisce precocemente in quanto utilizza la abbondanza di luce non ancora filtrata dalle foglie degli alberi. Lo si può comodamente rinvenire da febbraio a maggio sia in pianura che nell’ambiente collinare. E’ un fiore dall’aspetto delicato come del resto lo è il suo nome che evoca la delicatezza di soffi e brezze in ambienti boschivi. Particolarmente suggestivo è l’aggettivo che lo qualifica “nemorosa” che racchiude un non so che di misterico. Deriva dal latino “nemus “ che nella lingua classica significa bosco. E’ uno di quei termini che sottolineano la povertà del nostro lessico nei confronti della lingua madre. I latini avevano tre vocaboli per indicare il bosco: il nemus, il lucus e la silva. Il nemus è propriamente il bosco sacro, quello rituale, in cui venivano consumate cerimonie in onore di divinità antiche e che soprattutto emerge dalla lettura degli Autori dell’età repubblicana (Tito Livio in prima fila). Spesso il nemus era un boschetto di querce poiché quest’albero era ritenuto particolarmente sacro. Non è il caso per affrontare una digressione sul culto della quercia, argomentazioni che comunque mi sono care; basti solamente citare questo filo conduttore che attraverso il bosco sacro di querce ci riconduce al nostro fiorellino quasi che la religione ed il mito diano contributo alla biologia nella associazione vegetale fra anemone (tuttora presente) e querce (ahimè da noi ormai scomparse). Ma se in questa giornata di escursione il nostro occhio è stato attento e soprattutto abbiamo posto mente alle varie osservazioni, non possiamo dimenticare che il percorso di andata si è sviluppato tutto in un bosco di roverelle che altro non sono che una specie di quercia. Quando il cielo è nuvoloso e quando è notte i fiori si richiudono piegandosi verso il basso. Talvolta si può scoprire tra gli anemoni uno o più piccoli funghetti a forma di coppa peduncolata, di colore bruno: si tratta della Sclerotinia tuberosa, uno dei tanti esempi di simbiosi del regno vegetale. I semi vengono raccolti e disseminati dalle formiche. 31 Come tutte le ranuncolaceae anche l’A. nemorosa contiene sostanze tossiche tra cui la anemonina e la protoanemonina. Ai sensi della legge regionale n. 33 del 27.07.1977 tutte le specie di Anemone risultano protette e ne è permessa la raccolta massima di sei steli (senza estirpazione di radici, bulbi o tuberi) per persona al giorno. NOTE E CURIOSITA’ Anemone era una ninfa della dea Chloris. Zefiro e Borea si invaghirono di lei e Chloris indispettita decise di punirla tramutandola in un fiore: l’anemone, la cui corolla ancora oggi si schiude precocemente per subire le violente carezze di Borea, ovvero la tramontana, che disperde nell’aria ancora frizzante i sui fragili petali. Quando Zefiro spira, annunciando i tepori primaverili, l’anemone è ormai avvizzito. Il poeta inglese S.T.Coleridge (1772-1834) ha dedicato alcuni versi all’anemone nel suo componimento intitolato “Osservando un fiore il primo febbraio 1796”: Dolce fiore! Che fai capolino dal tuo stelo rossiccio E timido ti schiudi (perché – è strano – Questo mese che batte i denti, buio, intabarrato e rauco La voce di Zefiro ha rubato e con voluttuoso Occhio azzurro ti ha fissato), ahimè, povero fiore! Gli anemoni sono sempre stati noti come fiori del vento, poiché gli antichi greci credevano che essi schiudessero i petali solo quando soffiava il vento. Il termine ανεµο∫ infatti significa soffio (donde il latino anima) e data la sua vita effimera simbolizza la fragilità e l’abbandono. 32 Altro nome, usato un tempo dai contadini , è Cappucci della Candelora, perché il due febbraio sono solitamente già fioriti. Un’altra leggenda narra che quando Afrodite piangeva per la morte di Adone nella foresta, dove cadevano le sue lacrime spuntavano Anemoni. In Palestina si pensava che l’anemone fosse cresciuto sotto la croce di Gesù. Credenze popolari sull’anemone esistevano in Europa, Egitto ed in Medio Oriente, dove erano ritenuti portatori di malattie. Plinio il Vecchio invece narra che i Magi raccomandavano di raccogliere il primo anemone dell’anno e di legarselo intorno al collo in un sacchetto di tela rossa per scongiurare febbri e malefici. HEPATICA NOBILIS (ERBA TRINITA’) SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Ranuncolaceae – genere Hepatica HEPATICA NOBILIS (Anemone hepatica). Fiori blu o raramente rosei o bianchi; foglie del caule verticillate a 3, vicine al fiore e simulanti un calice; foglie radicali trilobate a contorno triangolare e lobi ottusi, talora macchiate di chiaro. Statura di 10-15 cm, emicriptofita perenne (pianta con gemme persistenti durante l’inverno situate a livello del suolo, ivi protette da terriccio, detriti, foglie morte e talora anche dalle foglie basali sopravviventi almeno in parte); comune nei boschi nei luoghi selvatici, dal piano submontano al montano inferiore e raramente negli ambienti di pianura, con fioritura da febbraio a maggio. 33 PERVINCA “So perché sempre ad un pensier di cielo misterioso il tuo pensier s’avvinca, si come stelo tu confondi a stelo, vinca pervinca”. G.Pascoli SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Apocynaceae – genere Vinca. VINCA MINOR e VINCA MAJOR (Pervinca). Erbe a fiori con corolla ipocrateriforme di 30-60 mm di diametro, con colore azzurro-violaceo. La V. minor ha fiori a peduncoli uguali o più lunghi delle foglie; calici a lacinie di 4-5 mm, più brevi del tubo corollare; corolle di 20-30 mm di diametro a lobi obliquamente troncati all’apice; foglie ovato lanceolate ristrette alla base e glabre al margine. La V. major si distingue per avere corolle con diametro più grande, calice a lacinie lunghe come il tubo corollare, foglie cigliate al margine La statura varia da 10 a 50 cm (V. minor = 10-30 cm; V. major 20-50 cm). Entrambe sono emicriptofite perenni, comuni in siepi, boschi e luoghi selvatici; fioritura da marzo a maggio nelle fasce litoranea, planiziaria, submontana e montana inferiore. Per quanto le Flore la diano come rara nella zona planiziaria, più volte mi sono imbattuto nei fiori di pervinca nella nostra pianura, lungo le prode dei fossi, meglio se ombrose, con il terreno umido, magari ancora ricoperto dalle foglie secche dell’autunno precedente. Ricordo una abbondanza particolare lungo la sponda destra della Savarona, in quel di Padernello, a sud del castello, mischiata ad una poderosa fioritura di campanellini di primavera. Certo la pervinca è una pianta umile, nel senso che richiede humus. Colpisce questa sua tenacia nello stare attaccata alla terra, strisciante, nella capacità di mettere radici nei nodi, scomparire per poi riemergere 10-20 cm più in là, dal letto di detriti, per dar esito a cespi di fiori azzurrati. Il suo colore non è costante. Plinio il Vecchio, che già riconosceva alcune di queste caratteristiche (“in modum liniae foliis geniculatum circundata”) la definisce anche herba topiaria, adatta cioè ad essere usata a scopo ornamentale nei giardini; la chiama anche camedafne, ricalcando il nome greco dato da Dioscoride per la somiglianza alle foglie dell’alloro. Anche se siamo abituati a parlare di “color pervinca”, osserveremo pervinche azzurre, violette, azzurro esangue fino ad esemplari francamente bianchi. Anche quella troncatura obliqua dell’apice dei lobi delle corolle colpisce poiché allo sguardo suggerisce una certa sensazione di movimento e richiamano la forma della girandola che un tempo si trovava nelle fiere di paese. In letteratura è considerata il simbolo della amicizia e delle fedeltà. Per i belgi ha costituito per molto tempo il simbolo della verginità: nelle zone rurali si usava spargerne davanti agli sposi (convinzione della verginità della sposa o augurio di reciproca fedeltà della coppia?). Vero è che nel secolo XVII gli erboristi la consigliavano per accrescere la fertilità. Uno di essi, infatti, 34 scrisse: ”Questa erba appartiene a Venere, e si dice che le foglie mangiate dall’uomo e dalla sua sposa insieme provocheranno amore fra loro”. Gli antichi intrecciavano corone di pervinche per i morti, scorgendo nella sua rusticità e nel suo essere sempre verde un simbolo del ricordo tenace. Il legame con la fertilità , nato alla constatazione della tenacia della pianta, ha indotto a considerarla anche come simbolo di immortalità. Nell’Inghilterra medioevale corone di pervinche venivano appese al collo dei condannati a morte. Questo richiamo al mondo della morte emerge anche dal dialettale bresciano “fiur de mort” con il quale si indica la pervinca. I Celti ritenevano che fosse sacra per gli stregoni, tanto è vero che anche oggi, in alcune zone della Francia e dell’Inghilterra viene appellata violettes des sorcières. Appartiene alla famiglia delle apocinacee (dal greco antico απο κυων = contro il cane) poiché il medico greco Dioscoride le riteneva velenose per i cani. Uno scrittore inglese del XVII secolo attribuiva alla pervinca “una eccellente virtù di fermare il sangue dal naso dei cristiani, se ne facevano una ghirlanda e se l’appendevano al collo”. Il suo nome deriverebbe dall’antico slavo “pervinka” con il termine “pervi” che significa “primo”, riferito alla precoce fioritura del fiore. Era il fiore preferito da J.J.Rousseau e la città di Ginevra ne ha fatto il suo emblema. NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA L’appartenenza alla famiglia delle apocinaceae ci rivela che la pervinca produce sostanze di natura velenosa o comunque dotate di azione farmacologica. Diversamente da altre apocinaceae produttrici di forti sostanze talvolta usate anche nella farmacologia umana (per esempio vincristina e vinblastina prodotte dal Catharanthus roseus o lo strofanto prodotto dallo Strophantus kombe), la pervinca produce vincamina, una sostanza usata come “miglioratore della circolazione” con impiego soprattutto in oftalmologia. A titolo di completezza ricordo altre apocinaceae illustri accennando tra parentesi alla sostanza più nota da esse prodotta: Rauwolfia serpentina (reserpina), il Nerium oleander ovvero il comune oleandro (oleandrina che ha azione digitalica) NOTE E CURIOSITA’ Plinio il Vecchio riferisce dell’uso della vinca come diuretico. Egli infatti afferma che somministrata in acqua dopo averla seccata e pestata, nella quantità di un cucchiaio, fa eliminare l’acqua ai sofferenti di idropisia (arida tusa hydropicis datur in aqua cocleari mensura, celerrimeque reddunt aqua). Altri impieghi riferiti dal naturalista latino sono: 1) Come antiedemigeno nelle tumefazioni ,cotta nella cenere e aspersa di vino (“decocta in cinere sparsa vino tumores siccat). 2) Come medicamento per le orecchie usandone il succo (auribus suco medetur). 3) Come lentivo dei disturbi intestinali per applicazione diretta (alvi vitiis inposita plurimum prodesse dicitur). La Vinca minor è compresa nel novero delle 16 erbe magiche segnalate da Alberto Magno nel suo De Vegetabilis. 