ESCURSIONE DIDATTICA A SANTA MARIA DEL

CLUB ALPINO ITALIANO
Sezione di Brescia
Sottosezione di Manerbio
ALPINISMO GIOVANILE
ESCURSIONE DIDATTICA A
SANTA MARIA DEL GIOGO
Testo-guida per insegnanti
A cura di Fabrizio Bonera
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INTRODUZIONE
(che è meglio leggere)
Questa dispensa, che non ha velleità accademiche, si riferisce alla
esperienza condotta con le classi quarte della Scuola Elementare di Leno
nel mese di aprile dell’anno in corso al Santuario di Santa Maria del
Giogo. Si tratta di una facile passeggiata che però contiene tutti gli
elementi per un corretto e esauriente avvicinamento al mondo della
montagna e della natura. Ciò risulta anche nei fini istituzionali del Club
Alpino Italiano il cui scopo principale è la conoscenza della montagna
nei suoi molteplici aspetti. Questi fini attualmente vengono raggiunti
anche con una collaborazione con gli istituti scolastici di qualsiasi livello
e grado.
Il presente lavoro è indirizzato al Corpo Insegnante. In esso vengono
prospettati i vari elementi costitutivi di una escursione didattica e
pertanto si propone anche come modello per eventuali altre esperienze.
Si inizia con l’inquadramento geografico per poi evidenziare gli aspetti
ambientali: aspetto geologico, la vegetazione, l’intervento dell’Uomo, la
cultura locale e il significato storico del luogo stesso. La vegetazione
viene presentata sia come paesaggio sia nei suoi aspetti sistematici.
Ovviamente si è ritenuto opportuno prendere in esame le specie più
importanti e soprattutto quelle rilevate nel periodo in cui la escursione si
è svolta (dal 5 al 14 aprile). Nella trattazione si è dato ampio spazio agli
aspetti storici, di antropologia culturale, di etnobotanica e di cultura
popolare. Gli aspetti di botanica sistematica sono presentati in termini
molto schematici e con frequente riferimento all’uso della lente di
ingrandimento in modo da poter suggerire una educazione alla
osservazione ed esperienze che possono essere facilmente ripetute anche
a tavolino. Numerosi sono i riferimenti letterari, tesi a sottolineare come
la Natura abbia costituito nel tempo fonte di ispirazione per scrittori e
poeti. Questi collegamenti con altre discipline e questa modalità
interdisciplinare dello studio è ciò che determina il notevole interesse per
il mondo naturale che non deve apparire come un qualcosa di distaccato
ma deve essere avvertito come un qualcosa che ci appartiene, che ha
determinato spesso storicamente le scelte dell’Uomo e di cui dobbiamo
preoccuparci per la nostra stessa esistenza. Il tutto ovviamente
nell’intento di trasmettere ai ragazzi comportamenti di rispetto e di
salvaguardia della Natura.
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ESCURSIONE DIDATTICA A SANTA MARIA DEL GIOGO
PER LE CLASSI QUARTE E QUINTE DEL CICLO ELEMENTARE
Aspetti di propedeutica della escursione:
LAVORO IN CLASSE: utilizzando la carta geografica (meglio una tavoletta
dell’Istituto Geografico Militare) progettare il viaggio da Leno a Polaveno
segnando sulla cartina il percorso.
Identificare poi i paesi che si incontrano specificando la tipologia della rete
stradale.
Ogni Gruppo deve preparare:
1. Macchina fotografica.
2. Registratore.
3. Lente di ingrandimento.
4. Blocco per appunti e matita.
5. Centimetro da sarto.
6. Sacchetti di plastica per eventuale campionatura.
7. Forbici con punta rotonda.
Durante l’escursione si prevedono:
• Soste per illustrare i contenuti della escursione attraverso la osservazione
diretta (aspetti di flora, fauna, suolo e rocce)
• Riscontro di corrispondenza fra elementi del paesaggio e cartografia con
osservazione dei vari simboli incontrati.
• Nozioni di orientamento mediante esercizi con bussola
• Osservazioni sulla relazione fra uomo e ambiente ed in particolar modo
dirette ad evidenziare gli aspetti positivi (lavoro, utilità) e negativi
(squilibrio ecologico).
• Racconti di eventuali leggende del luogo.
Con gli insegnanti gli allievi dovranno cimentarsi nelle risposte ad eventuali
domande onde trarne spunti di approfondimento:
1. Quali sensazioni provate o avete provato?
2. Quale difficoltà?
3. Che cosa vi piace di più di questa gita?
4. Provatevi a raccontare una o più leggende del posto.
Al ritorno: 1) ricostruzione della gita con cartelloni e fonti; 2) testo descrittivo;
3) ricerca di gruppo su vari argomenti con approfondimento ed eventuale
esplicazione della ricerca ad altri gruppi.
3
ITINERARIO
L’itinerario seguito per raggiungere il Santuario di Santa Maria del Giogo
prende inizio da una frazione di Polaveno, comune della Valle di Gombio,
sulla destra idrografica della Val Trompia. La frazione è Zoadello e qui, in uno
slargo della strada provinciale che adduce al piccolo agglomerato di case, si
possono lasciare gli automezzi. Si percorre a ritroso la strada provinciale per
circa cento metri sino a trovare una sinistra una piccola strada in salita – via
Santa Maria del Giogo – che con alcune curve sale sopra i tetti delle ultime
case per poi tagliare in modesta salita tutto il versante orientale del monte
Castellino, spartiacque fra la val Trompia e il bacino del lago di Iseo. Il
panorama in questo caso è tutto diretto verso oriente e verso la pianura
Padana. Man mano si procede prende corpo un bosco ceduo di roverelle
dove sono evidenti alcune zone di recente taglio. La strada raggiunge una
stretta curva a gomito sinistrorsa. Da qui bisogna imboccare una stradetta
sterrata rettilinea chiusa da una sbarra. Il cammino è sempre il leggera salita
e si inoltra in un fitto bosco di roverelle dai tronchi esili con sottobosco di
pungitopo. Man mano si procede compaiono anche alcuni esemplari di
castagno. Si oltrepassano alcuni slarghi in cui sono presenti alcune
formazioni rocciose di conglomerato e si giunge ad un bivio in cui è posta
una santella. Si abbandona la mulattiera e si prende il marcato sentiero sulla
sinistra, scavato nella roccia che con una breve salita, mai impegnativa,
conduce ad una radura prativa in cui compaiono alcuni piccoli castagni,
avamposti di un coltivo a castagneto ormai in disuso. Il sentiero è sempre
molto ben evidente, raggiunge una sella, a terrazzo sul lago di Iseo, e seguito
a destra, conduce nel giro di cinque minuti al Santuario. Per il ritorno si
giunge nuovamente a questa sella. Invece di prendere il sentiero a sinistra
fatto all’andata, si procede diritto, lungo una traccia sempre molto ben
evidente, contrassegnata dai segni bianco celesti del Sentiero 3V, che
percorre tutta la dorsale del monte Castellino, con ampi panorami sui due
versanti. Si attraversano suggestive radure in cui sono allocati dei roccoli,
ricchissime di flora, si oltrepassano gli agglomerati rurali della Cuna, con
stupendi prati che dominano il Lago d’Iseo, e impegnandosi nuovamente nel
bosco, raggiungono una piazzale sterrato (parcheggio di un ristorante). Da
qui inizia la strada asfaltata che, seguita in discesa, ci riporta nel giro di 40
minuti al punto di partenza.
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Fotografie e disegni
EDUCAZIONE ALLA IMMAGINE
Testo descrittivo +
testo narrativo
LINGUA
I suoni della natura
SANTA MARIA DEL GIOGO
EDUCAZIONE AL SUONO
clima
STORIA
Fonti
SCIENZE
viaggio
catena alimentare
GEOGRAFIA
Ambiente collinare
flora
fauna
antropologia
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ESCURSIONE A SANTA MARIA DEL GIOGO
1. ELEMENTI DESCRITTIVI DELLO SPAZIO
2. FATTORI DETERMINANTI LO SPAZIO GEOGRAFICO
3. APPROCCIO ECOLOGICO
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ELEMENTI DESCRITTIVI DELLO SPAZIO
COMPONENTE MORFOLOGICA
Catena montuosa e valle
COMPONENTE ANTROPICA
modifiche indotte
COMPONENTE VEGETALE
Bosco di latifoglie
COMPONENTE IDROGRAFICA
Lago di origine glaciale
torrente
Prima di procedere alla lettura delle pagine successive si
consiglia di munirsi di una carta topografica e di una lente
di ingrandimento. A tale scopo sono consigliate le
tavolette dell’Istituto Geografico Militare nelle due versioni
in scala 1:25.000 e 1:50.000: Esse, per quanto non
recenti, hanno il pregio della isogonia e quindi riproducono
esattamente le posizioni reciproche di tutti gli elementi
geografici. L’impiego di una bussola da carta completa poi
lo studio al tavolino con molteplici e interessanti
applicazioni anche di ordine didattico
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L’area geografica qui considerata è dislocata lungo la sponda bresciana del
lago d’Iseo. Uno sguardo alla carta geografica I.G.M. 1:50.000 – Iseo – è
importante per avere una idea della composizione morfologica dello spazio
preso in considerazione.
Il Santuario di Santa Maria del Giogo è situato su una dorsale che dalla Punta
dei Dossi immediatamente a nord di Sale Marasino, termina a sud con la
Punta dell’Orto. La linea dei rilievi ha un contorno arcuato con concavità
verso ovest e separa il bacino lacustre iseano dal solco vallivo della Val
Trompia con le sue convalli, valle di Inzino a settentrione e Val Gombio a
sud. L’osservazione delle isoipse permette di trarre giudizio sull’andamento
del pendio che si configura più ripido ad oriente rispetto a quello occidentale
al punto che in quest’ultimo si trovano piccoli insediamenti abitativi e
coltivazioni.
Nel suo insieme la morfologia generale osservata fa pensare ad una grande
ansa di fiume come se il lago si fosse nel tempo ritirato ed avesse una
maggiore estensione verso est proprio laddove, in corrispondenza di
Montisola, esso disegna una curvatura a concavità occidentale.
In effetti, ragionando in termini geologici, l’aspetto reniforme della dorsale di
monti che abbiamo considerato, è quello di un antico circo glaciale. Il grande
ghiacciaio dell’Oglio, durante l’ultima glaciazione, nella sua porzione
terminale prima di sfociare nella pianura, si incurvava verso occidente
disegnando un’ansa da cui emergevano solo le parti sommitali della dorsale
testè accennata.
La linea dei rilievi, come in precedenza accennato, inizia a settentrione con la
Punta dei Dossi (m 974) e procede con il monte Caprello (m 1236), la Punta
Almana (m 1390), la Croce di Pezzolo (m 937), il monte Rodondone (m
1143), il monte Castellino (m 1012) e la Punta dell’Orto (m 1000). Si
individuano due depressioni importanti: la più settentrionale è la Forcella di
Sale, tra il monte Caprello e la Punta Almana; a sud invece, tra il monte
Rodondone e il Monte Castellino, si individua, più modesto, il giogo di Santa
Maria. Ambedue per mettono la comunicazione con la Val Trompia.
I rilievi orografici elencati, se esaminati nel loro aspetto geologico, sembrano
essere ordinatamente disposti su una scala cronologica.
La composizione è calcarea e copre un periodo che va dal Triassico Medio
(monte Rodondone) al Giurassico inferiore e medio (Punta dell’Orto). In
termine di anni un periodo che va dai 200 ai 150 milioni di anni fa. L’origine
è sedimentaria, dovuta alla deposizione di fini sedimenti in un mare caldo e
poco profondo.
CLASSIFICAZIONE DELLE ROCCE E CENNI SUL CALCARE.
Le rocce possono essere classificate in base alla composizione chimica e in base al
processo che le ha generate. L’ultimo approccio è il più semplice e didatticamente il più utile.
Si distinguono rocce magmatiche che derivano dalla solidificazione di un magma, intrusive
se la solidificazione è avvenuta all’interno della terra, effusive se sono solidificate nell’aria
libera e nei mari come le colate di lava, e rocce sedimentarie che derivano dai processi di
sedimentazione di detriti che si svolgono soprattutto nei mari. Quando questi tipi di rocce,
successivamente alla loro formazione, vengono sottoposte a sollecitazioni di compressione
che implicano variazioni di temperatura di centinaia di gradi o di pressione di decine di biloba
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(come per esempio nei movimenti tettonici) le caratteristiche originarie delle rocce vengono
modificate e si hanno quindi le rocce metamorfiche.
LE ROCCE SEDIMENTARIE
Sono costituite da frammenti che sono stati deposti. I frammenti, dapprima incoerenti come
sabbie o ghiaie sciolte, sono tenuti insieme da altre particelle minerali finissime. Queste
ultime prendono il nome di matrice, se si sono deposte contemporaneamente ai frammenti,
oppure di cemento, se si sono deposte in seguito.
La maggior parte delle rocce sedimentarie è costituita da frammenti detritici detti clasti, da
cui prendono il nome di clastiche le rocce stesse.
In base alla grandezza dei frammenti, si possono classificare in conglomerati o brecce
(maggiori di 2 mm), arenarie (compresi fra 2 e 0,064 mm), siltiti (0,064-0,004 mm), argille (<
0,004 mm).
Si possono considerare come rocce clastiche anche la maggior parte dei calcari, nel senso
che sono originati dalla deposizione, generalmente subacquea in laghi e mari, di fanghi
calcarei finissimi.
Nei calcari il minerale predominante è la calcite; spesso però vi sono frammisti altri minerali
come quarzo oppure argille. Quando la percentuale di argille in un calcare raggiunge il 50%
la roccia diviene molto più tenera e prende il nome di marna.
La dolomia è composta per oltre il 50% dal minerale dolomite; il resto è di solito calcite. E’
difficile spiegare l’origine delle dolomie perché gli organismi marini non secernono dolomite:
si pensa che gran parte delle dolomie provenga da calcari in cui gli ioni magnesio contenuti
nell’acqua marina abbiano “dolomizzato” il calcare sostituendo una parte degli ioni calcio.
Quasi tutti i calcari e le dolomie si sono formati in ambiente marino.
Il calcare è particolarmente soggetto all’opera di corrosione delle acque meteoriche che
scolpiscono forme particolari. L’acqua meteorica risulta particolarmente aggressiva per il suo
contenuto in anidride carbonica; la sua azione corrosiva può inoltre essere accentuata
dall’inquinamento atmosferico, dalle sostanze acide prodotte dai vegetali e dall’azione
disgregatrice del gelo.
Una caratteristica molto comune delle rocce sedimentarie è la loro stratificazione. Uno strato
è generalmente separato da un altro da una linea più o meno marcata che viene detta giunto
di stratificazione. Ogni strato rappresenta una unità nell’ambito della sedimentazione: vale a
dire che in quel momento la sedimentazione dei detriti è avvenuta senza variazioni
apprezzabili di velocità o delle dimensioni dei detriti. Si parla di strati quando lo spessore fra
un giunto e l’altro varia da qualche centimetro a qualche metro; si parla di banchi quando lo
spessore supera il metro, mentre si parla di lamine riferendosi ad intervalli millimetrici. Lungo
le superfici di laminazione la roccia può suddividersi facilmente in lastrine e sfogliarsi.
Non tutte le rocce sedimentarie sono stratificate. Quando non si vedono strati si dice che la
roccia è massiccia. Sono massicci molti calcari e dolomie prodotti da organismi costruttori
quali i coralli. Quando si osserva una successione di strati appare intuitivo il principio basilare
della stratigrafia: a meno che un evento tettonico non abbia ribaltato la successione, ogni
strato sottostante è più antico di quello che gli sta sopra.
SPUNTI DI LAVORO DIDATTICO
1. Identificazione approssimativa del tipo di suolo mediante l’osservazione della
vegetazione spontanea.
2. Prelievo di un campione di roccia: si segna con cura sulla carta il punto di
raccolta mentre sul taccuino si descrive l’ambiente in cui il prelievo è stato
realizzato. Ogni campione deve venire riposto in un sacchetto di plastica con un
numero progressivo e la località di prelievo.
3. Confronto fra la roccia in posto e quella utilizzata per le opere dell’uomo (muretti,
abitazioni etc.).
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4. Identificazione delle rocce calcaree mediante acidi. Se versando sulla roccia
qualche goccia di acido cloridrico si verifica effervescenza più o meno intensa
(per liberazione di anidride carbonica) siamo di fronte ad una roccia calcarea.
COMPONENTE VEGETALE
La componente vegetale dello spazio considerato è rappresentata soprattutto
da un bosco di latifoglie. Nel determinismo della tipologia del bosco
intervengono alcuni fattori che accenneremo brevemente più avanti ma che in
questo contesto occorre richiamare. Essi sono il fattore astronomico inteso
come latitudine e longitudine da cui dipende direttamente il clima generale e
fattori locali a cui è legato il microclima: esposizione di pendio, quota,
ripidezza del pendio e fattori legati alla azione dell’uomo. Quando si cerca di
affrontare lo studio di un bosco e soprattutto quando si tenta di farne una
descrizione è sempre bene tenere presente che è assai semplicistico
considerare il bosco come l’insieme di più specie vegetali e quindi passare a
trattare le caratteristiche delle singole specie. E’ opportuno introdurre subito il
concetto che il bosco rappresenta una associazione vegetale che riunisce
determinate specie e non altre in funzione delle caratteristiche ecologiche che
in quel preciso momento e in quel luogo sono le più adatte per le specie che
vi sono rappresentate. In questo modo si giunge alla comprensione che in
base alle determinanti ecologiche in una associazione vegetale vi sarà
prevalenza di una specie rispetto alle altre. La associazione vegetale non è
un qualcosa di statico ma cambia nel tempo in funzione di cambiamenti
climatici e del suolo in una evoluzione continua fino a giungere ad una
associazione stabile.
Se il bosco viene inteso come associazione vegetale e se questo concetto è
stato sufficientemente compreso, si può introdurre un livello di complessità
maggiore dicendo che il bosco è anche un ecosistema. Infatti all’interno del
bosco si stabiliscono relazioni fra organismi vegetali ma ci vivono anche
organismi animali che dai vegetali dipendono.
CENNI PER UN INQUADRAMENTO GENERALE DEL BOSCO.
Fondamentalmente i sistemi forestali della Terra sono riconducibili a tre tipi:
1. Foresta tropicale.
2. Foresta temperata
3. Taiga boreale
Tale distribuzione avviene in ordine alle diverse fasce di latitudine dall’equatore al polo e
risponde essenzialmente alle diversità climatiche e quindi di temperatura che si incontrano
procedendo dall’equatore al polo. La temperatura infatti è più alta all’equatore e più bassa al
polo e questa constatazione introduce al concetto dell’importanza del clima per lo sviluppo
della vegetazione.
In montagna lo sviluppo della vegetazione segue l’andamento della temperatura e quindi del
clima, disponendosi in fasce che si differenziano man mano che la quota aumenta. Infatti,
così come procedendo dall’equatore al polo si assiste ad una progressiva diminuzione della
temperatura, nelle zone montane la stessa diminuisce progressivamente in funzione della
quota. Si crea quindi quello che con terminologia appropriata viene indicato come gradiente
di temperatura. Per quanto concerne le Alpi, ovviamente non avremo la foresta tropicale,
tuttavia, in generale possiamo riscontrare i tipi della foresta temperata (alle quote più basse)
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ed i tipi della taiga boreale (alle quote più alte). Tra i due sistemi si collocano tante possibili
varianti.