35 36 ROSA CANINA “Rosa di macchia, che dall’irta rama ridi non vista a quella montanina, che stornellando passa e che ti chiama rosa canina” G.Pascoli SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Rosaceae – genere Rosa. ROSA CANINA (Rosa Selvatica) Fiori con petali rosei o bianchi, lunghi 15-30 mm, pedicelli lunghi 10-20 mm, come il frutto o più, glabri; foglioline glabre e senza ghiandole; aculei bene adunchi, sepali riflessi. Statura 90-270 cm. Fanerofita (arbusto con gemme persistenti durante l’inverno ad altezza non inferiore ai 50 cm). Diffusa nelle macchie, siepi, boschi e luoghi selvatici dalla fascia litoranea fino al piano montano inferiore con fioritura in maggio e luglio. Laddove la mulattiera per Santa Maria del Giogo tende a divallare, in corrispondenza di uno slargo con santella, si stacca sulla sinistra un sentiero rubato alla roccia con duro lavoro manuale. Pochi metri avanti lungo questo sentiero, che abbiamo seguito per raggiungere il giogo di Santa Maria, sulla sinistra c’è un bell’arbusto di Rosa canina. L’osservazione ci suggerisce subito che trattasi di una pianta legnosa con fusti arcuati. Molto diffusa nella nostra provincia tanto che parecchi sono gli appellativi popolari sia del fiore che del frutto. Nel dialetto bresciano esistono denominazioni varie sia per il fiore che per il frutto. I termini per indicare il fiore sono: rosa de macia, rosa de sass, mirandola. I termini per indicare il frutto (assai coloriti) sono: gratacul, gratacu, sisapotol, stopacul, brusacul, marangoi, stropacul (sull’origine della etimologia si veda l’impiego antidiarroico delle marmellate) La letteratura sulle rose è enorme. Affezionato cultore della rosa dei Tudor, in quanto sostenitore dei maestri albionici di rugby, tenterò una sommaria revisione. La rosa è una pianta di origine nordica che nel corso dei secoli si è andata spostando a sud, adattandosi via via alle nuove condizioni climatiche. Il Baroni nella sua “Guida Botanica Italiana” elenca 22 specie originarie di Rosa. Ma a testimonianza della complessità del genere cito Linneo che nel 1753 scriveva che “le specie della rosa sono molto difficili da classificare e coloro che ne hanno viste poche sono in grado di distinguerle meglio di quelli che ne hanno esaminato molte”. Il nome “rosa” è mutuato dall’omonima voce latina (quanti sono ricorsi a questo fiore per imparare a memoria la prima declinazione!!) attraverso il celtico “rhodd” a sua volta derivato dal greco ροδον con significato di rosso. La rosa selvatica venne chiamata “canina” poiché i greci ritenevano che le sue radici potessero curare la rabbia provocata dai morsi dei cani. 37 Nel Museo delle Rose nel giardino di Hay les Roses vicino a Parigi sono conservati resti fossili raccolti nei depositi miocenici dei paesi baltici. Altri fossili risalenti all’Oligocene (60 milioni di anni fa) sono stati scoperti nel Colorado e nell’Oregon. Nella storia la Rosa ha sempre accompagnato l’uomo. Il re sumerico Sargon I, che visse tra il 2.684 e il 2.630 a.C., portò nella città di Ur, da una spedizione guerresca al di là del Tauro, “viti, fichi e alberi di rose”. Il lirico greco Anacreonte dice che le rose nacquero dalla spuma del mare che generò Afrodite, mentre Saffo la definisce regina dei fiori. Erodoto afferma nelle sue Storie che la rosa venne introdotta in Grecia dal mito re Mida di Frigia. Già Teofrasto citava rose come fiori aventi da 5 a 100 petali. Inoltre in epoca romana, viene citata da Virgilio nelle Georgiche e da Orazio nelle Odi. I Romani erano soliti ornare di rose le statue delle dee e durante i giochi pubblici le strade venivano cosparse di petali di rosa. Era pure usanza ornare le tombe con rose poiché ritenevano che esse fossero gradite ai Mani. Si racconta che la mensa di Nerone fosse invasa da petali di rose che cadevano dal soffitto. Il filosofo Seneca deplora questa manifestazione di spreco indicandola come forma di dissolutezza e corruzione dei costumi. Forse è grazie alla filosofia stoica che durante i primi anni del cristianesimo la rosa non godette di buona fortuna. Fra gli scrittori apologetici, Tertulliano scrisse addirittura un volume contro la rosa mentre Clemente Alessandrino, nel 202 d.C., nei suoi scritti teologici, vietò ai cristiani di ornarsi di questo fiore in quanto simbolo di paganesimo. Ma come è noto il cristianesimo ha fatto suoi molti simboli pagani e nel tempo la rosa venne introdotta nel rito: nei canti e nelle litanie prestò il suo nome alla Madonna che fu ed è invocata come “Rosa mistica” o “Rosa senza spine”. Le rose rosse divennero il simbolo del sangue dei martiri e le rose bianche sono da sempre associate all’innocenza e alla purezza. Per gli antichi Sassoni questo fiore era simbolo di rinascita e se si coglieva una rosa alla morte di un bambino era possibile vedere l’immagine della morte. Durante la Guerra delle Due Rose, la rosa bianca era l’emblema della casa di York e la rosa rossa quello della casa dei Lancaster: Dopo trenta anni di guerra civile i due casati si fusero grazie ad un matrimonio e le due rose furono unite per formare la simbolica rosa dei Tudor al tempo di Enrico VII. La Rosa Canina era considerata nel passato anche come preziosa pianta medicinale. I suoi “falsi frutti”, detti cinorrodi, sono ricchi di vitamina C e generazioni di bambini sono stati allevati con sciroppi e marmellate da essi ricavate. Gli stessi cinorrodi possono essere usati in infusione come bevanda rinfrescante e lassativa. I fiori essicati, forniscono la base della ben nota “acqua di rose”. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO • I fusti sono arcuati e ciascuna foglia ha due o tre foglioline dentate. • Esaminare bene gli aculei che sono fortemente uncinati e rivolti verso il basso. • I frutti sono ovali e lisci e mancano della corona di sepali. 38 NOTE E CURIOSITA’ I cinorrodi della rosa canina venivano consigliati dalla medicina popolare latina per la cura dell’alopecia mischiato a miele e alla cenere della sostanza spugnosa che si forma fra le spine della pianta. Plinio il Vecchio però riferisce una storiella interessante per spiegarne l’uso contro la rabbia silvestre. Narra di una donna che aveva avuto un sogno in cui mandava al figlio da bere una pozione a base di radice di una rosa selvatica che allora veniva chiamata cinorrodo - i latini indicavano con questo nome non i frutti ma la pianta stessa da κυον (cane) e ροδον (rosa) una rosa che ella il giorno prima aveva visto in cespuglio e per la quale aveva avuto una particolare attrazione. Il caso volle che quando il figlio, allora guardia pretoriana, venne morso da un cane rabbioso e già manifestava la idrofobia tipica della malattia, arrivò una lettera della madre che lo pregava di attuare quanto era stato sognato poiché ella ne ravvisava un segno divino. Il soldato fu così insperabilmente salvato. La Rosa canina è compresa nel novero delle 16 erbe magiche del De Vegetabilis di Alberto Magno. NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA I falsi frutti sono ricchi di vitamina C (fino 1700 mg/ 100 gr di polpa), caroteni (10.000 UI), vitamina B1, B2, PP, K,P, tannini (3%), pectine (10-13%), acido malico, acido succinico, acido citrico. La marmellata ha azione antidiarroica. Le vitamine rimangono inalterate se con questi frutti si preparano marmellate. Vengono distrutte se essi sono essicati. ALCUNE LEGGENDE SULLA ROSA. • La leggenda greca narra come Afrodite e Persefone fossero entrambe innamorate di Adone e usassero condividerne i favori. Tuttavia, quando Afrodite volle impedire al giovane di tornare dalla rivale negli inferi, Persefone chiese aiuto ad Ares, il dio della guerra. Un giorno, mentre Adone cacciava nei boschi, fu assalito ed ucciso da un cinghiale. Afrodite accorse presso di lui, graffiandosi nella fretta su un cespuglio di rose bianche. Dove cadde il sangue di Afrodite le rose bianche del cespuglio divennero rosse. … E tu – disse – sarai il mio fior più gradito; del mio sangue rivestito de’ fior lo scettro avrai . • Marino Il significato della rosa gialla nel linguaggio dei fiori è: declino dell’amore e infedeltà. L’origine è nella storia di Aisha, moglie favorita del profeta Maometto. Egli la sospettava di infedeltà e chiese consiglio all’Arcangelo Gabriele. Al suo ritorno Aisha lo accolse offrendogli delle rose rosse ed egli, su suggerimento dell’arcangelo, le ordinò di lasciarle cadere nel fiume, sapendo che se avessero cambiato colore i suoi sospetti sarebbero stati confermati. Le rose divennero gialle . • La dea Chloris, dopo aver scoperto in un bosco il corpo senza vita di una ninfa, si rivolse ad Afrodite e al dio Dioniso affinchè potesse vivere in eterno. Afrodite fece il dono della bellezza, Dioniso fece dono del profumo, Febo Apollo la riscoldò con i suoi raggi. Sbocciò una rosa che venne incoronata “regina dei fiori” . 39 • Si ricordi poi la rosa che Bella Belinda chiese in dono al padre e che la portò ad affrontare la Bestia. Con le parole della fiaba, è la metafora della rinascita di un’anima che alla fine riesce a vedere al di là delle apparenze. 40 TUSSILAGO FARFARA SCHEDA Spermatophyta – Angiospermae – classe Dicotyledones – famiglia Asteraceae – genere Tussilago. TUSSILAGO FARFARA (Farfaro) Pianta a rizoma grosso con i cauli fioriferi nascenti prima delle foglie a un solo capolino di fiori gialli di 20-30 mm di diametro; foglie cordato poligonali, larghe come lunghe o più larghe che lunghe, angolose, glabre sopra, dapprima bianco tomentose, poi denudate di sopra, biancotomentose sotto. Statura 10-30 cm, geofita perenne, diffusa in luoghi umidi, argillosi, con fioritura da febbraio ad aprile, dalla zona litoranea fin oltre i 2000 metri. E’ nota con il termine di farfara o piè d’asino. E’ di uso antiquato l’appellativo di pianatella. Nel dialetto bresciano viene indicata come farfara ma anche come dròga. Probabilmente la voce dialettale è riferita all’uso medicinale della pianta il cui decotto veniva usato per la tosse. In realtà nell’idioma dialettale spesso si usano indistintamente i termini di dròga e bonaga per indicare piante diverse accomunate dalla loro utilità (presunta o reale) nella cura della tosse (p.es. Carlina acaulis). Il nome scientifico deriva dal latino tussis (tosse) e agere (cacciar via). E’ una pianta che cresce nei posti più brulli, nei terrapieni aridi e in generale in qualsiasi luogo che abbia un terreno prevalentemente argilloso. Quando fiorisce non ci sono foglie visibili, tranne le brattee molto ridotte dei fusti fioriferi. Le foglie spuntano solo alla fine della fioritura e sono lungamente peduncolate. Hanno una sottile lanugine sulla pagina inferiore. I capolini si chiudono alla sera quando i potenziali insetti impollinatori non sono più in volo. La lanugine presente sulla pagina inferiore delle foglie un tempo era usata come esca per le armi da fuoco. I pappi di Tussilago farfara, con cui gli acheni vengono dispersi, hanno solo bisogno di un minimo di corrente d’aria per essere trasportati e ciò aiuta a spiegare perché la pianta è così diffusa. Quando il tegumento dell’achenio marcisce, il seme viene liberato. La Tussilagine è ospite intermedio della ruggine delle poe e di una specie biologica della ruggine vescicolare delle foglie di pino. NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA La parte officinale della pianta è costituita dal solo capolino che contiene quercetina e mucillagini con azione emolliente ed immunostimolante. NOTE E CURIOSITA’ La medicina romana conosceva l’impiego della tussilagine nelle affezioni bronchiali. Il nome stesso ha chiaro significato. Bechion tussilago dicitur, con riferimento evidente al termine greco βεξ che significa tosse (si tengano presente gli attuali bechici con cui vengono indicati i farmaci per la tosse). Plinio, con un poco di confusione afferma dell’esistenza di due specie di tussilagine (probabilmente si tratta di due altri tipi di piante). Della prima dice che se si aspira, attraverso una canna, il fumo ottenuto dalla pianta seccata e bruciata si ottiene la guarigione dalla tosse cronica. Bisogna però avere l’avvertenza ingerire un poco di vino passito ad ogni inspirazione. Della seconda ne esalta il succo che si beve contro la tosse e la pleurite. La stessa erba sarebbe efficace contro il morso degli scorpioni e dei draghi marini. La Tussilago è compresa nel novero delle 54 piante medicinali di Dioscoride. 41 CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO. • La parte centrale del capolino è composta da flosculi tubulosi. • I flosculi ligulati hanno una lunga ligula. • Un pappo setoso molto lungo è portato all’apice degli acheni. • Le foglie, arrotondate con un apice appuntito, si sviluppano dopo che i capolini sono appassiti. La pagina inferiore è provvista di una bianca lanugine. 42 TARAXACUM OFFICINALE SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Asteraceae – genere Taraxacum. TARAXACUM OFFICINALE (Tarassaco, Soffione, Dente di leone, Piscialetto) Pianta di varia statura, non esclusiva di alta montagna, talora alta oltre 50 cm, preferente i luoghi freschi; capolini ad involucro con brattee lineari strette, le esterne poco più brevi delle interne alla fioritura, alla fine più o meno riflesse. Fiori ligulati riuniti in grande capolino solitario. Frutti (acheni) circondati da corona di peli. Fusto fistoloso con lattice bianco. Foglie a margine seghettato a larghi denti riunite per rosette basali. Emicriptofita perenne con fioritura da aprile a ottobre dalla zona litoranea fino alla fascia montana superiore. Il comunissimo Tarassaco spesso viene considerato con superficialità alla stregua di un banale contaminante dei prati data la sua grande diffusione. E’ invece una pianta che rivela caratteristiche imprevedibili. La sua ampia diffusione giustifica la sua presenza anche nella zona in cui ci siamo mossi. D’altro canto già questa constatazione ci deve far pensare al notevole successo dei suoi meccanismi riproduttivi grazie alla sapienza aerodinamica con cui ha saputo costruire gli acheni che vengono disseminati dal vento. Chi di noi non ha mai giocato soffiando sui vistosi pappi che contengono i frutti del tarassaco? Generazioni di bambini e di adulti si sono divertiti a contare il numero di soffi che ci vogliono per far volare via tutti gli acheni con i loro vistosi pappi. Interessante è l’esame del capolino che, come è noto, non è il fiore ma riunisce numerosi fiori che la nostra osservazione, meglio con la lente, ci permette di distinguere in centrali e periferici: si tratta all’incirca di duecento flosculi . Le infiorescenze si chiudono di notte, quando il cielo è nuvoloso e se la pianta è messa in un vaso. E’ una pianta nitrofila, molto frequente. Il suo fusto è fistoloso, vale a dire cavo all’interno, e la superficie di sezione lascia gemere un lattice biancastro che provoca macchie brune sulla pelle. Contiene inoltre una sostanza amara, leggermente velenosa; le foglie giovani vengono consumate in insalata. L’ampia diffusione giustifica anche la estrema varietà dei nomi sia nella lingua ufficiale che nel vernacolo. Anticamente appellata come castracani, sono note in italiano le denominazioni di : dente di leone, soffione, pisciacane, piscialetto, capo di frate. Il nome tarassaco potrebbe risalire al greco ταραξακεω = io guarisco, oppure dall’arabo tarahsaqun = dente di leone. Per altri l’etimologia sarebbe ancora greca ταρασσω = scompiglio, perché i leggeri pappi vengono scompigliati dal più leggero soffio. Numerosi sono anche gli appellativi nel nostro dialetto; alcuni sono di facile spiegazione ed intuitivi: sigoria, pisa ‘n del let, dent di liù, grignos, broòt. Il Penzig aggiunge anche : car de fe’, Uciù. Quest’ultimo confermato anche dal Melchiorri con riferimento analogico all’uciarol, ovvero al bocciuolo nel quale si tengono gli aghi e gli spilli. Il legame con la antica medicina emerge da ciò che si può osservare nel museo copto del Cairo dove si conserva la scultura di un personaggio femminile distrofico posto al centro di una pianta di Taraxaxum officinale. 43 D’altro canto questa specie è considerata tra le 54 piante medicinali annoverate da Dioscoride. NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA Per gli usi erboristici si usano le radici che vengono estirpate dal terreno in autunno ed in primavera. Lungo è l’elenco delle sostanze: taraxacina, taraxina, traxerolo, sostanze tanniche, mucillagini, stearine, fitosteroli, sali minerali, inulina, colina, sterina, lactupicrina, provitamine A, B, C, D, K; PP, riboflavina, la xantofilla taraxantina (nei fiori), luteina e violaxantina (nelle foglie), asparagina, saponosidi triterpenoidi, La pianta è molto ricca in potassio. Le principali proprietà riconosciute sono quelle colagoghe, coleretiche, diuretiche, depurative e debolmente lassative. Per uso esterno il lattice può essere utile per far regredire porri e verruche. L’infuso dei fiori in cosmesi è usato per schiarire efelidi e lentiggini. Recentemente si è segnalata la presenza nel polline di sostanze ad attività batteriostatica. Essendo pianta officinale la sua raccolta va autorizzata secondo il Regio Decreto n. 772 del 26.05.1932: per uso famigliare è consentita la detenzione fino a 5 kg di radici secche. 44 BELLIS PERENNIS “Sceglierei d’essere una margherita, Se potessi essere un fiore: Chiuderei dolcemente i petali Nell’ora quieta del tramonto; E al mattino svegliarmi, Quando cade la rugiada mattiniera, Per accogliere il sole splendente nel Cielo, E dal Cielo anche le lucide lacrime. Anonimo SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae - classe Dycotyledones – Famiglia Asteraceae – genere Bellis. Bellis perennis (Margheritina, pratolina) Fiori riuniti in capolino unico su fusto senza foglie. Fiori ligulati esterni bianchi o leggermente sfumati di rosso; fiori tubulosi interni gialli. Foglie basali a rosetta, da obovate a spatolate con margine crenato. Statura di 3-10 cm con fioritura da febbraio a novembre. Geofita perenne diffusa praticamente in tutti i piani altitudinali. Cresce in prati, gligli delle strade, luoghi erbosi e radure. Già Plinio aveva una conoscenza diretta della margheritina: “Bellis in pratis nascitur, flore albo, aliquatenus rubente. Hanc cum Artemisiam inlitam efficaciorem esse produnt”. Ne riconosceva le virtù curative ma a patto che fosse mescolata con Artemisia. La descrizione del fiore è comunque perfetta. I fiori sopportano anche temperature di –15° se l’a ria è secca. Il capolino si comporta come un unico fiore e si richiude di notte e quando c’è molta umidità. Spesso il capolino si gira verso il sole. E’ uno dei fiori più popolari. I primi che i bambini imparano a cogliere. Lo testimoniano il numero e la varietà degli appellativi: margheritina, pratolina, fiorellin di prato, fior gentile. Circa l’origine del nome i pareri sono discordi. Alcuni lo vogliono derivato dalle Bellidi, le figlie crudeli del re Danao (a mio avviso assai improbabile), altri dal termine latino “bellum” poiché pare che l’essenza della pianta fosse usata efficacemente per curare le ferite. Altri ancora dal tardo latino “bellum” nel suo significato di “bello”. La margherita è il fiore dei bambini per questo appunto è detta in Scozia “bairn-wort” che significa appunto fiore dei bambini. Essa tiene fede al suo nome inglese – daisy – poiché si schiude alle prime luci del giorno e quando tramonta il sole ripiega i suoi petali come se andasse a dormire. “Daisy” infatti sta per “the day’s eye”, l’occhio del giorno. Numerosi scrittori hanno apprezzato e lodato l’umile pratolina. Il poeta inglese Chaucer amava dire che la margherita era il suo fiore preferito e ogni mattina, a maggio, si alzava di buon ora per ammirare questa pianta che riusciva ad “addolcire ogni dispiacere”. Il poeta P.B. Shelley, invece, paragonava le margheritine a stelle trattenute in terra: “stelle perlacee della terra, costellazioni fiorite che mai tramontano”. 45 TRADIZIONI E CURIOSITA’ L’erborista inglese del secolo XVII Nicholas Culpeper riteneva che il motivo per cui la natura aveva fatto la pratolina stava tutto nella sua utilità. “Bollita nel latte di asina”, scriveva, “ è molto efficace nell’opporsi alla tisi dei polmoni”. In Scozia se una bimba raccoglie un mazzo di margherite con gli occhi chiusi, il numero dei fiori del mazzetto corrisponderà al numero di anni che dovrà attendere per sposarsi (da sempre le fanciulle predicono il proprio avvenire sentimentale staccandone i petali mentre pronunciano “m’ama, non m’ama”. NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA Un tè di margherite, bevuto tre volte al giorno e lontano dai pasti, è un ottimo costituente per i bambini magri. La medicina omeopatica usa una tintura, estratta dalla pianta fiorita, per la sua azione tonica sui vasi sanguigni. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO • Il peduncolo fiorale è privo di foglie e peloso. Ogni capolino solitario ha un disco giallo circondato da un anello di flosculi ligulati bianchi. • Nei flosculi ligulati la corolla è bianca, talvolta sfumata di rosa. • I flosculi tubulosi gialli sono corti ed allargati, con una corolla a cinque lobi. • Gli acheni sono piccoli, ovali e lanuginosi, con estremità appiattite. • Le foglie ovali, o a forma di cucchiaio, sono riunite in una rosetta basale. Ogni foglia ha molti piccoli denti. 