Le fasce di vegetazione vengono definite orizzonti vegetazionali ed il passaggio dall’uno
all’altro è a volte netto ed evidente, a volte più sfumato e quasi impercettibile. E’ importante
anche cogliere la diversa dimensione degli esemplari arborei in funzione della quota. Esiste
quindi una relazione diretta fra clima, specie arborea, dimensioni e forma delle piante che è
facile cogliere a prima vista. Il fattore climatico, quindi, influenzando il comportamento delle
piante, determina la fenologia del bosco. Con il termine fenologia intendiamo l’aspetto
immediatamente osservabile di una popolazione o di un essere vivente soggetto al
cambiamento in funzione della pressione selettiva ambientale. E' un concetto assai comune
della biologia delle popolazioni ed in fondo non esprime altro che il legame esistente fra
morfologia e ambiente. La forma di un essere vivente è dettata dal suo patrimonio genetico
ed esprime anche un adattamento al particolare tipo di ambiente in cui vive. Il termine
fenologia deriva dal verbo greco φαινω che significa “appaio”.
In ogni orizzonte vegetazionale prevalgono alcune specie arboree. La prevalenza di queste è
dettata da regole ecologiche: ogni orizzonte infatti rappresenta un tipo di ambiente in cui vi
sono condizioni favorevoli alla vita di alcune specie, che quindi vi crescono rigogliose, e
meno favorevoli ad altre, che vi crescono in modo stentato o non vi crescono affatto.
PIANI ALTITUDINALI DELLA VEGETAZIONE
ZONA ALPINA
ZONA SUBALPINA
Orizzonte Nivale
Orizzonte zolle pioniere
discontinue
Orizzonte dei pascoli
Orizzonte degli arbusti
contorti
Orizzonte delle conifere
(limite vegetazione
forestale)
ORIZZONTE ALPINO
(Oltre i 2500 metri)
ORIZZONTE
SUBALPINO
ORIZZONTE
MONTANO
SUPERIORE (circa 1900
m e loc 2100 m)
Limite delle latifoglie
ZONA MONTANA
ZONA BASALE
Orizzonte montano
inferiore
ORIZZONTE
MONTANO INFERIORE
(circa 1550 m e loc. 1700 m)
Limite delle querce caducifoglie
Circa 1000 metri
Orizzonte submontano
ORIZZONTE
SUBMONTANO
Colture agrarie planiziali (limite
del leccio, olivo, roverella)
Pianura, circa 400 metri
Orizzonte
submediterraneo
ORIZZONTE
SUBMEDITERRANEO
SPUNTI DI LAVORO DIDATTICO
Nell’affrontare l’illustrazione del bosco:
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1. Procedere dapprima alla definizione di quale sistema forestale della Terra
si ha di fronte.
2. Identificare l’orizzonte vegetazionale (valutare i dati altimetrici ricorrendo
alla carta topografica e/o all’altimetro).
3. Sulla scorta di elementari conoscenze geologiche identificare la natura del
terreno (suolo siliceo = acido oppure calcareo = basico).
4. Procedere quindi, in linea di massima, anche con semplice osservazione,
alla identificazione della specie dominante (bosco di abeti, faggi, querce,
betulle etc) ed in questo ambito riuscire ad identificare l’albero dominante
in modo da definire se trattasi di un bosco puro o misto.
5. Identificare e definire i vari sistemi che compongono il bosco. Anche se si
tratta di una suddivisione elementare, lo schema proposto riesce utile
soprattutto ai fini pratici: In un bosco sono rintracciabili sempre quattro strati: lo
strato arboreo, lo strato arbustivo, lo strato erbaceo e lo strato di campagna. Lo
strato arboreo comprende gli alberi di alto fusto. Gli altri tre, nel loro insieme
costituiscono quello che solitamente chiamiamo sottobosco. Nello strato erbaceo
si comprendono anche le felci. Lo strato di campagna comprende le epatiche,
muschi, macromiceti (funghi superiori), alghe e mixomiceti (che sono osservabili
solo al microscopio).
CRITERI DI LETTURA DEL BOSCO
Criterio orizzontale
Criterio verticale
Stratificazione temporale
Identificazione della specie
dominante in un orizzonte
Per un dato orizzonte
identificazione delle specie
che costituiscono i quattro
strati
Tenuto conto delle specie
dominanti
diversificare
l’aspetto stagionale
L’escursione si sviluppa nella fascia altitudinale compresa fra i 648 metri del
punto di partenza e i 968 metri del punto di arrivo. Si colloca quindi nella
zona basale e nell’orizzonte submontano a cui corrisponde la fascia delle
querce caducifoglie. In effetti l’ambiente è quello della boscaglia prealpina
caratterizzato da un clima relativamente caldo ed asciutto. Il livello climax è
quello del querceto e la associazione dominante è tipica del Quercion
pubescentis-petreae. La regione vegetazionale e climatica di appartenenza,
della quale la nostra zona in esame è senz'altro rappresentativa, è quella
insubrica: regione, questa, estesa all'insieme dei laghi lombardi più
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occidentali, che costituisce un insieme di paesaggi vegetazionali simili a quelli
mediterranei pur non avendo alcun legame con essi. E' un'area climatico
vegetazionale che pur avendo vari tratti comuni a quella del vicino lago di
Garda di netta impronta sub-mediterranea, se ne distingue per una maggior
piovosità media stagionale, per una maggiore frequenza delle precipitazioni,
per una temperatura media stagionale di un paio di gradi più bassa, con
conseguenti peculiarità sul piano vegetazionale
Il bosco che quindi ci accingiamo ad attraversare è un tipico querceto a foglie
caduche in cui l’elemento più rappresentativo è la Roverella (Quercus
pubescens), l’albero che meglio si adatta a colonizzare questi pendii poiché si
tratta di una pianta amante del clima ancora sufficientemente caldo e non
ancora prettamente alpino (pianta termofila) e le condizioni relativamente
asciutte (pianta xerofila). L’impressione è quella di una boscaglia digradata,
decadente, in cui gli alberi spesso hanno portamento cespuglioso grazie al
fatto che questi boschi hanno sempre costituito per l’Uomo una fonte di
legname e , in passato, di tannino da ricavare dalla corteccia. Il bosco quindi
non è alto e neppure folto. La Roverella è facilmente distinguibile dalle altre
querce per la lanugine che ne copre i teneri germogli, il picciolo e la pagina
inferiore delle foglie: per questo motivo la sua chioma ha un colore di un
verde più pallido rispetto alle sue consorelle (vedi scheda nella parte
speciale). Certamente dobbiamo chiederci se ci troviamo di fronte ad un
bosco originario o meno. L’azione antropica ha trasformato il querceto
originario in un bosco ceduo soggetto a taglio periodico. Tuttavia, in tempi
storici, il bosco doveva avere un aspetto completamente diverso, con querce
più maestose e anche imponenti, se è vero che un cronista del 1500 afferma
che nella zona del lago d’Iseo esistevano a quel tempo “densissimae silvae et
inexpugnabiles saltus”, piene di selvaggina, infestate da lupi e dove
trovavano sicuro rifugio gli abitanti durante le guerre.
Il bosco di Roverella consente alla luce solare di penetrare con una certa
intensità al proprio interno: l’impressione è quindi di una buona luminosità che
consente la crescita di una folla di arbusti ed alberelli.
Di seguito propongo un elenco sommario delle specie che si possono trovare
Nella associazione Quercion pubescentis:
il Nocciolo (Corylus avellana), i Cotognastri (Cotoneaster vulgaris e
Cotoneaster tomentosa), il Carpino nero (Ostrya carpinifolia), l’Avorniello
(Laburnus anagyroides), il Maggiociondolo delle Alpi (Laburnum alpinum), il
Pero corvino (Amelanchier ovalis), il Biancospino (Crataegus monogyna),
l’Orniello (Fraxinus ornus), il Ligustro (Ligustrum vulgare), il Viburno
(Viburnum lantana), l’Emero (Coronilla emerus), il Pungitopo (Ruscus
aculeatus). Intrecciano i loro fusti rampicanti il Tamaro (Tamus communis) e
l’Edera (Hedera elix). Tra le specie floristiche si segnalano l’Erba Trinità
(Hepatica nobilis), gli Ellebori (Helleborus niger e foetidus), la Consolida
(Symphytum tuberosum), la pervinca (Vinca minor), l’Euforbia (Euphorbia
amygdaloides), la polmonaria (Pulmonaria australis), il Dente di Cane
(Erythronium dens-canis), il Falso Bosso (Polygala chaemeboxus), la Scilla
(Scilla bifolia), le Primule e tanti altri (Vedi schede parte speciale)
Verso la parte finale della escursione, gli elementi del querceto si arrichiscono
di alcuni esemplari di castagno (Castanea sativa) che preludono ad un
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esteso castagneto del pendio orientale che ovviamente è da intendersi come
manipolazione antropica. In effetti il Castagno è una pianta tipicamente
meridionale, non originaria di queste zone, ma in tempi storici il suo utilizzo a
scopi alimentari ha fatto si che si propagasse anche nella cintura prealpina
laddove le condizioni climatiche ne permettono la crescita. Nell'orizzonte
submontano della zona basale quindi, il castagno può inserirsi a pieno titolo
accanto alla roverella, anzi, a volte a spese dei querceti. Pianta
moderatamente termofila, ha esigenze più elevate in termini di umidità in
quanto sopporta con difficoltà gli eccessi xerotermici a cui ben si adattano le
roverelle.
Alcuni Autori parlano di un vero e proprio livello climax del Castagno,
conferendo all’insieme la dignità di associazione. Si può dire che subentrando
e condividendo l’ambiente del querceto, il castagneto conservi gli stessi
elementi del sottobosco anche se un poco più impoveriti.
ROVERELLA
Divisione: Angiospermae
Classe: Dicotyledones
Ordine: Fagales
Famiglia: Fagaceae
Nome Scientifico: Quercus pubescens
Nome comune : Roverella
Fanerofita perenne, legnosa, a portamento arboreo; alcuni esemplari possono avere un
portamento di tipo cespuglioso. Ha fusto diritto, ramificato nel mezzo ed in alto. La corteccia
è di colore grigiastro più o meno intenso, rugosa con profonde incisure e costolature
longitudinali.
Le foglie sono caduche, semplici, di forma ovoidale-allungata, lobate con margini dei lobi
arrotondati. La parte basale della lamina è spiovente e stretta. Le foglie sono picciolate, sono
lunghe da 6 a 8 cm, alterne, con la pagina inferiore pubescente e tomentosa. Quest’ultima ha
un colore verde più pallido rispetto alla pagina superiore. Nelle foglie più vecchie i peli si
concentrano lungo le nervature. Anche i rametti sono pubescenti.
I fiori maschili sono riuniti in amenti lunghi anche 5 cm, quelli femminili sono singoli,
raggruppati alla ascella delle foglie, inseriti su un ramo o picciolati. La fioritura avviene ad
aprile e maggio. Il frutto è una ghianda allungata di circa 2-3 cm, dapprima verde poi color
nocciola tendente al bruno, sessile o appena picciolata, coperta da cupola con scaglie non
molto rilevate e pubescenti.
CASTAGNO
Divisione: Angiospermae
Classe: Dicotyledones
Ordine: Fagales
Famiglia: Fagaceae
Nome scientifico: Castanea sativa
Nome comune: Castagno
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Fanerofita perenne legnosa a portamento arboreo, originario delle regioni europee
meridionali. Il fusto è diritto, ramificato nella parte medio-alta; la chioma tende ad essere
irregolare per le esigenze di spazio e di luce. La corteccia è liscia, color nocciola, negli
individui giovani; è brunastra, intensamente solcata in senso longitudinale negli esemplari
adulti. Le foglie sono caduche, semplici, di forma lanceolata con margine seghettato ed
appuntito. La pagina superiore è di un verde più intenso rispetto alla inferiore, sono picciolate
e alterne. Fiorisce a giugno e luglio con fiori maschili riuniti in spighe di 10-20 cm che si
inseriscono alla ascella delle foglie mentre i fiori femminili sono raggruppati in numero di trequattro alla base delle infiorescenze maschili. Il frutto è rappresentato da una noce, detta
castagna, contenuta in una capsula spinosa, il riccio, che a maturità si apre per liberare la o
le castagne in esso contenute.
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PRINCIPALI SPECIE DI FIORI
RILEVATE DURANTE LA
ESCURSIONE
PARTE SISTEMATICA
Per procedere alla lettura di questa sezione è vivamente
consigliabile munirsi di un testo-atlante della flora di
pianura e di montagna. Può essere scelto uno qualsiasi
dei titoli elencati nella bibliografia. A mio avviso è molto
adatto, per la sua semplicità e per la maneggevolezza
delle chiavi di identificazione, il testo intitolato “CHE
FIORE E’” di Dietmar Aichele, edito da Rizzoli nel 1987
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GALANTHUS NIVALIS
SCHEDA
Spermatophita, Angiospermae
Classe: monocotiledones- ordine Liliiflorae – famiglia Amarillydacaee
Scapo con un solo fiore; foglie 2, lineari-piane, più o meno carenate, ottuse, larghe 4-15 mm,
glauche. Fiori a tepali interni brevi, smarginati, con macchia verde apicale, gli esterni più
lunghi, completamente bianchi oblungo-spatolati.
Fioritura primaverile con foglie che si sviluppano assieme ai fiori. Statura di 10-25 cm,
perenne, geofita.
Diffusione in tutta Italia e Sicilia (prati, pascoli, luoghi erbosi, selve e boschi).
Zona altitudinale: submontana e montana inferiore.
Periodo di fioritura: da febbraio a maggio.
Salendo ai Piani di Rest verso la cima Tombea in una giornata di fine febbraio
si può godere della fioritura precoce del bucaneve. Superato il bosco di faggi
secolari in lieve discesa e, lasciata sulla destra malga Alvezza, allorchè la
sconnessa mulattiera comincia ad impegnarsi sul pendio delle Grune, non si
può non notare, sulla destra per chi sale, un faggio bizzarro e maestoso, dalle
forme contorte, estremo baluardo ai confini di un ambiente più inospitale per
questa specie mesofila. Sotto la protezione dei suoi rami, che si abbassano
come braccia tese, sulla lettiera di foglie secche che lentamente si
trasformano in humus, è facile incontrare il Galanthus Nivalis, ovvero il
bucaneve, o, come si dice nel nostro dialetto, il fiur de nev.
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Non che si tratti di una pianta rara: il sottobosco delle prealpi bresciane lo
conosce bene; è più raro nell’acrocoro adamellino, praticamente assente nel
settore settentrionale del gruppo.
Quando in una domenica di febbraio mi imbattei in gruppi di candide corolle
che si ergevano dal letto di foglie secche, non potei non pensare all’eco della
ecloga virgiliana:
Tytire, tu patulae recubans sub tegmine fagi
Silvestrem tenui musam meditaris avena;
Nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
Nos patria fugimus; tu, Tytire, lentus in umbra
Formosam resonare doces Amaryllida silvas.
Non potevo non associare l’immagine del pastore Titiro che adagiato
all’ombra di un faggio intrattiene la bella Amarillide. Già nei versi virgiliani è
proposto il binomio faggio-bucaneve, considerato che il Galanthus appartiene
al genere Amaryllidacaee, con evidente riferimento alla ninfa delle selve. Il
nome Galanthus è di chiara discendenza greca evocando il biancore del latte.
Il bucaneve condivide con gli ellebori la precoce fioritura del sottobosco, ed è
facile incontrarlo in gruppi.
Anche se il calendario di marzo annuncia la fine dell’inverno, non vi è
rispondenza fra la data equinoziale e la tendenza meteorologica. In questo
periodo tutto tende, in natura, alla solarità, ma l’inverno cede lentamente. Nei
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boschi residuano le nevi di febbraio e ci si imbatte nell’incontro con questo
fiore a quote anche modeste, nelle selve di faggio e di castagno.
L’occhio viene subito richiamato dallo splendore di un aggregato di fiorellini
bianchi su uno sfondo di foglie secche e rami spogli: tale è l’ambiente del
Galanthus nivalis. Pianta perenne, monocotiledone, bulbosa, di altezza
variabile fra i 10-20 cm. Ha fiore unico, pendulo, formato da tre tepali esterni,
bianchi, concavi verso l’interno e tre tepali interni, bianchi, con smarginatura
inferiore. In corrispondenza di questa si nota una macchia verde o
giallognola. Le foglie hanno forma lingulare e crescono alla base di ciascun
fusto fiorifero alla cui sommità è presente una guaina che protegge il fiore
man mano che il fusto si fa strada nella neve. Cresce nelle foreste miste di
latifoglie (faggio e castagno), su terreni ricchi di humus ed umidi. Dalle Alpi
agli Appennini e ai Pirenei fin verso i 1200 metri.
Le macchie presenti sui tepali interni sono piccoli serbatoi di linfa e di
profumo e giocano un ruolo molto importante nell’orientamento degli insetti
impollinatori. Esse profumano molto più intensamente rispetto alle altre parti
del fiore. Quando l’insetto impollinatore si nutre, strofina sullo stimma il polline
che è rimasto adeso al suo corpo. Tra gli insetti impollinatori che si avvalgono
della precoce fioritura del bucaneve un cenno fra tutti merita il Bombus, le cui
regine, gravide e fecondate, sopravvissute al rigido inverno, devono
preoccuparsi di nutrirsi per rifondare una nuova colonia.
Il bulbo del bucaneve è interrato abbastanza profondamente per proteggersi
dai geli invernali e per poter dare avvio al proprio ciclo vegetativo
precocemente, allorchè i primi tepori si annunciano come avvisaglie della
prossima stagione.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO.
• La guaina membranacea che protegge il germoglio fiorale persiste alla
base del lungo peduncolo che porta il frutto.
• Il fusto non è appiattito ma cilindrico.
• Distinguere i tre tepali esterni da quelli interni.
• Notare sul margine di quelli interni la macchia giallo-verdognola.
• I tre bianchi tepali esterni sono grandi il doppio degli interni.
Osservando questi ultimi da un adatto punto di vista è possibile
sovrapporli visivamente al sottostante terzo tepalo esterno. In questo
modo il verde ovario che sta alla base dei tepali assume addirittura
l’aspetto del capo di un insetto dalle candide ali, certamente
sconosciuto a zoologi che non siano animati da fantasie botaniche.
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HELLEBORUS (ssp. Niger e Foetidus)
Durante la escursione di Santa Maria del Giogo abbiamo avuto occasione di
incontrare due rappresentanti del genere Helleborus: l’Helleborus niger e
l’Helleborus Foetidus di cui si riportano nella scheda seguente le
caratteristiche botaniche.
SCHEDA.
Spermatophyta, Angiospermae – classe Dicotyledones – ordine Ranales – famiglia
Ranuncolacaee – genere Helleborus.
Helleborus niger: fusto con foglie cauline verde pallido, intere, quindi diverse dalle foglie
basali persistenti e coriacee, divise in cinque-nove segmenti lanceolati; i fiori sono grandi,
bianchi o rosei con diametro di 30-90 mm. I segmenti delle foglie sono oblungo-cuneati,
verde cupi, seghettati verso l’apice. Pianta emicriptofita, perenne, diffusa in tutta Italia, dal
piano basale al piano montano. Fioritura da dicembre a marzo.
Helleborus foetidus: fiori di circa 20 mm di diametro verdicci, talora marginati di rossiccio,
penduli; foglie divise in 7-10 segmenti strettamente lanceolati, le cauline passanti a brattee,
prima digitate poi infine intere. Pianta verde scuro, fetida, persistente durante l’inverno.
Pianta camefita perenne diffusa nell’Europa occidentale, centrale e meridionale, in luoghi
selvosi, con fioritura da gennaio ad aprile, presente nel piano basale (collinare) e montano
inferiore.