46 PULMONARIA OFFICINALIS “non pensare di coltivarla in giardino; lasciala vivere libera dove si respira odore di muschio e di montagna. Lasciale godere tutto questo incanto” Geremia Hoechts SCHEDA Spermatophyta- Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Boraginaceae – genere Pulmonaria. Pulmonaria officinalis. (salvia di Gerusalemme, erba macchiata, borrana selvatica) Foglie cordate, arrotondate o troncate alla base, ovate od ovato-oblunghe di 4-16 x 2,5-10 cm, macchiate di bianco, ruvide, uniformemente setolose, senza o con pochissimi peli glandolosi; infiorescenza più o meno peloso glandolosa. Corolla dapprima rosea o rossiccia, poi azzurro violacea. Emicriptofita perenne con fioritura da marzo a giugno, diffusa nei boschi freschi e ombrosi nelle fasce submontana e montana inferiore. All’inizio della primavera la polmonaria mostra i suoi fiori dapprima rosa e poi blu-violetti nei prati e nei boschi collinari e montani dell’Italia alpina. Dapprima spuntano solo i fusti fioriferi con foglie sessili e con picciolo corto. Già durante il periodo della fioritura si sviluppano polloni non fioriferi, su cui si formano rosette basali di grandi foglie estive con lunghi piccioli. Si aprono completamente dopo il periodo della fioritura. Caratteristicamente alla osservazione diretta riscontreremo che le infiorescenze della polmonaria non hanno tutte lo stesso colore. Come accennato contemporaneamente apprezziamo tonalità che vanno dal rosa al blu. A volte anche fiori completamente bianchi. E’ evidente che questi fiori, riuniti in cime terminali, non si aprono tutti nello stesso momento per cui si presentano diverse tonalità di colore.. E’ un riflesso di arcobaleno limitato ad una breve gamma cromatica che dona alla polmonaria una grazia inconfondibile, un rilievo del tutto particolare nell’insieme di verde e di colori che costituiscono il bosco. Si tratta di una pianta che riserva alcuni aspetti sorprendenti. Quasi avesse timore di non venire propagata a sufficienza, essa presenta agli insetti impollinatori tre tipi di fiore, dalla struttura differente, con “stili” di diverse lunghezze e stami irregolari. Come risultato, vespe, api, calabroni e altri insetti, nonché il vento, possono contare su diciotto modalità per raggiungere il polline e trasportarlo su altre corolle per fecondarle. Le macchie biancastre presenti sulle foglie danno a queste un aspetto che ricorda quello del polmone alterato dai granulomi tubercolari. I medici medioevali, seguendo “la dottrina dei segni” ne traevano auspici favorevoli per usare decotti ed infusi fogliari per la cura delle malattie polmonari e soprattutto della tubercolosi. Da questa antica opinione deriva il nome della pianta. Anche nel dialetto bresciano è nota con l’appellativo di polmonèra. La polmonaria, tutto sommato, può essere una piacevole sorpresa per chi non la conosce, una conferma per quanti amano la bellezza discreta e minuta 47 delle specie selvatiche. Qualche volta le sfioriamo percorrendo i sentieri di montagna o camminando al margine dei prati e non riusciamo a cogliere la suggestione dei loro colori, la grazia delle corolle, l'eleganza del fogliame. Ma per la polmonaria bisogna proprio fare una eccezione e guardarla attentamente: non capita tutti i giorni di incontrare una piccola pianta invidiosa dell’arcobaleno, tanto da inventare fiori capaci di mutare il colore: dal rosso, al blu, al porpora, al viola. Come fa il cielo al tramonto. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO. • • • • La pianta, fittamente pelosa, emette da un rizoma ramificato, oltre che fusti fioriferi eretti con foglie dal picciolo breve o sessile, anche rosette basali di grandi foglie estive con lunghi piccioli. I fiori hanno corti peduncoli. I sepali sono saldati in un tubo con cinque punte triangolari. La corolla è tubulosa nella parte inferiore e imbutiforme nella parte superiore, con cinque punte da smussate a rotonde. I fiori sono di due tipi: uno con lo stimma più alto delle antere e l’altro con le antere più alte dello stimma. In ogni fiore si formano cinque acheni ovoidali e lisci, nascosti nel calice un po’ rigonfio. NOTE DI ETNOBOTANICA E BOTANICA FARMACEUTICA Numerose boraginacee sono ricche di mucillagini ad azione emolliente, usate nella medicina popolare nelle diarree e nelle stomatiti. 48 MYOSOTIS ARVENSIS <<…quando avviene, come avviene, che più limpida scorre l’acqua della sorgente, quando sboccia il selvatico miosotide e l’usignolo sul ramo ripete, modula e addolcisce e affina la sua dolce canzone, è giusto che anche io canti e pianga d’amore, per una ferita che sempre mi duole >>. Jaufrè Rudel << …quell’azzurro fiorellino dall’occhio luminoso lungo il ruscello / gemma gentile della speranza / dolce ‘non-ti-scordar-di-me’. >> Samuel Taylor Coleridge SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – claase Dicotyledones – famiglia Boraginaceae – genere Myosotis. Myosotis arvensis (non ti scordar di me). Pianta con fiori sempre azzurri (di rado bianchi); corolle in genere a tubo, non lunghe. I fiori hanno diametro di 4-6 mm. Infiorescenza pluriflora a grappolo. Fusto eretto, ascendente, più o meno rigido e robusto, cilindrico, ramoso alla base o dalla metà in su. Foglie oblungo lanceolate più o meno acute. Terofita e/o emicriptofita, annuale e biennale con fioritura da marzo ad agosto fino alla fascia montana inferiore (raramente nella montana superiore). E’ uno dei fiori più noti, volgarmente detto “non ti scordar di me”. Il nome deriva da una leggenda che risale ai Minnesanger del medioevo tedesco. Si racconta di un cavaliere e della sua dama che stavano passeggiando lungo la sponda di un torrente. Il cavaliere si chinò per raccogliere un mazzetto di fiori da offrire alla sua bella, ma, vinto dal peso dell’armatura, cadde nel fiume. Appena prima di essere sommerso dalle acque, gettò i fiori alla sua amata gridando: “vergisz mein nicht” (“non ti scordar di me”). Il dialetto bresciano, molto meno romantico, lo conosce con l’appellativo di erba selestina, con chiaro riferimento al colore delle infiorescenze. Il nome scientifico invece risale a Dioscoride il quale ravvise una certa rassomiglianza con le orecchie dei topi. Il termine myosotis infatti, di derivazione greca, significa “orecchio di topo”. Dal leggendario episodio dei minnesanger tedeschi questo fiore è sempre stato associato all’idea dell’amore vero e nel medioevo veniva portato sulla persona per assicurarsi la fedeltà dell’amata. La tradizione passò anche in Francia dove la pianta venne chiamata “ne m’oubliez moi”. Ma il nome di questo fiorellino sembra anche nascondere un ben più impegnativo ammonimento: non-ti-scordar-di-me recitano le minuscole corolle, quasi a sollecitare l’attenzione degli uomini verso la flora spontanea, anche la meno appariscente, perché è proprio nel rispetto verso ogni creatura vivente, animale o pianta che sia, il senso profondo di una coscienza ecologica assunta a norma esistenziale. Forse questo poteva essere il senso di un’altra leggenda che riguarda questo fiore: quando Dio ebbe finito di 49 distribuire nomi a fiori e animali, d’un tratto di levò una voce che diceva “nonti-scordar-di- me. Il genere Myosotis riunisce una cinquantina di specie spontanee in Europa, Asia, America, Sud Africa, Nuova Zelanda e Australia. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO. • • • • • E’ una pianta molto pelosa con diversi fusti eretti e ramificati. Le foglie inferiori, picciolate, formano una rosetta. Le foglie lungo il fusto sono glabre. Le infiorescenze appaiono spiralate quando i fiori sono in boccio ed erette quando i fiori si aprono. Le infiorescenze si allungano quando i frutti maturano; i peduncoli dei fiori si allungano e si discostano dal fusto. I lobi della corolla sono concavi, con un anello giallo al centro. Il tubo della corolla è più corto del calice. I sepali sono coperti di peli uncinati e nascondono completamente il frutto. 50 SYMPHYTUM TUBEROSUM SCHEDA Spermatophyta – Angiospèermeae – classe Dicotyledones – famiglia Boraginaceae – genere Symphytum . SYMPHYTUM TUBEROSUM (Consolida tuberosa) Pianta con fusto semplice, poco ramificato in alto, a foglie numerose da ellittiche a lanceolate, le basali (secche al momento della fioritura) più o meno lungamente picciolate, le mediane brevemente picciolate, le superiori sessili e brevemente decorrenti sul fusto; corolle di 13-20 mm, giallo pallide, a squame interne lunghe 5,5-7,5 mm; frutto lungo sino a 4 mm, nero. Ha rizoma grossetto con nodosità tuberose in genere più o meno ravvicinate. Statura da 15 a 50 cm. Emicriptofita perenne con fioritura da marzo a giugno in boschi e siepi della zona montana inferiore e submontana. Di questo genere è più nota la ssp officinale, detta anche Consolida maggiore, soprattutto per il suo impiego nella medicina popolare. Alcune importanti diversità rendono agevole tuttavia la distinzione fra le due piante. Il Symphytum tuberosum è distribuito nei boschi e nelle siepi collinari e montane, mentre S. officinale predilige i luoghi umidi e le rive dei fossi. Inoltre S. tuberosum ha una robusta radice tuberosa e si distingue per l’aspetto più piccolo ed esile, per il fusto che a fatica ramifica e per i fiori che sono invariabilmente di colore giallognolo. Qualsiasi piccola porzione di radice produce una pianta e ciò rende molto difficile sradicarla se si propaga troppo, perché ogni più piccolo pezzetto della radice, che è molto fragile, dovrà essere estirpato per impedire che la pianta ricompaia. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO • • • I fusti eretti e setolosi di questa pianta hanno pochi rami o nessuno. Le foglie a metà fusto sono più grandi di quelle vicine alla base e i margini fogliari continuano giù lungo il fusto per formare una stretta ala I fiori sono riuniti in cime scorpioidi e hanno colore giallognolo. Il frutto è nascosto dal calice, che è più stretto di quello di S. officinale. NOTE E CURIOSITA’ Data la facilità con cui è possibile incontrate anche Symphytum officinale, ritengo opportune aggiungere alcune note riguardanti questa pianta. Da un punto di vista descrittivo trattasi di una pianta eretta e ramificata, con peli e setole su fusto e foglie. Le foglie basali hanno lunghi piccioli, mentre quelli superiori hanno margini che si prolungano sul fusto formando un’ala. I fiori sono penduli e campanulati, formano cime scorpioidi. Le corolle possono essere bianco porpora, rosa o violacee, ma sempre dello stesso colore in ciascuna pianta. S.officinale ha una lunga corolla e solo insetti con un lungo apparato buccale possono raggiungere il nettare. Talvolta gli imenotteri più piccoli sono costretti a forare la parete del fiore e, quando ciò avviene, l’insetto non entra in contatto con l’antera e quindi non c’è impollinazione. 