Gli ellebori sono frequenti e fioriscono numerosi anche se isolati nei boschi
ancori spogli. Quando lo incontro nelle selve durante la stagione non ancora
propizia lo avverto come una presenza rassicurante e come una compagnia.
In questi momenti la sensazione della solitudine può vincerne il desiderio e
sopraggiunge un vago senso di smarrimento. Ecco allora che la presenza di
questo fiore, così appariscente, reca una nota di vita e mi ricorda che il
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bosco spoglio non è l’immagine della morte invernale ma che la vita continua.
In genere queste considerazioni mi rinfrancano e continuo nel mio girovagare.
Quando l’uomo è solo nella natura deve fare i conti con il proprio sentirsi
piccolo e con la propria transitorietà: il senso della perdita e della morte è
sempre presente più o meno consciamente ed è la forza del pensiero che lo
stimola e gli fa superare lo sconforto.
L’elleboro, immagine di vita, ha comunque un legame con la morte. Qualcuno
afferma che il suo nome significhi “cibo mortale”; altri sostiene che il nome
derivi dall’odore sgradevole che esso emana. Certo è che non è profumato:
ma attrae insetti impollinatori grazie alla sua virtù maleodorante e le sue foglie
schiacciate emanano un fetore intenso. E’ una pianta velenosa ed i principi
farmacologici in essa contenuti (vedi nota farmacologica) possono riuscire
mortali. Già Ippocrate aveva individuato nell’elleboro una pianta con proprietà
medicamentose e la proponeva per la cura della pazzia. Forse per noi
l’elleboro è più noto per la infiammazione delle mucose prodotta dalla polvere
derivata dal rizoma essicato. Tutti i bambini conoscono durante il Carnevale
la polvere che fa starnutire: pochi sanno che deriva dalla radice dell’elleboro.
Ho incontrato ellebori a non finire nei boschi alle pendici del monte Guglielmo
soprattutto nella zona compresa fra il Passo del Lividino e il Passo del
Sabbione; lungo le Scale dell’Ario; lungo il sentiero dei Ladroni tra il Passo
della Fobbiola e il Rifugio Pirlo allo Spino; nelle rade faggete miste alle
pendici del Tombea. Tutte le nostre prealpi ne sono ricche: cresce bene nei
boschi collinari e montani, su terreno calcareo e ricco di humus.
Il fatto di appartenere alla famiglia delle Ranuncolacaee ne spiega il
contenuto in sostanze velenose. Le foglie basali sono sempre verdi, oblunghe
cuneate e seghettate verso l’apice. Splendido il fiore dell’Elleboro Nero che gli
ha meritato l’appellativo di Rosa di Natale. Quest’ultimo è una emicriptofita
perenne, ovvero una pianta le cui gemme persistono in inverno al suolo,
protette dal terriccio, detriti, foglie morte o anche dalle foglie verdi basali
sopravviventi. Ha una statura di 20-40 cm e quando il fiore sfiorisce i petali
tendono ad assumere una sfumatura bruno verdastra. Le sue radici hanno un
colore nero e ne hanno valso l’appellativo.
L’Elleboro fetido invece è una camefita ovvero un piccolo arbusto con gemme
poste sopra al suolo. I suoi fiori sono penduli, campanulati, quasi racchiusi, e
la loro osservazione permette sempre di distinguere una delicata linea
rossastra che contorna il margine dei sepali. Il fiore infatti è formato dai sepali
mentre i petali sono trasformati in foglie nettarifere. Una denominazione
inusitata per l’elleboro fetido è “cavolo di lupo”.
I semi degli ellebori vengono propagati dalle lumache. Essi infatti presentano
lateralmente una cresta bianca da cui stilla una sostanza oleosa che attira le
lumache. Queste si nutrono della sostanza oleosa ma non del seme che,
attaccato al muco del corpo, viene trasportato al suolo.
Nel linguaggio poetico dei fiori l’Elleboro simboleggiava la calunnia ma
sinceramente non mi sento di conferire a questo fiore solo una connotazione
negativa. E’ oggetto di numerose leggende, quasi tutte dell’Europa
Settentrionale.
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NOTE E CURIOSITA’
Molte notizie sull’elleboro si trovano nella Historia Naturalis di Plinio il Vecchio. Qui la pianta
viene anche nominata con il termine di “melampodio” dal nome del pastore Melampo che offrì
il latte alle Pretidi risanandole dalla pazzia.
Plinio cita l’esistenza della varietà bianca e della nera affermando che gli animali si cibano di
quella bianca ed evitano la specie nera perché velenosa. Solamente quello nero è detto
melampodio di cui ne viene suggerito l’uso per farne suffumigi allo scopo di purificare gli
interni delle case. Recitando particolari e solenni preghiere il naturalista latino ne sottolinea
l’uso che se ne faceva per cospargere a scopo purificatorio il bestiame. La raccolta
dell’elleboro doveva avvenire secondo un rituale preciso: dapprima infatti bisognava tracciare
con la spada un solco attorno alla pianta; l’incaricato della raccolta doveva volgere lo sguardo
verso oriente, invocare il favore degli dei ed osservare eventualmente il volo di un’aquila:
quasi sempre infatti un’aquila si trova nei paraggi e se vola vicino è segno che colui che
raccoglie l’elleboro morirà entro un anno. L’elleboro bianco, prima di essere raccolto,
necessita che si mangi dell’aglio, si beva del vino subito dopo e lo si dissotterri rapidamente,
pena un forte appesantimento di testa. Secondo Plinio l’elleboro nero viene anche detto
“encimo” o “polirrizo”: l’autore ne descrive una azione purgativa mentre assegna alla variante
bianca l’azione emetica e quindi liberatoria dalle malattie. A detta di Carneade, citato da
Plinio, qualcuno lo userebbe per concentrarsi meglio.
Da queste poche note emerge la nozione che già gli antichi avevano delle proprietà
dell’elleboro. La pianta era in grado di procurare la morte e si poneva in diretta
comunicazione con il mondo degli inferi: la sua raccolta doveva avvenire con un rituale
magico diretto ad ingraziarsi il favore degli dei. Il tutto veniva vissuto come un furto alla
Madre Terra donde la necessità di agire rapidamente. Il mito delle Pretidi guarite dal latte
delle capre che avevano brucato l’elleboro trova conferma nell’uso terapeutico proposto da
Ippocrate.
Ancora nel medioevo l’elleboro veniva usato per preparare infusi per purgare i bambini e
spesso si avevano problemi che potevano anche culminare con la morte del soggetto se la
dose somministrata era eccessiva.
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L’elleboro viene citato anche da Catone il Censore nel suo trattato De Agricoltura e Virgilio, in
Geogiche III, 440-451 lo cita tra i rimedi della scabbia delle pecore unitamente alla scilla:
“idaeque pices et pingui unguine ceras
scillamque elleborosque gravis nigrum bitumen”
NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA
L’elleboro contiene specialmente nella radice sostanze di natura glucosidica: elleboreina ed
ellebrina. L’ellebrina ha una azione simile alla K-strofantina. L’elleboreina invece possiede
l’azione tipica della digitale. E’ contenuta inoltre anche l’elleborina, che ha azione drastica,
emetica e caustica e, a forti dosi, anche anestetica. Queste sostanze si trovano tutte anche
nell’Helleborus viridis e nel foetidus. La pianta ha grande velenosità e non è attualmente
indicata a scopo medicinale in quanto i principi attivi vengono assorbiti in modo
estremamente irregolare e non sono indicati per l’uso parenterale.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO
• Il fiore, globoso e verdognolo, ha
spesso un bordo rossastro.
• Il nettario è lungo circa la metà
degli stami: ciascun fiore ne ha
da 5 a 10.
• I frutti (follicoli) a maturità si
fendono per liberare i semi.
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ERYTHRONIUM DENS CANIS
Particolarmente abbondante soprattutto nei prati adiacenti il santuario e lungo
tutto il percorso di ritorno.
SCHEDA
Spermatophyta, Angiospermae – classe Monocotyledones – ordine Liliiflorae – famiglia
Liliacee – genere Erythronium.
Erythronium dens canis (dente di Cane)
Fiore pendente con perigonio lungo all’incirca 30 mm roseo o rosso violaceo, con tepali
ricurvi verso l’alto. Le foglie, in numero di due, sono lanceolato ellittiche, fortemente
macchiettate di bruno rossastro.
Geofita perenne con statura di 10-30 cm tipica del piano submontano, collinare con querceti,
castagneti e aree disalberate. Fiorisce da marzo ad aprile.
“Sbucammo in una radura del bosco, dove il suolo era ricoperto di bianchi fiori di
eritronio. Un momento magico, una suggestione indescrivibile. Ma forse era soltanto
un incantesimo d’amore”
Paolo Mantegazza
Il fiore del l’Erythronium dens-canis è bellissimo. Colpiscono i petali
bianchissimi, a volte quasi color d’avorio, a volte invece tenuamente rosati,
lunghi e con estremità aguzza tanto da ricordare i canini del fedele amico
dell’uomo. Il primo incontro con questo fiore mi colpì, soprattutto per la
stranezza della forma, una volta che mi aggiravo lungo le pendici del
famigliare monte Guglielmo, in prossimità del passo del Lividino, appena
prima che la mulattiera proveniente da Cimmo (la famosa “Nistola”) tagli il
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sentiero per dirigersi verso la Casa delle Due Signore. Era marzo e il periodo
tradiva la precoce fioritura di questa specie, pronta, accanto ai crochi, alle
scille e alle primule a sfidare le nevi primaverili. Stranezza per stranezza non
fui l’unico ad esserne colpito. Qualche anno fa, mentre ero intento nel mio
lavoro, si presentò un ragazzo con un piccolo sacchetto che custodiva con
particolare riguardo, quasi contenesse un segreto mistero. Voleva sapere in
che strano fiore si fosse imbattuto il giorno prima mentre gironzolava per le
campagne ondulate di quell’avamposto morenico che è il monte di Capriano.
Lo aveva raccolto intero, pazientemente scalzato con la lama di un coltellino,
con foglie ed apparato radicale: non era altro che l’Erythronium dens canis,
nella sua posizione più avanzata, testimone di un relitto glaciale confinato
nella bassa pianura bresciana. Lo spiegai con cura, facendo notare le belle
foglie lanceolate, macchiettate, che talvolta i neofiti scambiano, quando la
fioritura non è in corso, per l’apparato fogliare dell’orchidea maculata.
Trovare questo fiore in pianura ci suggerisce anche che trattasi del relitto
dell’antica foresta di querce che doveva coprire la nostra terra. Esso infatti
cresce bene nelle radure tra i querceti e i castagneti, trovando in esse
l’optimum ambientale per la sua crescita.
I francesi lo hanno soprannominato Violette dent du chen, gli inglesi Dog’s
tooth Violet, i tedeschi Hundzahn veilchen; nel vernacolo bresciano è note
con il nome di erba serpentaria.
Il suo nome latino deriva dal greco erythros che significa rosso anche se in
realtà il richiamo a questo colore è soprattutto nelle sfumature rosate a cui ho
accennato. Plinio il Vecchio attribuisce a Mitridate la scoperta di un erba che
pare possa identificarsi con l’Eritronio.
E’ una pianta spontanea in tutta Europa, in qualche zona dell’Asia
settentrionale e in Giappone. Ne esiste una varietà sibiricum che vive solo in
Siberia, sui monti dell’Altai. Questo fa supporre una identità di clima e di
ambiente fra quella lontana terra e le nostre valli e conferma il prodigioso
meccanismo ecologico che determina la formazione delle “nicchie” in cui ogni
specie trova la situazione ideale per vivere e riprodursi secondo leggi
immutabili. A parte queste considerazioni, importantissime quando si voglia
intendere il vero linguaggio della natura e non limitarsi ad un semplice
atteggiamento ammirativo delle sue bellezze, vediamo che i pregi
dell’Eritronio investono anche il fogliame. Le foglie hanno strane maculature
bruno-rossastre , irregolari, che risultano piacevolmente sulla superficie
grigio-verde. Anticamente vi erano “esperti” che credevano di potervi leggere
auspici per il futuro. Le foglie sono due, hanno forma ovoidale e sono di tipo
basale, ossia il loro picciolo nasce dal terreno, anzi dal bulbo che ha forma
conica cilindrica. In Giappone si estrae dal bulbo un amido assai pregiato che
trova impiego nella fabbricazione di paste alimentari. In Mongolia e in qualche
altra regione asiatica le foglie di questa pianta sono considerate una risorsa
preziosa e vengono utilizzate come ortaggi, a guisa di spinaci.
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SCILLA BIFOLIA
SCHEDA
Spermatophytae, Angiospermae – classe Monocotyledones – Ordine Liliiflorae – Famiglia
Liliaceae - Genere Scilla
Scilla bifolia
In genere possiede due sole foglie ottuse e concave all’apice, larghe 5-12 mm abbraccianti lo
scapo fino a metà e più o meno lunghe come lo scapo che è solitario e cilindrico. Fiori azzurri
o rosei. Statuta di 10-25 cm, geofita perenne, fiorisce nel piano submontano, nel piano
montano inferiore e montano superiore, spesso in associazione a faggete. Fioritura da marzo
a maggio.
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CROCUS
SCHEDA
Spermatophyta, Angiospermae – claase Monocotyledones – Ordine Liliiflorae – famiglia
Iridaceae – Genere Crocus
Crocus biflorus
Pianta a fioritura primaverile con bulbo con tuniche cartacee staccantesi circolarmente; foglia
larga 1-3 mm che si sviluppa successivamente ai fiori con linea longitudinale bianca nel solco
mediano. Fiori in genera 1-3 a fauce giallo dorata e con tepali bislunghi, ottusi, violetto pallidi
o bianchicci e con linee violette scure esternamente.
Statura di 5-15 cm, geofita perenne e con predilezione per luoghi erbosi; fioritura precoce da
marzo ad aprile dal piano submontano alla fascia montana superiore.
Crocus albiflorus (più frequente nei riscontri della escursione in oggetto): ha fiori violetti o
bianchi, stami in genere più lunghi del pistillo. Predilige i piani montano inferiore e
submontano: raramente si riscontra nelle fasce cacuminali
Allo scioglimento delle nevi, quando alcune chiazze residuano sulle praterie e
sui prati alpini che ancora non hanno acquistato la verde tonalità della
primavera avanzata, la fioritura dei crochi è esplosiva tanto da simulare un
bianco tappeto di fiori. A un occhio attento tuttavia non sfugge la presenza di
una minuta popolazione di crochi violetti che si confondono nel biancore dei
confratelli. A volte, come nel nostro caso sul prato che precede l’accesso a
Santa Maria del Giogo, i crochi compaiono misti a scille, denti di cane e
primule in una fantasmagoria di colori difficilmente riproducibile.
Fin dai tempi più antichi il crocus è stato simbolo di vita, di giovinezza e
bellezza. I Romani lo coltivavano sulle tombe intendendolo non come
emblema di morte ma come buon auspicio per vita ultraterrena.
Il crocus era soprattutto il fiore degli sposi: dei suoi stami profumati si usava
spargere i letti matrimoniali.
Teofrasto da Efeso gli diede il nome croche che significa “filo” alludendo ai
lunghi stimmi filamentosi che caratterizzano la pianta.
Questa iridacea ha petali la cui lunghezza è quintupla della larghezza e i fiori
spuntano prima delle foglie. Le piante a fiori violetti sono molto più rare di
quelle a fiori bianchi che rappresentano circa il 97% del totale. Questa
percentuale però può variare nello stesso luogo di anno in anno. Trattasi di
una monocotiledone perenne e protetta.
Nel dialetto bresciano è nota con vari appellativi: safrà salvadegh, maigole,
camporécc. La prima dizione ci richiama un suo parente, il crocus sativum,
volgarmente detto zafferano, di cui è noto l’impiego culinario
TRADIZIONI E CURIOSITA’
Una leggenda del medioevo tedesco che ricordo di aver ascoltato da bambino, narra di una
madre a cui una malattia ha rapito il piccolo e unico figliolo. La madre non si rassegna alla
perdita e si mette alla ricerca del bimbo poiché sa che la Morte ha dimora in una landa
perduta e irraggiungibile dove tiene una grande serra. Qui le persone defunte vivono
sottoforma di piante che Ella coltiva. Dopo lunghissimo peregrinare e dopo aver superato
enormi difficoltà, la madre giunge nella serra. La Morte è assente poiché impegnata a
girovagare in cerca di nuove anime da rapire e trapiantare. La Madre comincia la sua ricerca
ma quale pianta sarà il suo bimbo? Ella si avvicina ad una ad una e l’amore di mamma le
permette di riconoscere in un umilissimo fiorellino di croco il battito del cuore del suo
bambino. Lo vorrebbe portare via, ma la Morte, nel frattempo sopraggiunta le sbarra il passo:
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La Madre implora di ritornare la vita al piccolo, ma la Morte è inflessibile perché il tutto
risponde al disegno di Dio del quale ella esegue gli ordini. Le lacrime della mamma e la
consapevolezza delle peripezie trascorse per giungere in quel luogo la inducono a concedere
che porti con sé il vasetto di crocus affinché ne possa aver cura fino alla fine dei suoi giorni.
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VIOLA ODORATA
SCHEDA
Spermatophyta, Angiospermae – classe Dycotiledones – ordine Violales – famiglia Violaceae
- genere Viola.
Viola odorata (viola mammola).
Fiore con 5 petali di cui due rivolti in alto, altri due lateralmente verso il basso e un petalo
decisamente rivolto verso il basso. Provvista di stipole ovate o largamente lanceolate, acute,
intere o quasi o con brevi frange glabre assai più brevi della larghezza delle stipole; foglie
cuoriformi rotondeggianti, ottuse, a picciolo lungo, con la maggior larghezza verso la metà;
stoloni presenti tutti epigei, radicanti e lunghi.
Statura di 5-15 cm, emicriptofita perenne con fioritura da febbraio a maggio e diffusa dal
piano litoraneo alla fascia montana inferiore.
Anche nella nostra pianura la fioritura delle prime violette, per quanto
precoce, ci annuncia che la stagione invernale sta per trascorrere e ci
prepara ai miti tepori primaverili. La sua ampia distribuzione ci consente di
reperire questo fiore anche nella zona collinare. Il fiore della Viola odorata è
di colore viola scuro e con simmetria bilaterale dal momento che i petali si
distribuiscono rispettivamente due verso l'alto e tre verso il basso. Le sue
foglie sono tutte basali, pelose, cordate e lievemente sfrangiate. E’ una pianta
stolonifera, ovvero possiede ramificazioni striscianti al suolo, partenti dalla
base del fusto, da cui originano radici e germogli. L’allungamento annuo
indotto dai rizomi stoloniferi raggiunge anche i dieci centimetri; da essi
originano cespi che diverranno fioriferi l'anno successivo.
Un cenno particolare merita la riproduzione di questa pianta: certamente è
importante la impollinazione promossa dagli insetti che sono attratti dal
nettare posto al fondo dello sperone. Se per qualche ragione, anche
meteorologica, gli insetti pronubi dovessero scarseggiare, la viola odorata
spesso forma più tardi dei fiori di forma diversa, decisamente rudimentali
(provvisti di stami, antere, polline, stigma ed ovario). La autofecondazione è il
solo modo con cui essi producono semi. Si tratta di fiori che non si aprono
mai, cosiddetti “cleistogami” (in greco = nozze al chiuso): il polline germina
già all’interno delle antere e raggiunge facilmente lo stigma vicino per
fecondare l’ovario.
I semi, contenuti nella capsula, sono tondeggianti e provvisti di una
appendice carnosa ricca di un olio, lo strofiolo, particolarmente ricercato dalle
formiche. Queste ultime contribuiscono alla disseminazione.
Cresce su terreni ricchi di elementi nutritivi leggermente azotati.
Presso i Greci la viola godeva di una simbologia ambivalente: era
considerata fiore dei morti e anche simbolo di Afrodite tanto che venne eletta
a simbolo della città di Atene.
La viola odorata è molto citata da Shakespeare che la definisce precoce
perché fiorisce presto ed annuncia l’approssimarsi dell’estate:
“Quanto ad Amleto, e a questo scherzo del suo favor,
Tenetelo per una galanteria e un capriccio del sangue.
Una violetta nella giovinezza della natura primaverile,
Precoce, non permanente, dolce, non duratura,
Il profumo e il sollazzo di un istante;
Non più”.
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NOTE E CURIOSITA’
In greco antico il termine per indicare la viola è υον (pron. “ion”). Questo fiore è molto citato
nella letteratura greca antica, sia scientifica che propriamente letteraria. Teofrasto la
chiamava viola oscura, Dioscoride invece la indicava come viola purpurea. Omero nel canto
V dell’Odissea ne adorna i luoghi abitati dalla bella Calipso (Odissea V, 72-73).
“αµϕι
αµϕι δε λειµωνε∫
λειµωνε∫ µαλακοι ιον ηδε σελινου θηλεον”
θηλεον
“Intorno molli prati di viole e di sedano erano in fiore”
E’ uno dei fiori che Persefone raccoglieva quando fu rapita da Ades.
Gli ateniesi amavano moltissimo questo fiore e non vi era simulacro di Zeus che non ne fosse
adorno. Secondo Aristofane essi inorgoglivano nel sentirsi chiamare “inghirlandati di viole”.
Se ne usavano quantità enormi per adornare le mense poiché si riteneva che avessero il
potere di allontanare la ubriachezza. Si spargevano sulle tombe dei bambini quale simbolo di
purezza e di modestia.
Alla viola, pronunciata alla maniera greca, υον,
υον è legato il mito della ninfa Io.
Io era la figlia del fiume Inaco. Zeus si innamorò di lei suscitando la gelosia di Era. Zeus
allora trasformò Io in una vacca bianca per ingannare Era che tuttavia si impadronì di Io
affidandone la custodia ad Argo, mitico mostro dalle cento teste. Ermes, per incarico di Zeus,
rubò la vacca Io ad Argo, inviandole un tafano che, pungendola la fece fuggire. Poi ne
cambiò ripetutamente il colore affinché non venisse riconosciuta. Zeus allora creò le viole
perché Io gustasse questo delicato foraggio.
Ovviamente il mito, come tutti i miti, va interpretato metaforicamente. Gli Argivi veneravano la
Luna come vacca perché dal cornuto primo quarto di Luna dipendevano le piogge e quindi
l’abbondanza dell’erba da pascolo. I suoi tre colori, bianco per il primo quarto, rosso per la
luna piena, nero per la luna calante, rappresentavano le tre età della dea Luna: fanciulla,
ninfa, vegliarda.
Nel mito “Io” mutò il suo colore dal bianco, al violetto e al nero: ella rappresentava la luna
propiziatrice della pioggia sospirata soprattutto alla fine dell’estate. Si supponeva anche che i
picchi attirassero la pioggia battendo con i becchi contro il tronco delle querce. Le
sacerdotesse argive della ninfa praticavano una danza della giovenca annualmente durante
la quale simulavano di essere tormentate da tafani mentre uomini travestiti da picchi
bussavano agli usci di quercia e chiamavano “υον!!,
υον!!, υον!!”
υον!! impetrando la pioggia.
Nella Francia pre-rivoluzionaria le viole erano divenute una mania. Nel XVIII secolo
l’ammiratore di una attrice non si occupò di null’altro per tutta la vita che della coltivazione di
questo fiore di cui, per trenta anni, portò quotidianamente un mazzolino fresco e profumato
all’amata. Lei ne fece buon uso e ogni sera con le corolle ne faceva un infuso.
La viola divenne simbolo di Napoleone (in realtà era il fiore preferito di Maria Luigia d’Austria
che ne divenne moglie) e la città di Parma ne fece la sua insegna.
NOTE DI ETNOBOTANICA E BOTANICA FARMACEUTICA
Secondo Plinio il Vecchio le viole color porpora sono rinfrescanti; si applicano sullo stomaco
in caso di bruciori e sulla fronte quando si ha la testa che scotta. Sono indicate quando si
hanno lacrimazioni, prolasso dell’ano, dell’utero o nelle suppurazioni. Portare in capo
ghirlande di viole o aspirarne il profumo è rimedio contro la ubriachezza e la pesantezza di
testa. La parte purpurea del fiore, bevuta in acqua, è rimedio contro l'epilessia dei bambini. I
semi invece combattono le punture degli scorpioni. Sia la viola bianca che quella gialla
riducono il flusso mestruale e hanno effetto diuretico.
Ovviamente questi sono principi dettati dalle conoscenze del tempo fondate su nozioni di
omeopatia e medicina simpatica che attualmente non hanno alcun fondamento.
Il fiore della viola contiene acido salicilico, olio essenziale, mucilllagini, tannini, violina, violaquercitina, irone, pigmenti antocianici e zuccheri. Nelle foglie sono presenti tannini e
saponine; nei rizomi alcaloidi e saponosidi. La tintura ottenuta dai petali può venire impiegata
empiricamente come reattivo chimico per la stima della acidità di una soluzione: diviene
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rossa per pH acido e verde per pH basico). La mammola era ricercata nelle profumerie per
l’estratto “violetta di Parma” preparato con il metodo vetusto dell’enflourage: da un quintale di
fiori freschi si ottenevano 50 grammi di essenza.
La viola contiene anche ionina, una sostanza che agisce transitoriamente sul sistema
olfattivo paralizzandone i recettori e determinando una minore sensibilità olfattiva per qualche
momento. L’antico uso di arricchire le cucine delle mense con viole per neutralizzare gli odori
in realtà era basato sulla funzione della ionina che neutralizzava la capacità di avvertire odori.
♦ CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO.
La Viola odorata ha fiori di colore bluastro o bianco; lo sperone è lilla o
viola pallido.
Il frutto è una capsula pelosa arrotondata che cade ancora chiusa sul
terreno
Le foglie cuoriformi formano una rosetta basale dalla quale nascono i fiori
lungamente peduncolati.
Alla base di ciascun picciolo fogliare ci sono due stipole somiglianti a
foglie, frangiate con peli, che hanno una ghiandola sulla cima.
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ANEMONE NEMOROSA
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Ranuncolaceae –
genere Anemone.
ANEMONE NEMOROSA
Pianta con fiori bianchi o rosei e di rado violacei. Sepali petaloidei in genere in numero di sei,
glabri sopra e sotto; foglie a 3-5 segmenti inciso dentati e quelle dell’involucro sotto i fiori a
lungo picciolo. Rizoma strisciante, fiori non lanosi.
Statura di 10-25 cm, geofita perenne, diffusa nel’Italia settentrionale e centrale; cresce in
boschi e luoghi erbosi con fioritura da marzo a giugno soprattutto nella fascia submontana e
montana inferiore, raramente in quella planiziale (pianura padana in zone un tempo habitat di
querceti).
Nel mese di aprile succede spesso di imbattersi nella fioritura di questa
ranuncolacea, nota anche con il nome di anemone silvia. Lungo il percorso
effettuato è stato rilevato in abbondanza soprattutto nel sentiero di ritorno,
nelle zone ombreggiate e più fresche. Cresce anche nella nostra pianura,
lungo le rive dei fossi e se bisogna dare credito a quanto accennato nella
scheda, è l’ultima traccia del vecchio querceto padano che doveva ricoprire le
nostre terre ancora in epoca storica. Nella campagna manerbiese lo incontrai
per le prima volta lungo una scarpata che doveva essere un antica sponda
del Mella in prossimità della zona della Selva (anche questo toponimo indica
la presenza di querceti storici) in una primavera precoce di qualche anno fa
con i rami degli alberi ancora spogli. Fiorisce precocemente in quanto utilizza
la abbondanza di luce non ancora filtrata dalle foglie degli alberi. Lo si può
comodamente rinvenire da febbraio a maggio sia in pianura che nell’ambiente
collinare. E’ un fiore dall’aspetto delicato come del resto lo è il suo nome che
evoca la delicatezza di soffi e brezze in ambienti boschivi. Particolarmente
suggestivo è l’aggettivo che lo qualifica “nemorosa” che racchiude un non so
che di misterico. Deriva dal latino “nemus “ che nella lingua classica significa
bosco. E’ uno di quei termini che sottolineano la povertà del nostro lessico nei
confronti della lingua madre. I latini avevano tre vocaboli per indicare il bosco:
il nemus, il lucus e la silva. Il nemus è propriamente il bosco sacro, quello
rituale, in cui venivano consumate cerimonie in onore di divinità antiche e che
soprattutto emerge dalla lettura degli Autori dell’età repubblicana (Tito Livio in
prima fila). Spesso il nemus era un boschetto di querce poiché quest’albero
era ritenuto particolarmente sacro. Non è il caso per affrontare una
digressione sul culto della quercia, argomentazioni che comunque mi sono
care; basti solamente citare questo filo conduttore che attraverso il bosco
sacro di querce ci riconduce al nostro fiorellino quasi che la religione ed il
mito diano contributo alla biologia nella associazione vegetale fra anemone
(tuttora presente) e querce (ahimè da noi ormai scomparse). Ma se in questa
giornata di escursione il nostro occhio è stato attento e soprattutto abbiamo
posto mente alle varie osservazioni, non possiamo dimenticare che il
percorso di andata si è sviluppato tutto in un bosco di roverelle che altro non
sono che una specie di quercia.
Quando il cielo è nuvoloso e quando è notte i fiori si richiudono piegandosi
verso il basso. Talvolta si può scoprire tra gli anemoni uno o più piccoli
funghetti a forma di coppa peduncolata, di colore bruno: si tratta della
Sclerotinia tuberosa, uno dei tanti esempi di simbiosi del regno vegetale. I
semi vengono raccolti e disseminati dalle formiche.
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Come tutte le ranuncolaceae anche l’A. nemorosa contiene sostanze tossiche
tra cui la anemonina e la protoanemonina.
Ai sensi della legge regionale n. 33 del 27.07.1977 tutte le specie di
Anemone risultano protette e ne è permessa la raccolta massima di sei steli
(senza estirpazione di radici, bulbi o tuberi) per persona al giorno.
NOTE E CURIOSITA’
Anemone era una ninfa della dea Chloris. Zefiro e Borea si invaghirono di lei e Chloris
indispettita decise di punirla tramutandola in un fiore: l’anemone, la cui corolla ancora oggi si
schiude precocemente per subire le violente carezze di Borea, ovvero la tramontana, che
disperde nell’aria ancora frizzante i sui fragili petali. Quando Zefiro spira, annunciando i tepori
primaverili, l’anemone è ormai avvizzito.
Il poeta inglese S.T.Coleridge (1772-1834) ha dedicato alcuni versi all’anemone nel suo
componimento intitolato “Osservando un fiore il primo febbraio 1796”:
Dolce fiore! Che fai capolino dal tuo stelo rossiccio
E timido ti schiudi (perché – è strano –
Questo mese che batte i denti, buio, intabarrato e rauco
La voce di Zefiro ha rubato e con voluttuoso
Occhio azzurro ti ha fissato), ahimè, povero fiore!
Gli anemoni sono sempre stati noti come fiori del vento, poiché gli antichi greci credevano
che essi schiudessero i petali solo quando soffiava il vento. Il termine ανεµο∫ infatti significa
soffio (donde il latino anima) e data la sua vita effimera simbolizza la fragilità e l’abbandono.
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Altro nome, usato un tempo dai contadini , è Cappucci della Candelora, perché il due
febbraio sono solitamente già fioriti.
Un’altra leggenda narra che quando Afrodite piangeva per la morte di Adone nella foresta,
dove cadevano le sue lacrime spuntavano Anemoni.
In Palestina si pensava che l’anemone fosse cresciuto sotto la croce di Gesù. Credenze
popolari sull’anemone esistevano in Europa, Egitto ed in Medio Oriente, dove erano ritenuti
portatori di malattie. Plinio il Vecchio invece narra che i Magi raccomandavano di raccogliere
il primo anemone dell’anno e di legarselo intorno al collo in un sacchetto di tela rossa per
scongiurare febbri e malefici.
HEPATICA NOBILIS (ERBA TRINITA’)
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Ranuncolaceae –
genere Hepatica
HEPATICA NOBILIS (Anemone hepatica).
Fiori blu o raramente rosei o bianchi; foglie del caule verticillate a 3, vicine al fiore e simulanti
un calice; foglie radicali trilobate a contorno triangolare e lobi ottusi, talora macchiate di
chiaro. Statura di 10-15 cm, emicriptofita perenne (pianta con gemme persistenti durante
l’inverno situate a livello del suolo, ivi protette da terriccio, detriti, foglie morte e talora anche
dalle foglie basali sopravviventi almeno in parte); comune nei boschi nei luoghi selvatici, dal
piano submontano al montano inferiore e raramente negli ambienti di pianura, con fioritura da
febbraio a maggio.
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PERVINCA
“So perché sempre ad un pensier di cielo
misterioso il tuo pensier s’avvinca,
si come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca”.
G.Pascoli
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Apocynaceae – genere
Vinca.
VINCA MINOR e VINCA MAJOR (Pervinca). Erbe a fiori con corolla ipocrateriforme di 30-60
mm di diametro, con colore azzurro-violaceo. La V. minor ha fiori a peduncoli uguali o più
lunghi delle foglie; calici a lacinie di 4-5 mm, più brevi del tubo corollare; corolle di 20-30 mm
di diametro a lobi obliquamente troncati all’apice; foglie ovato lanceolate ristrette alla base e
glabre al margine.
La V. major si distingue per avere corolle con diametro più grande, calice a lacinie lunghe
come il tubo corollare, foglie cigliate al margine
La statura varia da 10 a 50 cm (V. minor = 10-30 cm; V. major 20-50 cm). Entrambe sono
emicriptofite perenni, comuni in siepi, boschi e luoghi selvatici; fioritura da marzo a maggio
nelle fasce litoranea, planiziaria, submontana e montana inferiore.
Per quanto le Flore la diano come rara nella zona planiziaria, più volte mi
sono imbattuto nei fiori di pervinca nella nostra pianura, lungo le prode dei
fossi, meglio se ombrose, con il terreno umido, magari ancora ricoperto dalle
foglie secche dell’autunno precedente. Ricordo una abbondanza particolare
lungo la sponda destra della Savarona, in quel di Padernello, a sud del
castello, mischiata ad una poderosa fioritura di campanellini di primavera.
Certo la pervinca è una pianta umile, nel senso che richiede humus. Colpisce
questa sua tenacia nello stare attaccata alla terra, strisciante, nella capacità
di mettere radici nei nodi, scomparire per poi riemergere 10-20 cm più in là,
dal letto di detriti, per dar esito a cespi di fiori azzurrati. Il suo colore non è
costante. Plinio il Vecchio, che già riconosceva alcune di queste
caratteristiche (“in modum liniae foliis geniculatum circundata”) la
definisce anche herba topiaria, adatta cioè ad essere usata a scopo
ornamentale nei giardini; la chiama anche camedafne, ricalcando il nome
greco dato da Dioscoride per la somiglianza alle foglie dell’alloro.
Anche se siamo abituati a parlare di “color pervinca”, osserveremo pervinche
azzurre, violette, azzurro esangue fino ad esemplari francamente bianchi.
Anche quella troncatura obliqua dell’apice dei lobi delle corolle colpisce
poiché allo sguardo suggerisce una certa sensazione di movimento e
richiamano la forma della girandola che un tempo si trovava nelle fiere di
paese.
In letteratura è considerata il simbolo della amicizia e delle fedeltà. Per i belgi
ha costituito per molto tempo il simbolo della verginità: nelle zone rurali si
usava spargerne davanti agli sposi (convinzione della verginità della sposa o
augurio di reciproca fedeltà della coppia?). Vero è che nel secolo XVII gli
erboristi la consigliavano per accrescere la fertilità. Uno di essi, infatti,
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scrisse: ”Questa erba appartiene a Venere, e si dice che le foglie mangiate
dall’uomo e dalla sua sposa insieme provocheranno amore fra loro”.
Gli antichi intrecciavano corone di pervinche per i morti, scorgendo nella sua
rusticità e nel suo essere sempre verde un simbolo del ricordo tenace.
Il legame con la fertilità , nato alla constatazione della tenacia della pianta, ha
indotto a considerarla anche come simbolo di immortalità. Nell’Inghilterra
medioevale corone di pervinche venivano appese al collo dei condannati a
morte. Questo richiamo al mondo della morte emerge anche dal dialettale
bresciano “fiur de mort” con il quale si indica la pervinca.
I Celti ritenevano che fosse sacra per gli stregoni, tanto è vero che anche
oggi, in alcune zone della Francia e dell’Inghilterra viene appellata violettes des
sorcières.
Appartiene alla famiglia delle apocinacee (dal greco antico απο κυων =
contro il cane) poiché il medico greco Dioscoride le riteneva velenose per i
cani.
Uno scrittore inglese del XVII secolo attribuiva alla pervinca “una eccellente
virtù di fermare il sangue dal naso dei cristiani, se ne facevano una ghirlanda e se
l’appendevano al collo”.
Il suo nome deriverebbe dall’antico slavo “pervinka” con il termine “pervi”
che significa “primo”, riferito alla precoce fioritura del fiore.
Era il fiore preferito da J.J.Rousseau e la città di Ginevra ne ha fatto il suo
emblema.
NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA
L’appartenenza alla famiglia delle apocinaceae ci rivela che la pervinca produce sostanze di
natura velenosa o comunque dotate di azione farmacologica. Diversamente da altre
apocinaceae produttrici di forti sostanze talvolta usate anche nella farmacologia umana (per
esempio vincristina e vinblastina prodotte dal Catharanthus roseus o lo strofanto prodotto
dallo Strophantus kombe), la pervinca produce vincamina, una sostanza usata come
“miglioratore della circolazione” con impiego soprattutto in oftalmologia.
A titolo di completezza ricordo altre apocinaceae illustri accennando tra parentesi alla
sostanza più nota da esse prodotta: Rauwolfia serpentina (reserpina), il Nerium oleander
ovvero il comune oleandro (oleandrina che ha azione digitalica)
NOTE E CURIOSITA’
Plinio il Vecchio riferisce dell’uso della vinca come diuretico. Egli infatti afferma che
somministrata in acqua dopo averla seccata e pestata, nella quantità di un cucchiaio, fa
eliminare l’acqua ai sofferenti di idropisia (arida tusa hydropicis datur in aqua cocleari
mensura, celerrimeque reddunt aqua). Altri impieghi riferiti dal naturalista latino sono:
1) Come antiedemigeno nelle tumefazioni ,cotta nella cenere e aspersa di vino (“decocta in
cinere sparsa vino tumores siccat).
2) Come medicamento per le orecchie usandone il succo (auribus suco medetur).
3) Come lentivo dei disturbi intestinali per applicazione diretta (alvi vitiis inposita plurimum
prodesse dicitur).
La Vinca minor è compresa nel novero delle 16 erbe magiche segnalate da Alberto Magno
nel suo De Vegetabilis.
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ROSA CANINA
“Rosa di macchia, che dall’irta rama
ridi non vista a quella montanina,
che stornellando passa e che ti chiama
rosa canina”
G.Pascoli
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Rosaceae – genere
Rosa.