51 Il nome volgare è “Consolida maggiore”. Sono noti termini più antichi con cui viene indicata come “alo, anealco e soda”. Nel dialetto bresciano è nota con il termine “anegal”. Ne viene riferito un uso contadino: veniva fatta bollire con le ortiche e altre erbe per farne pastura delle anatre. Gli erboristi medioevali ricorrevano a questa pianta per la cura delle fratture. Le radici venivano estirpate in primavera e grattuggiate e la poltiglia risultante veniva spalmata sull’arto spezzato. Tale impasto in seguito si induriva formando uno strato simile al gesso usato attualmente. Questa pianta era considerata prodigiosamente curativa: veniva usata per estrarre schegge dal corpo, oltre che per guarire traumi ossei. Nel secolo XVI c’era chi suggeriva che “la sostanza delle radici mista a birra venisse somministrata contro il mal di schiena”. Più recentemente, il succo delle radici è stato mischiato a zucchero e liquirizia per produrre uno sciroppo antitosse. La medicina romana ne esalta l’impiego in una serie di malattie. Plinio il Vecchio sostiene che è utilissimo per la pleura, i reni, le coliche, i polmoni, le emorragie dalla bocca e la gola irritata. Ne sottolinea l’impiego dell’impiastro nelle lussazioni e nelle fratture e fornisce una bella spiegazione per il nome: se si fanno cuocere due pezzi di carne e, dopo la cottura, si aggiunge l’impiastro di sinfito, si ottiene l’adesione perfetta dei due pezzi. Ha quindi un potere collante donde il termine greco συϖφιτον connesso al relativo verbo che significa “unire”. Per questa sua capacità di consolidare trovava largo impiego per applicazione diretta sulle ferite (si pensi alla attuale e più raffinata colla per suture) e anche per arrestare la diarrea. 52 ERICA HERBACEA <<… e sotto la macchia e l’erica e gli anemoni sottili soltanto il guardiacaccia vede che dove cova la palombella e ruzzolano i tassi, facilmente c’era un tempo una strada fra i boschi>>. Rudyard Kipling SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Ericaceae – genere Erica. ERICA HERBACEA (Erica carnea) – volg. Erica, scopina. Pianta con antere più o meno sporgenti dalla corolla. Questa si presenta allungata (4-7 mm), tubulosa, rosea, bianca o purpurea. Le foglie sono verticillate a 3-5, lineari, strette, acuminate. Statura di 10-30 cm. Fioritura da febbraio a giugno. Cresce in boschi, pascoli e luoghi aridi su suoli calcarei. Presente dalla zona submontana fin oltre il limite della vegetazione forestale. <<Ericen Graeci vocant fruticem non multum ab ulice differentem, colore roris marini et paene folio. Hoc adversari serpentibus tradunt>> (I greci chiamano “erica” un arbusto non molto diverso dalla calluna, ma nel colore e in una certa misura delle foglie somigliante al rosmarino. Dicono che combatte il veleno dei serpenti). Plinio il Vecchio Originaria dell’Europa centrale e meridionale, in Italia è diffusa dalle Alpi Marittime e nell’Appennino Settentrionale e Centrale su terreno calcareo. Ha l’aspetto di un piccolo arbusto fitto, glabro, sempreverde che, invecchiando, si allarga sempre più fino ad assumere un aspetto prostrato. Le foglie sono lineari, acute, di colore verde scuro brillante, riunite in fasci di quattro. I fiori nascono sui rami dell’anno precedente e formano una infiorescenza a racemo, cilindrica. Comincia a fiorire a febbraio (a volte anche a gennaio) con fiori rossi e rosa. Il nome deriva dal greco ερεικειν con significato di “rompere”, con riferimento alla crescita sulla roccia. Come tante sempreverdi è sensibile agli effetti nocivi del fumo e di altri agenti inquinanti dell’aria. Pretende aria pulita e il giusto grado di umidità atmosferica . E’ una creatura vegetale dal carattere difficile ed aristocratico ma che può diventare generosa ed esuberante quando trova l’habitat congeniale. Tutto questo spiega perché, sulle nostre montagne e persino in pianura nelle brughiere, all’improvviso si incontrano larghi spazi coperti di erica. E’ una pianta ricca di nettare e molto ricercata dalle api. La proboscide degli insetti impollinatori deve essere lunga almeno 7 mm per arrivare al nettario. E’ la pianta dei grandi spazi, che non si mescola ad altre specie, che si illumina di bellezza e di incredibili sfumature al tramonto o al sorgere del sole, quasi avesse pudore di mostrare la sua grazia nel pieno della luce. 53 L’Erica erbacea (nei vecchi trattati nota come Erica carnea) è detta volgarmente scopina ed appartiene alla stessa famiglia dei rododendri e dei mirtilli rossi e neri. In francese viene indicata come bruyere herbacée, in inglese è nota come spring heat e in tedesco si chiama Schneeheide. Nel dialetto bresciano sono noti due appellativi: il primo è foem e l’altro ragogna. Botanicamente parlando si tratta di una pianta suffruticosa di modeste dimensioni, con altezza massima di 25-30 cm, che fiorisce in primavera in delicate tonalità dal rosa carne, al rosa porpora. I fusti sono prostratoascendenti, tortuosi, difficili da spezzare. Cresce in masse compatte e predilige la esposizione in pieno sole o le radure boschive dai 300 ai 1800 metri di altitudine. 54 NOTE E CURIOSITA’ Nel vocabolario d’amore questa pianta è nota per il suo significato di <<solitudine>> ed immortalata da Guillaume Apollinaire con questi struggenti e tenerissimi versi: <<Ho colto questo stelo di brughiera, l’autunno è morto devi ricordare. Non ci vedremo più su questa terra odor di tempo stelo di brughiera ricorda bene che io ti attendo ancora>>. E nei fotogrammi della memoria si disegnano vallette solitarie, lontananze viola e un poco nebbiose come accade di vederne solo in Scozia ed in Irlanda (quante volte risuona il nome di Erica in Cime Tempestose di Emily Bronte). Erica, segno del tempo che passa ma non si cancella. Così come i suoi rami tenaci e soffici insieme ricoprono senza annullare il profilo di un’orma, il ricordo di un passo, di una presenza: <<… e sotto i muschi e l’eriche l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa…>> Niccolò Tommaseo sintetizza così il concetto di solitudine, ma lascia intendere che basta un nulla a risvegliare la vita, a destare l’anima delle cose e degli uomini; l’erica, aiutando a ricordare, può servire a <<rompere>> il cerchio un po’ greve del rimpianto. Anche per questo quindi il nome della pianta, assegnatole da Dioscoride perché la sua radice spezza la roccia. Sull’erica, proprio perché pianta così antica e legata alla farmacopea popolare, sono nate molte leggende e superstizioni, riferimenti ed interpretazioni. Degni di nota mi sembrano i simbolismi di natura teologica, a cominciare da quello proposto da Sant’Anselmo nelle Meditationes dove si paragona l’erica al peccato originale, meritevole del fuoco eterno in quanto si tratta di pianta dal lignum aridum et inutile, aeternis ignibus dignum. Dello stesso parere sono anche la Bibbia e San Tommaso d’Acquino che nella Summa Theologica vede nell’erica addirittura la dannazione. E in fondo, quale condanna peggiore della solitudine? Forse l’erica ignora il peso dell’isolamento a cui la costringe una delle infinite leggi della Natura, forse non conosce il sottile confine fra solitudine e sicurezza, tra rimpianto e desiderio. Forse vuol soltanto vivere nel vento della montagna o nella bruma delle brughiere, fiorendo al primo tepore CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO • • Le foglie sono aghiformi e prive di peli. I sepali sono lunghi metà della corolla. 55 PRIMULA VULGARIS <<Quando il ministro Disraeli si inginocchiò davanti alla regina Vittoria, si era nel 1877, per offrirle la corona delle Indie, si vide porgere dalla sovrana, come gesto simbolico, un mazzolino di primule>> SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Primulaceae – genere Primula. PRIMULA VULGARIS (volg. Primavera). Fiori su peduncoli singoli, talora lanuginosi; calice diviso fino a metà della lunghezza in lobi acuti, stretti, foglie insensibilmente attenuate nel picciolo, glabre sopra, vellutate nella pagina inferiore; fiori a corolla giallo-zolfo pallido fino quasi a bianca, con macchie aranciate alla fauce. Statura 5-15 cm, emicriptofita perenne, diffusa in luoghi erbosi, selve, siepi e boschi. Fioritura da febbraio a maggio dalla zona planiziaria alla montana inferiore. Quando in marzo le primule cominciano a spuntare, annunciano l’arrivo della primavera e del nuovo tepore. Il nome scientifico del genere Primula deriva dal latino <<primus>> a indicare la precoce fioritura della specie più diffusa, la Primula vulgaris, che spunta dal terreno al primo accenno di tepore, non appena la neve comincia a sciogliersi. Il simbolo legato a queste piante è la <<giovinezza>>, sempre in riferimento al periodo dell’anno in cui queste corolle si schiudono con maggior rigoglio, letteralmente ricoprendo pendii e scarpate. Nel dialetto bresciano è nota con il nome di primaéra. La Primula vulgaris o primula minore (in francese cocou a grandes fleurs, in inglese common primrose, in tedesco stengellose primel) è fra le specie più diffuse e precoci, con corolle sorrette da esili peduncoli che nascono direttamente dal terreno e foglie reticolate e bollose. I fiori sono gialli con piccole macchie più scure alla base dei petali. Questa primula, che nasce spontanea anche in pianura, è frequentissima sui pendii alpini soleggiati; desidera terreno non troppo asciutto, soffice e ricco. L’appellativo vulgaris significa <<comune>>, ma in realtà questo amatissimo fiore giallo è assai meno diffuso che in passato a causa della eccessiva raccolta. Primula vulgaris ha due specie di fiori: uno con ,o stimma portato più in alto delle antere, l’altro con gli stami più lunghi dell’ovario: è così favorita la impollinazione incrociata. Dal momento che fioriscono quando gli insetti sono ancora pochi, spesso i fiori non vengono impollinati. Shakespeare, in Racconto d’Inverno scrisse “delle pallide primule che muoiono nubili”. Comunque, quelle che vengono impollinate producono semi vischiosi che vengono disseminati dalle formiche. In epoca medioevale un decotto fatto con le primule veniva usato come rimedio contro la gotta e i reumatismi, mentre un infuso di radici era prescritto contro le emicranie di origine nervosa. I fiori erano anche usati per preparare pozioni d’amore. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO. 56 • • • • Le foglie sono glabre nella pagina superiore e pelose in quella inferiore. Diversi fiori lungamente peduncolati crescono al centro di una rosetta di foglie a margine dentato e ondulate. I fiori sono isolati su peduncoli mollemente pelosi. La fauce della corolla è caratterizzata da una pigmentazione più intensa rispetto alla restante porzione. 