ROSA CANINA (Rosa Selvatica)
Fiori con petali rosei o bianchi, lunghi 15-30 mm, pedicelli lunghi 10-20 mm, come il frutto o
più, glabri; foglioline glabre e senza ghiandole; aculei bene adunchi, sepali riflessi.
Statura 90-270 cm. Fanerofita (arbusto con gemme persistenti durante l’inverno ad altezza
non inferiore ai 50 cm). Diffusa nelle macchie, siepi, boschi e luoghi selvatici dalla fascia
litoranea fino al piano montano inferiore con fioritura in maggio e luglio.
Laddove la mulattiera per Santa Maria del Giogo tende a divallare, in
corrispondenza di uno slargo con santella, si stacca sulla sinistra un sentiero
rubato alla roccia con duro lavoro manuale. Pochi metri avanti lungo questo
sentiero, che abbiamo seguito per raggiungere il giogo di Santa Maria, sulla
sinistra c’è un bell’arbusto di Rosa canina. L’osservazione ci suggerisce
subito che trattasi di una pianta legnosa con fusti arcuati. Molto diffusa nella
nostra provincia tanto che parecchi sono gli appellativi popolari sia del fiore
che del frutto.
Nel dialetto bresciano esistono denominazioni varie sia per il fiore che per il frutto.
I termini per indicare il fiore sono: rosa de macia, rosa de sass, mirandola.
I termini per indicare il frutto (assai coloriti) sono: gratacul, gratacu, sisapotol,
stopacul, brusacul, marangoi, stropacul (sull’origine della etimologia si veda l’impiego
antidiarroico delle marmellate)
La letteratura sulle rose è enorme. Affezionato cultore della rosa dei Tudor, in
quanto sostenitore dei maestri albionici di rugby, tenterò una sommaria
revisione.
La rosa è una pianta di origine nordica che nel corso dei secoli si è andata
spostando a sud, adattandosi via via alle nuove condizioni climatiche. Il
Baroni nella sua “Guida Botanica Italiana” elenca 22 specie originarie di
Rosa. Ma a testimonianza della complessità del genere cito Linneo che nel
1753 scriveva che “le specie della rosa sono molto difficili da classificare e
coloro che ne hanno viste poche sono in grado di distinguerle meglio di quelli
che ne hanno esaminato molte”.
Il nome “rosa” è mutuato dall’omonima voce latina (quanti sono ricorsi a
questo fiore per imparare a memoria la prima declinazione!!) attraverso il
celtico “rhodd” a sua volta derivato dal greco ροδον con significato di rosso.
La rosa selvatica venne chiamata “canina” poiché i greci ritenevano che le
sue radici potessero curare la rabbia provocata dai morsi dei cani.
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Nel Museo delle Rose nel giardino di Hay les Roses vicino a Parigi sono
conservati resti fossili raccolti nei depositi miocenici dei paesi baltici. Altri
fossili risalenti all’Oligocene (60 milioni di anni fa) sono stati scoperti nel
Colorado e nell’Oregon.
Nella storia la Rosa ha sempre accompagnato l’uomo. Il re sumerico Sargon
I, che visse tra il 2.684 e il 2.630 a.C., portò nella città di Ur, da una
spedizione guerresca al di là del Tauro, “viti, fichi e alberi di rose”.
Il lirico greco Anacreonte dice che le rose nacquero dalla spuma del mare che
generò Afrodite, mentre Saffo la definisce regina dei fiori.
Erodoto afferma nelle sue Storie che la rosa venne introdotta in Grecia dal
mito re Mida di Frigia. Già Teofrasto citava rose come fiori aventi da 5 a 100
petali. Inoltre in epoca romana, viene citata da Virgilio nelle Georgiche e da
Orazio nelle Odi. I Romani erano soliti ornare di rose le statue delle dee e
durante i giochi pubblici le strade venivano cosparse di petali di rosa. Era
pure usanza ornare le tombe con rose poiché ritenevano che esse fossero
gradite ai Mani. Si racconta che la mensa di Nerone fosse invasa da petali di
rose che cadevano dal soffitto. Il filosofo Seneca deplora questa
manifestazione di spreco indicandola come forma di dissolutezza e
corruzione dei costumi. Forse è grazie alla filosofia stoica che durante i primi
anni del cristianesimo la rosa non godette di buona fortuna. Fra gli scrittori
apologetici, Tertulliano scrisse addirittura un volume contro la rosa mentre
Clemente Alessandrino, nel 202 d.C., nei suoi scritti teologici, vietò ai cristiani
di ornarsi di questo fiore in quanto simbolo di paganesimo. Ma come è noto il
cristianesimo ha fatto suoi molti simboli pagani e nel tempo la rosa venne
introdotta nel rito: nei canti e nelle litanie prestò il suo nome alla Madonna che
fu ed è invocata come “Rosa mistica” o “Rosa senza spine”.
Le rose rosse divennero il simbolo del sangue dei martiri e le rose bianche
sono da sempre associate all’innocenza e alla purezza.
Per gli antichi Sassoni questo fiore era simbolo di rinascita e se si coglieva
una rosa alla morte di un bambino era possibile vedere l’immagine della
morte.
Durante la Guerra delle Due Rose, la rosa bianca era l’emblema della casa di
York e la rosa rossa quello della casa dei Lancaster: Dopo trenta anni di
guerra civile i due casati si fusero grazie ad un matrimonio e le due rose
furono unite per formare la simbolica rosa dei Tudor al tempo di Enrico VII.
La Rosa Canina era considerata nel passato anche come preziosa pianta
medicinale. I suoi “falsi frutti”, detti cinorrodi, sono ricchi di vitamina C e
generazioni di bambini sono stati allevati con sciroppi e marmellate da essi
ricavate. Gli stessi cinorrodi possono essere usati in infusione come bevanda
rinfrescante e lassativa. I fiori essicati, forniscono la base della ben nota
“acqua di rose”.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO
• I fusti sono arcuati e ciascuna foglia ha due o tre foglioline dentate.
• Esaminare bene gli aculei che sono fortemente uncinati e rivolti verso il
basso.
• I frutti sono ovali e lisci e mancano della corona di sepali.
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NOTE E CURIOSITA’
I cinorrodi della rosa canina venivano consigliati dalla medicina popolare latina per la cura
dell’alopecia mischiato a miele e alla cenere della sostanza spugnosa che si forma fra le
spine della pianta.
Plinio il Vecchio però riferisce una storiella interessante per spiegarne l’uso contro la rabbia
silvestre. Narra di una donna che aveva avuto un sogno in cui mandava al figlio da bere una
pozione a base di radice di una rosa selvatica che allora veniva chiamata cinorrodo - i latini
indicavano con questo nome non i frutti ma la pianta stessa da κυον (cane) e ροδον (rosa) una rosa che ella il giorno prima aveva visto in cespuglio e per la quale aveva avuto una
particolare attrazione. Il caso volle che quando il figlio, allora guardia pretoriana, venne
morso da un cane rabbioso e già manifestava la idrofobia tipica della malattia, arrivò una
lettera della madre che lo pregava di attuare quanto era stato sognato poiché ella ne
ravvisava un segno divino. Il soldato fu così insperabilmente salvato.
La Rosa canina è compresa nel novero delle 16 erbe magiche del De Vegetabilis di Alberto
Magno.
NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA
I falsi frutti sono ricchi di vitamina C (fino 1700 mg/ 100 gr di polpa), caroteni (10.000 UI),
vitamina B1, B2, PP, K,P, tannini (3%), pectine (10-13%), acido malico, acido succinico,
acido citrico. La marmellata ha azione antidiarroica. Le vitamine rimangono inalterate se con
questi frutti si preparano marmellate. Vengono distrutte se essi sono essicati.
ALCUNE LEGGENDE SULLA ROSA.
•
La leggenda greca narra come Afrodite e Persefone fossero entrambe innamorate di
Adone e usassero condividerne i favori. Tuttavia, quando Afrodite volle impedire al
giovane di tornare dalla rivale negli inferi, Persefone chiese aiuto ad Ares, il dio della
guerra. Un giorno, mentre Adone cacciava nei boschi, fu assalito ed ucciso da un
cinghiale. Afrodite accorse presso di lui, graffiandosi nella fretta su un cespuglio di rose
bianche. Dove cadde il sangue di Afrodite le rose bianche del cespuglio divennero rosse.
… E tu – disse – sarai
il mio fior più gradito;
del mio sangue rivestito
de’ fior lo scettro avrai
.
•
Marino
Il significato della rosa gialla nel linguaggio dei fiori è: declino dell’amore e infedeltà.
L’origine è nella storia di Aisha, moglie favorita del profeta Maometto. Egli la sospettava
di infedeltà e chiese consiglio all’Arcangelo Gabriele. Al suo ritorno Aisha lo accolse
offrendogli delle rose rosse ed egli, su suggerimento dell’arcangelo, le ordinò di lasciarle
cadere nel fiume, sapendo che se avessero cambiato colore i suoi sospetti sarebbero
stati confermati. Le rose divennero gialle
.
•
La dea Chloris, dopo aver scoperto in un bosco il corpo senza vita di una ninfa, si rivolse
ad Afrodite e al dio Dioniso affinchè potesse vivere in eterno. Afrodite fece il dono della
bellezza, Dioniso fece dono del profumo, Febo Apollo la riscoldò con i suoi raggi. Sbocciò
una rosa che venne incoronata “regina dei fiori”
.
39
•
Si ricordi poi la rosa che Bella Belinda chiese in dono al padre e che la portò ad
affrontare la Bestia. Con le parole della fiaba, è la metafora della rinascita di un’anima
che alla fine riesce a vedere al di là delle apparenze.
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TUSSILAGO FARFARA
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermae – classe Dicotyledones – famiglia Asteraceae – genere
Tussilago.
TUSSILAGO FARFARA (Farfaro)
Pianta a rizoma grosso con i cauli fioriferi nascenti prima delle foglie a un solo capolino di fiori
gialli di 20-30 mm di diametro; foglie cordato poligonali, larghe come lunghe o più larghe che
lunghe, angolose, glabre sopra, dapprima bianco tomentose, poi denudate di sopra, biancotomentose sotto. Statura 10-30 cm, geofita perenne, diffusa in luoghi umidi, argillosi, con
fioritura da febbraio ad aprile, dalla zona litoranea fin oltre i 2000 metri.
E’ nota con il termine di farfara o piè d’asino. E’ di uso antiquato l’appellativo
di pianatella. Nel dialetto bresciano viene indicata come farfara ma anche
come dròga. Probabilmente la voce dialettale è riferita all’uso medicinale
della pianta il cui decotto veniva usato per la tosse. In realtà nell’idioma
dialettale spesso si usano indistintamente i termini di dròga e bonaga per
indicare piante diverse accomunate dalla loro utilità (presunta o reale) nella
cura della tosse (p.es. Carlina acaulis). Il nome scientifico deriva dal latino
tussis (tosse) e agere (cacciar via).
E’ una pianta che cresce nei posti più brulli, nei terrapieni aridi e in generale
in qualsiasi luogo che abbia un terreno prevalentemente argilloso.
Quando fiorisce non ci sono foglie visibili, tranne le brattee molto ridotte dei
fusti fioriferi. Le foglie spuntano solo alla fine della fioritura e sono lungamente
peduncolate. Hanno una sottile lanugine sulla pagina inferiore. I capolini si
chiudono alla sera quando i potenziali insetti impollinatori non sono più in
volo.
La lanugine presente sulla pagina inferiore delle foglie un tempo era usata
come esca per le armi da fuoco. I pappi di Tussilago farfara, con cui gli
acheni vengono dispersi, hanno solo bisogno di un minimo di corrente d’aria
per essere trasportati e ciò aiuta a spiegare perché la pianta è così diffusa.
Quando il tegumento dell’achenio marcisce, il seme viene liberato.
La Tussilagine è ospite intermedio della ruggine delle poe e di una specie
biologica della ruggine vescicolare delle foglie di pino.
NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA
La parte officinale della pianta è costituita dal solo capolino che contiene quercetina e
mucillagini con azione emolliente ed immunostimolante.
NOTE E CURIOSITA’
La medicina romana conosceva l’impiego della tussilagine nelle affezioni bronchiali. Il nome
stesso ha chiaro significato. Bechion tussilago dicitur, con riferimento evidente al termine
greco βεξ che significa tosse (si tengano presente gli attuali bechici con cui vengono indicati
i farmaci per la tosse). Plinio, con un poco di confusione afferma dell’esistenza di due specie
di tussilagine (probabilmente si tratta di due altri tipi di piante). Della prima dice che se si
aspira, attraverso una canna, il fumo ottenuto dalla pianta seccata e bruciata si ottiene la
guarigione dalla tosse cronica. Bisogna però avere l’avvertenza ingerire un poco di vino
passito ad ogni inspirazione.
Della seconda ne esalta il succo che si beve contro la tosse e la pleurite. La stessa erba
sarebbe efficace contro il morso degli scorpioni e dei draghi marini.
La Tussilago è compresa nel novero delle 54 piante medicinali di Dioscoride.
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CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO.
• La parte centrale del capolino è composta da flosculi tubulosi.
• I flosculi ligulati hanno una lunga ligula.
• Un pappo setoso molto lungo è portato all’apice degli acheni.
• Le foglie, arrotondate con un apice appuntito, si sviluppano dopo che i
capolini sono appassiti. La pagina inferiore è provvista di una bianca
lanugine.
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TARAXACUM OFFICINALE
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Asteraceae – genere
Taraxacum.
TARAXACUM OFFICINALE (Tarassaco, Soffione, Dente di leone, Piscialetto)
Pianta di varia statura, non esclusiva di alta montagna, talora alta oltre 50 cm, preferente i
luoghi freschi; capolini ad involucro con brattee lineari strette, le esterne poco più brevi delle
interne alla fioritura, alla fine più o meno riflesse. Fiori ligulati riuniti in grande capolino
solitario. Frutti (acheni) circondati da corona di peli. Fusto fistoloso con lattice bianco. Foglie
a margine seghettato a larghi denti riunite per rosette basali.
Emicriptofita perenne con fioritura da aprile a ottobre dalla zona litoranea fino alla fascia
montana superiore.
Il comunissimo Tarassaco spesso viene considerato con superficialità alla
stregua di un banale contaminante dei prati data la sua grande diffusione. E’
invece una pianta che rivela caratteristiche imprevedibili. La sua ampia
diffusione giustifica la sua presenza anche nella zona in cui ci siamo mossi.
D’altro canto già questa constatazione ci deve far pensare al notevole
successo dei suoi meccanismi riproduttivi grazie alla sapienza aerodinamica
con cui ha saputo costruire gli acheni che vengono disseminati dal vento. Chi
di noi non ha mai giocato soffiando sui vistosi pappi che contengono i frutti
del tarassaco? Generazioni di bambini e di adulti si sono divertiti a contare il
numero di soffi che ci vogliono per far volare via tutti gli acheni con i loro
vistosi pappi. Interessante è l’esame del capolino che, come è noto, non è il
fiore ma riunisce numerosi fiori che la nostra osservazione, meglio con la
lente, ci permette di distinguere in centrali e periferici: si tratta all’incirca di
duecento flosculi . Le infiorescenze si chiudono di notte, quando il cielo è
nuvoloso e se la pianta è messa in un vaso.
E’ una pianta nitrofila, molto frequente. Il suo fusto è fistoloso, vale a dire
cavo all’interno, e la superficie di sezione lascia gemere un lattice biancastro
che provoca macchie brune sulla pelle. Contiene inoltre una sostanza amara,
leggermente velenosa; le foglie giovani vengono consumate in insalata.
L’ampia diffusione giustifica anche la estrema varietà dei nomi sia nella lingua
ufficiale che nel vernacolo.
Anticamente appellata come castracani, sono note in italiano le
denominazioni di : dente di leone, soffione, pisciacane, piscialetto, capo di
frate. Il nome tarassaco potrebbe risalire al greco ταραξακεω = io guarisco,
oppure dall’arabo tarahsaqun = dente di leone. Per altri l’etimologia sarebbe
ancora greca ταρασσω = scompiglio, perché i leggeri pappi vengono
scompigliati dal più leggero soffio.
Numerosi sono anche gli appellativi nel nostro dialetto; alcuni sono di facile
spiegazione ed intuitivi: sigoria, pisa ‘n del let, dent di liù, grignos, broòt. Il
Penzig aggiunge anche : car de fe’, Uciù. Quest’ultimo confermato anche dal
Melchiorri con riferimento analogico all’uciarol, ovvero al bocciuolo nel quale
si tengono gli aghi e gli spilli.
Il legame con la antica medicina emerge da ciò che si può osservare nel
museo copto del Cairo dove si conserva la scultura di un personaggio
femminile distrofico posto al centro di una pianta di Taraxaxum officinale.
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D’altro canto questa specie è considerata tra le 54 piante medicinali
annoverate da Dioscoride.
NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA
Per gli usi erboristici si usano le radici che vengono estirpate dal terreno in autunno ed in
primavera. Lungo è l’elenco delle sostanze: taraxacina, taraxina, traxerolo, sostanze
tanniche, mucillagini, stearine, fitosteroli, sali minerali, inulina, colina, sterina, lactupicrina,
provitamine A, B, C, D, K; PP, riboflavina, la xantofilla taraxantina (nei fiori), luteina e
violaxantina (nelle foglie), asparagina, saponosidi triterpenoidi, La pianta è molto ricca in
potassio. Le principali proprietà riconosciute sono quelle colagoghe, coleretiche, diuretiche,
depurative e debolmente lassative. Per uso esterno il lattice può essere utile per far regredire
porri e verruche. L’infuso dei fiori in cosmesi è usato per schiarire efelidi e lentiggini.
Recentemente si è segnalata la presenza nel polline di sostanze ad attività batteriostatica.
Essendo pianta officinale la sua raccolta va autorizzata secondo il Regio Decreto n. 772 del
26.05.1932: per uso famigliare è consentita la detenzione fino a 5 kg di radici secche.
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BELLIS PERENNIS
“Sceglierei d’essere una margherita,
Se potessi essere un fiore:
Chiuderei dolcemente i petali
Nell’ora quieta del tramonto;
E al mattino svegliarmi,
Quando cade la rugiada mattiniera,
Per accogliere il sole splendente nel Cielo,
E dal Cielo anche le lucide lacrime.
Anonimo
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae - classe Dycotyledones – Famiglia Asteraceae – genere
Bellis.
Bellis perennis (Margheritina, pratolina)
Fiori riuniti in capolino unico su fusto senza foglie. Fiori ligulati esterni bianchi o leggermente
sfumati di rosso; fiori tubulosi interni gialli. Foglie basali a rosetta, da obovate a spatolate con
margine crenato. Statura di 3-10 cm con fioritura da febbraio a novembre.
Geofita perenne diffusa praticamente in tutti i piani altitudinali. Cresce in prati, gligli delle
strade, luoghi erbosi e radure.
Già Plinio aveva una conoscenza diretta della margheritina: “Bellis in pratis
nascitur, flore albo, aliquatenus rubente. Hanc cum Artemisiam inlitam
efficaciorem esse produnt”. Ne riconosceva le virtù curative ma a patto che
fosse mescolata con Artemisia. La descrizione del fiore è comunque perfetta.
I fiori sopportano anche temperature di –15° se l’a ria è secca. Il capolino si
comporta come un unico fiore e si richiude di notte e quando c’è molta
umidità. Spesso il capolino si gira verso il sole.
E’ uno dei fiori più popolari. I primi che i bambini imparano a cogliere. Lo
testimoniano il numero e la varietà degli appellativi: margheritina, pratolina,
fiorellin di prato, fior gentile.