57 EUPHORBIA HELIOSCOPIA SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Euphorbiaceae – genere Euphorbia. EUPHORBIA HELIOSCOPIA (volg. Erba Calenzuola) Pianta con fusto eretto, foglie obovato-spatolate, denticolate verso l’apice, glabre. Ombrelle concave superiormente a 5 raggi. Ghiandole dell’infiorescenza giallo chiare, ovali-oblique. Statura di 3-50 cm. Fioritura da febbraio a ottobre dal piano planiziario alla zona submontana.Terofita annuale. L’abbiamo incontrata quasi subito nella nostra escursione, sulla sinistra del ciglio della strada che, ancora asfaltata, lascia le ultime case per raggiungere la sbarra dove inizia la strada sterrata. La pianta è inconfondibile perché risalta sul letto di foglie secche con il suo verde brillante che esalta la qualità cromatica della clorofilla. I più non se ne curano perché riesce assai diffcile passare per infiorescenze ciò che sembra una comune infestante di coltivi. Il genere ha preso il nome da Euforbo, medico del re Giuba di Mauritania nel I sec. a.C. il quale per primo avrebbe usata la pianta con scopi medicinali. Il termine helioscopia deriva dal greco e significa “che guarda il sole” e si riferiscono probabilmente alle sommità appiattite della pianta, che si aprono per essere pienamente esposte al sole. In un tranquillo giorno di autunno questa pianta può essere sentita oltre che osservata. Le sue capsule, infatti, contengono tre semi in compartimenti separati e, quando la capsula è matura, si apre, fendendosi con uno schianto, e “spara” i semi, provocando un vero e proprio scoppio. Questo insolito metodo per disperdere i semi non si esaurisce quando essi raggiungono il terreno. Essi hanno infatti una appendice polposa contenente un olio che attrae le formiche. Per attrarre gli insetti impollinatori la pianta ha lobi reniformi delicatamente profumati sul margine del ciazio. Questo è una infiorescenza costituita da un consorzio di fiori maschili ridotti a stami e da un fiore femminile che sporge da quella sorta di piccola coppa il cui orlo è ornato da quattro ghiandole di varia forma. La classica ombrella della calenzuola è costituita da cinque raggi primari ognuno dei quali si suddivide in raggi secondari a loro volta suddivisi in altri due brevissimi raggi che portano i ciazi. Le foglie sul fusto sono spatolate e si dispongono in successione spiralata. Lo spezzettamento della pianticella lascia fuoriuscire un lattice bianco di cui le euforbie sono ricche e per il quale sono classificate come piante tossiche. Questo lattice ha proprietà caustiche. Questo è il motivo delle varie denominazioni bresciane: herba latarola o erba rogna. Anche nel volgare antico sono noti i termini di lactaria, lactariola e tortomaglio girasole. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO • La pianta ha un fusto singolo o ramificato vicino alla base. • Le brattee al di sotto dei fiori assomigliano a foglie largamente ovali, senza picciolo e finemente dentate. • Il fiore è un ciazio formato da stami, che circondano un ovario peduncolato. 58 • • Le ghiandole sono reniformi e non hanno corna. Il frutto, ovale, è una capsula glabra divisa in tre lobi. NOTE E CURIOSITA’ L’Euforbia è pianta conosciuta fin dai tempi più antichi. Molte notizie le fornisce Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis. Il nome, come accennato, sarebbe stato dato ad essa da Giuba, re della Mauritania, in onore del proprio medico. Dice che egli la reperì sul monte Atlante e che ne scrisse addirittura un libro. Spende parecchie parole per decantare le virtù del latice, caustico e potente, tanto che la sua raccolta deve avvenire standosene opportunamente lontani; a coloro che lo raccolgono aumenta l’acutezza visiva tanto che ne propone l’uso in oftalmologia (facit claritatem et Euphorbeum inunctis). Sarebbe anche grande rimedio contro il morso dei serpenti. Le proprietà caustiche del lattice sono tali da rendere ragione di questo insolito uso: raccontano che se con il lattice si tracciano delle lettere sul corpo e se, quando il lattice è seccato, vi si sparge sopra della cenere, riappaiono i caratteri tracciati; alcuni perciò hanno preferito comunicare con le amanti in questo modo piuttosto che con i bigliettini (et ita quidam adulteras adloqui maluere quam codicillis). Sempre a detta del nostro Plinio, l’euphorbia lascia a lungo un bruciore in bocca, anche dopo un piccolo assaggio: sensazione che aumenta con il passare del tempo finché provoca anche la secchezza delle fauci. Le notizie raccolte da Plinio derivano soprattutto da Dioscoride e dalla conoscenza popolare delle erbe. La medicina popolare conosceva questo capolavoro di alchimia magica della Natura studiato per proteggere la pianta dagli erbivori. Ad essa sono legati miti antichi come quello della maga Circe che, miscelando il lattice con chissà quali altre essenze, scatenava gli istinti dei suoi ospiti verso la regressione più animalesca, e storie più recenti che si sdipanano lungo il filo della magia nera medioevale. 59 HEDERA HELIX <<Di dolcissimo caprifoglio adornato, Dall’amara edera legato, Con terrazze di funghi malsani, Da molte escrescenze e cicatrici Deformato, da un cuscino di muschio soffocato. Tutto intorno di vischio pagano drappeggiato, E fitto dei nidi del rauco uccello Che parla ma non comprende il suo verso, Sta, e così stava mille anni fa, Un albero solo>>. Coventry Patmore, 1823-1896 SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – ordine Umbellifloreae – Famiglia Araliaceae – genere Hedera. HEDERA HELIX (volg. Edera) Pianta rampicante con infiorescenze densamente pelose; foglie di due forme (foglie dei fusti fioriferi e foglie dei fusti sterili); fiori a petali giallo verdicci di 3-5 mm. Frutti maturi neri con diametro di 9 mm; foglie dei fusti sterili poligonali a 3-5 lobi; quelle dei fusti fertili intere, ovato romboidali; fiori riuniti in ombrellette. Statura da 1 a 20 metri. Fanerofita perenne legnosa con fioritura da giugno a settembre diffusa fino alla zona submontana. Comune rampicante di muri, ruderi e tronchi. Un rapido sguardo attraverso il bosco di roverelle che abbiamo attraversato di consente di distinguere qua e là, sui tronchi più robusti e quindi più vecchi, una copertura di foglie verdi con due tonalità e di due forme differenti. Appartengono ad una pianta rampicante assai diffusa: l’edera. Questa sua proprietà di abbracciare altri alberi e di legarsi ad essa è tradotta nel dialetto bresciano con il termine di <<ligabosch>>; a Berzo Inferiore, piccolo paese della media Valle Camonica, viene detta <<lina>>. Abbarbicata ai muri o agli alberi grazie a sottili radici avventizie che crescono dal fusto, l’edera è una delle poche piante rampicanti indigene che raggiungono dimensioni considerevoli. Si diffonde sopra i ruderi e i vecchi ponti e viene spesso coltivata per abbellire esteriormente le case: In autunno i fiori giallo verdastri della pianta secernono abbondante nettare e sono impollinati da vespe e farfalle. I frutti, che sono drupe nere simili a bacche, vengono spesso mangiati dagli uccelli e dai bruchi di alcune farfalle ma sono velenosi per l’Uomo. Caratteristica peculiare dell’edera è la cosiddetta eterofillia, vale a dire la presenza di due forme di foglie sulla stessa pianta. I nuovi tralci che risalgono il tronco, confondendosi con quelli già esistenti, hanno foglie d’aspetto diverso da quelle dei rami fertili le cui estremità recano i fiori e le successive drupe subsferiche che superano l’inverno per poi maturare a primavera. L’edera offre un chiaro esempio di sviluppo ritardato delle foglie adulte. Le foglie primarie e giovanili sono lobate e la loro formazione si protrae per decine di anni, mentre quelle ovato romboidali compaiono molto 60 più tardi sui rami di piante vetuste. Questa diversità può essere tanto rilevante al punto che i Greci consideravano specie distinte gli esemplari a foglie giovani lobate, denominate helix, da quelli vecchi che chiamavano kissos. L’edera sfida i secoli. Se fiorisce per la prima volta a 9-10 anni di età, vive sicuramente 400-500 anni. Un botanico tedesco del XVII sec., Kurt Sprengel, sostiene di aver conosciuto in Italia esemplari vecchi di dieci secoli. CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO • Le foglie dei fusti non fioriferi di solito hanno da tre a cinque lobi. • Le foglie dei fusti fioriferi sono generalmente intere, talvolta con margini ondulati. • I frutti maturi sono neri e assomigliano a bacche. • I fiori sono disposti in infiorescenze globose e vengono spesso impollinati da vespe. Ciascun fiore ha cinque petali verdastri. NOTE E CURIOSITA’ L’uso dell’edera e dell’agrifoglio come decorazione natalizia scaturì da una superstizione secondo cui i folletti delle case si facevano soprattutto maliziosi intorno al periodo natalizio. Per salvaguardarsi dai loro scherzi, nacque l’abitudine di appendere rametti di edera e di agrifoglio sulle porte, alle travi delle case e sui camini. I presunti poteri magici di queste piante venivano usati diversamente a seconda delle località. Per esempio, in Scozia, l’edera era adoperata per proteggere dal malocchio le vacche e il loro latte. L’origine di queste credenze è da far risalire alla cultura dei Druidi i quali erano convinti della potenzialità magica di questa pianta. Nel medioevo si riteneva che se l’edera cresceva sul muro di una casa, i suoi abitanti erano al riparo dalle streghe e se moriva bisogna aspettarsi una calamità. Se l’edera perdeva vigore significava che la casa sarebbe passata in altre mani, magari per mancanza di eredi. Per la sua abitudine ad attaccarsi l’Edera è un simbolo femminile, ma per questa sua caratteristica nel linguaggio delle piante significa <<fedeltà>>. Le fanciulle imparavano presto a mettersene una foglia in tasca prima di uscire a passeggio: il primo uomo che avrebbero incontrato sarebbe stato il loro futuro sposo. Veniva usata anche per fare coroncine tra intrecciare nei capelli della ragazza che va sposa, a simboleggiare il consolidarsi di un rapporto che promette fedeltà <<fin che morte non separi>> Le foglie e il legno contengono ederagenolo (un saponoside) ad azione antispasmodica ed espettorante. Gli estratti, a dosi elevate, sono causa di gastroenteriti anche gravi (fiori ingeriti dai bambini). Soprattutto i frutti contengono vari glucosidi che sono tossici per l’Uomo. I sintomi provocati dall’ingestione in dose sufficiente dei frutti consistono in: nausea, vomito, pallore, eccitamento e poi depressione del sistema nervoso centrale, coma e depressione respiratoria. 