Circa l’origine del nome i pareri sono discordi. Alcuni lo vogliono derivato
dalle Bellidi, le figlie crudeli del re Danao (a mio avviso assai improbabile),
altri dal termine latino “bellum” poiché pare che l’essenza della pianta fosse
usata efficacemente per curare le ferite. Altri ancora dal tardo latino “bellum”
nel suo significato di “bello”.
La margherita è il fiore dei bambini per questo appunto è detta in Scozia
“bairn-wort” che significa appunto fiore dei bambini. Essa tiene fede al suo
nome inglese – daisy – poiché si schiude alle prime luci del giorno e quando
tramonta il sole ripiega i suoi petali come se andasse a dormire. “Daisy” infatti
sta per “the day’s eye”, l’occhio del giorno.
Numerosi scrittori hanno apprezzato e lodato l’umile pratolina. Il poeta inglese
Chaucer amava dire che la margherita era il suo fiore preferito e ogni mattina,
a maggio, si alzava di buon ora per ammirare questa pianta che riusciva ad
“addolcire ogni dispiacere”. Il poeta P.B. Shelley, invece, paragonava le
margheritine a stelle trattenute in terra: “stelle perlacee della terra,
costellazioni fiorite che mai tramontano”.
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TRADIZIONI E CURIOSITA’
L’erborista inglese del secolo XVII Nicholas Culpeper riteneva che il motivo per cui la natura
aveva fatto la pratolina stava tutto nella sua utilità. “Bollita nel latte di asina”, scriveva, “ è
molto efficace nell’opporsi alla tisi dei polmoni”.
In Scozia se una bimba raccoglie un mazzo di margherite con gli occhi chiusi, il numero dei
fiori del mazzetto corrisponderà al numero di anni che dovrà attendere per sposarsi (da
sempre le fanciulle predicono il proprio avvenire sentimentale staccandone i petali mentre
pronunciano “m’ama, non m’ama”.
NOTE DI BOTANICA FARMACEUTICA
Un tè di margherite, bevuto tre volte al giorno e lontano dai pasti, è un ottimo costituente per i
bambini magri. La medicina omeopatica usa una tintura, estratta dalla pianta fiorita, per la
sua azione tonica sui vasi sanguigni.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO
• Il peduncolo fiorale è privo di foglie e peloso. Ogni capolino solitario ha
un disco giallo circondato da un anello di flosculi ligulati bianchi.
• Nei flosculi ligulati la corolla è bianca, talvolta sfumata di rosa.
• I flosculi tubulosi gialli sono corti ed allargati, con una corolla a cinque
lobi.
• Gli acheni sono piccoli, ovali e lanuginosi, con estremità appiattite.
• Le foglie ovali, o a forma di cucchiaio, sono riunite in una rosetta
basale. Ogni foglia ha molti piccoli denti.
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PULMONARIA OFFICINALIS
“non pensare di coltivarla in giardino; lasciala vivere libera dove si respira odore di
muschio e di montagna. Lasciale godere tutto questo incanto”
Geremia Hoechts
SCHEDA
Spermatophyta- Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Boraginaceae – genere
Pulmonaria.
Pulmonaria officinalis. (salvia di Gerusalemme, erba macchiata, borrana selvatica)
Foglie cordate, arrotondate o troncate alla base, ovate od ovato-oblunghe di 4-16 x 2,5-10
cm, macchiate di bianco, ruvide, uniformemente setolose, senza o con pochissimi peli
glandolosi; infiorescenza più o meno peloso glandolosa. Corolla dapprima rosea o rossiccia,
poi azzurro violacea.
Emicriptofita perenne con fioritura da marzo a giugno, diffusa nei boschi freschi e ombrosi
nelle fasce submontana e montana inferiore.
All’inizio della primavera la polmonaria mostra i suoi fiori dapprima rosa e poi
blu-violetti nei prati e nei boschi collinari e montani dell’Italia alpina. Dapprima
spuntano solo i fusti fioriferi con foglie sessili e con picciolo corto. Già durante
il periodo della fioritura si sviluppano polloni non fioriferi, su cui si formano
rosette basali di grandi foglie estive con lunghi piccioli. Si aprono
completamente dopo il periodo della fioritura.
Caratteristicamente
alla osservazione diretta riscontreremo che le
infiorescenze della polmonaria non hanno tutte lo stesso colore. Come
accennato contemporaneamente apprezziamo tonalità che vanno dal rosa al
blu. A volte anche fiori completamente bianchi. E’ evidente che questi fiori,
riuniti in cime terminali, non si aprono tutti nello stesso momento per cui si
presentano diverse tonalità di colore.. E’ un riflesso di arcobaleno limitato ad
una breve gamma cromatica che dona alla polmonaria una grazia
inconfondibile, un rilievo del tutto particolare nell’insieme di verde e di colori
che costituiscono il bosco.
Si tratta di una pianta che riserva alcuni aspetti sorprendenti. Quasi avesse
timore di non venire propagata a sufficienza, essa presenta agli insetti
impollinatori tre tipi di fiore, dalla struttura differente, con “stili” di diverse
lunghezze e stami irregolari. Come risultato, vespe, api, calabroni e altri
insetti, nonché il vento, possono contare su diciotto modalità per raggiungere
il polline e trasportarlo su altre corolle per fecondarle.
Le macchie biancastre presenti sulle foglie danno a queste un aspetto che
ricorda quello del polmone alterato dai granulomi tubercolari. I medici
medioevali, seguendo “la dottrina dei segni” ne traevano auspici favorevoli
per usare decotti ed infusi fogliari per la cura delle malattie polmonari e
soprattutto della tubercolosi. Da questa antica opinione deriva il nome della
pianta. Anche nel dialetto bresciano è nota con l’appellativo di polmonèra.
La polmonaria, tutto sommato, può essere una piacevole sorpresa per chi
non la conosce, una conferma per quanti amano la bellezza discreta e minuta
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delle specie selvatiche. Qualche volta le sfioriamo percorrendo i sentieri di
montagna o camminando al margine dei prati e non riusciamo a cogliere la
suggestione dei loro colori, la grazia delle corolle, l'eleganza del fogliame. Ma
per la polmonaria bisogna proprio fare una eccezione e guardarla
attentamente: non capita tutti i giorni di incontrare una piccola pianta invidiosa
dell’arcobaleno, tanto da inventare fiori capaci di mutare il colore: dal rosso, al
blu, al porpora, al viola. Come fa il cielo al tramonto.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO.
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La pianta, fittamente pelosa, emette da un rizoma ramificato, oltre che
fusti fioriferi eretti con foglie dal picciolo breve o sessile, anche rosette
basali di grandi foglie estive con lunghi piccioli. I fiori hanno corti
peduncoli.
I sepali sono saldati in un tubo con cinque punte triangolari. La corolla
è tubulosa nella parte inferiore e imbutiforme nella parte superiore, con
cinque punte da smussate a rotonde.
I fiori sono di due tipi: uno con lo stimma più alto delle antere e l’altro
con le antere più alte dello stimma.
In ogni fiore si formano cinque acheni ovoidali e lisci, nascosti nel
calice un po’ rigonfio.
NOTE DI ETNOBOTANICA E BOTANICA FARMACEUTICA
Numerose boraginacee sono ricche di mucillagini ad azione emolliente, usate nella medicina
popolare nelle diarree e nelle stomatiti.
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MYOSOTIS ARVENSIS
<<…quando avviene, come avviene, che più limpida scorre l’acqua della sorgente,
quando sboccia il selvatico miosotide e l’usignolo sul ramo ripete, modula e
addolcisce e affina la sua dolce canzone, è giusto che anche io canti e pianga d’amore,
per una ferita che sempre mi duole >>.
Jaufrè Rudel
<< …quell’azzurro fiorellino dall’occhio luminoso lungo il ruscello / gemma gentile
della speranza / dolce ‘non-ti-scordar-di-me’. >>
Samuel Taylor Coleridge
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – claase Dicotyledones – famiglia Boraginaceae – genere
Myosotis.
Myosotis arvensis (non ti scordar di me).
Pianta con fiori sempre azzurri (di rado bianchi); corolle in genere a tubo, non lunghe. I fiori
hanno diametro di 4-6 mm. Infiorescenza pluriflora a grappolo. Fusto eretto, ascendente, più
o meno rigido e robusto, cilindrico, ramoso alla base o dalla metà in su. Foglie oblungo
lanceolate più o meno acute. Terofita e/o emicriptofita, annuale e biennale con fioritura da
marzo ad agosto fino alla fascia montana inferiore (raramente nella montana superiore).
E’ uno dei fiori più noti, volgarmente detto “non ti scordar di me”. Il nome
deriva da una leggenda che risale ai Minnesanger del medioevo tedesco. Si
racconta di un cavaliere e della sua dama che stavano passeggiando lungo la
sponda di un torrente. Il cavaliere si chinò per raccogliere un mazzetto di fiori
da offrire alla sua bella, ma, vinto dal peso dell’armatura, cadde nel fiume.
Appena prima di essere sommerso dalle acque, gettò i fiori alla sua amata
gridando: “vergisz mein nicht” (“non ti scordar di me”).
Il dialetto bresciano, molto meno romantico, lo conosce con l’appellativo di
erba selestina, con chiaro riferimento al colore delle infiorescenze.
Il nome scientifico invece risale a Dioscoride il quale ravvise una certa
rassomiglianza con le orecchie dei topi. Il termine myosotis infatti, di
derivazione greca, significa “orecchio di topo”.
Dal leggendario episodio dei minnesanger tedeschi questo fiore è sempre
stato associato all’idea dell’amore vero e nel medioevo veniva portato sulla
persona per assicurarsi la fedeltà dell’amata. La tradizione passò anche in
Francia dove la pianta venne chiamata “ne m’oubliez moi”.
Ma il nome di questo fiorellino sembra anche nascondere un ben più
impegnativo ammonimento: non-ti-scordar-di-me recitano le minuscole
corolle, quasi a sollecitare l’attenzione degli uomini verso la flora spontanea,
anche la meno appariscente, perché è proprio nel rispetto verso ogni creatura
vivente, animale o pianta che sia, il senso profondo di una coscienza
ecologica assunta a norma esistenziale. Forse questo poteva essere il senso
di un’altra leggenda che riguarda questo fiore: quando Dio ebbe finito di
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distribuire nomi a fiori e animali, d’un tratto di levò una voce che diceva “nonti-scordar-di- me.
Il genere Myosotis riunisce una cinquantina di specie spontanee in Europa,
Asia, America, Sud Africa, Nuova Zelanda e Australia.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO.
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E’ una pianta molto pelosa con diversi fusti eretti e ramificati. Le foglie
inferiori, picciolate, formano una rosetta. Le foglie lungo il fusto sono
glabre.
Le infiorescenze appaiono spiralate quando i fiori sono in boccio ed
erette quando i fiori si aprono.
Le infiorescenze si allungano quando i frutti maturano; i peduncoli dei
fiori si allungano e si discostano dal fusto.
I lobi della corolla sono concavi, con un anello giallo al centro. Il tubo
della corolla è più corto del calice.
I sepali sono coperti di peli uncinati e nascondono completamente il
frutto.
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SYMPHYTUM TUBEROSUM
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospèermeae – classe Dicotyledones – famiglia Boraginaceae – genere
Symphytum .
SYMPHYTUM TUBEROSUM (Consolida tuberosa)
Pianta con fusto semplice, poco ramificato in alto, a foglie numerose da ellittiche a
lanceolate, le basali (secche al momento della fioritura) più o meno lungamente picciolate, le
mediane brevemente picciolate, le superiori sessili e brevemente decorrenti sul fusto; corolle
di 13-20 mm, giallo pallide, a squame interne lunghe 5,5-7,5 mm; frutto lungo sino a 4 mm,
nero. Ha rizoma grossetto con nodosità tuberose in genere più o meno ravvicinate. Statura
da 15 a 50 cm. Emicriptofita perenne con fioritura da marzo a giugno in boschi e siepi della
zona montana inferiore e submontana.
Di questo genere è più nota la ssp officinale, detta anche Consolida
maggiore, soprattutto per il suo impiego nella medicina popolare. Alcune
importanti diversità rendono agevole tuttavia la distinzione fra le due piante. Il
Symphytum tuberosum è distribuito nei boschi e nelle siepi collinari e
montane, mentre S. officinale predilige i luoghi umidi e le rive dei fossi. Inoltre
S. tuberosum ha una robusta radice tuberosa e si distingue per l’aspetto più
piccolo ed esile, per il fusto che a fatica ramifica e per i fiori che sono
invariabilmente di colore giallognolo. Qualsiasi piccola porzione di radice
produce una pianta e ciò rende molto difficile sradicarla se si propaga troppo,
perché ogni più piccolo pezzetto della radice, che è molto fragile, dovrà
essere estirpato per impedire che la pianta ricompaia.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO
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I fusti eretti e setolosi di questa pianta hanno pochi rami o nessuno. Le
foglie a metà fusto sono più grandi di quelle vicine alla base e i margini
fogliari continuano giù lungo il fusto per formare una stretta ala
I fiori sono riuniti in cime scorpioidi e hanno colore giallognolo.
Il frutto è nascosto dal calice, che è più stretto di quello di S. officinale.
NOTE E CURIOSITA’
Data la facilità con cui è possibile incontrate anche Symphytum officinale, ritengo
opportune aggiungere alcune note riguardanti questa pianta.
Da un punto di vista descrittivo trattasi di una pianta eretta e ramificata, con peli e setole su
fusto e foglie. Le foglie basali hanno lunghi piccioli, mentre quelli superiori hanno margini che
si prolungano sul fusto formando un’ala. I fiori sono penduli e campanulati, formano cime
scorpioidi. Le corolle possono essere bianco porpora, rosa o violacee, ma sempre dello
stesso colore in ciascuna pianta. S.officinale ha una lunga corolla e solo insetti con un lungo
apparato buccale possono raggiungere il nettare. Talvolta gli imenotteri più piccoli sono
costretti a forare la parete del fiore e, quando ciò avviene, l’insetto non entra in contatto con
l’antera e quindi non c’è impollinazione.
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Il nome volgare è “Consolida maggiore”. Sono noti termini più antichi con cui viene
indicata come “alo, anealco e soda”. Nel dialetto bresciano è nota con il termine “anegal”. Ne
viene riferito un uso contadino: veniva fatta bollire con le ortiche e altre erbe per farne
pastura delle anatre.
Gli erboristi medioevali ricorrevano a questa pianta per la cura delle fratture. Le radici
venivano estirpate in primavera e grattuggiate e la poltiglia risultante veniva spalmata
sull’arto spezzato. Tale impasto in seguito si induriva formando uno strato simile al gesso
usato attualmente. Questa pianta era considerata prodigiosamente curativa: veniva usata per
estrarre schegge dal corpo, oltre che per guarire traumi ossei. Nel secolo XVI c’era chi
suggeriva che “la sostanza delle radici mista a birra venisse somministrata contro il mal di
schiena”. Più recentemente, il succo delle radici è stato mischiato a zucchero e liquirizia per
produrre uno sciroppo antitosse.
La medicina romana ne esalta l’impiego in una serie di malattie. Plinio il Vecchio sostiene che
è utilissimo per la pleura, i reni, le coliche, i polmoni, le emorragie dalla bocca e la gola
irritata. Ne sottolinea l’impiego dell’impiastro nelle lussazioni e nelle fratture e fornisce una
bella spiegazione per il nome: se si fanno cuocere due pezzi di carne e, dopo la cottura, si
aggiunge l’impiastro di sinfito, si ottiene l’adesione perfetta dei due pezzi. Ha quindi un potere
collante donde il termine greco συϖφιτον connesso al relativo verbo che significa “unire”.
Per questa sua capacità di consolidare trovava largo impiego per applicazione diretta sulle
ferite (si pensi alla attuale e più raffinata colla per suture) e anche per arrestare la diarrea.
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ERICA HERBACEA
<<… e sotto la macchia e l’erica e gli anemoni sottili soltanto il guardiacaccia vede che
dove cova la palombella e ruzzolano i tassi, facilmente c’era un tempo una strada fra i
boschi>>.
Rudyard Kipling
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Ericaceae – genere
Erica.
ERICA HERBACEA (Erica carnea) – volg. Erica, scopina.
Pianta con antere più o meno sporgenti dalla corolla. Questa si presenta allungata (4-7 mm),
tubulosa, rosea, bianca o purpurea. Le foglie sono verticillate a 3-5, lineari, strette,
acuminate.
Statura di 10-30 cm. Fioritura da febbraio a giugno. Cresce in boschi, pascoli e luoghi aridi
su suoli calcarei. Presente dalla zona submontana fin oltre il limite della vegetazione
forestale.
<<Ericen Graeci vocant fruticem non multum ab ulice differentem, colore roris marini
et paene folio. Hoc adversari serpentibus tradunt>>
(I greci chiamano “erica” un arbusto non molto diverso dalla calluna, ma nel colore e in una
certa misura delle foglie somigliante al rosmarino. Dicono che combatte il veleno dei
serpenti).
Plinio il Vecchio
Originaria dell’Europa centrale e meridionale, in Italia è diffusa dalle Alpi
Marittime e nell’Appennino Settentrionale e Centrale su terreno calcareo. Ha
l’aspetto di un piccolo arbusto fitto, glabro, sempreverde che, invecchiando, si
allarga sempre più fino ad assumere un aspetto prostrato. Le foglie sono
lineari, acute, di colore verde scuro brillante, riunite in fasci di quattro. I fiori
nascono sui rami dell’anno precedente e formano una infiorescenza a
racemo, cilindrica. Comincia a fiorire a febbraio (a volte anche a gennaio) con
fiori rossi e rosa.
Il nome deriva dal greco ερεικειν con significato di “rompere”, con riferimento
alla crescita sulla roccia. Come tante sempreverdi è sensibile agli effetti nocivi
del fumo e di altri agenti inquinanti dell’aria. Pretende aria pulita e il giusto
grado di umidità atmosferica . E’ una creatura vegetale dal carattere difficile
ed aristocratico ma che può diventare generosa ed esuberante quando trova
l’habitat congeniale. Tutto questo spiega perché, sulle nostre montagne e
persino in pianura nelle brughiere, all’improvviso si incontrano larghi spazi
coperti di erica.
E’ una pianta ricca di nettare e molto ricercata dalle api. La proboscide degli
insetti impollinatori deve essere lunga almeno 7 mm per arrivare al nettario.
E’ la pianta dei grandi spazi, che non si mescola ad altre specie, che si
illumina di bellezza e di incredibili sfumature al tramonto o al sorgere del sole,
quasi avesse pudore di mostrare la sua grazia nel pieno della luce.
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L’Erica erbacea (nei vecchi trattati nota come Erica carnea) è detta
volgarmente scopina ed appartiene alla stessa famiglia dei rododendri e dei
mirtilli rossi e neri.
In francese viene indicata come bruyere herbacée, in inglese è nota come
spring heat e in tedesco si chiama Schneeheide.
Nel dialetto bresciano sono noti due appellativi: il primo è foem e l’altro
ragogna.
Botanicamente parlando si tratta di una pianta suffruticosa di modeste
dimensioni, con altezza massima di 25-30 cm, che fiorisce in primavera in
delicate tonalità dal rosa carne, al rosa porpora. I fusti sono prostratoascendenti, tortuosi, difficili da spezzare. Cresce in masse compatte e
predilige la esposizione in pieno sole o le radure boschive dai 300 ai 1800
metri di altitudine.
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NOTE E CURIOSITA’
Nel vocabolario d’amore questa pianta è nota per il suo significato di <<solitudine>> ed
immortalata da Guillaume Apollinaire con questi struggenti e tenerissimi versi:
<<Ho colto questo stelo di brughiera, l’autunno è morto devi ricordare.
Non ci vedremo più su questa terra odor di tempo stelo di brughiera ricorda bene che
io ti attendo ancora>>.
E nei fotogrammi della memoria si disegnano vallette solitarie, lontananze viola e un poco
nebbiose come accade di vederne solo in Scozia ed in Irlanda (quante volte risuona il nome
di Erica in Cime Tempestose di Emily Bronte).
Erica, segno del tempo che passa ma non si cancella. Così come i suoi rami tenaci e soffici
insieme ricoprono senza annullare il profilo di un’orma, il ricordo di un passo, di una
presenza:
<<… e sotto i muschi e l’eriche
l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa…>>
Niccolò Tommaseo sintetizza così il concetto di solitudine, ma lascia intendere che basta un
nulla a risvegliare la vita, a destare l’anima delle cose e degli uomini; l’erica, aiutando a
ricordare, può servire a <<rompere>> il cerchio un po’ greve del rimpianto. Anche per questo
quindi il nome della pianta, assegnatole da Dioscoride perché la sua radice spezza la roccia.
Sull’erica, proprio perché pianta così antica e legata alla farmacopea popolare, sono nate
molte leggende e superstizioni, riferimenti ed interpretazioni. Degni di nota mi sembrano i
simbolismi di natura teologica, a cominciare da quello proposto da Sant’Anselmo nelle
Meditationes dove si paragona l’erica al peccato originale, meritevole del fuoco eterno in
quanto si tratta di pianta dal lignum aridum et inutile, aeternis ignibus dignum. Dello
stesso parere sono anche la Bibbia e San Tommaso d’Acquino che nella Summa Theologica
vede nell’erica addirittura la dannazione. E in fondo, quale condanna peggiore della
solitudine? Forse l’erica ignora il peso dell’isolamento a cui la costringe una delle infinite leggi
della Natura, forse non conosce il sottile confine fra solitudine e sicurezza, tra rimpianto e
desiderio. Forse vuol soltanto vivere nel vento della montagna o nella bruma delle brughiere,
fiorendo al primo tepore
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO
•
•
Le foglie sono aghiformi e prive di peli.
I sepali sono lunghi metà della corolla.
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PRIMULA VULGARIS
<<Quando il ministro Disraeli si inginocchiò davanti alla regina Vittoria, si era nel
1877, per offrirle la corona delle Indie, si vide porgere dalla sovrana, come gesto
simbolico, un mazzolino di primule>>
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Primulaceae – genere
Primula.
PRIMULA VULGARIS (volg. Primavera).
Fiori su peduncoli singoli, talora lanuginosi; calice diviso fino a metà della lunghezza in lobi
acuti, stretti, foglie insensibilmente attenuate nel picciolo, glabre sopra, vellutate nella pagina
inferiore; fiori a corolla giallo-zolfo pallido fino quasi a bianca, con macchie aranciate alla
fauce. Statura 5-15 cm, emicriptofita perenne, diffusa in luoghi erbosi, selve, siepi e boschi.
Fioritura da febbraio a maggio dalla zona planiziaria alla montana inferiore.
Quando in marzo le primule cominciano a spuntare, annunciano l’arrivo della
primavera e del nuovo tepore.
Il nome scientifico del genere Primula deriva dal latino <<primus>> a indicare
la precoce fioritura della specie più diffusa, la Primula vulgaris, che spunta dal
terreno al primo accenno di tepore, non appena la neve comincia a
sciogliersi. Il simbolo legato a queste piante è la <<giovinezza>>, sempre in
riferimento al periodo dell’anno in cui queste corolle si schiudono con maggior
rigoglio, letteralmente ricoprendo pendii e scarpate.
Nel dialetto bresciano è nota con il nome di primaéra.
La Primula vulgaris o primula minore (in francese cocou a grandes fleurs, in
inglese common primrose, in tedesco stengellose primel) è fra le specie più
diffuse e precoci, con corolle sorrette da esili peduncoli che nascono
direttamente dal terreno e foglie reticolate e bollose. I fiori sono gialli con
piccole macchie più scure alla base dei petali. Questa primula, che nasce
spontanea anche in pianura, è frequentissima sui pendii alpini soleggiati;
desidera terreno non troppo asciutto, soffice e ricco.
L’appellativo vulgaris significa <<comune>>, ma in realtà questo amatissimo
fiore giallo è assai meno diffuso che in passato a causa della eccessiva
raccolta.
Primula vulgaris ha due specie di fiori: uno con ,o stimma portato più in alto
delle antere, l’altro con gli stami più lunghi dell’ovario: è così favorita la
impollinazione incrociata.
Dal momento che fioriscono quando gli insetti sono ancora pochi, spesso i
fiori non vengono impollinati. Shakespeare, in Racconto d’Inverno scrisse
“delle pallide primule che muoiono nubili”. Comunque, quelle che vengono
impollinate producono semi vischiosi che vengono disseminati dalle formiche.
In epoca medioevale un decotto fatto con le primule veniva usato come
rimedio contro la gotta e i reumatismi, mentre un infuso di radici era prescritto
contro le emicranie di origine nervosa. I fiori erano anche usati per preparare
pozioni d’amore.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO.
56
•
•
•
•
Le foglie sono glabre nella pagina superiore e pelose in quella inferiore.
Diversi fiori lungamente peduncolati crescono al centro di una rosetta
di foglie a margine dentato e ondulate.
I fiori sono isolati su peduncoli mollemente pelosi.
La fauce della corolla è caratterizzata da una pigmentazione più intensa
rispetto alla restante porzione.
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EUPHORBIA HELIOSCOPIA
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Euphorbiaceae – genere
Euphorbia.
EUPHORBIA HELIOSCOPIA (volg. Erba Calenzuola)
Pianta con fusto eretto, foglie obovato-spatolate, denticolate verso l’apice, glabre. Ombrelle
concave superiormente a 5 raggi. Ghiandole dell’infiorescenza giallo chiare, ovali-oblique.
Statura di 3-50 cm. Fioritura da febbraio a ottobre dal piano planiziario alla zona
submontana.Terofita annuale.
L’abbiamo incontrata quasi subito nella nostra escursione, sulla sinistra del
ciglio della strada che, ancora asfaltata, lascia le ultime case per raggiungere
la sbarra dove inizia la strada sterrata. La pianta è inconfondibile perché
risalta sul letto di foglie secche con il suo verde brillante che esalta la qualità
cromatica della clorofilla. I più non se ne curano perché riesce assai diffcile
passare per infiorescenze ciò che sembra una comune infestante di coltivi.
Il genere ha preso il nome da Euforbo, medico del re Giuba di Mauritania nel I
sec. a.C. il quale per primo avrebbe usata la pianta con scopi medicinali. Il
termine helioscopia deriva dal greco e significa “che guarda il sole” e si
riferiscono probabilmente alle sommità appiattite della pianta, che si aprono
per essere pienamente esposte al sole.
In un tranquillo giorno di autunno questa pianta può essere sentita oltre che
osservata. Le sue capsule, infatti, contengono tre semi in compartimenti
separati e, quando la capsula è matura, si apre, fendendosi con uno schianto,
e “spara” i semi, provocando un vero e proprio scoppio.
Questo insolito metodo per disperdere i semi non si esaurisce quando essi
raggiungono il terreno. Essi hanno infatti una appendice polposa contenente
un olio che attrae le formiche. Per attrarre gli insetti impollinatori la pianta ha
lobi reniformi delicatamente profumati sul margine del ciazio. Questo è una
infiorescenza costituita da un consorzio di fiori maschili ridotti a stami e da un
fiore femminile che sporge da quella sorta di piccola coppa il cui orlo è ornato
da quattro ghiandole di varia forma. La classica ombrella della calenzuola è
costituita da cinque raggi primari ognuno dei quali si suddivide in raggi
secondari a loro volta suddivisi in altri due brevissimi raggi che portano i ciazi.
Le foglie sul fusto sono spatolate e si dispongono in successione spiralata. Lo
spezzettamento della pianticella lascia fuoriuscire un lattice bianco di cui le
euforbie sono ricche e per il quale sono classificate come piante tossiche.
Questo lattice ha proprietà caustiche. Questo è il motivo delle varie
denominazioni bresciane: herba latarola o erba rogna. Anche nel volgare
antico sono noti i termini di lactaria, lactariola e tortomaglio girasole.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO
• La pianta ha un fusto singolo o ramificato vicino alla base.
• Le brattee al di sotto dei fiori assomigliano a foglie largamente ovali,
senza picciolo e finemente dentate.
• Il fiore è un ciazio formato da stami, che circondano un ovario
peduncolato.
58
•
•
Le ghiandole sono reniformi e non hanno corna.
Il frutto, ovale, è una capsula glabra divisa in tre lobi.
NOTE E CURIOSITA’
L’Euforbia è pianta conosciuta fin dai tempi più antichi. Molte notizie le fornisce Plinio il
Vecchio nella sua Historia Naturalis. Il nome, come accennato, sarebbe stato dato ad essa
da Giuba, re della Mauritania, in onore del proprio medico. Dice che egli la reperì sul monte
Atlante e che ne scrisse addirittura un libro. Spende parecchie parole per decantare le virtù
del latice, caustico e potente, tanto che la sua raccolta deve avvenire standosene
opportunamente lontani; a coloro che lo raccolgono aumenta l’acutezza visiva tanto che ne
propone l’uso in oftalmologia (facit claritatem et Euphorbeum inunctis). Sarebbe anche
grande rimedio contro il morso dei serpenti.
Le proprietà caustiche del lattice sono tali da rendere ragione di questo insolito uso:
raccontano che se con il lattice si tracciano delle lettere sul corpo e se, quando il lattice è
seccato, vi si sparge sopra della cenere, riappaiono i caratteri tracciati; alcuni perciò hanno
preferito comunicare con le amanti in questo modo piuttosto che con i bigliettini (et ita
quidam adulteras adloqui maluere quam codicillis). Sempre a detta del nostro Plinio,
l’euphorbia lascia a lungo un bruciore in bocca, anche dopo un piccolo assaggio: sensazione
che aumenta con il passare del tempo finché provoca anche la secchezza delle fauci.
Le notizie raccolte da Plinio derivano soprattutto da Dioscoride e dalla conoscenza popolare
delle erbe. La medicina popolare conosceva questo capolavoro di alchimia magica della
Natura studiato per proteggere la pianta dagli erbivori. Ad essa sono legati miti antichi come
quello della maga Circe che, miscelando il lattice con chissà quali altre essenze, scatenava
gli istinti dei suoi ospiti verso la regressione più animalesca, e storie più recenti che si
sdipanano lungo il filo della magia nera medioevale.
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HEDERA HELIX
<<Di dolcissimo caprifoglio adornato,
Dall’amara edera legato,
Con terrazze di funghi malsani,
Da molte escrescenze e cicatrici
Deformato, da un cuscino di muschio soffocato.
Tutto intorno di vischio pagano drappeggiato,
E fitto dei nidi del rauco uccello
Che parla ma non comprende il suo verso,
Sta, e così stava mille anni fa,
Un albero solo>>.
Coventry Patmore, 1823-1896
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – ordine Umbellifloreae – Famiglia
Araliaceae – genere Hedera.
HEDERA HELIX (volg. Edera)
Pianta rampicante con infiorescenze densamente pelose; foglie di due forme (foglie dei fusti
fioriferi e foglie dei fusti sterili); fiori a petali giallo verdicci di 3-5 mm. Frutti maturi neri con
diametro di 9 mm; foglie dei fusti sterili poligonali a 3-5 lobi; quelle dei fusti fertili intere, ovato
romboidali; fiori riuniti in ombrellette.
Statura da 1 a 20 metri. Fanerofita perenne legnosa con fioritura da giugno a settembre
diffusa fino alla zona submontana. Comune rampicante di muri, ruderi e tronchi.
Un rapido sguardo attraverso il bosco di roverelle che abbiamo attraversato di
consente di distinguere qua e là, sui tronchi più robusti e quindi più vecchi,
una copertura di foglie verdi con due tonalità e di due forme differenti.
Appartengono ad una pianta rampicante assai diffusa: l’edera. Questa sua
proprietà di abbracciare altri alberi e di legarsi ad essa è tradotta nel dialetto
bresciano con il termine di <<ligabosch>>; a Berzo Inferiore, piccolo paese
della media Valle Camonica, viene detta <<lina>>.
Abbarbicata ai muri o agli alberi grazie a sottili radici avventizie che crescono
dal fusto, l’edera è una delle poche piante rampicanti indigene che
raggiungono dimensioni considerevoli. Si diffonde sopra i ruderi e i vecchi
ponti e viene spesso coltivata per abbellire esteriormente le case: In autunno i
fiori giallo verdastri della pianta secernono abbondante nettare e sono
impollinati da vespe e farfalle. I frutti, che sono drupe nere simili a bacche,
vengono spesso mangiati dagli uccelli e dai bruchi di alcune farfalle ma sono
velenosi per l’Uomo.
Caratteristica peculiare dell’edera è la cosiddetta eterofillia, vale a dire la
presenza di due forme di foglie sulla stessa pianta. I nuovi tralci che
risalgono il tronco, confondendosi con quelli già esistenti, hanno foglie
d’aspetto diverso da quelle dei rami fertili le cui estremità recano i fiori e le
successive drupe subsferiche che superano l’inverno per poi maturare a
primavera. L’edera offre un chiaro esempio di sviluppo ritardato delle foglie
adulte. Le foglie primarie e giovanili sono lobate e la loro formazione si
protrae per decine di anni, mentre quelle ovato romboidali compaiono molto
60
più tardi sui rami di piante vetuste. Questa diversità può essere tanto rilevante
al punto che i Greci consideravano specie distinte gli esemplari a foglie
giovani lobate, denominate helix, da quelli vecchi che chiamavano kissos.
L’edera sfida i secoli. Se fiorisce per la prima volta a 9-10 anni di età, vive
sicuramente 400-500 anni. Un botanico tedesco del XVII sec., Kurt Sprengel,
sostiene di aver conosciuto in Italia esemplari vecchi di dieci secoli.
CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO
• Le foglie dei fusti non fioriferi di solito hanno da tre a cinque lobi.
• Le foglie dei fusti fioriferi sono generalmente intere, talvolta con
margini ondulati.
• I frutti maturi sono neri e assomigliano a bacche.
• I fiori sono disposti in infiorescenze globose e vengono spesso
impollinati da vespe. Ciascun fiore ha cinque petali verdastri.
NOTE E CURIOSITA’
L’uso dell’edera e dell’agrifoglio come decorazione natalizia scaturì da una superstizione
secondo cui i folletti delle case si facevano soprattutto maliziosi intorno al periodo natalizio.
Per salvaguardarsi dai loro scherzi, nacque l’abitudine di appendere rametti di edera e di
agrifoglio sulle porte, alle travi delle case e sui camini. I presunti poteri magici di queste
piante venivano usati diversamente a seconda delle località. Per esempio, in Scozia, l’edera
era adoperata per proteggere dal malocchio le vacche e il loro latte. L’origine di queste
credenze è da far risalire alla cultura dei Druidi i quali erano convinti della potenzialità magica
di questa pianta.
Nel medioevo si riteneva che se l’edera cresceva sul muro di una casa, i suoi abitanti erano
al riparo dalle streghe e se moriva bisogna aspettarsi una calamità. Se l’edera perdeva vigore
significava che la casa sarebbe passata in altre mani, magari per mancanza di eredi. Per la
sua abitudine ad attaccarsi l’Edera è un simbolo femminile, ma per questa sua caratteristica
nel linguaggio delle piante significa <<fedeltà>>.
Le fanciulle imparavano presto a mettersene una foglia in tasca prima di uscire a passeggio:
il primo uomo che avrebbero incontrato sarebbe stato il loro futuro sposo. Veniva usata
anche per fare coroncine tra intrecciare nei capelli della ragazza che va sposa, a
simboleggiare il consolidarsi di un rapporto che promette fedeltà <<fin che morte non
separi>>
Le foglie e il legno contengono ederagenolo (un saponoside) ad azione
antispasmodica ed espettorante. Gli estratti, a dosi elevate, sono causa di
gastroenteriti anche gravi (fiori ingeriti dai bambini). Soprattutto i frutti
contengono vari glucosidi che sono tossici per l’Uomo. I sintomi provocati
dall’ingestione in dose sufficiente dei frutti consistono in: nausea, vomito,
pallore, eccitamento e poi depressione del sistema nervoso centrale, coma e
depressione respiratoria.
61
POLYGALA CHAMAEBUXUS
SCHEDA
Spermatophyta – Angiospermeae – classe Dicotyledones – famiglia Polygalaceae – genere
Polygala.
POLYGALA CHAMAEBUXUS (falso bosso)
I fiori di Polygala presentano una struttura particolare: sono presenti 5 sepali alquanto
disuguali, 3 esterni, piccoli, verdi, 2 interni, grandi, più o meno colorati, venati (sono detti ali)
somiglianti a petali. La corolla è costituita da solo 3 petali bene sviluppati, i superiori più
piccoli, l’inferiore foggiato a carena, con l’apice quasi sempre laciniato-frangiato.
Si tratta di una pianta fruticosa a fusto più o meno legnoso non solo alla base. I fiori non sono
numerosi e disposti su ogni rametto.
E’ sempreverde, più o meno prostrata; i fiori sono da bianchicci a gialli (oppure in parte
porporini o rosei); le foglie sono coriacee, ellittiche, talora più strette, più o meno lanceolate
od anche lineari-lanceolate.
Presenta statura di 5-25 cm, camefita perenne legnosa diffusa nei luoghi erbosi e rocciosi
delle Alpi e degli Appennini con fioritura da febbraio a luglio nelle fasce montana inferiore e
montana superiore.
Questa specie ha un nome di chiara derivazione greca: πολυ∫ + γαλακτο∫, che
significa molto latte. In passato era diffusa la convinzione che favorisse la
produzione di latte da parte degli animali da pascolo. Per analogia, infusi di
poligala venivano usati per favorire la montata lattea delle puerpere. Non so
se il tutto trovasse corrispondenza nella realtà, tuttavia erano proprietà a cui il
volgo prestava fede. Nel dialetto bresciano una corrispondenza fra nome e
presunte virtù della pianta non è così evidente. Il Penzig, nella sua Flora
Popolare Italiana, cità per la nostra provincia l’appellativo di martilina, nome
confermato anche localmente e riportato fedelmente da Melchiorri nel suo
vocabolario bresciano-italiano del 1817 dove indica come martèl il vero
Bosso e come martilì il Vaccinium vitis-idea.
A proposito della Polygala il Melchiorri aggiunge una considerazione
importante.”Ne’ boschetti de’ ronchi e nei siti più ombrosi e meno esposti al
sole trovasi questa bella piantina a fusto perenne e sempre verde. I suoi fiori
papilionacei sono misti di giallo e di turchino. Può servire molto bene
all’ornamento de’ giardini”.
Certo è che, parlando di botanica, che la P. chamaebuxus pone allo
specialista grandi motivi di discussione che rendono ragione delle varie
classificazioni poste in passato e dei numerosi traslochi da un sito
classificativo ad un altro. Anche noi, che specialisti non siamo, possiamo però
renderci conto di questo con una osservazione superficiale. Se prestiamo
attenzione osserveremo alcune caratteristiche sconcertanti: le ali e la carena
sono da leguminosa ma costituite da sepali; i petali sono saldati in una corolla
tubulosa e il frutto, per quanto capsulare, simula la siliquetta di una crucifera.