61 POLYGALA CHAMAEBUXUS SCHEDA Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Polygalaceae – genere Polygala. POLYGALA CHAMAEBUXUS (falso bosso) I fiori di Polygala presentano una struttura particolare: sono presenti 5 sepali alquanto disuguali, 3 esterni, piccoli, verdi, 2 interni, grandi, più o meno colorati, venati (sono detti ali) somiglianti a petali. La corolla è costituita da solo 3 petali bene sviluppati, i superiori più piccoli, l’inferiore foggiato a carena, con l’apice quasi sempre laciniato-frangiato. Si tratta di una pianta fruticosa a fusto più o meno legnoso non solo alla base. I fiori non sono numerosi e disposti su ogni rametto. E’ sempreverde, più o meno prostrata; i fiori sono da bianchicci a gialli (oppure in parte porporini o rosei); le foglie sono coriacee, ellittiche, talora più strette, più o meno lanceolate od anche lineari-lanceolate. Presenta statura di 5-25 cm, camefita perenne legnosa diffusa nei luoghi erbosi e rocciosi delle Alpi e degli Appennini con fioritura da febbraio a luglio nelle fasce montana inferiore e montana superiore. Questa specie ha un nome di chiara derivazione greca: πολυ∫ + γαλακτο∫, che significa molto latte. In passato era diffusa la convinzione che favorisse la produzione di latte da parte degli animali da pascolo. Per analogia, infusi di poligala venivano usati per favorire la montata lattea delle puerpere. Non so se il tutto trovasse corrispondenza nella realtà, tuttavia erano proprietà a cui il volgo prestava fede. Nel dialetto bresciano una corrispondenza fra nome e presunte virtù della pianta non è così evidente. Il Penzig, nella sua Flora Popolare Italiana, cità per la nostra provincia l’appellativo di martilina, nome confermato anche localmente e riportato fedelmente da Melchiorri nel suo vocabolario bresciano-italiano del 1817 dove indica come martèl il vero Bosso e come martilì il Vaccinium vitis-idea. A proposito della Polygala il Melchiorri aggiunge una considerazione importante.”Ne’ boschetti de’ ronchi e nei siti più ombrosi e meno esposti al sole trovasi questa bella piantina a fusto perenne e sempre verde. I suoi fiori papilionacei sono misti di giallo e di turchino. Può servire molto bene all’ornamento de’ giardini”. Certo è che, parlando di botanica, che la P. chamaebuxus pone allo specialista grandi motivi di discussione che rendono ragione delle varie classificazioni poste in passato e dei numerosi traslochi da un sito classificativo ad un altro. Anche noi, che specialisti non siamo, possiamo però renderci conto di questo con una osservazione superficiale. Se prestiamo attenzione osserveremo alcune caratteristiche sconcertanti: le ali e la carena sono da leguminosa ma costituite da sepali; i petali sono saldati in una corolla tubulosa e il frutto, per quanto capsulare, simula la siliquetta di una crucifera. Solo da poco, per i motivi accennati, la P. chamaebuxus è approdata al porto delle Poligonali. Unica fra le quindici specie italiane, la nostra pianta possiede un fusto legnoso che la rende simile ad una variante pirenaica. Ciò lascia supporre una parentela molto antica, che forse risale all’epoca in cui altri massicci montuosi occupavano l’attuale posto delle Alpi. 62 I suoi fiori sono delicatamente profumati (soprattutto nella ssp. Rhodoptera). Hanno precocissima fioritura da boccioli che vengono approntati nell’autunno precedente. Contiene principi amari, resine, saponine e oli tali da renderne utile un impiego come espettorante, depurativo ed aperitivo. 63 SPUNTI DI LAVORO DIDATTICO IL BOSCO COME ECOSISTEMA 1) Chiediamo ai bambini se c’è un bosco vicino alla loro casa oppure se non sono mai stati in un bosco. Raccogliamo le varie ipotesi dei bambini e puntualizziamole sul quaderno, poi insieme cerchiamo di definire che cosa è un bosco. Immaginiamo quindi il bosco come un ambiente popolato da piante e da animali che lo abitano come se fosse una casa a più piani. Invitiamo i bambini a disegnare la loro idea di bosco. Casa-bosco Secondo piano Primo piano Piano terra Cantina o piano interrato 2) Dividiamo poi la classe in quattro gruppi. Ogni gruppo avrà il compito di cercare gli elementi relativi alla parte del bosco assegnata a loro. In classe si puntualizzeranno i dati emersi nel seguente modo: • Al piano interrato o sottosuolo ci sono animali come il lombrico, la talpa e alcuni tipi di funghi. • Al pianterreno o strato delle erbe e dei muschi crescono piante come le felci, i fiori, i funghi; vivono bisce, ricci, formiche e volpi. • Al secondo piano o strato arboreo troviamo alberi quali querce, castagni, olmi, faggi, pini e abeti. Tra i loro rami vivono tanti uccelli e altri animali come la martora, il ghiro e lo scoiattolo. 3) Predisponiamo un cartellone raffigurante la casa-bosco sul quale i bambini incolleranno reperti, fotografie e descrizioni di piante ed animali eseguite con l’insegnante. Diamo inizio ad una prima classificazione di vari tipi di bosco in relazione alla maggioranza degli alberi presenti in esso: bosco di faggi ----------------- faggeta bosco di castagno ----------- castagneto bosco di abeti ----------------- abetaia bosco di pino ------------------ pineta bosco di querce --------------- querceto e così via. 64 4) Nel bosco c’è anche il sottobosco: quella parte compresa fra la chioma degli alberi e il pianterreno. Qui si possono raccogliere un gran numero di frutti del bosco come: fragole, lamponi, more, mirtilli, nocciole, corbezzoli, funghi, castagne etc. Essi potranno essere lo spunto per la stesura di un testo regolativo riguardante una ricetta di cucina o di bellezza. 5) Proponiamo la lettura e l’analisi di alcuni testi per arricchire e completare quanto fatto. 6) Suggerimenti operativi. Completa la carta di identità relativa a una pianta del bosco (vedi allegato seguente). Inventa cartelli segnaletici a difesa degli alberi. 7) Attività espressiva. In termini interdisciplinari con Educazione alla immagine e Educazione al suono e alla musica si possono realizzare: - la tavolozza dei colori; - il libro dei profumi; - la collezione dei suoni. La tavolozza dei colori. Conosci la tavolozza dei pittori? Da un cartone ritaglia alcune sagome simili ad una tavolozza. Ora mettiti in cerca di piccoli elementi naturali dai colori più disparati; sistemali sulla tua tavolozza uno accanto all’altro, usando colla o nastro adesivo. Potrai scegliere tutte le varianti che vuoi, per esempio concentrando la ricerca solo sulle variazioni di marrone o di verde, o solo su quelle dei fiori. Il libro dei profumi. Procurati alcune tasche di plastica trasparenti in modo da poterle poi riunire in un raccoglitore ad anelli o legare con un nastro. In ognuna inserisci un foglio bianco che farà da sfondo a tutte le “cose profumate” che troverai nel bosco: aghi di pino, funghi, fiori, muschi … e sul quale scriverai di che cosa si tratta. Potrai aggiungere sensazioni personali del tipo: somiglia a …, mi ricorda …, l’ho già sentito… Ricordati di chiudere le buste con un pezzetto di nastro adesivo. La collezione dei suoni. Ascolta i suoni del bosco: provengono da ogni direzione e solo concentrandoti su uno di essi puoi distinguerlo dagli altri. Anche se cerchi di registrali con un registratore portatile, ottieni una registrazione di molti suoni sovrapposti. Puoi cercare di isolare un suono dall’altro con un accorgimento. Procurati un registratore a cui sia possibile collegare un microfono esterno. Con del nastro adesivo o degli elastici sistema il microfono in cima al bastone e intorno ad esso applica un cono di cartone aperto verso l’esterno. L’allungamento del microfono verso la fonte del suono e il cono di cartone miglioreranno la qualità della registrazione. La documentazione sonora raccolta potrà servire ad accompagnare una proiezione di diapositive scattate nel bosco. 65 CARTA DI IDENTITA’ DELLA PIANTA DEL BOSCO SCHEDA DI RILEVAMENTO Data ……………………..Località………………………………………………….quota………………. Esposizione………………………………………..Nome del Rilevatore………………………………. Albero isolato Bosco puro Bosco fitto Bosco misto SOTTOBOSCO: presente Bosco rado assente CORTECCIA : tatto……………………………………………………………………………………….. Vista: colore………………………………………………………………………………………………… Forma………………………………………………………………………………………………. Segni particolari…………………………………………………………………………………… Olfatto: ……………………………………………………………………………………………………… CHIOMA: assomiglia a …………………………………………………………………………………… FOGLIA: tatto……………………………………………………………………………………………… Vista: colore……………………………………………………………………………………. Forma …………………………………………………………………………………… Segni particolari ………………………………………………………………………. Olfatto: …………………………………………………………………………………………. FIORE: vista: colore…………………………. Frutti: vista: …………………………………………… Forma………………………… tatto:…………………………………………… Olfatto: …………………………………………………………………………………………. Tracce di animali: tane fra le radici - nidi di uccelli – tracce sul terreno – altro ………………… Tracce umane : corteccia incisa…… segni d’ascia ….. prelievo della corteccia………………. Potature …. Altro ………………………………………………………………….. ETA DELL’ALBERO: anni ……………………….. Dividere la circonferenza del tronco, misurata in cm a una altezza di 130 cm da terra per 2,5. Il risultato corrisponde alla età dell’albero Invitiamo i bambini ad osservare le specie vegetali utilizzando le proprie potenzialità sensoriali ed anche il proprio gusto personale. Questo approccio consente di percepire una grande varietà di specie senza curarsi troppo degli aspetti strettamente botanici, ma mettendo in gioco la dimensione percettiva. 66 L’obiettivo di questa attività non è quello di lavorare sulla classificazione, me di evidenziare le varietà delle specie come caratteristica dell’eco sistema. Esiste una grossa difficoltà ad individuare e classificare le differenti piante in base a criteri che spesso sono alieni dalla comprensione dei ragazzi. E’ preferibile quindi lavorare in modo meno formale ma che consenta di evidenziare molteplici aspetti del mondo vegetale. Nulla vieta di organizzare poi le osservazioni in chiave tassonomica. L’importante è che la pianta sia vista in un contesto in relazione agli altri elementi ambientali. 1) Ciascuno deve scegliere una pianta che ritiene molto bella, una strana, una molto grande, una molto piccola, una molto profumata, una molto colorata. Quando la individuate, la indicate ai compagni. Potrete così vedere le differenti scelte di ciascuno. 2) Cercate lungo il percorso di distinguere il maggior numero di piante differenti (fiori, arbusti ed alberi …). Prendete foglie, rametti, fiori per riuscire ad identificarli a tavolino se non conoscete il nome. 67 ESCURSIONE A SANTA MARIA DEL GIOGO 5-10-14 aprile 2000 COMPONENTE ANTROPICA 68 Il monte del Giogo, che con i suoi mille metri separa la Valle Trompia dalla conca del lago d’Iseo, fin dall’antichità rappresentava una importante via di comunicazione fra Brescia, la pieve di Sale Marasino, Zone e Pisogne. Proprio per questa sua importanza logistica, fin dall’alto medioevo esisteva lassù un ospizio per i viandanti, passato poi ai monaci cluniacensi che presumibilmente nel secolo XIII costruirono anche una chiesetta affidata poi ai monaci Olivetani di Rodengo e quindi ai Benedettini di Santa Eufemia. Quel piccolo tempio fu poi sostituito da un vero e proprio santuario, do ve si venera, con a fianco le due statue quattrocentesche di San Benedetto e San Bartolomeo, un simulacro della Vergine fatto eseguire dalla popolazione di Polaveno nel 1959 dalla ditta Poisa di Brescia. Il Santuario, già proprietà delle tre parrocchie confinanti di Sulzano, Gardone V.T. e Polaveno, nella revisione censuaria del 13 agosto 1809 venne attribuito, con le case adiacenti, al territorio di Polaveno e tale attribuzione trovò conferma nel 1824 e continua tutt’ora. Il Tempio, esposto alle intemperie, necessitò più volte di un restauro nel 1795, nel 1881, nel 1920 e ultimamente nel 1977, per interessamento della popolazione e sotto la guida di don Pasqualino Zanotti. Che il santuario fosse stato un ospizio retto dai benedettini è testimoniato anche dalla permanenza presso di esso dal 1537 al 1538 di Teofilo Folengo, benedettino poeta noto nel panorama della letteratura per le composizioni in latino maccheronico. Il Folengo infatti rimase a lungo presso il convento benedettino di Santa Eufemia ed è presumibile che possa essere stato assehnato nella funzione di custode dello xenodochium del monte del Giogo. A ricordo di questa illustre permanenza, sulla parete sud, è murata una iscrizione tratta dal Baldus ed ivi posta a cura del Gruppo Alpini di Iseo: Tempus erat quando flores Primavera galantos spantegat Serpaque scorzato corpore laete Godit. Capra petit caprum Clamatque cavalla cavallum Quaeque sibi charum cercat Osella virum… A scopo di documentazione riporto quanto è indicato ne “L’Illustrazione Bresciana” a cura di P. Guerrini, edita nel 1910. << Sul monte ove confinano i tre comuni di Gardone, Polaveno e Sulzano, trovasi la chiesa di Santa Maria del Giogo già ospizio e convento edificato e officiato dai monaci benedettini dell’abbazia di Rodengo, alla quale apparteneva in maggior parte questo territorio. Essendo questo Giogo uno dei passi di comunicazione più frequentati e più facili fra la Valcamonica e Brescia (oltre quelli del colle di San Zeno sopra Pezzazze e di Zone), ivi i Benedettini, come in molti altri luoghi delle nostre valli, avevano eretto un ospizio per soccorrere i poveri viandanti e ristorarli nella fatica del viaggio. 