Solo da poco, per i motivi accennati, la P. chamaebuxus è approdata al porto
delle Poligonali. Unica fra le quindici specie italiane, la nostra pianta possiede
un fusto legnoso che la rende simile ad una variante pirenaica. Ciò lascia
supporre una parentela molto antica, che forse risale all’epoca in cui altri
massicci montuosi occupavano l’attuale posto delle Alpi.
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I suoi fiori sono delicatamente profumati (soprattutto nella ssp. Rhodoptera).
Hanno precocissima fioritura da boccioli che vengono approntati nell’autunno
precedente.
Contiene principi amari, resine, saponine e oli tali da renderne utile un
impiego come espettorante, depurativo ed aperitivo.
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SPUNTI DI LAVORO DIDATTICO
IL BOSCO COME ECOSISTEMA
1) Chiediamo ai bambini se c’è un bosco vicino alla loro casa oppure se non sono mai stati
in un bosco. Raccogliamo le varie ipotesi dei bambini e puntualizziamole sul quaderno, poi
insieme cerchiamo di definire che cosa è un bosco.
Immaginiamo quindi il bosco come un ambiente popolato da piante e da animali che lo
abitano come se fosse una casa a più piani. Invitiamo i bambini a disegnare la loro idea di
bosco.
Casa-bosco
Secondo piano
Primo piano
Piano terra
Cantina o piano interrato
2) Dividiamo poi la classe in quattro gruppi. Ogni gruppo avrà il compito di cercare gli
elementi relativi alla parte del bosco assegnata a loro. In classe si puntualizzeranno i dati
emersi nel seguente modo:
• Al piano interrato o sottosuolo ci sono animali come il lombrico, la talpa e alcuni tipi di
funghi.
• Al pianterreno o strato delle erbe e dei muschi crescono piante come le felci, i fiori, i
funghi; vivono bisce, ricci, formiche e volpi.
• Al secondo piano o strato arboreo troviamo alberi quali querce, castagni, olmi, faggi, pini
e abeti. Tra i loro rami vivono tanti uccelli e altri animali come la martora, il ghiro e lo
scoiattolo.
3) Predisponiamo un cartellone raffigurante la casa-bosco sul quale i bambini incolleranno
reperti, fotografie e descrizioni di piante ed animali eseguite con l’insegnante.
Diamo inizio ad una prima classificazione di vari tipi di bosco in relazione alla maggioranza
degli alberi presenti in esso:
bosco di faggi ----------------- faggeta
bosco di castagno ----------- castagneto
bosco di abeti ----------------- abetaia
bosco di pino ------------------ pineta
bosco di querce --------------- querceto
e così via.
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4) Nel bosco c’è anche il sottobosco: quella parte compresa fra la chioma degli alberi e il
pianterreno. Qui si possono raccogliere un gran numero di frutti del bosco come:
fragole, lamponi, more, mirtilli, nocciole, corbezzoli, funghi, castagne etc.
Essi potranno essere lo spunto per la stesura di un testo regolativo riguardante una ricetta di
cucina o di bellezza.
5) Proponiamo la lettura e l’analisi di alcuni testi per arricchire e completare quanto fatto.
6) Suggerimenti operativi.
Completa la carta di identità relativa a una pianta del bosco (vedi allegato seguente).
Inventa cartelli segnaletici a difesa degli alberi.
7) Attività espressiva.
In termini interdisciplinari con Educazione alla immagine e Educazione al suono e alla musica
si possono realizzare:
- la tavolozza dei colori;
- il libro dei profumi;
- la collezione dei suoni.
La tavolozza dei colori.
Conosci la tavolozza dei pittori? Da un cartone ritaglia alcune sagome simili ad una
tavolozza. Ora mettiti in cerca di piccoli elementi naturali dai colori più disparati; sistemali
sulla tua tavolozza uno accanto all’altro, usando colla o nastro adesivo. Potrai scegliere tutte
le varianti che vuoi, per esempio concentrando la ricerca solo sulle variazioni di marrone o di
verde, o solo su quelle dei fiori.
Il libro dei profumi.
Procurati alcune tasche di plastica trasparenti in modo da poterle poi riunire in un raccoglitore
ad anelli o legare con un nastro. In ognuna inserisci un foglio bianco che farà da sfondo a
tutte le “cose profumate” che troverai nel bosco: aghi di pino, funghi, fiori, muschi … e sul
quale scriverai di che cosa si tratta. Potrai aggiungere sensazioni personali del tipo: somiglia
a …, mi ricorda …, l’ho già sentito…
Ricordati di chiudere le buste con un pezzetto di nastro adesivo.
La collezione dei suoni.
Ascolta i suoni del bosco: provengono da ogni direzione e solo concentrandoti su uno di essi
puoi distinguerlo dagli altri. Anche se cerchi di registrali con un registratore portatile, ottieni
una registrazione di molti suoni sovrapposti. Puoi cercare di isolare un suono dall’altro con un
accorgimento. Procurati un registratore a cui sia possibile collegare un microfono esterno.
Con del nastro adesivo o degli elastici sistema il microfono in cima al bastone e intorno ad
esso applica un cono di cartone aperto verso l’esterno. L’allungamento del microfono verso la
fonte del suono e il cono di cartone miglioreranno la qualità della registrazione. La
documentazione sonora raccolta potrà servire ad accompagnare una proiezione di
diapositive scattate nel bosco.
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CARTA DI IDENTITA’ DELLA PIANTA DEL BOSCO
SCHEDA DI RILEVAMENTO
Data ……………………..Località………………………………………………….quota……………….
Esposizione………………………………………..Nome del Rilevatore……………………………….
Albero isolato
Bosco puro
Bosco fitto
Bosco misto
SOTTOBOSCO:
presente
Bosco rado
assente
CORTECCIA : tatto………………………………………………………………………………………..
Vista: colore…………………………………………………………………………………………………
Forma……………………………………………………………………………………………….
Segni particolari……………………………………………………………………………………
Olfatto: ………………………………………………………………………………………………………
CHIOMA: assomiglia a ……………………………………………………………………………………
FOGLIA: tatto………………………………………………………………………………………………
Vista: colore…………………………………………………………………………………….
Forma ……………………………………………………………………………………
Segni particolari ……………………………………………………………………….
Olfatto: ………………………………………………………………………………………….
FIORE: vista: colore…………………………. Frutti: vista: ……………………………………………
Forma…………………………
tatto:……………………………………………
Olfatto: ………………………………………………………………………………………….
Tracce di animali: tane fra le radici - nidi di uccelli – tracce sul terreno – altro …………………
Tracce umane : corteccia incisa…… segni d’ascia ….. prelievo della corteccia……………….
Potature …. Altro …………………………………………………………………..
ETA DELL’ALBERO: anni ………………………..
Dividere la circonferenza del tronco, misurata in cm a una altezza di 130 cm da terra per 2,5. Il
risultato corrisponde alla età dell’albero
Invitiamo i bambini ad osservare le specie vegetali utilizzando le proprie
potenzialità sensoriali ed anche il proprio gusto personale. Questo approccio
consente di percepire una grande varietà di specie senza curarsi troppo degli
aspetti strettamente botanici, ma mettendo in gioco la dimensione percettiva.
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L’obiettivo di questa attività non è quello di lavorare sulla classificazione, me
di evidenziare le varietà delle specie come caratteristica dell’eco sistema.
Esiste una grossa difficoltà ad individuare e classificare le differenti piante in
base a criteri che spesso sono alieni dalla comprensione dei ragazzi. E’
preferibile quindi lavorare in modo meno formale ma che consenta di
evidenziare molteplici aspetti del mondo vegetale. Nulla vieta di organizzare
poi le osservazioni in chiave tassonomica. L’importante è che la pianta sia
vista in un contesto in relazione agli altri elementi ambientali.
1) Ciascuno deve scegliere una pianta che ritiene molto bella, una strana, una molto
grande, una molto piccola, una molto profumata, una molto colorata. Quando la
individuate, la indicate ai compagni. Potrete così vedere le differenti scelte di ciascuno.
2) Cercate lungo il percorso di distinguere il maggior numero di piante differenti (fiori, arbusti
ed alberi …). Prendete foglie, rametti, fiori per riuscire ad identificarli a tavolino se non
conoscete il nome.
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ESCURSIONE A SANTA MARIA DEL
GIOGO
5-10-14 aprile 2000
COMPONENTE ANTROPICA
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Il monte del Giogo, che con i suoi mille metri separa la Valle Trompia dalla
conca del lago d’Iseo, fin dall’antichità rappresentava una importante via di
comunicazione fra Brescia, la pieve di Sale Marasino, Zone e Pisogne.
Proprio per questa sua importanza logistica, fin dall’alto medioevo esisteva
lassù un ospizio per i viandanti, passato poi ai monaci cluniacensi che
presumibilmente nel secolo XIII costruirono anche una chiesetta affidata poi
ai monaci Olivetani di Rodengo e quindi ai Benedettini di Santa Eufemia.
Quel piccolo tempio fu poi sostituito da un vero e proprio santuario, do ve si
venera, con a fianco le due statue quattrocentesche di San Benedetto e San
Bartolomeo, un simulacro della Vergine fatto eseguire dalla popolazione di
Polaveno nel 1959 dalla ditta Poisa di Brescia.
Il Santuario, già proprietà delle tre parrocchie confinanti di Sulzano, Gardone
V.T. e Polaveno, nella revisione censuaria del 13 agosto 1809 venne
attribuito, con le case adiacenti, al territorio di Polaveno e tale attribuzione
trovò conferma nel 1824 e continua tutt’ora.
Il Tempio, esposto alle intemperie, necessitò più volte di un restauro nel
1795, nel 1881, nel 1920 e ultimamente nel 1977, per interessamento della
popolazione e sotto la guida di don Pasqualino Zanotti.
Che il santuario fosse stato un ospizio retto dai benedettini è testimoniato
anche dalla permanenza presso di esso dal 1537 al 1538 di Teofilo Folengo,
benedettino poeta noto nel panorama della letteratura per le composizioni in
latino maccheronico. Il Folengo infatti rimase a lungo presso il convento
benedettino di Santa Eufemia ed è presumibile che possa essere stato
assehnato nella funzione di custode dello xenodochium del monte del Giogo.
A ricordo di questa illustre permanenza, sulla parete sud, è murata una
iscrizione tratta dal Baldus ed ivi posta a cura del Gruppo Alpini di Iseo:
Tempus erat quando flores
Primavera galantos spantegat
Serpaque scorzato corpore laete
Godit. Capra petit caprum
Clamatque cavalla cavallum
Quaeque sibi charum cercat
Osella virum…
A scopo di documentazione riporto quanto è indicato ne “L’Illustrazione
Bresciana” a cura di P. Guerrini, edita nel 1910.
<< Sul monte ove confinano i tre comuni di Gardone, Polaveno e Sulzano,
trovasi la chiesa di Santa Maria del Giogo già ospizio e convento edificato e
officiato dai monaci benedettini dell’abbazia di Rodengo, alla quale
apparteneva in maggior parte questo territorio. Essendo questo Giogo uno
dei passi di comunicazione più frequentati e più facili fra la Valcamonica e
Brescia (oltre quelli del colle di San Zeno sopra Pezzazze e di Zone), ivi i
Benedettini, come in molti altri luoghi delle nostre valli, avevano eretto un
ospizio per soccorrere i poveri viandanti e ristorarli nella fatica del viaggio.
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La piccola chiesetta dedicata a Maria è già nominata in un catalogo di chiese e benefici
ecclesiastici della diocesi di Brescia compilato sul principio del secolo XV (ecclesia S.Mariae
de Iugo habet libell. II): è stata decorata di affreschi neol secolo XVI, ma non offre molti
pregi artistici. Essa è posta sul silicifero o ammonitico rosso superiore e da qui la vista si
allarga a dominare il soggetto lago di Iseo, il vicino monte Guglielmo con una lunga catena di
altri monti, ed un panorama vastissimo e variato, onde rimane ancora durante l’estate, meta
frequente di numerose e allegra comitive di persone che vogliono godersi senza troppa fatica
una giornata di alpinismo sicuro e di divertimento sano, essendosi aperto lassù un buon
albergo dove il piatto del giorno rimane invariabilmente quella squisita polenta e osei che
non è soltanto il cibo degli dei, ma anche di tutti i buoni bresciani e bergamaschi>>.
UNA LEGGENDA SULL’ORIGINE DEL SANTUARIO
La leggenda, conosciuta già nel seicento e riportata da tutte le guide ottocentesche,
narra che l’origine di questa chiesa è legata ad altre sulle cime dei monti vicini.
Quattro bellissime sorelle, “le quattro Marie”, decisero di ritirarsi, contro la volontà del
severo padre, feudatario della zona, a vita monastica, senza abbandonare il lago. Una
si stabilì sul monte di Sale Marasino in località “conche”, una su Montisola, una sulla
cima sopra Tavernola in località Parzanica e una sul monte di Sulzano in località del
Giogo. Esse si accordarono stabilendo che l’unica forma di comunicazione doveva
essere un fuoco acceso una volta all’anno in data stabilita.
Questi quattro santuari mantengono ancora oggi la consuetudine di illuminare le
chiese nella seconda domenica di luglio.
La leggenda accennata rappresenta un “topos” comune in ambito camuno. Leggende
analoghe spiegano l’origine di altri santuari. Si veda ad esempio la storia di San
Glisente ed i suoi fratelli e la storia delle Quattro Matte della Presolana.
La strada Polaveno –Iseo venne progettata nel 1879, ma la sua costruzione, dopo una revisione del
progetto, venne avviata nel 1931. Nell’ottobre del 1940 venne cominciata la sistemazione della rotabile
Polaveno-Sarezzo. Con il definitivo assetto del sistema viario Il Giogo di Santa Maria perse
definitivamente il ruolo di passo di comunicazione.
La strada che dalla frazione Zoadello conduce sul monte del Giogo e che
prende il nome di via Santa Maria del Giogo è stata tracciata recentemente
sulla scorta dell’antico sentiero.
Il suo percorso ci permette di fare alcune considerazioni.
Innanzi tutto essa si snoda in un bosco di roverelle che, per quanto siano
delle querce, certo non hanno l’aspetto dei boschi di querce che la nostra
immaginazione e la tradizione storica ci tramanda. Si tratta di alberi dai fusti
esili, fitti, quasi dei polloni che aggettano da cespi, fra i quali qua e là
compaiono esemplari più robusti.
Questa constatazione ci induce a pensare che trattasi di alberi che hanno la
stessa età (bosco coetaneo). La mancanza di esemplari di grosse dimensioni
fa supporre che storicamente il bosco doveva essere soggetto ad un taglio
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periodico (bosco ceduo). Il bosco ceduo era fonte di lavoro per gli abitanti
della zona.
<<Polaveno fu ricchissimo di boschi cedui che fornivano legna da ardere anche alla città e
carbone dolce… Nel 1898 si indicavano come prodotti del suolo: cereali, viti, gelsi, lauri; è
ricco di boschi cedui, che danno legna da ardere a Brescia, e di castagneti, dai quali si trae
un reputato prodotto. Ha pure bei pascoli che favoriscono l’allevamento bovino e suino. Oltre
che carbonai i polavenesi costruivano in inverno scope, gabbie, gerli, rastrelli, che poi
commerciavano specialmente alle fiere di San Faustino e di San Giovanni B. in Brescia
usando specialmente l’ontano, il corniolo e legno di tiglio acquistato a Brozzo e Lavone. Nel
1857 il comune possedeva 2968 pertiche di bosco ceduo e 275 di castagno e lauro>>.
Se il nostro occhio è attento possiamo scorgere su alcuni tronchi alcuni
segni di vernice rossa. Essi stanno ad indicare gli alberi che possono
essere soggetti a taglio. Ciò significa che il taglio del bosco è soggetto ad una
regolamentazione che normalmente è di tipo comunale.
Altri segni di colore blu, sempre sui tronchi degli alberi, a volte
contrassegnati da un numero, indicano invece la cosiddetta “quadratura” del
bosco. Il territorio viene suddiviso in un reticolo di quadrati tutti uguali.
All’interno di ogni quadrato viene effettuata la conta degli alberi e ogni
quadrato viene identificato con un numero. In questo modo ogni comune è
informato sul proprio patrimonio boschivo.
Durante il nostro tragitto abbiamo incontrato anche altri simboli. Una volta
abbandonata la strada asfaltata, in corrispondenza della sbarra, abbiamo
notato delle frecce segnaletiche con punta bianca e rossa, l’indicazione
del luogo e un numero. Si tratta delle segnalazione dei sentieri del Club
Alpino Italiano. Il simbolo bianco e rosso ci accompagna fino al santuario e
consta di una linea rossa ed una bianca sovrapposte.
Al ritorno il segnavia del sentiero è rappresentato dai colori azzurro e
bianco: sono i colori della città di Brescia e stanno ad indicare che stiamo
percorrendo il sentiero 3V (Sentiero delle Tre Valli): un percorso che
partendo da Brescia in 7 tappe percorre la dorsale triumplina e valsabbina
giungendo nuovamente a Brescia. Il Santuario di Santa Maria del Giogo, con
l’annesso rifugio ristrutturato dalla sezione A.N.A. di Polaveno, è uno dei
luoghi di sosta previsti da coloro che intendono percorrere questo sentiero.
Attorno al santuario si notano numerosi castagni. Un tempo questi alberi
venivano coltivati per il loro frutto. Attualmente il castagneto presente, di cui si
riconosce ancora l’originario impianto artificiale, è in disuso. Il castagno infatti
non è un albero originario della nostra fascia latitudinale ma tipicamente più
meridionale.
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SPUNTI DI LAVORO
DIDATTICO
1) GUARDATE LE DIFFERENZE ESISTENTI TRA LA COLLINA E LA ZONA
PIANEGGIANTE.
-
Perché secondo voi più in alto c’è il bosco e in basso no?
I boschi restano sempre uguali o cambiano con il tempo?
Quale risorsa potevano essere i boschi in passato, quando la gente traeva il suo
sostentamento direttamente dal territorio?
Questa zona è stata trasformata dall’Uomo o è sempre stata così?
Le trasformazioni compiute dall’Uomo in passato, quando prevaleva l’attività
agricola, in che cosa differiscono dalle modalità di intervento attuali?
2) LE PIANTE OSSERVATE POSSONO AVER BISOGNO, PER VIVERE, DI
ALCUNI ELEMENTI PRESENTI NELL’AMBIENTE.
-
Provate a pensare quali e perché.
Ci possono essere nell’ambiente elementi che, al contrario, possono sfavorire la
loro vita?
3) CONFRONTATE LE PIANTE TROVATE LUNGO IL PERCORSO.
-
Quali elementi osservati hanno permesso di distinguere le piante?
Il paesaggio vegetale è differente da quello visto all’inizio dell’itinerario?
Se si, quali fattori determinano questa differenza?
La ricca differenziazione delle specie vegetali, anche nello stesso luogo, quali
vantaggi può dare a questi organismi?
4) QUESTO LUOGO E’ INTERESSANTE NON SOLO PER IL SANTUARIO MA
ANCHE COME PUNTO PANORAMICO.
-
Perché realizzare un santuario in questo punto?
Le caratteristiche geografiche del luogo avranno avuto un particolare significato?
Guardando il panorama nelle diverse direzioni riuscite ad individuare diversi tipi
di ambiente?
Quali aspetti tra questi vi consentono di distinguerli: a) le opere dell’uomo; b) la
vegetazione; c) l’esposizione; d) l’altezza.
Ci sono altri elementi importanti per distinguere un ambiente da un altro?
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