69 La piccola chiesetta dedicata a Maria è già nominata in un catalogo di chiese e benefici ecclesiastici della diocesi di Brescia compilato sul principio del secolo XV (ecclesia S.Mariae de Iugo habet libell. II): è stata decorata di affreschi neol secolo XVI, ma non offre molti pregi artistici. Essa è posta sul silicifero o ammonitico rosso superiore e da qui la vista si allarga a dominare il soggetto lago di Iseo, il vicino monte Guglielmo con una lunga catena di altri monti, ed un panorama vastissimo e variato, onde rimane ancora durante l’estate, meta frequente di numerose e allegra comitive di persone che vogliono godersi senza troppa fatica una giornata di alpinismo sicuro e di divertimento sano, essendosi aperto lassù un buon albergo dove il piatto del giorno rimane invariabilmente quella squisita polenta e osei che non è soltanto il cibo degli dei, ma anche di tutti i buoni bresciani e bergamaschi>>. UNA LEGGENDA SULL’ORIGINE DEL SANTUARIO La leggenda, conosciuta già nel seicento e riportata da tutte le guide ottocentesche, narra che l’origine di questa chiesa è legata ad altre sulle cime dei monti vicini. Quattro bellissime sorelle, “le quattro Marie”, decisero di ritirarsi, contro la volontà del severo padre, feudatario della zona, a vita monastica, senza abbandonare il lago. Una si stabilì sul monte di Sale Marasino in località “conche”, una su Montisola, una sulla cima sopra Tavernola in località Parzanica e una sul monte di Sulzano in località del Giogo. Esse si accordarono stabilendo che l’unica forma di comunicazione doveva essere un fuoco acceso una volta all’anno in data stabilita. Questi quattro santuari mantengono ancora oggi la consuetudine di illuminare le chiese nella seconda domenica di luglio. La leggenda accennata rappresenta un “topos” comune in ambito camuno. Leggende analoghe spiegano l’origine di altri santuari. Si veda ad esempio la storia di San Glisente ed i suoi fratelli e la storia delle Quattro Matte della Presolana. La strada Polaveno –Iseo venne progettata nel 1879, ma la sua costruzione, dopo una revisione del progetto, venne avviata nel 1931. Nell’ottobre del 1940 venne cominciata la sistemazione della rotabile Polaveno-Sarezzo. Con il definitivo assetto del sistema viario Il Giogo di Santa Maria perse definitivamente il ruolo di passo di comunicazione. La strada che dalla frazione Zoadello conduce sul monte del Giogo e che prende il nome di via Santa Maria del Giogo è stata tracciata recentemente sulla scorta dell’antico sentiero. Il suo percorso ci permette di fare alcune considerazioni. Innanzi tutto essa si snoda in un bosco di roverelle che, per quanto siano delle querce, certo non hanno l’aspetto dei boschi di querce che la nostra immaginazione e la tradizione storica ci tramanda. Si tratta di alberi dai fusti esili, fitti, quasi dei polloni che aggettano da cespi, fra i quali qua e là compaiono esemplari più robusti. Questa constatazione ci induce a pensare che trattasi di alberi che hanno la stessa età (bosco coetaneo). La mancanza di esemplari di grosse dimensioni fa supporre che storicamente il bosco doveva essere soggetto ad un taglio 70 periodico (bosco ceduo). Il bosco ceduo era fonte di lavoro per gli abitanti della zona. <<Polaveno fu ricchissimo di boschi cedui che fornivano legna da ardere anche alla città e carbone dolce… Nel 1898 si indicavano come prodotti del suolo: cereali, viti, gelsi, lauri; è ricco di boschi cedui, che danno legna da ardere a Brescia, e di castagneti, dai quali si trae un reputato prodotto. Ha pure bei pascoli che favoriscono l’allevamento bovino e suino. Oltre che carbonai i polavenesi costruivano in inverno scope, gabbie, gerli, rastrelli, che poi commerciavano specialmente alle fiere di San Faustino e di San Giovanni B. in Brescia usando specialmente l’ontano, il corniolo e legno di tiglio acquistato a Brozzo e Lavone. Nel 1857 il comune possedeva 2968 pertiche di bosco ceduo e 275 di castagno e lauro>>. Se il nostro occhio è attento possiamo scorgere su alcuni tronchi alcuni segni di vernice rossa. Essi stanno ad indicare gli alberi che possono essere soggetti a taglio. Ciò significa che il taglio del bosco è soggetto ad una regolamentazione che normalmente è di tipo comunale. Altri segni di colore blu, sempre sui tronchi degli alberi, a volte contrassegnati da un numero, indicano invece la cosiddetta “quadratura” del bosco. Il territorio viene suddiviso in un reticolo di quadrati tutti uguali. All’interno di ogni quadrato viene effettuata la conta degli alberi e ogni quadrato viene identificato con un numero. In questo modo ogni comune è informato sul proprio patrimonio boschivo. Durante il nostro tragitto abbiamo incontrato anche altri simboli. Una volta abbandonata la strada asfaltata, in corrispondenza della sbarra, abbiamo notato delle frecce segnaletiche con punta bianca e rossa, l’indicazione del luogo e un numero. Si tratta delle segnalazione dei sentieri del Club Alpino Italiano. Il simbolo bianco e rosso ci accompagna fino al santuario e consta di una linea rossa ed una bianca sovrapposte. Al ritorno il segnavia del sentiero è rappresentato dai colori azzurro e bianco: sono i colori della città di Brescia e stanno ad indicare che stiamo percorrendo il sentiero 3V (Sentiero delle Tre Valli): un percorso che partendo da Brescia in 7 tappe percorre la dorsale triumplina e valsabbina giungendo nuovamente a Brescia. Il Santuario di Santa Maria del Giogo, con l’annesso rifugio ristrutturato dalla sezione A.N.A. di Polaveno, è uno dei luoghi di sosta previsti da coloro che intendono percorrere questo sentiero. Attorno al santuario si notano numerosi castagni. Un tempo questi alberi venivano coltivati per il loro frutto. Attualmente il castagneto presente, di cui si riconosce ancora l’originario impianto artificiale, è in disuso. Il castagno infatti non è un albero originario della nostra fascia latitudinale ma tipicamente più meridionale. 71 SPUNTI DI LAVORO DIDATTICO 1) GUARDATE LE DIFFERENZE ESISTENTI TRA LA COLLINA E LA ZONA PIANEGGIANTE. - Perché secondo voi più in alto c’è il bosco e in basso no? I boschi restano sempre uguali o cambiano con il tempo? Quale risorsa potevano essere i boschi in passato, quando la gente traeva il suo sostentamento direttamente dal territorio? Questa zona è stata trasformata dall’Uomo o è sempre stata così? Le trasformazioni compiute dall’Uomo in passato, quando prevaleva l’attività agricola, in che cosa differiscono dalle modalità di intervento attuali? 2) LE PIANTE OSSERVATE POSSONO AVER BISOGNO, PER VIVERE, DI ALCUNI ELEMENTI PRESENTI NELL’AMBIENTE. - Provate a pensare quali e perché. Ci possono essere nell’ambiente elementi che, al contrario, possono sfavorire la loro vita? 3) CONFRONTATE LE PIANTE TROVATE LUNGO IL PERCORSO. - Quali elementi osservati hanno permesso di distinguere le piante? Il paesaggio vegetale è differente da quello visto all’inizio dell’itinerario? Se si, quali fattori determinano questa differenza? La ricca differenziazione delle specie vegetali, anche nello stesso luogo, quali vantaggi può dare a questi organismi? 4) QUESTO LUOGO E’ INTERESSANTE NON SOLO PER IL SANTUARIO MA ANCHE COME PUNTO PANORAMICO. - Perché realizzare un santuario in questo punto? Le caratteristiche geografiche del luogo avranno avuto un particolare significato? Guardando il panorama nelle diverse direzioni riuscite ad individuare diversi tipi di ambiente? Quali aspetti tra questi vi consentono di distinguerli: a) le opere dell’uomo; b) la vegetazione; c) l’esposizione; d) l’altezza. Ci sono altri elementi importanti per distinguere un ambiente da un altro? 72 BIBLIOGRAFIA 73 OPERE DI CARATTERE GENERALE - Pignatti A. – FLORA D’ITALIA – 3 voll. , Bologna Zangheri P. – FLORA ITALICA – 2 voll. – Padova, 1976 Lauber K., Wagner G. – FLORA HELVETICA – 2 voll. – Bern, 1996 AA.VV. – Ungraser der Unterfamilie Panicoideae – Basel, 1980 AA.VV. – Ungraser der Unterfamilie Chloridoideae, Poidoeae, Oryzoideae – Basel, 1981 Hafliger E. et al. – Einkeimblattrige Unkrauter ausser graser – Basel, 1982 Hafliger E. et al: - Zweikeimblattrige Unkrauter aus 13 familien – Basel, 1988 AA.VV. – TAVOLE DELLE MALERBE – Ciba Geygy – Paci M. – ECOLOGIA FORESTALE – Bologna, 1997 Pignatti S. – ECOLOGIA VEGETALE – Torino, 1995 Pignatti S. – ECOLOGIA DEL PAESAGGIO – Torino, 1994 Larcher W.: - ECOFISIOLOGIA VEGETALE – Bologna, 1993 Fenaroli e Giacomini : LA FLORA – Milano, 1958 Ceruti A. et al. : BOTANICA MEDICA, FARMACEUTICA E VETERINARIA – Bologna, 1993 GUIDE BOTANICHE E ATLANTI FOTOGRAFICI - Crescini A.: FIORI DELLE VALLI BRESCIANE – Brescia, 1982 FLORA SPONTANEA PROTETTA E FAUNA MINORE – Provincia di Brescia, 1989 Lippert W. : FOTOATLANTE DEI FIORI DELLE ALPI – Bologna, 1983 Reisigl H.: BLUMENWELT DER ALPEN – Innsbruck, 1978 Reisigl H., Keller R. : ALPENPFLANZEN IM LEBENSRAUM – Stuttgart, 1990 Frattini S.: FIORI DEL PARCO DELL’ADAMELLO – Comunità Montana di Vallecamonica, 1988 FLORA ALPINA FRIULI VENEZIA GIULIA – Regione Friuli, 1995 Reisigl H., Keller R. : LEBENSRAUM BERGWALD – Stuttgart, 1989 Aichele D. : WAS BLUHT DEN DA ? – Stuttgart, 1965 Buttler P.K. – GUIDA PRATICA ALLA BOTANICA – Bologna, 1986 Polunin O. : - GUIDA AI FIORI D’EUROPA – Bologna, 1974 Pizzetti, I., Cocker H. : IL LIBRO DEI FIORI – Milano, 1971 Anchisi E. et al.: - ESCURSIONI FLORISTICHE SULLE ALPI – Pavia, 1995 Dors J. 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